L'Espresso 27

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Settimanale di politica cultura economia N. 27 • anno LXVIII • 10 LUGLIO 2022 Domenica 3 euro L’Espresso + La Repubblica In Italia abbinamento obbligatorio alla domenica. Gli altri giorni solo L’Espresso 4 euro

AMBIENTE

POLITICA

Che cosa ci aspetta dopo Banchieri e hedge fund la tragedia della Marmolada cercano Giorgia Meloni

IDEE La rivoluzione femminile secondo Javier Cercas

INCHIESTA

Ricatto all’Europa Il gas di Putin. Le pressioni di Erdogan. I veti di Orban. Le richieste di Al Sisi. Il Vecchio Continente è sotto scacco. E incombono i giganti Usa e Cina. Una debolezza che mette a rischio il futuro



Altan

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Sommario numero 27 - 10 luglio 2022

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Lirio Abbate

Area di campagna elettorale

Opinioni

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Altan Makkox Manfellotto Vicinanza Serra Valli

Prima Pagina Ambiente, ecco cosa ci aspetta Marco Cattaneo Così gli interessi frenano la politica colloquio con Stefano Caserini di Vittorio Malagutti Unione sotto scacco Federica Bianchi Anni di piombo e tempo perso Gigi Riva Sinistra, difendi l’Ucraina colloquio con Michael Walzer di Wlodek Goldkorn Anatomia di un massacro Lorenzo Tondo Diari di guerra Sabina Minardi

graphic novel di Nora Krug

Banchieri e fondi alla corte di Giorgia Carlo Tecce Draghi e Conte, la stessa musica da qui alle elezioni Chi dice no all’energia pulita Gloria Riva “Ci siamo riusciti coinvolgendo la gente” Marialaura Iazzetti American nightmare Manuela Cavalieri e Donatella Mulvoni L’infiltrato truffa i Narcos Antonio Fraschilla L’algoritmo della giustizia Armando Spataro Il potere del litio Eugenio Occorsio Startup, la crescita incostante Giovanni Iozzia Disabili, il mese dell’orgoglio. Né eroi né vittime Simone Alliva

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Rubriche La parola Taglio alto Bookmarks Ho visto cose #musica Scritti al buio Noi e voi

COPERTINA Artwork di Alessio Melandri Foto: GettyImages (3), Ipa, Shutterstock

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Idee Sfida ai Barbablù Come pensa un editore Lettera a una copertina mai nata Un Paese fondato sul tradimento La guerriera di Hollywood

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colloquio con Javier Cercas di Sabina Minardi 86 Chiara Valerio 92 Angiola Codacci-Pisanelli 96 intervista a Roberto Saviano di Giuseppe Catozzella 100 colloquio con Eva Longoria di Claudia Catalli 102

Storie Tra gli sfollati di Cabo Delgado in fuga dalla jihad Il partigiano Jacon morto per non tradire Sogni e paure, quando eravamo noi a emigrare per mare L’Espresso fa parte in esclusiva per l’Italia dei consorzi investigativi

Marco Benedettelli 106 Chiara Sgreccia 110 Roberto Orlando 114

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La parola

© RIPRODUZIONE RISERVATA

diritti Ma vi ricordate quando si lottava per i diritti, ringraziando chi ci aveva aperto la strada? Divorzio, aborto, contro le discriminazioni, la mafia, la pena di morte, il sopruso, la censura, la fame, il Palazzo, l’omertà, la violenza, la tortura? Le conquiste che erano sempre soltanto un altro passo, perché i diritti erano un dovere, chi li metteva in dubbio non stava esprimendo una «legittima opinione», che gli veniva data grazie a quei diritti che si permetteva di disprezzare, non conquistava plaudenti platee di anticonformisti in giacca e cravatta, ma verde. La rabbia che montava era per gli indifferenti: allora non c’erano gli agitatori anti-sistema che combattono le lobby (dei gay, delle femministe, dei neri, dei pacifisti, non importa, tutte lobby sono). E non era neppure arrivato il vero, l’unico male di tutta la società: il cambiamento climatico. Per carità, un’emergenza, ci mancherebbe, una

giusta lotta, ma che non fa sparire tutti i diritti per cui vale vivere. Come fai a vivere se il pianeta muore, per che cosa lotti se non sei più vivo: certo, per avere il diritto a parlare devi poterlo fare, chi lo nega? Solo che, accanto magari all’ultimo slogan (che non cambia nulla se poi non rinunci a cellulari, vestiti e accessori tutti uguali che sfruttano uomini che non vedi, detergenti e detersivi per cui l’acqua la butti a litri, ma devi essere igienizzato) non c’è lo spazio per ricordarsi che vivere non è solo esistere, che Pasolini non scrisse soltanto della scomparsa delle lucciole, che si può tenere accesa l’indignazione per tutte le cause senza risultare pedante e pesante, passatista e un po’ lobbista? Perché io avverto un vuoto, quando vedo tutti battersi il petto per aver usato un bicchiere di plastica vent’anni fa e tacere se si parla di altri diritti meno alla moda. Dovrei saper urlare in corsivo, forse.

LARA CARDELLA 10 luglio 2022

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Cronache da fuori

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Makkox

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Editoriale

Lirio Abbate

Aria di campagna elettorale e scommesse sul vincente

Illustrazione: Ivan Canu

Mentre le acque della politica si agitano, è già partita la corsa a salire sul carro favorito da parte di banchieri e fondi internazionali. Il Paese è in piena emergenza climatica come la tragedia della Marmolada ci ricorda. La libertà di un giornale e l’impegno della denuncia

L

a campagna elettorale è iniziata. I partiti e i loro leader sono già in movimento per agitare le acque, non solo nel governo di Mario Draghi, ma pure quelle parlamentari. Giuseppe Conte dopo aver incontrato il presidente del Consiglio e avergli consegnato un documento con nove punti che si identificano in una linea di continuità con l’azione governativa, porta i 5Stelle a proseguire l’appoggio dell’esecutivo, pur sapendo che dentro il movimento c’è più di qualcuno che vuole staccare la spina. E appare chiaro che anche dalle parti del Carroccio c’è chi ha fretta di rompere. E tutto fa apparire che il colloquio Draghi-Conte sia solo un chiarimento di facciata, un modo per mettere una pezza ad un rapporto già logoro e fragile. Tutto ciò, mentre si prepara il terreno di scontro nel quale si svolgerà questa campagna elettorale. I segnali che la competizione si avvicina vengono dati da chi ha iniziato a scendere in campo come i banchieri e i fondi internazionali che hanno già intrapreso la loro consueta escursione nella politica italiana, soprattutto in questa fase in cui i partiti sono più fragili e perciò ineffabili. I finanzieri hanno iniziato ad accalcarsi alla porta degli uffici degli uomini di Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni, che per i sondaggi nel prossimo Parlamento potrebbe avere la guida del centrodestra. Più di un quinto o addirittura un quarto degli eletti. Un posto su quattro. Il pellegrinaggio è iniziato e mira a comprendere le intenzioni della leader della destra per capire la sua idea sull’Euro, sui mercati, sulle alleanze. Tutto questo mentre l’Europa è a un bivio, anzi è sotto ricatto: cede a Erdogan, subisce i veti di Ungheria e Polonia, è costretta al dialogo con Egitto e Iran e per affrancarsi dalla Russia di Putin rischia di finire sotto il tallone

cinese. È sotto gli occhi di tutti, come lo sconvolgimento climatico. La tragedia della Marmolada è l’ennesimo segnale. Come analizza Marco Cattaneo nelle pagine seguenti, l’aumento delle temperature continuerà e bisogna agire subito per contrastare l’emergenza. Stefano Caserini, docente di Mitigazione dei cambiamenti climatici al Politecnico di Milano, racconta a Vittorio Malagutti che «qualche mese fa il presidente del Consiglio Mario Draghi disse che “i soldi per il clima non sono un problema” (era il primo novembre 2021, ndr). Da allora però non vedo nessuna accelerazione nella lotta al cambiamento climatico. Quindi, se davvero i soldi ci sono, l’inerzia è chiaramente una scelta politica». Infine, ma non per importanza, voglio ricordare due frasi, quella di Giovanni Falcone che diceva: «La mafia si caratterizza per la sua rapidità nell’adeguare valori arcaici alle esigenze del presente, per la sua abilità nel confondersi con la società civile, per l’uso dell’intimidazione e della violenza, per il numero e la statura criminale dei suoi adepti, per la sua capacità ad essere sempre diversa e sempre uguale a se stessa». E una di Paolo Borsellino: «La lotta alla mafia dev’essere innanzitutto un movimento culturale che abitui tutti a sentire la bellezza del fresco profumo della libertà che si oppone al puzzo del compromesso morale, dell’indifferenza, della contiguità e quindi della complicità». Poche settimane fa questo giornale ha puntato il dito sulla questione amorale, fra mafia e politica, scegliendo di mettere in copertina due facce e due nomi di politici. Continueremo a farlo ogni volta che ve ne sarà bisogno. Perché questo è un giornale Q libero e contro ogni collusione. © RIPRODUZIONE RISERVATA

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Ambiente e disastri LA TRAGEDIA DELLA MARMOLADA È L’ENNESIMO SEGNALE. L’AUMENTO DELLE TEMPERATURE CONTINUERÀ E BISOGNA AGIRE SUBITO PER CONTRASTARE L’EMERGENZA DI MARCO CATTANEO


Prima Pagina

Un uomo sul Po presso il Ponte della Becca a Linarolo,vicino Pavia 10 luglio 2022

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Ambiente e disastri IL RAPPORTO IPCC VEDE IN ARRIVO ONDATE DI CALORE, INONDAZIONI PIÙ INTENSE E FREQUENTI, PRODUZIONE AGRICOLA A RISCHIO, SCARSITÀ DI RISORSE IDRICHE

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rano le 15 di domenica 3 luglio quando una porzione del ghiacciaio della Marmolada si è improvvisamente staccata dal corpo principale, scivolando sul letto inclinato verso valle a 300 chilometri all’ora e travolgendo diverse cordate di alpinisti, con un bilancio quando scriviamo - di sette morti e ancora cinque dispersi. Una tragedia della montagna, che però non può essere distinta dalle condizioni meteorologiche anomale che sta attraversando il nostro paese né, in senso più lato, dall’emergenza climatica globale. È difficile dire con certezza come si sia svolta la dinamica del distacco. Ma probabilmente l’acqua di fusione del ghiaccio per le alte temperature si è incanalata attraverso alcuni crepacci verso le profondità del ghiacciaio, aumentando il peso della massa in bilico e favorendone lo scorrimento. Una fusione intensa, ha scritto Giovanni Baccolo, glaciologo e ricercatore dell’Università di Milano Bicocca, ha sollecitato la struttura del ghiacciaio, portandone al collasso una parte. «Le cronache hanno parlato del distacco di un seracco racconta Baccolo - ma non è un termine tanto corretto. Un seracco è una porzione di ghiaccio già quasi staccata dal corpo principale del ghiacciaio. Ne è un esempio quello che sta accadendo in Val Ferret». Dove, nei giorni scorsi, è stata evacuata un’ampia area nelle vicinanze del ghiacciaio Planpincieux, Marco Cattaneo sul versante italiano del Direttore Monte Bianco, per il riNational Geographic schio di crollo di un voluItalia me di 400mila metri cubi di

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ghiaccio che si stanno muovendo a una velocità di un metro al giorno. «Quando ci sono pericoli documentati, come in questo caso, i ghiacciai sono monitorati, ma il crollo sulla Marmolada è stato improvviso, imprevisto», continua Baccolo. «Lì il ghiacciaio si sta frammentando in tanti piccoli elementi indipendenti. Uno di questi frammenti era questa pancia di ghiaccio situata molto in alto, vicino a Punta Rocca, dove c’è la stazione della funivia». D’altra parte, il ghiacciaio simbolo delle Dolomiti ha perso circa il 70 per cento della superficie dalla fine dell’Ottocento, la fronte è arretrata di 650 metri nell’ultimo mezzo secolo e, secondo una ricerca pubblicata a fine 2019, ha perso il 30 per cento del suo volume in un solo decennio, tra il 2004 e il 2014. «È prevedibile


Pagine 12-13: Getty Images. Pag. 14-15: Ansa

Prima Pagina

che questi fenomeni possano aumentare, nel prossimo futuro, con strutture sempre più indebolite e compromesse. Si verificano già sull’Adamello, al Morterasch, al ghiacciaio dei Forni. Ma avvengono nella zona pianeggiante, in valle». Sulla Marmolada la pendenza ha aggravato l’evento, con le conseguenze che sappiamo. Oltre a questa fragilità ormai strutturale, il ghiacciaio è stato in fusione continua per settimane, giorno e notte, con temperature minime che non scendevano mai sotto lo zero, ma non solo. «Già dall’inverno scorso stiamo vivendo una situazione climatica anomala», dice Serena Giacomin, climatologa, meteorologa e presidente dell’Italian Climate Network. «Abbiamo avuto un prolungato periodo di siccità, con precipitazioni nevose inferiori anche

La Marmolada dopo il distacco del blocco di ghiaccio avvenuto il 3 luglio

del 70 per cento alle medie stagionali. È piovuto poco, ed è nevicato meno. E il problema si è acuito in primavera. I primi cinque mesi del 2022 sono stati i più secchi degli ultimi 60 anni. Poi, con il prevalere dell’anticiclone africano, è arrivata un’estate anticipata, con temperature di diversi gradi più alte rispetto alle medie». Tanto che, nei giorni immediatamente precedenti il collasso del ghiacciaio, a Punta Rocca si sono misurate temperature minime che difficilmente scendevano sotto i 5 gradi, con lo zero termico stabilmente oltre i 4.000 metri. «È tutto collegato. L’anticiclone ha effetto anche sulle temperature in quota, e questo ha contribuito ad accelerare la fusione della poca neve invernale lasciando esposto e vulnerabile il ghiaccio sottostante». Come avvertono sempre i climatologi, però, non si può attribuire un singolo evento al cambiamento climatico. «Certo, non possiamo dire che un episodio definisca una tendenza climatica», conclude Giacomin. «Però si può senz’altro dire che questo fenomeno si inserisce nella tendenza climatica che stiamo osservando da decenni». Una tendenza che, in montagna, si acuisce più che in altri ambienti. «Ci sono tre fattori che concorrono a determinare il precario stato di salute delle montagne», conferma Elisa Palazzi, climatologa al Dipartimento di fisica dell’Università di Torino. «Il primo è un fattore a lungo termine. Sono decenni che osserviamo una tendenza al riscaldamento globale, e registriamo che le montagne si scaldano il doppio rispetto ad altre aree, un po’ come le regioni polari. Perché ci sono fenomeni che le rendono più sensibili, come la retroazione ghiaccio-albedo. La neve e il ghiaccio fondono, lasciando scoperti ampi tratti di roccia. La roccia è scura, e assorbe 10 luglio 2022

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Ambiente e disastri impossibile, alle condizioni di oggi, ma se si riuscisse a contenere l’aumento di temperatura a 1,5 gradi entro la fine del secolo ci assicureremmo un futuro più stabile sul nostro pianeta». Il futuro dei ghiacciai alpini, però, potrebbe comportare un ampio ventaglio di conseguenze. «Intanto l’emergenza idrica, che già vediamo oggi. Ma a lungo termine la scomparsa dei ghiacciai sarebbe una grave minaccia per l’agricoltura», continua Palazzi. In particolare per coltivazioni come il mais e il riso, che richiedono un enorme consumo di acqua e sono ampiamente diffuse in Pianura Padana. «Poi c’è il rischio di scongelamento del permafrost, tipico delle alte latitudini ma presente anche sulle nostre montagne e che ha già provocato diversi crolli. E la formazione di laghetti glaciali con argini poco stabili, che potrebbero esondare facilmente con peri-

CAMBIARE SI PUÒ MA GLI INTERESSI FRENANO LA POLITICA colloquio con Stefano Caserini di Vittorio Malagutti Con il suo blog Climalteranti, seguitissimo in rete, Stefano Caserini da anni denuncia le bufale dei sedicenti esperti che negano l’evidenza dei fatti, cioè il ruolo decisivo delle attività dell’uomo nel riscaldamento globale. Caserini, che è docente di Mitigazione dei cambiamenti climatici al Politecnico di Milano, ha scelto di impegnarsi in prima persona nell’amministrazione della sua città e da un paio di settimane è assessore all’Ambiente, mobilità, azione sul clima e innovazione nella giunta di Lodi guidata dal neoeletto sindaco Pd, il giovane (25 anni) Andrea Furegato. Mentre si prepara ad affrontare nella pratica quotidiana i problemi della transizione energetica, lo scienziato Caserini, 56 anni, ingegnere di formazione, si dichiara soddisfatto perché «i negazionisti del clima sono «ormai ridotti a una sparuta pattuglia senza nessuna credibilità, anche se periodicamente qualche giornale o programma tv prova a rilanciare le loro tesi strampalate». Secondo Caserini, «nell’opinione pubblica c’è ormai una consapevolezza diffusa che l’uomo è direttamente

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responsabile degli sconvolgimenti climatici che sono sotto gli occhi di tutti». Questa consapevolezza non si è però fin qui tradotta in azione politica, non le pare? «Ricordo che qualche mese fa il presidente del Consiglio Mario Draghi disse che “i soldi per il clima non sono un problema” (era il primo novembre 2021, ndr). Da allora però non vedo nessuna accelerazione nella lotta al cambiamento climatico. Quindi, se davvero i soldi ci sono, l’inerzia è chiaramente una scelta politica». Come la spiega? «C’è un dato di partenza che va tenuto presente: arginare il cambiamento climatico significa cambiare l’intero sistema socio-economico, dall’energia alla produzione del cibo. Non c’è una bacchetta magica, si tratta di fare a meno di un sistema che ha più di un secolo di vita e di farne a meno nel giro di trent’anni, se davvero vogliamo rallentare la crescita della temperatura del globo. Un esempio concreto: è vero che dobbiamo rinunciare quanto prima a costruire auto alimentate a combustibili fossili. E per riuscirci dobbiamo prepararci ad affrontare le conseguenze di questa rivoluzione, che porterà nel complesso molti più benefici, ma che peserà soprattutto sui cittadini meno abbienti e su alcuni settori industriali». E invece… «Invece sento il ministro Cingolani che fa professione di catastrofismo, paragona la transizione energetica a un “bagno di sangue”. Ho il sospetto che questi scenari apocalittici servano a coprire l’incapacità di affrontare il problema mettendolo al centro dell’agenda politica del Paese. Ovviamente una svolta di questo tipo andrebbe a colpire

Foto: Shutterstock

più radiazione solare, trattenendo più calore. Il che amplifica la fusione del ghiaccio. Poi, nella circostanza attuale, non c’era la neve invernale a proteggere il ghiacciaio. E infine le temperature elevate di questo inizio estate hanno fatto il resto». Guardando al futuro, il destino dei ghiacciai alpini è segnato. «Quanto alla Marmolada - continua Elisa Palazzi - lo vedremo scomparire da qui a 25-30 anni. Anche a parità di clima attuale, vale a dire se le temperature non dovessero salire ulteriormente. Col clima funziona così. Oggi vediamo gli effetti di fenomeni innescati 10, 20, 30 anni fa». Perché i cambiamenti climatici hanno un’inerzia, «determinata dai ghiacci e dagli oceani, che hanno tempi più lunghi rispetto all’atmosfera. Per questo si mette l’accento sull’urgenza della decarbonizzazione e della mitigazione. Un ritorno al clima dell’epoca preindustriale è


Prima Pagina PROSCIUGATO Ceresole Reale, non lontano da Torino. Il lago a oltre 1600 metri di altitudine è prosciugato

interessi consolidati, fatturati miliardari, poteri che hanno molto da perdere se cambiassimo davvero direzione». Però adesso la guerra, e il taglio delle forniture di gas, costringe la politica a trovare nuove fonti di approvvigionamento. Che effetti avrà questa crisi sulla transizione energetica? «L’attenzione della politica ora è tutta rivolta alla ricerca di fornitori alternativi alla Russia, ma servirebbe altro». Che cosa? «Per esempio, andrebbe avviata subito una grande campagna di comunicazione in tema di risparmio energetico, qualcosa che faccia sentire, a livello di opinione pubblica, l’urgenza del problema. Due anni fa, quando è iniziata la pandemia ci è stata spiegata la necessità di cambiare i nostri comportamenti per arginare la diffusione del virus. Prima Conte e Mattarella e poi Draghi sono andati in tv per spiegarci che la situazione era critica e bisognava agire di conseguenza. Tutti ci siamo mobilitati, allora. E anche adesso la crisi energetica impone una strategia di emergenza. Non basta pensare che da qui all’inverno gli stoccaggi di gas saranno pieni e quindi possiamo stare Stefano Caserini tranquilli. Mi chiedo: perché non promuovere da subito, per esempio, una grande campagna per il risparmio energetico, per tagliare gli sprechi?». Intanto, però, vengono riaperte le centrali a carbone. E si torna a discutere di un ritorno all’energia nucleare… «Non credo che qualche mese di riattivazione delle centrali a carbone per far fronte a un’emergenza oggettiva cambi la

coli per le comunità a valle, e ancora la propagazione degli incendi nelle foreste che in Italia sono soprattutto montane. Un capitolo a parte lo occupa la biodiversità, che è una caratteristica delle montagne, dove le specie si sono rifugiate in habitat peculiari, creando endemismi vulnerabili a cambiamenti climatici improvvisi. «Le specie, animali e vegetali, - puntualizza Palazzi - migrano verso quote più elevate, si creano nuovi incontri tra animali che non avevano mai condiviso le stesse nicchie ecologiche, e quelli che abitavano nei luoghi più estremi non hanno più dove andare. Poi ci sono problemi di sfasamento. Ne è un esempio la pernice bianca, che d’estate ha il corpo di colore grigio brunastro mentre d’inverno mostra una livrea candida, che le permette di sfuggire ai rapaci, i suoi predatori naturali. Adesso però in autunno diventa bianca,

sostanza del problema. Dobbiamo attrezzarci con programmi di lungo periodo che cambino davvero il sistema. Prendiamo per esempio la riqualificazione del patrimonio edilizio, che è una questione decisiva per favorire il risparmio energetico. Il superbonus non va abolito, ma rivisto per farlo diventare una misura strutturale, che dia certezze sugli incentivi per interventi che vanno assolutamente fatti sulla quasi totalità degli edifici, pubblici e privati, con l’obiettivo di ridurre i consumi. In questi ultimi mesi il dibattito pubblico si è concentrato sui problemi legati a questa agevolazione. Invece andrebbe dato un segnale chiaro ai cittadini, per far capire che la riqualificazione edilizia è una tappa fondamentale della transizione energetica». La vicenda del Piano nazionale di adattamento ai cambiamenti climatici che dal 2018 giace in qualche cassetto del governo non sembra un buon precedente in fatto di programmazione di lungo periodo. «In Italia purtroppo prevale come sempre la logica dell’emergenza. In questi giorni si parla della fusione dei ghiacciai, presto si tornerà a lanciare allarmi sugli incendi. C’è un rischio enorme di eventi catastrofici, legati alle temperature altissime delle ultime settimane. Gli incendi di queste estati non sono più gli incendi del passato. Bisogna prepararsi e invece, purtroppo, quello che vedo è un’inerzia colpevole, non ci stiamo muovendo in modo adeguato al pericolo che è altissimo. Lo faremo, forse, dopo il prossimo disastro». Q © RIPRODUZIONE RISERVATA

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automaticamente, quando non c’è ancora neve, e diventa perfettamente visibile ai suoi nemici». Ampliando ancora di più l’orizzonte, l’intera regione mediterranea è un sorvegliato speciale del cambiamento climatico. «Gli ultimi rapporti dell’Ipcc - ricorda Serena Giacomin - hanno focalizzato l’attenzione sul Mediterraneo, perché è un’area in cui le temperature sono cresciute più della media globale e perché i delicati equilibri della regione la espongono a maggiori rischi di scarsità idrica e deserti-

Piante di girasoli completamente secche a causa della siccità

ficazione». Il secondo volume del Sesto Rapporto di valutazione dell’Ipcc, pubblicato a fine febbraio, definisce quattro categorie di rischio per l’Europa nei diversi scenari di riscaldamento, dalle ondate di calore alla vulnerabilità della produzione agricola, dalla maggiore frequenza e intensità di inondazioni alla scarsità di risorse idriche. Che appunto, nell’area mediterranea, potrebbe comportare un aumento dei giorni con disponibilità idrica inferiore alla domanda e un aumento dell’aridità del suolo, che potrebbero colpire la salute, il benessere e le attività di decine di milioni di persone. La crisi idrica che stiamo attraversando quest’anno, dunque, è solo l’antipasto di quello che ci aspetta se le temperature dovessero superare i limiti di 1,5 o 2 gradi rispetto all’epoca preindustriale indicati dall’Ipcc. E la tragedia della Marmolada che pur nella sua peculiarità non può essere disgiunta da quanto sta accadendo al clima - è un segnale di come dovremmo mettere in atto misure di adattamento e di prevenzione del rischio nuove e più severe. Oltre ad accelerare la riduzione della dipendenza dai combustibili fossili per contenere l’aumento della temperatura. Perché, piaccia o no, l’emergenza climatica è il problema più serio che la nostra civiltà abbia dovuto affrontare da quando scriviamo i libri di storia. Q © RIPRODUZIONE RISERVATA

MAURO BIANI

Foto: Shutterstock

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Ambiente e disastri

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L’Europa al bivio

UNIONE

SOTTO SCACCO CEDE A ERDOGAN, SUBISCE I VETI DI UNGHERIA E POLONIA. È COSTRETTA AL DIALOGO CON EGITTO E IRAN. E PER AFFRANCARSI DALLA RUSSIA RISCHIA DI FINIRE SOTTO IL TALLONE CINESE DI FEDERICA BIANCHI


Prima Pagina

Il presidente russo Vladimir Putin. Al centro, il presidente turco Recep Tayyip Erdogan. Alle sue spalle, Abdel Fattah al-Sisi, presidente dell’Egitto. In fondo, il primo ministro ungherese Viktor Orbán 10 luglio 2022

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L’Europa al bivio

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uando il premier turco Recep Tayyip Erdogan ha posto il veto all’entrata della Finlandia e della Svezia nella Nato all’indomani dell’invasione russa dell’Ucraina era chiaro a tutti che stava compiendo la mossa d’apertura dell’ennesima partita a scacchi con i leader dell’Unione europea. A Bruxelles è conosciuto come «il ricattatore in capo», uno dei dittatori più abili sullo scacchiere mondiale, che, forte della posizione geografica della Turchia, ponte tra Est e Ovest del continente euroasiatico, e dell’appartenenza alla Nato, da anni tiene sotto scacco l’Europa. È stato Erdogan a insegnare al russo Vladimir Putin e al sodale bielorusso Alexander Lukashenko come ottenere denari e concessioni dai 27, utilizzando i migranti come arma: nel novembre del 2015 ottenne tre miliardi di euro da Bruxelles,

L’ERRORE STRATEGICO DI AVER CONSIDERATO PUTIN UN PARTNER STRATEGICO, CONSENTENDOGLI DI DETENERE LA LEVA ENERGETICA, RISCHIA DI METTERLA IN GINOCCHIO rinnovati nel 2021, in cambio dell’accoglienza dei migranti respinti dalla Grecia, richiedenti asilo inclusi. Un accordo che nemmeno le sue continue violazioni dei diritti umani - migliaia di dissidenti politici, giornalisti e lavoratori delle Ong sbattuti in carcere - hanno potuto scalfire, a dispetto di ogni proclamata superiorità morale della Ue. Non ha sorpreso dunque che, nel plauso generale, il mese scorso Erdogan abbia scambiato il via libera a Svezia e Finlandia con la vita dei dissidenti curdi e dei seguaci dell’ex alleato e predicatore islamico Fethullah Gülen, che nel 2016 aveva tentato un colpo di stato, oltre che con Federica Bianchi la rimozione dell’embargo Giornalista alla vendita di armi alla 22

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Turchia. Non solo. Da esperto ricattatore, all’indomani della firma, quando tutti avevano pensato che la questione fosse chiusa, ha puntualizzato che la ratifica da parte del Parlamento turco (da lui controllato), necessaria per l’entrata in vigore dell’allargamento, come quella di tutti i Parlamenti degli Stati membri della Nato, non verrà mai apposta se prima la Svezia non avrà estradato 73 «terroristi», un numero che non figura sul memorandum appena sottoscritto. Il testo dice solo che Svezia e Finlandia dovranno trattare «le richieste turche di estradizione velocemente e con grande cura, prendendo in considerazione le informazioni e l’intelligence fornita dalla Turchia», in accordo con la convenzione europea sull’estradizione. Ma tant’è. I ricatti di Erdogan a Bruxelles non sono l’eccezione. Da qualche anno l’Unione europea, cercando di cucire l’ennesimo compromesso impossibile, ha finito per rendersi facile preda di una serie di Paesi ricattatori, fuori dai suoi confini come al suo interno, che ne stanno logorando la credibilità sull’adesione ai valori fondanti come lo stato di diritto e i diritti umani, l’autorevolezza nelle negoziazioni internazionali e la coesione tra Stati membri.


Foto: Getty Images, Ipa

Prima Pagina

All’interno della Ue, Polonia e Ungheria da anni usano il voto all’unanimità, richiesto dai Trattati sulle questioni di politica estera e di finanza, come strumento di ricatto per fare passare le loro costanti violazioni dello stato di diritto: bavaglio alla magistratura, chiusura di media indipendenti, persecuzione delle comunità Lgbtq, graduale rimozione dei diritti delle donne e via dicendo. Così la Commissione, in base alla norma inserita nel Recovery plan, che lega gli esborsi in denaro al rispetto dei valori dell’Unione, non ha ancora voluto erogare loro i fondi. Ma la Polonia non si è arresa: ha posto il mese scorso il veto sulla ratifica europea in sede Ocse della tassa minima sulle multinazionali al 15 per cento, peraltro già negoziata e approvata dai 27 lo scorso ottobre, riuscendo a ricattare la Commissione europea nell’approvazione del suo Pnrr, seppure condizionandolo al raggiungimento da parte del governo di alcuni obiettivi che restituiscano alla magistratura una certa indipendenza, come imposto anche dalla recente sentenza della Corte europea. L’Ungheria del premier illiberale Viktor Orban, altro abile ricattatore, ha preso nota. Visto che il suo Recovery plan è ben lontano dal ricevere il via libera,

Il presidente del Consiglio europeo Charles Michel. A sinistra, la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen al Consiglio europeo di Bruxelles

non ha posto anche lei lo stesso veto. In attesa di ricevere un’offerta dalla Commissione. «Con questi comportamenti Ungheria e Polonia minano non solo l’Unione di oggi ma soprattutto quella di domani», dice Antonio Villafranca, direttore degli studi europei presso l’Ispi: l’ingresso auspicato di Paesi eterogenei come l’Ucraina o l’Albania, seppure importante per aumentare il peso geopolitico dell’Europa, è sempre più spesso visto dai leader europei come una possibile occasione per moltiplicare i ricatti. Almeno fino a quando non verrà modificata la “governance” della Ue. La debolezza interna è amplificata oltre confine. Paesi come l’Egitto non si fanno scrupoli a utilizzare il loro ruolo di fornitori d’energia e di garanti della sicurezza dei confini meridionali dell’Europa per farsi perdonare crimini sanguinosi come l’uccisione di Giulio Regeni. Oppure, come nel caso dell’Iran, non esitano a tenere in ostaggio cittadini con doppia nazionalità, minacciandoli della pena di morte se non ottengono concessioni militari e politiche. Ancora una volta la Svezia ha offerto il fianco. Il prossimo 14 luglio un tribunale svedese dovrà decidere della colpevolezza di Hamid Nouri, un burocrate 10 luglio 2022

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L’Europa al bivio una decina d’anni. Un’ingenuità politica, frutto dell’avidità economica, che resterà nei libri di storia europea. Putin lo sapeva bene quando, dopo avere saggiato il terreno con conquiste parziali di territorio in Cecenia, Georgia e Ucraina, ha deciso di lanciarsi alla riconquista dell’intera Ucraina. Contava di riuscire a tenere in scacco l’Europa con la dipendenza da gas e con contratti milionari. E difatti l’Unione si è trovata con le mani legate: per fermarlo ha dovuto non solo farsi del male ma stravolgere il suo modello economico. L’inflazione alle stelle e un inverno che potrebbe essere straordinariamente freddo per una buona parte della popolazione sono non solo le conseguenze del tentativo di fermare l’espansione militare di Putin ma anche i primi effetti di una completa disconnessione dell’economia europea da quella russa, a cui seguirà un rapido riavvicinamento a quella americana, da cui ci eravamo allontanati soprattutto per volontà dell’ex presidente Donald Trump.

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10 luglio 2022

IL MUTAMENTO IMPONE DI RIVEDERE LE DINAMICHE DELL’EXPORT, I RAPPORTI CON L’AFRICA E LE SCELTE DEL NUCLEO TRAINANTE COSTITUITO DA GERMANIA, FRANCIA E ITALIA Il gasdotto del giacimento di gas naturale vicino a Bovanenkovskoye, nella penisola di Yamal, in Russia

«Adesso il vero pericolo è il passaggio di ricatto», dice Carlo Altomonte, professore associato di Politica economica europea. La Commissione europea ha varato “Repower Eu” per ridurre la dipendenza dai fossili russi, accelerare la transizione verde e aumentare la tenuta di tutto il sistema energetico europeo. Ma il piano punta tutto sulle auto elettriche, i pannelli solari, le batterie elettriche, facendo finta che il contesto geopolitico non sia completamente cambiato e che la globalizzazione non sia finita. «Repower Eu non è realizzabile né economicamente, né politicamente», sottolinea Altomonte. Economicamente perché l’Europa non ha ancora messo a punto la produzione degli strumenti di energia rinnovabile e perché le materie prime potrebbero essere insufficienti. «Se dovessimo mettere un pan-

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iraniano arrestato l’anno scorso con l’accusa di avere eseguito l’esecuzione di massa e la tortura di 5mila prigionieri nel 1988, durante la guerra tra Iran e Iraq su ordine dell’Ayatollah Khomeini. In quella data sarà chiara la sorte del ricercatore esperto di medicina dei disastri e assistenza umanitaria Ahmadreza Djalali, docente in varie città europee tra cui Novara, poi arrestato a Teheran nel 2017, accusato di spionaggio in Israele e condannato a morte. «Le autorità iraniane hanno fatto sapere che il suo destino è legato a quello di Nouri, con cui auspicano uno scambio», dice Riccardo Noury, portavoce di Amnesty international Italia. A mettere in evidenza la facile ricattabilità europea ci ha involontariamente pensato la guerra di Vladimir Putin contro l’Ucraina. Dopo avere pensato per anni che l’ex nemico russo, diventato il «dittatore della porta accanto», si fosse convertito al ruolo di partner strategico dell’Europa, avendone abbracciato il sistema economico, Germania e Italia gli avevano affidato la propria fornitura energetica, dimentiche del ruolo che un tale approvvigionamento ricopre nel garantire la sicurezza di una nazione, e noncuranti del riarmo che la Russia aveva intrapreso da



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L’Europa al bivio

DI FRONTE ALL’IMPOSSIBILITÀ DI CONCILIARE GLI INTERESSI ETEROGENEI DI TUTTI I SUOI MEMBRI, POTREBBE NASCERE UNA UE A DUE VELOCITÀ: UNA POLITICA E UNA ECONOMICA zia con i Paesi africani, ormai stanchi del colonialismo cinese», dice Altomonte. Smettendo di pretendere che la domanda e l’offerta continueranno a incrociarsi come prima in questa nuova epoca, caratterizzata da ricatti incrociati sempre crescenti. Nel giro di due anni l’Europa si dovrebbe sganciare completamente dalla dipendenza russa: più difficile sarà farlo da quella cinese. La Germania, locomotiva europea, negli ultimi vent’anni ha ottenuto la metà della propria crescita economica dalle esportazioni in Cina e fa fatica a prenderne le distanze. Ma sarà complicato continuare a contare sul mercato cinese senza mettere in pericolo l’intera autonomia strategica europea, nonché la difesa comune. «Dovrà cominciare a esportare più all’interno dell’Unione, che 26

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La raffineria di terre rare, costruita dal gigante minerario australiano Lynas, vicino a Kuantan, in Malesia

ha la capacità di assorbire la sua offerta, e verso gli Stati Uniti, alzando i salari degli operai tedeschi e creando deficit», dice Altomonte. Cambiando, insomma, il suo modello economico. Esattamente come, in un futuro non troppo distante, potrebbe essere costretta a fare, sul piano istituzionale, l’Unione europea, nell’impossibilità di conciliare gli interessi eterogenei di tutti i suoi membri, nonostante la disponibilità a compromessi sempre più rischiosi. Potrebbe nascere un’Europa a due velocità. Un’Europa a cerchi concentrici. Un’Unione politica e una economica. Comunque la si voglia delineare, la nuova struttura europea potrebbe finire per essere composta da un centro più coeso e integrato politicamente, magari guidato da Francia, Germania e Italia, che insieme rappresentano il 90 per cento della produzione militare e l’80 per cento delle esportazioni, e, contestualmente, da un corpo più ampio, necessario a costruire le economie di scala e a garantire al Continente una solida autonomia economica. La Brexit ha dimostrato che è possibile cambiare tutto. La guerra di Putin rischia Q di costringerci a farlo davvero. ©RIPRODUZIONE RISERVATA

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nello solare su ogni edificio pubblico, come chiede il programma della Commissione, non basterebbe tutto il litio estratto al mondo». E poi politicamente perché l’Unione per produrre sufficiente energia rinnovabile sarebbe costretta a comprare pannelli e batterie dalla Cina, divenendone facile preda di ricatto. Un ricatto che potrebbe alla lunga risultarle letale. Per questo gli Usa hanno cominciato a parlare di “friend-shoring”, ovvero di riportare le produzioni esportate in Cina e in Russia all’interno dei confini degli alleati geopolitici. Un esempio sono le terre rare, i metalli indispensabili delle nuove tecnologie. L’aggettivo «raro» non è dovuto alla scarsa presenza sul Pianeta ma alla loro diluizione nei terreni: servono distese immense per estrarle e l’Europa non ne ha. Per non essere ricattabile dalla Cina, che ha ampio territorio a disposizione e lo sta usando, ma che è sempre più un avversario geopolitico e commerciale, «l’Europa dovrebbe stringere rapporti di amici-



L’analisi

ANNI DI PIOMBO E TEMPO PERSO DI GIGI RIVA

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rrori. Ritardi. Invasioni di campo tra politica e giustizia e viceversa. Complicità segrete. Ipocrisie. Falsità. Viltà. Tutto questo sta racchiuso nella vicenda ultraquarantennale degli ex terroristi italiani rifugiati in Francia e mai, salvo eccezioni, restituiti all’Italia. Una storia che avvelena da troppo tempo i rapporti tra i due Paesi, non ancora chiusa se anche l’ultimo pronunciamento della Chambre de l’Instruction della corte d’Appello, che ha negato l’estradizione per dieci persone, è stato impugnato dalla procura generale davanti alla Cassazione, un ricorso peraltro con scarse possibilità di essere accolto in punta di diritto. Sarebbe l’ora di sgombrare il campo da troppi equivoci partendo, senza sciovinismi, dall’ammissione che sbagli sono stati fatti da entrambe le parti nel corso di questo lungo periodo a cavallo di due millenni. L’origine dei fraintendimenti fu la cosiddetta “dottrina Mitterrand” che, se ebbe un padre nel presidente della République, ebbe almeno uno zio in Bettino Craxi all’epoca presidente del Consiglio. Così, stando alle ricostruzioni di alcuni storici e di testimoni oculari degli incontri tra i due leader socialisti. Era la metà degli anni Ottanta, la stagione del terrorismo rosso stava per concludersi, salvo purtroppo sanguinosi colpi di coda, Craxi voleva evitare seccature con il rientro di personaggi scomodi, e tra questi quello che lo preoccupava di più era il professore padovano Toni Negri, fondatore di Autonomia operaia. Francois Mitterrand dal canto suo non poteva rinnegare la tradizione della Francia come terra d’asilo. E tuttavia nel famoso discorso al Palais des Sports di Rennes del primo febbraio 1985 fissò un paletto. Sarebbero stati esclusi dai benefici coloro che si erano macchiati di reati di sangue. Ed era il caso di diversi «rifugiati» o «latitanti» come venivano definiti a seconda della passione politica. La distinzione niente affatto sottile dell’inquilino dell’Eliseo fu vanificata dalla prassi e per lungo tempo la protezione fu estesa indiscriminatamente a tutti, compresi ex terroristi che erano stati giudicati colpevoli di omicidio. Alcuni fattori contribuirono, in nome del quieto vivere, ad un sostanziale silenzio sull’applicazione di una dottrina pronunciata sì da un capo dello Stato ma che non è stata mai tradotta in una formula giuridica. Salvo alcune timide pressioni di Ciriaco De Mita, il potere esecutivo italiano mai si impegnò davvero perché fossero rispettate le nostre sentenze almeno fino

al cambio del secolo. E le varie procure furono assai timide nell’inoltrare richieste di estradizione spesso lacunose. I tribunali francesi ebbero buon gioco nel respingere le richieste perché spesso le condanne si basavano sulle dichiarazioni di pentiti, cosa allora non ritenuta sufficiente (oggi va diversamente) e perché i processi si erano tenuti in contumacia quando nel codice penale francese si riconosce il diritto alla presenza anche quando ci si è sottratti volontariamente alle udienze. In Francia, inoltre, si diffuse l’idea, propagandata da diversi intellettuali tra cui si distinse Bernard Henry-Levy, che l’Italia aveva adottato per contrastare il terrorismo leggi emergenziali in contrasto con i diritti dell’uomo e che i «rifugiati» erano addirittura dei «perseguitati» da un sistema iniquo. Tanto più perché Oltralpe si erano rifatti una vita, avevano abbandonato la lotta armata e alcuni, come Cesare Battisti, avevano raggiunto un prestigio in ambito culturale come giallista. Il clima mutò dal 2001 in poi con il governo Berlusconi II° coniugato con la presenza a Parigi di un presidente gollista come Jacques Chirac, liberato dalla coabitazione con l’esecutivo di sinistra di Lionel Jospin. Il ministro della Giustizia Roberto Castelli e il suo omologo Dominique Perben riaprirono i dossier, sembrarono mandare in pensione la dottrina Mitterrand (o almeno la sua interpretazione estensiva) concordando la restituzione all’Italia di una quindicina di condannati per la partecipazione ad attentati omicidi. Il 24 agosto 2002, Paolo Persichetti, ex Br, pena di 22 anni di carcere per concorso morale nell’omicidio del generale Licio Giorgieri, venne consegnato alle autorità italiane. Ma il vero banco di prova del nuovo corso fu il caso di Cesare Battisti. Benché il Consiglio di Stato e la Cassazione avessero emesso parere favorevole all’estradizione, l’ex leader dei Proletari armati per il comunismo riuscì a fuggire in Brasile grazie a un passaporto fornito, secondo le sue ammissioni dopo la cattura, dai servizi segreti francesi. Fece scalpore e indignò gli italiani la poderosa campagna a suo favore scatenata da un corposo gruppo di intellettuali capeggiato da Fred Vargas e Daniel Pennac. I quali non solo si erano convinti dell’innocenza di Battisti circa i quattro omicidi per cui era stato condannato (e che lui stesso ammetterà dopo la definitiva cattura in Bolivia) ma rimanevano pervicacemente attaccati all’idea che l’Italia fosse un luogo in cui funzionava una giustizia in stile sudamericano. Se, regnante Sarkozy, l’estradizione della briga-


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Il presidente francese Emmanuel Macron

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tista Marina Petrella fu bloccata per ragioni di salute e forse per l’amicizia dell’ex brigatista con Valeria Bruni Tedeschi, sorella di Carla Bruni la moglie del presidente, non si poteva sperare che con Francois Hollande cambiasse granché se da segretario del partito socialista era, ad esempio, andato in carcere per esprimere solidarietà a Cesare Battisti. Si arriva a Emmanuel Macron e alla necessità di una linea del rigore sul tema del terrorismo dopo gli attentati (jihadisti) che hanno insanguinato la Francia soprattutto dal 2015 in poi e molto caldeggiata dalla sempre più agguerrita opposizione di destra incarnata da Marine Le Pen e, in Italia, da un partito come la Lega di Salvini, entrato stabilmente nella stanza dei bottoni. Un accordo tra i ministri della Giustizia Marta Cartabia ed Eric Dupont-Moretti sfociò il 28 aprile del 2021 nell’operazione “Ombre rosse”. Sette ex terroristi italiani arrestati tre latitanti. Sembrava la chiusura definitiva del cerchio, ma la volontà politica si è infranta contro le ragioni della Chambre d’Instruction che lo scorso 29 giugno ha rigettato le richieste di estradizioni. La fermezza voluta dall’esecutivo arriva, secondo i giudici, fuori tempo massimo e non rispetta gli articoli 6 e 8 della Convenzione europea per la salvaguarda dei diritti dell’uomo, quelli sul «diritto al

rispetto della vita privata e familiare» e sull’ «equo processo», dove per equo processo si devono intendere i tempi rapidi. I processi furono sì celebrati in tempi ragionevoli ma in contumacia, e come in un gioco dell’oca si torna a una delle caselle iniziali. Al di fuori delle questioni leguleie più complicate, vale la pena sottolineare che anche la nostra Carta fondamentale, la Costituzione, sancisce che il carcere deve tendere alla «rieducazione del condannato». Non si vede come questo possa valere a tanta distanza dai fatti per persone ormai anziane e, come nel caso di Giorgio Pietrostefani, condannato come mandante dell’omicidio Calabresi, gravemente ammalate. Più che deprecare la sentenza del giorni scorsi sarebbe dunque opportuno rammaricarsi per il tempo perduto in calcoli tattici e opportunistici che hanno prodotto l’obbrobrio giuridico di vicende giudiziarie lunghe una vita. Resta aperta la questione dei parenti delle vittime, il sempiterno dualismo sofocleo tra legge dello Stato e legge del sangue. Per loro, per i parenti, a questo punto c’è un solo risarcimento possibile: che i condannati chiariscano le loro responsabilità. Una verità largamente postuma ma pur sempre una verità. Q ©RIPRODUZIONE RISERVATA

IL NO FRANCESE ALL’ESTRADIZIONE DEI TERRORISTI ITALIANI È FRUTTO DI SCELTE POLITICHE ONDIVAGHE 10 luglio 2022

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Grandi vecchi

SINISTRA DIFENDI L’UCRAINA COLLOQUIO CON MICHAEL WALZER DI WLODEK GOLDKORN

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Foto: S. Olson - Getty Images, Contrasto

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ssere di sinistra, oggi, significa stare dalla parte dell’Ucraina, battersi per l’uguaglianza e giustizia sociale, e non rinunciare all’ideale del socialismo con l’aggiunta di un aggettivo: liberale, e il riferimento a Carlo Rosselli è esplicito. Schierarsi da una parte non esime tuttavia dal dovere di cogliere la complessità della situazione, che non è dar ragione un po’ a tutti, ma significa assumersi, nel bene e nel male, le contraddizioni di coloro con cui si simpatizza. Michael Walzer, filosofo della politica, animatore della rivista “Dissent” nata sessantotto anni fa negli ambienti di intellettuali socialisti, democratici e anti-stalinisti di New York, professore emerito della School for Advanced Studies di Princeton, a 87 anni è una di quelle persone che potremmo definire “i grandi vecchi”. E con lui abbiamo parlato di cosa sono oggi la sinistra e la guerra in un mondo che sta cambiando pelle. La guerra in Ucraina segna la fine di un universo come l’abbiamo conosciuto? «Sembra un conflitto dell’epoca della guerra fredda, un po’ come quello in Corea o Vietnam. Però gli Stati Uniti questa volta non sono coinvolti direttamente. Comunque, stiamo andando verso un mondo multipolare, e questo più per via della Cina che della Russia». C’è “il nuovo concetto strategico della Nato”, dove la Russia è indicata come nemico. «L’attacco all’Ucraina è la ragione immediata dell’allargamento della Nato e del nuovo concetto strategico. Però, non credo sia stato intelligente identificare minacce e nemici in modo così esplicito. I “nemici” della Nato dovrebbero invece includere qualsiasi Stato che organizzi massacri sul proprio territorio così come qualsiasi Stato Wlodek Goldkorn che attacchi i suoi vicini. La Giornalista Nato dovrebbe essere pron-

FILOSOFO Michael Walzer, 87 anni è professore emerito a Princeton. Filosofo della politica, da sempre impegnato nella sinistra americana, è il principale animatore della rivista “Dissent” di New York A sinistra: Sloviansk, Ucraina, luglio 2022

ta per gli interventi umanitari, per gli sforzi di mantenimento della pace e salvataggio delle persone coinvolte in disastri naturali. Multinazionale e multiuso. Ciò detto, spero che siano ristabilite le regole del diritto e ho simpatia per coloro che hanno voluto fornire le armi agli ucraini». Diamo per scontato che gli ucraini hanno il diritto di difendersi dall’aggressione di Putin e parliamo delle magagne dell’Occidente. L’intervento americano in Iraq finì con le torture ad Abu Ghraib, i curdi sono stati traditi dopo aver combattuto l’Isis, l’Afghanistan è stato abbandonato dagli Usa. Ora c’è l’accordo in base a cui la Turchia ha tolto il veto all’ingresso di Svezia e Finlandia nella Nato in cambio di una promessa di estradizione di curdi considerati da Erdogan terroristi. Altra cosa è ovviamente riconoscere a Turchia un ruolo nell’emergenza del grano o nella possibile mediazione fra Russia e Ucraina. (Walzer allarga le braccia). «Cosa ha ottenuto la Turchia per aver “permesso” a Svezia e Finlandia di entrare nell’Alleanza atlantica non è del tutto chiaro, ma sembra un accordo a spese dei curdi, traditi di nuovo. La Svezia nega di aver accettato di estradare i richiedenti asilo: decideranno i tribunali e possiamo sperare che non rispondano alle richieste turche. Tuttavia, i curdi sono ora con meno risorse e più a rischio rispetto a due settimane fa, e questo non va a merito della Nato». E allora possiamo davvero parlare di regole del diritto occidentali? «Sì, perché questa è la nostra aspirazione. Molto dipende tuttavia da come evolverà l’Unione Europea, se diventerà, rispetto agli Usa, un partner capace di dire non solo sì, ma anche no. C’è molta ipocrisia. Il nostro procuratore generale Merrick Garland - a Kiev - ha ipotizzato mandare a processo al Tribunale internazionale dell’Aja i russi per crimini di guerra. Ma noi americani non abbiamo aderito a quel Tribunale proprio per non correre il rischio che vi fini-

PERCHÉ BISOGNA STARE CON KIEV. COSA È OGGI L’OCCIDENTE. L’ATTUALITÀ DEL SOCIALISMO LIBERALE DI CARLO ROSSELLI. PARLA UN CELEBRE INTELLETTUALE 10 luglio 2022

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scano i nostri militari. Però, attenzione, l’Ucraina non è lo specchio dell’Iraq. Gli iracheni, a differenza degli ucraini, non hanno combattuto contro l’invasore. I curdi e gli sciiti - la maggioranza della popolazione - volevano che gli americani li liberassero da Saddam, e poi se ne andassero via. Erano contro l’occupazione. Io comunque ero contrario a quella guerra». Spetta ai popoli abbattere i propri dittatori. L’impressione è che gli Usa siano un impero privo di cultura imperiale. E per questo spesso creano disastri. (sorride) «È vero. Siamo pessimi come imperialisti. Non impariamo le lingue. La nostra cultura non apprezza le culture altrui, non mandiamo antropologi in giro, come facevano invece i britannici. Non sappiamo neanche far vincere le elezioni ai nostri candidati, come è accaduto in Iraq nel 2005, dove il nostro uomo fu sonoramente sconfitto». Intanto sembra che ci sia pericolo di una guerra civile negli Stati Uniti. «Se si immagina una guerra come quella degli anni Sessanta dell’Ottocento, sbaglia. Ma temo che ci saranno molti episodi di violenza politica in cui verranno sfidate le nostre istituzioni, la polizia e l’esercito. Fra il 2020 e il 2021, i poteri forti dello Stato, sono rimasti fedeli alla Costituzione, così come del resto i cittadini normali. Ed è stata questa postura

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Combattenti del Pkk a Sinjar, nel nord dell’Iraq dopo aver liberato la città dall’occupazione dell’Isis. A destra: la campagna elettorale di Jean-Luc Mélenchon

a salvarci da un regime dittatoriale. Ora invece ho l’impressione che una parte della gente, così come alcuni uomini e donne di potere, hanno perso il senso delle istituzioni. Sono preoccupato per il ruolo delle milizie armate e per i possibili rifiuti di riconoscere gli esiti delle elezioni. Noi, americani non abbiamo una grande storia di non violenza, abbiamo invece una storia di violenza di classe molto più radicale dell’Europa». Cambiamo tema. Cosa significa essere di sinistra? «Rispondo così. Seguendo i procedimenti parlamentari che riguardano il tentato golpe del 6 gennaio, sono rimasto colpito di alcuni repubblicani, persone di destra, che hanno avuto il coraggio di dire no a Trump. La prima cosa di sinistra nel mio Paese è dire: appoggio questa gente. Sono avversari ma difendono la Costituzione e dobbiamo riconoscere la loro onestà. Ma l’impegno fondamentale della sinistra è la lotta per l’uguaglianza o comunque per una maggiore uguaglianza. In Occidente, i laburisti e i socialdemocratici hanno accettato il discorso liberista e così hanno finito per aiutare a creare le disuguaglianze sempre più crescenti. Hanno abbandonato la classe operaia, che contrariamente a quanto si dica, esiste. Così, negli States, molti operai, perfino sindacalizzati, hanno votato Trump. La si-


Foto: A. Martins - For The Washington Post via Getty Images, P. Guyot - AFP via Getty Images

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nistra deve tornare alle sue origini sociali. Lo vediamo in Cile e in Colombia dove sta vincendo una sinistra democratica non più populista. La differenza? Il populismo redistribuiva le risorse fra i più poveri ma non faceva nulla per costruire un’economia sostenibile. Finiti i soldi si è ricorso alla repressione. Ma la gente finalmente ha capito che ci voleva un’alternativa sia a una destra aggressiva sia a una sinistra populista». In Francia Jean-Luc Mélenchon ha federato le sinistre. «Ha costruito un programma basato su questioni di politica interna, e che io penso sia giusto per la sinistra. Lui sembra un performer, un uomo non proprio impegnato a governare il Paese. Però potrebbe riportare la sinistra nel cuore della politica francese, o forse lo ha già fatto. Non sono contento di alcune sue dichiarazioni riguardanti Israele e ebrei». Cosa è l’Occidente? «È l’eredità dell’epoca dei Lumi, con tutte le sue contraddizioni. Ho scritto un libro

sull’aggettivo “liberale”. Comincia con i fratelli Rosselli e il socialismo liberale e parla pure di nazionalismo liberale. Ecco, quell’aggettivo è un’invenzione occidentale. Significa che il potere della maggioranza è limitato dal rispetto dei diritti umani e delle libertà civili. Per quanto riguarda il socialismo, l’egualitarismo estremo e le ideologie avanguardistiche (sta parlando del bolscevismo e i suoi eredi, ndr) sono limitati dai valori democratici. La politica in Occidente non può fare a meno dell’aggettivo liberale. E la sinistra non può fare a meno del socialismo liberale. Carlo Rosselli, appunto». Sinistra è anche solidarietà e empatia. «Ovvio». E allora, torniamo al nostro punto di partenza, l’Ucraina. Perché una parte della sinistra non riesce a essere empatica e solidale? «Perché coltiva persistenti fantasie riguardanti l’Urss e il comunismo. Detto questo, certo, c’è il problema dell’ultranazionalismo ucraino del passato e il più recente fenomeno di corruzione. Voglio essere chiaro. Noi, la sinistra democratica, storicamente, abbiamo appoggiato l’Fln in Algeria anche se avevamo riserve rispetto ad alcune loro idee e prassi. E lo stesso valeva per la Repubblica spagnola, anche se non ci piacevano coloro che facevano stragi di preti e stupravano le suore». E neanche ci piacevano le pratiche repressive degli stalinisti in Spagna. «Certo. Oggi abbiamo qualche problema con l’elaborazione della memoria e della storia in Ucraina». Intende immagino, storie di antisemitismo e di collaborazionismo ai tempi della seconda guerra mondiale. «Il 73 per cento degli ucraini ha votato per un presidente di origini ebraiche. Quindi l’antisemitismo non è un discorso di stretta attualità ma riguarda i conti con la storia e memoria». Indispensabili. Ma che si possono fare solo in condizioni di relativa sicurezza e libertà. E comunque i giovani delle

SPETTA ALLA POPOLAZIONE UCRAINA DECIDERE SUL PROPRIO FUTURO. NON POSSIAMO AVERE LA PRETESA DI STABILIRE NOI COSA È MEGLIO PER LORO 10 luglio 2022

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Washington, 6 gennaio 2021. L’assalto a Capitol Hill

so se è in grado di mobilitare l’opinione pubblica del Paese dominante. I britannici hanno usato violenza contro Ghandi e i suoi seguaci, ma poi non erano più in grado di farlo, causa la loro opinione pubblica. Non mi sembra che i russi abbiano un’opinione pubblica simile e che il potere a Mosca sarebbe disposto a tollerarla anziché reprimerla». E con la Cina che facciamo? «Dobbiamo essere idealisti e al contempo realisti. Dobbiamo sostenere coloro che lottano per i diritti umani e al contempo avere diplomatici che parlino coi cinesi dell’ambiente e del nucleare». Il cambiamento climatico in un mondo multipolare... «La lotta concreta deve essere locale, in ogni nazione, Stato, Paese. Se le vinciamo, può esserci una cooperazione, ma solo dopo tante vittorie intorno ai temi locali. La salvezza globale come punto di partenza è un’utopia. Ma forse questo è un tema per un altro colloquio». Q © RIPRODUZIONE RISERVATA

L’IMPEGNO FONDAMENTALE DELL SINISTRA È CONTRO LE DISUGUAGLIANZE. E INVECE HA ABBANDONATO GLI OPERAI, CHE ESITONO ANCORA. E CHE VOTANO A DESTRA 34

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Foto: S. Corum/Getty Images

città vogliono vivere come a Berlino o Parigi. «Vorrei fare due considerazioni. La prima: Zelensky da candidato presidente era a favore dei diritti della lingua russa e lui stesso oltre a essere ebreo è russofono, fa parte di ben due minoranze, quindi. E molti fra coloro che erano contro di lui ora lo appoggiano. La situazione è complessa e sorprendente. La seconda: dal momento che difendiamo l’indipendenza dell’Ucraina, da donne e uomini di sinistra possiamo dire che sosteniamo certi ucraini contro altri all’interno di una dialettica politica democratica. E comunque nessuna decisione riguardante il Paese può essere presa contro la volontà degli ucraini. Sono loro, non noi a stabilire ciò che è giusto per loro». Come risponde a chi consiglia la disubbidienza civile e esclude il ricorso alle armi? «Sono un convinto sostenitore dei metodi di resistenza civile e di lotta non violenta nelle democrazie. Per quanto riguarda i conflitti internazionali invece, la non violenza ha sen-

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Lorem et ipsorum

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Guerra in Ucraina / Bombe sui civili

ANATOMIA DI UN LE PROVE CHE SMENTISCONO IL CREMLINO. L’ATTACCO AL MALL ERA MIRATO. VENTI CORPI RECUPERATI INSIEME AI RESTI DI ALTRE VENTI VITTIME DI LORENZO TONDO DA KREMENCHUK FOTO DI ALESSIO MAMO

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entre un bombardiere russo decollava da una base militare di Kursk, al confine con l’Ucraina, a circa 500 chilometri di distanza Yevhenia Semyonova, commessa in un negozio di articoli sportivi al centro commerciale di Kremenchuk, salutava quello che sarebbe stato il suo ultimo cliente. E quando, pochi minuti dopo, il pilota russo lancerà dal suo velivolo un missile supersonico lungo 11 metri, Yevhenia fu presa da un sussulto, mentre dagli altoparlanti il suono di un allarme aereo si diffondeva nel grande magazzino. La donna non sa ancora oggi spiegare il motivo che quel giorno spinse lei e decine di altre persone ad uscire dall’edificio e cercare un rifugio sicuro. In una zona di guerra, ci si fa il


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MASSACRO callo agli allarmi aerei. A Kremenchuk, fino a quel momento risparmiata dalle bombe, le sirene erano diventate una routine al punto che fatalmente, anche quel giorno, al centro commerciale decine di clienti e dipendenti scelsero di ignorare del tutto, come tante altre volte, quell’appello urgente a nascondersi in luoghi più sicuri. Il resto è la cronaca di una discesa agli inferi. Lo scorso 27 giugno, alle ore 15.52, un missile X-22, lanciato dal bombardiere ad una velocità superiore a quella del suono, si abbatterà con il suo carico di fuoco e morte sul grande magazzino di Kremenchuk, nell’Ucraina centrale, riducendo l’edificio a un cumulo di macerie in fiamme. Le vittime ad oggi sono una ventina. Ma all’appello mancano un numero imprecisato di persone. Ciò che resterà dei loro corpi ridotti a brandelli dall’impatto

Le squadre di soccorso scavano per cercare i sopravvissuti intrappolati sotto le macerie del centro commerciale di Kremenchuk centrato da un missile russo

del missile, schiacciati dalle lamiere roventi e infine carbonizzati, verrà recuperato dai soccorritori, pezzo dopo pezzo, nel tentativo di identificarli. Eppure, nonostante la nitida flagranza di questo ennesimo massacro russo perpetrato contro i civili in Ucraina, Mosca ancora una volta ha negato ogni responsabilità dell’attacco, arrivando addirittura a sostenere, con la consueta insolenza, che il grande magazzino fosse addirittura dismesso da un pezzo e che l’incendio che l’ha colpito sarebbe stato causato dall’effetto secondario dell’esplosione di un deposito di armi occidentali, poco distante da lì, centrato da un loro missile. Le testimonianze di prima mano dei sopravvissuti raccolte da L’Espresso e le analisi di esperti militari, incrociate con le prove raccolte dagli investigatori, dimostrano come, ancora una volta, com’era già accaduto a Kyiv e a Kramatorsk, con il tragico attacco alla stazione ferroviaria, la morte di decine di persone, sia il risultato di un errore dell’intelligence russa, se non di una deliberata strategia di colpire i civili. Igor Konashenkov, portavoce del ministero della Difesa russo, ha affermato che i suoi militari avrebbero lanciato un «attacco aereo con missili di alta precisione su alcuni hangar dove erano immagazzinati armamenti e muLorenzo Tondo nizioni provenienti dall’OcGiornalista cidente», e che l’esplosione di quei depositi di armi avrebbe causato un incendio nel vicino centro commerciale, che, aggiunge Konashenkov, sarebbe stato chiuso al pubblico da un pezzo, e quindi al suo interno non c’erano né clienti né dipendenti. Con questa affermazione, ribadita dal ministro degli Esteri russo e dallo stesso presidente Vladimir Putin, il Cremlino, dunque, indica almeno tre circostanze che assolverebbero la Russia e i loro militari dalle accuse mosse da Kiev: che l’esercito ucraino nascondesse armi nelle vicinanze, che l’esplosione del mall non sarebbe stata causata da un attacco missilistico diretto e che il centro commerciale fosse chiuso al pubblico. Le registrazioni video delle telecamere a circuito chiuso mostrano che in realtà i russi hanno lanciato due missili e che il primo dei due ha colpito il centro commerciale e il secondo, poco dopo, i capannoni di 10 luglio 2022

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Guerra in Ucraina / B ombe sui civili un’azienda. Davanti all’ipermercato, la polizia ucraina ha allestito un tavolo con i frammenti contorti di un missile trovato all’interno. Si tratta, appunto, del potente missile da crociera russo X-22, lanciato da un bombardiere Tu-22M. Le immagini satellitari mostrano come i capannoni dell’azienda e il fantomatico deposito di armi occidentali, si trovino a 500 metri dal centro commerciale. Secondo esperti militari indipendenti e ricercatori del Molfar, un’associazione che mette insieme esperti d’armi e ricercatori, anche se volessimo sposare la versione dei russi secondo la quale il centro commerciale non sarebbe stato colpito da alcun missile, l’esplosione dei capannoni, non avrebbe potuto provocare un incendio abbastanza forte da raggiungere un altro edificio così distante. Percorrendo i 500 metri che separano la fabbrica dal centro commerciale, non si notano danni ad edifici o a strade, un elemento che esclude che il fuoco si sia propagato da un punto all’altro. Decine di lavoratori sopravvissuti all’esplosione, così come numerosi testimoni che vivevano nelle vicinanze, hanno confermato a L’Espresso che il centro commerciale era aperto al pubblico e affollato, come sempre. All’interno dell’edificio, dopo l’esplosione, erano ancora presenti i prodotti alimentari esposti sugli scaffali del supermercato. Durante le operazioni di soccorso, oltre ai 20 corpi estratti dalle macerie, la polizia ha recuperato decine di badge di dipendenti e repertato almeno altri 20 frammenti di corpi carbonizzati. «Dovremo effettuare numerosi test del Dna per identificarli», ha detto Mykola Lukash, procuratore distrettuale di Kremenchuk: «Quello che ci preoccupa sono le 21 segnalazioni di persone scomparse presentate dalla gente del posto alla ricerca dei propri cari che non sono più tornati a casa». «Ho lasciato l’edificio due minuti prima dell’esplosione», racconta Semyonova, confermando che il centro commerciale fosse aperto al pubblico: «I miei colleghi che lavorano in negozi più grandi, come ad esempio il supermercato, hanno dovuto aspettare che i clienti uscissero prima di mettersi in salvo. Io e i miei colleghi siamo stati fortunati perché l’ultimo cliente era andato via dal nostro negozio poco prima dell’allarme. All’inizio della guerra, tutti gli uffici e i negozi avevano interrotto la loro attività durante gli allarmi aerei», continua Semyonova: «Ma ad un cer-

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L’OBIETTIVO NON ERA LA FABBRICA VICINA CHE NON CONTENEVA ARMI MA MACCHINE PER L’EDILIZIA. IL MISSILE HA CENTRATO L’IPERMERCATO to punto la gente si è abituata e ha iniziato a ignorare le sirene. Purtroppo è quello che è successo anche quel giorno. Molte persone che conosco e alcuni amici sono ancora scomparsi». L’Espresso ha ottenuto un messaggio, presumibilmente inviato dalla direzione del centro commerciale lo scorso 23 giugno, in cui i manager esortavano i dipendenti a non lasciare i negozi durante un allarme aereo. «A partire da oggi questo centro commerciale non interromperà le due attività durante gli allarmi aerei. Il centro commerciale è in funziona dalle 8 alle 21», si legge nell’sms. E almeno cinque dipendenti hanno confermato di aver ricevuto la comunicazione sui propri cellulari. Ma c’è di più. Quando sui social hanno iniziato a girare le smentite del Cremlino sulla responsabilità dell’attacco, numerosi residenti hanno rac-


Prima Pagina

colto scontrini e ricevute fiscali di acquisti effettuati al centro commerciale, condividendoli sui propri canali per dimostrare che l’edificio fosse aperto al pubblico. Per quanto riguarda il presunto deposito di armi, ovvero i magazzini vicini, sono della fabbrica KredMash, Kremenchuk road machinery. Si tratta di un’azienda produttrice di attrezzature per la manutenzione delle strade o per la riparazione di veicoli utilizzati dai lavoratori edili. I video aziendali pubblicati su YouTube da imprese edili specializzate mostrano in effetti la presenza di gru e altre attrezzature nella fabbrica che corroborano la versione delle autorità ucraine. Secondo alcune testimonianze raccolte da L’Espresso, l’impianto era stato temporaneamente chiuso a causa della guerra. Era sorvegliato quotidianamente da

I FIORI Volodymyr Vasylenko lascia dei fiori sul luogo della strage. In alto, a sinistra, i vigili del fuoco stremati dopo ore di lavoro per domare l’incendio. A destra, uno dei reparti del centro commerciale sventrato dal missile e andato poi a fuoco

un custode che aveva terminato il suo turno alle 14, due ore prima che Kremenchuk si trasformasse in un inferno. Il giorno dopo l’attacco al centro commerciale era ancora possibile osservare piccoli pennacchi di fumo nero che si alzavano dalle rovine. Ci sono voluti 130 vigili del fuoco e quasi 5 ore di lavoro per domare le fiamme. Decine di parenti delle vittime, osservavano in cupo silenzio mentre una gru rimuoveva i pezzi metallici contorti del tetto crollato. Guardavano la scena in lacrime, mentre i soccorritori continuavano ad estrarre i corpi dei loro cari devastati dalle fiamme. Sul luogo della strage, c’era anche Volodymyr Vasylenko, 61 anni, nato e cresciuto a Kremenchuk. Non aveva parenti lì e conosceva a malapena alcuni dipendenti. Ma ci teneva a lasciare tra le macerie un mazzo di fiori. «Non so cosa abbiamo fatto per meritarci questo», dice Vasylenko: «Vogliono che viviamo nella paura. Ma non dobbiamo avere paura. Forse questo era il piano di Dio, cosicché potessimo finalmente ottenere le armi di cui abbiamo bisogno. Nel frattempo, non possiamo fare altro che continuare a vivere e a fare quello che ognuno di noi può fare. Io, ad esempio, davanti a tutto questo, non posso fare altro che pregare affinché Q non accada mai più». © RIPRODUZIONE RISERVATA

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Graphic novel

Settimane 14, 15 e 16

È

La scrittrice e illustratrice Nora Krug. Nata in Germania, a Karlsruhe, vive da anni a New York. In Italia ha pubblicato “Heimat” (Einaudi). Di recente ha illustrato “On Tyranny”, saggio di Timothy Snyder L’Espresso sta pubblicando “Diaries of War”, diario illustrato della guerra, in contemporanea con altre testate internazionali e in esclusiva per l’Italia

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estate. «Ma ho il diritto di assaporarne l’atmosfera?». K. è russo, osserva la guerra da fuori. Artista di San Pietroburgo, all’indomani dell’invasione dell’Ucraina ha ammesso a se stesso ciò che già sapeva ma continuava ad ignorare: di non poter più vivere in un Paese aggressore e liberticida. Come molti russi in totale disaccordo con la guerra, ma impossibilitati a esprimere apertamente il loro dissenso, si è temporaneamente separato dalla famiglia, è partito alla ricerca di un luogo dove trasferirla, e l’ha trovato in Lettonia. Ora è tornato a casa, a preparare i documenti. Ma nel frattempo il senso di colpa, sindrome di ogni sopravvissuto, è uscito allo scoperto: è estate, ma posso davvero goderne? K. è uno dei protagonisti di “Diaries of war”, graphic novel che l’illustratrice Nora Krug ha cominciato a realizzare sin dalle prime settimane di guerra, mettendo a confronto, attraverso interviste, due testimoni del conflitto, e traducendo la loro esperienza in immagini: da una parte un cittadino russo, dall’altra una giornalista ucraina. Il risultato è un reportage dalla vita quotidiana, e parallela, di due persone comuni, stravolte dal conflitto. Un work in progress che L’Espresso sta pubblicando in esclusiva per l’Italia, dal 24 aprile, insieme con altre testate internazionali come Los Angeles Times e De Volkskrant. Avevamo interrotto il racconto alla tredicesima settimana, con il ricongiungimento di K., la giornalista di Kiev, con i figli: la prima reazione all’invasione russa era

stata quella di trasferirli con la nonna in Danimarca. Festeggiato il compleanno del bambino più piccolo, la donna è tornata in Ucraina, progettando di riunire presto la famiglia da qualche parte in Europa. C’è voglia di normalità, in questa guerra lunga ed estenuante: di riprendersi la propria vita, il proprio lavoro, i propri affetti. E ci si interroga tanto, da una parte e dall’altra. K. riflette con la madre sul significato di identità culturale: l’anziana donna è un’ebrea russa ma si è sempre considerata ucraina, originaria da una famiglia che si definiva “cosacca” e non russa. E anche quando si è risposata in Crimea, e ha fatto crescere la figlia in Russia fino ai 13 anni, nulla è cambiato: entrambe si sono sempre sentite ucraine. D., dalla parte opposta della guerra, vive la stessa complicata geometria di un’identità improvvisamente messa alla prova: ha antenati siberiani ed ebrei. È nato in Unione Sovietica, ma è cresciuto in Russia. È contrario alla guerra, e dunque è un traditore agli occhi delle autorità. Ma per gli stranieri è russo, e questo basta a considerarlo cittadino del Paese responsabile della guerra. Il conflitto è questo: dolore, sangue, perdite, distruzione, l’incalzare di nuove urgenze. Ma anche un permanente senso di fragilità, che mette in discussione tutto: valori, patria, appartenenza, diritti, legami. Quello che ci rende Sabina Minardi le persone che siamo. Giornalista

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Foto: Nina Subin

di Sabina Minardi





Politica e finanza

Giorgia Meloni, leader di Fratelli d’Italia

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Prima Pagina

BANCHIERI E FONDI ALLA CORTE DI

GIORGIA IN VISTA DELLE ELEZIONI È INIZIATO IL PELLEGRINAGGIO. PER CAPIRE LE INTENZIONI DELLA LEADER DELLA DESTRA SU EURO, MERCATO, ALLEANZE. ECCO CHI SONO E CON CHI PARLANO DI CARLO TECCE

Foto: FotoA3, Shutterstock

A

mber, Artemis, BlackRock, Brevan Howard, Bridgewater, Caxton, Centerbridge, Cerberus, Citigroup, Clearance, Cvc Capital, Elliott, Fidelity, Goldman Sachs, Hengistbury, Highbridge, Jp Morgan am, King Street, Morgan Stanley, Oceanwood, Pictet am, Threadneedle. Nomi che dicono poco o non dicono molto e però sono icastici, suggestivi, influenti. Banche d’affari, gestori di risparmi, fondi di investimento, sostenibili, speculativi. Volgarmente “hedge fund”. La finanza mondiale ha già intrapreso la sua consueta escursione nella politica italiana. Incontri cordiali. Colloqui noiosi. A volte interrogatori un po’ rozzi. E migliaia di pagine di dotte analisi spesso invecchiate male. Accade alla vigilia di ogni voto. Con maggiore apprensione da quando i partiti sono più

fragili e perciò ineffabili. Oggi ci si accalca per Fratelli d’Italia (Fdi) di Giorgia Meloni, che per i sondaggi nel prossimo Parlamento avrà la guida del centrodestra. Più di un quinto o addirittura un quarto degli eletti. Un posto su quattro. A Roma in via Nazionale al civico 54, non distante da palazzo Koch dove ha sede Bankitalia, da mesi c’è un chiassoso pellegrinaggio negli uffici di Guido Crosetto che lì esercita la sua funzione di lobbista per l’industria bellica e dunque di presidente di Aiad, la federazione che unisce le aziende di Aerospazio e Difesa. Con la maiuscola. Il fondatore di Fdi ha lasciato la Camera, il partito e per esteso la politiCarlo Tecce ca da anni, ma i successi Giornalista di Meloni sono i suoi e 10 luglio 2022

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Politica e finanza le ambizioni di Meloni sono le sue. Fdi è il suo caccia bombardiere migliore. Il più efficace. Crosetto è un tipo affabile, non si sottrae, piuttosto si infervora. Allora succede che quando riceve fondi e banche per Aiad, è capitato di recente con BlackRock, Citigroup, Cvc Capital, Goldman Sachs, si sottopone volentieri agli esami su Fdi. Le domande sono dritte, forse ingenue, di sicuro ricorrenti. Fdi vuole picconare l’Unione Europea? Fdi vuole aumentare la spesa pubblica? Fdi vuole rivedere il corredo storico di alleanze? Fdi vuole limitare il libero mercato? Temi che si possono declinare con solennità da accademia o con leggerezza da pizzeria, ma comunque irrisolti per Fdi, sfuggenti, non limpidi, decisivi. Le ambizioni di governo passano da qui. Non è sufficiente la maggioranza assoluta nelle urne, e non c’è bisogno di stupirsi o di denunciare golpe bianchi, per accedere a Palazzo Chigi. È il classico pro-

cesso naturale che porta un cartello elettorale, un agglomerato di malcontenti e di speranze, di omissioni e di propaganda, nel vestibolo delle istituzioni. Tant’è che Meloni, consapevole, per l’autunno ha pianificato - anche i verbi richiedono un salto di qualità - una serie di appuntamenti con la finanza internazionale con tappe a Milano, Londra, New York e Francoforte. «Yo soy Giorgia, soy una mujer» non fatica a infiammare le piazze dei neofranchisti spagnoli di Vox, e lo sa, ma dovrà faticare per rassicurare le piazze del capitalismo occidentale. Crosetto giura che non tornerà indietro. Ci si può sempre correggere con Fdi in un governo di coalizione. Il civico 54 di via Nazionale a Roma va tenuto in grande e grave considerazione. Fdi non va oltre la coppia Meloni-Crosetto, vantaggio e limite. Chi ha interessi in Italia si sbraccia per discutere con loro, in rare occasioni con Lucio Malan, senatore ex di Forza Italia, con Adolfo Urso, presi-

DRAGHI E CONTE LA STESSA MUSICA DA QUI ALLE ELEZIONI

Il presidente del Consiglio Mario Draghi e il leader dei Cinque Stelle Giuseppe Conte

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Una volta alle feste di paese la banda musicale era sempre scortata da un “masto” (un organizzatore) con l’udito sensibile e lo sguardo aguzzo. Era suo compito scovare, redarguire e semmai denunciare il ragazzo che, nascosto fra attempati e presunti allievi del maestro Mascagni, era lì a fingere di suonare, a far numero, a far chiasso, un tipo Sganarello, comico, stralunato. Costui era una “imbottitura”. Qualcosa che riempie il vuoto, che non serve però è utile, che non guasta però è buffa. Il colloquio chiarificatore che non chiarisce fra Giuseppe Conte e Mario Draghi, che si è tenuto mercoledì mattina a Palazzo Chigi, è un perfetto esemplare di “imbottitura”. In politica è una tecnica che si adopera parecchio, soprattutto in quel periodo inquieto, più o meno un anno, che porta alle elezioni. Al solito trafelato e circondato da una muraglia di cronisti con


Prima Pagina

CONSIGLIERI Luigi Buttiglione. A fianco: Francesco Lollobrigida. Nell’altra pagina: Guido Crosetto

i microfoni a lunga gittata, esitante, «che faccio mi fermo e parlo o vado e taccio e dopo parlo?», Conte ha inondato i taccuini con una serie di annunci, premesse, rivelazioni, avvertimenti, rassicurazioni. S’è detto preoccupato per le famiglie e per le imprese, ha chiesto una moratoria per le cartelle esattoriali, anzi una agevolazione si è corretto, il taglio del cuneo fiscale che è un tormentone da quando Madonna, la cantante, era alle elementari, ha citato sdegnato il bonus bollette, s’è fatto torvo per difendere il suo bonus edilizio, ogni bonus è bello a mamma sua, ha scandito, per dar modo di prendere appunti, che ogni tema è ben riassunto in un documento ufficiale che ha consegnato nelle salde mani del presidente del Consiglio. Ah un’ultima precisazione. E comunque quel che resta dei Cinque Stelle, ha aggiunto con scarsa convinzione, non lascia il governo, poi ha sospirato che sul decreto cosiddetto “aiuti” - dovrebbe aiutare i cittadini, aiuta molto anche la politica a dibattere - si vedrà nelle prossime ore. Con una “imbottitura” così gigantesca, un materiale sterminato di argomenti, aneddoti, retroscena, proiezioni, schieramenti, grafici, tabelle, interviste, chi la politica la pratica e chi la politica la racconta, capite, ci sfangano due settimane. Almeno. Nello stesso giorno di Draghi e Conte, da Milano sono giunti rinforzi. Il sindaco Beppe Sala ha incontrato, a casa sua, in senso letterale, nel quartiere Brera, il ministro Luigi Di Maio per confrontarsi sui rispettivi programmi politici. I sondaggisti hanno già pesato e ripesato il movimento politico di Di Maio

dente del Copasir, il comitato che vigila sugli apparati di sicurezza, con Francesco Lollobrigida, capogruppo alla Camera nonché cognato di Giorgia. Riferimenti classici, scontati, quasi banali. A proposito di sigle e nomi, va appuntato un nuovo nome, mai scivolato nei programmi televisivi, nemmeno nei tafferugli che si usano per mendicare ascolti, ben protetto dai retroscena, sconosciuto ai parlamentari in carica o aspiranti. Eppure è il più evocato, sussurrato, chiacchierato dai signori di banche e fondi: sarebbe il punto di contatto tra la finanza europea e il partito di Meloni. Il suo nome è Luigi Buttiglione, sessant’anni compiuti a maggio, di origini pugliesi, lontano parente di Angela e Rocco. Buttiglione è un economista di robuste referenze. Negli anni ’80 entrò per concorso al servizio studi di Bankitalia. Per i governatori Carlo Azeglio Ciampi e poi Antonio Fazio si occupò delle pratiche per l’adesione al

prima che il medesimo Di Maio ne dichiarasse il nome, pare che oscilli tra il 2 e il 3 per cento, hanno declamato, i sondaggisti, con l’aria stravolta di chi ha appena concluso un esperimento di chimica nucleare. E poi il ministro Giancarlo Giorgetti, per riassumere soltanto lo scorso mercoledì, ha visto a colazione il segretario Matteo Salvini per celebrare il giorno della concordia nella Lega che precede quello della discordia che anticipa quell’altro della concordia. E infine la stella Damiano Tommasi, il “campo largo” che sembra una casella del Monopoli, il centro che pende di qua, la sinistra che guarda a destra, la destra al sapore di sinistra, le riunioni di corrente, i ritiri spirituali. Più che una banda con una o due “imbottiture”, oggi la politica è una banda di “imbottiture” e uno o due musicisti. Viene facile asserire, e non deve essere fatto, ovvio, che Draghi sia un musicista di inopinabile competenza e sicura applicazione, ma pure Draghi deve partecipare nel mentre governa. In solitudine non si governa. Non basta un assolo. L’elenco diventa sempre più complesso: la pandemia, l’inflazione, la guerra in Ucraina, il costo della vita, il costo del denaro, il costo dell’indolenza, non intervenire sul clima, sui rifiuti, sulle tasse. Troppe le cose da fare e poca la voglia di suonare alla vigilia di un voto che schiude una nuova stagione politica e che spaventa chi è destinato a non governare e chi potrebbe governare. Bisogna essere all’altezza del momento. Le “imbottiture” non lo sono. C.T. © RIPRODUZIONE RISERVATA

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Prima Pagina sistema euro. Con i suoi dubbi: la moneta renderà i forti più forti e i deboli più deboli se non incrementano le condivisioni di mercato e di politiche. Non ci sono ideali, semmai idee. Per qualche mese il suo vicino di stanza fu Mario Draghi, di ritorno dalla Banca mondiale e prima di cominciare il decennio di direttore generale al ministero del Tesoro. Dopo l’avvento della moneta unica e l’incarico nel comitato previsione della Banca centrale europea, Buttiglione ha rinunciato a Bankitalia e ha iniziato una seconda carriera nel settore privato: rapido transito in Deutsche Bank, capo economista di Barclays, responsabile delle strategie globali di Brevan Howard. Quest’ultimo è il fondo speculativo di Alan Howard, miliardario britannico che ha appena sposato la giovane chef Caroline Byron sul lago di Como requisendo per un mese villa Olmo con un obolo di 1,3 milioni di euro per il Municipio. Alla festa ha

TRA I PIÙ INTERPELLATI GUIDO CROSETTO. MA L’UOMO CHIAVE È LUIGI BUTTIGLIONE, EX BANCA D’ITALIA E ORA FINANZIERE IN PROPRIO A LUGANO cantato Lady Gaga. Qualche tempo fa, però, Buttiglione si è messo in proprio con la Lb Macro, si è trasferito da Londra a Lugano, fa il consulente di svariate società, interviene alle conferenze sull’Europa, scrive libri con i colleghi di fama internazionale, Lucrezia Reichlin, Vincent Reinhart, Philip R. Lane. Può bastare. E che c’entra uno stimato economista che vive all’estero e non vota dal ’94 con un partito a volto unico non ancora sviluppato e additato di nostalgie fasciste? Qui si nasconde e chissà si compie la versione istituzionale di Fdi. «Yo soy Giorgia» vuole gente che non fa dubitare, che non spaventa, che alza il livello. L’ha sperimentato già nel rapporto col premier Draghi e i suoi collaboratori. Fdi è un partito di opposizione, ma è più disciplinato di Cinque Stel48

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Adolfo Urso, presidente del Copasir

le e Lega e già predisposto a sacrifici istituzionali vissuti in rispettoso silenzio (come quando si astiene sulle risoluzioni agli interventi di Draghi). Per esempio Fabio Panetta, membro del comitato esecutivo della Banca centrale europea e con una carriera ai vertici di Bankitalia, quasi coetaneo e ben conosciuto da Buttiglione, è un economista che per Fdi può funzionare ovunque nel suo governo e quindi può ambire alla successione di Ignazio Visco a palazzo Koch. Questo significa, per parafrasare Crosetto, che Fdi vuole governare con la Bce e non contro la Bce. Buttiglione risponde dalla sua villa che si staglia sul monte Brè e s’affaccia sul lago di Lugano in un tripudio di colori e di confini italosvizzeri che si intersecano: «Io mi ritengo un economista di una destra laica, evoluta, capace di muoversi nelle istituzioni. Ho ricevuto molto dal mio Paese e - spiega all’Espresso - sono pronto a restituire col mio impegno, se serve. A patto che avvenga tramite l’investitura dei cittadini, le votazioni. I membri di governo o i dirigenti di partito non eletti possono essere una eccezione, ma non devono essere una comoda regola. Altrimenti per me sarebbe uno spreco di energie. O peggio: un inaccettabile conflitto permanente. Chi si avvicina alla politica o alle istituzioni deve interrompere le sue attività». Questo per ricacciare l’etichetta di “Davide Serra” di Fdi. Il finanziere di Algebris fu un renziano di spicco nella City e generoso donatore, peraltro non ha smesso, però non fu coinvolto mai nel partito o nel governo. Così si rischia di avanzare troppo velocemente. E di inciampare. La prima volta Buttiglione ha incrociato Meloni qualche anno fa e ne ha apprezzato l’umiltà. Non ha frequentazioni speciali con Fratelli d’Italia, ma per le banche e i fondi, soprattutto le banche tedesche, è indicato come un protagonista del partito e di un suo eventuale governo. Panetta, Buttiglione o anche l’ex ministro Domenico Siniscalco, che conserva degli affezionati nel centrodestra, sono sintomi di un approccio imprevisto di Meloni: sancire una credibilità di partito prendendo in prestito quella altrui. Non è detto che ci riesca. E che ottenga prestiti a lunga scadenza. C’è un solo modo per farlo: promettere. Q © RIPRODUZIONE RISERVATA

Foto: Augusto Casasoli / FotoA3; pag: 46-47: FotoA3 (3), Getty Images

Politica e finanza




Prima Pagina

Il commento di BRUNO MANFELLOTTO

Il nome del partito Etichetta su un grande vuoto

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iamo tutti in trepida attesa che Luigi Di Maio confermi il nome della nuova creatura nata dalla scissione dal Movimento Cinque Stelle. Non per altro, ma “nomen omen” ci hanno insegnato i latini, cioè ogni nome nasconde un presagio, un destino, insomma la scelta ci aiuterebbe a capire che cosa intendano fare, dove vogliano andare lui e i suoi 61 seguaci. Altrettanto irrequieti ci sentiamo sapendo che anche Giovanni Toti cerca un nome per un’alleanza, che naturalmente vorrebbe essere larga e di centro, magari proprio con Di Maio, ma di cui per ora non si vede traccia. Solo indizi. Nell’annunciare l’addio - con volto teso e distillando veleno - il capo della Farnesina fece sapere per esempio di aver scelto “Insieme per il futuro”, ma provvisoriamente, pare. Attenzione, i nomi, specie in politica, sono una cosa maledettamente seria. In questo caso, invece, la denominazione è vaga, commercialmente sfruttata e pure sfortunata. Tanto per cominciare, insieme con chi? A chi ci sta, a Toti, a Renzi, a Letta? In quanto a “futuro”, l’ultimo a utilizzarlo fu Gianfranco Fini nel 2011: con “Futuro e Libertà”, che durò l’“espace d’un matin” per poi confluire nel cartello elettorale per Mario Monti. Per il resto, spicca in qualche supermercato il concorso di Capitan Findus, quello dei surgelati,

sotto lo slogan “Insieme per il futuro degli oceani”, che certo rimanda a temi ambientalisti, però… Vedremo. Si spera in un messaggio chiaro. E in un colpo di fantasia. Finora merce rara. Brugnaro & Toti, per esempio, nell’attesa della Nuova Grande Alleanza, hanno sciolto “Coraggio Italia”, formazione nata per diaspora dal ceppo berlusconiano, e sono entrati nel gruppo misto con la sigla “Vinciamo Italia”: nell’attesa della Grande Alleanza, all’Italia non si rinuncia. Anzi, ripercorrendo l’onomastica politica con l’aiuto di Filippo Ceccarelli (“Lì dentro. Gli italiani nei social”, Feltrinelli) si conferma che nel passaggio dalla prima alla seconda repubblica, caduto l’aggettivo italiano che definiva tutti i partiti - liberale, socialista, comunista, socialdemocratico, repubblicano e pure del movimento sociale - molte nuove formazioni si sono aggrappate all’Italia, a cominciare da Forza Italia di Berlusconi, madre di tutte le altre. L’elenco è lungo. Da Italia dei Valori di Tonino Di Pietro a Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni, da Italia Viva di Matteo Renzi a Noi con l’Italia di Maurizio Lupi, da l’Italia per Monti a Italexit di Gianluigi Paragone; e prima ancora ci furono i Popolari per l’Italia di Mauro Mauro, l’Alleanza per l’Italia di Francesco Rutelli, l’Italia di

DOPO DI MAIO ANCHE TOTI CERCA UN BRAND PER LA SUA ALLEANZA. LA PAROLA ITALIA VA ALLA GRANDE

mezzo di Marco Follini, le Energie per l’Italia di Stefano Parisi (che nel 2016 sembrò dovesse papparsi Forza Italia), la Nuova Italia di Gianni Alemanno, Fare Italia di Adolfo Urso e pure Italia Madre di Irene Pivetti. Come peraltro non c’è stata legge di bilancio recente che non sia stata accompagnata da un decreto SbloccaItalia, CresciItalia, SalvaItalia, SforbiciaItalia... Mentre fiorivano centri studi, lobby e fondazioni all’insegna di un tricolore mai così esaltato: Italia Futura di Montezemolo (ah, il futuro!), Italiani-Europei di Massimo D’Alema, Più Italia del principe Emanuele Filiberto di Savoia, Base Italia del sindacalista Marco Bentivogli, senza dimenticare Ancora Italia di Diego Fusaro. Ora, sul perché si ricorra insistentemente al marchio nazionale fioriscono le interpretazioni. C’è chi dice che questa sia ancora l’onda lunga del clamoroso exploit di Berlusconi in morte dei partiti tradizionali, anche se ora la sua Forza Italia è in via di dissoluzione; o che si voglia richiamare il made in Italy, che è sempre di successo. Chi invece sottolinea che l’appello patrio garantisce che ci si voglia occupare del Paese, cioè di tutto e di tutti, senza etichette né forzature né partigianerie. E chi invece ne deduce che il brand Italia, vago, generico e generalista, sia perfetto per nascondere la pochezza di idee, programmi, visioni forti, leader credibili. Una grande etichetta per un grande vuoto. Ecco perché aspettiamo con curiosità di vedere se le nuove formazioni post grillina e post totiana si daranno un altro nome. Italiano? Q © RIPRODUZIONE RISERVATA

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Ambiente e burocrazia

CHI DICE NO ALL’ENERGIA

PULITA PROGETTI DI IMPIANTI EOLICI BOCCIATI DALL’OPPOSIZIONE DEL MINISTERO DI FRANCESCHINI. E LA TRANSIZIONE VERDE DIVENTA SEMPRE PIÙ LONTANA DI GLORIA RIVA

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uest’anno ogni famiglia spenderà 2.757 euro in più per elettricità e gas. A stimarlo è l’Arera, autorità per l’energia, che calcola un aumento di 1.061 euro (più 91 per cento) per la bolletta elettrica e 1.696 euro (più 70,7 per cento) per quella del gas fra ottobre 2021 e settembre di quest’anno. Nonostante i 30 miliardi di euro stanziati dal Governo, tre dei quali deliberati la settimana scorsa nell’ultimo decreto per azzerare ulteriori aumenti, gli extra costi a carico di famiglie e imprese sono considerevoli e continueranno ad esserlo, poiché all’orizzonte non si percepiscono inversioni di tendenza. I primi a toccare con mano l’emergenza sono i servizi sociali dei comuni e i rispettivi sin-

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daci a cui si rivolgono le famiglie in povertà per chiedere l’accesso ai bonus energetici, cioè agli sgravi che il governo destina a chi ha un reddito famigliare inferiore ai 12mila euro. Secondo la società Rse, Ricerca sul Sistema Energetico, il fenomeno della povertà energetica interessa il 14 per cento delle famiglie, cinque punti percentuali in più rispetto al 2019. Ecco perché le amministrazioni locali si stanno dando da fare per trovare un’alternativa concreta al metano in generale, e a quello russo in particolare. La soluzione sono le comunità energetiche e la creazione di impianti eolici, promossi da sindaci e Gloria Riva cittadini - ma anche dalle Giornalista utilities, dalle aziende, dal-


Foto: Getty Images

Prima Pagina

le ong e dalle associazioni come Legambiente -, ma bocciati dai palazzi romani, che hanno altri ritmi, altre priorità. Il caso emblematico è l’impianto eolico Monte Giogo di Villore sull’Appennino tosco-emiliano. L’iter parte a ottobre 2019 quando la multiutility Agsm Aim di Verona, società che intende realizzare sette pale eoliche nel Mugello, presenta il progetto a comuni e cittadini e ottiene il loro consenso. Poi si dirige spedita sull’amministrazione regionale toscana e ottiene il via libera dopo due anni e mezzo: ottenere l’autorizzazione di impatto ambientale e quella unica significa passano attraverso i pareri di 59 enti, sintetizzati dalla Conferenza dei Servizi. Si aggiunge anche un’inchiesta pubblica, ovvero quaranta ore di dibattito per valutare l’opinione di cinque comitati contrari alla realiz-

Pannelli solari nei campi della maremma toscana

zazione dell’impianto. Alla fine la Conferenza dei servizi stabilisce che la transizione energetica è prioritaria rispetto alle obiezioni mosse da alcuni enti e, il 7 febbraio 2022, la giunta regionale rilascia l’autorizzazione. Ma i lavori non partono. Perché? Perché la Soprintendenza archeologica, belle arti e paesaggio - che già all’interno della Conferenza dei Servizi aveva espresso parere negativo e aveva richiesto (e ottenuto) svariate modifiche al progetto -, tramite il ministero della Cultura, guidato da Dario Franceschini, muove opposizione alla presidenza del Consiglio. La motivazione è che per realizzare l’opera è necessario abbattere parte del bosco. Un’obiezione che la giunta regionale aveva già respinto, ritenendo più importante la riduzione dell’inquinamento e della bolletta: «Per il paese questo impianto 10 luglio 2022

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Ambiente e burocrazia eolico vale 16 milioni di metri cubi di gas risparmiato all’anno, ovvero ai prezzi attuali 20 milioni di euro in meno in bolletta. Le sette pale eoliche produrranno 80milioni di chilowattora l’anno, che corrispondono al consumo energetico privato di una famiglia per 25mila anni e consentono un risparmio di anidride carbonica (quindi una riduzione dell’effetto serra) pari a 40mila tonnellate. Ma questo ritardo burocratico farà slittare i lavori all’estate del 2024», racconta Marco Giusti, direttore ingegneria e ricerca della multiutility Agsm Aim di Verona. Il progetto resta in attesa di essere discusso dal consigli dei Ministri e nonostante l’appello di ambientalisti e deputati - l’ultimo è l’interrogazione della parlamentare Rossella Muroni, ex presidente di Legambiente, che fa notare come la priorità sia abbattere il riscaldamento globale e ridurre il consumo di fonti fossili - la posizione di Franceschini resta granitica, più per questioni politiche che ideologiche. Va anche detto che solo un parco eolico su cinque vede la luce, gli altri sono impallinati dalla Soprintendenza o osteggiati dalla cittadinanza. Tant’è che alla presidenza del Consiglio sono fermi, in via di autorizzazione dal governo, dieci impianti. «Bisogna fare presto», incalza Vittorio Cogliati Dezza, della segreteria di Legambiente e coordinatore del Forum Disuguaglianze e Diversità: «È necessario accelerare nell’installazione di nuovi impianti rinnovabili, perché se proseguissimo alla velocità degli ultimi tre anni ci vorrebbero 124 anni per raggiungere gli obiettivi europei». Cogliati Dezza se la prende con i passi troppo timidi mossi dal ministero della Transizione Ecologica e invita a non dimenticare il territorio: «Semplificare e alleggerire gli adempimenti burocratici è necessario, ma non sufficiente. Serve il coinvolgimento della popolazione, perché il commissariamento delle opere rischia di essere il vero collo di bottiglia della transizione. Inoltre se la comunità è soddisfatta delle soluzioni ingegneristiche, allora il progetto ha più probabilità di essere realizzato». Il dinamismo dei territori si percepisce anche sul fronte delle comunità energetiche, cioè un insieme di persone che condividono l’energia rinnovabile e pulita, prodotta sui tetti delle abitazioni o degli edifici pubblici e scambiata tra pari (vedi articolo a pagina 54). A Varese il comune realizzerà la 54

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Pale eoliche nella campagna molisana vicino a Campobasso

prima comunità energetica cittadina attraverso un impianto fotovoltaico installato sul tetto della scuola Giuseppe Garibaldi, che darà energia anche alle abitazioni limitrofe: «Avvieremo un censimento per capire quante famiglie sono interessate a partecipare alla comunità energetica così da coinvolgere chi è più in difficoltà», racconta Dino De Simone, consigliere comunale con delega al piano Energia e clima. Secon-

“CI SIAMO RIUSCITI COINVOLGENDO LA GENTE” DI MARIALAURA IAZZETTI Il sindaco di Magliano Alpi, Marco Bailo, trascorre molte ore al telefono: «Mi chiedono di raccontare e spiegare». A Magliano Alpi, in provincia di Cuneo, un anno fa è nata la prima comunità energetica d’Italia. Sul tetto del municipio è stato installato un impianto fotovoltaico da 20 kilowatt ed è stata aperta una manifestazione d’interesse rivolta ai cittadini per capire chi volesse partecipare al progetto. Il meccanismo è semplice: «Se produco 100 e consumo 60, l’altro 40 lo condivido con chi è collegato nella comunità energetica. In questo modo consumo tutta l’energia prodotta e ricevo un benefit, un premio da 110 megawatt/h, che mi permette di abbassare la bolletta elettrica», spiega Bailo. L’idea è nata da un contatto che il sindaco aveva con un ingegnere del Politecnico di Torino. «Mi ha chiesto se avessi mai sentito parlare delle comunità energetiche». A febbraio del 2019, il parlamento aveva approvato un emendamento al decreto Milleproroghe, in cui venivano riconosciute per la prima


Prima Pagina LE COMUNITÀ ENERGETICHE NELLE CITTÀ PER RISPARMIARE E AIUTARE I PIÙ POVERI SONO FERME IN ATTESA DEI DECRETI DEL GOVERNO

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I pannelli solari sul tetto del municipio di Magliano Alpi (Cuneo)

volta le associazioni di produttori-consumatori, come previsto da una direttiva europea del 2018: in questo modo ai condomini, alle imprese e ai comuni è stata concessa la possibilità di condividere l’energia prodotta da fonti rinnovabili. La misura è rimasta per lo più sconosciuta alle imprese e alle amministrazioni, anche perché l’anno successivo è arrivata la pandemia. Ma nonostante le difficoltà, Bailo ha deciso di provarci. «Nell’aprile del 2020 c’è stata la prima delibera di giunta per l’apertura della manifestazione d’interesse». È convinto che la pandemia abbia contribuito alla realizzazione del progetto: «Gli uffici erano chiusi e abbiamo avuto il tempo di pensare e studiare». In quel periodo si parlava poco di energia e risparmio, temi che ora invece con la guerra in Ucraina e con l’esigenza di diventare indipendenti dalle forniture russe sono di fondamentale importanza per il governo. «Abbiamo fatto tutto online, facendo pubblicità all’iniziativa», racconta il primo cittadino. Sin da subito sono iniziate a

do l’Osservatorio Povertà Energetica, il bonus energia per abbattere gli aumenti in bolletta raggiunge solo il 40 per cento delle famiglie in difficoltà e per questo il comune di Varese sta studiano una soluzione strutturale, che coinvolga tutti: «Pensiamo alla creazione di impianti a biomassa nell’area montagnosa, mentre in città promuoveremo la nascita di comunità energetiche per abbattere la bolletta del 30 per cento. La prima comunità nascerà sul tetto della scuola e daremo la possibilità ai cittadini di aderirvi. Apriremo poi la comunità energetica a istituti ed enti locali, alla parrocchia, alla casa di riposo, alle imprese che potranno partecipare all’iniziativa mettendo a disposizione il proprio tetto o acquistando energia. Inoltre stiamo predisponendo una mappatura dei tetti comunali e dei parcheggi pubblici (che potrebbero essere coperti da pannelli) per poi metterli a disposizione di aziende, cooperative, cittadini e associazioni interessate a posizionare lì

comparire le prime richieste di adesione e il Comune ha dovuto selezionare i partecipanti. Le risorse per la costruzione dell’impianto fotovoltaico sono arrivate direttamente dall’Europa grazie ad alcuni fondi comunitari. È piuttosto simbolico che la prima comunità energetica si sia sviluppata intorno alle mura del municipio, in via delle Langhe: nel luogo che rappresenta i cittadini e le loro istituzioni. Bailo ci tiene a sottolineare che con questi progetti di risparmio energetico non si diventa delle “isole”, si rimane sempre collegati alla rete (anche perché di notte il fotovoltaico risulta praticamente inutile): si inizia però a conquistare una certa indipendenza e si rende sostenibile una parte del consumo. A Magliano Alpi, la cerimonia ufficiale d’inaugurazione dei primi pannelli solari si è tenuta il 12 dicembre. Da quel momento, la comunità è continuata a crescere. «Abbiamo installato altri impianti fotovoltaici sul tetto della palestra, sulla palazzina dei campi sportivi». Ora ne stanno comparendo alcuni anche sulle case dei cittadini, che da consumatori si sono trasformati in produttori. «Quando parli alla gente di risparmio e di inquinamento ambientale riesci a catturare la loro attenzione», aggiunge Bailo. In Italia oggi esistono una ventina di comunità energetiche. Dopo Magliano Alpi a febbraio di quest’anno anche in Lombardia, a Turano Lodigiano, è nata una comunità

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Ambiente e burocrazia i propri pannelli solari e aderire così alla comunità energetica cittadina». Tuttavia il progetto non decollerà fino all’autunno, quando - si spera - il ministero della Transizione Ecologica e Arera, l’autorità per l’energia, pubblicheranno i decreti attuativi alla legge sulle comunità energetiche, che è stata pubblicata in Gazzetta Ufficiale a dicembre 2021. Insomma, quasi un anno di attesa per mettere a terra una norma di cui c’è estremo bisogno. Si stima infatti che le comunità energetiche attualmente attive siano una ventina, mentre ce ne sono altre 80 in attesa dei decreti attuativi per partire: «Il decreto milleproroghe del 2020 aveva dato il via libera alla sperimentazione delle comunità energetiche, che tuttavia hanno dei difetti. Ad esempio, la comunità può produrre al massimo 200kw e non è chiaro chi possa farne parte (ad esempio sono escluse associazioni, aziende, fondazioni, Università). Inoltre è possibile aderire solo se si fa parte di una stessa cabina primaria di alta tensione, quindi un’area piut-

ANCHE LE IMPRESE CHIEDONO IL VIA LIBERA PER L’AUTOPRODUZIONE, SEMPRE PIÙ URGENTE DOPO I RINCARI DOVUTI ALLA GUERRA Pannelli solari sui tetti di un paese nelle Prealpi lombarde

energetica: riunisce nove famiglie, una parrocchia e diverse utenze comunali. L’obiettivo è produrre ogni anno circa 50mila kilowattora di energia rinnovabile, grazie a due impianti fotovoltaici installati sulle aree coperte del campo sportivo e della palestra. Altre realtà di questo tipo si sono sviluppate anche al Sud, ma in numero inferiore: a luglio dell’anno scorso nei comuni sardi di Villanovaforru e Ussaramanna, in tutto meno di settecento abitanti, alcune famiglie e di imprese si sono associate per produrre e consumare energia. Le comunità energetiche possono essere un’occasione per rivitalizzare i paesi più piccoli, che rischiano di scomparire. In Italia ci sono 5.500 comuni con meno di cinquemila abitanti: ospitano circa il 17% della popolazione italiana (più di 10 milioni di persone). Chi li abbandona di solito emigra verso centri più grandi in cerca di opportunità, sono pochi quelli che alla fine decidono di tornare a casa. Secondo il sindaco di Magliano Alpi, bisogna scommettere sulla condivisione: recuperare il senso di comunità. Impegnarsi nella tutela dell’ambiente può essere un efficace collante, soprattutto perché si abbina alla possibilità di risparmiare. «Il terzo impianto fotovoltaico è stato costruito senza il coinvolgimento del Comune. Tutto è nato in piazza, vicino alla chiesa principale», racconta Bailo. A Magliano Alpi risiedono attualmente 2.166 persone. «Qualche settimana fa sono andato a presentare il nostro progetto a Luino, in provincia di Varese. La sala era piena, nonostante fosse martedì».

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tosto ristretta», spiega Edoardo Zanchini, già vicepresidente di Legambiente e oggi capo dell’Ufficio Clima di Roma, che continua: «Con la nuova legge sarà possibile arrivare a un megawattora di potenza ed estendere la comunità a più enti, oltre a poter cedere l’energia dalla cabina primaria a quella secondaria». Quindi i comuni restano in attesa che la legge si concretizzi per godere delle migliorie introdotte: «C’è molto malcontento per questo ritardo. A Roma,

Proprio per incentivare la nascita di queste comunità nei territori in cui è richiesta una produzione energetica più contenuta (e quindi più facilmente sostituibile), il governo ha stanziato 2,2 miliardi. Le risorse provengono dal Piano nazionale di ripresa e resilienza e sono destinate ai comuni con meno di cinquemila abitanti. Il governo spera di incentivare l’utilizzo di fonti rinnovabili, riducendo le emissioni di Co2 prodotte nell’arco di un anno e già da diversi mesi alcune regioni si stanno impegnando attivamente. A febbraio il consiglio regionale della Lombardia ha approvato una legge per lo sviluppo delle comunità energetiche: la giunta ha previsto un ulteriore finanziamento di 22 milioni. L’assessore all’Ambiente Raffaele Cattaneo ha sottolineato il valore umanitario delle comunità energetiche, che devono «fornire sostegno a chi versa in condizioni di fragilità». Un altro punto fondamentale da tenere in considerazione per capire l’importanza di queste iniziative ambientali è proprio questo: le comunità energetiche nelle città più popolose possono servire a riqualificare zone emarginate. Bisogna far in modo, allora, che questi strumenti di contrasto alla povertà e di transizione ecologica si diffondano anche nei territori in cui le amministrazioni regionali e comunali non investono abitualmente molte risorse. In base agli studi dell’Osservatorio italiano sulla povertà energetica, più di 2 milioni di italiani non riescono ad accedere a servizi essenziali come la luce elettrica o il riscaldamento: i pannelli solari, se istallati in quartieri periferici, possono


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aiutare diversi cittadini ad avere una vita migliore. A febbraio di un anno fa a San Giovanni a Teduccio, municipalità 6 di Napoli, è stato costruito un impianto fotovoltaico sul tetto di un centro educativo che collabora con il comune per il diritto all’istruzione. È un impianto di piccole dimensioni, ma riesce a produrre energia elettrica per quaranta famiglie. La comunità è nata grazie al sostegno di Legambiente e la Fondazione per il Sud, che sviluppa progetti sociali sul territorio. Dare vita a un’iniziativa di questo tipo a San Giovanni a Teduccio significa molto: da anni il litorale sta aspettando interventi di bonifica e messa in sicurezza, già nel 1998 il Parlamento aveva inserito quest’area tra i siti d’interesse nazionale. Le comunità energetiche, ripete spesso il sindaco di Magliano Alpi sono una grande occasione, in cui si legano l’aspetto sociale e ambientale. «Con l’ultimo decreto si stanno aprendo spazi agli imprenditori e alle grandi utility», ipotizza Bailo. Nel provvedimento approvato a dicembre, il governo ha concesso la possibilità di sviluppare impianti più potenti, che coinvolgano anche diversi comuni. «Le comunità energetiche nate durante questi anni erano più vicine al cittadino, ora invece probabilmente ci sarà un cambiamento». Per Bailo non è un aspetto negativo, soprattutto in termini di indipendenza dalle forniture estere. L’importante è non perdere l’aspetto umano e sociale che ha contribuito a creare queste prime esperienze e le ha rese preziose. n © RIPRODUZIONE RISERVATA

in attesa dei decreti, stiamo lanciando un percorso partecipato e solidale di lotta alla povertà energetica: una mappatura di tutti gli edifici pubblici e un censimento delle famiglie che più hanno bisogno di un sostegno contro il caro energia. A settembre creeremo comunità energetiche nella prima fascia della città, quella attorno al centro storico, perché ha meno vincoli paesaggistici, e installeremo i pannelli fotovoltaici sulle scuole (che a Roma sono 1.200) e poi sugli altri edifici pubblici. L’obiettivo è distribuire l’energia prodotta in modo equo, cioè coinvolgendo le famiglie più in difficoltà che finora sono rimaste escluse dai percorsi di transizione energetica che, essendo costosi, sono ad appannaggio di famiglie a medio e alto reddito». Anche le industrie hanno fretta di ridurre i costi in bolletta ed è così che in Brianza alcune piccole e medie imprese si stanno riunendo in comunità energetiche, sperimentando anche la condivisione dei tetti attraverso la cooperativa éNostra: «È uno dei tanti progetti che sta per partire. C’è molto interesse per l’energia sostenibile, molto dinamismo, ma tutto è bloccato dalla mancanza di delibere del governo». E così le grandi imprese che hanno la potenza economica per muoversi indipendentemente cominciano a prodursi l’energia da sé. È il caso dell’acciaieria Feralpi di Brescia: ha investito 116 milioni di euro per un parco fotovoltaico diffuso fra Sardegna, Sicilia, Lazio e Puglia capace di generare 118 megawatt, sufficienti a coprire il 20 per cento del fabbisogno energetico dell’acciaieria. «Feralpi è un’acciaieria, ma vista la situazione straordinaria in cui viviamo, siamo costretti a fare un mestiere che non è il nostro, ovvero produrci l’energia a costi competitivi rispetto a quanto offre il mercato visto che, con l’ulteriore taglio del gas dalla Russia, i costi in bolletta sono ulteriormente aumenti e questo zavorra i nostri bilanci aziendali al punto che non abbiamo una precisa prospettiva di quanto potrebbe incidere il caro bolletta sui prodotti finiti», racconta Giuseppe Pasini, presidente di Feralpi, che continua: «Da qui la decisione di puntare direttamente sulla produzione di energia, ma anche sull’acquisto di energia a medio e lungo termine, così da assicurarci costi certi per i prossimi dieci anni». n © RIPRODUZIONE RISERVATA

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L’intervento di LUIGI VICINANZA

Non bastano i soldi del Pnrr per risollevare il Mezzogiorno

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l Sud è sempre più Sud. Prigioniero dei suoi vizi. Vittima di un antico pregiudizio. E di politiche pubbliche inadeguate ad abbattere l’invisibile muro tra le due Italie. Un muro da valicare con piacere solo in occasione delle vacanze estive, alla ricerca del pittoresco e dell’esperienza esotica nel recinto domestico. O per contaminarsi con un’effervescenza culturale glocal, tradizione e innovazione, linguaggi alti e bassi. Napoli sembra sempre più Napoliwood, immersa in una magica genialità con i suoi registi, scrittori, cantanti, attori: la Vesuvio valley dell’immaterialità artistica. Rassicurante consolazione per l’orgoglio frustrato dei meridionali. Poveri ma belli. Trionfo della creatività, assenza di imprenditorialità. I numeri sono impietosi. Nel decennio 2010-2020 il divario tra il Nord e il Sud si è ampliato rispetto al passato. «La questione meridionale è diventata ancor più chiaramente parte di una questione nazionale», certifica la Banca d’Italia nel rapporto pubblicato a fine giugno. Per il presidente del Consiglio Mario Draghi «il sud è al centro dell’attenzione dell’esecutivo. Vogliamo che il Mezzogiorno torni ad avere la centralità che merita in Italia e in Europa».

C’è un tesoro da amministrare. Il 40 per cento dei fondi del Pnrr, pari ad almeno 80 miliardi, sono destinati al Sud proprio per colmare le diseguaglianze territoriali del nostro Paese. Irrompe anche la geopolitica. Con l’invasione russa dell’Ucraina le coste meridionali dell’Italia sono individuate come il terminale naturale per fonti diverse di approvvigionamento energetico. Così la questione del Mezzogiorno, che nell’ultimo quarto di secolo era apparsa un residuo ideologico fuori del tempo, torna al centro del dibattito pubblico. Con mille ambiguità. A partire dal giudizio sull’autonomia differenziata caldeggiata dal Lombardo-Veneto leghista e dalla “rosa” Emilia-Romagna. La ministra forzista (lombarda) Maria Stella Gelmini lavora a una legge-quadro per una maggiore autonomia regionale. In disaccordo con la ministra forzista (salernitana) Mara Carfagna, sensibile invece all’allarme delle classi dirigenti meridionali. Una faglia sismica in movimento nella componente “moderata” del centrodestra. Gli anni passati hanno provocato lacerazioni profonde. Sia con i governi a trazione leghista sia con

IL DIVARIO CON IL NORD È CRESCIUTO ANCHE PER RESPONSABILITÀ DEL SUD. CHE DEVE DIVENTARE PIÙ EFFICIENTE

i governi controllati dal Pd. Non si è avvertita differenza. La Svimez, la storica associazione di ricerca sulle condizioni del Mezzogiorno, ha calcolato che oltre due milioni di persone hanno abbandonato i paesi del Sud, dove sono nati, per trasferirsi al Nord o all’estero. In prevalenza giovani laureati e diplomati, capitale umano d’esportazione. Un esodo massiccio nell’arco di 15 anni, tra il 2002 e il 2017, tuttora in corso. È come se dalla cartina geografica fossero state cancellate 15 città popolate come Foggia. Le regioni meridionali sono deboli sia sul fronte demografico che su quello economico. La stessa Banca d’Italia ha sottolineato come i tagli al settore pubblico, imposti negli anni della Grande Crisi, abbiano ulteriormente impoverito il Mezzogiorno. Siamo al cortocircuito, perché senza una pubblica amministrazione efficiente è messa a rischio la capacità di spesa degli ingenti fondi del Pnrr. Se si vuole rilanciare la questione del Mezzogiorno occorre un nuovo paradigma. Il Sud deve accettare la sfida dall’efficienza. Serve affrancarsi dall’immagine lamentosa, perché il Sud parte dei ritardi li ha accumulati per propria responsabilità. Se davvero si vuol pesare di più nel contesto europeo e internazionale, questo è il momento storico per un nuovo patto nazionale: il Mezzogiorno come motivo d’interesse per la crescita dell’intero sistema Italia. Funzionerà? Q ©RIPRODUZIONE RISERVATA

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La crociata anti-aborto

Una manifestazione di protesta ad Austin, in Texas, contro la decisione della Corte Suprema

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AMERICAN NIGHTMARE L’INCUBO OSCURANTISTA DOPO LA SENTENZA NO-CHOICE DELLA CORTE DEL TEXAS PRODUCE EFFETTI SU ALTRI STATI. E ORA GLI ATTIVISTI PUNTANO A PUNIRE LE DONNE E CHI LE AIUTA DI MANUELA CAVALIERI E DONATELLA MULVONI DA WASHINGTON DC

Foto: M. Monroe - The New York Times / Contrasto

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i sembra pazzesco anche solo raccontarlo, ma è necessario per capire che clima stia vivendo oggi il nostro Paese: ho appena finito una riunione con i dirigenti di una compagnia aerea che volevano sapere se da oggi il personale avrebbe dovuto verificare con i passeggeri i motivi per i quali stavano lasciando lo Stato. Ci sono legislatori che stanno cercando di approvare leggi che vietino alle donne di attraversare i confini per abortire dove è ancora legale farlo». Da Houston la senatrice democratica statale Carol Alvarado racconta al telefono il momento di confusione e paura in cui è piombato il Texas a seguito dalla decisione della Corte Suprema, lo scorso 24 giugno, di annullare la storica Roe contro Wade, la sentenza che dal ’73 garantiva a livello federale il diritto all’interruzione volontaria di gravidanza alle donne americane, e di lasciare tutto nelle mani dei singoli Stati. Se gli Usa sono tornati indietro di cin-

quant’anni, in Texas potremmo dire addirittura di quasi cento. Qui infatti «dove avevamo già alcune tra le leggi più restrittive del Paese», puntualizza Alvarado, ne è stata riesumata una del 1925 che oltre a vietare gli aborti, prevede il carcere per coloro che li praticano. Nonostante al momento non si contempli l’eventualità di un arresto, «è chiaro che si tratti di una crociata», denunciano gli attivisti. Essendo il secondo Stato più popoloso dell’Unione, ciò che accade Manuela in Texas è rappresentativo di Cavalieri quella fetta d’America, a Giornalista maggioranza repubblicana, che da 49 anni aspettava l’affossamento di Roe per poter vietare l’Ivg all’interno dei propri confini. Sono passate quasi tre settimane da quando i saggi Donatella Mulvoni della Corte si sono espressi Giornalista con 5 voti a favore e 4 con10 luglio 2022

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La crociata anti-aborto trari al ribaltamento. Una risoluzione anticipata settimane prima da una fuga di notizie senza precedenti. Il fatto che ogni Stato potrà decidere in autonomia, rende molto complicato tracciare il quadro di questi Usa post-Roe. L’impressione è quella di una nazione immersa nella confusione assoluta. Se è vero che metà del Paese, quella a guida democratica, più progressista e liberale, continuerà a blindare il diritto all’aborto, quello che sta accadendo nell’altra metà è ancora difficile da codificare. Si tratta di un limbo legale che getta nel caos pazienti, cliniche e medici. Un puzzle di leggi, di proposte di leggi antiabortiste, con restrizioni, tempi e sanzioni diverse. Molti Stati avevano già in canna le cosiddette «trigger laws», pronte a diventare effettive appena i giudici avessero affossato la sentenza del ’73. Alcune di queste leggi dovranno attendere trenta giorni dalla sentenza, altre sono state bloccate da tribunali locali a seguito di denunce o aspettano di venire certificate. Ad esempio in South Dakota, Louisiana e Kentucky, subito dopo il rovesciamento della sentenza, l’interruzione di gravidanza è automaticamente diventata illecita, anche in presenza di incesto e violenza. Negli ultimi due Stati, però, sono state intentate cause per bloccare l’applicazione delle leggi, ora temporaneamente paralizzate. Nel tentativo di aiutare la gente a capire cosa stia succedendo a casa loro, i media americani propongono mappe aggiornate in tempo reale che indicano gli Stati in cui l’aborto è legale, illegale, potenzialmente illegale o a breve illegale. Non sono mancate scene di panico davanti alle cliniche, perché subito dopo il pronunciamento i medici avevano smesso di lavorare per paura di essere incriminati. Tra i milioni di donne lasciate allo sbaraglio, pure una bambina di dieci anni. Vitti-

FRONTI OPPOSTI Dimostranti per i diritti all'aborto e manifestanti contro l'aborto si affrontano davanti all'edificio della Corte Suprema a Washington

BATTAGLIA SUL CONTROLLO DEGLI SPOSTAMENTI. GOOGLE SI IMPEGNA A CANCELLARE I DATI DI GEOLOCALIZZAZIONE DI PUNTI SENSIBILI COME LE CLINICHE 62

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ma di abusi, è stata costretta ad andare in Indiana ad abortire, perché dove risiede, in Ohio, è entrata immediatamente in vigore una restrizione che proibisce l’interruzione dopo la sesta settimana. Nessuna eccezione, neanche per la piccola, in attesa da sei settimane e tre giorni. In questa parte del Paese, la confusione genera paura. Così, dopo quasi mezzo secolo, stigma e pregiudizio riconquistano la scena. Il movimento pro choice cerca di fare muro in ogni modo possibile. Prima di tutto con campagne che puntano a mobilitare la gente, a farla votare in massa alle elezioni di metà mandato a novembre; mentre nel quotidiano si raccolgono fondi, si creano siti appositi per diffondere informazioni, denunciando le leggi anti abortiste. Nel settore privato tante aziende - incluse Amazon e Netflix - si sono rese disponibili a coprire le spese delle dipendenti che saranno costrette ad attraversare i confini. Google, invece, si è impegnata a cancellare in automatico i dati di geolocalizzazione degli utenti che visiteranno luoghi sensibili come ad esempio una clinica dove viene praticato l’aborto. La privacy è infatti ora al centro del dibattito. E a preoccupare ora sono anche le comuni applicazioni che tracciano il ciclo mestruale. «I pro life non vogliono difendere il concetto di vita. Stanno solo cercando di controllare le donne, ancora una volta», dice indignata Benny Del Castillo, presidente del DC abortion fund, con sede a Washington, che offre sostegno finanziario alle donne indigenti che scelgono di interrompere la gravidanza. «Pochi giorni prima della sentenza sull’aborto, la Corte ha deciso che a New York per andare in giro armati


Foto: S.Huang - The New York Times / Contrasto, B. Newman - The New York Times / Contrasto, B.Riha, Jr. - Getty

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non serva una licenza; non mi sembra che i giudici siano preoccupati di salvaguardare le vite delle persone se si rifiutano persino di proteggere i bambini dalle sparatorie nelle scuole. Invece vogliono controllare il nostro corpo». La sua organizzazione si prepara al boom di richieste già in arrivo dagli Stati repubblicani. «Le donne hanno sempre abortito e continueranno (in Usa una donna su quattro abortirà comunque entro i 45 anni, ndr). C’è chi lo farà clandestinamente, con rischi enormi e spesso tragici; c’è chi sceglierà di viaggiare. Purtroppo i tempi di attesa si dilateranno, con gravissimi disagi». A pagare, ancora una volta, non saranno le donne benestanti delle classi medie e alte. «Saranno le minoranze, le indigenti, quelle che non possono permettersi biglietti aerei, assenze dal lavoro, hotel, babysitter, oltre ai costi della procedura». Ecco perché associazioni come la sua sono fondamentali, oggi più che mai. «In pochi giorni abbiamo raccolto trecentomila dollari. La comunità c’è e si fa sentire». Quel che inquieta Del Castillo è la zona grigia normativa. «I nostri volontari vanno protetti perché il quadro legale è incerto. Politici e gruppi pro life cercano di intimorirci, paventano arresti per chi aiuta le donne ad abortire negli Stati democratici. Tutti potenzialmente potrebbero essere complici di un reato, persino il pilota che trasporta queste persone da uno Stato all’altro». Il quadro in realtà è incerto anche perché disomogeneo è altresì il movimento antiabortista, uscito vittorioso. Se infatti la maggioranza dei pro life ha come obiettivo il divieto dell’aborto, una frangia di estremisti invoca la criminalizzazione dell’interruzione di gravidanza, equiparandola all’omici-

SENTENZA STORICA L'avvocato Gloria Allred e Norma McCorvey, ovvero “Jane Roe” nel caso giudiziario Roe vs. Wade, durante il Pro Choice Rally del 4 luglio 1989 a Burbank, in California. In alto, un antiabortista con un rosario in mano durante una manifestazione a Manhattan

dio e considerando per questo la donna colpevole, tanto da proporre in alcuni casi addirittura la pena di morte. Sebbene, come ricorda il New York Times, questi gruppi siano malvisti finanche dalla fascia mainstream dei conservatori, negli ultimi anni hanno guadagnato terreno, alimentati dalla destra religiosa fondamentalista e non estranea alle manifestazioni più violente. Aiutati, inoltre, dall’attivismo social e dall’appoggio di Trump che nel 2016 ipotizzò «qualche forma di punizione» per le donne. Non solo provocazioni: secondo i dati del National advocates for pregnant women, dal 2006 al 2020, circa 1.300 donne hanno subito arresti o accuse. «Il movimento antiabortista strumentalizza il cristianesimo; afferma di agire in nome di Dio, ma l’agenda politica riguarda controllo e potere», sottolinea da Apex, nella Carolina del Nord, la reverenda battista Katey Zeh, a capo della Religious coalition for reproductive choice, un’organizzazione per il diritto di aborto. «La narrazione dominante è in effetti quella secondo cui tutte le persone di fede siano contrarie, ma non è così. Tanti come me appoggiano la libertà di scelta. Mi rincuora che il presidente Biden, molto cattolico, abbia detto che proteggerà chi avrà bisogno di attraversare i confini statali per ricevere assistenza», dice. «I giorni bui vissuti da mia nonna evidentemente non sono ancora passati», sbotta Alexander Sanger, attivista ma soprattutto nipote di Margaret Sanger, l’infermiera che nel 1916 fondò Planned parenthood, la più famosa e importante organizzazione di cliniche ginecologiche degli Stati Uniti, a cui migliaia di donne si rivolgono ogni anno. Una rete di oltre seicento centri, che provvede a quasi il 40 per cento degli aborti praticati in America, oltre a fornire supporto legato a contraccezione e screening ginecologici. «L’impegno non cambia, nonostante la sentenza. Tutte le cliniche sono rimaste aperte. Al momento stiamo lavorando a portali che permettano alle donne di individuare il posto più vicino in cui interrompere la gravidanza legalmente. Stato per Stato, stiamo contestando le leggi locali. Ogni giorno in più in cui riusciamo a tenerle bloccate è un successo». Perché quel giorno i medici potranno lavorare e le donne avere diritto a un aborto legale e sicuro. Q © RIPRODUZIONE RISERVATA

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Satira Preventiva

Michele Serra

Seguiamo i Musk troveremo il freddo L’allarme surriscaldamento era già stato lanciato al Papeete. La secca del Po restituisce la Duna usata come nassa per catturare pesci gatto

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Illustrazione: Ivan Canu

l ghiaccio, se la temperatura aumenta, tende a sciogliersi. È la sconvolgente scoperta che la scienza, dopo il cataclisma della Marmolada, consegna alla politica. Una rivelazione inattesa che sta mettendo in subbuglio partiti e istituzioni. Fino a pochi minuti prima della tragedia, la relazione tra riscaldamento del pianeta e collasso dei ghiacciai era nota solo ai climatologi e ai guardiani dei rifugi alpini, che si addormentano a tremila metri e la mattina dopo si svegliano nella piazza del paese, a mille metri, perché l’intero rifugio è slittato fino a valle. La scelta – Nessun partito se la sente di sottoporre ai suoi elettori questa terribile scelta: o spegni il condizionatore e riduci i consumi, o l’umanità si estingue nel marzo del 2053. Gli elettori anziani se ne fregano: nel marzo del ’53 saranno comunque estinti, e dunque condizionatore a palla, charter per Ibiza e tanti auguri alle future generazioni. Gli elettori più giovani sono più sensibili al problema, perché l’estinzione del genere umano comporterebbe, tra gli effetti collaterali, anche la fine della movida e dell’happy hour. Ma poiché ridurre i consumi vorrebbe dire ridurre anche movida e happy hour, dove sta la differenza? Musk – La soluzione proposta da Elon Musk è stabilirsi tutti sull’asteroide Zibut 239, dove la temperatura,

a causa della grande distanza dal Sole, è di duecento sotto zero e dunque non si prevedono, almeno a breve termine, fenomeni di surriscaldamento. Il viaggio costerebbe ventisei miliardi di dollari, e dunque il solo Musk potrebbe permetterselo. Purtroppo si valuta che i consumi della sola famiglia Musk (le mogli Oril e Lemon, i figli Op, Nap, Bot, x98, x99, kw8, Pfff e Gaetano) porterebbero in pochi anni la temperatura di Plutone a 40 gradi, costringendo i Musk a un nuovo esodo verso la galassia di Oberon. Salvini – Sostiene di essere l’unico, tra i politici, a conoscere da tempo il problema dello scioglimento dei ghiacci. «Il fenomeno mi è ben noto da quando, al Papeete, ho potuto constatare la velocità di fusione dei cubetti di ghiaccio nei long-drink». I suoi elettori, il famoso popolo dei capannoni, hanno fatto sapere di non essere disposti a ridurre i propri consumi, ma hanno aperto all’ipotesi di un compromesso: ridurre i consumi altrui. Briatore – Rilanciare la Marmolada costruendo, tra i massi della frana, un locale di tendenza, che vende panini col wurstel da cinquanta euro. Si tratta di wurstel di alta qualità, si distinguono dagli altri perché vengono serviti senza busta di plastica. L’idea è riqualificare la montagna rendendola accessibile solo ai clienti più ricchi, come alla fine dell’Ottocento, quando un antenato di Flavio

Briatore, il trisnonno Manlio, aprì sul Monviso il primo rifugio di alto profilo, con sacchi a pelo di tweed e possibilità di salire in vetta in portantina. Draghi - Confida in un piano europeo per la messa in sicurezza dei ghiacciai, con un sistema di refrigerazione che verrebbe coperto, per il 90 per cento, da fondi comunitari. Il restante dieci per cento sarebbe a carico della Banca Mondiale, più un dieci per cento di mancia, stanziato dal Fondo Monetario, a vantaggio delle maestranze addette alla realizzazione dell’opera. Un altro dieci per cento di tasca sua. Poiché il totale è 120 per cento, questo significa che, sotto Draghi, per ogni cento euro spesi ne guadagni automaticamente centoventi. Sono i vantaggi di avere al Palazzo Chigi un economista. I vantaggi – Il prosciugamento del Po e la scomparsa dei ghiacciai presentano comunque qualche indiscutibile vantaggio. Dal Po in secca è emersa la carcassa della prima Fiat Duna mai prodotta, perfettamente conservata: il proprietario la usava come nassa da pesca per catturare i pesci gatto. A Vigo di Fassa una famiglia di cinque mammut, tornata in vita grazie allo scongelamento di un ghiacciaio, ha consumato in un ristorante, pro capite, più di un turista bavarese, lasciando sperare in un’ottima stagione turistica. Q © RIPRODUZIONE RISERVATA

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Gli affari dei clan

L’INFILTRATO TR

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UFFA I NARCOS UN FINANZIERE SOTTO COPERTURA AL PORTO DI TRIESTE BUCA LA RETE DELLE SPEDIZIONI DI COCAINA DALLA COLOMBIA IN EUROPA. E METTE LE MANI SU UNA FORNITURA DA MEZZO MILIARDO DI ANTONIO FRASCHILLA

Il porto di Trieste, utilizzato per beffare i trafficanti tra Colombia ed Europa

Foto: Shutterstock

U

na goccia di sudore scende tra i capelli. Ha quasi un tremolio alla gamba. Ma deve restare calmo, ne va della sua vita. «Sereno, tranquillo», si ripete. Perché lui è un infiltrato della Guardia di finanza in quella che diventerà una delle più importanti operazioni antidroga degli ultimi anni in Europa. Nell’ufficio della finta società di logistica, messa in piedi dalle fiamme gialle al porto di Trieste, ha di fronte Abel Ramon Castano Castano, 54 anni, un colombiano dall’aspetto gentile e dai lineamenti garbati, elegante con giacca blu e camicia bianca. Si guardano dritto negli occhi. Abel è appena arrivato con un volo da Bogotà. A spedirlo qui è stato Jobani Avila detto Chiquito Malo, capo del più grande clan della droga in Sudamerica, il cartello del Golfo. Chiquito oggi ha preso le redini dell’organizzazione paramilitare che detta legge nel Nord del Paese. In quei giorni era il numero due di Dairo Antonio Úsuga David, detto Otoniel, il sanguinario storico boss che ha sulle spalle decine di omicidi e 120 processi, arrestato lo scorso ottobre. Castano Castano è lì, davanti al finanziere sotto copertura che si finge responsabile della società P.L che si occupa della movimentazione merci in uno dei porti più grandi d’Italia. Dalla Colombia gli hanno detto che

il manager è il gancio per costruire la nuova rotta della cocaina dal Sud America verso l’Europa. E Abel deve capire se può fidarsi. Se non ci sono trappole. Un solo errore, un solo passo falso e il finanziere morirebbe. Lo sa l’agente, lo sanno i suoi superiori: il colonnello Leonardo Erre e il comandante del Gico di Trieste Marco Iannicelli, che grazie alle microspie stanno seguendo quello che accade in quella stanza. Sudando anche loro al solo pensiero di aver messo a rischio la vita di un collega per dare avvio a quella che sarà una rocambolesca truffa non solo al più spietato cartello della droga colombiana ma anche ai più importanti broker della cocaina europei e italiani. Una “truffa” che andrà avanti per un anno, con la distribuzione controllata di quattro tonnellate di cocaina purissima da tagliare in dosi per un valore finale sul mercato europeo di mezzo miliardo di euro. Per molto meno, anche poche migliaia di euro, chi tradisce il cartello viene tagliato a pezzi e fatto scomparire nel nulla. Castano Castano alla fine sussurra: «Todo bien». È andata. Si parte. Anche se in quel momento nessuno sa come finirà questa Antonio Fraschilla storia iniziata qualche setGiornalista timana prima, nell’apri10 luglio 2022

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Gli affari dei clan le 2021, e conclusasi solo il mese scorso con l’arresto di 38 narcotrafficanti. Non lo sanno l‘agente sotto copertura, né l’altro infiltrato detto “Rocco” e neppure Erre e Iannicelli, e tutta la loro squadra di dieci agenti fidatissimi che da quel giorno, e per quasi un anno, non dormiranno più sonni tranquilli: staranno sempre in allerta, pronti a seguire, armi in pugno, narcotrafficanti in giro per l’Italia, a pedinarli tra le stradine dei paesini veneti, per le contrade della Toscana e del Lazio o per i boschi del Friuli. IL CARICO DELLA DROGA Questa storia inizia quando, nell’aprile 2021, la polizia colombiana Fiscalia 42 especializada contra el narcotrafico segnala alle autorità italiane che un loro agente sotto copertura nel clan del Golfo ha avuto mandato di spedire in Europa tonnellate di cocaina, ma da un porto diverso da quello di Gioia Tauro, ormai troppo a rischio per i continui sequestri. In gran segreto, le autorità colombiane, insieme ad agenti dell’Hsi americana, la Homeland security investigations, arrivano a Venezia. Si decide di coinvolgere la Guardia di finanza di Trieste e la procura distrettuale antimafia, utilizzando come esca uno dei più grandi porti italiani vicino alle frontiere d’Europa. In pochi giorni si mette in piedi una società di logistica: si registra alla Camera di commercio il logo, si affittano gli uffici al porto e anche macchinari per estrarre dai container mezzi di tutti i tipi. «Capiamo subito che dobbiamo infiltrarci in un anello preciso della catena, quello della logistica, perché ai colombiani interessa vendere e trattare, ai broker comprare, ma la logistica la lasciano sempre a terzi», dice Iannicelli, seduto nel suo ufficio del comando della Finanza di Trieste, mentre con un cacciavite elettrico buca delle pietre di mare: «È il mio antistress, ho ancora la tensione addosso dopo un anno trascorso sulle montagne russe». La truffa non è imbastita solo in Italia, ma anche in Colombia. Il cartello del Golfo invia ai primi di maggio del 2021 un primo carico di trecento chili in un porto al Nord del Paese, Puerto Bolivar. Lì una nave container caricherà la droga dentro macchinari industriali per cave e miniere: è la prima consegna che serve solo come prova per testare l’affidabilità di tutta la filiera. A Puerto Bolivar il gancio della polizia colombiana nel cartello avvisa i colleghi e scatta in segreto

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I CERVELLI Dall’alto, Ramon Castano Castano, colombiano inviato in Italia, Isik Ergun, broker internazionale della droga, Angel Martinez Quirito capo del cartello del Golfo, Antonio Produente, legame tra colombiani e clan napoletani

il sequestro della cocaina, che verrà inviata a Venezia attraverso un volo di linea Iberia, presa in consegna dalle autorità Italiane e conservata in un deposito segreto. I narcos, che non seguono il trasporto anche perché spesso per fare uscire la coca dalla giungla ricevono prima la metà dei pagamenti dagli acquirenti europei, sono convinti invece che la cocaina sia sulla nave che salpa alla volta della Spagna, fa uno scalo ad Ankara e arriva il 16 maggio a Trieste. Il 17 si presenta negli uffici della P.L Castano Castano per verificare che tutto fili liscio e se davvero il gancio che gli è stato indicato per l’Italia sia affidabile. Il colombiano, si scoprirà poco dopo, è in contatto diretto con Chiquito Malo ma anche con Antonio Prudente, il riferimento della camorra che si muove tra la Colombia e la Spagna da anni: i due stanno curando l’invio del vero grande carico di 4 tonnellate che partirà ad ottobre. E che, esattamente come nel carico di prova, sarà sequestrato in segreto dalla polizia colombiana e inviato via aereo a Madrid, dove poi un secondo volo militare trasporterà i 4 mila panetti da un chilo in una località segreta in città, a Trieste. LA RETE DEI BROKER La novità di questa operazione che vede collaborare le polizie colombiane, americane, spagnole e italiane, è quella di non fermarsi al sequestro del carico. Ma di fingersi intermediari per le consegne ai broker in contat-


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CON UNA FINTA SOCIETÀ DI LOGISTICA, LE FIAMME GIALLE HANNO TRATTATO DIRETTAMENTE CON BROKER E PRODUTTORI PER UN’INDAGINE AD ALTO RISCHIO to con il cartello del Golfo. All’agente sotto copertura Castano Castano affida un telefono criptato con la chat Suresport. Qui riceverà le richieste di consegna. L’agente sotto copertura deve occuparsi solo di questo. Il prezzo e i quantitativi sono già decisi. Alle prime due consegne sovrintende Castano Castano. Il 18 maggio 2021 chiama l’agente sotto copertura e gli dice di vedersi subito in via Ressel a Trieste e di portare 10 chili. Poi gli dice di andare a Fossalta di Portogruaro. Qui ad attenderli ci sono Bozhidar Bozilov e Sara Savov, i referenti di una potente organizzazione criminale bulgara che sta cercando di mettere radici anche in Italia e soprattutto a Roma. Il 29 maggio è ancora Castano Castano che organizza tutto. Chiama l’agente sotto copertura e gli dice di caricare 100 chili di cocaina e andare in un ristorante di Aquileia. Lì troverà ad aspettarli Adriano Lazzarato e Ugo Mascioli, pluripregiudicati

IL CARICO In alto, da sinistra, le quattro tonnellate di cocaina trasportate in gran segreto su un aereo militare dalla Colombia a Trieste, i panetti confezionati dai colombiani con marchio Tommy o Audi, pronti per i broker europei

che operano in Veneto e che avevano la fiducia del colombiano. Mascioli si allontana e lascia il carico in una casa abbandonata di Aiello del Friuli. Per non dare troppo nell’occhio, considerando anche che sono le prime consegne, prima di fermare i due per recuperare la cocaina i finanzieri fingono un ritrovamento casuale: appiccano un piccolo incendio nella casa abbandonata, arrivano i vigili del fuoco che trovano la droga e chiamano le autorità italiane. Il trucco funziona, Castano Castano non si insospettisce. E dà il via, ad ottobre, alla spedizione del grande carico. Da questo mese, il telefono criptato dell’agente sotto copertura inizierà a squillare quasi ogni settimana. E per carichi importanti: «Noi seguivano tutte le operazioni e per identificare gli acquirenti quando la droga veniva consegnata e inviata alla volta delle città per lo spaccio, fingevamo controlli casuali coinvolgendo la polizia stradale, le polizie negli aeroporti o le polizie municipali per verificare anche il semplice rispetto del green pass», racconta Iannicelli. Con questo schema vengono identificati un gruppo di albanesi che trasporta la coca nel Nord Est e a Milano, un gruppo di calabresi guidato da Francesco Megna che opera tra Lombardia e Lazio e un gruppo di sloveni che gestisce il traffico nei Balcani, ma anche croati e bulgari. Un giorno, sul telefono dell’agente sotto copertura compare un nome strano, 10 luglio 2022

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Gli affari dei clan Ma alla diciannovesima consegna arriva un campanello d’allarme. L’agente infiltrato riceve un messaggio sul telefono criptato da uno che si fa chiamare Alexander Pato, come il calciatore. E concorda la consegna di 10 chili a un intermediario, Giuseppe Giorgi, secondo gli inquirenti «uomo di fiducia delle famiglie della Locride, che sarebbe partito quel giorno stesso da San Luca». Dopo lo scambio, Giorgi andrà in un Bed and breakfast di Milano e lì verrà firmato dai finanzieri con la cocaina in stanza. Resta una domanda: chi era Pato? Pochi giorni dopo arriva un secondo messaggio da Pato all’agente infiltrato. Questa volta chiede un incontro all’aeroporto di Venezia e all’appuntamento si presenta Rossano Sebastiani, imprenditore romano che ha rapporti con la Colombia e con le famiglie calabresi. All’agente dice: «Ma perché quello che esce poi viene bloccato?». È il campanello

che chiede di organizzare il trasporto di metà del carico, due tonnellate di cocaina, valore al mercato 250 milioni di euro. Scatta subito l’allerta massima tra i finanzieri: questa volta c’è da seguire un broker internazionale. Si tratta di Isik Ergun, imprenditore turco residente in Olanda, grande anello di congiunzione tra la Colombia e l’Europa dell’Est. È lui in persona che chiede di incontrare l’agente sotto copertura, al quale dice: «Mi vedi oggi, non mi vedrai mai più». E gli consegna un elenco di referenti che lo contatteranno per le varie consegne. Lui scivola via, ma viene identificato all’aeroporto di Milano, dopo che la squadra di Erre e Iannicelli aveva avvisato le polizie degli aeroporti di tutto il Nord, dando loro le foto scattate durante l’incontro con il finto addetto alla logistica del porto triestino. Siamo ormai a 18 consegne e ancora, né in Colombia né tra i broker italiani ed europei, qualcuno sospetta che in questa partita di coca triestina ci sia qualcosa di strano, visto che poi gli intermediari vengono fermati e la droga in qualche modo recuperata. Anche in maniera rocambolesca, come accaduto nel bosco di Bagnaria Arsa: «Un croato appena ci ha visti è scappato e ha disperso 25 panetti di coca nel bosco, abbiamo impiegato una settimana con l’aiuto dei vigili del fuoco e di un elicottero per recuperare tutto», raccontano dalla Finanza. 70

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“TODO BIEN”: L’AGENTE PASSA IL TEST DELL’EMISSARIO DEL CARTELLO E PER UN ANNO TIENE IN VITA UNA ROTTA DELLA DROGA ALTERNATIVA A GIOIA TAURO IL DENARO I soldi in contanti sequestrati dalla Guardia di finanza ai broker o agli intermediari dei clan esteri e italiani nelle 19 operazioni di consegna controllata. Per un anno gli agenti delle fiamme gialle infiltrati nella finta società di logistica hanno ricevuto richieste di consegne da parte di acquirenti che avevano già fatto accordi con i colombiani per pagamenti e quantità

d’allarme che laggiù in Calabria iniziano a sospettare. Sebastiani verrà poi arrestato dopo un pedinamento durato giorni in un B&b di Roma. Le consegne finiscono, troppo rischioso andare oltre. Il 7 giugno scorso, con una conferenza stampa in procura, insieme ad agenti della polizia spagnola e americana venuti a ringraziare i colleghi italiani, si svela l’operazione. L’agente sotto copertura viene messo in ferie e mandato lontano da Trieste: sulla chat criptata è arrivato un messaggio in dialetto calabrese con minacce di morte. La sera stessa il tenente colonnello Iannicelli nonostante la pioggia va a correre e non riesce a fermarsi. Il colonnello Erre torna per qualche giorno nella sua città di origine. L’adrenalina è ancora tanta dopo un anno trascorso a beffare alcuni tra i più Q pericolosi criminali del mondo. ©RIPRODUZIONE RISERVATA



L’intervento

L’ALGORITMO DELLA GIUSTIZIA DI ARMANDO SPATARO

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n tempo di guerre e pandemie mondiali, sembra difficile discutere pacatamente di giustizia, specie dopo il fallimento del provocatorio referendum del 12 giugno. È anche vero, però, che proprio questo periodo di silenzio potrebbe favorire se non la pace, almeno la sospensione della “guerra dei trent’anni” tra avvocati (specie penalisti) e magistrati (specie pubblici ministeri). Naturalmente non è giusto generalizzare, perché si tratta di una “guerra” che non coinvolge affatto la maggior parte degli appartenenti ai due ruoli, ma ciononostante si manifestano troppo spesso ingiustificate diffidenze reciproche. Anche per questo un tentativo va fatto. La mia personale speranza è cresciuta dopo avere letto un recente libro, colto, originale ed utile, “L’avvocato nel futuro”, degli avvocati torinesi Fulvio Gianaria e Alberto Mittone. Ma qui non intendo recensirlo, né proporre riforme costituzionali o modifiche ai codici vigenti. Vorrei piuttosto trarne spunto per promuovere una riflessione comune di magistrati ed avvocati che, proiettata sul futuro, riguardo gli importanti temi trattati nel libro e che, scevra da sbarramenti e pregiudizi, possa dar vita a prassi condivise. Una strada forse in salita da percorrere insieme, riconoscendo che la giustizia non è l’avventura di un giorno! Vorrei provare ad elencare, allora, solo alcuni degli argomenti che potrebbero essere oggetto di una futura “Carta Comune della Giustizia”, in particolare quelli che la modernità dilagante ormai impone di considerare. Sia pure senza classifica di importanza, parto dalla ormai inaccettabile teatralità delle rappresentazioni processuali, fenomeno che viviamo ogni sera, grazie anche a magistrati ed ex magistrati, avvocati, esperti di accertamenti scientifici e sedicenti intellettuali. Sulla scena, cioè, vediamo tutti coloro che ormai provano a sfruttare talk show, conferenze stampa ed interviste a raffica solo per accrescere la propria visibilità. Dibattimenti e sentenze diventano secondari, mentre con toni assertivi e senza cedimenti al dubbio ed alla presunzione di innocenza, si evoca – non sempre indirettamente, la propria bravura a fini di autopromozione, nonostante codici etici dell’avvocatura e della magistratura lo vietino. Si può continuare ad essere silenti di fronte a queste prassi che nulla hanno a che fare con il diritto-dovere di informare? L’irrompere nella società di nuove scienze e tecniche di analisi (tra cui neuroscienze, matematica finanziaria ed altro), ha poi determinato

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rispetto al passato il crescere del peso nei processi della prova scientifica che diventa più importante di ogni altra, mentre consulenti ed esperti di parte diventano la bocca della verità. Nessuno può più ignorare questi scenari che influenzano anche la giurisprudenza della Cassazione e tutti devono imparare ad interloquire con questi nuovi saperi, tanto più se si esercitano mestieri che richiedono sempre più competenze e specializzazione, anche per effetto del cosiddetto panpenalismo, ovunque in costante crescita. Ma non mi pare accettabile che l’esito dei processi dipenda spesso dal dictum di periti e consulenti di parte, talvolta dagli opposti contenuti e che le aule di giustizia vengano dominate dalla tecnica, anziché dal diritto. E veniamo così all’impatto dell’intelligenza artificiale e delle moderne tecnologie nel mondo della giustizia e della sicurezza, un impatto tale da incidere sulla diffusione di controlli anche preventivi del territorio e delle persone, quasi vivessimo sorvegliati dal Dipartimento Precrimine nell’ America del 2054, descritta nel film Minority Report di Steven Spielberg. Nonostante sull’utilizzo della intelligenza artificiale siano intervenute risoluzioni del Consiglio d’Europa e dell’Unione Europea, avanza un futuro preoccupante, quello caratterizzato dagli algoritmi che decidono: algoritmi e intelligenza artificiale (sui cui software incombe peraltro una inaccettabile segretezza industriale) possono certamente aiutare la raccolta oggettiva e storica dei dati, della giurisprudenza, degli atti per decidere, ma non possono servire per la previsione delle decisioni giudiziarie, neppure quanto all’entità delle pene. Bisogna opporsi con forza, dunque, alla giustizia predittiva, che pure viene usata in altri Paesi per stabilire se un sospettato sia un terrorista da incriminare, se sia pericoloso etc.. Nel libro di Gianaria e Mittone, si cita una decisione della Corte Suprema del Wisconsin fondata sul responso di un algoritmo per affermare il rischio di reiterazione di reati dello stesso tipo di quello per cui si procedeva contro un ladro. Ovviamente altra cosa sono i metodi moderni di indagine come l’uso dei trojan, o la raccolta dei dati sui contatti tra telefoni, sui loro spostamenti, che servono e che in Italia, contrariamente a quanto altrove previsto, devono essere autorizzati con provvedimenti dell’autorità giudiziaria. Ripeto: è la decisione che deve essere salvaguardata. Andando avanti, si sente spesso parlare dei sistemi informatici che sarebbero stati installati


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Foto: Tania / Contrasto

Una pausa d’udienza al processo bis per la morte di Stefano Cucchi in corte d’Assise a Roma

in tutti gli uffici giudiziari italiani per velocizzare la rinuncia alle prove orali in presenza. la giustizia penale e civile e facilitare il mestiere Penso che quelle sin qui sommariamente dell’avvocato e del magistrato. Si tratta, però, di elencate e molte altre connesse, siano le probleun’affermazione vera solo in parte, non solo per la matiche pratiche che dovrebbero seriamente mancanza persistente di strutture e di personale essere affrontate da avvocati e magistrati, abcompetente, ma anche perché i relativi software bandonando da un lato (quello degli avvocati) e programmi - elaborati da tecnici che spesso non la inutile ed antistorica guerra sulla separazione conoscono la giustizia nelle sue articolazioni condelle carriere tra giudici e pm, bocciata anche crete e necessità quotidiane - si rivelano inadedal Parlamento Europeo, e dall’altro (quello dei guati, fino a determinare anche delocalizzazione magistrati) ingiustificate diffidenze nei confronLa copertina de dei servizi legali pubblici e nuove strutture degli ti della classe forense. “L’avvocato del studi degli avvocati. Ve lo immaginate un documento redatto dopo futuro” scritto Tecnica e modernità finiscono così con il conl’inizio di un simile leale confronto, una sorta di da Fulvio Gianaria dizionare l’iter della giustizia, mentre dovrebbero codice deontologico comune, che, recante in ine Alberto Mittone essere solo strumenti per rendere più efficace e testazione sigle e simboli dei rispettivi organi istiedito da Einaudi rapido ogni passaggio dei processi. tuzionali e rappresentanze associative, indichi ad Certamente è giusto affermare che occorre una corretta avvocati e magistrati le virtuose e condivise prassi cui conmediazione, senza pregiudizi, tra ciò che abbiamo alle spal- formarsi nel pur diverso loro lavoro quotidiano, proponenle e la tecnologia informatica che avanza. Ma deve essere do altresì confronti stabili – e non solo in momenti emerchiaro, come scrivono Gianaria e Mittone, che la tecnica de- genziali – con il ceto politico? È davvero un sogno ingenuo? ve rispettare il modello costituzionale e l’impianto normaIl futuro dei giovani avvocati e magistrati non sarà cupo tivo che si intende costruire e non viceversa. Ciò, aggiungo, se si riuscirà ad usare correttamente la modernità senza laanche rispetto allo svolgimento dei dibattimenti ordinari in sciarsene travolgere. E forse i cittadini, gradualmente, pocui – salvo il periodo di emergenza ancora in corso – non si trebbero tornare ad avere fiducia nella giustizia. Q potrà accettare l’assenza non volontaria dei protagonisti e © RIPRODUZIONE RISERVATA

LA MODERNITÀ IMPONE NUOVE SFIDE. AVVOCATI E PM DOVREBBERO SUPERARE LA GUERRA DEI TRENT’ANNI 10 luglio 2022

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Guerre hi-tech

LA TECNOLOGIA E LE MATERIE PRIME PER LE BATTERIE SONO IN MANI CINESI. I PRODUTTORI DI AUTO ELETTRICHE DIPENDERANNO DA PECHINO. MA L’ITALIA PUNTA SUL BIOCARBURANTE DI EUGENIO OCCORSIO 74

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Foto: Qilai Shen / Bloomberg via Getty Images

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ual è il sottile filo rosso che lega due affermazioni rese negli ultimi giorni a migliaia di chilometri di distanza? Ecco le frasi: «I cinesi, nella loro millenaria saggezza, hanno saputo posizionarsi per tempo. Nell’auto, come in generale, il centro di gravità del mondo si sta spostando verso Est» (Luca De Meo, amministratore delegato della Renault, intervistato dal Sole 24 Ore). «Avverto un forte senso di sconforto e paura nell’immaginare che l’East Asia possa essere l’U-

Un cartellone raffigura il presidente cinese Xi Jinping e pubblicizza la produzione di magnesio, litio e potassio

craina di domani» (Fumio Kishida, premier giapponese, per giustificare in patria la presenza del suo Paese, della Nuova Zelanda, dell’Australia e della Corea del Sud all’ultimo vertice Nato, cui hanno giurato fedeltà). Il risultato del rebus è il seguente: la Cina fa paura, come e forse più della Russia con la quale sta cementando un’inquietante alleanza. Fa paura più economicamente che militarmente, anche se la questione Taiwan è sempre aperta. I Paesi democratici dell’area del Pacifico avvertono perciò la necessità di fare fronte comune con l’occidente. È giocoforza però, il che complica maledettamente le cose, accettare la superiorità tecnologica di Pechino in alcuni settori a partire dall’auto elettrica, dove per un diabolico gioco del destino si gioca in questi anni una partita epocale. Se non interverranno improbabili ripensamenti, entro il 2035 non potranno più essere venduti modelli a benzina o diesel, ma solo auto elettriche: in questo senso si sono espressi, non senza un aspro dibattito, sia il Parlamento sia il Consiglio europeo (in una serrata maratona notturna di fine giugno a Lussemburgo). La commissione dovrà dire una parola definitiva in autunno ma la direzione sembra tracciata. «Allora partirà quella che è a tutti gli effetti una rivoluzione pari a quelle che nei secoli scorsi hanno comportato l’automazione nell’industria e lo sviluppo dei trasporti ferroviari o, appunto, automobilistici», sentenzia Jeremy Rifkin, guru degli economiEugenio Occorsio sti-ambientalisti. La noviGiornalista tà è che la Cina per la prima volta avrà un ruolo di primissimo piano: quindi con il Dragone è meglio avere buoni rapporti, ed essere protetti da suoi eventuali “sgarbi”. Fra non più di 13 anni, solo auto elettriche usciranno dalle fabbriche di tutto il mondo. Bmw, Volkswagen, Stellantis (il gruppo che ha riunito Fiat-Chrysler e Peugeot), Ford, General Motors e tutti gli altri giganti del settore devono affrontare una colossale riconversione, un’operazione senza precedenti per dimensioni, occupazione e ambizione nella storia dell’industria. E anche un’inedito “affidamento” a un unico Paese che detiene la tecnolo10 luglio 2022

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Guerre hi-tech

PRODUZIONE Operai cinesi al lavoro in una azienda che produce batterie. A destra: Una veduta dall’alto delle industrie cinesi Qinghai Salt Lake. Producono fertilizanti, potassio, litio, e altri minerali per l’industria hi-tech

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gia-chiave, quella delle batterie elettriche a ioni di litio che sono quelle che servono per le auto. La Cina ha investito decine di miliardi di dollari negli ultimi trent’anni per realizzare e sperimentare la tecnologia per le batterie, e intanto per acquistare uno per uno i diritti di sfruttamento delle miniere di litio - il minerale di base che si estrae dal sottosuolo in lamine argentate spesso semiliquide proprio come l’argento - ovunque si trovassero: in Australia, soprattutto, ma anche in Cile, in Argentina, in Zimbabwe e altri Paesi africani. Ovunque gli uomini di Pechino sono arrivati e hanno stretto accordi di ferro offrendo fondi e assistenza (anche in tutt’altri settori come l’agricoltura) in cambio del diritto di estrarre e utilizzare nelle loro raffinerie il litio. Oggi i gruppi cinesi (Catl, Byd, Sk Innovation fra i principali) posseggono il 65% della capacità di raffinazione del pregiato metallo. Il resto del mercato è appannaggio dei sudcoreani di Samsung e Lg, che però utilizzano litio importato dai cinesi o estratto nella stessa Cina, che con 2 milioni di tonnellate di riserve è il secondo produttore mondiale dopo l’Australia con 6 milioni e l’Argentina con 2,4, quasi tutti gestiti dai cinesi. Ovviamente il prezzo del litio è quasi quadruplicato negli ultimi dodici mesi, da 6000 a 21mila dollari la tonnellata. Questa presa del potere minerario globale è avvenuta nella sorprendente man-

canza di reazione dell’Occidente, che ha assistito inerme all’opera della “millenaria saggezza” come la chiama De Meo, che era il più brillante dei Marchionne Boys, portato dal grande capo a una rutilante carriera da capo via via di Fiat, Lancia, Alfa Romeo, infine del marketing dell’intero gruppo. Scomparso Marchionne nel 2018, dopo pochi mesi se ne è andato in Renault, dove ha trovato una tecnologia dell’auto elettrica già avanzata visto che il gruppo francese aveva cominciato a investirvi nel 2011. Invece Marchionne inizialmente era scettico chiedendosi da dove si sarebbe potuta prendere tutta l’elettricità necessaria. Il tempo ha fatto giustizia dei dubbi, e oggi il quadro - piaccia o no - è chiaro. «I cinesi si sono detti: è inutile fare concorrenza sul piano tradizionale a colossi come le case auto storiche europee o americane, puntiamo tutto sull’hi-tech», commenta Angelo Baglioni, economista internazionale della Cattolica e presidente del think-tank Ref Ricerche. Non si parla solo di batterie: anche il software e perfino i microchip specifici per l’auto (che utilizzano altre terre rare quali cobalto, disprosio, neodimio, promezio, lantanio, lutezio e molte altre, tutte controllate da Pechino), sono oggi appannaggio dei gruppi cinesi con l’appendice coreana e in questo caso taiwanese (ma sempre con materia prima controllata dalla Cina). In questa serrata situazione di monopo-


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PER CENTO

del mercato del litio in mano ai cinesi (principali gruppi Catl, Byd, Sk Innovation)

35 Foto: S.Zhou / Feature China / Getty Images, Qilai Shen / Bloomberg via Getty Images

PER CENTO

lio, sono costrette a muoversi le compagnie occidentali. Gli investimenti in campo sono enormi. Stellantis, per esempio, impegnerà per la svolta elettrica 30 miliardi solo da qui al 2025, e proseguirà negli anni successivi con la costruzione di cinque “gigafactory”, le fabbriche di batterie al litio, una delle quali in Molise, a Termoli, sulle ceneri di un vecchio stabilimento Fiat. Inevitabile la partnership con un partner orientale (la Samsung) in un consorzio che comprende Total e Mercedes. Per quanto riguarda i microchip, le speranze risiedono in un’alleanza con la Bmw e la Foxconn a Taiwan. E per la materia prima, sono in corso trattative, come presso tutti i maggiori gruppi automobilistici occidentali, per conquistare i pochi diritti di sfruttamento minerario del litio in diversi angoli del mondo, superando finalmente il blocco cinese. Ma ancora più difficile del salto tecnologico sarà il passaggio cultural-sociale, soprattutto in Italia. «Nel nostro Paese c’è una profonda e diffusa conoscenza e manualità sui motori a scoppio: decine di migliaia di bravissimi meccanici dovranno riconvertirsi in fretta a fare tutto un altro lavoro sui motori elettrici», riflette Gianni Toniolo, storico dell’economia che dopo aver insegnato nelle università americane e inglesi è ora docente alla School of Government della Luiss. «Non sarà un processo facile né indolore perché il retraining non è

altri produttori per la maggior parte sudcoreani (Lg, Samsung ecc.)

12,7 MILIONI

la forza lavoro nel settore auto in Europa (6,8% di tutti i posti di lavoro nell’Ue, 11,5 del settore manifatturiero, 8% sul Pil dell’Ue)

58,8 MILIARDI

investiti in ricerca e sviluppo dal settore auto nell’Ue (32% del totale dei privati) Fonte: Parlamento europeo

previsto in Italia, non esistono strutture adeguate né forme di tutela per il lavoratore che si trova improvvisamente in questa necessità né ancora, il che è peggio, politiche attive che aiutino a trovare un lavoro nelle nuove condizioni. Il welfare italiano non è preparato, non favorisce questo processo e i meccanici rischiano di restare disoccupati con prospettive vaghissime sul loro futuro». Al passaggio così brusco verso l’auto elettrica, comunque ancora oggetto di negoziazione in sede comunitaria, si oppone il governo italiano, che ha trovato una solida spalla in quello tedesco oltre che in una mezza dozzina di altri Paesi. La controproposta di Roma è la seguente: disponiamo di una nuova tecnologia, quella dei biocarburanti (ottenuti dagli scarti vegetali) da miscelare a benzina e diesel tradizionali, come peraltro si sta già facendo da qualche anno: è vero che emettono CO2 ma in misura nettamente inferiore ai fossili tradizionali. «Nei paesi scandinavi già sono disponibili biocarburanti in purezza, dal prossimo anno lo saranno anche in Italia, e il loro utilizzo darebbe un importante contributo alla transizione», spiega Giuseppe Ricci, direttore Energy evolution dell’Eni oltre che presidente di Confindustria Energia. «Noi abbiamo ristrutturato vecchie raffinerie destinate all’obsolescenza come Marghera e Gela rilanciandole con i biocarburanti, da usare in modo sinergico e complementare all’auto elettrica: sarebbe controproducente gettare alle ortiche una tecnologia nuova, frutto di un’impegnativa ricerca, senza averle dato il tempo di dispiegare i suoi vantaggi». Ma nel campo dell’innovazione e della valorizzazione delle risorse interne in campo energitico, i precedenti sono poco confortanti. La prematura fine del sogno petrolifero della Val Padana che risaliva addirittura ai tempi di Enrico Mattei, o l’improvvida “quasi-cessazione” dell’estrazione di gas naturale nell’off-shore adriatico e tirrenico (da 20 a 2 miliardi di metri cubi all’anno) lo testimoniano: l’Italia sembra specializzata nel sottovalutare le proprie risorse che invece potrebbero aiutarla in maniera sostanziale. Il problema è che stavolta c’è da convinQ cere l’intera Europa. © RIPRODUZIONE RISERVATA

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Le aziende del futuro

STARTUP LA CRESCITA INCOSTANTE SONO 14.362 LE NUOVE IMPRESE HI-TECH NATE DOPO IL DECRETO DEL 2012. MA IL SISTEMA ARRANCA E INVOCA PIÙ STATO NEL SOSTEGNO ALL’INNOVAZIONE GIOVANE DI GIOVANNI IOZZIA

L’

Italia è diventata il Paese amico delle startup, e quindi dell’innovazione, come auspicava il ministro dello Sviluppo Economico nel 2012, annunciando il primo Startup act italiano? «Dal punto di vista normativo ci siamo riusciti, dal punto di vista dei soldi c’è ancora molto da fare», risponde oggi Corrado Passera, che guidava il dicastero di via Veneto nel governo Monti e oggi è Ceo di Illimity, una startup fintech. Dieci anni dopo l’introduzione della figura giuridica della startup innovativa nell’ordinamento italiano, il decollo c’è stato (per usare una metafora ispirata dal significato della parola inglese). Ma l’Italia non ha ancora raggiunto la velocità di crociera necessaria per stare in quota con Francia, Germania, Spagna. Siamo la quarta economia d’Europa ma solo dodicesima per investimenti sulle startup (analisi Dealroom). Una posizione di svantaggio in un quadro econo-

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mico globale sempre più segnato dalle tecnologie e dall’innovazione. «Esisteva ed esiste un valore di sistema nel favorire aziende che si prendano i rischi dell’innovazione», spiega Passera. Non sarà ancora amicizia piena e convinta, quindi, ma le relazioni sono molto migliorate tra Italia e startup: la svolta legislativa del 2012 è stata un punto di non ritorno. «Certamente ha alzato di molto il livello di attenzione della leadership», osserva Gianluca Dettori, protagonista dell’economia digitale di fine Novecento (ci ha anche scritto un libro “L’Italia nella Rete”), venture capitalist della prima ora (ora guida il fondo Primo ventures) e presidente dell’associazione Italian tech alliance. «Se ripenso a quegli anni, non avrei mai creduto che sarebbe Giovanni Iozzia stato possibile quello che è Giornalista accaduto dopo. Adesso è


Foto: Cortesia H-Farm

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impossibile che tutto questo scompaia o non venga tenuto in considerazione». Flashback. Il 2012 è un anno difficile per l’Italia e i suoi conti. Lo spread tiene in fibrillazione i mercati e in luglio il governatore della Banca centrale europea Mario Draghi pronuncia la famosa frase «whatever it takes». «Portare un governo che imprimeva una svolta di austerità al Paese a prendere provvedimenti a favore della nuova imprenditorialità non era così scontato», osserva Stefano Firpo, allora capo della segreteria tecnica di Corrado Passera e oggi capo di gabinetto del ministro dell’Innovazione tecnologica, che ci regala un dettaglio inedito: «Ho scritto io le norme nel luglio 2012 ad Ansedonia a casa di Pietro Fioruzzi, giurista allora advisor del Mise». Dal “libro dei sogni” Restart Italia, preparato dalla task force voluta da Corrado Passera, al Decreto Crescita 2.0 dell’ottobre 2012. Le resistenze a una politica di sostegno all’imprenditoria innovativa e soprattutto la difficoltà di trovare le necessa-

Una lezione al campus di H-Farm, incubatore di startup dedicato alla formazione per l’imprenditoria, a Ca' Tron nella campagna trevigiana

rie coperture finanziarie vengono superate con la creazione della figura giuridica “startup innovativa” che deve avere un forte contenuto tecnologico e di competenze (almeno il 15 per cento di investimenti in ricerca o laureati o dottorandi nel team o un brevetto oltre ad altri requisiti formali) a cui riservare incentivi fiscali, riduzioni di costo del lavoro e altri vantaggi. «L’idea fu concentrare su un numero limitato di imprese il massimo sforzo possibile», ricorda Firpo. Nel 2018 arriva la promozione dell’Ocse, che valuta positivamente l’impatto dello Startup act italiano. Insomma, una legge da festeggiare lì dove nel maggio 2012 si ritrovò Passera e la sua task force, coordinata da Alessandro Fusacchia, per raccogliere le esigenze e le richieste dell’ecosistema e dove poi, nel settembre successivo, venne presentato il decreto: Ca’ Tron di Roncade, nella campagna trevigiana, regno di Riccardo Donadon che lì ha fondato nel 2005 H-Farm, incubatore di startup oggi sempre più dedicato alla formazione per l’imprenditoria. «Il prossimo 12 settembre celebriamo la ricorrenza con Passera e i ministri Colao dell’Innovazione e Messa dell’Università», anticipa Donadon a L’Espresso. «Ci saranno anche 500 ragazzi delle scuole superiori e dell’università perché l’obiettivo è ricordare a chi sta al governo l’importanza di creare condizioni per lo sviluppo e ai giovani che si può fare». In dieci anni molti hanno fatto startup in Italia, lavorando sulle tecnologie digitali. Nel registro dedicato delle Camere di commercio sono iscritte 14.362 startup innovative (dati Infocamere all’1 aprile), il cuore di un ecosistema dove operano 53 incubatori certificati (almeno uno in ogni regione), quasi 50 fondi di venture capital, una ventina di fondi di corporate venture capital (quelli delle aziende), 1.200 business angel (cioè gli investitori informati, cioè privati). Entusiasmo e ottimismo sono caratteristiche comuni a tutti coloro che fanno startup o lavorano per le startup ma non impediscono di vedere i limiti della scena italiana. «C’è molta più consapevolezza di 10 anni fa. Ma l’ecosistema non è esploso», commenta amaro Donadon. «Le startup sono ancora considerate un tema di contorno, non sono ancora centrali nell’economia del Paese, perché c’è ancora diffidenza nei confronti di questo mondo e non puoi certo eliminarla per legge». Serve un po’ di manutenzione, suggeri10 luglio 2022

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«Se fossi un demiurgo, dedicherei risorse pubbliche per raddoppiare gli investimenti di venture capital in Italia, facendo sì che lo Stato si prenda una quota maggiore del rischio che comportano», fantastica Passera. Difficilmente accadrà qualcosa del genere, perché il clima è cambiato e non sono mancate azioni di controriforma. La costituzione online e gratuita delle srl, ad esempio, era stata una delle semplificazioni introdotte dallo Startup act e accolta poi dalla direttiva europea sul diritto societario digitale: nel 2021 è stata “bruciata” da un controverso decreto che ha restaurato l’esclusiva dei notai con grande disappunto delle startup che hanno visto aumentare il costo del loro atto di nascita. Che cosa è accaduto? «Sono venuti meno gli anticorpi e la volontà politica e capacità amministrativa», spiega Mattia Corbetta, oggi analista politico del Centro

LONTANI DAI DATI EUROPEI. TASSAZIONI DEGLI UTILI, INCENTIVI, LACCI BUROCRATICI FRENANO LO SVILUPPO. E SETTE MINISTRI IN DIECI ANNI

Cristina Angelillo, presidente di InnovUp. In alto, l’ex ministro Corrado Passera, Ceo di Illimity, startup fintech

Ocse di Trento per lo sviluppo, che è stato il funzionario del Mise che per più tempo ha seguito lo Startup act dal 2012 al 2019. «Sulla costituzione online ci furono subito decine di ricorsi e allora li abbiamo vinti tutti. La norma andava difesa, anche a livello amministrativo e invece hanno prevalso gli interessi delle lobby». La discontinuità è un problema annoso della politica economica italiana. E per capire quello che è accaduto (o non è accaduto) dopo lo Startup act basta mettere in fila i nomi dei ministri che si sono succeduti al Mise dopo Passera (tra parentesi la durata della loro permanenza in via Veneto): Flavio Zanonato (10 mesi), Federica Guidi (34 mesi in due governi), Carlo Calenda (18 mesi), Luigi DI Maio (15 mesi), Stefano Patuanelli (17 mesi), Giancarlo Giorgetti (in carica da febbraio 2021). Sette ministri in 10 anni sono troppi anche per imprese veloci e dinamiche come le startup. Q © RIPRODUZIONE RISERVATA

Foto: Cortesia Illimity, Mirandola comunicazione

sce pragmaticamente Cristina Angelillo, presidente di InnovUp, evoluzione dell’associazione Italia Startup, nata negli stessi mesi dello Startup act: «È fondamentale aggiornare e migliorare la normativa nata ormai 10 anni fa in un contesto totalmente differente a quello attuale, per renderla coerente con le esigenze di startup, incubatori/acceleratori, fondi di investimento e business angels». «È mancata un’evoluzione e un potenziamento di quanto fatto dieci anni fa», aggiunge Paolo Anselmo, presidente dell’associazione che riunisce proprio i business angel, Iban: «Gli incentivi fiscali sono stati aumentati all’ingresso, quando fai l’investimento, ma in uscita non è cambiato nulla: se compri azioni Stellantis o investi su una startup, quando disinvesti, se hai realizzato un utile, il fisco trattiene il 26 per cento. Non è stato preso atto che investire su una startup è un’attività ad altissimo rischio». Gratta, gratta torna sempre il tema dei soldi. Tra 2016 e 2021 in Italia sulle startup sono stati investiti 3,6 miliardi di euro contro i 76,4 del Regno Unito, 32,9 miliardi di Germania, 25,9 di Francia. «La dotazione del Pnrr dedicata all’innovazione, che ammonta a 18 miliardi di euro fino al 2026, ha certamente portato, già all’inizio dell’anno, ad un’iniezione di capitale straordinario in questo settore», ricorda Angelillo. Due miliardi e mezzo sono per startup e Pmi innovative e saranno gestiti da Cdp-Venture Capital, che ha già dato una scossa al mercato con il Fondo nazionale innovazione: 1,8 miliardi gestiti e 846 milioni investiti su 267 startup in due anni e mezzo di attività. «La traiettoria di crescita è la stessa, ma l’Italia è indietro di 10 anni», conclude impietosa l’analisi di Dealroom ma questo ritardo potrebbe rivelarsi un vantaggio adesso che nei mercati più maturi si stanno sgonfiando le valutazioni delle startup. «L’Italia è rimasta un po’ isolata e questo le ha fatto male negli anni della crescita degli investimenti e della supervalutazioni delle startup», è la lettura di Antonio Ghezzi direttore dell’Osservatorio startup hi-tech del Politecnico di Milano, nato proprio nel 2012 a valle dello Startup act. Il confronto fra i dati 2012 e 2021 mostra cambiamenti importanti: sono cresciuti gli investitori informali (i business angel), i capitali arrivati dalle piattaforme di crowdfunding e, elemento rassicurante, gli investitori internazionali. Molto meglio ma non benissimo.

Le aziende del futuro


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I diritti negati

DISABILI IL MESE DELL’ORGOGLIO NÉ EROI, NÉ VITTIME

UGUAGLIANZA, SERVIZI E DIGNITÀ. CONTRO PIETISMO E INSPIRATION PORN, DUE FACCE DELLA RETORICA VIOLENTA DI UN PAESE CHE PRETENDE DI RACCONTARE CHI NON ASCOLTA DI SIMONE ALLIVA

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ivendichiamo l’orgoglio di essere persone disabili in un sistema socio-culturale che ci fa costantemente vergognare e smantelliamo la rappresentazione negativa e pietistica che ci opprime». Sofia Righetti, filosofa, campionessa di sci alpino paralimpico e attivista, è una donna di 33 anni molto seguita dalla generazione Z in ragioni niente affatto scontate: una feroce fierezza appena mascherata dall’aspetto gentile, glaciali occhi azzurri abbinati a un look da rockstar grunge. È grazie a lei se oggi il termine abilismo è entrato a far parte dell’enciclopedia Treccani come neologismo che indica tutte quelle violenze fisiche, alla proprietà e verbali, perpetrate ai danni delle persone con disabilità. Oggi, come molti in Italia, celebra il mese dell’orgoglio per le persone disabili: «Il primo Disability Pride è stato un assalto al potere», dice. Siamo nel 1990, il 12 marzo mille persone disabili marciano dalla Casa Bianca alla sede del Parlamento degli Stati Uniti, strisciano su per gli scalini di Capitol Hill per chiedere l’approvazione dell’Ada (American with disability act, il primo testo americano contro le discriminazioni nei

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confronti dei cittadini disabili) fermo in stallo al Congresso per le troppe negoziazioni. Passata alla storia come The Capital Crawl, la protesta mostrò al mondo anche il problema delle barriere architettoniche e dell’inaccessibilità. Furono 104 le persone arrestate. Il 26 luglio 1990, George H.W. Bush firmò il testo, approvando la prima legge che proibisce le discriminazioni basate sulla disabilità. Così il Disability Pride si celebra nel mese di luglio per onorare l’unicità di ciascuno come una naturale e bellissima parte della diversità umana. Il mese dell’orgoglio per le persone disabili punta a questo: smantellare un sistema che tratta e racconta le persone con disabilità con pietismo, senza mai ascoltarle e vederle veramente. «Quello che chiediamo è uguaglianza di diritti e dignità. Bisogna ascoltare le voci delle persone disabili, non parlare per loro. Dobbiamo riprenderci gli spazi che ci sono stati negati, alzare la voce, combattere per l’autonomia e la dignità», sottolinea RiSimone Alliva ghetti che racconta le difficoltà di vivere in Giornalista una società abilista. «Fisicamente sono


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Foto: A. Fasani / Ansa

Il Disability Pride a Milano

consapevole che rientro nei canoni della bellezza tipica: sono bionda, ho gli occhi azzurri, certo ho una disabilità evidente per via della carrozzina, ma tutto questo mi fa scontrare spesso con l’inspiration porn, molto violento sulle persone di disabilità. Si tratta in sostanza di una modalità pietista che hanno le persone non disabili nel vedere le persone disabili. Possiamo parlare di pornografia motivazionale, quella che rende le persone disabili oggetti a favore delle persone non disabili». «Sono grandi perché ce l’hanno fatta, noi siamo fortunati rispetto a loro», è il rosario di frasi retoriche violente che vengono scaricate su una comunità lasciata ai margini. «Se sono fuori per un concerto o a bere una birra con amici può capitare di trovarmi la persona di turno che mi si avvicina e mi dice: “grande perché nonostante tutto sei qui a divertiti”. Nonostante la disabilità? È un’aggressione poiché ritiene che essere disabili sia svilente, e la considerazione che hanno per le persone disabili è talmente bassa da congratularsi per azioni normali. Sono atteggiamenti che umiliano la dignità di una persona. Veniamo visti come super eroi che “ce l’hanno fatta” oppure come delle tragedie viventi. La nostra esistenza non è prevista dalla società a causa dell’abilismo che privilegia solo al-

cuni tipo di abilità, e ciò porta all’invisibilizzazione e all’oppressione delle persone disabili». Combattere l’abilismo sarebbe meno difficile se ci fossero una cultura condivisa, una conoscenza capillare e comune, un’istruzione appropriata a decifrare la complessità nascosta dietro l’apparenza della disabilità. «Subiamo una discriminazione costante istituzionale e culturale», racconta Giosy Varchetta, attivista e membro del direttivo del Cassero di Bologna: «Ogni persona è fatta da più identità. Essere disabile, queer e disoccupato è diverso dall’esserlo con i soldi. La questione economica non è marginale». Le persone con una disabilità e un orientamento diverso da quello eterosessuale, inoltre, vivono in una zona ancora più precaria e i casi di abilismo svelano il sentire sullo sfondo. Una delle prime invasioni avviene a colpi di sguardo. «Ci si misura con una società in cui l’apparenza e la forma fisica sono quello che contano di più. Se sei disabile non hai sesso, se fai coming out come disabile e queer ti ignoro o ti aggredisco». Lo stigma è duplice e il pregiudizio punta a silenziare chi ha una disabilità: «Il motto internazionale del movimento delle persone con disabilità è “nothing about us without us”, ovvero “niente su di noi senza di 10 luglio 2022

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I diritti negati

Valentina Tomirotti, Marina Cuollo, Giosy Varchetta e Sofia Righetti

noi”, su questa strada bisognerebbe muoversi per rimuovere ogni pregiudizio». Niente su di noi senza di noi, però non è una strada percorsa da media italiani, come racconta Valentina Tomirotti, giornalista mantovana di 39 anni: «L’informazione italiana non si allinea all’argomento ma fa sopravvivere una narrazione di comodo e pietista. Difficilmente il professionista investe sul cambio della visuale ma si spiaggia sulla narrazione del disabile eroe. Una narrazione tossica che non va a raccontare l’essere umano ma lo stereotipo: c’è sempre il disabile che vince medaglie in competizioni sportive raccontate come imprese eroiche e, facciamoci caso, mai una persona che vince un premio letterario, ad esempio. Non c’è una rappresentazione della professionalità neanche nel mondo del giornalismo, difficile trovare un conduttore di tg in carrozzina. Quello che manca è la chiave di volta per far ragionare il pubblico, per farlo serve tempo, investimenti, formazione e competenze. Non abbiamo neanche nel mondo dello spettacolo grandi rappresentazioni, pensiamo a “Uomini e Donne” di Maria De Filippi: un trono per le persone con disabilità non ci sarà mai. Oppure Sanremo, non c’è un conduttore o una conduttrice in carrozzina, c’è la storia del disabile eroe che fa commuovere». I social funzionano da scialuppa di salvataggio in uno spazio mediatico che non prevede la disabilità. È nella rete sociale che si ritrovano frammenti di vita, riflessioni e informazioni. Tra gli approdi, la quotidianità che regala informazioni vitali: «Pensiamo al turismo accessibile: per andare in vacanza devo iniziare a prendere informazioni a febbraio. Non c’è un portale unitario che racconti se quella meta è accessibile per me, perché il livello di accessibilità non è uguale per tutti. Condividere questo tipo di informazioni equivale a fare una divulgazione più idonea, i profili delle persone con disabilità non insegnano la vita da una cattedra ma raccontano il vissuto e danno informazioni che spesso i media mainstream occultano». È nell’assenza di consapevolezza che Marina Cuollo, attivista, biologa e scrittrice umoristica individua la necessità di un mese dell’orgoglio che non sia mera celebrazione ma 84

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riflessione e coscienza: «Rispetto agli altri Paesi, in Italia manca un orgoglio identitario ed è quella la cosa più urgente da recuperare. Questo mese serve anche a questo. A dare voce, autonomia e autodeterminazione alle persone con disabilità in un Paese fortemente frammentato. Pensiamo alla questione delle barriere architettoniche, l’Italia è un Paese così antico dove tutto risulta inaccessibile per una persona disabile. Si cerca una soluzione solo dopo, in presenza di una denuncia ma non viene previsto prima». Dopo, dice Marina, quando compare nella vita «il problema» e si cambia prospettiva. Solo dopo, tutto torna e ogni cosa va al suo posto, che non era il posto previsto: «Il punto è che associamo la disabilità sempre a qualcosa di distante. Non solo ognuno può diventare disabile in qualsiasi momento, ma spesso la disabilità è condizione naturale con l’avanzare dell’età». Assenza e presenza anche sui media: «Non abbiamo mai visto una conduttrice con disabilità. Lo scorso anno ho condotto i Diversity media awards con Diego Passoni, ma è stata un’eccezione. Sono bolle rispetto al mainstream che non riesce a immaginarci». Inimmaginabile per la società è anche il ruolo genitoriale: «Non si può pensare che una persona con disabilità voglia poter adottare o anche avere un figlio da sé grazie alle tecniche di riproduzione assistita. Può succedere che una donna con disabilità impattante rimanga incinta, dopo aver fatto un lungo percorso sanitario, e trovarsi di fronte a medici che invece di supportarla tendono a spingerla a non portare avanti la gravidanza per via di un pregiudizio e non di evidenze scientifiche». È il desiderio che non viene concesso oggi alle persone con disabilità. «La sessualità è uno dei più grandi tabù, c’è questo squallore di infantilismo che ci circonda per cui le necessità psicofisiche del corpo, il piacere e tutto ciò che gira intorno non viene considerato». Il desiderio, come sempre nel tempo, rimane, per ogni sistema di potere una minaccia. Riportarlo alla luce, nominarlo orgogliosamente serve per entrare in un tempo nuovo più inclusivo e veramente libero da stigma e pregiudizi. Q © RIPRODUZIONE RISERVATA



Sguardi sul presente


Idee

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L’ultimo romanzo sulla violenza sulle donne: “Questione cruciale del nostro tempo”. La rivoluzione femminile: “Niente potrà fermarla”. E una precisa idea della letteratura: “Inutile. Per questo ci salva la vita” colloquio con Javier Cercas di Sabina Minardi illustrazione di Andrea Calisi

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Sguardi sul presente uello che ho imparato è che i romanzi non servono a niente. Non raccontano nemmeno le cose come sono, ma come avrebbero potuto essere, o come ci piacerebbe che fossero. Per questo ci salvano la vita… È tornato Melchor Marín, il poliziotto-bibliotecario dal passato oscuro, protagonista della trilogia di Javier Cercas, “Terra alta”, “Indipendenza” e ora “Il castello di Barbablù” (tutti editi da Guanda e tradotti da Bruno Arpaia). Thriller dove l’autore spagnolo intreccia trame seminando indizi su una precisa idea di letteratura: la stessa all’opera in romanzi fondamentali come “Soldati di Salamina”, sulla guerra civile spagnola, o “Anatomia di un istante”, sul tentato colpo di Stato del 23 febbraio 1981. E ribadendo un impegno da intellettuale totale: consapevole delle responsabilità che uno scrittore ha verso i lettori, verso il suo tempo. Cercas, dica la verità, ha preso gusto a scrivere romanzi così pieni di colpi di scena, così diversi dai precedenti? «Non sono così diversi. Sono solo un po’ diversi. Anzi, a me piacerebbe che fossero completamente diversi! Ho voluto reinventarmi, ribellarmi a me stesso. Ho voluto cercare in

“Ogni potere sa che per controllare il presente e il futuro bisogna prima controllare il passato. Dobbiamo vigilare sulla manipolazione del passato”

In alto: sostenitrici del diritto all’aborto marciano contro la decisione della Corte Suprema degli Stati Uniti, 27 giugno 2022 a Los Angeles. A destra: lo scrittore Javier Cercas, 60 anni

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me un nuovo scrittore, per dire cose nuove. Perché il peggior pericolo è quello di ripetersi, di diventare imitatore di se stesso. Ma se uno scrittore non sa dire cose nuove è morto. Quello che è vero è che qui affronto temi di cui non avevo mai parlato prima: la giustizia, la legge, la violenza contro le donne, come in quest’ultimo romanzo». “Il castello di Barbablù” richiama la fiaba di Perrault, una storia di femminicidi. E centrale è anche un altro romanzo patrimonio comune, “I Miserabili” di Victor Hugo. Abbiamo un’identità europea plasmata sulle stesse letture, che ci hanno aperto gli occhi su violenze, guerre, dittature. Eppure ciò non è bastato a scongiurare un’altra guerra. La scrittrice ucraina Katja Petrovskaja l’ha detto più

volte: “Non è più tempo di letteratura. Ora dobbiamo solo combattere e salvare vite”. Possiamo ancora credere che la letteratura serva a qualcosa? «La letteratura serve sempre. Ma non si può domandarle una cosa che non può fare: fermare Putin, ad esempio. Io capisco bene ciò che dice la scrittrice, che oggi è il tempo di essere soldati, e questo vale per tutti gli europei, non solo per gli ucraini invasi, ma ciò non significa che la letteratura non sia utile. C’è questa credenza in giro, che non serva a niente: un’idea messa in circolazione da gente come Flaubert, Oscar Wilde, i simbolisti di fine Ottocento. Scrittori che provocavano, sfidando il pragmatismo orribile della borghesia della loro epoca, che riteneva utile solo quello che serviva a fare soldi. La letteratura è enormemente utile». Che cos’è, per lei, la letteratura? «Prima di tutto è un piacere. Come il sesso. Ma è anche una forma di conoscenza. Come il sesso. Di te stesso e degli altri. Per questo quando qualcuno mi dice che non gli piace leggere, la mia prima cosa che mi viene istintiva è fargli le condoglianze: significa che è spacciato. C’è qualcosa di più utile del piace-


Idee

Foto: M. Tama - Getty Images, N.Campo / LightRocket via Getty Images

TEMPO DI LETTERATURE re e della conoscenza? Non serve a fermare la guerra. Ma serve a moltissime altre cose. Quello che lei mi dice mi ricorda un aneddoto su Elias Canetti e Oskar Kokoschka: c’è la guerra, i due esiliati a Londra si incontrano, il pittore, disperato, dice: “A che serve il nostro scrivere, a che serve dipingere, se non possiamo fermare la guerra?”. Capisco la disperazione dell’uomo, ma la scrittura è necessaria. E Melchor Marín lo sa: i romanzi non servono a niente, tranne a salvarci la vita». Resta convinto anche della necessità dell’Europa? Un paio d’anni fa, in una conversazione con L’Espresso, alla domanda su cosa fosse l’Europa per lei, ha risposto: «Non so definirla in una sola frase, quello che so è che l’Europa unita è l’unica utopia ragionevole che abbiamo inventato noi europei». La guerra ha cambiato la sua impressione? «No. Semmai l’ha rafforzata. Perché un’Europa forte, politicamente unita, è l’unico modo che abbiamo per preservare la pace, la prosperità e la democrazia. Noi europei le diamo per scontate, ma per chi scende in piazza, per chi muore tentando di entrare in Spagna, cioè in Europa, come è accaduto la settima-

Il 12 luglio Javier Cercas sarà al Festival Internazionale “Letterature”, a cura dell’Istituzione Biblioteche di Roma, nella prima delle cinque serate dedicate a “Tempo nostro” (si prosegue il 14,18,19, 21 luglio). Allo Stadio Palatino, l’autore rifletterà sul tempo delle donne. Nella stessa serata Andrew O’Hagan e il neo vincitore del Premio Strega.

na scorsa a Melilla, l’Europa è la possibilità di una vita migliore. E lo è veramente». Perché però la chiama utopia? «Utopia nel significato originale della parola, nel senso di ideale». La figlia di Melchor si chiama Cosette. Che cosa rappresenta per lei il romanzo “I Miserabili”? «Per me non rappresenta quello che rappresenta per Melchor Marín. Altri mi hanno chiesto: perché hai scelto “I Miserabili?”. La risposta è semplice: io non ho scelto “I Miserabili”. È Melchor Marín che lo ha scelto. O meglio, “I Miserabili” hanno scelto lui». E di questo si è dato una spiegazione? «Quando ho cominciato a scrivere il romanzo - che poi è un solo romanzo in tre libri - mi sono chiesto quale libro fosse in grado di trasformare la vita di un uomo come Melchor, barbaro, selvaggio, nato nel peggior quartiere di Barcellona da una prostituta, con un padre in galera. Immediatamente mi è venuto in mente “I Miserabili”, un libro terribile, bigger than life, e anche non più così comune, antico anche in senso estetico, ma allo stesso tempo enorme. Un libro che parla esattamente di noi, de te fabula narratur come diceva Orazio: è di te che si parla in questa storia. Ed è ciò che sente Melchor Marín quando comincia a leggere: è di fronte a uno specchio. Il libro gli svela chi è, gli mostra la sua vocazione, di lettore, di poliziotto. Gli cambia la vita». “I Miserabili” è il libro che il padre legge la sera alla figlia. Poi l’abitudine si interrompe. Il rapporto tra i due si fa più conflittuale: la diciassettenne Cosette finisce con il leggere tutto, tranne proprio quello che il padre le consiglia. Nel rapporto di scontro fra genitori e figli c’è una componente tragica, dice lei. Perché? «La tragedia è un conflitto in cui le due parti hanno ragione. E questo è il detonante del romanzo: il conflitto tra i genitori, che hanno ragione a voler proteggere i loro figli, e i figli che hanno ragione a voler emanciparsi per essere chi veramente sono. La figlia rivendica di sapere che la propria madre è stata uccisa, il padre glielo ha nascosto per proteggerla. Ma saperlo era importante, per quanto duro. Mi interessava sottolineare che la vita non è semplice, che siamo pieni di contraddizioni. Che serve amore e coraggio per capirsi. Sono sicuro che alla fine del libro i due lo faranno. Ma bisogna sapere che è cosa 10 luglio 2022

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Sguardi sul presente estremamente difficile, tragica». A complicare i rapporti è il fatto che verità e menzogna sono spesso compenetrati. “Si mente con la verità”, dice: spesso nelle bugie c’è un pezzo di verità che dà parvenza di credibilità alla menzogna. «La verità può essere molto dura, difficile da accettare, è per questo che la menzogna trionfa. La gente spesso preferisce la menzogna perché la verità è scomoda e sgradevole, e poi la menzogna è più facile da raccontare. Le bugie più pericolose sono quelle mescolate a verità, che hanno il sapore della verità. Pensiamo a quello che sta accadendo: dietro l’enorme menzogna di Putin ci sono granelli di verità. Esattamente come le grandi menzogne di Hitler contenevano granelli di verità: per esempio che il patto di Versailles fosse un errore, ma questo non giustificava la reazione dei nazisti. Analogamente, è vero che gli occidentali hanno fatto errori nei confronti dei russi. Ma non giustificano la reazione di Putin». Il tema del passato che condiziona il presente perché, parafrasando Faulkner, il passato non è mai morto anzi non è neppure passato, è una convinzione che lei ribadisce sempre. «Qualsiasi potere, democratico o non democratico, sa che per controllare il presente e il futuro bisogna prima controllare il passato. Il potere autoritario vuole imporre una sua visione del passato. Perché sa che il passato non è morto, ed è invece una dimensione del presente senza la quale il presente è mutilato. Per questo scrittori, giornalisti e cittadini hanno l’obbligo di impedire la manipolazione del passato. Come di impedire la manipolazione del linguaggio: chi controlla il linguaggio controlla la realtà. In questa guerra tutto ciò si vede inequivocabilmente: in Putin c’è la volontà di imporre una visione nella quale l’Ucraina non esiste come nazione. Questa lotta è la nostra lotta contro la manipolazione. Evidentemente è più facile farlo in democrazia che in una autocrazia. Ed è la dimostrazione che il passato non è ancora passato: è sempre qui». Anche lei è un impostore: nel romanzo fa dire a un personaggio che un certo Cercas sta scrivendo libri su di loro: “Non li hai letti? Dovresti. Quel Cercas s’inventa tutto, ma sono divertenti. Questi romanzieri sono dei truffatori”. «Mi sembrava logico, per un libro ambienta-

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Una scena del film “I miserabili” con Liam Neeson (1998). A fianco: Gola di Estret de la Fontcalda e fiume Canaletes in Terra Alta. In questa zona della Catalogna sono ambientati i libri di Cercas “Terra Alta”, “Indipendenza”, “Il castello di Barbablù”

to nel 2025, tener conto di un romanzo come “Terra Alta”, che da quando è uscito ha avuto grande successo, ha vinto il premio Planeta, è stato tradotto in molti Paesi. Era logico supporre che in quella parte di Spagna lo avessero letto. Ma il gioco mi piaceva anche perché non riesco a pensare a un romanzo senza ironia. L’umorismo è essenziale: è una forma di conoscenza. Ed è la cosa più seria del mondo, come ci ha insegnato Cervantes. Io non ho il diritto di ridere di qualcuno se prima non rido di me stesso: l’autoironia è la prima condizione della moralità. Se Putin fosse capace di ridere di sé forse non saremmo nella situazione di oggi». Il suo poliziotto riprende a investigare quando la figlia scompare. Cosette si è imbattuta in un uomo noto, potente, un predatore sessuale. Molti fatti di cronaca vengono in mente. Qualche vicenda l’ha colpita più di altre? «No. Ho raccontato un fatto che succede da sempre: di uomini con soldi e potere che usano le donne. Non è una novità, né è successo per la prima volta ora con gli Epstein o i Weinstein. A differenza di un tempo, abbiamo strumenti che servono a smaschera-


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Foto: Webphoto, Alamy / Ipa

te pensa che certe ingiustizie non si debbano più accettare. Finalmente si parla dei dati agghiaccianti sulle aggressioni a sfondo sessuale: due ogni ora in Spagna, dieci donne morte al giorno in Messico lo scorso anno...Inaccettabile, appunto. E un problema di tutti». Questo è anche il cuore del suo romanzo. «È un tema che percorre tutta la trilogia. Non sono andato a cercarlo, in realtà: i romanzieri non lavorano con la loro parte razionale, sono i temi che cercano noi. Io mi sono trovato di fronte a un uomo oscuro e pieno di furia, di odio e desiderio di vendetta, di quello che Georges Bataille chiamava “la parte maledetta”. E quest’uomo è assediato dalla violenza contro le sue donne: la mamma, nel primo libro, la moglie, la figlia nell’ultimo romanzo. Noi scrittori viviamo nel mondo, ne siamo i termometri, e questo è un tema essenziale del nostro tempo». Che ne solleva un altro: ottenere giustizia. È legittimo farsi giustizia da sé? «Nella realtà non lo è mai. Ma per la finzione è diverso. Per me scrivere vuol dire formulare una domanda complessa nella forma più complessa possibile. E non dare una risposta univoca, chiara: le risposte dei re, a volte, queste vicende. Ma non ho avuto necessità di pensare a casi specifici, perché da sempre la civilizzazione si accompagna a una considerazione secondaria delle donne: metà dell’umanità ha pensato che l’altra fosse prescindibile. E questo è un fatto: uno come Aristotele, al centro della nostra civiltà, riteneva le donne inferiori agli uomini. E così hanno sostenuto molti altri filosofi. Questo è il tempo delle donne, la loro rivoluzione è la più grande del nostro tempo, anzi è quella che lo definisce di più». Tocca un nervo scoperto. Negare l’autodeterminazione femminile e rendere illegale l’aborto, come ha fatto l’America, rispedisce indietro altre conquiste. «Questa è una rivoluzione, e tutte le grandi rivoluzioni hanno i loro momenti di controrivoluzione: fatti che sembrano rallentare il processo. Ma sarebbe ridicolo crederlo: quello che sta accadendo è irreversibile. Quanto è successo negli Stati Uniti è grave, è un problema. Dimostra anche che questa rivoluzione dobbiamo vincerla tutti insieme, uomini e donne. La vita delle donne è sempre stata molto complicata, oggi lo è meno che mai. Perché la stragrande maggioranza della gen-

“L’ironia è essenziale alla vita: è una forma di conoscenza. E l’umorismo nella letteratura, è la cosa più seria del mondo: ce lo ha insegnato Cervantes” romanzi sono poliedriche, ambigue, contraddittorie. All’inizio dicevo che la letteratura è piacere e conoscenza. Ma la forma di conoscenza della letteratura non è quella del giornalismo, della scienza o della storia. La vera letteratura mette in discussione le nostre più radicate certezze, fa uscire dalla comfort zone, obbliga a confrontarti con attitudini e idee che nella vita quotidiana non accetteresti mai. In cambio del piacere che dà, la letteratura deve mettere a disagio il lettore, interrogarlo: cosa faresti tu se tua figlia sparisse? Se non ottenessi giustizia contro chi ha fatto cose terribili a tuo padre? Così la letteratura diventa un deposito di esperienza: ci fa più complessi, più ricchi, Q ed è per questo che è utile». © RIPRODUZIONE RISERVATA

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La montagna di carta

Scaffali colmi di libri nella nuova biblioteca Mohammed Bin Rashid, a Dubai

COME PENSA UN Il difficile mestiere di chi fa libri. Un po’ condottiero, un po’ guerriero, un po’ detective. Come sostengono due decani, Teresa Cremisi di Adelphi e Naveen Kishore di Seagull di Chiara Valerio 92

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Foto: G. Cacace - Afp / Getty Images

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n dialogo con due grandi editori sul loro difficile mestiere. L’occasione è la prima edizione del premio per l’editoria intitolato a Cesare De Michelis, l’editore e fondatore di Marsilio scomparso quattro anni fa. Uno di fronte all’altra, Naveen Kishore, editore e fondatore di Seagull Books, e Teresa Cremisi, presidente di Adelphi e prima alla guida di Garzanti, Gallimard e Flammarion, si sono incontrati qualche settimana fa a Venezia, durante l’inaugurazione del festival Incroci di civiltà. Kishore ha vinto il premio e Cremisi ha presieduto la giuria che glielo ha assegnato. Un premio a un editore universale assegnato a Venezia mi pare abbia un suo senso preciso. Venezia è la città di Aldo Manuzio dove, nelle stanze della fondazione Giorgio Cini sono custoditi incunaboli preziosissimi, opere d’arte di forma e contenuto. Venezia è la Repubblica che per la battaglia di Le-

panto ha inviato una flotta di golette, galee e galere, cioè imbarcazioni da guerra e commerciali. Venezia è una indicazione di cosa è e cosa fa l’editoria: mischia, media, sta in bilico, azzarda e ferma sulla carta parole e forme. Talvolta, anche, manda al macero. Illumina e oscura, innova qualcosa che è fermo dalla sua prima apparizione tra gli umani manufatti: il libro. Se è vero che la Rosa è solo un nome, la forza è proporzionale al prodotto di massa e accelerazione e la Gallia è divisa in tre parti, il libro ha le pagine. Così sia. L’editore è qualcuno che, dato un oggetto immutabile, lo innova continuamente. Non si può fare altrettanto con le forchette o con le sedie che pure hanno la stessa forma dalla loro prima apparizione. Questo dimostra che il libro ha una funzione nella cultura umana e dunque bisognerebbe immediatamente smettere di porre e porsi la domanda: «A cosa servono i libri?». Così evito e chiedo a Cremisi perché è ragionevole e opportuno assegnare un premio a un editore. «Perché è un lavoro difficile», risponde sorridendo, schiva. È difficile, in effetti, anche raccontare cosa sia un editore, a che punto lo si diventi singolarmente, e anche cosa renda un gruppo di persone una casa editrice o un marchio riconoscibile. Le copertine? Il catalogo? Kinshore oltre a pubblicare libri pubblica, in effetti, un catalogo (il più simile per l’editoria italiana è Adelphiana 1963-2013). Il catalogo di Seagull somiglia al Mahabharata, è una tarsia e «un catalogo di vite in forma di libro ed è filosofico sia nel modo in cui modella ed espone il contenuto, sia per come si presenta, nella sua estetica», racconta Kishore: «Evidenzia una decisione, una resistenza al mondo e nel contempo empatia con la condizione umana, come per madame Woolf, gli artigiani sono anche artisti! È di certo una biografia. Non solo dell’editore... anche se questo è ovvio, ma è pieno di “vite degli altri”. Il catalogo di un editore ha a che fare con le intenzioni, più di tutto». E intenzioni siano.

Torno a Lepanto, una battaglia navale, perché ogni volta che si legge di Teresa Cremisi (interviste) o si legge ciò che Teresa Cremisi scrive («Ho una immaginazione portuale», incipit del suo romanzo “La Triomphante”, Adelphi, 2016, trad. E. Di Lella e F. Sala) spuntano immagini e parole di vele e di acqua: «Dal timone di Gallimard a quello di...», per esempio, o sue foto, col bavero alzato, dove sembra Corto Maltese. Ecco, Cremisi ha riportato, rientrando in Italia successivamente al trentennio francese, un’idea e una rappresentazione avventurosa dell’editoria, piena di vento. Quando le chiedo come è cominciata la sua vita da editore risponde: «Avevo diciotto anni e decisi che una casa editrice era il luogo che faceva per me. Scrissi tre o quattro lettere a editori milanesi, mi risposero tutti. Guardai su una cartina quale era la più vicina a casa, scartai la Rizzoli perché avrei dovuto sobbarcarmi ore di tram, e mi presentai alla Garzanti in via Spiga. Preparavano un dizionario italiano-francese, il mio curriculum stava in due righe, diceva che ero bilingue, di proposito non avevo menzionato l’età. Quando mi videro si spaventarono e tre giorni dopo ricevetti una lettera che mi consigliava di ripresentarmi qualche anno dopo, alla fine degli studi universitari. Ma poi ci ripensarono, mi organizzarono un tempo parziale che mi permetteva gli studi e mi assunsero. Non ero proprio un editore, ero un redattore. Un buon inizio». Le avventure, questo insegnano i romanzi, non si annunciano mai dalla prima pagina: Edmond Dantès sta tornando a casa dopo aver fatto una piccola carriera sulla nave sulla quale era imbarcato, Dracula comincia per una compravendita immobiliare, e Cremisi diventa Cremisi spedendo un curriculum, come quasi tutti. Kishore invece diventa editore di notte, o questo è il suo racconto, ma le storie d’Oriente di frequente cominciano per sogno o illuminazione. «Prima della mia nascita editoriale facevo il progettista di luci a tea10 luglio 2022

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tro. E giacché il teatro non è pagato mai abbastanza perché si possa sopravvivere e provvedere al sostentamento di una famiglia, come toccava a me da quando avevo 16 anni, mi sono “reinventato” in un mestiere che da noi sia chiama “impresario” e che ai giorni nostri porta il nome di event manager. Il primo evento che ho organizzato è stato un concerto rock, il 5 marzo 1972. Si apriva con una canzone chiamata “Seagull Empire”. Il concerto aveva avuto molto successo

“Chi pubblica libri si fida del proprio istinto, di ciò che sente nella pancia, di certi contenuti e dell’intuizione di condividere idee e pensieri con lettori in tutto il mondo”

Dall’alto: Teresa Cremisi, presidente di Adelphi; Cesare De Michelis, già presidente della casa editrice Marsilio, scomparso nel 2018; l’editore indiano Naveen Kishore

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in tutta Calcutta e, più tardi, organizzando il secondo concerto rock mi sono portato dietro il nome “Seagull Empire presenta”... Molto dopo, il 20 gennaio 1982, mi sono svegliato nel cuore della notte, avevo l’impulso a creare e guidare una casa editrice di arte, cinema e teatro. Così è nata Seagull Libri. E ora compiamo quarant’anni!». Cremisi, alla domanda su quale sia la relazione tra editore e lettore risponde: «Tenue. Certo è meglio essere anche un lettore. Ma l’editore è un mestiere più variegato, implica doti contraddittorie e accetta anche i difetti. Si può essere editore in cento modi diversi». Il modo in cui lo è Kishore è: «Leggiamo e dunque pubblichiamo. C’è un legame tra lettori e editori come c’è tra leggere e decidere cosa pubblicare. Gli editori si fidano del loro istinto, di ciò che sentono nella pancia, dell’intuizione di curare certi contenuti, fare libri, condividere idee e pensieri con potenziali lettori in tutto il mondo. E questo riguarda la condizione umana. Un’altra cosa: i lettori sono grandi detective. E un editore è il migliore dei detective!». Avventura di mare e di guerra da un lato, e investigazione

dall’altra. Si ricreda chi pensa che editoria e scrivania fanno rima. Ma quindi, incalzo Cremisi, cos’è l’editoria? «Ha a che fare con il giardinaggio. Voglio dire che si piantano dei semi, si aspetta, nel frattempo si fanno altre cose: questo per quel che riguarda il lavoro “letterario”. Scherzi a parte, l’editoria è un mestiere ibrido. È figlia della letteratura, arte o artigianato, come preferisce, e del commercio. Senza commercio non c’è editoria. Senza un’idea precisa dei contenuti da pubblicare non c’è editoria. Ci aggiunga un po’ di estro, un po’ d’audacia, non dimentichi sensibilità al tempo inteso come panorama culturale e politico». Estro e audacia sono ancora termini di avventura. E i lettori, le lettrici? Quegli strani viventi, sparsi e nascosti, turisti e viaggiatori nelle librerie fisiche e argonauti di store online, chi sono? Esiste, soprattutto, l’ossessione dell’editore per il lettore? È profilazione merceologica o atto di ontologia, fede? Per Kishore «Certo, c’è ossessione dell’editore per il lettore. E passione. Fede. Speranza. E cosa più importante, intuizione. In ciò che pubblichiamo. Non di chi sia il lettore, ma di ciò che pubblichiamo. Quando scegliamo cosa portare nel mondo sotto forma di libro, il lettore non è tra le nostre principali preoccupazioni. È il contenuto a sostenere il lettore. I lettori trovano la loro strada verso i libri e non viceversa. I lettori sono esseri sensibili e spesso solitari. È la natura del libro e i pensieri che incarna a portare i lettori fuori dai loro nascondigli!». Teresa Cremisi ha un’altra versione, «Ossessione non so. So che un editore bravo i suoi lettori li inventa. O almeno li arruola sotto la sua bandiera». Arruolare. Ecco qui. Uomini, donne, cavalieri, armi e amori di due editori internazionali. E di Cesare De Michelis, il quale diceva che i libri servono in mezzo agli esseri umani, nel mondo, in mezzo agli altri. Da soli su un’isola deserta, per esempio, di libri non si ha bisogno. Q ©RIPRODUZIONE RISERVATA

Foto: L. Cendamo - Getty Images, G. Candussi - Corbis via Getty Images, A. Merola/Rosebud2

La montagna di carta



I libri e la vita

LETTERA A UNA

copertina MAI NATA

Cani, volti di personaggi, una bambola gonfiabile. Nel 1990 l’illustratore Marco Ventura incontra la scrittrice e prepara il disegno per “Insciallah”. Che verrà scartato di Angiola Codacci-Pisanelli

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n prima fila ci sono i cani. I cani che, come scriveva Oriana Fallaci, «la notte invadevano la città. Centinaia e centinaia di cani che approfittando dell’altrui paura si rovesciavano nelle strade deserte, nelle piazze vuote, nei vicoli disabitati», e di giorno non si vedevano, «forse non esistevano perché non erano cani bensì fantasmi di cani che si materializzavano col buio per imitare gli uomini da cui erano stati uccisi». È l’incipit di “Insciallah”, forse il libro più famoso della scrittrice e giornalista toscana. I cani dovevano accogliere il lettore sulla copertina del romanzo disegnata nel 1990 da Marco Ventura. Copertina che non si fece mai, come ben sa chi ricorda il grigio perla che circonda, sul volume Rizzoli, i due unici elementi grafici: il nome dell’autrice in nero a caratteri cubitali e il titolo, più piccolo ma tutto in maiuscole, in rosso sangue. «Era la primavera del ‘90», ricorda Ventura. «Mi chiama Giovanni Ungarelli, il direttore editoriale, e mi di-

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ce che c’è da fare una copertina e che devo parlarne direttamente con l’autrice». Non è il primo lavoro con la Rizzoli per Ventura, figlio e fratello d’arte (il padre Piero è stato un famoso illustratore per bambini, il fratello Andrea è il ritrattista di fiducia del New Yorker, l’altro fratello Paolo è fotografo e pittore). Ha già firmato varie copertine con personaggi dipinti ad olio, come quella di “Quando eravamo povera gente” di Cesare Marchi: «Lì c’erano perone diverse, anche un militare in divisa: forse per questo pensarono a me». Se lui non era alle prime armi, lei era famosissima: aveva già pubblicato “Intervista con la storia”, “Lettera a un bambino mai nato”, “Un uomo”, la sua storia d’amore con l’antifascista greco Alekos Panagulis. “Insciallah” è destinato a rimanere l’ultimo romanzo che pubblicherà. Poco dopo Fallaci si trasferisce a New York per dedicarsi a un romanzo che lega la storia dell’Italia moderna e quella della sua famiglia. L’attentato dell’11 settembre 2001 però cambia la sua


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Foto : CAMERA PRESS - The Times / Contrasto

A fianco: la giornalista e scrittrice Oriana Fallaci

vita professionale, ispirandole due saggi veementi sullo “scontro di civiltà” tra cristianesimo e islam: “La rabbia e l’orgoglio” e “La forza della ragione”. Il romanzo interrotto, “Un cappello pieno di ciliegie”, uscirà solo dopo la sua morte, avvenuta nel 2006. La scrittrice e l’illustratore si vedono a Firenze il 25 aprile. «Andai a casa sua, in una stanzetta dove lei stava scrivendo, e cominciò a spiegarmi come avrei dovuto fare questa copertina». Fin dalla prima telefonata, una preoccupazione: «Si raccomandò di non dire niente a nessuno del nostro incontro, del progetto e soprattutto del suo libro: “Nessuno deve sapere nulla di questo romanzo che sto scrivendo”». E infatti prima di andare a Firenze, Ventura di quel libro non sapeva nulla. E anche dopo, nel bozzetto che disegnò, sono fittizi sia il titolo che il nome dell’autore. “Amapio Rasella”, si legge in alto: lo stesso numero di lettere di Oriana Fallaci. E sotto, in stampatello, “Ischairota”: anche qui la lunghezza è la stessa di “Insciallah”. Del contenuto però 10 luglio 2022

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I libri e la vita qualcosa la scrittrice raccontò. E lo mise anche per iscritto: è l’elenco di nomi che pubblichiamo in queste pagine, accanto allo schema disegnato da Ventura mentre lei raccontava la trama e soprattutto descriveva i personaggi. Che sono una quantità: grazie allo schizzo disegnato dall’illustratore li possiamo identificare. Alle spalle del cavallo, a destra, c’è Gino, poi Angelo, il protagonista, e la sua amata Ninette. Dietro, una folla di italiani e libanesi, suore e marines. In basso, quasi al centro, quello con gli occhiali tondi un po’ gramsciani è il Professore – alter ego dell’autrice – e accanto a lui c’è un’ombra. «Professore (+ ombra?)», si legge nello schema battuto a macchina dalla scrittrice. L’elenco continua con «Gigi il Candido», «Armando Mani Oro», «Dalilah e Jasmine», e poi ancora «Ferruccio e Maometto» e, aggiunto a penna da Ventura, «mamma di Maometto»: «Ma si riferiva a un personaggio, non al Profeta», assicura l’artista. «E poi c’era una bambola gonfiabile», ricorda ancora, «non mi ricordo perché ma c’era, da qualche parte»: difficile riconoscerla nella marea di volti maschili e femminili… Ventura però capì fin dall’inizio che l’idea non era della scrittrice, che non sembrava affatto convinta: «Disse che secondo lei su un libro non doveva esserci un disegno che mostrasse il protagonista, perché il lettore doveva farsi la sua idea dell’aspetto partendo dalle descrizioni che ne faceva l’autore. E in effetti aveva ragione lei: anche a me capita spesso di pensare che i personaggi non sono come li hanno disegnati. A volte però l’atmosfera c’è: è quello che spero di ottenere con le copertine mie». Quel giorno, comunque, anche se l’idea di copertina non la convince, Fallaci non si risparmia. «Mi ha spiegato a grandi linee la trama, e cosa faceva quel turbine di personaggi», ricorda Ventura. «Era un vulcano: recitava, declamava, si muoveva. Mi ha raccontato la storia 98

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del libro legandola alle esperienze di guerra. A un certo punto per farmi capire una scena si è sdraiata per terra e mi ha fatto vedere com’era stato colpito il personaggio, dall’alto in basso, all’interno della coscia… Mi faceva impressione vedere una donna della sua età comportarsi così, immedesimarsi così nella storia del libro. Non era alta di statura e di costituzione era esile, aveva la voce molto roca, da grande fumatrice, ma aveva un’aura che metteva soggezione: io parlando con lei mi sentivo un po’ come un soldato semplice che va dal generale o dalla regina». Cerchiamo di immaginare la scena: una scrittrice che è già un mostro sacro, in un piccolo studio di Firenze, racconta a un giovane illustratore cosa contiene uno dei libri più misteriosi del momento, il romanzo che

tutti vorrebbero leggere in anteprima: che è ambientato a Beirut, che coinvolge le forze internazionali di pace e quindi anche il contingente italiano... «Ho cominciato a fare uno specchietto con le caselle in cui posizionare i personaggi, dai cani randagi in su», ricorda Ventura. «Ma i personaggi erano troppi, quindi lei si è seduta alla macchina da scrivere, credo fosse una Olivetti 32, per fare quell’elenco. Li ha divisi in gruppi, che dovevano poi corrispondere alle sezioni dell’illustrazione». Quindi davanti i cani, i galli, la cavalla bianca, e dietro tutti i personaggi allineati verso l’alto. I lineamenti li ha inventati Ventura basandosi solo su quel racconto orale: «Quando scriveva i nomi, la signora Fallaci mi ha fatto anche qualche descrizione, ma breve e troppo lettera-


Idee “Aveva la voce molto roca, da grande fumatrice, ma aveva un’aura che metteva soggezione: parlando con lei mi sentivo come un soldato che va dal generale o dalla regina”

Da sinistra: i disegni di prova e gli appunti per la copertina di “Insciallah”, l’ultimo romanzo di Oriana Fallaci. In alto: la copertina grigia, definitiva del libro, edito da Rizzoli nel 1990

ria. Diceva: “Il tenente colonnello tal dei tali si vestiva sempre in modo elegante”, o “il caporal maggiore parlava sempre declamando”. E io chiedevo: “Ma era alto? Basso? Tarchiato?” E lei ripeteva quello che aveva appena detto: “Parlava ai suoi soldati sempre declamando…”». E poi la varietà di veli e copricapi: «Ci sono le donne arabe ma anche le suore, e poi gli elmetti dei soldati, con le penne o senza, e i baschi, e poi qualcuno ha il fez». Sulle divise militari Fallaci era

particolarmente attenta: «Mi chiese se avessi fatto il miliare, e io lo avevo fatto proprio nel corpo dei bersaglieri che andò poi a Beirut, la divisione Ariete, e proprio negli anni tra il 1984 e l’85, quando si svolge la storia. In effetti per le divise del disegno mi sono ispirato ad alcune foto di commilitoni». Passa qualche settimana, poi Ventura viene convocato da Ungarelli a Milano in un ristorante per incontrare di nuovo la scrittrice. «Alla fine della cena andò in camera, scese con un faldone di fogli e cominciò a leggere brani dal libro». Poco tempo dopo viene il giorno del giudizio, quando Ventura porta alla Rizzoli la sua proposta di copertina. «Ungarelli volle vederla per primo, la guardò e mi fece i complimenti. Mi disse “È bellissimo, ma purtroppo la signora oggi è di

cattivo umore, quindi non so che cosa succederà”». Il malumore era dovuto al fatto che proprio quel giorno un giornale aveva scritto che il nuovo romanzo di Oriana Fallaci era ambientato in Libano e altri particolari sulla trama. E c’era una foto di lei con il giubbotto antiproiettile, l’elmetto e la sigaretta in bocca, una foto che a lei non era piaciuta per niente. «Le ho fatto vedere il disegno», ricorda Ventura, «e per ogni faccia lei mi chiedeva: “Questo chi è?”. Io controllavo dagli appunti, rispondevo e lei scuoteva la testa: “No no no, non ci siamo”. Solo qualche rara volta ha detto: “Sì, potrebbe essere…”. Mi ricordo che le piacque la bambola gonfiabile, e pochi altri. Alla fine mi dissero “ci pensiamo, le faremo sapere”, e la cosa morì lì». In luglio il romanzo uscì con la cover minimalista che conosciamo: «Ma io tempo dopo ho ripreso i miei schizzi», continua Ventura, «ci ho montato autore e titolo con i caratteri usati nella copertina, tanto per avere l’immagine nel mio archivio. E lì l’ho ritrovata qualche settimana fa, in un cassetto». Rimpianto per quella “copertina mai nata”? Sì, ma non del tutto: «Qualche tempo dopo ho incontrato alla Rizzoli il grafico, Enzo Aimini, che mi confidò: “Non sai cosa ci ha fatto passare per scegliere il carattere del suo nome e del titolo, e per la tonalità del grigio!”. E io mi son detto che mi era andata bene: con tutti quei volti, quei dettagli che erano nel mio bozzetto, al momento di passare ai colori a olio la signora Fallaci mi avrebbe fatto vedere i sorci verdi!» Q © RIPRODUZIONE RISERVATA

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Cronache di mafia La viltà, la rivalità, l’invidia. Lo scrittore riflette sulla solitudine di Falcone. E su ciò che racconta dell’Italia, trent’anni dopo, la strage di Capaci intervista a Roberto Saviano di Giuseppe Catozzella

UN PAESE FONDATO SUL

tradimento S

olo è il coraggio” è un carotaggio archeologico dentro la distanza che si è scavata tra noi oggi e il 23 maggio del 1992. Questa nuova, corposa no-fiction novel di Roberto Saviano, costruita su documenti, la letteratura come metodo di narrazione (i cui riferimenti più evidenti sono in “Santa Evita” di Tomàs Eloi Martinèz; in “Vice”, il film su Dick Cheney di Adam McKay; in “Stalin” di Sebag Montefiore; in “Empire of pain – il libro su Big Pharma” di Radden Keefe, e nei lavori di William Goldman) è l’anatomia del corpo malato di uno Stato presidiato permanentemente da quattro mafie. La nota finale vale come mappa dell’incontro-scontro tra documenti e letteratura. Erano gli anni del Maxiprocesso a Cosa nostra, a cui poi è seguita Mani pulite. Una volta per tutte è stato dimostrato che la mafia è un’organizzazione verticistica e solo un angolo del triangolo che la collega a certa politica e a certa imprenditoria. Per alcuni mesi è sembrato che «si potesse camminare per strada a testa alta, con la

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schiena dritta con una manciata di speranze in tasca. Per questo è sufficiente che la giustizia non perda». L’unica ossatura di uno Stato democratico è la credenza nei cittadini che i torti verranno puniti e i meriti premiati. “Solo è il coraggio” (Bompiani, 2022) è la cronaca documentatissima della vita, del lavoro e delle passioni di una persona che ha combattuto perché così fosse. È la storia di una solitaria resistenza. Fallita. Falcone sa che verrà ucciso e porta con sé un dolore indicibile. In una scena è a casa di Chinnici, vede la figlia e pensa che lui non avrà discendenti perché “non si mettono al mondo orfani. Tutto quel dolore che un giorno spaccherà le ossa, è già dentro di lui. È il suo dolore, e non vuole cederne neanche un po’”. Cos’è il dolore? «Il dolore per me è uno stato perenne, ormai felicità è assenza di dolore. Il livello di conflitto, odio e lotta in cui ho vissuto in questi 16 anni ha devastato tutto, non sono stato in grado di proteggermi. Dolore è la mia condizione

cronica. Ho cercato di capire come Falcone affrontasse il dolore costante, quello della perdita, di non avere figli, quello causato dalla paura che il suo lavoro fosse vano. Quello causato dalla consapevolezza di venire ucciso». Se niente cambia in Italia è perché Falcone viene tradito da tutti: “trombato” all’ufficio Istruzione, al CSM, come Procuratore generale, e alla fine ammazzato. Caponnetto appena arrivato a Palermo dice una cosa sul Sud. “A Firenze, a un saluto d’insediamento partecipano cinque o sei persone. Qui si organizzano sontuose tavolate. Poi, però, devi guardarti le spalle da quello della porta accanto”. È una metafora dell’Italia, nata da un tradimento. Perché il nostro destino è essere accoltellati alle spalle? «Siamo un Paese di contrade, rivali del vicino. Non è importante vincere, ma che il rivale si fotta. È lo stesso meccanismo dei premi internazionali, degli Oscar: l’importante è che non vinca un italiano. La bellezza artistica dell’Italia nasce anche da qui: il campanile, le


Foto: Guardian / eyevine / Contrasto

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chiese, i monumenti di ogni città sono frutto della competizione con le altre. Per l’arte funziona, per l’uomo no: cerco di battere l’altro delegittimandolo, fottendolo. Falcone viene ucciso soprattutto dall’invidia. La sentenza sull’Addaura lo dice: l’attentato fu di Cosa nostra, ma venne delegittimato dicendo che se l’era fatto da solo per fare carriera. Siamo un Paese fondato sul tradimento». Nel romanzo c’è il conflitto tra professione e vita, freddezza e ingenuità. “Tutti gli uomini invalidati da un eccesso di onestà, tutti gli animi puri e in certo senso fanciulleschi, quando si tratta di se stessi peccano d’ingenuità”. È il lato scoperto, dal quale si viene feriti. Dove risiede la tua, di ingenuità? «Nel pensare che si potesse contare su una solidarietà della lotta, invece quando parli chi ti ascolta pensa che se tu hai uno spazio lui non ce l’ha. Nel credere che un lavoro fatto bene porterà risultati. Nel credere che il ragionamento possa smascherare l’irrazionalità. Infine nel non aver capito subito

Il giornalista e scrittore Roberto Saviano, 42 anni, al Parco Saraceno di Castelvolturno (Caserta)

che tra scrittori, giornalisti ci si odia, e le eccezioni sono rarissime. È un ambiente in cui ci sono solo maldicenza e odio. Falcone riesce a proteggere se stesso nonostante le delusioni. Questo è stato per me un motore fortissimo». Quando Dalla Chiesa arriva a Palermo si rende conto che non c’è la volontà che lui svolga per bene il suo lavoro di prefetto. È nello sconforto. La moglie gli ricorda che è un uomo dello Stato, e lui risponde “uomo dello Stato non so più cosa significa”. Cosa è l’Italia nel 2022, a 30 anni dal suo più grande fallimento civile, per cui è “complicato distinguere la parte sana da quella marcia”? «Non è come l’avevano sperata loro. Non è cambiata, anzi. Per un altro verso, invece l’Italia di oggi ha due costituzioni: quella dei padri costituenti e quella del Pool antimafia, che ha cambiato la storia mondiale mostrando

che i soldi dell’eroina e dell’estorsione diventavano ricchezza legale e influenze. Non esiste democrazia se l’economia è marcia. Io qui non mi sono appropriato di una storia, ma ho cercato di far sì che il lettore si faccia una sua idea, raccolga quello che è stato». “Io se fossi in lui me ne andrei” dice Maria, la sorella di Giovanni. È una delle questioni centrali per noi italiani, emigrare verso Paesi in cui il merito è premiato e non punito. Perché rimani? «Ormai la linea della palma di Sciascia si è spostata oltre il nord Italia. Oggi anche al nord c’è disoccupazione, precariato, povertà. Quello che consiglio a un giovane è di andarsene, non c’è altra rivoluzione. Quello che i meridionali hanno sempre capito è che non puoi cambiare la realtà. Quando cambia per interventi individuali sono atti di grande sacrificio: Mimmo Lucano, Renato Natale. Le rivoluzioni hanno bisogno di risorse e persone, e in Italia e nel Sud mancano. Il Sud cambierebbe facendo entrare un milione di migranti all’anno. Il mio desiderio di lotta finora ha prevalso, ma spero un giorno di trovare la forza di far ripartire la mia vita da un’altra parte. I meridionali lo sanno: se vuoi cambiare devi partire». “Il vero dramma è questo agnosticismo della coscienza. È che esiste gente talmente stupida da non credere in niente”. Tu fai libri, cinema, giornalismo. Credi ancora nel potere della parola? «Credo nella parola letta dentro i libri. Leggere significa creare. Ho molta fiducia in chi si prende del tempo per leggere. Dopo di che, sono sempre meno convinto che possa esserci un cambiamento. Ma siccome la scrittura è una fede non riesco a fare a meno di credere nell’atto di scrivere». L’amore salva? «L’amore non salva perché nulla salva. L’amore può dare senso: ovvero sull’orlo dell’abisso non tutto sembra inutile. L’amore è protezione della propria terra, dell’idea di giustizia, delle proprie idee. La vita di Falcone è costellata di atti d’amore». Q ©RIPRODUZIONE RISERVATA

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Protagonisti Ha conosciuto il successo con “Desperate Housewives”, serie pioniera nella rappresentazione delle donne in tv. Ora la diva americana è in prima linea per i diritti

LA

guerriera DI HOLLYWOOD colloquio con Eva Longoria di Claudia Catalli

L’

urgenza di diventare una attivista le è venuta diventando mamma: «Da quando ho un figlio percepisco quanto sia impellente rimboccarsi le maniche e fare qualcosa di concreto per lasciare un mondo migliore alle nuove generazioni». A parlare è Eva Longoria, 47 anni, diva filantropa texana di origini messicane che ha conosciuto il successo planetario grazie alla serie “Desperate Housewives” e prosegue la sua carriera alternando un film a una causa da sostenere. L’ultimo in ordine di tempo è “Tell it like a woman”, pellicola corale a più voci firmata da sole registe. Sette storie di donne raccontate da altrettante donne, in anteprima al Taormina Film Festival, che Longoria descrive così: «Mi sono sempre impegnata con la mia fondazione, Eva Longoria Foundation, per sostenere le donne, quindi da attrice considero un onore far parte di progetti come questo al femminile. Il cinema sembra avere più difficoltà rispetto alla tv nel realizzare storie di donne raccontate da donne, è un peccato perché il cinema ha influenza sulla politica. Per questo dobbiamo impegnarci al massimo affinché le donne siano rappre-

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sentate meglio e di più, sia dietro che davanti alla cinepresa». L’obiettivo dichiarato è incoraggiare le nuove generazioni: «Una ragazza deve poter guardare i nostri film e dire: “Ok, allora posso essere molto di più di quello che i media e la società dicono che debba essere”». Sono lontani i tempi di “Desperate Housewives”, serie pioniera sulla rappresentazione delle donne sul piccolo schermo: «Conservo nell’armadio qualche abito della serie, di cui oggi riconosco il successo enorme, lì per lì non me ne rendevo conto. Ricordo il primo giorno del nostro primo tour promozionale, vidi una folla davanti al nostro albergo. “Per chi sono venute tutte queste persone?”, chiesi sbalordita. “Per te e per voi”, mi risposero. Stentavo a crederci: quando lavori, anche ad alti livelli, sei sempre dentro una bolla, è difficile avere percezione di che tipo di prodotto stai realizzando e come verrà accolto dal pubblico». Lavorare con le donne le è sempre sembrato naturale e stimolante, giura di non aver mai conosciuto una collega che le abbia messo i bastoni tra le ruote: «Ho incontrato solo donne che mi hanno aiutato e supportato». Un esempio concreto? «La prima persona che mi ha proposto la regia era una produttrice, a cui d’istinto ho risposto un

“sì” che avrei voluto rimangiarmi. Come donne pensiamo sempre che non siamo pronte, non ne sappiamo abbastanza, non siamo all’altezza. Gli uomini non si pongono neanche il problema, lo danno per scontato». Coniugare carriera e famiglia resta una sfida, anche per un’attrice, regista e produttrice instancabile come lei: «Da donne siamo ancora messe di fronte alla scelta impossibile tra carriera e famiglia, costrette a rallentare per portare avanti il continuo lavoro di madri, caregiver e donne in carriera. Io ho trovato il mio modo portandomi dietro mio figlio (Santiago, avuto dal produttore messicano José Antonio Baston, Ndr.) sui vari set anche mentre allattavo». Nessuno hai mai avuto da ridire, né è stata mai vittima di discriminazioni: «Ho incontrato il sessismo sul lavoro più a livello di troupe, tra direttori della fotografia e produttori con forti pregiudizi sulle donne, pronti a sindacare tutto ciò che facessi». La sua reazione? «Sono diventata più grintosa, imparando che devi essere forte per difendere le tue idee. Capita a tutte le donne, dobbiamo essere due volte più determinate, preparate e capaci degli uomini. Essere brave non basta, ci è richiesto di dimostrare di valere sempre di più». C’è un modo di uscire da questo circolo vizioso generato dall’ansia


Idee

Foto:S. Meyssonnier - Reuters / Contrasto

L’attrice e modella statunitense Eva Longoria, 47 anni

di prestazione? Longoria ha già la risposta pronta: «Per gli uomini si tratta di assumere più donne possibili, per le donne di tenere aperta la porta da cui si è entrate per tutte quelle che verranno dopo di noi. Basta parole, urgono i fatti: da produttrice e regista mi impegno personalmente a lavorare con attrici, operatrici, costumiste, montatrici, coordinatrici di stunt donne. C’è spazio per tutte e le cose iniziano finalmente a cambiare. Parlo con colleghe come Salma Hayek, Reese Whiterspoon e Natalie Portman, condividiamo opinioni ed esperienze, a Hollywood siamo riuscite a creare finalmente una comunità forte, anche se il potere è in gran parte in mano agli uomini. Anche perché a loro non

è richiesta la performance che è richiesta a noi donne: quanti uomini hanno fallito e avuto comunque l’opportunità di riprovare? Quanti registi hanno sbagliato film eppure hanno finito col firmare addirittura una saga cinematografica? Le donne devono avere la stessa possibilità e la stessa indulgenza, ma prima bisogna fare in maniera che sempre più produttori coinvolgano intenzionalmente le donne, garantendo lo stesso stipendio dei loro colleghi. Lo stesso dovrebbe accadere fuori dal sistema cinema, a livello di amministrazioni cittadine, di giornalismo, di medicina, di politica soprattutto». Già, la politica. Longoria ha sostenuto il nuovo presidente Joe Biden, come fece per Barack Obama, senza mai evitare di dire la sua tra un tappeto rosso e l’altro, tenendo alta la causa dei diritti delle donne: «Non mi sono mai ferma-

ta di fronte all’ingiustizia, non ho mai messo in dubbio il mio impegno di attivista. È più forte di me, tanti attori dicono di non aver tempo per queste cose, io vengo da una famiglia di filantropi, sono stata cresciuta pensando agli altri e fa parte del mio Dna dare sostegno alla mia comunità. Attrice e regista è quello che faccio, non quella che sono». Chi è, allora, Eva Longoria? «Sono anzi tutto una mamma, una figlia, una sorella e un membro della mia comunità: il destino delle altre donne mi sta a cuore, non posso disinteressarmene». La sua paura più grande? «Che non si faccia nulla per migliorare le cose». Per questo si sta mobilitando, assieme ad altri esponenti della cultura americana e non solo, a seguito della sentenza della Corte Suprema sull’aborto: «Quello che sta succedendo nel mio Paese è gravissimo, ci sta portando indietro anziché avanti. Biden dovrà disfare tutto ciò che ha fatto la precedente amministrazione, quella di Trump. Sarebbe spettato a Obama nominare nuovi giudici alla Corte Suprema, ma le nomine sono state bloccate dal Senato ed è intervenuto Trump per strutturare una Corte in cui prevalgono i conservatori». Non solo, aggiunge agguerrita, i giudici durante le udienze in Senato «hanno garantito che non avrebbero toccato la sentenza sull’aborto, una promessa che non solo non hanno mantenuto, l’hanno proprio ribaltata». Scatta spontanea una protesta di massa, a cui lei intende dare voce: «Nel nostro Paese noi donne porteremo avanti tantissime azioni per dimostrare al mondo chi siamo, cosa facciamo e quanto valiamo. Non ce ne staremo zitte, né ferme, ma continueremo a combattere per i nostri diritti, che non sono solo “diritti delle donne”, ma diritti umani». Ci tiene a sottolineare come non si tratti affatto di un problema solo americano: «Sta accadendo in tutto il mondo, il patriarcato è vivo, vegeto e forte ovunque. Il mondo ha bisogno di una visione femminile, di equilibrio, parità e rispetto, c’è molto lavoro da fare per un cambiamento che è ora più che mai necessario per tutte e tutti». Q © RIPRODUZIONE RISERVATA

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Bookmarks/i libri A cura di Sabina Minardi

LA MONTAGNA ARRABBIATA Il coraggio per ricucire il rapporto spezzato con la natura. Rileggere Faggiani

LAURA PUGNO Chissà se Franco Faggiani ha letto le poesie “Antisismiche” dell’autrice maceratese Renata Morresi (in “Terzo paesaggio”, Aragno, 2019), dedicate al terremoto che nel 2016 ha colpito il centro Italia, uccidendo centinaia di persone, distruggendo interi paesi, e, scrive Morresi, “devastando intere aree di civiltà del centro Italia”, mentre intanto continua “a prosperare in tutto questo, una retorica, quella sì, inscalfibile.” E di certo, il rischio della retorica si annida e non può non farlo nell’impresa che a circa un anno dagli eventi sismici, durante un viaggio da Bardonecchia a Torino in cui rimane bloccato in autostrada a causa di un incendio doloso, si prefigge l’autore: dedicare un romanzo – accuratamente documentato – ai Vigili del Fuoco. La questione, in casi come questo, è come fare a fronteggiarlo. Per tutelarsi dal pericolo, Faggiani – già vincitore del Premio Biblioteche di Roma e del Premio Selezione Bancarella – si dota metaforicamente di un DPI, un dispositivo di protezione individuale che è al contempo – prendendo in prestito un’espressione cara allo scrittore e maestro di scrittura Giulio Mozzi – un “di-

spositivo drammatico”. Ovvero, non la cosa più importante di una storia, ma “ciò che la fa essere una storia”. Questo dispositivo drammatico, Faggiani lo incarna letteralmente nella sua protagonista, una giovane geologa solitaria, figlia di imprenditori di successo, che, potendo vivere di rendita nella vicina Svizzera, sceglie invece di arruolarsi nel Corpo, facendo carriera in un ambiente ancora molto declinato al maschile e vivendo una vita dura e remota in cui addestra cani per la ricerca dei morti. È attraverso lo sguardo di questo personaggio – così poco colluso col nostro esistente che la sua vicenda di vita nella seconda parte vira quasi al fiabesco – che scendiamo tra le macerie, verso quelle case ridotte, nella poesia di Morresi, “a descrizione”, da cui ci separa solo un nastro di plastica bianco e rosso, “una linea eloquente, un lungo verso”, ma in cui “non entreremo più”. Q © RIPRODUZIONE RISERVATA

“TUTTO IL CIELO CHE SERVE” Franco Faggiani Fazi, pp. 280, € 18

“Un’avventura elettrizzante e survoltata”. Così ha definito l’autore il suo romanzo, nell’introduzione che ne accompagna il grande ritorno in libreria. Riecco l’America cruda anni Sessanta nel primo volume di una trilogia (seguita da “Sei pezzi da mille” e “Il sangue è randagio”) che ha nutrito gli immaginari di molti. Tra crimini, ingiustizie, spionaggi e, al culmine, l’assassinio di John Kennedy. Una storia disperante, in cui non si salva nessuno.

Le origini non mentono: e provenire da una famiglia italiana gli ha insegnato che niente è più importante del cibo. L’attore di memorabili interpretazioni (una per tutti: “Il diavolo veste Prada”) si tuffa in un racconto della sua vita attraverso la cucina. Un memoir, e un viaggio tra tavole di tutto il mondo, che dimostra come l’attenzione alla qualità degli ingredienti, la cura nei piatti, le tradizioni culinarie stuzzichino curiosità e gioia di vivere.

La passione per un vento, il maestrale. L’attrazione irresistibile per il mare. L’occhio attento del giornalista che registra e restituisce in trascinante narrazione. La storia di un salvataggio, ispirata a un’impresa realmente accaduta al largo delle coste sarde, è qui rievocata col gusto di scrivere tendendo fino al limite personalità ed emozioni. Nude, di fronte al mare. Scoperchiate da onde che fanno paura. Ed esaltate dal coraggio che serve.

“AMERICAN TABLOID” James Ellroy (trad. Stefano Bortolussi) Einaudi, pp. 784, € 20

“CI VUOLE GUSTO” Stanley Tucci Baldini+Castoldi, pp. 320, € 20

“MARE MOSSO” Francesco Musolino edizioni e/o, pp. 179, € 16 10 luglio 2022

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Terrorismo in Africa MOZAMBICO

Tra gli sfollati di Cabo Delgado in fuga dalla jihad Ricco di risorse naturali, il nord del paese è attaccato dai fondamentalisti. Le ong sono a rischio, e i colossi dell’energia devono fermare gli impianti

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Benedettelli

on c’è ombra nel campo per sfollati. Manghi e baobab che di solito coi loro rami proteggono i villaggi africani sono assenti. È sotto il sole, nella sua kaya, lo spazio abitativo formato da capanna e cortile, che Modesta torna sul suo recente passato: «Sono arrivati di notte, urlavano in tante lingue, in kiswahili, in kimwani, in kimacua e in portoghese, sembravano diavoli dalla furia che avevano. Hanno bruciato tutto. Siamo scappati nel mato, (la boscaglia, ndr) e poi dopo giorni di cammino ci siamo messi in salvo, con in braccio mia figlia che non può camminare». Cabo Delgado, provincia settentrionale del Mozambico, è sprofondata dal 2017 nel caos della guerriglia e la donna è una dei suoi 780mila Idps, Internally Displaced People, gli sfollati “interni” costretti a fuggire dai propri villaggi. Gli attacchi tempestati dai vessilli neri della jihad continuano a funestare le comunità di quest’area arborea dell’Africa australe, ricca d’innumerevoli miniere, e gas. Come quello che Eni estrae in mare aperto, 50 km davanti al bacino del fiume Rovuma mentre sulla costa si sono impiantati coi loro giganteschi siti produttivi anche ExxonMobil e TotalEnergies. Il Mozambico è al terzo posto in Africa per gas dopo Nigeria e Algeria, con riserve accertate di circa 3.000 miliardi di

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metri cubi. Qui Eni ha appena avviato il suo nuovo impianto galleggiante di liquefazione di gas naturale, il Coral Sul, dalla capacità di 3,4 milioni di tonnellate, il primo costruito per pozzi africani. Modesta però nella sua kaya dice che dei siti estrattivi sulla costa ne ha sì e no sentito parlare. Lei che prima era una contadina e ora si ritrova coi figli nel campo per sfollati di Ntocota, uno dei circa venti - ma la situazione è estremamente fluida agglutinati intorno Metuge, a due ore di jeep dalla capitale provinciale Pemba. La donna, 49 anni, è senza marito. Ha le unghie dei piedi smaltate di azzurro e nessun lamento mentre racconta quanto sia dura la vita nella sua nuova casa di fascine e terra, col pozzo d’acqua a un’ora di cammino e una figlia disabile da crescere. Per fortuna ora la piccola può andare a scuola, grazie al supporto dell’ong italiana Avsi, che nel campo di Ntocota e in tutta l’area è al fianco della comunità con delicati progetti per minori, sostenuti da Unicef e Unhcr. Ogni giorno il fratellino e gli amici la accompagnano sulla sedia a rotelle, lungo i sentieri rossastri, al vicino istituto Namagna, dove le classi sono di pali e tendaggi e gli alunni si sono quintuplicati a oltre 600 col fluire dei profughi interni. Qui il direttore Kurnelio Tangos racconta: «Tanti bambini arrivano fiacchi, denutriti. Succede a fine mese quan-

Foto: M. Longari / AFP via Getty Images

di Marco

Campo profughi a Muagamula, nel nord del Mozambico. Questo reportage è stato realizzato grazie al “Premio Mimmo Cándito Giornalismo a Testa Alta”


Storie

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Terrorismo in Africa

Al lavoro con i bambù nel campo sfollati “25 de junho” di Metuge

do le razioni di aiuti umanitari sono agli sgoccioli». Tutto lascia supporre che Ntocota si trasformerà in un villaggio stanziale, come tante altre aree di ricollocamento, perché la gente di tornare al nord non ne vuole sapere, è terrorizzata. Nelle ultime settimane si sono moltiplicate le violenze sempre più prossime a Pemba, nei distretti di Ancuabe, Chiure e Mecufi. 20mila i nuovi sfollati che si aggiungono ai centinaia di migliaia, secondi i dati diffusi da Iom. Ma chi sono i terroristi? Sembrano avvolti dalla nebbia. Il gruppo è noto come Ahlu Sunna Wa Jama (Aswj) ma la gente del luogo li chiama i Machababos, dove ma è il prefisso bantu per “numerosi” e alshababs in arabo significa “i giovani”. Il governo mozambicano dopo aver a lungo minimizzato, ha ammesso la loro esistenza nel 2020, quando a Xitaxi cinquantadue ragazzi che si rifiutavano di unirsi ai rivoltosi sono stati trucidati. A oggi, secondo l’osservatorio Cabo Ligado, i Machababos hanno 108

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ucciso più di seimila persone, un terzo civili. La loro ribalta internazionale arriva nel marzo del 2021 con l’attacco a Palma, la città del gas prossima alla penisola di Afungi dove avevano concentrato le proprie attività sia la francese Total con il Mozambique Lng Project, sia in partnership con Eni la statunitense ExxonMobil con il Rovuma Lng Project. E dove il governo ha sgombrato intere comunità di pescatori, per fare largo ai ciclopici hub d’estrazione, liquefazione e trasporto di gas. Con l’esplosione del terrorismo tutto è sospeso per ragioni di sicurezza. Il danno economico intanto è gigantesco. Saipem ad esempio, la controllata Eni, ad Afungi è alla guida della joint venture per la costruzione del Mozambique Lng Project.

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oão Feijó è un ricercatore dell’istituto Omr - Observatório do Meio Rural di Maputo, che sta analizzando i gruppi rivoltosi: «Sono soprattutto di Cabo Delgado,

dei distretti di Mocímboa da Praia, Palma, Macomia e Quissanga. Non solo. Grazie alle interviste raccolte sappiamo che c’è una componente internazionale. Con combattenti arrivati dall’Africa dell’est e i “bianchi”, dai Paesi arabi». Il leader degli Aswj, o dei Machababos, è nato a Palma. Si fa chiamare Omar Saìdè e per le sue abilità è noto col soprannome di Rei della Floresta. Difficile quantificarli, sono qualche migliaia, agiscono frazionati in gruppi. Reclutano i giovanissimi con promesse di riscatto sociale, denaro, lavaggio del cervello. Spiega il professor Feijó: «Ex prigionieri raccontano che i Machababos nelle sessioni di indottrinamento mescolavano fanatismo religioso e rivendicazione delle ricchezze territoriali. Dichiaravano con enfasi populista di voler prendere il controllo dei “campuni iamafuta”, le compagnie petrolifere, e che avrebbero dato lavoro alla gente dei villaggi invece che ai “kafir” di Maputo, gli infedeli della capitale».


Storie

Foto: J. Wessels / AFP via Getty Images (2)

Una veduta del campo di Metuge

Resta ora da chiarire chi li finanzi, al di là dei loro contrabbandi di legname, avorio e traffico di droga che sbarca dall’Asia. E quale sia il supporto ai Machababos dalla jihad globale: in questo senso sembrano sempre più evidenti i collegamenti con l’Aid, l’Allied Democratic Forces, organizzazione islamista nata in Uganda ma che ora semina terrore nel nord del Kivu, la disgraziata provincia della Repubblica democratica del Congo. Anche se hanno perso capacità logistica e forza d’iniziativa, finora a Cabo Delgado nessuno è riuscito a stanare i rivoltosi. Né l’esercito mozambicano, né i contractor russi di Wagner o del sudafricano Dyck Advisory Group, né le truppe ruandesi coinvolte dopo la mediazione di Parigi, né quelle della missione Samim spedite dalla Comunità di sviluppo dell’Africa Australe. I soldati regolari piuttosto si sono resi protagonisti, in documentate occasioni, di repressioni sommarie e brutali tra i locali. E i Machababos che

resistono nella boscaglia si stanno sempre più radicalizzando.

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hiedere di terrorismo agli sfollati significa perdersi in una selva di diffidenza, paura, risposte laconiche. Ci sono delle donne sole che non sanno giustificare l’assenza dei loro uomini, lo scrive anche Feijó nei suoi articoli. Tra i sentieri qualcuno vocifera: «Sono tornati a fiancheggiare i Machababos» e diversi rivoltosi potrebbero anche essersi infiltrati nei campi. Il nordest in preda alla guerriglia è impenetrabile, le notizie sono avvolte nelle tenebre. Entrano giusto Médecins Sans Frontières, con interventi mirati in aree sicure. Di certo chi è rimasto, e parliamo di un milione di persone, è abbandonato a sé stesso. Gli ospedali sono bruciati, le istituzioni scomparse, non arrivano farmaci, i malati di Hiv non ricevono più i retrovirali. Tra le ong italiane in prima linea a Cabo Delgado c’è anche Medici

Con l’Africa Cuamm che nei campi di tutta l’area opera per il supporto sanitario e psicologico. Elisa Tembe è una giovane donna mozambicana che fa parte del suo staff come psicologa, anche lei è una sfollata. Al momento degli scontri a fuoco tra i Machababos e l’esercito era a Maconia. «Soffriamo tutti di stress post traumatico, io sono guarita aiutando gli altri. C’è chi ha assistito a decapitazioni, mutilazioni. I più turbati sono i bambini. Gli uomini sono depressi perché col ricollocamento hanno perso il ruolo patriarcale - racconta sotto i rami di un mango del presidio medico gestito da Cuamm - Arrivano anche donne rapite e ridotte in schiavitù dai terroristi, che riescono a scappare». I campi sono sorti tumultuosamente dal 2020, nel periodo più cruento degli attacchi. Mentre anche in Mozambico si affacciava il Covid, ogni giorno decine di migliaia di persone attraversavano la boscaglia, oppure sbarcavano via mare scendendo lungo la costa sulle barche, per cercare scampo a Pemba. La città, distesa sull’Oceano indiano e immersa tra le palme da cocco, vive oggi un forte stress. Qui gli Idps hanno trovato ospitalità da familiari e amici e la popolazione è aumentata di 170 mila persone. I prezzi sono schizzati, le scuole e gli ospedali già disastrati esplodono. La spiaggia di Paquitequete è disseminata di relitti delle imbarcazioni usate dai profughi. Durante i picchi dell’emergenza la gente del quartiere si è mobilitata in un gigantesco slancio di solidarietà. Si portava acqua, si grigliavano i grandi tonni per sfamare gli sbarcati che via via venivano ricollocati. «Questo è un bairro di lacrime», racconta una ragazza all’ombra di un tendone mentre una squadra carica sulle navi ormeggiate sacchi di aiuti alimentari del Food World Program. Sono destinati agli sfollati che invece vivono a Ibo, l’isola nell’arcipelago delle Quirimbas dove le donne in tempo di pace si adornano con leggerissimi monili d’argento. Un paradiso Q tropicale perduto. © RIPRODUZIONE RISERVATA

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Storie della Resistenza L’ECCIDIO DI SALUSSOLA

Il partigiano Jacon dalle Madonie a Biella morto per non tradire Era tra i garibaldini della Zoppis. Un suo compaesano repubblichino gli promise di risparmiarlo. Rifiutò: “Non posso salvarmi da solo” di Chiara

Sgreccia

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apiva il bielèis a stento quando si unì alla Resistenza. Eppure, per Jacon il distaccamento garibaldino Zoppis diventò subito una famiglia. E scelse di morire pur di non abbandonare i compagni. «Salvarmi vuol dire dannarmi», disse al comandante del contingente fascista, suo compaesano, addetto alla sorveglianza dei 33 partigiani catturati mentre riposavano in una cascina tra le colline del Monferrato, in Piemonte, stremati da giorni di cammino con i fucili in spalla e i fazzoletti rossi al collo. «Ho deciso di non tradire. Io sono del Sud, sono della Sicilia e quando noi diamo una parola è quella». Giovanni Ortoleva, Jacon il nome di battaglia da quando prese parte alla lotta per la Liberazione dell’Italia dal nazifascismo, era l’unico meridionale tra i partigiani ammazzati a Salussola all’alba del 9 marzo 1945, poche settimane prima della fine della Seconda guerra mondiale, mentre l’armata tedesca si ritirava dal Nord protetta dagli irriducibili di Salò. Arrivava da Isnello, un piccolo comune vicino Palermo, tra le montagne delle Madonìe, che lasciò quando Mussolini portò l’Italia in guerra. Quarto di sette figli, due maschi e cinque femmine, è un ragazzo come tanti finché la morte improvvisa del

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Giovanni Ortoleva, nome di battaglia Jacon. La sua storia è raccontata nel libro “Non posso salvarmi da solo”, di Antonio Ortoleva, (2021, Navarra Editore). Accanto, tre comandanti partigiani

padre non lo costringe, ancora adolescente, a diventare il capofamiglia. A febbraio del 1942 Jacon, neanche ventunenne, dice addio alla sua terra ed entra a far parte del 117° reggimento di artiglieria, fino all’Armistizio, firmato nella frazione siracusana di Cassibile. Quando l’Italia si arrende incondizionatamente agli Alleati, l’esercito è

allo sbando. Migliaia di giovani in divisa sono senza patria, né ragioni per cui combattere. I tedeschi, amici fino a poco prima, sono diventati avversari da cui scappare per evitare i campi di prigionia. Tra i soldati senza più un comando, in cerca di un rifugio, c’è anche Jacon che in fuga dal sud della Francia si dirige verso la pianura piemontese. Per 10 mesi rimane nascosto


Foto: Archivi Alinari, Firenze (1)

Storie

nelle campagne di Crevalcore, protetto da una famiglia che saluta con amarezza quando i rastrellamenti dei tedeschi si fanno troppo vicini. A giugno o luglio del 1944 - i documenti sono imprecisi a testimonianza degli anni frenetici e dolorosi della storia d’Italia - passa al distaccamento garibaldino Zoppis, 109° brigata Tellaroli, della XII° divisione d’assalto Nedo che

si chiamava così in ricordo del comandante “Nedo”, Pietro Pajetta, morto in uno scontro a fuoco con i fascisti, il cui corpo è rimasto per giorni abbandonato sulla neve. Dopo l’8 settembre per tanti giovani italiani unirsi alla Resistenza è una necessità. Resa ancora più urgente dalla chiamata alle armi indetta dalla Repubblica di Salò. La morte, invece,

per Jacon arriva come l’unica conseguenza possibile di una scelta consapevole e dignitosa, per rispondere alla ferocia fascista, pur di non arrendersi al nemico, per non tradire i compagni: ventuno dei trentatré partigiani del distaccamento Zoppis, fucilati dai militari del 155° battaglione Montebello, martoriati e poi abbandonati vicino alla piazza principale del paese nei 10 luglio 2022

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Storie della Resistenza

Uno dei partigiani impegnati in Val d'Ossola. A destra, tenente della Cri, passata con la Resistenza

pressi del torrente Elvo, senza nessuna pietà. Come ha raccontato per 50 anni “Pittore”, Sergio Canuto Rosa, l’unico partigiano sopravvissuto all’eccidio di Salussola, «Jacon è stato il primo a essere portato via». Tra lui e il comandante del contingente addetto alla sorveglianza, che proveniva da Isnello, ci sono molti colloqui. Dopo l’ultimo, il partigiano siciliano dice ai compagni che potrebbe salvarsi se accettasse di passare dalla parte dei fascisti. Ma non lo fa. «Lo guardammo sbalorditi e perplessi, nessuno parlò, nemmeno il commissario di distaccamento: sapevamo tutti che avrebbe potuto essere una scelta tra la vita e la morte. Ci guardava ad uno ad uno come se si aspettasse una parola, un con112

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siglio, poi ruppe il silenzio con voce che tradiva il pianto mentre accarezzava le mostrine partigiane: “Non posso, questa è la mia divisa e i miei compagni siete voi, siete i miei amici, qualunque sia la nostra sorte, io sarò al vostro fianco”. La scelta era fatta, ci stringemmo attorno a lui commossi: eravamo fieri di quel nostro compagno che, lontano dalla sua terra e dalla sua famiglia, non aveva tradito». Così riferì “Pittore”, ancora stordito dal terrore e dalle percosse, quando raggiunse, dopo una lunga fuga, il comando dei partigiani della quinta divisione Garibaldi, a Sala Biellese, secondo la versione della staffetta partigiana e scrittrice Cesarina Bracco. Così riporta il giornalista siciliano Antonio Ortoleva, autore del libro “Non posso salvarmi da solo”, edito da

Navarra, che ricostruisce la storia di Jacon e dei suoi compagni.

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artigiano per caso, eroe civile per scelta», spiega Ortoleva: Jacon diventa un simbolo di Resistenza per la forza morale che tira fuori nel modo più semplice possibile. «Come conseguenza di una scelta umana di un ragazzo poco più che ventenne che non aveva neanche la quinta elementare e nessun background politico-culturale, si tratta di una scelta che ha a che fare con la carne». Ma anche perché è la testimonianza che la lotta per la Liberazione dell’Italia è stata una faccenda nazionale. In Piemonte, che fu il vero cuore della Resistenza, soprattutto nelle valli, sono stati censiti settemila parti-


Storie

Foto: Archivi Alinari, Firenze (3)

Foto di gruppo dei partigiani della Seconda divisione dall’album "Esercito Sud e Partigiani"

giani provenienti dalle sei regioni meridionali sui 40 mila in azione nelle 50 divisioni sul territorio, senza contare i figli nati al Nord delle numerose famiglie di emigrati. L’apporto che il Sud ha dato al movimento partigiano è stato ben più di un contributo. È stata vera e propria partecipazione. L’hanno chiarito anche l’Anpi, l’Associazione nazionale partigiani di Italia, e il suo presidente emerito, appena scomparso, Carlo Smuraglia che ha scritto: «Molti pensano che la Sicilia sia estranea alla Resistenza e la apprezzano più per le sue bellezze storiche e ambientali... È un grave errore, frutto di scarsa conoscenza storica e di antichi pregiudizi. È un grave errore che tutti dobbiamo contribuire a correggere, anche sul piano politico, culturale e storico». Terra martire del’43, la Sicilia è

stata la regione con più vittime civili fino all’armistizio dell’8 settembre. Oltre ottomila senza contare i feriti, i dispersi e i mutilati, secondo l’Istat. Perché le truppe inglesi e americane prima dello sbarco hanno seminato il panico tra la popolazione con lo scopo di fiaccare la fiducia nel governo mussoliniano. Ma è stata anche una terra in cui la ribellione è scoppiata prima del tempo, come avvenne a Mascalucia nell’agosto del 1943 quando, ancor prima delle quattro giornate che portarono alla liberazione di Napoli, gli abitanti del paese alle pendici dell’Etna hanno imbracciato i fucili e scacciato i tedeschi che si preparavano alla ritirata. In Sicilia ha avuto luogo un conflitto che è durato ben oltre la fine della Seconda guerra mondiale. Perché i partigia-

ni, e chi ha respirato gli ideali della lotta di liberazione nazionale, hanno dovuto resistere e combattere contro un altro nemico: la mafia. Un’altra guerra che ha prodotto la scia di sangue innocente che da Portella della Ginestra, dalla repressione della rivolta contadina, arriva allo stragismo degli anni Novanta. Così i principi che hanno dato forma alla Repubblica e alla Costituzione, trasformato l’Italia in un Paese moderno, sono il risultato dell’impegno di tutto il popolo: dalla Valsesia in Piemonte, al Gargano in Puglia, alle Madonìe. E la storia di Jacon è importante per ricordarlo. Per celebrare la forza di chi, pur potendo, non ha girato lo sguardo, né tradito le proprie idee e i compagni con cui lottava per realizzarle. Q © RIPRODUZIONE RISERVATA

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Itinerari d’autore GENOVA

Sogni, paure, drammi Quando eravamo noi a emigrare per mare Alla commenda di Prè il museo in cui rivivere l’esperienza in diretta dei viaggi dei nostri connazionali. E c’ è anche il nonno di Papa Bergoglio di Roberto

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uando ad emigrare eravamo noi italiani poteva accadere di partire con tutta la famiglia dal Veneto, arrivare al porto di Genova con qualche valigia di cartone e i biglietti di sola andata in terza classe per il Brasile e scoprire che la nave era in ritardo. Non di qualche ora, come a volte capita con il traghetto per le vacanze in Sardegna, ma di una settimana. E capitava anche che non ci fossero soldi per l’albergo e allora padre, madre e figli venivano accolti insieme con centinaia di altri passeggeri squattrinati in una stamberga sporca e con un solo bagno da condividere. Accadeva a fine Ottocento, per esempio. E quando, magari negli anni Cinquanta, eravamo sempre noi italiani a emigrare poteva capitare di andare a fare la vendemmia a Martigny, in Svizzera, per guadagnare 5 franchi al giorno, quando le giornate di lavoro duravano 13 o 14 ore. E quando ad emigrare negli anni Settanta eravamo sempre noi italiani poteva invece succedere a un operaio siciliano di essere licenziato dalla Volkswagen in crisi molti mesi prima di un suo collega tedesco. Insomma, in quel periodo il fatidico «prima gli italiani» era la norma in Germania. Ma a ruoli invertiti... Ecco, a Genova dal 12 maggio scorso è aperto il museo che racconta questo “ruolo invertito”, così come è

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Orlando stato vissuto da milioni di italiani durante la lunghissima epoca delle migrazioni interne e verso l’estero. Si chiama Mei ed è il Museo nazionale dell’emigrazione italiana, nato da una sinergia tra il ministero della Cultura, la Regione Liguria e il Comune di Genova. Ha trovato spazio in un edificio che non solo è uno dei più antichi del capoluogo ligure, ma è anche quello simbolicamente più consono: è la Commenda di Prè, costruita dagli Spitalieri di San Giovanni (poi Cavalieri dell’Ordine di Malta) intorno al 1180 come ospedale e ostello per i pellegrini e i cavalieri diretti in Terra Santa all’epoca della terza crociata. E molti secoli dopo dalle banchine del porto, proprio qui fronte, sono partite tutte le ultime grandi ondate migratorie verso le Americhe, l’Asia, l’Africa e l’Australia... Ma siccome per partire verso luoghi così lontani, sono necessari i documenti, prima di iniziare il nostro viaggio nel Museo dell’emigrazione è necessario procurarsi il passaporto, che è digitale e sotto forma di braccialetto con un sensore NFC. Le generalità possono anche essere inventate e non è necessario dichiarare il genere sessuale: per il Mei non c’è differenza. Ci sarà tempo durante il percorso per vedere altre differenze, discriminazioni e pregiudizi. Passaporto al polso, si intraprende

il viaggio attraverso le essenziali architetture romaniche della Commenda appena restaurata con mano delicata per scoprire un pezzo di storia importante del nostro Paese. «Se Ellis Island è il santuario degli arrivi dei migranti in America, possiamo dire che questo è il santuario delle partenze», spiega Pierangelo Campodonico, che oltre ad essere direttore del


Storie

Due attori rievocano la storia familiare che li ha portati a intraprendere il viaggio per mare

Museo del Mare che si trova quasi di fronte alla Commenda, è anche il regista degli allestimenti del Mei insieme con Giorgia Barzetti e Nicla Buonasorte. Un santuario che oggi accoglie le storie di centinaia di migranti italiani di tutte le epoche, dall’Unità d’Italia ai giorni nostri, i quali raccontano perché e come sono partiti; come so-

no stati accolti, come sono stati trattati e spesso maltrattati; come hanno fatto fortuna o perché non sono riusciti a realizzare i loro sogni. Il viaggio, qui alla Commenda, è tutto multimediale e interattivo: non ci sono oggetti in mostra e nemmeno documenti originali. Eppure sembra tutto vero. Si parte da una premessa che sgom-

bera il campo da eventuali strumentalizzazioni: il primo totem al quale si presenta il passaporto-braccialetto spiega che la migrazione è una caratteristica tipica dell’umanità. L’homo sapiens è partito dal cuore dell’Africa per colonizzare tutto il pianeta. Insomma, la specie umana migra per sua natura e nessuno è mai riuscito a fermarla. 10 luglio 2022

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Itinerari d’autore

Documenti, ritagli, passaporti dei nostri connazionali emigrati oltreoceano

E gli italiani in particolare perché sono emigrati? Per tanti motivi e non soltanto legati a condizioni di necessità. Uno lo racconta all’inizio del percorso espositivo il nonno di Papa Bergoglio, che si anima in un video a tutta parete dopo un contatto NFC del braccialetto-passaporto e spiega, nell’interpretazione dell’attore Massimo Olcese, che lui è partito e tornato più volte, perché i soldi non bastavano mai e perché «in Italia i campi sono pochi e i padroni sono tanti, invece nelle pampas argentine la terra non finisce mai...». Ma si parte anche per rincorrere falsi miti nati sulla base di quelle che oggi chiameremmo fake news: «In America ci sono alberi sui quali nascono i dollari», dice l’attore del video che parte in una delle prime ambientazioni del Museo. I veri motivi che spingono gli italiani a lasciare la loro terra sono spiegati più avanti. Per esempio nella sala 116

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successiva dove, seduti intorno a una tavola imbandita, basta sfiorare un sensore con il braccialetto perché sul fondo dei piatti compaiano le immagini dei cibi miseri di quell’Italia nemmeno così lontana. Di lato, su alcuni totem, scorrono altri personaggi con tutto il loro bagaglio di malanni e malattie da lasciarsi alle spalle per andare incontro a una vita diversa.

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on sempre migliore, anzi, a volte con un finale tragico. Per questo nel cortiletto della Commenda c’è il Memoriale delle sciagure che hanno costellato la storia delle nostre emigrazioni: dal massacro di Aigues Mortes, in cui persero la vita un numero imprecisato di lavoratori delle saline accusati ingiustamente di aver ucciso alcuni francesi; alla strage del 1913 nella miniera statunitense di Dawson e, mezzo secolo dopo, in quella belga di Marcinelle; dal linciaggio del 1891

di New Orleans in cui morirono undici siciliani, al naufragio nel 1940 della Arandora Star che costò la vita a 446 civili italiani. La memoria nel Museo è affidata a un totem multimediale e a una teoria di funi rosse come il sangue che sembrano scendere direttamente dal cielo per sorreggere il nome delle località in cui ebbero luogo le tragedie. Siamo andati a milioni in tutti i Paesi e sempre qui al primo piano - dove il mondo è “apparecchiato” su grandi tavoli a forma di planisfero con i continenti in rilievo - si possono ascoltare e vedere le vite di successo di molti di noi: storie di sport e di cultura, di artigianato e di impresa, di musica e di cibo ricostruite in pillole grazie alla collaborazione di una miriade di enti pubblici, associazioni di emigrati, archivi storici, musei, club sportivi di tutto il mondo e di tutta Italia. Il viaggio prosegue in salita, al secondo piano, dove è stato creato un


Storie

Uno dei totem in cui si simula l’interrogatorio di ingresso dei nostri emigranti. A destra, le funi che ricordano le tragedie

labirinto verticale. Si raggiunge salendo, non per caso, alcune rampe di scale ed è composto da una serie di cubi sovrapposti dentro i quali si impatta, non senza disagio autentico, in una sorta di “test di accoglienza”. In ogni cubo si trova un totem sul cui monitor compare un attore o un’attrice di lingua madre ( francese, inglese, tedesca, spagnola), un personaggio con il quale fare i conti per passare la frontiera, cercare lavoro, trovare casa. Intanto bisogna capire di che cosa questi personaggi stiano parlando e poi bisogna risolvere un quiz a risposta multipla, sperando di azzeccare quella giusta. Con conseguenze ovviamente diverse a seconda della risposta. C’è il poliziotto di lingua inglese che considera gli italiani ignoranti e scansafatiche; l’agente di frontiera argentino che rispedisce in patria un italiano di 60 anni perché troppo avanti negli anni; il latifondista che parla uno spagnolo incom-

prensibile e che così ti convince a lavorare quasi gratis per lui. Situazioni a tratti umilianti, da cui eventualmente fuggire a tutta velocità infilandosi nel tubo arancione di un toboga che riporta alla base del labirinto.

È

qui che si trova una delle installazioni più significative, quella dedicata al lavoro. Fa da scenario un incrocio di travi d’acciaio di quelle usate per costruire i grattacieli nelle metropoli americane e che con un gioco di specchi salgono all’infinito. Sui monitor scorrono altre storie, altri spunti di riflessione. Nicoletta Viziano, presidente del Mei (e del Museo del Mare), tira un sospiro di sollievo perché l’impresa non è stata facile: «Non c’erano materiali, non c’erano precedenti. Ora l’obiettivo è quello di creare un database, consultabile anche online, con i contributi provenienti dalle nostre

comunità all’estero per ricostruire altri pezzi di memoria e rinnovare di continuo i racconti del museo. Si è messo in moto un meccanismo che potrà avere anche importanti ricadute economiche. Per esempio la famiglia Pellerano, originaria di Santa Margherita Ligure, che ha fondato uno dei più antichi quotidiani di Santo Domingo (il Listin Diario, ndr), anche attraverso l’operazione museo ha avuto modo di manifestare il proprio interesse a tornare in Italia per investire». A settembre si attendono molte scolaresche. Gli allievi scopriranno sul monitor della biglietteria che a partire dal 2000 il saldo tra italiani che rientrano e italiani che partono ha di nuovo invertito la tendenza. Se nel 1973, per la prima volta nella storia, sono stati più i rientri delle partenze ora la corsa verso l’estero è riQ presa a ritmo sostenuto. © RIPRODUZIONE RISERVATA

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Ho visto cose/tv

LE RELAZIONI DEL PICCOLO MONDO ANTICO Figli più anziani delle loro madri dispensano consigli amorosi

BEATRICE DONDI C'è poco da fare: la televisione italiana i single proprio non li vuole. Come una sorta di reazione allergica, uno scatto inconsulto, una contrarietà improvvisa e persistente, appena si presenta una persona che passa i suoi giorni senza essere in coppia ecco che zac! interviene il programma di turno, a caso, pronto per trovare l'anima gemella. Negli anni se ne sono visti di vario genere e numero, perlopiù bruttini, sicuramente senza inventiva alcuna, generalmente ambientati in una villa perché, si dice, che l'accoppiamento venga meglio rispetto alla capanna, in barba al proverbio e a i due cuori che dovrebbe contenere. Ma nel nuovo prodotto originale di Tv8 c'è qualcosa in più, una sorta di azzardo prepotente verso il luogo comune che prende un po' il sopravvento. A partire dal titolo: “Chi vuole sposare mia mamma?”. Ecco, la ringrazio per la domanda, direbbe qualcuno. Così nella consueta location di lusso, Caterina Balivo accoglie signore eleganti e mature chiamate a scegliere tra una rosa di pretendenti. Ma con figli a carico, aitanti giovani e balde fanciulle, a cui è affidato l'arduo compito di sembrare rigorosamente più anziani delle loro genitrici, dispensando consigli e rimproveri da “Piccolo mondo antico” e facendo sembrare le madri in questio-

ne scapestrate incapaci di arrivare a una scelta ponderata. Perché le incaute donne cercherebbero persino di divertirsi in qualche modo, guardando alla forma piuttosto che alla sostanza, meglio la barba, il muscolo, l'accenno palestrato, ma ogni impulso giocoso viene prontamente frenato dalla barbosa prole di accompagno, chiamata a rappresentare una bizzarra versione impolverata delle relazioni filiali a ruoli rigorosamente invertiti. Il che porta con naturalezza a un'altra costante della nostra tv, che appena ha sistemato gli sparuti single rimasti in circolazione si impegna con caparbietà a raccontare i giovani a tutti i costi. E dopo essere stati schiacciati nel buffo racconto praticamente in ogni figurina (bamboccioni sfaccendati, attaccati al lussuoso reddito di cittadinanza, inutili influencer portatori di corsivo e così via) si ritrovano qui come rappresentanti di un incomprensibile quanto fulgido moralismo da famiglia tradizionale. Alla fine si parla di esperimento, parola magica sotto cui al solito si nasconde ben poco. E tra violini e sorrisi, si chiudono i cerchi, la madre sceglie, il figlio responsabile plaude, gli ascolti languono. Chissà poi perché. Q

#musica Apparire sempre, a costo di non essere Esserci o non esserci? In musica questo non è più un dilemma. Bisogna esserci e basta, dovunque, comunque a ogni costo, senza badare alla qualità e al pregio dell’occasione, bisogna farsi vedere, cantare, concedere selfie, saltare su ogni carro possibile, tributi, serate di beneficienza, riappacificazioni in pubblico, duetti e featuring di massa. Cosa è successo alla riservatezza di

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GINO CASTALDO un tempo, quando gli artisti di un certo rango prima di farsi vedere ci pensavano non una ma cento volte? Sparita, dissolta, sbriciolata nel vento del suprematismo dell’immagine da cui siano tutti travolti, grandi, piccini, conosciuti e sconosciuti. È una morbosa necessità che rasenta l’ossessione e sta creando danni vistosi. A cominciare dalla spremitura creativa degli artisti. Se si fa troppo, se non ci si prende il tempo dovuto, come l’agricoltura intensiva e la pesca a strascico, alla fine le risorse si impoveriscono. Prendete

l’estate, diventata appuntamento imprescindibile per il mondo della musica, sembra una nave stracarica di migranti, ci si aggrappano tutti, anche se è già strapiena, escono pezzi in continuazione, e continuano a uscire in pieno luglio, nessuno riesce a starsene fuori, come se saltare un anno equivalesse a morire, o meglio scomparire, che in arte è la stessa cosa. Fedez docet, il suo impero familiare è stato costruito con una presenza costante e accurata all’insegna di quella che è l’essenza perversa ma sostanziale del mondo


Scritti al buio/cinema

ANCHE I GATTI HANNO UN’ANIMA Una ragazza si innamora di due ragazzi identici. Il tortuoso film di Hamaguchi

FABIO FERZETTI

Foto: Getty images (2)

In uno dei più bei momenti di “Asako I & II” un gatto steso sul letto lancia uno sguardo pieno di un sentimento indefinibile ma chiarissimo alla coppia sdraiata accanto a lui. Quella ragazza e quel ragazzo si amano e il gatto in qualche modo lo vede, o meglio noi lo vediamo attraverso i suoi occhi. Eppure quei due forse nemmeno lo sanno. Si può essere felici senza saperlo? Certo che sì. E il cinema è l’arte di rendere visibile questi momenti di grazia, o di verità, a cui tante volte nella vita reale passiamo accanto. Una verità che non è solo psicologica, dunque individuale, ma appartiene a un ordine superiore che lega tra loro esseri e luoghi, concetto forse più familiare alle culture orientali che a quelle occidentali. Chi ha avuto la fortuna di vedere gli altri film di Hamaguchi usciti in Italia, “Drive My Car” e “Il gioco del destino e della fantasia”, sa di cosa parliamo. Dunque seguirà con piacere questa pista parallela incisa dentro un racconto non sempre altrettanto brillante. Forse perché il romanzo originario di Tomoka Shibasaki impone al regista qualche tortuosità (e qualche cliché) di troppo. Come in un “Vertigo” al femminile, la Asako del titolo si innamora infatti, a distanza di tempo, di due ragazzi fisicamente identici ma per il resto opposti. Il primo, Baku, scapigliato, rubacuori (e inaffidabi-

social: per vincere bisogna esserci sempre, non ci ci può assentare, neanche la notte, neanche la domenica, non ci sono ferie e pause pranzo. Ma se seguite i profili di Tananai, di Rhove, di Blanco o di Mahmood la sensazione è la stessa. La fame social è sempre attiva, non dorme mai. Questo gli artisti lo sanno, molti di loro, i più giovani, ci sono cresciuti dentro e questo spiega anche perché i divi di oggi sono diversi dai divi di qualche tempo fa. Quelli di oggi, grazie ai social, sono sempre in scena, sono sempre davanti al pubblico, 24 ore su 24, non escono mai dal personaggio, non possono mai abbassare la maschera, Tik Tok,

Billie Eilish

le, come intuisce un’amica di Asako). Il secondo, Ryohei, riservato, ordinato, forse anche ordinario, ma affettuoso e presente. Insomma il prototipo del grande amore incancellabile e quello dell’uomo con cui restare. Imbrigliato da questo schema non proprio inedito (e da una protagonista eternamente adolescente, anche se gli anni passano) Hamaguchi dissipa a tratti un cospicuo capitale emotivo. Salvo colpirci improvvisamente al cuore in certe apparenti digressioni, magari legate a personaggi di contorno, o nei momenti più inattesi (su tutti quel nuovo incontro con Baku che però nemmeno la vede, letteralmente, e non diremo altro). Significativa anche la presenza di temi (il viaggio, le auto, la malattia, il teatro, la memoria...) che torneranno con ben altro respiro nel successivo “Drive My Car”. Come molti grandi, Hamaguchi è fedele a un nucleo preciso di elementi. Ma sa anche guardare il suo mondo dall’esterno con gli occhi rivelatori di un gatto. Su Mubi, la piattaforma del cinema d’autore. Q © RIPRODUZIONE RISERVATA

“ASAKO I & II” di Ryusuke Hamaguchi Giappone-Francia, 119’ su MUBI

aaabc

Instagram, Twitter ti inseguono, ti incalzano, generano una sorta di “second life”, un mondo parallelo al tuo in cui vive una parte di te che non può fare a meno di esistere. È anche impegnativo, richiede tempo ed energia. E quindi bisogna produrre contenuti, canzoni, concerti, per alimentare l’insaziabile fame di un mondo che non ammette tempi di recupero e insinua l’atroce sospetto che assentarsi voglia dire essere cancellati. E dunque la domanda va riconsiderata. Essere o apparire? E la risposta è automatica, da algoritmo: apparire, apparire, anche a costo di non essere. Q © RIPRODUZIONE RISERVATA

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Noi e Voi

N. 27 10 LUGLIO 2022

DIRETTORE RESPONSABILE: LIRIO ABBATE CAPOREDATTORI CENTRALI: Leopoldo Fabiani (responsabile), Enrico Bellavia (vicario) UFFICIO CENTRALE: Beatrice Dondi (vicecaporedattrice), Sabina Minardi (vicecaporedattrice) REDAZIONE: Federica Bianchi, Paolo Biondani (inviato), Emanuele Coen (vicecaposervizio), Angiola Codacci-Pisanelli (caposervizio), Antonio Fraschilla, Vittorio Malagutti (inviato), Antonia Matarrese, Mauro Munafò (caposervizio web), Carlo Tecce (inviato), Gianfrancesco Turano (inviato), Susanna Turco ART DIRECTOR: Stefano Cipolla (caporedattore) UFFICIO GRAFICO: Martina Cozzi (caposervizio), Alessio Melandri, Emiliano Rapiti (collaboratore) PHOTOEDITOR: Tiziana Faraoni (vicecaporedattrice) RICERCA FOTOGRAFICA: Giorgia Coccia, Mauro Pelella, Elena Turrini SEGRETERIA DI REDAZIONE: Valeria Esposito (coordinamento), Sante Calvaresi, Rosangela D’Onofrio OPINIONI: Altan, Mauro Biani, Luca Bottura, Massimo Cacciari, Lucio Caracciolo, Franco Corleone, Donatella Di Cesare, Roberto Esposito, Luciano Floridi, Bernard Guetta, Sandro Magister, Makkox, Bruno Manfellotto, Ignazio Marino, Ezio Mauro, Michela Murgia, Denise Pardo, Massimo Riva, Pier Aldo Rovatti, Giorgio Ruffolo, Eugenio Scalfari, Michele Serra, Raffaele Simone, Bernardo Valli, Gianni Vattimo, Sofia Ventura, Luigi Vicinanza, Luigi Zoja COLLABORATORI: Simone Alliva, Erika Antonelli, Viola Ardone, Silvia Barbagallo, Loredana Bartoletti, Giuliano Battiston, Marta Bellingreri, Marco Belpoliti, Caterina Bonvicini, Floriana Bulfon, Ivan Canu, Gino Castaldo, Giuseppe Catozzella, Manuela Cavalieri, Rita Cirio, Stefano Del Re, Alberto Dentice, Francesca De Sanctis, Cesare de Seta, Roberto Di Caro, Paolo Di Paolo, Fabio Ferzetti, Alberto Flores d’Arcais, Marcello Fois, Antonio Funiciello, Giuseppe Genna, Wlodek Goldkorn, Marco Grieco, Luciana Grosso, Helena Janeczek, Stefano Liberti, Claudio Lindner, Francesca Mannocchi, Gaia Manzini, Piero Melati, Luca Molinari, Donatella Mulvoni, Matteo Nucci, Eugenio Occorsio, Marco Pacini, Massimiliano Panarari, Gianni Perrelli, Simone Pieranni, Paola Pilati, Sabrina Pisu, Laura Pugno, Marisa Ranieri Panetta, Mario Ricciardi, Gigi Riva, Gloria Riva, Stefania Rossini, Evelina Santangelo, Elvira Seminara, Caterina Serra, Chiara Sgreccia, Francesca Sironi, Leo Sisti, Elena Testi, Chiara Valentini, Chiara Valerio, Stefano Vastano PROGETTO GRAFICO: Stefano Cipolla e Daniele Zendroni

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AMORE È UNA PAROLA ANTICA RISPONDE STEFANIA ROSSINI [ STEFANIA.ROSSINI@ESPRESSOEDIT.IT ] Cara Rossini, a proposito di felicità essa la si può conquistare alla fine di un percorso accidentato e solo invecchiando è possibile rivivere la giovinezza che allora ci afflisse, che a volte detestammo e di cui non sapemmo che farcene. Diciamo che alla quarta età (sono quasi novantenne) si può assaporare una piacevole serenità quando svanisce il rischio di innamorarsi che, come le guerre, inizia con una dichiarazione che ha ben poco dell’amore con la A maiuscola, né ha qualcosa da spartire con quello che George Bernard Shaw definiva eterno («perché l’amore che finì non era amore»). Forse soltanto l’amore che riversiamo sui figli è eterno, come le vocazioni, le passioni, l’arte, che ci accompagnano nella vita. Lo si racconta bene ne “Il paziente inglese”, il film dell’infermiera e dell’artificiere che incontrano l’amore durante la guerra, ma che vi rinunciano per assecondare la propria vocazione per l’assistenza e per salvare vite umane. Del resto la felicità è stata materia di ogni tipo di definizione nel tempo secolare da «i soldi non danno la felicità» (forse perché sono sempre troppo pochi) all’uomo che «la cerca sempre ma quando la trova non la riconosce», al «ci si accorge dopo di essere stati felici prima», al fatto che «la si trova senza cercarla». Ma resta la certezza che è impossibile praticarla al cospetto di tutta la sofferenza che affligge il mondo e cioè guerre, carestie, malattie, lotte di ogni genere, dove è l’ignoranza il vero portato di tutto. Per questo sarà bene convenire che solo l’uomo schiavo del sapere può cambiare il vivere impostando con preveggenza anche il rapporto di coppia dove si annida la gelosia e qualche volta il raptus, fino all’estremo del femminicidio. Marino Rubini. Nereto (Te)

Questa è una lettera che viene dal passato, e non per l’età dell’autore e per il tema trattato con grazia antica, ma perché è stata scritta a macchina su un foglio di carta, imbustata e spedita per posta. Erano diversi anni che questa rubrica non ne riceveva una, da quando le mail hanno preso il sopravvento su ogni altra forma di comunicazione. Avere la lettera materialmente in mano, osservare le cancellature e i piccoli errori corretti con un tratto di penna, decifrare la firma autografa, è stato un tuffo nei tempi remoti del giornalismo e delle redazioni, quelle che Eugenio Scalfari descriveva animate da “l’allegro ticchettio” delle macchine per scrivere. Molto meglio il silenzio e la velocità della scrittura al computer naturalmente, ma il signor Rubini battendo a macchina i suoi pensieri sull’amore, la felicità e l’ignoranza, ce li ha presentati come più intensi e condivisibili. Pensieri che non hanno niente di antico, specie quando, con l’esperienza dell’età, ci fa notare che l’amore romantico è fuggevole e che sono altre le passioni che riempiono una vita: i figli, l’arte e forse qualsiasi cosa ci piaccia veramente fare. E soprattutto ci ricorda che è inutile inseguire la felicità nel mondo dominato dall’ignoranza. È quest’ultima che va combattuta con l’arma contundente della conoscenza.

Questo giornale è stampato su carta con cellulose, senza cloro gas, provenienti da foreste controllate e certificate nel rispetto delle normative ecologiche vigenti. Certificato ADS n. 8855 del 05/05/2021 Codice ISSN online 2499-0833

N. 27 - ANNO LXVII - 10 LUGLIO 2022 TIRATURA COPIE 205.300

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Bernardo Valli

Dentro e fuori

Con i Terzani nei mari del Sud Gli anni vissuti a Singapore con Tiziano e Angela vicini di casa. E i giorni sulla spiaggia dell’isola di Rawa, in acqua fra migliaia di pesci

Quello dei Terzani Staude era ampio: vi vivevano i genitori, Tiziano e Angela, e i figli ancora piccoli, Folco e Saskia, con le loro governanti o cameriere cinesi, coinvolte nella famiglia. Il mio bungalow, su palafitte, non era al centro di un grande parco come quello dei Terzani, e più che modesto era disadorno. Era frequentato da persone di servizio indispensabili e un po' smarrite nel vuoto della casa: c’ era una hama cinese, una cuocacameriera che garantiva la normalità anche durante le mie lunghe assenze, soprattutto in Vietnam a neppure un’ora di volo; c’era un kabun malese, indispensabile giardiniere che teneva lontano i numerosi rettili fal122

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ciando puntualmente l’erba; c’era un jaga, un custode indiano presente notte e giorno. Questa illustrazione della mia casa di Singapore (da dove all’inizio degli anni 70 mi muovevo per raggiungere Saigon, Bangkok, Hong Kong, Tokio, Nuova Delhi, la Corea del Sud), il suo desolato vuoto, spiega la mia frequentazione di casa Terzani Staude. Il loro bungalow era il nido della famiglia nel quale trovavo una calorosa, allegra ospitalità, dopo un breve tirocinio durante il quale penso di essere stato valutato. Ero uno scocciatore? Invadente? Noioso? Il verdetto fu positivo poiché ben presto fui accettato anche a Rawa, l’isoletta al largo della costa malese, di fronte al porto allora modesto di Mercing. Il quale era un po’ più di un paio d’ore da Singapore. A Mercing si lasciavano le automobili e si noleggiava una barca a motore che ti sbarcava dopo una breve traversata sulla spiaggia di Rawa dove non c’erano alberghi ma baracche di legno. Larghe capanne sgangherate, anche a due piani, come in un’isola abbandonata. Era un paradiso. Se i rispettivi giornali (Spiegel per Tiziano, il Corriere della Sera per me) ci cercavano chiamavano il porto di Mercing che ci avvertiva tramite la prima imbarcazione diretta a Rawa. Angela a Rawa era regina. Lo era a modo suo. Con una grazia e una bellezza molto speciali. Amava ormai da anni Tiziano. Lo aveva sposato e re-

so padre due volte. I due personaggi erano in apparenza diversi. Angela veniva da una famiglia tedesca colta e non convenzionale. Lei stessa l’ha descritta così, il padre noto pittore e la madre architetta. Angela amava, ama, la poesia, ne sono certo, e la letteratura classica. Lui apparteneva a una famiglia toscana umile. Si era laureato a pieni voti alla Normale di Pisa, frequentata con una borsa di studio, ed era poi stato allievo di un’università americana, sempre per concorso, dove aveva studiato la storia cinese. Angela aveva dato al giovane esuberante e studioso l’eleganza delle sue origini familiari. L’aveva in un certo senso domato. Essendo lei stessa stata domata dalla pronta intelligenza (e dalla prestanza) del marito. La romantica tedesca cresciuta in Italia aveva scelto bene nella sua patria d’adozione. Non ho mai visto un’acqua più bella di quella del mare (Meridionale di Cina) di Rawa. Spero lo sia ancora. Ma il turismo e la pesca industriale avranno fatto danni. Angela, Tiziano e io, tenendo in braccio Saskia e Folco, restavamo tra le onde per ore accarezzati da migliaia di pesci per nulla disturbati dalla nostra vistosa presenza. Ce n’erano di tutte le forme e di tutti i colori. A me piaceva guardare i miei amici nuotare in quel paradiso: sembrava di assistere a un’unione tra il mare e noi esseri umani attraverso quella massa multicolore che ci abbracciava amica. Q © RIPRODUZIONE RISERVATA

Illustrazione: Ivan Canu

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i può amare una coppia. È più ovvio, se sei un uomo, essere complice, avere rapporti privilegiati con il marito, oppure nutrire sentimenti diversi per la moglie. Il trasporto per l’uno o per l’altra non ha di solito la stessa natura. In questo caso parlo, invece, di un’amicizia strettamente fraterna. Era la mia condizione con i Terzani. Mi sentivo con uguale intensità amico di entrambi. Senza ambiguità. Quando Tiziano è morto ho avuto la sensazione che Angela ferita restasse la preziosa sopravvivenza di un’unione indissolubile. Adesso lei sta per pubblicare le memorie di quell’unione. Non dovrebbero tardare. Le aspetto con impazienza perché mi ricorderanno i nostri comuni tempi. Ad esempio, quelli di Singapore, dove abbiamo vissuto alcuni anni.




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