Genova
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LETTERE DI GIOVANI FISCHIANTI– Sal, dobbiamo andare e non fermarci mai finché non arriviamo.
– Per andare dove, amico?
– Non lo so, ma dobbiamo andare.
pag.
Editoriale – M. Valentini
Infischiatene recensioni – C. Graziani
EDITORIALE
VERITÀ CRITICA
di Matteo ValentiniL’Oxford Dictionary l’ha eletto “parola del 2016”, definendolo «relativo a […] circostanze nelle quali fatti obiettivi sono meno influenti nell’orientare la pubblica opinione che gli appelli all’emotività e le convinzioni personali». Sto parlando del termine post-truth, che indica un superamento e una perdita d’importanza della verità, a fronte di false notizie emozionali diffuse massicciamente.
L’Oxford Dictionary ha segnalato che il termine è in uso dal 1992, utilizzato per la prima volta da Steve Tesich su The Nation a proposito dell’amnistia concessa da George Bush sr. a tutti gli alti ufficiali indagati per l’affare Iran-Contras del 1985-86.
Nel 2016, il termine ha conosciuto un diffuso utilizzo in occasione del referendum britannico sulla Brexit e delle elezioni presidenziali negli Stati Uniti. Entrambi gli avvenimenti hanno mantenuto uno stretto rapporto con le “bufale” diffuse via social media, tanto da far coniare l’espressione Post-Truth Politics, ossia politiche fondate su menzogne che hanno lo scopo di screditare l’avversario o aumentare le proprie possibilità di vittoria: l’incredibile notizia dell’appoggio che Donald Trump avrebbe ottenuto da papa Francesco durante la campagna presidenziale, ottenne quasi centomila condivisioni.
È erroneo pensare che queste considerazioni portino a una condanna dell’informazione via social media. Come suggerisce Mario Pireddu su Doppiozero: «La quantità di notizie “vere” e verificate, fondate sui fatti, sulla scienza e sul debunking oggi disponibile era impensabile solo pochi anni fa». D’altra parte non si può che prestare orecchio ad Annamaria Testa su Internazionale: «ce lo ricordiamo tutti, vero?, che nel Regno Unito molte persone sono andate a cercare in rete che cosa sia l’Unione europea solo dopo aver votato contro l’Unione europea in base a emozioni e credenze personali?».
L’unico modo per orientarsi nel mondo della post-verità è, ancora una volta, pretendere che sia la scuola a formare la coscienza critica delle persone. In questo senso inquietano, forse spiegando il formarsi del calco italiano “post-verità” in luogo dell’accettazione di un prestito non integrato, le recenti dichiarazioni di un anonimo deputato Pd, riportate da Il fatto quotidiano: «Quando mai un ministro dell’Istruzione ne ha saputo di scuola?»
SEPARATA SEDE di Gaia Cultrone
Nessuno si è ancora accorto che è passato del tempo sotto quelle luci che pochi, o nessuno, avevano voglia di guardare.
In fondo qui non c’era molto altro che noialtri: qualche bicchiere riverso, come noi, che urlavamo di lacrime o risate per essere per una volta diversi da ciò che sempre ci siamo imposti.
Lavare via il vuoto che ci sentivamo di reggere, tornando a casa soli, scoprendo l’essere forti di una nuova luce insieme o in separata sede.
E così vivere quelle feste: essendo soli tutti assieme, a sentire quanta vita passa anche nelle luci dei peggiori locali, quanta vita resta anche quando la luce si riaccende e la festa è finita.
TERRA!
di Emanuele Pon
È stato così facile essere mare, darsi il movimento con le onde – quel rollio senza forma né fine né colpe, una deriva da saldare come un debito – ma anche tu, solo sei una crepa in un sistema che è chiuso, falla sciocca nel meccanismo dell’acqua che ti inganna, ti risputa o ti sprofonda.
Se sei la terra, non hai una scusa: se è la pietra nei suoi angoli storti e naturali – onde ferme – a scolpire, a scandire il tuo giorno sul finire, mai scuse potrai pensare di avere – solo scelte a cui dar nome –se la terra nel suo fisso ti appartiene; non certezze o derive, non onde: raggiungimi – ho lasciato gli inganni del mare: ora la terra mi tiene.
PLANETARIO
ELIO PAGLIARANI C’ERA UNA VOLTA LA CITTÀ D’ACCIAIO di
Claudia CalabresiA diciott’anni sbarca a Milano, dove trova impiego in una società di import-export: nella città d’acciaio, soltanto «i camion della frutta» della Romagna in cui è nato e cresciuto. In alto, sopra di lui, un «cielo colore di lamiera» che – si sarà forse chiesto con disperato sarcasmo come la sua antieroina Carla Dondi – «non prolunga all’infinito / i fianchi le guglie i grattacieli i capannoni Pirelli / coperti di lamiera?»
Neoavanguardista, curiosamente influenzato da autori solo all’apparenza lontani da lui – uno su tutti: Giovanni Pascoli – Elio Pagliarani si erge a cantore dell’Italia nel boom degli anni ’50, esplosione che origina un’allampanata violenza di industrie, edifici, nuovi mestieri a scardinare totalmente la consueta scansione cronologica dell’esistenza umana; contempla, come un confuso Charlie Chaplin di Tempi moderni, la nuova ambigua relazione uomo-città, e con lucida pietà oggettiva coglie in questo sorgere rabbioso di materia il mutamento spirituale della società, descrivendo i suoi devastanti effetti. Una varietà mai vista prima di sentimenti e linguaggi, infatti, si affastellano nei «boschi di cemento» della neoMilano.
Nuova umanità che il poeta sceglie di raccontare ne La ragazza Carla, poema sperimentale di rara ricchezza intertestuale, denso di riferimenti vecchi e nuovi a po-
autori
Vita città ferro pedagogia
esia, cinema, vita quotidiana: un caleidoscopio frastornante di pensieri collettivi. Il poeta sbircia attraverso un filtro distaccato – ma non sempre – l’umanità intorno a lui, si cala nei suoi personaggi, estrapola frasi, vissuti e sensazioni e sceglie di raccontarli così come li vede: disordinati e discordanti. La realtà non è, ai suoi occhi, univoca e decifrabile; né sembra interessargli conferire poeticità ad essa. Qui la poesia è più che altro questione di montaggio – in senso cinematografico o industriale, questo è tutto da stabilire. Forse la bellezza della realtà sta nella sua composizione o meglio, nell’assemblaggio di elementi fortemente antitetici: l’ingenua Carla Dondi si scontra con il satiro Pratèk, e «I Germani di Tacito nel fiume / li buttano nel fiume appena nati / la gente che s‘incontra alle serali». Possiamo provare ad accostare, per esercizio di immaginazione, questi Germani alle pratiche barbare che hanno fatto il loro ingresso nella città: il ferro di Milano è il ferro, forse, di un nuovo sconvolgente Medioevo emotivo e intellettuale? Forse è questo che si chiede Pagliarani quando sceglie di narrare la storia di «Carla Dondi fu Ambrogio di anni / diciassette primo impiego stenodattilo / all’ombra del Duomo», concependo il testo, inizialmente, come un soggetto cinematografico, diventato poema solo in fase successiva. Un passaggio che a noi può sembrare poco ortodosso è
per l’autore la naturale conseguenza della rivoluzione del linguaggio nata a partire dal già citato Pascoli: rivoluzione egualitaria che coinvolge il parlato quotidiano, con le sue imperfezioni e sbavature, elevandolo a materia poetica. Ma il parlato quotidiano trascina con sé i fatti che il parlato quotidiano racconta: certo l’impiegato e l’operaio non hanno tempo di fermarsi a cercare risposte in un cielo ormai ridotto a fondale della città meccanica. L’unica domanda a loro cara è «Chi abita nel cielo e quanto paga / d’affitto?» a significare quanto l’idea di Dio, considerato mera creazione intellettuale, sia suscettibile dello stesso cambiamento che la società ha voluto apportare alla realtà concreta. Tangibile e intangibile sono incollati dalla mano dell’uomo sullo stesso foglio e vivono la stessa metamorfosi: una divinità padrona prima, affittuaria poi, di una scenografia metallica e celeste. Se non c’è più poesia a terra, così sia anche in cielo, sembra aver deciso l’umanità impietosa descritta dal poeta.
La stessa domanda sembra farsi una «sensibile scontrosa impreparata» Carla, che affronta i rischi di una metropoli passivamente ostile, resa nemica più per la sua immobilità antiprovvidenziale che per un effettivo movimento aggressivo verso di lei; ostacolo enorme e silenzioso a una giovane donna che vive come può, sollecitata dai richiami pedagogici di un narratore – maestro a volte assorto in tutt’altro, altre concentrato sulle sue avventure quotidiane e tragiche. La protagonista vive insieme alla madre, alla sorella e al cognato in una famiglia/branco dove si attua una rigida e ferina gerarchia di spartizione: «Angelo un osso buco intero, con patate / Carla un pezzo col midollo che le piace / l’altro
pezzo Nerina la madre le patate.» Angelo e Nerina «fanno cigolare il vecchio letto della mamma»; Carla ascolta, di notte, quei «respiri che sanno d’animale», consapevole di non avere ancora un ruolo all’interno del suo habitat, o meglio, l’abitudine di cui Pagliarani parla nell’incipit del primo capitolo, l’abitudine che è tanto «utile averci» per continuare a vivere anche di fronte alla manifestazione del male, del dolore e dell’impotenza di fronte ad essi. È infatti immediato, nel poema, il riferimento alle molestie sessuali perpetrate nei suoi confronti dal datore di lavoro, il signor Pratèk (il satiro di cui sopra): presentazione di Carla nel poema, prima di tutto, è la sua reazione spaventata a questo lupo cattivo in agguato tra le fronde dei grattacieli. La madre si affretta a costringerla al silenzio e anzi Carla viene spinta a far visita alla signora Pratèk, come per scusarsi proprio di ciò di cui è vittima.
Pensare che, fino a poco prima, la ragazza osservava nell’ufficio (in un tutt’uno emotivo con il suo narratore): «Sono momenti belli: c’è silenzio / e il ritmo d’un polmone, se guardi dai cristalli / quella gente che marcia al suo lavoro […] / è questa che decide / e son dei loro / non c’è altro da dire.» Ma non c’è tempo per piangere: Dio è impegnato a sbarcare il lunario e non verrà in suo soccorso. A Carla non resta che accettare il suo ingresso violento nell’età adulta armata di rossetto, calze di nylon, e un nuovo disincantato sguardo con cui affrontare la sua esistenza, lo stesso che ha il ragazzo Elio quando, sceso dal treno, osserva attonito Milano, e quando più tardi scriverà: «sono vivo, senza rimedio / sono ancora vivo», nella struggente, definitiva assimilazione del suo io al personaggio che ha creato
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I, 3
Se si diventa grandi quando s’allungano le notti, e brevi i giorni ecco ci sono dentro sembra a Carla di credere, e sta attenta a non muoversi ché il sonno di sua madre è così lieve nel divano accanto – ma dormirà davvero, con Angelo e Nerina che fanno cigolare il vecchio letto della mamma! e Carla ne commisura il ritmo al polso, intanto che sudore e pelle d’oca e brividi di freddo e vampe di calore spremono tutti gli umori del suo corpo. E quelle grida brevi, quei respiri che sanno d’animale o riso nella strozza ci vogliono all’amore?
E Piero sul ponte, e la gente –tutta così?
S’addormenta che corre in una notte che non promette alba sul ponte che sta fermo e lì rimane e Carla anche.
II, 5
Però non è sicuro che la Carla cresca come si deve o voglia o sappia farlo, come si cresce a quell’età e quali fatti passino o quali invece segnino un passaggio, chi lo sa?
A venti o a ventiquattro quanti han scritto d’esser pronti e d’aver necessità di rifare all’indietro quella strada non agevole, fin dentro nelle viscere di chi li ha fatti nascere, a cercare momenti di rottura soluzioni di continuità che la storia non dà ma che ci sono stati certamente se sono come sono?
Carla, sensibile scontrosa impreparata si perde e tira avanti, senza dire una volta mi piace o non lo voglio con pochi paradigmi non compresi tali, o inaccettati; desideri precisi da chiarirsi non le avanzano a fine mese
a fine mese sangue maculato tra le gambe pallide la fa tremare sempre, e Praték quando la chiama nel suo ufficio per dettare.
III, 7
Nerina ha voglia di ridere, perché ride ogni tanto adesso, con il figlio, Carla ha la faccia seria [mentre provano allo specchio, mentre Nerina insegna e Carla impara a mettere il rossetto sulle labbra: ci deve essere [in un cassetto un paio di calze di nylon, finissime bisogna provarle.
Questo lunedì comincia che si sveglia presto, che indugia svagata nella piazza prima di entrare in ufficio, che saluta a testa alta «Buongiorno» con l’aggiunta «a tutti», che sorride cercando Aldo con gli occhi che gli dice «Bella la ragazza e come attenta ai tuoi discorsi», che incominci – forse – il lavoro fresca.
Quanto di morte noi circonda e quanto tocca mutarne in vita per esistere è diamante sul vetro, svolgimento concreto d’uomo in storia che resiste solo vivo scarnendosi al suo tempo quando ristagna il ritmo e quando investe lo stesso corpo umano a mutamento.
Ma non basta comprendere per dare empito al volto e farsene diritto: non c’è risoluzione nel conflitto storia esistenza fuori dell’amare altri, anche se amore importi amare lacrime, se precipiti in errore o bruci in folle o guasti nel convitto la vivanda, o sradichi dal fitto pietà di noi e orgoglio con dolore.
BIBLIOGRAFIA
[da Inventario privato, 1959]
Il verso «quanto di morte noi circonda» apriva, e nella chiusa, isolato bene in vista «tu sola della morte antagonista».
Ma già prima del termine di giugno la mia palinodia divenne sorte: nessun antagonista alla mia morte.
E sono vivo, senza rimedio sono ancora vivo.
Sonia Caporossi, ‘La ragazza Carla’ di Elio Pagliarani: un coacervo di crepuscolarismo e sperimentazione, da Atelier n. 77, marzo 2015 Dopo la lirica. Poeti italiani 1960-2000, a cura di Enrico Testa, Einaudi, 2005 Elio Pagliarani, Tutte le poesie (1946-2005) a cura di Andrea Cortellessa, Garzanti, 2006
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LE POESIE DEI LETTORI
INVINCIBILE di Isabella Piazzetta alias Evaporica Disdetta
Ero bleffarda, e meramente un caso. Uno psicomantellosio sfilacciato spurio spureggiato, decasbasito.
Io svanivo.
Dall’alto scese un braccio ravattante teso, verso il policromanto mondo riflesso nel monogrammato degl’occhi. Questi scoprì il mio dorso, storcendo le dita sbrigliò l’anima dai vari terpori. Le costole s’aprivano scocchiando ed eccomi. Filtravo anime senza specchi, colti di fuochi e spade d’amore. Guardavo quell’essere deteriorato Esso quel poco che mi era addosso spasmoso tentava di radicare le mie ossa al cospetto del suo spaccio furtuolento. NO. Io sono una guarrirera. Invicibile.
ELEMENTI
riflessioniL’INFANZIA FERITA NEI RACCONTI DI MICHELE MARI di Martina Podestà
Una lunga conversazione tra un bambino e un mostro abitante sotto il suo letto apre la raccolta Fantasmagonia di Michele Mari. Il mostro non ci viene descritto, ma da come parla – le sue parole sono inframmezzate da moltissime acca, in un flusso quasi incomprensibile –immaginiamo una creatura terrificante, bofonchiante e bavosa, giunta non tanto per spaventare il bambino quanto per avverare la sua paura più paralizzante: fare del male ai suoi cari.
Le paure più intime di ogni bambino vengono personificate in questa galleria di mostri da incubo, ognuna con un vistoso difetto di pronuncia, che immaginiamo con bocche enormi e scomposte, denti aguzzi e disgustosi; sembra di trovarci di fronte alle temibili creature fantascientifiche omaggiate dallo stesso Mari nel racconto Le copertine di Urania, contenuto nella raccolta Tu, sanguinosa infanzia.
L’infanzia descritta da Mari è dunque un’età immaginifica, surreale, in cui a prendere vita sono le vivide fantasie e le sconcertanti paure del bambino in cui il confine tra sogno e veglia è sottilissimo: i mostri immaginati diventano reali, i giardinetti diventano spettrali luoghi dell’orrore in cui si aggirano creature mitologiche come le Madri, gli Altri, i Vampiri, le Larve.
L’infanzia diventa (o forse è sempre
stata) il periodo della scoperta, di assorbimento di storie e personaggi: così, ne La famiglia della mamma, un bambino resta muto e immobile, assorto nelle storie della mamma riguardanti la sua famiglia, storie macabre di tradimenti, uccisioni, scomparse. Solo alla fine si scoprirà il nome del bambino, tale William di Stratford-upon-Avon.
I mostri e i pochi, significativi, oggetti amati nell’infanzia creano nei racconti di Mari una mitologia imprescindibile, assurgono a simboli di un’età sanguinosa, in cui le paure nascono e si evolvono: il bambino che contempla le copertine di Urania è in una posizione di ambivalenza, tra fascino per il diverso e terrore dell’ignoto; lo stesso fascino e timore che prova nei confronti degli strani rituali degli adulti, del futuro.
I sentimenti infantili sono narrati con una profondità e una vivacità straordinari; la descrizione è quella di un’età arcaica, perduta, ma talmente presente da fare male. Così l’amore per una compagna di classe viene raccontata con struggimento, l’attaccamento nei confronti di oggetti come i fumetti nel racconto Giornalini viene narrato attraverso un linguaggio teso, sussultante come un terreno accidentato: il professore che prende in mano i vecchi Mandrake, Cocco Bill, PaperEpopea, torna bambino, preda del ricordo,
della luminescenza dell’età perduta, e si promette di non far toccare i preziosi fumetti dalle manine appiccicose del figlioletto che tanto non capirebbe.
La concezione di infanzia di Mari è quella di un’età di solitudine, in cui il bambino vive le sue paure e i suoi pensieri in modo estremamente egoistico, quasi che non venendo condivisi restino a galleggiare nella sua mente: unico mondo che sente di conoscere per davvero è quello della propria fantasia, una fortezza costituita da storie immaginate, giornalini, stupefacenti creature fantascientifiche. Un mondo irreale, ma onnipresente che nasconde
però insidie sfuggenti al suo controllo: l’immaginazione è infatti in grado di dar vita a mostri orrendi, come quello che promette di far del male ai suoi genitori, realizzando così il suo terrore più grande.
I genitori infatti sono, seppur immersi in una dimensione non ancora comprensibile dal bambino, un porto sicuro, i ricordi con loro – soprattutto quelli dell’infanzia – costituiscono, insieme ad una serie di minuzie importantissime, come i ricordi degli oggetti amati, un bagaglio fondamentale che perdurerà incrollabile, come se quei piccoli frammenti di vita fossero gli unici ad avere davvero senso:
Io, quando facevo merenda con il latte, mettevo nella scodella tanti pezzi di pane fino a che il cucchiaio rimanesse in piedi da solo. Se entrava in cucina, mio padre diceva «Che bel paciarot!» e me ne rubava un po’.
Non c’è stato molto altro nella vita.
No, è quasi tutto laggiù
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LOST IN TRANSLATION
di Diletta Porcheddu
Lost in translation è un film diretto da Sofia Coppola che ha vinto l’Oscar per la miglior sceneggiatura nel 2003. Nonostante il titolo, esso non ha niente a che fare con la nobile arte della traduzione, anzi, è una storia d’amore, e forse proprio la sua trama ha fatto pensare di poterlo presentare nelle sale italiane con il titolo L’amore tradotto.
Ironia della sorte, attraverso questa scelta il significato originale del titolo è stato davvero lost in translation, ossia letteralmente perso nella traduzione di quegli addetti ai lavori che spesso usano un po’ troppa creatività nel farlo, almeno in Italia.
A loro difesa però c’è da dire che la traduzione dall’inglese all’italiano è spesso davvero problematica, non solo per quanto riguarda i tanto vituperati titoli dei film, ma per tutte le opere artistiche: questo soprattutto per l’ovvia diversità fonetica tra le due lingue, che porta all’impossibilità di rendere al meglio alcune figure retoriche, come allitterazioni, assonanze e consonanze, in molti casi fondamentali per l’impatto dell’opera stessa.
Oltre a questa considerazione quasi scontata, è bene sottolineare che l’elemento forse storicamente più determinante nella scelta di alcune tecniche di traduzione è stato però quello della differenza tra la cultura anglosassone e quella italiana, un tempo
davvero marcata, la quale favoriva l’intraducibilità di certe espressioni e modi di dire appunto per la mancanza di appositi riferimenti culturali.
La reazione a questa difficoltà in un primo momento è stato il tentativo di traduzione totale ed indiscriminata; forse per fare meglio immedesimare il fruitore mediterraneo, forse per facilitare la diffusione di opere che si sarebbero poi rivelate senza tempo né limite geografico, in nome di questa missione fino a pochi decenni fa si giustificavano spesso alcune evidenti forzature.
Per accorgersene, basta guardare la prima traduzione di Orgoglio e Pregiudizio, risalente al 1932: oggi a nessun traduttore verrebbe mai in mente di tradurre il nome della protagonista (Elizabeth-Elisabetta) e l’idea che una ricca abitante dell’Hertfordshire possa chiamarsi Giovanna Bennet fa quantomeno sorridere qualunque lettore contemporaneo.
Ma il gravoso compito non poteva essere portato avanti solo dagli editori, e infatti anche l’industria della musica italiana decise di darvi il suo contributo. Soprattutto durante gli anni della Beat Generation, essa ha sfornato innumerevoli versioni tradotte di canzoni anglosassoni, come Sono bugiarda di Caterina Caselli (1967) reinterpretazione di I’m a believer dei Monkees, o Pregherò, di Adriano Celentano (1965), rifacimento
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di Stand by me di Ben E. King. A metà tra musica e letteratura, anche il recente premio Nobel Bob Dylan vanta una rivisitazione in salsa italica della sua Knockin’ on heaven’s door, ovvero Ai miei figli che dirò di Adriano Pappalardo (1975).
Oggi, nell’era della contaminazione continua tra inglese e italiano, questo trend ha decisamente perso molto del suo appeal. Più persone conoscono effettivamente la lingua inglese, e quindi molti traduttori tendono a lasciare invariate alcune espressioni e nomi, consapevoli del fatto che le meno efficaci trasposizioni in italiano non soddisferebbero i lettori/spettatori/ ascoltatori di nuova generazione. Infatti, riprendendo Jane Austen, la versione italiana di Ragione e Sentimento del 2008 lascia vivere le sorelle Dashwood nel loro cottage, senza trasferirle in un banale “villino di campagna”.
Decisamente controcorrente rispetto a questo tipo di tendenza è stata invece la traduzione dei primi tre libri della saga di Harry Potter, negli anni dal 1998 al 2000, che infatti è stata subissata da critiche di ogni genere. È innegabile che l’utilizzo da parte di J.K. Rowling di giochi di parole e neologismi vari l’abbia resa parecchio più complicata, ma alcune scelte sono quantomeno discutibili, per esempio per quanto riguarda i nomi delle case.
Se per Hufflepuff, letteralmente “sbuffare a raffiche o folate”, è stato comprensibilmente ritenuto di mantenere solo l’allitterazione nel nome Tassorosso, la traduzione di Ravenclaw (letteralmente “artiglio di corvo”) con il poco lusinghiero Pecoranera snaturava in modo così
evidente il carattere che l’autrice aveva voluto dare alla casa che l’editore Salani ha ritenuto di dover ristampare tutti e tre i libri, correggendola con la più corretta Corvonero.
Lasciando da parte le considerazioni storiche, tradurre è un compito molto più difficile e nobile di quanto sembri, tanto che il diritto italiano copre (giustamente) le traduzioni con lo stesso diritto d’autore che tutela le opere letterarie, cinematografiche e teatrali, a patto però che esse contengano un sostanziale elemento di “creatività”. La speranza è che in nome di ciò non vi sia la tentazione di sacrificare la bellezza degli originali, e che questa non venga mai più, appunto, persa nella traduzione
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MIGRAZIONI
traduzioni
Kıvanç Filizci nasce a Smirne (Izmir in turco) nel 1989. Dopo l’educazione primaria e secondaria, lascia Smirne per iscriversi all’università ad Ankara all’età di 18 anni. Laureatosi in Ingegneria dei sistemi e logistica si trasferisce a Istanbul per lavorare in un ufficio di logistica e per seguire un master in Scienze politiche e relazioni internazionali all’Università di Istanbul. Scrive poesie e racconti da tempo ma non ha ancora pubblicato i suoi lavori. Traduzione di Anna Denaro .
SMIRNE di Kıvanç Filizci
Blu, giovani onde sul viso, una panca a Kordon, da solo a braccetto col pomeriggio di sole e vento, [ad Alsancak, mi accorgo di quanto mi sia mancata questa città di angeli belli quegli angeli che intrecciano i capelli [con le onde dell’Egeo, sulle labbra ciliegie e vino, il loro odore trasportato dal vento.
Il verde di Kordon fa l’amore con l’azzurro luccicante dell’Egeo un cielo geloso di uccelli si tuffa nel letto dell’orgasmo per raggiungere Kordon e l’Egeo.
Io, proprietario di parole anarchiche, [poeta capriccioso, chiudo i miei occhi e guardo il suono della schiuma bianca trasportata [sulle rocce da onde blu l’ultimo respiro del sarago portato via [dal pescatore, la palla rincorsa da bambini sul prato. Le rose vendute da uno zingaro a una lira chiudo le orecchie e ascolto
il sole caldo danzare con i gabbiani, un giovane baciare la sua ragazza dalle guance [rosso mela, una quattordicenne bere la sua prima birra, palloncini colorati volare fino alle nuvole dalla [mano di una signora anziana.
Io, poeta che chiuse il cuore ad ogni forma di amore eccetto a parole, Smirne e i suoi angeli belli mi accorgo di quanto sia difficile tenere il cuore lontano da questa bellezza mentre mi allontano con passi piangenti e battiti [lenti.
Ti amo, Smirne 1-9-14
SPR Pub Kordon, Alsancak, İzmir
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PROSSA NOVA
È COLPA DELLE LUMACHE!
di Matteo Valentiniracconti
www.polliceverde.it/come-eliminare-lumache-48490.html
Le bouse sono lumache senza il guscio, dal colore variabile tra il marrone scuro e l’arancione. Il loro nome viene sempre pronunciato con un certo disgusto.
La B suona come un tamburo imperiale percosso da un battente rivestito di feltro. È robusta perché le tocca reggere tutte le altre lettere, che sono invece svogliate e dimesse: O U S E.
A pensarci viene in mente un dipinto ad olio, una crosta con la superficie lucida: un signore e suo fratello sono seduti sullo stesso divano di pelle marrone chiaro, è agosto, hanno appena pranzato e sorbiscono un digestivo in due tazze da caffè. Con una mano reggono la tazzina e con l’altra premono sul ginocchio per mantenersi in posizione eretta. Bevono simultaneamente e sono entrambi pronti ad allungarsi sul divano, quando l’ultima goccia di liquido dolciastro gli sarà scesa dentro la gola.
La moglie del signore sonnecchia su una poltrona messa di sghembo rispetto al divano. Di lei si vedono: le gambe allungate sotto al tavolino, il ventre fiorito, la punta del naso, la mano carnosa su un cane che mangia gli avanzi del pranzo.
In casa mia il cibo avanzato è circondato da un’aura immorale.
L’avanzo è sconcio.
Quando al centro della tavola o sulla
grata dei fornelli resta una pentola, una padella, un’insalatiera con dentro del cibo e abbiamo appena iniziato a bere il caffè, mio padre sussurra, quasi sovrappensiero: «È un peccato».
Nessuno lo considera e lui, d’altronde, non fa nulla di più per attirare l’attenzione su di sé. L’oziosa conversazione da fine pasto non viene interrotta oppure resta, intatto, il silenzio.
Passa un minuto e mio padre sospira: «Eh, certo che è un peccato», scuotendo la testa rassegnato e pensoso, come di fronte a un accadimento che vada al di là delle sue proprie forze. Continuiamo tutti a occuparci d’altro, chi intaglia la buccia di un mandarino, chi guarda la televisione. Nessuno si alza da tavola.
«Vi è piaciuto?» chiede, questa volta a voce alta e gioviale, mio padre. In casa mia è difficile che una pietanza sia mal cucinata e quindi tutti affermiamo che sì, ci è piaciuto, anche solo annuendo in silenzio. «E allora perché è avanzato quel boccone? Io ho un’età che non mi posso riempire la pancia, ma voi avreste potuto sforzarvi!». Spingendo il rimprovero in tavola, mio padre abbandona il suo posto con le mani a massaggiare lo stomaco, dice che va a stendersi un attimo e chiede se ci possiamo pensare noi, per una volta, a “far la cucina”.
La mamma mugola qualcosa al tele-
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visore, io e mio fratello ci prepariamo ad iniziare il lavoro, che è strutturato semplicemente: uno sparecchia la tavola, l’altro riempie la lavastoviglie. Chi dei due finisce per primo, può dileguarsi.
Non c’è bisogno di discutere e turni non ne abbiamo mai stilati: già da come ci alziamo si capisce chi se ne potrà andare in camera e chi resterà in cucina da solo con la mamma.
Mio fratello fa in modo di levarsi dalla sedia con qualcosa in mano, di solito la bottiglia dell’acqua, che agita come fosse una coppa, prima di metterla al suo posto nel frigo: quella messinscena serve ad indicarmi la lunga, pericolante, untuosa strada della lavastoviglie, che libero dai piatti puliti e riempio con quelli sporchi, rumorosamente impilati nell’acquaio da mio fratello, prima della sua fuga in camera.
A me che resto, tocca anche lavare i fornelli con il bicarbonato e, arrivato a quel punto, decidere cosa fare del cibo avanzato.
Per la nostra famiglia non è pensabile conservare un avanzo e mangiarlo il giorno dopo. Non sopportiamo la puzza del cibo nel frigorifero (vi conserviamo solo alimenti confezionati) né la consistenza asciutta di un pasto riscaldato. D’altra parte è ignobile far sprofondare nella pattumiera quello che solo un’ora prima stava nel piatto. È un peccato.
La mamma non segue le operazioni
di pulizia, è stanca, fissa il televisore, ma percepisce quando è il momento di intervenire: «Dallo ai gatti».
Tutti in famiglia sappiamo che i nostri gatti non mangiano la pasta o l’insalata, anzi le annusano appena e poi se ne vanno. Lo sappiamo anche se sistemiamo la ciotola leggermente discosta dal vetro, così da non vederla.
Quando scende la notte e l’aria si carica dell’umidità del bosco vicino a casa, le bouse escono dalle loro tane negli interstizi dei muri e scivolano verso la ciotola ricolma di cibo, si arrampicano sulle sue pareti slavate e banchettano con quello che nessuno vuole mangiare, ci liberano dall’averlo sprecato, diventano la nostra vergogna.
Il giorno dopo, alla mattina, quando apriamo la porta per uscire di casa, le scopriamo dentro la ciotola vuota, una sopra l’altra nella loro orgia di bave. Allora ci prendiamo un momento, anche a costo di partire in ritardo, e senza pietà le cospargiamo di sale o infilziamo la loro corazza elastica con un sottile spiedo ricavato da qualche rametto appuntito per l’occasione. La ciotola viene, alla fine, raschiata con lo stesso rametto, lavata con l’acqua e rimessa al suo posto
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PROSSA DEI LETTORI
Sono in cerca di parole per mondi volanti; mondi che restino ben saldi a terre profonde, come palloncini a piramidi preistoriche. Mi chiamo Marco e ho 38 anni. Prima farmacista, ora apprendista scrittore: il futuro da alchimista è certo.
BOMBOLONI di Marco Canneva– Sì, un po’ sono agitato. – dice al telefono, seduto a gambe divaricate sul divano vinaccia del salottino – Ora devo andare. Ho poco tempo. Spero mi basti. Ciao… Sì, ci sentiamo dopo… Tranquillo.
Si alza e si sposta nella cucina adiacente, bagnata d’acciaio. Gironzola qualche secondo intorno all’isola metallica, al centro della stanza, servita da cinque fuochi e da un ampio lavandino. Si ferma davanti alla postazione e inizia ad allineare posate e utensili in binari appannati dal sudore delle sue mani. Accarezza il piano d’alluminio, poi il pelo della tovaglietta gialla su cui sono appoggiati una pentola, due tazze bianche e un’insalatiera ondulata. A incorniciare il rettangolo una serie di barattoli colmi di polveri e un grosso contenitore blu nel quale sciaborda un liquido minaccioso. Strappa due fogli dal rotolo di carta assorbente alla sua destra, li inumidisce con un filo d’acqua e, circumnavigando l’isola culinaria, la libera di ogni macchia, seppur minuscola. Con aria soddisfatta si mette in posizione e guarda davanti a sé.
Benvenuti nella cucina di Masterchef. Oggi vi cimenterete nella preparazione di… bomboloni ripieni!
Ride e depone i palmi delle mani sulla tovaglietta.
Avete sessanta minuti di tempo.
Guarda l’orologio sospeso alla parete sulla sua sinistra, e perde il sorriso. Sessanta minuti da… Ora!
Prende il barattolo contenente la polvere gialla e ne versa un poco nell’insalatiera. Lascia gocciolare del liquido conservato in un cassetto sottostante. Poi aggiunge due pugnetti di una polvere bianca, forse farina. Impugna il cucchiaio e inizia a miscelare il tutto fino a ottenere una sabbia giallina.
Trenta minuti. Forza ragazzi, coraggio! Dovete credere nei vostri sogni. Non abbiate paura di osare. Di fare ciò che nessuno ha mai fatto! Voglio assaggiare bomboloni eccezionali.
– Vedrai! – risponde – Io non ho paura di osare.
Riguarda l’orologio e aumenta il ritmo. Si asciuga le mani con la carta assorbente e prende il contenitore blu da cui versa lentamente il liquido nella pentola. La mette sul fuoco e, dopo qualche minuto, aggiunge alla miscela di polveri la brodaglia calda. Amalgama ancora fino a quando una crema collosa si deposita nell’insalatiera.
Tre, due, uno... Stop. Bomboloni pronti, guys?
– Non ancora, pezzo di merda – risponde all’italiano maccheronico di Bastianich.
Si sciacqua le mani sotto al lavandino e getta una ditata bagnata al telecomando
per spegnere la televisione. Entra nel ripostiglio, per uscirne con un secchio sporco di venature ramate e un contenitore di benzina vuoto. Dalla finestra s’intrufola un sole morente che esaspera la cucina di magenta. Lui raccoglie dal secchio manciate di viti, rondelle e cuscinetti: scarti di metallurgia arrugginiti che appaiono fosforescenti alla luce del tramonto. Con occhi luminosi se li lascia scivolare dalle mani come se rovistasse in un baule di preziosi e oro.
Bob Dylan squittisce all’improvviso attraverso il cellulare.
– Sì? – risponde – Quasi pronto! Un quarto d’ora e… Stai calmo… cerca di restare calmo! Se lo merita. Fidati di me, ok?… La conferenza da Eataly inizia tra
un’ora esatta. Ma certo, certo che ne sono sicuro. Ti aspetto davanti all’entrata. Non ti vorrai tirare indietro, eh? Quello è il bastardo che ci ha eliminato! Coraggio, ok?
Versa la crema nel bidone, entro il quale lascia poi cadere la ferraglia. Mentre lascia depositare il composto applica alla plastica un piccolo dispositivo sormontato da un led rosso pulsante. Guarda l’orologio: sono le diciotto e un quarto. Non sa che fare e riaccende la televisione.
Avevo detto qualcosa di eccezionale. Qualcosa che mi stupisse. This is una merda. Volevo un bombolone esplosivo… E-splo-si-vo
INFISCHIATENE
CRISTÓVÃO TEZZA
recensioni
LA CADUTA DELLE CONSONANTI INTERVOCALICHE (FAZI EDITORE, 2016) di Chiara Graziani
Il protagonista di questo romanzo è il brasiliano Heliseu de Motta e Silva, ex professore di filologia romanza settantenne. Tentando di comporre un discorso di ringraziamento per la medaglia ai meriti accademici che gli verrà conferita, egli si trova, nel breve spazio di una mattina, a rievocare disordinatamente tutti gli episodi, le persone, i grandi dolori e i fallimenti che hanno caratterizzato la sua vita, trascinando il lettore nel turbinio di pensieri e ricordi che affollano la sua mente so-
vrapponendosi gli uni agli altri.
Heliseu è un personaggio verso cui provare empatia è difficile se ci si ferma alle prime pagine: racconta gli avvenimenti più drammatici della sua esistenza in un modo che lo fa apparire altero e sgradevole, si mostra distaccato ed ironico al punto che lo immaginiamo con un sorriso irritante sulle labbra mentre ricorda anche le scelte più sbagliate come se, dall’alto dello «scandaloso eccesso di competenze» che gli ha assicurato una
brillante carriera universitaria, egli si sia sempre sentito, e continui a sentirsi anche nei suoi ultimi anni, superiore a tutti coloro che hanno avuto un ruolo nella sua vita. Tra questi, la moglie Monica, molto meno colta di lui e la cui unica vera dote riconosciuta è un’eccezionale memoria, che Heliseu ricorda con tenerezza ma che sminuisce freddamente; fino ad arrivare al figlio omosessuale con il quale non è mai riuscito a comunicare e che vive lontano da lui con il compagno e la figlia che ha adottato.
Consiglio al lettore di non fermarsi a questa prima impressione, ma di proseguire addentrandosi più profondamente nel viaggio che questo professore intraprende a ritroso nei suoi ricordi. Solo con pazienza sarà possibile mettere ordine in una psiche disordinata e complessa, che si svela lentamente, come se dovesse prendere confidenza con l’interlocutore prima di mostrarsi drammaticamente nuda, spogliata dell’autoinganno in cui qualsiasi essere umano cade, più o meno consapevolmente, pur di rendere meno atroci i rimorsi e i rimpianti della vita.
Cristóvão Tezza ci rende partecipi in modo tenero e commovente di tutta l’umanità e semplicità che si celano dietro le vesti di un illustre professore, sicuro di sé davanti ai colleghi e agli studenti che lo ammiravano, rispettavano e invidiavano; ma sempre più consapevole della incolmabile discrepanza esistente tra la sua vita pubblica, fatta di successi, riconoscimenti e soddisfazioni e quella privata piena di dolori in cui, come ci dice egli stesso «non c’era più niente da salvare, immersa com’era in una sequela di piccoli ma irrimediabili disastri».
L’autore ci racconta questi «disastri»
imbastendo un flusso di coscienza contorto e ricco di sbalzi tematici e temporali a cui talvolta risulta impossibile trovare una coerenza. Ci mostra l’intimità di un uomo che, a dispetto del professore affermato ed appagato che è sempre apparso a chi lo conosceva, si rivela una persona comune, con le sue debolezze, fragilissimo e irresoluto nel suo intimo. Nel momento in cui noi lo vediamo davvero, settantenne e solo, ci rendiamo conto che non siamo di fronte ad un professore borioso e distaccato, come avevamo pensato incontrandolo nei primi capitoli, ma ad un anziano disilluso che ci costringe tragicamente a confrontarci con una realtà drammatica e universale: niente può riportarci indietro per rimediare ai grandi errori che commettiamo inevitabilmente, tutto ciò che è in nostro potere è conviverci e accettarli.
«Sto bene» è il mantra che si ripete alla fine: in fin dei conti è sopravvissuto a tutte le insidie e alle disgrazie che gli sono capitate in una vita terribile sotto molti punti di vista, ma comunque piena ed emozionante. «La vita può anche essere priva di senso, però ha una direzione, è instradata verso qualcosa, per quanto non sia qualcosa di troppo bello»: questo è ciò che il nostro professore ha imparato nel corso della sua turbolenta esistenza e che cerca di trasmetterci.
«La caduta delle consonanti intervocaliche» non si accontenta di una lettura distratta o superficiale, è un romanzo complesso e disordinato che ruba tempo e concentrazione, ma in cambio permette di vivere l’emozione devastante e bellissima di guardare nelle pieghe più profonde dell’animo umano
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