Fischi
LETTERE DI GIOVANI FISCHIANTI
Scrivere significa portare alla luce l'esistente facendolo emergere dalle ombre di ciò che sappiamo. La scrittura è questo. Non quello che vi succede, non gli avvenimenti che vi si svolgono, ma lì, in sé stessa. Ma come si arriva a questo lì?
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Numero estivo 2016 n. 38 • anno 4 Genova
INDICE pag. 2 | Editoriale – E. Pon, C. Meola 4 | Poesia – E. Pon 5 | Planetario autori – G. Cultrone, P. Palermo 8 | Collaborazione – Mosaik 12 | Le poesie dei lettori – S. Silvestri 13 | Elementi riflessioni – M. Podestà, P. Martino, F. Asborno 18 | Migrazioni traduzioni – R. Bettini 19 | Prossa nova racconti – M. Valentini 20 | Prossa dei lettori – S. Moresco 22 | Infischiatene recensioni – F. Torre
Karl Ove Knausgård, La morte del padre
EDITORIALEEDITORIALE
LE PAROLE SPALANCATE
di Emanuele Pon Che cosa significa dire che le parole sono spalancate? Significa che devono essere spalancate: un intento dunque, prima di tutto. Il Festival Internazionale di Poesia di Genova , che quest’anno giunge alla sua ventiduesima edizione, è, prima di essere un festival, proprio una dichiarazione d’intenti, un manifesto in forma di kermesse di eventi. È questo il senso della Ricostruzione Poetica dell’Universo , sorta di conferenza permanente che ogni anno si rinnova e s’ingrandisce proprio in seno al festival; è questo il senso del Bloomsday , lettura corale in ogni angolo della città di un romanzo corale come solo Ulysses ha saputo essere; è questo il senso della rassegna Voix Vives , in cui letture poetiche da tutto il Mediterraneo , da molte edizioni, sono incastonate nelle cornici dei parchi genovesi. E se le parole devono essere spalancate, hanno da esserlo I.N.R.I. di Milo Karoli Il fuoco è elemento ricorrente nell’opera poetica di Giacinto Francesco Maria Scelsi d’Ayala Valva, nato a La Spezia nel 1905 e cresciuto nel castello della nobile famiglia materna, in Irpinia, dove un precettore lo educò a un edificante trivio di discipline fondamentali: il latino, la scherma, gli scacchi. Le sue raccolte poetiche, scritte in francese tra la fine degli anni ’40 e l’inizio dei ’50, per il loro simbolismo surrealista poco hanno a che spartire con le coeve poesie di Rocco Scotellaro o col Quasimodo di… Qui, in realtà, certo accademismo è solo un gioco: Giacinto Scelsi non era poeta di professione, ma uno dei più affascinanti e rivoluzionari compositori di musica classica del Novecento. Ascoltando ad esempio
Natura Renovatur (del 1967) non è facile identificarne le note, perché l’autore scardina la nozione che normalmente abbiamo di tonalità: la “nota” di Scelsi è fatta in modo tale che intervalli piccolissimi dividano un tono da quello successivo e in questo sistema, lunghi e stonati unisoni o bicordi di ottava rappresentano sia una tensione delle notazioni musicali di durata, visivamente allungate in orizzontale sullo spartito; sia segni archetipici, primordiali, verticalmente intesi come un unico simbolo magico della creazione: come potrebbe essere l’Arco, il Cerchio, o il Fuoco. A proposito di musica e fuoco sarà utile segnalare un trittico di Hieronymous Bosch del 1485, intitolato I l giardino delle delizie : nel terzo pannello è possibile riconoscere una chitarra infernale, che grava sulla schiena di un corpicino svenuto lasciandone scoperte le chiappe: l o spartito musicale che si vede tatuato sul culo in questione è stato di recente musicato da Fabio Vernizzi e sarà eseguito, per il festival Parole Spalancate 2016 , in occasione della lettura pubblica di un poemetto di Giacinto Scelsi il 16 Giugno a Palazzo Ducale . Il tema del Festival quest’anno è “la ricostruzione poetica dell’universo”, quello stesso tentativo alchemico che fa l’artista di rinnovare la nostra visione del mondo con gli strumenti magici che ha a disposizione, si tratti di poesie aristocratiche, di note stonate o di fuoco divino. Come nella formula: I gne N atura R enovatur I ntegra
nel maggior numero di direzioni: non soltanto nei confronti dell’universo della poesia scritta, ma verso t utto ciò che può essere considerato poetico , ovvero, etimologicamente, fatto in modo artistico . Ed ecco spiegato il motivo del programma del festival, più variegato che mai: non solo le varie voci di poeti di tutto il mondo –dal centro e sud America (con una rassegna sulla poesia indigena americana) all’Europa, agli Stati Uniti, con nomi del calibro di Montero e Hirschman –, ma anche mostre fotografiche ed artistiche –come S confinamenti, Universo Greenaway e La parola alla luce –, concerti –con la partecipazione di cantautori come Bobo Rondelli, ma anche di musicisti ed interpreti stranieri: del resto, l’anteprima del festival è stata affidata a PJ Harvey –e proiezioni e rassegne cinematografiche –uno degli ospiti maggiori di questa edizione è il visionario regista Peter Greenaway .
Spalancare le parole significa , anche quest’anno, fare tutto ciò che è in nostro potere perché Genova sia e resti un porto, nel senso più vasto del termine, un porto che deve essere una porta: un luogo d’incontro, da sempre , di persone, di culture, di civiltà, di lingue. Di parole , appunto: parole spalancate l’una verso l’altra, e tutte quante verso il mondo, per cercare di coglierlo nel suo insieme. Noi raccogliamo la sfida e l’impegno
SCANDAGLIO
di Emanuele Pon
Gettato lo scandaglio in silenzio tra il cuoio dei sedili e il rollio d’ovatta dell’autobus low cost – occasione di tendenza sulla tratta Principe-Tiburtina, ore di convivenza non su rotaie inamovibili ma su asfalto drenante a rispecchiare bagnaticcio un cielo che a smetterla non si decide.
Gettato lo scandaglio all’altezza di colline flesse impaludate alla radice dei vigneti, o gli orti di chi è lontano dal nostro bordo incastonato tra l’etere d’un wifi e la chimica d’una toilette – di chi in pianura, solo con le nuvole, sussiste.
Gettato lo scandaglio sul ponte tra il fondo di fango del fiume le case impilate sui colli, incastrate tra cisterne di vino, mura di vento: gettato lo scandaglio, e rinvenuto auspici limacciosi d’acquitrino a noi in liminare condizione – passeggeri; bussato, cercato di là di qua dal finestrino – verso il termine, scovato il punto sempre interrogativo di chi scorre sulla strada, guardando un contadino: se sia vita nuova il viaggio in cerca o, tra nuvole di tre dimensioni, sussistenza tirata fino al mattino.
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PLANETARIO
ANTONIA POZZI
L’IMPORTANZA DI RESTARE UMANI di Gaia Cultrone
Antonia Pozzi è una di quelle poetesse che ho scoperto imbattendomici per caso, su Internet. Ci tengo a precisarlo, perché vorrei che non ci mentissimo su quanto spesso la conoscenza, letteraria e non, sia frutto della casualità; la Pozzi, dicevo, è stata quindi una conoscenza casuale, che colpisce però –specialmente nel leggere le poesie d’esordio, risalenti al 1929 – perché così vicina a noi nel raccontare e raccontarsi: le sue poesie parlano infatti del suo primo amore (il suo professore di greco e latino, Antonio Maria Cervi), dei suoi luoghi preferiti (su tutti una montagna, la Grigna), delle sue amicizie. Eppure Antonia risulta come consapevole di questa sorta di limite che la sua giovane età rappresenta (nata nel 1912 e morta, suicida, nel 1938, ha quindi diciassette anni nel ’29) e fin da subito sceglie di mediare attraverso un accurato studio formale e delle proprie mediazioni letterarie: per questo motivo anche le prime poesie mostrano l’alternarsi dell’endecasillabo tradizionale con versi liberi prettamente novecenteschi, abbinati talvolta ai settenari, e una vicinanza tematica ai poeti crepuscolari. Tutto questo, critica alla mano, risulta di per sé ammirevole, ma cosa rende Antonia Pozzi una poetessa così speciale?
In una parola, la risposta potrebbe essere coesistenza: la Pozzi coltiva per tutta la sua vita la passione per la poesia, per la prosa e la fotografia, e leggendo i suoi lavori vedia-
autori
Rigurgito di giovinezza a L. B.
Umida strada cielo d’ametista lacrime e lacrime sulle tue lunghe ciglia sulle mie lunghe dita ma la mia anima canora contro il vento come un drappo di seta a sbandierare frenetica di strappi per versare in uno squarcio la sua giovinezza ed inondarne te nuvola bionda impolverata dalla vita Pasturo, 15 settembre 1929
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mo emergere tutte e tre le arti. Ciò implica una produzione tanto descrittiva quanto più introspettiva, e talvolta la compresenza delle due tipologie, attraverso l’utilizzo dei paesaggi come allegorie (talvolta con rimandi simbolisti) di sentimenti. Tuttavia c’è di più: per tutta la vita Antonia Pozzi sente di non vivere a pieno, complice il tragico esito della sua relazione amorosa con Antonio Maria Cervi. Eppure, contemporaneamente, non smette mai di ostentare uno slancio verso il mondo così forte da risultare quasi spaventoso: è una donna che soffre, e soffre tanto, ma che proprio per questo urge di vita e della vita, in ogni sua forma; ci parla e lo fa come se stesse cercando di imparare da ogni singolo elemento, sia esso il cielo o l’amica Lucia Bozzi, cui è dedicata la poesia qui sotto. Tutto questo coesiste con la cura del verso, che aumenta a seguito della sua tesi di laurea (1935) su Flaubert, dalla quale deriva la concezione di “poesia fabbrile”.
La particolarità di Antonia è quella di far coesistere tendenze apparentemente opposte senza che vi sia forzatura, come la capacità di scrivere poesie strutturate e comprensibili a tutti, mantenendosi al tempo stesso strettamente personale ed illuminante nel ricordarci quanto sia importante restare, sempre, umani
BIBLIOGRAFIA
• Antonia Pozzi, Parole, tutte le poesie, a cura di Graziella Bernabò e Onorina Dino, Ancora ed., 2015
ANTONIO
MACHADO
IL MONDO DENTRO di Paolo Palermo
Viandante non c’è via la via si fa con l’andare. da Campos de Castilla, sez. Proverbios y cantares, XXVIII
Antonio Machado, nome e cognome di un simbolo.
Giusto esordire così se si vuole presentare degnamente il poeta andaluso, nato a Siviglia nel 1875: l’attribuzione dell’epiteto “simbolo” è quasi eufemistica, poiché molti esperti arriverebbero persino a definirlo un mito vero e proprio, una totale incarnazione di quei valori spagnoli che cercarono di arginare le dittature e la guerra civile. La poetica di Machado si inserisce in un
contesto a metà tra Modernismo e Decadentismo, con un poetare di ispirazione tipicamente riconducibile a Ruben Darío – il maestro della corrente modernista. Le immagini, però, ricalcano un simbolismo tetro di sapore quasi francese: tutto questo si può notare nella sua prima raccolta poetica, Soledades. In questo contesto, oltre a sinestesie e ossimori squisitamente modernisti compaiono veli malinconici di tristezza suggeriti e amplificati da immagini caratteristiche:
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da Soledades
Cantavano i bambini canzoni ingenue, su qualcosa che capita ma che non arriva mai; la storia è confusa ma è chiara la pena. Versava la fonte il suo eterno narrare: cancellata la storia, raccontava la penna.
Il suo stile, però, subì una grande evoluzione. La soggettività e la costruzione retorica di Soledades è sostituita con magistrale successo da una poetica introspettiva capace di guardarsi attorno e, di conseguenza, dentro. Machado diventa il cantore di una Spagna raccontata attraverso il “noi”, quello che sottolinea la pluralità di una nazione sulla via della perdizione, della violenza, del disordine: tutto questo è riassunto in vari passi dell’opera Campos de Castilla, uno dei capolavori della letteratura spagnola di ogni tempo. Si avverte già nell’introduzione della raccolta il cambio radicale operato da Machado, con un Retrato (letteralmente, “ritratto”) narrante la sua vita – La mia infanzia, ricordi di un patio di Siviglia / e un limpido giardino dove cresce il limone – e i suoi dilemmi, tanto esistenziali come poetici. Celebri questi due passi:
da Retrato
Né un seduttor Mañara, né un Brandomín son stato già conoscete il mio goffo modo di vestirmi […] Classico o romantico? Non so. Vorrei lasciare
il mio verso come il capitano fa con la sua spada: famosa per la mano che la impugna, non per il fabbro sapiente che la forgiò.
Importante è poi la questione politico-nazionale, che diventa però un pretesto per immaginare una Spagna nuova. Interessante è soffermarsi sull’ultimo frammento della sezione Proverbios y cantares, che contiene un monito saggio e amaro a un neonato spagnolo. Qui, Machado parla addirittura di due diverse nazioni, una che muore e una che sbadiglia appena nata: quasi disincantandosi da quella speranza che alimenta la credenza in un cambiamento, il poeta recita così.
da Proverbios y cantares, LIII Già c’è uno spagnolo che vuole vivere e a vivere comincia, in una Spagna che muore e una Spagna che sbadiglia. Piccolo spagnolo appena nato, ti protegga Dio. Una delle due Spagne ti gelerà il cuore.
Grazie a queste parole, a questa poetica sempre tesa verso un rinnovamento graduale e alla caratteristica non comune di non poter essere etichettato sotto un solo genere, Antonio Machado si è garantito un posto di rilievo nei cuori di tanti contemporanei e molti appassionati moderni – ed anche, senza ombra di dubbio, nella grande storia della letteratura spagnola
Opere tratte da Poesie: Soledades e Campos de Castilla. Traduzioni ad opera dell’autore.
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MOSAIK
In questo numero estivo vogliamo presentarvi un progetto simile al nostro: si tratta di Mosaik , rivista di letteratura e cultura austriaca, di Salisburgo, con periodicità stagionale, diretta e creata da un gruppo di studenti universitari austriaci e tedeschi. Nel corso di quest’anno abbiamo avuto l’occasione di conoscere la realtà di Mosaik, e di instaurare una collaborazione basata sullo scambio di testi poetici con relativa traduzione: ne è nato un sodalizio destinato, speriamo, ad essere duraturo. Qui di seguito ve ne proponiamo il primo frutto: due poesie uscite sul numero estivo di Mosaik, in distribuzione proprio in questo periodo, tradotte per l’occasione in italiano. Per saperne di più, sono attivi, per Mosaik, la pagina Facebook (fb.com/mosaik.zeitschrift) ed il sito web ufficiale (mosaikzeitschrift.at).
IMMAGINI IN IMMAGINI
di Marko Dinic Traduzione di Maddalena Vaglio Tanet
dedicato a Tristan Marquardt a.)
questo stupendo amore per due / proprio ciò / che sta insieme / dico / mentre sputo oltre la ringhiera e nel momento in cui tocca l’asfalto lo sputo si trasforma in un nido per due estranei / da una cesura all’altra preme il senso / sfilaccia il rovescio di un dentro & fuori immanente / massaggia le fessure sanguinanti / così rivoltante è ancora la parola sbagliata e sempre qualcos’altro domina il corso della visione
b.)
dove uno fallisce il prossimo già costruisce casa per la sua famiglia / i fili del bucato tirati / i portoni & i giardini / giovinezze intere che si lasciano annodare facilmente nei capelli e garantiscono di divertirsi / l’HAHAHA del vicino lo si sente attraverso l’alta siepe & infine attraverso una rete di filo spinato c.)
al mattino per prima cosa i corvi si stiracchiano da far crocchiare e fischiare e le membra d’acciaio sotto il sibilo della sega giocano alla gran dama se proprio uno volesse fare attenzione all’intera cosa poiché non sarà affatto facile in un mattino simile quando qualcosa ci appare davanti nella sua essenza /
Alcuni punti nell’erba non sono verdi bensì ingialliti dal sole / case riposano arbitrariamente nel paesaggio / il vento soffia prima da est poi da sud / le persone si danno prima una mano poi l’altra / libellule s’involano / acqua sogna di labbri leporini 1
Frammenti / repertori di parole: calvo / esalazione / mesentere / secernere / carcinosi / virulento / cascata / rifiuti / salnitro / vomitare / pensieri su blumenberg: la reciprocità della resistenza e dell’incremento di esistenza / come apparivo io da bambino / teatro del macello / le rielaborazioni / next three days / per il manoscritto: ovunque non c’è niente da vedere / ma che cosa dovrebbe significare questo?
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BIONDO TIZIANO
di Tobias Roth Traduzione di Maddalena Vaglio Tanet
Tizian, La Bella. 89x76 cm 1536, u.a. Firenzuola, Dialogo delle bellezze delle donne. Prato 1541, u.a.
Il falco un capriolo. Attendere, finché i giorni s’allungano di nuovo. Impatto di quattro occhi in un incontro E questo attendere è concluso.
Piante bluastre del vestito Nuotano su uno strato d’aria.
Il velo trasparente Sgorga dalla treccia bionda, Un fiotto all’improvviso Lauro e aura e oro Gocce d’ambra cesellate Fiotto ciocche e tessuto, dove die frischen und aufspringenden Brüste, als ob sie nicht länger unterdrückt und eingezwängt in der Kleidung bleiben wollen, ihren Drang bekunden, aus dem Gefängnis auszubrechen, sich unreif und unerbittlich erheben, und die Augen aller anderen auf sich zwingen und nicht vor ihnen fliehen. Come gli arcieri di strani eserciti Il cielo oscurano, Inarcano i miei sguardi Una lunga retta, poiché mit der Geistesgegenwart und den anderen Gaben und Tugenden des Verstandes beschäftigen wir uns nicht, denn wir haben die Absicht, die Schönheit des Körpers zu malen und nicht die des Verstandes. Linee nella loro trama,
Orti delle Esperidi e agrumi, Fino nel groviglio dei capelli; Spirali del sole, d’estate, In cui giocano riccioli, Semi d’albero, inconsapevoli. Statuette di Venere tra le mani, Da cui il freno di due trecce In crespi nodi pende, Così parlarono dei biondi mesi, fein und blond, bald gleich dem Golde, bald wie Honig, bald glänzend wie die Sonnenstrahlen, gelockt, dicht, voll und lang, Ma più serotini, biondo tiziano. Fonti nei giardini, fiori mossi Come fagiani sono niente in confronto. Niente in confronto il paesaggio, Casa d’ambra tra le correnti. Rampicanti zampilli d’oro, Figure giacenti e inginocchiate, colli, gleichsam heimlich grinsend, oder sich zuweilen in die Unterlippe beißend, nicht gekünstelt, sondern wie gedankenverloren, sodass es nicht gespreizt oder geziert erscheint, sondern selten, unaufdringlich, süß, unter einer gewissen Bewegung der Augen, die bald scharf geradeaus blicken und dann und wann sich zur Erde senken, ein Verhalten, das, ja, das Paradies des Genusses weit öffnet und mit einer unfassbaren Süße überflutet E non è altro che il mio sguardo Che oscura il cielo Sopra la terra smaltata. Lì è ancora poco giorno Quando un orso scherza E passa vespri e compieta. Il bollore resta quiete. Il disgelo del respiro, La pelle si ritira, si sfoglia, Tutte le guance nude giacciono.
(Diversi santi.)
NONTISCORDARDIMÉ
di Serena Salvestri Sprofondo nel ceruleo grido d’amore del tuo sguardo trattengo estatica il fiato e nello speciale tuo oceano creato adagio mi disperdo. Scroscia candida la melodia della tua anima m’avvolge in un tentacolo di redentrici danze. Fragor di malvagio inabissato langue. Euforia d’ossigeno in uno sguardo benigno in un gesto intimo in un essere limpido. Affioro in uno stupore celeste d’eterea fioritura aulente, delicata Isabel trascesa in canori nontiscordardimé.
Per ogni stagione avrò cura di te.
LE POESIE DEI LETTORI
Serena Salvestri (Chiavari, 1986) è storica dell’arte e appassionata di poesia. Sia nel 2014 che nel 2015 suoi testi vengono selezionati e premiati nell’ambito della rassegna Poesie d’amore di Camogli. Nel novembre del 2015 riceve una menzione d’onore al Concorso Nazionale di Poesia di Leivi, nel febbraio 2016 la sua poesia L’altalena viene pubblicata nel volume del concorso Nelversogiusto tenutosi a Senigallia. Nel marzo 2016 riceve il diploma di finalista al Premio Nazionale Letterario M. Santoro, con la poesia Nontiscordardimé, che riportiamo qui di seguito.
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ELEMENTI riflessioni
NON SEMPLICE TRASPOSIZIONE
INTERVISTA A GIANFRANCO DE BOSIO di Martina Podestà
Quando entro nello studio di De Bosio sono colpita dalla quantità di fogli, libri aperti e appunti sparsi sulla sua grande scrivania. Ovunque i libri del Ruzante, passione di una vita, e sugli appunti fitte indicazioni di scena; scalette di atti: la scrivania di un uomo di spettacolo ancora in piena attività, nonostante i novantadue anni.
Ci sarebbe molto di cui parlare con questo regista: il lavoro all’Arena di Verona, gli adattamenti del Ruzante, l’esperienza cinematografica; ma il mio compito oggi è chiedergli del suo bellissimo Riccardo II Nonostante i cinquant’anni passati dalla prima dello spettacolo, nel lontano 26 febbraio 1966, il regista parla dello spettacolo con un entusiasmo che lo fa tornare ragazzo, e non è difficile capirne il motivo: mi trovo davanti al promotore della traduzione in versi del Riccardo II da parte di uno dei più grandi poeti del ’900, Mario Luzi.
Per iniziare gli domando il perché della scelta del Riccardo II, e lui mi risponde con molta semplicità di trovarlo il più bel dramma storico di Shakespeare; ed io, che l’ho letto proprio in occasione di quest’intervista, non posso che dargli ragione: il Riccardo II è un disperato e doloroso pugno nello stomaco, è la parabola di un re vanesio e scialacquatore che, trovatosi a dover deporre la propria corona ai piedi del suo usurpa-
tore, capisce di non contare più nulla senza quella corona; la storia di un re folle che nella sua abdicazione ritrova la sua umanità.
La seconda domanda, naturalmente, è relativa al perché della scelta di Luzi rispetto ad altri poeti.
De Bosio spiega di essere stato consigliato da un amico, Guido Davico Bonino.
«Guido Davico Bonino è stato consulente del Teatro Stabile di Torino per la parte letteraria e fu lui che, quando io espressi il desiderio di avere un traduttore che mi restituisse Shakespeare in versi e non in prosa, mi consigliò proprio Luzi, dicendo “Con Mario Luzi sarà dura perché non è un traduttore dall’inglese, però devi spingerlo per amore di Shakespeare a tentare questa esperienza”».
Una scelta fatta dunque per amore dell’originale, del testo; è proprio questa l’impressione che si ha leggendo la traduzione di Luzi: quella di una traduzione al servizio del testo di Shakespeare, di re Riccardo e del suo stesso respiro. Per fare ciò Luzi sceglie di non utilizzare una metrica rigida, elude infatti l’endecasillabo a favore di una versificazione libera, che si accorcia e si allunga in base alle esigenze del ritmo, del suono, della rappresentabilità scenica: un’operazione che solo un grande poeta come Luzi avrebbe potuto affrontare.
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Inutile chiedere a De Bosio se il lavoro luziano sia stato all’altezza delle sue aspettative: più volte, durante l’intervista ripete che stiamo parlando della più bella traduzione shakespeariana della letteratura italiana: non semplice trasposizione, ma poesia essa stessa.
Prima di andare via decido di chiedere a De Bosio perché si sia fermato al Riccardo II quando invece il suo era un progetto molto più ampio, che prevedeva di mettere in scena più drammi shakespeariani tradotti da poeti.
«Mi sono allontanato da Shakespeare anche perché ero soddisfatto della traduzione di Luzi e non avevo voglia di ricominciare con un altro poeta. È stato un impegno molto grande quello con Luzi, forse anche sentimentalmente…»
Il regista esita un momento, poi passa ad un altro argomento, ma nella sua esitazione è racchiusa tutta la complessità di una collaborazione come quella con Luzi: un anno per la traduzione, altrettanto tempo per la preparazione della messinscena, la problematicità della produzione di un testo che doveva essere bello
come le più belle poesie di Luzi e allo stesso tempo asciutto, rappresentabile, agile. Una difficoltà che fu ripagata dalla lode unanime allo spettacolo da parte di tutta la stampa italiana: un successo incredibile, che poteva probabilmente essere replicato con la traduzione di un altro lavoro shakespeariano, ma quale poeta scegliere? Esisteva qualcuno in grado di competere con la forza e la drammaticità della poesia luziana?
Forse De Bosio, ritenendo la traduzione di Luzi una vetta inarrivabile della traduzione in versi, non ha voluto impegnarsi con un altro poeta per non rischiare una delusione; il confronto con Luzi sarebbe stato per un altro poeta inevitabilmente difficile; forse il regista ha voluto lasciare quest’opera come un unicum, una perla rara nel mondo della traduzione.
Me ne vado con la consapevolezza di aver incontrato non solo un professionista del teatro con più mezzo secolo di carriera alle spalle, ma con la certezza di aver parlato con un uomo che è stato in grado di riconoscere e di valorizzare con la sua regia un capolavoro della letteratura italiana
PERSONAGGI. ATTORI E SPETTATORI
di Pietro Martino
Nella sua introduzione al Giocatore di Dostoevskij, Antonio Pennacchi evidenzia il carattere atipico dell’opera nella produzione matura dello scrittore russo. Il Giocatore fu pubblicato nel 1866, nello stesso anno in cui veniva pubblicato Delitto e Castigo, testo che Pennacchi definisce come res cogitatae, per il suo carattere profondamente legato all’introspezione psicologica,
l’analisi di un Io che si rovella e si macera, messo in situazioni che rispetto alla riflessione sulla psiche hanno un valore relativo. Il Giocatore è invece definito come res gestae, romanzo di fatti, di cose che accadono, di struttura più classica.
Non c’è dubbio che il romanzo della psiche sarà la via maestra nella storia del genere: essa, nel giro di mezzo secolo,
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porterà alla distruzione del romanzo come forma tradizionale (basti l’Ulisse di Joyce come esempio). Resta da chiedersi che cosa accada all’eroe in questo passaggio: da una forma che si era consolidata nel corso del secolo come serie di avvenimenti e situazioni, che possono assumere un valore simbolico, a qualcosa di profondamente diverso.
Il personaggio cambia. Alla figura canonica dell’eroe che si forma o cerca di formarsi (si pensi al Wilhelm Maister di Goethe, al balzachiano Rastignac di Papà Goriot, ma anche al nostro Renzo manzoniano), si sostituisce il modello di Raskol’nikov. Dostoevskij anticipa una strategia che diventerà anch’essa canonica quando a sostenerla sarà la psicanalisi freudiana. Il suo metodo d’indagine dell’interiorità sembra quasi premettere alle scoperte psicanalitiche, che prenderanno forma solo due decenni dopo la sua morte e influenzeranno profondamente lo sviluppo psicologico del personaggio (in senso moderno) all’interno della forma romanzo.
Basti pensare al nostro Svevo e al protagonista della sua Coscienza, parola chiave sia in psicanalisi che nel lessico del romanziere russo: Delitto e Castigo è il romanzo della coscienza di Raskol’nikov. Sulla stessa strada si pone un altro romanziere italiano, che figlio di Dostoevskij si dichiara più volte, ossia Moravia. Nei romanzi moraviani il personaggio tende ad essere analizzato (soprattutto nelle prime prove) o ad analizzarsi (soprattutto nei romanzi della maturità): la psicanalisi, freudiana e dei suoi epigoni, è per Moravia una costante, un’ossessione; è la galera dei suoi personaggi, che finiscono per guardarsi vivere e per cercare di comprendere le proprie azioni e i propri contatti col mondo alla luce di un’analisi meticolosa
che ha qualcosa di oscuro e malato. Quando l’analisi non è autoanalisi, ma è rivolta all’altro, sfocia nel voyeurismo Il personaggio moderno pare afflitto da questo male specifico: non è più colui che vive, ma colui che si guarda vivere, o guarda vivere l’altro. Non ha più una missione che gli imponga le cosiddette peripezie; sta quasi sempre a casa o sul posto di lavoro, e macera la propria vita, spesso dozzinale, alla luce della sua incapacità di agire e prendersi ciò che oscuramente desidera: qualcosa che al primo strato della sua coscienza, l’unico che era indagato dall’analisi psicologica classica del personaggio tradizionale, risulta precluso.
Ricapitolando: il personaggio classico (si vedano i tre esempi dati in precedenza) è mosso da una serie di aspirazioni che rientrano nella sfera primaria, nella superficie della coscienza; quello moderno è invece colto in qualcosa che sta sotto le aspirazioni primarie e si muove nel secondario, nel magma profondo dell’inconscio.
É importante rilevare che anche se stiamo riflettendo su una trasformazione letteraria essa è legata all’evoluzione storica coeva al genere di cui stiamo parlando. Come è ovvio che accada è il tempo che ha modificato il romanzo e il suo personaggio, è la storia che ha provocato un cambiamento di cui Dostoevskij è stato almeno in parte della sua opera l’anticipatore, al quale non sono serviti quegli strumenti che per i suoi eredi saranno essenziali. Il personaggio moderno altro non sarà che una metafora o proiezione dell’uomo moderno.
L’uomo che guarda, citando un romanzo moraviano, è il moderno: schiacciato dai cambiamenti del suo tempo, dalla società di
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massa che lo isola nella consuetudine borghese e poi nella sua evoluzione che è quella del nostro tempo, così difficile da definire e così difficile da ritrarre compiutamente. Non è un caso che si parli oggi di crisi del romanzo e del suo personaggio, fra le tante crisi del nostro tempo, come se essi non fossero più capaci di descriverci e interpretarci in quanto epoca. Ma se c’è una continuità fra l’uomo di Dostoevskij, Svevo e Moravia e
quello dei giorni nostri, è proprio in questa condizione disumana del guardare e del non vivere, dello scorrere la home page di Facebook una ditata dopo l’altra, contemplando la vita di qualcun altro.
Forse il mondo è diventato talmente piccolo, ma complesso, che il personaggio preferisce starsene a casa, davanti al computer. Si tratta di un nuovo eroe contemporaneo, ancora difficile da definire
PER UN ONESTO SENTIMENTALISMO
di Federico Asborno
Penso a L’attimo fuggente, splendido film di Peter Weir del 1989, e penso allo splendido discorso leopardiano che Robin Williams fa ai suoi studenti quando spiega loro che «medicina, legge, economia, ingegneria sono tutte nobili professioni», ma ciò che ci tiene veramente in vita sono «la poesia, la bellezza, il romanticismo, l’amore», e penso poi al concetto che abbiamo oggi di sentimentalismo, ovvero di una condizione esistenziale accomunabile a uno stato di debolezza. Essere preda del sentimento, forse per eredità di una passata concezione illuministico-positivista, equivale a essere deboli, fallaci, manchevoli di un’integrità pragmatica che la società oggi non solo richiede, ma esige. E a chi imputare la gran colpa se non a colui che di sentimentalismo – perché di sentimentalismo si sta parlando – vive, cioè il poeta?
Siamo appena fuoriusciti da un secolo, il XX, iniziato sotto le insegne di avanguardie eversive e dadaiste nel loro concepire il mondo, avanguardie che hanno fatto a pezzi il luogo comune di poeta come araldo del sentimento, calpestando e
sputando sopra a lui e ai suoi modi d’espressione. Parliamo del Surrealismo, del Futurismo, dei nazionalismi e dell’esaltazione della forza fatta dai vari totalitarismi e dai loro cantori, tanto per fare qualche nome; il tutto in totale contrasto con l’accezione di poeta intimista e sentimentale, in quel senso. Pensiamo poi alla società descrittaci dai cosiddetti Modernisti; agli omini grigi e tristi di Kafka, quegli alienati, sperduti, piccoli esseri che vagano come insetti insensati in un formicaio ormai crollato; alla Waste land di Eliot; pensiamo alle distopie politiche di Aldous Huxley, di Orwell, di Matheson, al successivo uomo anni ’60, ridotto a lisergico clown dai romanzi di Hunther S. Thompson e tutto ciò che segue.
Dove sta il sentimentalismo in questo? Dove sta la rivalutazione di una condizione esistenziale fondativa dell’essere umano che viene bistrattata, legata alla sua cuccia e lasciata fuori al freddo per tutta la notte, ad abbaiare alla luna?
Intendiamoci: qui non si cerca di essere autoreferenziali, né tantomeno di tessere arazzi da metterci in salotto, ma la mia
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risposta è che il sentimentalismo sta proprio qui, forse, non in questa pagina, ma tra le pagine di riviste come queste. Tra le pagine di coloro che pastrocchiano quaderni nascosti all’altrui vista, tra le pagine di quelli per il quale un libro non è un soprammobile, né una stanza in cui rinchiudersi a piangere lacrime da poetucolo incompreso, ma una porta che conduce altrove e per i quali la rivalutazione di un onesto sentimentalismo è fatto quotidiano. Per un onesto sentimentalismo è importante sradicare la concezione di sensibilità come debolezza di colui che viene sommerso dal mondo, di colui che si infila sotto la coperta e piange la propria inettitudine alla vita. Bisogna ripensare alla figura del poeta come colui che può orientare il gusto, la filosofia, gli andamenti culturali e può suggerire sì vie d’uscita e scappatoie da una realtà che si fa sempre più funesta, ma anche soluzioni, modi di agire, di pensare e di concepire il diverso, di cui oggi – basta prendere in mano un quotidiano qualsiasi – sembriamo avere tremendamente bisogno.
In un mondo social che ci bombarda quotidianamente di news, fatti di cronaca, nuove tendenze, novità, opinioni ignobili stringate e ficcate in centoquaranta caratteri; in un mondo social che – citando il compianto Eco – «dà diritto di parola a legioni di imbecilli», un orientamento culturale, o meglio diversi orientamenti culturali, farebbero solo che bene e sarebbero utili a incanalare questa fiumana incontrollata di commenti e opinioni verso qualcosa di sensato. Creare linee dunque, operare distinguo, tracciare strade da percorrere per accorciare i tragitti, evitando deviazioni inutili intraprese da chi ha (e sempre avrà) sì diritto
di circolare, ma non conosce la strada: in un mondo che è mandria incontrollata che pascola dove capita, credo sia necessaria una rivalutazione della preponderanza del sentimento. Soprattutto in un mondo meccanicistico che si dichiara più pragmatico del passato, un mondo smart e funzionalissimo, che evita le perdite di tempo, ma che poggia però su valori di un’effimera esaltazione di una vanità apparente, del dover essere piuttosto che del fare, è vitale il riconoscimento della fondamentale umanità dell’uomo: tautologia tanto grande quanto il disagio che mi spinge a doverlo ribadire.
E allora per un ritorno a un’etica del “fare”, forse, è necessaria la rivalutazione di una figura di poeta – perché “poeta” deriva dal greco ποιέω (poièo), che significa “fare” – di scrittore, di artista dedito alla trasmissione della propria soggettività, del proprio sentimento e delle proprie idee in favore degli altri, di un artista che lavora per esprimere se stesso, ma che può – e deve – giovare alla comunità. Tutto ciò, in un mondo silente e conformato a stilemi deviati di letteratura facile, malfatta e insipida, può rappresentare un atto di eversione: (ri) pensare a una poesia onesta, fatta di sentimenti espressi con sincerità che controbatta al disvalore dilagante dell’apparenza multimediale può risultare decisivo, oppure la solita, ennesima utopia da poeti romantici, ma mi riallaccio qui al discorso di Robin Williams e a Leopardi: se esseri umani siamo, altro non esiste che credere a illusioni e utopie, perché il resto, forse, è tutto troppo gramo e insensato
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MIGRAZIONI
traduzioni
Poesia di Wolf Biermann pubblicata nella raccolta poetica Mit Marx und Engelszungen. Gedichte – Balladen – Lieder, Berlino, 1968. Traduzione di Riccardo Bettini.
ACH FREUND, GEHT ES NICHT AUCH DIR SO?
Ich kann nur lieben, was ich die Freiheit habe auch zu verlassen: dieses Land diese Stadt diese Frau dieses Leben
Eben darum lieben ja wenige ein Land manche eine Stadt viele eine Frau aber alle das Leben.
DIMMI AMICO MIO, NON HAI ANCHE TU QUESTA SENSAZIONE?
Amo nella libertà dell'abbandono. Posso amare solo quello che poi posso lasciare: questo paese questa città questa donna questa vita
Ed è proprio per questo che pochi amano un paese alcuni una città molti una donna ma tutti la vita.
N.d.T. : In questa poesia, breve ed ermetica, Biermann fa riferimento, in parte, alla situazione politico-territoriale in cui versava la RDT (Repubblica Democratica Tedesca) durante l’occupazione sovietica. Le “entità” che l’autore (personificazione dei suoi connazionali, prigionieri della loro stessa patria) è in grado di amare sono quelle che ha la libertà di abbandonare, pochi quindi amano il proprio paese proprio in virtù del fatto che non sono liberi di lasciarlo. Detto ciò, la poesia continua con linearità e il finale apre le porte a diverse interpretazioni.
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PROSSA NOVA
racconti
I SOLI ALLA DOMENICA (E I LORO CANI)
di Matteo Valentini
A Genova, la domenica mattina, nutriti gruppi di individui meditabondi accompagnano malinconicamente il loro cane fuori dai condomini e si godono la propria solitudine e quella degli altri.
I solitari della domenica si cimentano a conversare con l’animale che hanno al guinzaglio e gli dicono, tirandolo a sé, «Vieni qua.» «Vai dritto.» «Cammina.», oppure si fermano, un poco frementi, quando questo punta le zampe davanti, allarga quelle di dietro e si prepara a espletare i propri bisogni.
Se i bisogni sono liquidi, i solitari della domenica espirano dal naso sollevati e riprendono il cammino con una pacca sul fondoschiena dell’amico peloso. Se sono solidi, li vedi arricciare le labbra, drizzare il collo, prendere l’aria con la faccia all’insù e, un sacchetto stretto in mano, tuffarsi sul caldo escremento espulso.
Quando due solitari della domenica si incontrano anche i loro cani si incontrano, si annusano il didietro e fanno amicizia perché, nonostante quello che si dice, ai cani non piace star soli. I due padroni, invece, si scambiano poche e sbrigative parole come «Di che razza è?» o «È femmina?» e, dopo questo rituale, pronunciano a voce sempre più alta e nervosa il nome del loro cane, cercando di farlo allontanare da quello dell’altro solitario che, per parte sua, fa lo stesso.
Entrambi hanno molta fretta di restare soli, dato che di lì a poco dovranno ritornare alla loro famiglia nel condominio e non hanno fatto ancora nessuna delle cose che si fanno quando si è da soli e che poi si raccontano: guardare intensamente i tetti della città dai giardini Luzzati o da Spianata, far colazione in un bar deserto, leggere un libro seduti sotto la tenda parasole (o parapioggia) di un locale chiuso.
A Genova, la domenica mattina, in giro con il cane ci sono anche quelli che, da soli, stanno tutta la settimana. Li riconosci dall’assenza di guinzaglio in mano, dall’indifferenza per le feci e per il piscio del proprio cane, dalla diffidenza per i luoghi troppo soleggiati. Il loro cane non ama fare amicizia con i propri simili, ma si muove sempre a fianco del suo uomo, che scambia con lui pareri sul freddo o sui passanti, oppure lo incita – ciapilu! ciapilu! – quando si imbattono in un gatto. I soli fanno visita a chi fissa il sedere del mondo: televisori abbandonati, ratti guardinghi, prostitute in ghingheri, tossici tiratardi, spazzini annoiati e, ugualmente, possono restare inchiodati sulla medesima panchina per più di sei ore.
La loro solitudine non è un’avventura, una gita, né una fuga. È il salto in un cavedio, un punto di sutura
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PROSSA DEI LETTORI
Samantha Moresco è graphic designer di professione ma da sempre in bilico tra passioni antitetiche. La scrittura è sua compagna di vita dai diari di bambina che curava con costanza. Oggi si è ridimensionata per lo più in pensieri scribacchiati sui margini della settimana enigmistica.
IO SCRIVO PER ME
di Samantha Moresco
Io scrivo per me. Scrivo per me, mi scrivo lettere, lamentele, scrivo per ricordare, per addormentarmi, per vedere una bella grafia su un foglio, per sbrogliare quel groviglio di assurdità della mente.
“Scrivo per me” diventa un’ossessione, una fissa. Non è più pragmatica, ora è semantica.
Sì, perché il voto sul libretto lo scrivo io, per me. E poi lo passo a chi di dovere deve apporvi una firma.
Non accetto informazioni su post-it.
Le ricette del medico diventano coriandoli ancora prima di riuscire a premere il tasto T dell’ascensore. Per questo non ho ancora consultato uno specialista: so che probabilmente la richiesta scritta finirebbe per terra calpestata. E ci salterei anche sopra un paio di volte.
Iniziò tutto durante un viaggio in treno. Un caro omino dai baffoni bianchi (e un attrezzo luccicante appeso alla cintura che gli permette di fare fori quadrati
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sui biglietti (che forse non si chiamano fori se non sono tondi), dal nome genialmente tecnico che non so come scoprire) (scusate, le parentesi le scrivo per me)… Dicevo? Che frase lunga. Sì, l’omino, voleva correggere l’orario che l’obliteratrice aveva sbagliato per me.
Ma il problema è che questa persona gentile, in uniforme verde con tanto di cappellino da fattorino retrò, voleva scrivere, e dico SCRIVERE, per me.
No. Non potei accettare.
Un fulmine a ciel sereno folgorò la mia mente.
Forse il cielo non era così sereno, lo ammetto.
“No, grazie. Se permette, lo scrivo io per me.”.
E cosa c’è poi di più sgarbato dello strappare un pezzo di carta dalle mani di qualcuno? Che repulsione verso il mio stesso atto. Quel maniacale gesto nei confronti del controllore aveva salvato il mio biglietto, che stava per essere violato dai caratteri di chissà-chi.
Non potete immaginare quanto tempo si perda a scrivere per sé. Farsi dettare ogni lista, bollettino o appuntamento.
Eppure, da bambina, i dettati della maestra, li odiavo. Scandiva ogni parola complessa. Non era una prova di intelligenza, allora: era un esame dell’udito.
Ma eccoci qui. A scrivere per me, perché sono un tantino turbata. Credo di aver esagerato.
«Sì cara mia. Sei in pizzeria con gli amici, quando il povero cameriere malauguratamente pone una domanda nel modo errato: E per te,
cosa scrivo?
Attimi, magari secondi, ma una battaglia ti esplode dentro, il sangue si scalda e lo senti correre, fluido, pensi, come l’inchiostro gel della penna di quel maledetto con l’orologio di gomma che, saputello, ha già tracciato un X 1 sul suo block notes infarinato.
Lo stomaco reclama altro, non pizza, vendetta. Ecco cosa dovrebbe scrivere X 1 vendetta Cerchi la calma, temporeggi riportando gli occhi sul menù. Che fare? Lasci scegliere l’amico alla tua destra. Il X 1 non è più per te. E per te, cosa scrivo?, di nuovo.
Scatti immediatamente, la mano lo raggiunge, il taccuino è tuo. Tutti ti guardano con la testa inclinata. Non sembrano amichevoli.
Ma ormai è fatta! Scrivi per te e ripassi tutto al cameriere. Ah, grazie. L’hai scritto per me. Sdrammatizza lui. Ma è un dramma, nuovo: hai scritto per un altro, non per te.»
Per me insomma. La situazione mi sta sfuggendo di mano. La parole mi soffocano. Domani dal medico chiederò che si scriva una richiesta per far visita ad uno psicologo. “La richiesta la scriva per lo psicologo, non per me. ”
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INFISCHIATENE
JOHN MCGAHERN
THE DARK (MINIMUM FAX, 2016) di Francesca Torre
recensioni
Il secondo romanzo dello scrittore irlandese John McGahern (scritto originariamente nel 1965) esce per la prima volta in Italia a cinquant’anni dalla pubblicazione.
Bersaglio del Censorship of Publications Board per i contenuti giudicati scabrosi, The Dark ci restituisce, senza nessun filtro, un frammento dell’Irlanda rurale degli anni ’60 attraverso l’esperienza di un adolescente alla ricerca di un’identità e di un posto nel mondo.
Mahoney jr. si trova tra due fuochi: da una parte il padre vedovo, che fa della “forza bruta” «l’unica forma di rapporto […] con il mondo», dall’altra il cugino prete, padre Gerald, che lo avvicina all’idea della vocazione.
Il romanzo introduce il lettore in un clima asfittico, dove una facciata bigotta e moralistica serve a giustificare la violenza dell’autorità, ma soprattutto contribuisce ad alimentare le pulsioni più inconfessabili: sia quelle del padre che, a un dialogo con il figlio che certifica l’incomunicabilità tra i due, fa seguire «orrori di mezzanotte», fatti di mani che «carezzavano la schiena, sollevavano la camicia da notte, scivolavano piano sulle cosce e premevano, per poi risalire mentre il ritmo della voce accompagnava il movimento»; sia quelle del prete, che in una conversazione notturna si fa spazio nel letto del ragazzo per accarezzarlo, rinnovando le “notti maledette” con il padre.
Il dialogo tra i due riguarda, non a caso, la vocazione e il peccato: a causa dei rimproveri del sacerdote, il protagonista – pur essendo la vittima – passa dopo il disgusto e la rabbia, al senso di colpa per i suoi pensieri impuri di adolescente.
Il tratto distintivo di Mahoney jr. è la più assoluta incapacità di compiere una qualunque scelta, a causa di un profondo senso di inadeguatezza. L’autore indaga nell’interiorità del protagonista, resa attraverso una prosa essenziale e una narrazione in seconda persona (nella maggior parte dei capitoli). Questo “tu” (un altro io che si rivolge a se stesso o più verosimilmente il narratore che si appella al personaggio) sembra attuare il giusto compromesso tra distacco e coinvolgimento, distanza ed effetto “presa diretta”, provocando una forte partecipazione emotiva del lettore.
Mahoney jr. vuole percorrere una via alternativa a quella del padre e questo lo spinge a considerare l’ipotesi di prendere i voti; ma sull’ideale di una vita ascetica sembra vincere la prospettiva del matrimonio, o forse la ricerca incessante del piacere. «Se ti facessi prete non impazziresti forse in punto di morte per aver derubato
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la tua esistenza di ogni umano appagamento, per non aver mai amato e ricevuto amore, per non esserti sposato nel giugno della passione?[…] Ma a che pro? Non c’era via di fuga. Non saresti altro che un vagabondo. Non avresti retto la responsabilità di una decisione. Ti saresti limitato a inseguire le passioni, una deriva dopo l’altra. Ti saresti limitato a sognare l’estasi della distruzione sulle labbra di una donna».
Il desiderio sessuale, però, non si concretizza mai nel rapporto con una donna, la masturbazione rappresenta una vera e propria ossessione (e non può essere vissuta altrimenti in una società chiusa alla libera espressione della sessualità), ma anche un surrogato dell’approccio con il mondo femminile, evitato per la paura del fallimento e della disillusione. È proprio questo timore, unito al carattere riflessivo e analitico del ragaz-
zo, a soffocare sotto un velo di “grigia dolcezza” (efficace ossimoro/sinestesia) i desideri e le ambizioni che pure esistono, a porre una barriera fra pensiero ed esperienza concreta, a spingerlo a scegliere la “stabilità” di un lavoro da impiegato.
L’evoluzione del mondo interiore del protagonista si riflette nel suo modo di percepire la realtà (anche quella naturale, che sembra fungere da specchio delle emozioni) e nei rapporti, soprattutto con il padre, fino alla considerazione che «nessuno in fondo sapeva niente di se stesso né di nessun altro, e persino sentimenti di ostilità e disprezzo prima o poi svanivano senza conseguenze inevitabili». Ci viene così restituita un’analisi acuta sull’adolescenza, fuori dagli schemi e che, pur essendo legata a una particolare realtà sociale e a un preciso periodo storico, risulta valida ancora oggi. La più grande rivincita nei confronti della censura
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