Settimanale di politica cultura economia N. 30 anno LXVIII 31 LUGLIO 2022 Domenica 3 euro L’Espresso + La Repubblica In Italia abbinamento obbligatorio alla domenica. Gli altri giorni solo L’Espresso 4 euro
ECONOMIA
UCRAINA
IDEE
Leader in crisi l’Europa vacilla
Isola dei Serpenti avamposto del Mar Nero
Eros, un racconto di Viola Ardone
Tutti i soldi dei partiti Donazioni private. Finanziamenti pubblici. Debiti aggirati e bilanci confusi. Ricchi e poveri iniziano la campagna elettorale. Che rischia di ignorare le vere questioni urgenti per il Paese
Altan
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Sommario numero 30 - 31 luglio 2022
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Quello che Giorgia Meloni deve chiarire
Lirio Abbate
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Prima Pagina Percorso obbligato Massimo Cacciari I conti in tasca ai partiti Antonio Fraschilla e Carlo Tecce Non pensiamo all’elefante Loredana Lipperini Debito, il mostro può divorarci colloquio con Roberto Tamborini di Gloria Riva Il reddito di cittadinanza serve contro la povertà Chiara Saraceno Se volete un programma ricominciate dalle agorà Fabrizio Barca L’Europa perde il treno Federica Bianchi Uber, la lobby detta legge Paolo Biondani e Leo Sisti Il latitante, l’esilio dorato di Matacena Gianfrancesco Turano Ucraina, avamposto Isola dei serpenti Lorenzo Tondo Egitto, il lungo digiuno dei diritti umani Paola Caridi Questa smart city è un incubo Simone Pieranni Vite da Po in secca Tommaso Giagni Il Sarno ha l’acqua marrone Lorenzo Fargnoli Sulle sponde di città Antonia Matarrese Scuola, il concorso ha fatto flop Chiara Sgreccia Spazio, la battaglia dei lanciatori Emilio Cozzi
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Idee Cabina 82 Corpi contro la norma Conosco bene la vostra solitudine Tutti invitati alla festa del secolo Canto e suono lo sbrong
Viola Ardone 86 colloquio con Paul B. Preciado di Simone Alliva 92 Paul B. Preciado 94 colloquio con Abel Ferrara di Claudia Catalli 98 colloquio con Lello Analfino di Emanuele Coen 100
Opinioni Altan Makkox Manfellotto Panarari Cattaneo Serra
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Rubriche La parola Taglio alto Bookmarks Ho visto cose #musica Scritti al buio Noi e voi
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COPERTINA Artwork di Alessio Melandri
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Storie Black Post, il sito web dei nuovi italiani Svelò la Sanitopoli di Atene, la pm finisce sotto accusa Nonne di Plaza de Mayo in lotta da 45 anni L’Espresso fa parte in esclusiva per l’Italia del Consorzio internazionale dei giornalisti investigativi
Alessandro Leone 104 Elena Kaniadakis 108 Sabrina Pisu 114
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La parola
© RIPRODUZIONE RISERVATA
verosimiglianza La polemica sul viso annerito della soprano Anna Netrebko nella messinscena dell’Aida all’Arena di Verona, con la sua collega statunitense Angel Blue che non si esibirà nella Traviata per boicottare «l’uso del blackface in qualsiasi circostanza, artistica o meno», ha oltrepassato la soglia del grottesco. Il blackface era una pratica oscena e svilente in uso in una società americana razzista nel profondo e segregazionista nelle leggi, scientemente denigratoria tant’è che cominciò a declinare solo con l’entrata in guerra, quando conveniva che anche i neri si sentissero americani per meglio andare a morire nel Pacifico o sulle Ardenne. Non c’entra niente con il trucco teatrale, che non offende né discrimina, in uso da sempre per evidenti ragioni di verosimiglianza, che aiuta l’interprete a entrare nella parte e lo spettatore a immedesimarsi nel personaggio. Nello spazio della rappresentazione, bollarlo come razzista è insensato: come dire che una gara di Formula Uno viola il codice della strada, o
giocare al dottore è esercizio abusivo della professione medica. Bandirlo come regola universale è pretesa totalitaria, deriva censoria e maccartista di una cultura liberal che ha smarrito le sue radici libertarie e sta ora inquinando le falde e i pozzi della percezione e dell’accademia della vecchia Europa. Eppure. Invece di replicare che i vestiti nuovi dell’imperatore sono fuffa, assistiamo a imbarazzanti siparietti tra connivenza e condiscendenza: la politica locale intima al governatore Luca Zaia di por fine allo scandalo, la Fondazione Arena aspetta «il ritorno di Angel, sarà l’occasione di dialogare in modo costruttivo partendo proprio dalle tue riflessioni». D’altra levatura l’intervento di Leonetta Bentivoglio: «I tempi sono cambiati. Lo spettatore che guarda l’interprete potrà riconoscervi se stesso a prescindere dai maquillage. La verosimiglianza è una dimensione poetica». Bene. Ma se faccio un film su John Kennedy e gli do il volto di Danny De Vito ci vedrà la poesia o scoppierà a ridere?
ROBERTO DI CARO 31 luglio 2022
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Cronache da fuori
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Makkox
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Editoriale
Lirio Abbate
Quello che Giorgia Meloni deve ancora chiarire
Illustrazione: Ivan Canu
Più che temere un ritorno del fascismo, bisognerebbe chiedere conto a Fratelli d’Italia della qualità della sua classe dirigente e dei suoi valori. Poi guardare con attenzione al programma e ai rapporti tutt’altro che facili con Salvini e Berlusconi
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are una campagna elettorale in questa estate rovente in cui si grida al fascista, o alla fascista, ritengo sia dannoso per la politica, perché credo che non sia questo il modo più corretto per criticare Giorgia Meloni, secondo i sondaggi favorita per la vittoria finale delle urne. Occorre evitare di fare un minestrone che guarda ad ottobre, quando ricorrerà il centenario della marcia su Roma, e insinuare che avverrà qualcosa di simile dopo il 25 settembre. Gli italiani vogliono sentire i programmi elettorali, auspicano di guardare in faccia i leader, ascoltare le loro idee. E non credo ci sia spazio per aprire un dibattito sulla leader di Fratelli d’Italia, cresciuta all’ombra della fiamma che fu missina, e il fascismo. Perché penso che Meloni non instaurerà un regime fascista se dovesse vincere le elezioni. Necessita però discutere dei valori espressi nelle azioni e nelle parole di chi contribuirà con lei a fare campagna elettorale. E in particolare si deve chiedere: sono stati recisi i legami con il passato? E su questo occorre rispondere. Anzi, Meloni e i suoi tesserati devono su questo chiarire. Perché appare ancora oggi che questo legame non è stato tagliato, per una lunga serie di motivi che non sono solo questione di colore, perché il fatto che Meloni non porti il fascismo in Italia appare assodato, ma questo non significa che non ci siano problemi nel suo partito di classe dirigente. Ci sono tante figure che hanno avuto e hanno un ruolo politico e che hanno dimostrato non solo di non aver reciso quel legame, ma di avere ancora un problema di elaborazione di quegli ideali banditi dalla Costituzione. Un paese che dibatte del proprio futuro si deve porre il problema di quale classe dirigente dovrà avere. E deve chiedersi se i futuri ministri di un eventuale governo di destra guardano ai diritti, all’integrazione, alla scuola, all’accoglienza, alla solidarietà, a quale
economia, a quale politica estera e all’Europa unita, oppure guardano all’Ungheria di Orban che dice: «Non mescoliamoci con altre razze». Lui è un alleato di Matteo Salvini e Giorgia Meloni ed evoca la teoria della grande sostituzione. Il leader ungherese teme che gli stranieri prenderanno il posto della popolazione dell’Occidente e usa toni razzisti che preoccupano anche la comunità ebraica. La destra italiana lo corteggia, e intanto incontra Trump e gli ultraconservatori complottisti e antiabortisti. Su questo si deve discutere. E un problema ancora esiste per il ,partito di Giorgia Meloni. E non mi riferisco solo al candidato a Palermo arrestato alla vigilia delle elezioni comunali per aver chiesto voti alla mafia, e nemmeno alla sindaca finita ai domiciliari per una questione di appalti e indagato sempre per la stessa inchiesta un eurodeputato. Ma agli ideali non democratici che affascinano ancora molti appartenenti a Fratelli d’Italia. E poi c’è l’alleanza del centrodestra, e qui si configura qualcosa di inedito, perché sempre in passato le elezioni sono state affrontate sin dal 1994, quando nacque l’alleanza con una chiara leadership di Silvio Berlusconi. Questa volta evidentemente non sarà così. Si sarebbe pensato fino a pochi anni fa che sarebbe stato Salvini, colui che avrebbe preso il timone del comando della coalizione, ma è sempre più chiaro dai sondaggi degli ultimi anni che toccherà o dovrebbe toccare questo ruolo a Giorgia Meloni. Solo che sono tanti gli elementi di freno. La paura del Cavaliere e dei suoi, nemmeno tanto nascosta, è che con un centrodestra a guida Meloni di fatto, e con lei candidata a premier, gli elettori di Forza Italia possono essere impauriti e fare la stessa strada che hanno compiuto nei giorni scorsi i ministri del governo Draghi che, come si sa, hanno lasciato il partito. Ma tutto questo è solo l’inizio di una campagna elettorale che si annuncia calda e afosa, non solo dal punto di Q vista meteorologico. © RIPRODUZIONE RISERVATA
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Verso il voto
LA STRADA È SEGNATA DALLE EMERGENZE. INFLAZIONE, RECESSIONE, GUERRA. INTERROMPERE L’AGENDA DRAGHI SAREBBE LA CATASTROFE. MA I PARTITI VORRANNO PARLARE D’ALTRO
PERCORSO OBBLIGATO DI MASSIMO CACCIARI
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Prima Pagina
Il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella
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Verso il voto
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a campagna elettorale è iniziata in perfetta continuità con quella già in atto, ma che si cercava di nascondere sotto gli slogan di unità nazionale, e che ha portato alla fine del governo Draghi. Tutto si può dire della “politica” italiana fuorché accusarla di incoerenza. Anche forma e contenuti sembrano non differire dalle campagne passate. Tornano a fiorire le promesse comportanti aumenti di spesa senza alcuna indicazione concreta, calcolata di copertura. Quale politica fiscale in grado di corrispondere al vertiginoso aumento del deficit? Patrimoniale? Revisione del catasto? Spending review seria? Riforma del sistema amministrativo che grava su ogni impresa economica? Nessuno ne parlerà. Tutti invece parleranno di difesa dei nostri redditi, miglioramento e aumento dei servizi, e altri nobili obbiettivi, come se con questi si contrastasse inflazione e recessione alle porte. Per il resto l’agenda è scritta chiunque vinca. La stessa abile Meloni dà mostra di
LE CONTRAPPOSIZIONI SARANNO TUTTE IN CHIAVE IDEOLOGICA. PARANOIA E DEMAGOGIA SUGLI IMMIGRATI. DECLAMAZIONI SU DIRITTI E VALORI. MA NESSUNO DIRÀ COME E COSA VUOLE FARE averlo compreso. L’agenda Draghi non può non continuare la sua strada pena la completa catastrofe. La nostra già limitata sovranità oggi lo è al quadrato. Agli storici discutere le cause di un tale destino, ma la verità è questa, nuda e dura. Per continuare ad avere i fondi europei e il relativo permesso a indebitarci senza andare in default dovremo rispondere agli imperativi delle Autorità europee (e dei mercati finanziari), passare il loro esame, non solo sotto il profilo dei conti, ma anche rispetto a quello della credibilità politica. Può darsi che qualsiasi partito o movimento possa superarlo, ma è certo che lo deve. Si potrà forse procedere per un po’ chiacchierando sul piano di quelle che 16
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una volta si sarebbero dette “riforme di struttura”, ma non su un realistico piano che consenta almeno di sostenere l’aumento del costo del debito. A questo capitolo obbligato dell’agenda del futuro governo si aggiunge oggi, ancora più drammatico, quello della guerra. Anche a questo proposito, la discussione su cause e responsabilità è cosa utile e onesta, ma non evita il problema: l’Italia si trova oggi all’interno di un Grande Gioco geo-politico che le permette margini minimi di scelta. Pena l’aggravare la sua stessa situazione economico-finanziaria. Ci sarà chi lo dice felice e chi lo dice magari disperato. La realtà non cambia. Il grande pericolo consiste nel fatto che proprio di tutto ciò si taccia in campagna elettorale e che dunque non si giunga a definire alcuna intesa, alcun programma di governo. Ritrovandoci dopo il voto come nel 2018, con Mattarella costretto a insediare governi “tecnici” o “di emergenza”, o, peggio, governi formati
Foto: pagine 14 - 15 A. Casasoli - A3, pagine 16 - 17 A. Masiello - Getty Images
Prima Pagina
da chi mai ha governato neppure nel paesello natio. Ecco, allora, che, al di là delle promesse di nuovo Welfare che saranno nelle corde di tutti, le differenze e contrapposizioni emergeranno in una chiave tutta ideologica. Tra paranoia su sicurezza, integrità etnica, demagogia irrealistica sul fenomeno dell’immigrazione, da una parte, e giustizia, diritti umani, politically correct, dall’altra. I primi si guarderanno bene dallo spiegare come se la caverebbe la nostra economia senza immigrati; i secondi non ci diranno attraverso quali leggi, quali norme positive svolgere il tema dei diritti umani, che altrimenti rimangono appunto nient’altro che un appello politicamente vuoto alla Giustizia. Il loro combinato disposto farà sì che l’immigrazione continuerà inevitabilmente (magari con qualche altra nave bloccata al largo da Salvini, se tornerà ministro) e anarchicamente, poiché non sostenuta da una politica di integrazione. Con i pericoli che ciò comporta anche sul piano dell’ordine sociale. Peggio ancora se la campagna dovesse assumere anche i toni del “pericolo fasci-
Una elettrice di fronte alle liste elettorali in un seggio a Roma
sta”,da un lato, e dell’ “esproprio comunista”, dall’altro. Mettiamo definitivamente da parte questa sciocca propaganda. Per gli stessi motivi che limitano di fatto la sovranità dei singoli Stati europei non sussiste la più remota possibilità di ritorni a regimi autoritari del tragico Novecento. La crisi delle democrazie rappresentative apre a ben altri scenari: non “dittature della maggioranza”, che presuppongono la centralità delle assemblee parlamentari, ma concentrazione nell’esecutivo del processo decisionale; l’affermazione di una idea “tutelare” dello Stato, fondata sul capillare controllo dei comportamenti individuali che le nuove tecnologie consentono; neutralizzazione del conflitto sociale e politico, che è lo spirito stesso della democrazia; conformismo universale esaltato come senso della misura, prudenza, tolleranza. Lo stato di emergenza, che si va trasformando in stato tout-court, a questi esiti, da anni ormai, sembra inarrestabilmente condurre. Leggerli secondo vecchi schemi serve soltanto a disarmare ancora di più nei loro confronti. Q ©RIPRODUZIONE RISERVATA
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Inchiesta / I soldi della politica
I CONTI IN TASCA AI PARTITI DI ANTONIO FRASCHILLA E CARLO TECCE
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essun partito invoca la frugalità, ma da tempo tutti la praticano per costrizione. La fine di ogni sostegno pubblico – né finanziamenti diretti né rimborsi elettorali, lo Stato assegna soltanto il 2x1000 – non ha incentivato il sostegno popolare, sparute le piccole donazioni, simboliche le sottoscrizioni di tessere. Una buona notizia arriva dal 2x1000: al solito entro agosto il ministero dell’Economia verserà l’acconto, più o meno la metà, dei quasi 19 milioni di euro distribuiti lo scorso anno. Non risolve, ma aiuta molto. Però i partiti sono consapevoli che le pros-
PD A GONFIE VELE CON IL 2X1000, LA LEGA DI SALVINI IN UTILE, L’ALTRA HA LA ZAVORRA DEI 49 MILIONI, MELONI HA UN TESORO, CALENDA E RENZI IL PIENO DI DONAZIONI. FORZA ITALIA POVERISSIMA sime elezioni sono una sorta di selezione naturale e sono pronti ai più temerari impegni economici per la migliore propaganda e il maggior numero di eletti in Parlamento. Analisi di bilanci, documenti ufficiali, il confronto con i tesorieri, L’Espresso vi racconta una lotta all’ultimo euro. Con Forza Italia che ne ha davvero una manciata. Con Fratelli d’Italia e Lega Nord che possono sfruttare i risparmi. Con il Partito de18
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mocratico che ha una gestione oculata ma convive con le troppe spese del passato. I DEM COL 2XMILLE, REBUS IMPIEGATI Il Pd è l’erede della tradizione politica di Pci e Dc e di una numerosa e generosa partecipazione popolare, ma ciò non si riflette più con la sottoscrizione delle tessere che ha apportato al bilancio soltanto 459 mila euro. Il punto forte per il partito di Enrico Letta sono le contribuzioni volontarie che derivano dal 2x1000 in dichiarazione dei redditi: 6,9 milioni nel 2021, 7,4 milioni nel 2020, di gran lunga la migliore adesione della politica, più di un terzo del totale riservato ai partiti. Questo meccanismo fu introdotto proprio dal governo di Letta per eliminare i rimborsi elettorali dopo una miriade di scandali e ruberie e per contenere l’avanzata anticasta.
Prima Pagina
Foto: I. Romano / Getty,M.L.Antonelli/ Agf, P.Tre / A3, A.Casasoli / Foto A3 (2), G. Nicoloro / AGF, M.Minnella / Foto A3
I leader in campo Da sinistra a destra, Enrico Letta, Carlo Calenda, Giorgia Meloni, Matteo Salvini, Beppe Grillo, Matteo Renzi e Silvio Berlusconi: finita l’era del finanziamento pubblico i responsabili dei principali partiti sono a caccia di fondi
Gli investimenti per la campagna elettorale erano programmati da ottobre ad aprile, adesso con le urne a settembre si approfitta delle feste dell’Unità già previste e di un anticipo del 2x1000, circa 3,5 milioni di euro, che il ministero dell’Economia verserà entro agosto. Il partito dispone pure di una eccellente liquidità bancaria con 4,6 milioni di euro. Questo permette ai dem di fare propaganda senza accendere mutui, ma per il voto sarà utilizzata una minima parte degli oltre 8 milioni di euro che a breve saranno disponibili sul conto corrente, soprattutto perché le spese di gestione restano alte, come testimoniato dai 4,4 milioni di euro di costi per il personale. Il Pd ha 121 dipendenti di cui 29 in aspettativa e 92 in cassa integrazione a ore da più di 5 anni. L’ultima concessione degli ammortizzatori sociali sca-
de il 31 settembre. Il partito conferma che chiederà la proroga di un altro anno. FDI SCATENA LA SUA FORZA ECONOMICA Si ordinano bottiglie di champagne, anzi di spumante italiano in Fratelli d’Italia. Non per brindare ai sondaggi che di soppiatto suggeriscono sempre prudenza, ma perché hanno una larga agilità di portafoglio: «Noi siamo sereni, abbiamo un bilancio solido e siamo preparati a questa sfida per certi versi inattesa a settembre». Roberto Carlo Mele è un raro esempio di tesoriere felice. Negli ultimi due anni il partito, che ha 5 dipendenti e la rete della fondazione Alleanza Nazionale, ha chiuso i bilanci con utili intorno ai 2 milioni di euro e dopo il Pd è la compagine che ha raccolto di più attraverso il 2x1000, circa 2,6 milioni di euro lo scorso anno. Sempre secondo i dati dell’ultimo bilancio appro-
Antonio Fraschilla Giornalista
Carlo Tecce Giornalista
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Inchiesta / I soldi della politica vato a giugno, quello del 2021, il partito di Giorgia Meloni ha 2,5 milioni di euro in banca. «A queste cifre dobbiamo aggiungere la prima rata del 2x1000 di quest’anno, che incasseremo a fine agosto», dice Mele, stimando in almeno un altro milione di euro questa prima parte. Denaro che sarà copiosamente usato sui social e sui cartelloni stradali con l’obiettivo di rilanciare la figura di Meloni. «Punteremo molto sulle ultime tre settimane prima del voto, lì sarà svolta la campagna elettorale vera e propria. Ad agosto saremo ancora alla scelta delle candidature. In ogni caso, il grosso della spesa riguarderà una comunicazione su poche frasi chiave e su concetti chiari, non getteremo soldi in cose inutili. Una parte riguarderà eventi sui territori». LA NUOVA LEGA PIENA DI SALUTE In ogni sua declinazione – Nord per l’indipendenza della Padania e la più recente per Salvini premier – la Lega resta il partito più antico e più stalinista d’Italia: chi non segue la linea del segretario viene espulso. Questo si traduce negli ordinati e puntuali pagamenti di candidati, e soprattutto eletti, e in una buona raccolta col 2x1000: fra le due organizzazioni, nel complesso, la Lega di Matteo Salvini ha 4,6 milioni di euro sui conti correnti. La Lega è un movimento florido con parecchia liquidità che può affrontare campagne elettorali impreviste e anticipate nonostante i 100 mila euro bimestrali versati al fondo unico di giustizia, a garanzia dei famosi 49 milioni di euro di vecchi rimborsi elettorali da restituire allo Stato. Il debito, attualizzato a 18 milioni di euro dopo l’accordo con la procura di Genova (settembre 2018), è iscritto nel bilancio della Lega Nord col simbolo di Alberto da Giussano che rimane operativa anche per tale ragione seppur non centrale nella strategia finanziaria del partito. Invece la Lega intestata a Salvini premier riceve gran parte delle donazioni da soggetti fisici (politici perlopiù) e giuridici per quasi 8 milioni di euro inclusi gli 1,8 milioni col 2x1000. Nel 2021 questa gestione virtuosa ha apportato un utile di bilancio di 1,4 milioni di euro e un incremento dei depositi bancari. La Lega originale è vincolata ai 49 milioni per i prossimi decenni, la Lega salviniana fa la campagna elettorale. Però il partito non ricorre mai a prestiti bancari. La propagan20
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PER TUTTI CAMPAGNA ELETTORALE VIA SOCIAL. ENTRO AGOSTO IL MINISTERO DELL’ECONOMIA VERSERÀ L’ACCONTO, PIÙ O MENO LA METÀ, DEI QUASI 19 MILIONI DI EURO DELLO SCORSO ANNO da per il voto sarà finanziata con le risorse in cassa e dai candidati con contribuiti dai 10 mila a 20 mila euro: eventi con i militanti al Nord, qualche incursione in Sardegna e in Sicilia (ci sono le Regionali), un agosto con grossi investimenti sui social. Il faccione di Salvini onnipresente. FORZA ITALIA PIANGE MISERIA Il paradosso. Uno degli uomini più ricchi d’Italia ha uno dei partiti più poveri d’Italia. In Forza Italia si rompono i salvadanai per capire come finanziare la campagna elettorale che vedrà il ritorno del fondatore Silvio Berlusconi in Senato a quasi dieci anni dalla decadenza dopo la condanna per frode fiscale. In banca ci sono 157 mila euro che sono necessari a pagare gli stipendi di una decina di dipendenti (erano 80 qualche anno fa) e l’affitto nel centro di una Roma di una sede già
La scissione Giuseppe Conte e Luigi Di Maio prima del grande scontro sul governo Draghi. Dopo l’ennesima spaccatura, il Movimento 5 stelle perde anche molti soldi: in bilancio ha messo 2,5 milioni di euro di crediti da devoluzione di deputati e senatori che nel frattempo hanno lasciato il partito. Il ministro degli Esteri per la sua nuova avventura potrà contare invece solo su donazioni volontarie di chi lo ha seguito
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IL SALDO CONTABILE
LIQUIDITÀ In cassa e in banca
INCASSI 2‰ nel 2021
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Foto: Marco Cantile / LightRocket via Getty Images
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rimpicciolita oltre ogni limite di spazio. Come da tradizione, il bilancio si è chiuso con una perdita, anche se la nota lieta è che si è passati da meno 827 mila a meno 340 mila euro. Il partito ha debiti per 100,9 milioni, di cui 92,2 verso il capo Berlusconi che, dopo l’abolizione dei rimborsi elettorali, ha dovuto estinguere i mutui con le banche. Ogni anno Forza Italia di Berlusconi accumula interessi passivi col creditore Berlusconi. Poi ci sono altri 5,3 milioni di euro da restituire alle banche. Le entrate sono basse: 2,7 milioni di euro fra donazioni e 2x1000. Neanche in un secolo Forza Italia da sola potrebbe sistemare i suoi conti. Questo pateracchio è finito al senatore tesoriere Alfredo Messina, uomo di fiducia di Berlusconi, esperienza di dirigente e amministratore in Olivetti, Alitalia, Iri con Romano Prodi e poi ai vertici di Fininvest, Mondadori, Mediaset e Mediolanum. Messina ammette che non c’è un euro per la campagna elettorale e che il futuro, comunque vada, sarà in rosso. Nella prossima legislatura, se i sondaggi fossero confermati, i parlamentari forzisti sarebbero circa un terzo degli odierni 129. Il primo contraccolpo: meno oboli al partito. In teoria. Perché Messina ha cercato di ottenere contributi liberali di 900 euro al mese su stipendi da 12/13 mila euro dai parlamentari per
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773 807 mila
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650 882 mila
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447 504 mila
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392 485 mila
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157 563 mila
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Il 31 agosto sarà incassato l’acconto 2022 del due per mille, circa la metà di quello ottenuto l’anno prima 31 luglio 2022
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Inchiesta / I soldi della politica
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supportare il partito, ma una ristretta minoranza ha rispettato l’indicazione (non può essere certo una imposizione e il tesoriere non potrebbe mai fare causa ai suoi eletti). Ci sono aziende o militanti che finanziano Forza Italia, ma quando qualche migliaio di euro approda sui conti viene pignorato dai decreti ingiuntivi dei fornitori. La legge non consente a Silvio Berlusconi di inondare di milioni Forza Italia perché il limite alle donazioni di soggetti fisici è di 100 mila euro. Tant’è che da anni altri membri della famiglia di Berlusconi sono coinvolti nel sostentamento – perché di quello si tratta – del partito. A Forza Italia rimane soltanto una speranza, che qualche televisione, una a caso, abbia il buon cuore di ospitare e valorizzare al meglio la parola di Silvio. Chissà se dalle parti di Cologno Monzese c’è qualcosa di simile. IL MOVIMENTO NON È PIÙ FRANCESCANO I Cinquestelle devono capire cosa sono diventati dopo le scissioni e le fughe che han-
I CINQUESTELLE BATTONO CASSA A ROMA PER CONTO DEI TERRITORI. BERLUSCONI È IL PRINCIPALE CREDITORE DEL PARTITO. SUOI 92 DEI 100 MILIONI DI PASSIVO DOPO L’ESTINZIONE DEI MUTUI no più che dimezzato la truppa di senatori e deputati nei gruppi parlamentari. Il partito di Conte nell’ultimo bilancio registrava comunque disponibilità liquide per 3,8 milioni di euro, anche se i costi sono in crescita considerando anche l’affitto della nuova sede in centro a Roma, in bilancio a 83 mila euro per un semestre. Un bel po’ di risparmi ci sono e tra i parlamentari già in sede di approvazione del bilancio c’è chi ha fatto mettere a verbale diverse contestazioni: rifocillare i territori e non concentrarsi su Roma, come è accaduto sinora. Per fare un esempio, la campagna elettorale per le amministrative a Palermo è stata autofinanziata da deputati e senatori siciliani con un contributo di circa mille euro ciascuno. Nemmeno un euro è arrivato da Roma. Non a caso, negli allegati al bilancio l’ex capogruppo Davide Crippa ha fatto il seguente
Da sinistra, Nicola Fratoianni, Eleonora Evi a Angelo Bonelli alla presentazione del simbolo della lista che unisce Sinistra italiana e Verdi per l’Europa e che sarà presentata alle prossime elezioni Politiche sia alla Camera sia al Senato. Questa lista avrà a disposizione come budget per la campagna elettorale circa 200 mila euro e punta a superare la soglia del 5 per cento e ad un accordo con il Partito democratico
intervento: «Auspico, alla luce delle sensibilità da me raccolte dai parlamentari e vista la relazione del tesoriere a corredo del bilancio, un rilevante incremento delle destinazioni per i territori per importi e criteri da definirsi nell’ambito della organizzazione interna già a partire dalla approvazione del budget 2022». In realtà i soldi disponibili saranno molto di meno di quelli previsti e il patrimonio reale non è quello esposto, poiché sono stati riportati in bilancio, alla voce crediti, 2,5 milioni di euro di restituzioni di onorevoli e consiglieri regionali mai incassati: soldi che probabilmente non ritorneranno mai più, nonostante le minacce di azioni giudiziarie. Per incassare il 2x1000 si dovrà aspettare un altro anno. Almeno. AZIONE E IV CAMPIONI DI FONDI Carlo Calenda e Matteo Renzi in questi anni sono stati quelli che, in proporzione, hanno fatto la migliore raccolta di denaro da donazioni non di parlamentari. Nell’ultimo periodo Calenda ha raggiunto Renzi come capacità di attrarre risorse. Azione ha registrato negli ultimi bilanci utili per 600 mila euro e ha liquidità nei conti correnti per 650 mila euro, frutto anche del buon andamento delle donazioni da 2X1000: 31 luglio 2022
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Inchiesta / I soldi della politica
lo scorso anno pari a 882 mila euro e quest’anno date in crescita. Calenda è tra i pochi che continua ad attrarre contributi di rilievo dal mondo dell’imprenditoria privata: tra aprile e maggio ha ricevuto 50 mila euro da Gian Felice Rocca, patron dell’Humanitas, 25 mila euro dalla Finregg di Fabio Storchi, volto di Unindustria Reggio Emilia; e, ancora, 10 mila euro dall’imprenditore Alessandro Ettore Riello del gruppo Aermec, 15 mila euro dall’industriale Maurizio Marchesini. E poi, già all’indomani delle dimissioni di Mario Draghi, Calenda ha lanciato una campagna di tesseramento in vista del voto. Un po’ indietro la macchina economica di Renzi, che però ha subito cambiato il simbolo con il quale andrà al voto: sfondo blu e ben visibile il suo nome. Italia Viva comunque ha in cassa liquidità per 773 mila euro, in gran parte dovuta al 2X1000 che lo scorso anno ha portato entrate per 807 mila euro. Tra i grandi e medi finanziatori degli ultimi mesi ci sono il finanziere Davide Serra (25 mila
RISORSE AL LUMICINO PER VERDI E SINISTRA ITALIANA. “NON ACCETTIAMO FINANZIAMENTI E I CANDIDATI NON PAGANO PER ENTRARE IN LISTA”. DI MAIO PROVA AD ALLESTIRE UNA RETE
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Cum qui non nobitas ea voluptatum hit untur? Solenda erecero quiam, quos re vendest ducimolo quae ni cus dolores sit voluptatur, te vel magnam qui andae excerferro ditiis aut exceate ex ea que si sim est exceste mporionseque entotatiis non eveni quibus. Udigendem ant fuga. At aut ad quat aspiene
euro) e l’ex leghista di Bolzano, Ermelinda Bellinato, che ha versato 50 mila euro con la sua società edile, salvo poi precisare che era una decisione del suo commercialista perché l’azienda è in fase di chiusura e lei aveva conferito un mandato generico di fare delle donazioni. SI E VERDI SMEZZANO, IPF DEBUTTA Chi parla di una campagna elettorale sobria per penuria assoluta di risorse è il tesoriere di Sinistra Italiana, Domenico Caporusso, che ha a disposizione un gruzzolo di appena 200 mila euro da dividere con gli alleati dei Verdi: «Abbiamo risorse limitatissime e non facciamo come Calenda e Renzi che accettano soldi da imprese. Partiti come il nostro vivono solo di 2X1000 (500 mila euro lo scorso anno, ndr) e tesseramento. Da noi nessuno mette un euro quando si candida, a differenza di altri partiti. Abbiamo un piccolo tesoretto sul bilancio 2021, pari a 450 mila euro, che si è quasi dimezzato adesso a luglio. In questa campagna breve noi proveremo a puntare sul simbolo per farlo conoscere, e quindi punteremo sui social e sulle affissioni nelle grandi città». Insieme per il futuro di Luigi Di Maio trascorre i primi giorni di campagna elettorale dal notaio per creare la struttura del partito e attribuire gli incarichi. Per farsi conoscere sarà indispensabile la generosità dei circa 60 parlamentari e degli altri eletti in Regioni e Comuni. Q ©RIPRODUZIONE RISERVATA
MAURO BIANI
Verso il voto
NON PENSIAMO Ci fronteggiamo su nomi, prossemica, vocabolario. Dovremmo esser qui a ragionare su scuola, università, diritti civili, lavoro. Iniziamo a farlo ogni settimana su L’Espresso DI LOREDANA LIPPERINI
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la primavera del 1990: Alex Langer, fra i più grandi ambientalisti italiani, scrive una lettera a San Cristoforo, di cui, bambino, ammirava le statue nelle chiesette di montagna. Gli dice che lo capisce, che comprende il suo sentirsi sprecato dopo aver prestato la sua forza ai signori più illustri, e ammira il suo «sentirsi assetato» di una Grande Causa. Quella Grande Causa gli sarebbe apparsa nelle sembianze di un bambinetto da traghettare dall’altra parte del fiume, ponendolo davanti al più difficile cimento della sua vita. Trent’anni fa, Langer individuò in uno stile di vita diverso la nostra Grande Causa: con il rovesciamento, scrisse in quella lettera, del motto dei giochi olimpici, citius, altius, fortius, più veloci, più alti, più forti. Fermare la corsa, spiegare che la competizione è truccata, anzi autodistruttiva, «il passaggio da una civiltà del “di più” a una del “può bastare” o del “forse è già troppo”»: questo era il compito, e lo è ancora. Vari lustri dopo, siamo qui a constatare la verità di quelle parole e a non riuscire non dico ad attraversare il fiume, ma a vederlo. A poco meno di due mesi dal voto, infatti, ciò di cui sentiamo parlare sono le persone, non le Grandi Cause, e nemmeno il minimo sindacale costituito dai programmi: non ce ne lamentiamo, ma anzi siamo i primi a prestarci al gioco della personalizzazione. Ci soffermiamo a commentare il costume tricolore di Giorgia Meloni, o a ridacchiare sui meme dove viene rappresentata come lo squalo di Spielberg o come Jack Torrance di Shining. Sì, ma il suo programma? C’è, ma non ne parliamo. Ancora. Indugiamo sulle immagini mariane che fanno da sfondo agli interventi di Matteo Salvini e gli confutiamo le battute sulla sinistra che non suda. Sì, ma il suo programma? Vale anche per la sinistra, in verità: anche quando i programmi, ora detti agende, esistono, seguiamo rotture e possibili alleanze più che interessarci alla prospettiva. In pratica, siamo già di-
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Una manifestazione del Partito democratico in piazza del Popolo, a Roma
sposti su due file, tre al massimo, pronti a fronteggiarci sui nomi, la prossemica, il vocabolario dell’uno o dell’altra. Invece, dovremmo esser qui a ragionare su scuola, università, diritti civili, lavoro. Su un programma, come proveremo a fare dalla prossima settimana su queste pagine. Il motivo? Manca non il famigerato storytelling (di quello ce n’è fin troppo) ma quello che l’antropologa Stefania Consigliere chiama il reincanto, ovvero la possibilità di ricostruire una comunità attraverso l’immaginario e dunque attraverso un percorso comune. In Favole del reincanto, uscito per DeriveApprodi, Consigliere sostiene che invece di opporsi al sortilegio del capitalismo che vuole l’individuo «auto-centrato, autosufficiente, nel pieno possesso delle sue capacità razionali, in stato di veLoredana glia, identico a sé», la sinistra ha disertato, Lipperini Giornalista squalificato e ignorato l’immaginario:
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Foto: P. Tre - A3
ALL’ELEFANTE
«Un errore storico di proporzioni madornali, perché ha comportato la smobilitazione di intelligenza e sensibilità dal terreno più cruciale per qualsiasi forma di cambiamento. Anziché abbandonare l’immaginario agli avversari, avrebbero dovuto impedir loro di incatenarlo, pervertirlo e violentarlo a piacimento». In altri termini, prima di lei, lo aveva detto George Lakoff, professore di linguistica a Berkeley, che nel 2004 pubblicò quella che dovrebbe essere la Bibbia dei politici, Non pensare all’elefante. Sosteneva, cioè, che ogni volta che parliamo le nostre parole riflettono come vediamo il mondo, e la nostra visione si chiama framing. Se non riusciamo a entrare nei frame mentali degli altri, possiamo dire tutte le verità del mondo, ma scivoleranno via. Se, peggio, rispondiamo al frame del nostro antagonista politico, gli facciamo un regalo gigantesco: è il suo quello che passerà. Puoi dire a chiunque di non pensare all’elefante, ma nel momento in cui lo dici, tutti vedranno un pachiderma nella stan-
za. Un po’ come dire: votateci, o arriva Giorgia Meloni. Allora, invece di piazzare elefanti nelle piazze reali e virtuali sarebbe il caso di ricostruire il famigerato noi, quasi scomparso dalla circolazione a partire dai famigerati anni Ottanta, quando Margaret Thatcher lasciò cadere in un’intervista la frase più tossica pronunciata in mezzo secolo. Questa: «La vera società non esiste: ci sono uomini e donne, e le famiglie. E nessun governo può fare nulla se non attraverso le persone. La gente deve guardare prima a se stessa». Quella frase si è trasformata in mito. I miti si smontano costruendone altri. Nel 1995 lo scrittore Valerio Evangelisti, scomparso nello scorso aprile, scriveva: «Colonizzare l’immaginario. Sembrava impossibile, eppure basta disporre degli strumenti opportuni. Televisioni, mass media, una stampa docile, un trend culturale. Finisce che intere generazioni si trovano immerse in un sogno, e lo confondono con la realtà. Ora, quali sono le caratteristiche di un sogno? Che si vive una vicenda priva di antecedenti e di conseguenze nel futuro. Esiste il presente e basta». Sembra impossibile, ma la politica dispone degli strumenti per ribaltare il tavolo: ma ragionando sulle grandi cause più che sulle agende. Ricostruendo il noi. Il tempo è poco? Verissimo, ma almeno usiamolo bene. Appropriandoci, per esempio, di quel che scriveva David Foster Wallace (sì, un altro scrittore: ma a volte sono meglio dei social media manager, giuro) in quel meraviglioso discorso agli studenti del 2005: «Il cosiddetto “mondo reale” degli uomini, del denaro e del potere vi accompagna con quel suo piacevole ronzio alimentato dalla paura, dal disprezzo, dalla frustrazione, dalla brama e dalla venerazione dell’io. La cultura odierna ha imbrigliato queste forze in modi che hanno prodotto ricchezza, comodità, libertà personale a iosa. La libertà di essere tutti sovrani dei nostri minuscoli regni formato cranio, soli al centro di tutto il creato. Una libertà non priva di aspetti positivi. Ciò non toglie che esistano svariati generi di libertà, e il genere più prezioso è spesso taciuto nel grande mondo esterno fatto di vittorie, conquiste e ostentazione. Il genere di libertà davvero importante richiede attenzione, consapevolezza, disciplina, impegno e la capacità di tenere davvero agli altri e di sacrificarsi costantemente per loro, in una miriade di piccoli modi che non hanno niente a che vedere col sesso, ogni santo giorno. Questa è la vera libertà. Questo è imparare a pensare. L’alternativa è l’inconsapevolezza, la modalità predefinita, la corsa sfrenata al successo: essere continuamente divorati dalla sensazione di aver avuto e perso qualcosa di infinito». Questa è l’acqua, sì. Q © RIPRODUZIONE RISERVATA
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Verso il voto / Lo scenario
PREMIER, TUTTI CONTRO TUTTI DI BRUNO MANFELLOTTO
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dar retta ai sondaggi, la partita elettorale del 25 settembre sarebbe già decisa, vincerebbe la destra, e trionferebbe Giorgia Meloni conquistandosi il privilegio della premiership. E vabbè. Ma si sa, una cosa sono le previsioni, altra le schede nell’urna. Specie se a destra c’è un clima da fratelli coltelli. Stavolta, poi, il “draghicidio” ha prodotto sconvolgimenti, radicalizzato la sfida – o di qua o di là – e imposto la ricerca di alleanze, anche per via di una legge elettorale cervellotica. Insomma, nulla è scontato, è solo l’inizio di una campagna caldissima dalla quale uscirà un Parlamento ridotto nei numeri (da 945 a 600 parlamentari). Una sfida decisiva. Di cui quelli che seguono sono i personaggi e interpreti. Con i loro problemi e desideri. Draghi non c’è, ma c’è. Il premier dimessosi senza sfiducia ha fatto capire di non sentirsi più in campo. Eppure c’è. Per molti è il premier irrinunciabile, per gli altri è come l’ombra di Banco. Non a caso la campagna s’è aperta all’insegna dell’“Agenda Draghi”, intesa come programma, bandiera intorno alla quale costruire una coalizione vincente. Agenda che però senza di lui è solo un elenco di cose da fare. Non basta. Ritorno a Pratica di Mare. Quattro giorni dopo il voto compirà 86 anni, cinque più di Sergio Mattarella, due più di Giuliano Amato. Eppure Berlusconi, nonostante l’età e gli acciacchi, si sente in pista. Un passato che non passa. Cedendo alle pressioni di Matteo Salvini, e nel tentativo di fermare Giorgia Meloni e il declino di Forza Italia, Berlusconi si è fatto convincere a dare il colpo di grazia al governo Draghi. Decaduti i vincoli della legge Severino, intende presentarsi per il Senato: vuole la rivincita dopo la condanna definitiva per frode fiscale che lo costrinse nel 2013 a lasciare Palazzo Madama e nel 2019 a non ricandidarsi. Retroscena credibili (Tommaso Ciriaco, “la Repubblica”) dicono che per convincerlo a pugnalare Draghi, Salvini gli abbia offerto la presidenza del Senato. Dai tribunali alla seconda carica dello Stato. Ai suoi amici, però, Berlusconi ha confessato un altro sogno: ministro degli Esteri, per convincere «l’amico Putin» a firmare la pace con l’Ucraina. Del resto, solo due mesi fa ha ricordato di
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aver portato «nel 2002 allo stesso tavolo Bush e Putin per firmare il trattato che pose fine a più di cinquant’anni di guerra fredda». Ma da Pratica di Mare sono trascorsi vent’anni e alla guerra fredda zar Vladimir preferisce ora missili e bombe. Meloni ringrazia Confalonieri. «Chi vince andrà a palazzo Chigi», ripete lei convinta di arrivare prima; «Chi vince avrà il privilegio di indicare il premier», corregge invece Salvini. La battaglia è tutta qui, dentro e fuori la destra. All’appuntamento Meloni si prepara da tempo. Si presenta bene, sorride, si prepara su ogni dossier. Si schiera con la Nato, non dice un parola su Draghi, non se la prende più con Bruxelles. Maquillage elettorale. O il tentativo di far dimenticare le falangi neofasciste dell’apparato di partito e l’amicizia politica con Orban, Le Pen e gli spagnoli di Vox per i quali ha tenuto a Barcellona un comizio immortalato in un video nel quale, invece, “esce al naturale”. Se davvero andasse a Palazzo Chigi, sarebbe la prima neofascista al potere. Tre mesi fa, forse paventando obiezioni del Quirinale, Meloni ha convocato una convention programmatica a Milano, la capitale di Salvini e Berlusconi, e schierato sul palco testimonial di una nuova classe dirigente: Carlo Nordio, Luca Ricolfi, Gennaro Sangiuliano, l’imprenditore veneto Matteo Zoppas. Candidato premier preferito, Giulio Tremonti, il politico convinto che la caduta del governo di cui era ministro del Tesoro sia stata l’effetto di un golpe provocato nel 2011 dalla lettera della Bce, firmata anche da Draghi, che bocciava la politica economica e imponeva misure finanziarie tali da spingere Berlusconi alle dimissioni e Mario Monti a Palazzo Chigi. Agenda Tremonti contro agenda Draghi. Vecchi e nuovi rancori. Ora però Meloni vuole giocare in prima persona. E le reazioni preoccupate dei partner lo confermano. Si dice che al passo decisivo abbia contribuito l’intervista al Corriere della Sera di Fedele Confalonieri, il più stretto sodale di B., che ad Aldo Cazzullo ha confessato la sua ammirazione per Giorgia. La quale ha visto in quel plauso anche l’assenso dell’imprenditoria del nord stufa delle intemperanze di Salvini. Vecchie e nuove felpe. A far prevalere il Salvini d’opposizione su quello di governo è stato l’uragano Giorgia e l’ansia di fermarla. Conte, aprendo la crisi, gliene ha dato l’opportunità. Ma non basta. Per strappare a Meloni il diritto alla pre-
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Matteo Salvini e Giorgia Meloni
Foto: Andrea Staccioli / Insidefoto / LightRocket via Getty Images
miership è necessario prendere un voto in più di lei. Questa possibilità passa per un accordo di ferro con Berlusconi, che ha lo stesso obiettivo. Senza contare che se davvero Salvini vuole tornare al Viminale, ha bisogno della presenza al suo fianco di Forza Italia per moderare la sua immagine intemperante, specie sul piano internazionale. E magari archiviare il ricordo di quando a Bruxelles, indossando una felpa con la faccia di Putin, offriva «due Mattarella per mezzo Putin». Jolly Calenda. Potrebbe diventare il jolly, e forse anche la sorpresa di queste elezioni. È con Carlo Calenda che Letta intende allearsi. La sua “Azione” è il gruppo con più appeal, più vicino al Pd e più consistente: alle ultime comunali a Roma ha superato un insperato 19 per cento e nel ballottaggio ha appoggiato Roberto Gualtieri. Dalla sua ha i numeri, un discreto ascendente personale e si presenta ancora come una novità della politica. Però non ha un carattere facile e alla proverbiale prudenza di Letta oppone una certa irruenza, poco nota in casa Pd: mentre si alleava con Letta gli negava la candidatura a palazzo Chigi e si spendeva per Draghi premier, del quale però non si conoscono né intenzioni né disponibilità. Tanto che ha aggiunto: «Se Draghi non ci sta, mi candido io…». Ma dal momento che il Rosatellum obbliga ogni singolo partito a indicare non il candidato premier ma il capo politico, questo can-can di nomi rischia solo
di creare una gran confusione. Non è un po’ presto per parlare del governo che verrà? Primum vincere. Con Letta senza Renzi. Enrico Letta si gioca tutto: la possibilità di fermare una destra vicina al governo e il successo della sua segreteria. Primo problema, le alleanze. Finita la luna di miele con i Cinque Stelle dopo lo sgambetto di Conte, e impossibile l’intesa con Matteo Renzi (che pare corra da solo), Letta ha scelto il Patto repubblicano di Calenda che comprende anche +Europa di Emma Bonino. Lo hanno spinto su questa strada due vecchi del mestiere, Giorgio La Malfa e Romano Prodi, anche per via di una legge elettorale che favorisce le coalizioni. Il Rosatellum, più complicato di un gioco cinese, vieta infatti il voto disgiunto, rende quindi pressoché impraticabili le desistenze nei collegi uninominali dove presentandosi da solo il Pd non avrebbe molte possibilità. In tutto sono in gioco 147 seggi alla Camera e 74 al Senato, quasi il 40 per cento del totale: se la destra si presentasse unita e la sinistra sparpagliata, Meloni & C. potrebbero conquistarne fino al 70 per cento. E cambiare la Costituzione da soli. Per questo Letta ripete: «O noi o la Meloni». Ma perché la manovra funzioni c’è bisogno di aprire a tutti gli alleati possibili, senza chiusure preconcette. Per ora non è così, ma c’è ancora un po’ di tempo. Per fare e per sperare. E per trovare qualcosa di più convincente di un’alleanza. Q © RIPRODUZIONE RISERVATA
OGNI PARTITO CANDIDA IL PROPRIO LEADER. E COSÌ SI AUMENTA IL LIVELLO DELLA CONFUSIONE 31 luglio 2022
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Verso le elezioni / L’economia
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IL MOSTRO PUÒ DIVORARCI PIÙ SPESA E MENO TASSE: SLOGAN POPULISTI. PER GLI INTERVENTI STRUTTURALI OCCORRE SAPERE COME FINANZIARLI. IL MANTRA È LA SOSTENIBILITÀ DEL SISTEMA COLLOQUIO CON ROBERTO TAMBORINI DI GLORIA RIVA
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n’estate di campagna elettorale è una pessima notizia per l’economia italiana. Roberto Tamborini, professore di Economia all’Università di Trento, cosa ci attende? «Quando cade un governo l’aumento dello spread, ovvero la differenza fra il rendimento dei titoli di Stato decennali della Germania e quelli dell’Italia, è sempre da mettere in conto perché l’instabilità politica è uno dei fattori che gli investitori guardano per determinare le capacità di un Paese di onorare il debito. Dobbiamo stare allerta, perché l’alto debito pubblico ci porta ad essere come un cardiopatico a cui si alza la pressione». Abbiamo le giuste medicine? «Serve un buon Pronto soccorso e una terapia di lungo corso. La Banca centrale europea, insieme al rialzo di mezzo punto dei tassi, ha inaugurato lo scudo antispread, ovvero il nostro Pronto soccorso, che tuttavia non è di facile utilizzo perché i più stabili Paesi del Nord non lo vedono di buon occhio. Temono che i Paesi deboli, accecati dalla possibilità di accedere allo scudo, si lancino su una politica economica espansiva e insostenibile». E la seconda medicina? «I Paesi finanziariamente più esposti, Italia in testa, si devo-
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no comportare in modo responsabile. E tutti si domandano se il governo che verrà sarà consapevole di questo quadro che, oltre ad avere dei fondamenti ragionevoli, è usato dagli investitori internazionali per investire o disinvestire nei nostri Btpi». Dunque, l’Italia si salverà se avrà un governo capace di garantire la sostenibilità del debito. La Lega ha già detto che punterà sulla riforma della legge Fornero per abbassare l’età pensionabile e sul condono fiscale. Va bene così? «Spendere molto e tassare poco: è una formula elettoralmente vincente e in linea con la tradizionale politica del centrodestra. D’altra parte il copyright del populismo ce l’ha il centrodestra. Un programma che parla solo di spese e non di come si intende sostenerle non offre garanzie agli investitori internazionali». Quindi, realisticamente, i politici dovrebbero dire agli italiani che i sacrifici - per sopravvivere all’inflazione e alla recessione dietro l’angolo - non sono finiti? Gloria Riva «I tempi dell’austerity non torneranno più, Giornalista perché abbiamo capito che il debito pubbli-
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Foto: Felix Schmitt / The New York Times / Contrasto
Roberto Tamborini e, a sinistra, la sede della Banca centrale europea a Francoforte
co può essere reso sostenibile anche con l’esecuzione efficace e accurata del Pnrr, che garantisce crescita economica e gettito fiscale. Se poi riuscissimo anche a far pagare le tasse, allora il debito pubblico comincerebbe a ridursi». Dunque, quale dovrebbe essere un programma di politica economica credibile? «Serve agire tenendo a mente i fondamentali della sostenibilità, che sono un metro di misura per gli investitori internazionali. Punto primo: c’è da garantire affidabilità e rigore alle finanze pubbliche e per questo occorre una sana distinzione tra i provvedimenti transitori e quelli strutturali. I primi servono a stabilizzare l’economia se c’è una recessione, mentre quelli strutturali - ovvero riforma delle pensioni, sanità, istruzione, sicurezza - vanno toccati a condizione che ci sia un piano fiscale per definire con quali entrate si intende finanziarli. Secondo punto: le spese strutturali a lungo termine devono essere assorbite con aumenti strutturali del gettito, garantiti da una maggiore crescita, da un’imposizione fiscale adeguata, lotta all’evasione, riforma del fisco e, nel breve periodo, una buona capacità tecnica di combinare la crescita dell’inflazione e quella dei tassi di interesse». Quindi la crescita dell’inflazione non è un male assoluto? «La sostenibilità del debito dipende dalla crescita nominale,
ovvero la crescita reale più l’inflazione che, quanto più è al di sopra del tasso d’interesse che paga lo Stato sui Btp, tanto più è favorevole alla riduzione del debito. Mi spiego meglio: il dramma che abbiamo vissuto ai tempi dell’austerity derivava proprio dall’assenza di inflazione perché tutto il peso dell’aggiustamento e della riduzione del debito era sulle spalle della crescita reale, massacrata dall’esigenza di ridurre la spesa pubblica. Se il debito pubblico è sceso dal 155,3 per cento del Pil nel 2020 al 150,4 nel 2021 è grazie alla ripresa post-covid e all’aumento dell’inflazione». Nel 2021 avevamo uno scudo umano contro l’aumento dello spread: Mario Draghi. Oggi no. «Questo rende le cose molto complicate. Siamo in una fase di inflazione da costi, perché i prezzi delle materie prime e dell’energia, anche a causa della guerra, sono schizzati verso l’alto. La Bce, che ha fra i suoi compiti quello di tenere sotto controllo il tasso di inflazione, ha avviato piccoli rialzi del tasso di interesse che agisce soprattutto dal lato della domanda aggregata e quindi va a frenare l’attività economica. L’Europa e l’Italia in questo momento non avrebbero tanto bisogno di frenare la domanda, quanto di fermare i prezzi delle materie prime. L’approccio della Bce è comunque graduale e quindi i piccoli aumenti di 0,5 punti percentuali saranno ben assorbiti dalle attività economiche. Ma fronte alla frammentazione degli spread, ovvero alla diversa capacità dei Paesi di reagire alle turbolenze, il numero uno della Bce, Christine Lagarde, ha detto che intende tenerne conto perché la divaricazione dei tassi fra i Paesi rischia di mandare fuori controllo l’intera politica monetaria. Oltre all’acquisto di titoli per stabilizzare i mercati, che proseguirà fino al 2024, la Bce ha introdotto lo scudo antispread». Per accedervi è necessario rispettare alcune condizioni. Possiamo rispettarle? «Le condizioni dello scudo non sono comparabili con l’Omt di Draghi, cioè l’acquisito illimitato di titoli pubblici nei Paesi sotto attacco speculativo che prevedeva la firma di un memorandum of understandment. L’Italia assolve già le quattro condizioni dello scudo antispread: non essere in procedura d’infrazione; non avere squilibri macroeconomici; sostenibilità del debito pubblico; rispetto degli obiettivi del Pnrr». Tutto bene, dunque? «Non proprio. L’attivazione dello scudo scatta quando l’alto differenziale dello spread è provocato da un’ingiustificata bizzarria dei mercati, non quando le insostenibili politiche monetarie dei governi fanno preoccupare gli investitori internazionali. La politica fiscale del governo Draghi era attenta alla sostenibilità del debito e non c’era dubbio che ad alzare il differenziale fosse la speculazione finanziaria, mentre proposte come quella lanciata dal leghista Matteo Salvini che non tiene conto del debito monstre italiano fanno aumentare lo spread. È probabile che i falchi e i Paesi rigorosi non accetteranno di aprire l’ombrello antispread per salvare un governo che non ha intenzione di rendere più sostenibile il debito». Q © RIPRODUZIONE RISERVATA
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L’intervento
IL REDDITO DI CITTADINANZA SERVE CONTRO LA POVERTÀ DI CHIARA SARACENO*
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l dibattito sul Reddito di cittadinanza (Rdc) è caratterizzato, oltre che da un eccessivo grado di politicizzazione, da una diffusa mancanza di conoscenza di come funziona e di che cosa succede veramente ai beneficiari di una misura che non solo è analoga ad altre che esistono da tempo in Europa, ma, come ha da ultimo documentato anche l’Istat, negli anni della pandemia è stata essenziale per evitare la caduta in povertà assoluta di oltre un milione di persone. E che continuerà ad essere essenziale nella situazione di grave incertezza sul piano economico. Contrariamente a quanto sembra ritenere qualcuno, infatti, la povertà non aumenta perché il Rdc incoraggia a uscire dal mercato del lavoro per vivere nell’ozio, ma perché la situazione economica e del mercato del lavoro, unita a bassi tassi di occupazione femminile, specie tra le madri a bassa istruzione e che vivono nel Mezzogiorno, ha allargato l’area della vulnerabilità. Il Rdc copre solo una parte, circa la metà, della vasta area di poveri assoluti individuata dall’Istat. Per questo sarebbe opportuno migliorare le regole di accesso. Per compensare i costi di questo allargamento si potrebbe abbassare di un poco l’importo massimo che può prendere attualmente un adulto che vive da solo, 500 euro: comparativamente un importo tra i più generosi in Europa (mentre quello che può prendere una mamma sola con figli minorenni è comparativamente tra i meno generosi). Come è noto, nessuna di queste due proposte, come delle altre del Comitato, è stata presa in considerazione, trovando resistenza anche tra i M5S. Mentre le diseguaglianze tra poveri create dai requisiti di accesso non scaldano gli animi, tutta l’attenzione e il dibattito politico sono concentrati sul rapporto tra percepimento del Rdc e occupazione. È opportuno fare un po’ di chiarezza. Il Rdc non si rivolge solo a chi è teoricamente occupabile. Si rivolge a chi si trova in condizioni di povertà così come definite dai requisiti economici. La parte di politica attiva del lavoro, sotto forma di patto per il lavoro, che integra il sostegno economico riguarda solo chi viene valutato come in linea di principio occupabile. Si tratta grosso modo della metà di tutti i percettori. Ma anche tra chi è defini-
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to occupabile la situazione non è facile, al netto di uno scarso attivismo del Centri per l’impiego (Cpi) e di una domanda di lavoro (regolare e con una remunerazione decente) spesso carente. Secondo gli ultimi dati Anpal (riferiti al 30 settembre 2021), tra chi era tenuto al patto per il lavoro, circa 878 mila (meno della metà) era definibile come «vicino al mercato del lavoro». La stragrande maggioranza - 724.494 - aveva avuto una qualche esperienza lavorativa in costanza di recezione del Rdc. Di questi, 546.598 avevano trovato lavoro dopo aver ottenuto il Rdc, anche se non sempre come esito del patto per il lavoro sottoscritto e della presa in carico da parte di un Centro per l’impiego; 178.000, invece, avevano già un’occupazione al momento dell’entrata nel beneficio, a testimonianza del fatto che non sempre avere un lavoro è sufficiente a uscire dalla povertà. Ciò in parte era dovuto alle basse qualifiche, in parte alla grande prevalenza di contratti a termine, spesso brevissimi: quasi il 69 per cento non superava i 3 mesi e più di un terzo durava meno di 1 mese. Il Rapporto annuale Inps di quest’anno, confermando questi dati, ha aggiunto ulteriori elementi a smentita della vulgata corrente sui beneficiari nullafacenti che rifiutano occupazioni regolari decentemente pagate. Segnala che nel 40 per cento circa dei nuclei beneficiari che hanno ricevuto il Rdc per almeno 11 mesi vi è almeno un lavoratore «certificato», con una posizione aperta presso l’Inps. In secondo luogo, lavora oltre il 30 per cento dei beneficiari stabili tra i 18 e 49 anni, a fronte del 18 per cento tra i cinquantenni, sfatando l’idea che la pigrizia alligni particolarmente tra i giovani. Si tratta. per lo più di occupazioni di lavoro dipendente, con contratti spesso a termine e/o a tempo parziale e un imponibile retributivo medio annuo di 6 mila euro. Avere un salario minimo legale sarebbe certo utile, ma non sufficiente a garantire loro un reddito tale da non aver più bisogno di ricevere il Rdc, se l’occupazione è a tempo parziale e/o precaria. Infine, la percentuale di lavoratori è molto più alta tra gli extracomunitari rispetto agli italiani e tra gli uomini rispetto alle donne. Questi dati suggeriscono che la fruizione del Rdc di per sé non disincentiva dal tenere, cercare e accettare una occupazione, anche molto tempo-
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Foto: Cristiano Minichiello / AGF
Distribuzione di viveri da parte della Caritas a Roma
ranea, anche se può consentire di rifiutare condizioni lavorative fortemente sfruttatorie. Ciò non è sorprendente se si considera che l’importo medio di cui beneficia una famiglia (non una persona sola) è di 570 euro al mese circa, certo non competitivo con un salario modesto, ma decente. In questo contesto, la norma che prevede che venga detratto dal Rdc l’80 per cento del reddito che si ottiene da un’occupazione regolare, e che il 100 per cento venga conteggiato successivamente nel calcolo dell’Isee, costituisce un effettivo scoraggiamento dall’accettare una occupazione regolare che non offra un reddito sufficientemente più elevato del Rdc e per un periodo lungo. Trasformare, per chi è occupato o trova una occupazione, il Rdc in una forma di integrazione “premiale” di un reddito da lavoro insufficiente, riducendo sostanziosamente l’aliquota marginale implicita attualmente in vigore, è una delle proposte del Comitato scientifico. Dopo averla ignorata, sembrava che il governo ci avesse ripensato e progettasse di consentire ai beneficiari di trattenere una quota maggiore di reddito da lavoro, ma solo a chi viene occupato in lavori stagionali. Come se l’obiettivo fosse quello di aiutare le imprese turistiche e non di incoraggiare chi si dà da fare senza introdurre iniqui criteri categoriali. In ogni caso sembra che anche questo progetto sia sparito dal tavolo. Vi è entrata, invece, un’arma di ricatto regalata ai datori di lavoro, che in base ad una norma introdotta surrettiziamente nel decreto aiuti poi trasformato in legge, potranno denunciare direttamen-
te ai Cpi i beneficiari che non accettano un’offerta di lavoro ”congrua”, senza per altro essere obbligati a documentare l’effettiva congruità. Anche questa norma è figlia della narrazione negativa sui beneficiari del RdC. In realtà non esistono numeri affidabili su chi rifiuterebbe un’occupazione “congrua” per due diversi motivi. Il primo è che gran parte della domanda di lavoro non passa dai centri per l’Impiego che sarebbero responsabili di effettuare i controlli. Il secondo motivo è che, anche nei rari casi in cui i datori di lavoro si rivolgono ai Cpi, questi possono solo segnalare ai beneficiari le offerte di lavoro. Ma è solo il primo passo di un processo che poi avviene al di fuori della intermediazione dei Cpi e su cui questi non hanno alcun controllo né documentazione. Dare ai datori di lavoro il diritto e la responsabilità di denunciare i beneficiari che rifiutano un’offerta di lavoro mette nelle loro mani un potere di ricatto inaccettabile. È stupefacente che il Pd sia stato favorevole a questa norma e che i sindacati non abbiano fiatato. Sarebbe invece utile se i Cpi fossero messi nelle condizioni di valutare effettivamente, e rafforzare, l’impegno dei beneficiari (occupabili) nella ricerca di una occupazione e di sostenerne con formazione adeguata l’occupabilità. È ciò che dovrebbe fare il nuovo programma Gol (Garanzia di occupabilità dei lavoratori). Q ©RIPRODUZIONE RISERVATA
*Presidente del comitato scientifico di valutazione del Reddito di cittadinanza
I DATI SMENTISCONO CHE SIA UN DISINCENTIVO AL LAVORO: SOTTRAE AL RICATTO DELLO SFRUTTAMENTO 31 luglio 2022
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Verso il voto / Il commento
di MASSIMILIANO PANARARI
Una campagna elettorale giocata tutta sull’emozione
L’
anomalia italiana ritorna con prepotenza attraverso l’inedito di una campagna elettorale balneare. Il “sangue” non mente, come direbbe qualcuno: e quello del nostro Paese è intriso (anche e in modo marcato) di eccezionalità e di un’irresistibile fascinazione nei riguardi di forme politiche volte alla decostruzione dei delicati equilibri della democrazia liberale. Una “natura” che ha reso l’Italia uno dei laboratori per antonomasia di populismi e neopopulismi (e sta per farne anche una “portaerei” dell’incipiente stagione dell’iperpopulismo). E, infatti, che cosa è stata la caduta del governo Draghi se non una manifestazione deteriore e autolesionistica - e surreale agli occhi dei media globali - delle convergenze parallele dei leader populisti (ulteriore segno delle «affinità elettive gialloverdi»)? Il riflesso condizionato della campagna elettorale permanente e della ricerca del consenso “pronta cassa” e “usa e getta”, propiziato dallo spirito dei tempi della volatilità e variabilità spinta delle opinioni individuali e dell’intermittenza accentuata delle leadership politiche, ha prevalso sull’interesse generale, interrompendo un percorso di governo - riformi-
sta e ispirato al pragmatismo - che, seppur lacerato dalle conflittualità tra i partiti, stava conseguendo risultati utili e di rilievo. Al punto da venire indicato a livello internazionale alla stregua di un correttivo ai vizi genetici dell’eccezionalismo e dell’anomalia nazionali. Ma, giustappunto, si è trattato di un’eccezione che ha confermato la regola. A dispetto della narrazione populsovranista intorno a una sedicente paura del voto popolare da parte di non ben precisati e “metafisici” establishment, l’esecutivo «dei due presidenti» si era proposto come una formula peculiare (temporanea e contingente) per affrontare un contesto emergenziale di straordinaria gravità che, nell’odierna instabilità, potrebbe finire per prendere il sopravvento. E rispetto a tale situazione le visioni espresse dal «pensiero magico» populista non evocano affatto soluzioni praticabili. Così, l’opinione pubblica e il sistema-Paese si ritrovano scaraventati in una subitanea battaglia elettorale che si giocherà in gran parte sulla delegittimazione, la polarizzazione e un’emozionalizzazione onnipervasiva (che già da tempo sfocia in incivility). Precisamente all’antitesi di quella ricostruzione condivisa di alcuni fondamentali (senza i quali
CI VORREBBE UNA BONIFICA ETICA CONTRO L’INCIVILTÀ DEL DISCORSO PUBBLICO 34
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le istituzioni democratiche vengono erose), che poteva costituire una delle varie eredità positive dell’esecutivo spodestato col «draghicidio». Nondimeno, dopo questa ennesima occasione perduta, sarebbe veramente opportuno riflettere sui basics e provare a collocarli al centro dell’agenda pubblica, se solo la classe politica volesse contrastare sul serio le annose questioni del deficit democratico e del disagio sociale (che alimentano anche l’astensionismo crescente). E, dunque, il discorso pubblico e quello politico hanno bisogno di un rinnovamento e di una «bonifica etica», come sottolinea da tempo nei suoi libri Gianrico Carofiglio. «Chi parla male, pensa male», fa giustamente dire a un suo personaggio cinematografico Nanni Moretti. Una questione che riguarda, in particolare, l’esempio trasmesso alle giovani generazioni: per riportarle all’impegno civile occorrono dei luoghi di ascolto, interazione e discussione (differenti dai social). In poche parole, servono quei corpi intermedi che sono stati assai indeboliti dalla disintermediazione e dal “modello” del partito personale. Bene fa, allora, Enrico Letta a parlare di ritorno della politica tra le persone, dalle agorà alle feste, dal porta a porta al rilancio dell’organizzazione. Perché di questo ha bisogno una forza politica che voglia essere autenticamente progressista, e non di clic su qualche piattaforma, né di guitti istrionici che la eterodirigano. n © RIPRODUZIONE RISERVATA
L’opinione
SE VOLETE UN PROGRAMMA RICOMINCIATE DALLE AGORÀ DI FABRIZIO BARCA*
N
on stai granché bene di questi tempi. Se poi sei più vulnerabile, per età, per genere, per classe, per estraneità alla comunità in cui vivi, per le condizioni di nascita, per le vicende della vita, allora stai proprio male, senza mezzi e magari senza riconoscimento delle tue aspirazioni, dei tuoi bisogni, del tuo valore umano. Ti sforzi di credere in un futuro più giusto e in cui i danni micidiali che abbiamo inflitto all’ambiente siano risolvibili, in cui non si passi più di crisi in crisi. Vorresti che «chi comanda», che «lorsignori», fossero capaci di guidare tutti noi fuori dal pantano, convincendoti che si può fare. Ma sei anche tentato di barricarti nella tua scorza cinica, per non avere più delusioni: «La politica è sporca», «sono tutti ladri». Se senti dentro di te la forza di lavorare con gli altri, ti impegni nella comunità, diventi «cittadino/a attivo/a», «attivista», «militante». Se sei sopraffatta/o dal risentimento e dal «si salvi chi può», sei facile preda di chi ti offre vittime sacrificali su cui sfogarti: migranti, barboni, diversi, «altri». Due reazioni ben diverse, ma in entrambi i casi disistimi o disprezzi ogni classe dirigente. E poi, un bel mattino, fra il lusco e il brusco ti dicono che il 25 settembre si vota. Magari l’ultima volta hai votato il Movimento dei meet-up (M5S) ma poi non hai visto la differenza. O, una volta ancora, hai votato «il partito della responsabilità contro il male« (Pd), o i satelliti che vi ruotano attorno, ma verso di te questa «responsabilità» proprio non l’hai vista. A Draghi, forse, avevi voluto credere, sempre nel tuo anelito di credere a qualcosa, ma gli hai visto prestare ascolto-zero alle tue aspirazioni e ti è anche venuto il - sacrosanto - dubbio che neppure come «tecnico» sia granché. Come tutti i mille partiti che si affollano al «centro», parla il linguaggio dell’altro secolo: moderatismo e neoliberismo, mentre tu senti che ci vuole radicalismo. Sei tentato - lo dicono le previsioni - di provare un’altra strada, che parla un linguaggio antico del Paese, il fascismo sociale, un mix di autoritarismo - «almeno qualcuno decide!» - e di attenzione ai non abbienti. Ma dietro rivedi le facce di sempre, la tutela dei più abbienti - hai capito che la flat tax è un trucco per fare pagare meno tasse soprattutto ai ricchi e poi togliere servizi indispensabili per i meno ricchi - e un ghigno di intolleranza e violenza dissimulato sotto la parola «famiglia», proprio come nel
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fascismo. Le altre robe sono brutte copie. E, allora, ecco che l’astensione ti appare come l’unica strada. O al massimo, se alla Costituzione un po’ vuoi continuare a credere, la scheda bianca. Mi consumo la suola delle scarpe per andare al seggio, ma solo per farti un pernacchio. Ecco sì, il pernacchio di Edoardo. Ci sono poco più di 50 giorni per parlare una lingua diversa ai milioni di noi che sono in questa condizione, semplicemente la maggioranza del popolo italiano, che può fare la differenza nell’esito del voto. «Ma di che parli e parlate - sussurra la voce della (presunta) saggezza - non lo hanno fatto finora, perché mai ora? Non lo vedi che, aiutati dalla folle legge elettorale che si sono costruiti, stanno lì a montare accordi e accordicchi nelle loro stanze chiuse? Geometrie lugubri dove solo i peggiori possono emergere?«. «E allora noi, stando zitti, accettando il ricatto dei tempi stretti, li dobbiamo assecondare in questo suicidio? Ci sono persone giuste che possono ascoltare. Proviamoci», rispondo io. Scrivendo questo, non mi rivolgo più a tutti i partiti, ma a ogni partito che faccia della giustizia sociale e ambientale dell’articolo 3 della nostra Costituzione la propria bandiera, che si prefigga di rovesciare le subalternità di classe, genere, origine etnica e ambientale, di riequilibrare poteri, come cento e mille e più di noi del Forum Disuguaglianze Diversità hanno racchiuso nelle proprie diagnosi e proposte, lavorando con tante altre organizzazioni e teste. Ecco le due cose che una lista o un partito che ponesse orecchio a questi valori potrebbe fare. Sorprendendoci con una selezione coraggiosa delle candidature. E con l’annuncio stentoreo di missioni strategiche radicali. Cosa intendiamo per «selezione coraggiosa», lo abbiamo indicato con chiarezza per L’Espresso con il team di avanguardia di TiCandido e con i candidati selezionati dal progetto “Facciamo eleggere” nelle più recenti elezioni amministrative. Intendiamo che quel partito o lista faccia una chiamata a candidarsi chiedendo: l’adesione alle missioni strategiche che ha scandito; l’indicazione, in modo verificabile, delle principali esperienze di lotta/ amministrazione/guida/mediazione realizzate nell’ambito di quelle missioni strategiche; come intenda attuare la «rappresentanza della Nazione» (Cost. art. 67) assicurando la propria autonomia da ogni condizionamento, specie da parte di poteri forti; come concretamente, durante il mandato, pensi di realizzare un dialogo continuo con
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Foto: Matteo Minnella / FotoA3
Cabine elettorali in un liceo scientifico di Roma
il proprio territorio di elezione - quanti giorni/ore settimanali? In quali «spazi di democrazia»? Non ci si dica che non c’è tempo. È la strada che avete – abbiamo scritto – «affinché le persone competenti e con un senso di missione che con “lucida follia” sentono di volersi e potersi candidare non trovino le porte sbarrate, lasciando in gara solo chi gode di posizioni di rendita o chi emerge da trattative opache fra cosiddetti “rappresentanti della società civile” e partiti». È la strada perché noi si possa conoscere se vale la pena di votare. È la strada per avere un Parlamento che costruisca accordi, dialoghi in modo continuo all’interno e con i cittadini, combini saperi tecnici e saperi dei territori. Ma ovviamente non basta. Quella lista o partito deve convincere noi tutti, e prima di noi chi si candida per «lucida follia», di avere davvero una visione, di credere in chiare missioni strategiche di giustizia sociale e ambientale. Di nuovo, non ci si dica che non c’è tempo. Quelle missioni strategiche e le proposte concrete per attuarle sono sul tavolo. Mi limito a quelle su cui noi del ForumDD abbiamo messo lavoro e impegno. Aprire l’accesso e l’uso della conoscenza di questa nostra profonda trasformazione digitale, per impedirne la concentrazione che erode la democrazia e produce ingiustizie: infrastrutture pubbliche europee, modello Cern, per ricerca e sviluppo, a cominciare dalla salute; revisione degli Accordi TRIPs; formazione critica di massa all’uso del digitale. Servizi fondamentali abilitanti a misura delle persone nei luoghi: co-programmazione e co-progettazione partecipata e valutazione dei risultati, anziché bandi al ribasso; un nuovo balzo (come negli anni ’70) nel disegno dello Stato sociale (welfare)
che sottragga le donne alla subalternità; una scossa alla macchina pubblica, con diffusione dei migliori metodi di reclutamento in uso nel Paese e formazione continua al governo dei processi deliberativi. Dare più tutela e potere al lavoro: salari minimi, validità generale dei contratti delle organizzazioni più rappresentative e un sistema ispettivo a tolleranza-zero; diffusione di forme di partecipazione alle strategie aziendali, assieme ai rappresentanti degli interessi ambientali; radicale revisione delle norme che promuovono precarietà e part-time involontario, specie delle donne. E ancora. Trasferire potere e dare libertà alle giovani e ai giovani: contrastare la povertà educativa diffondendo le pratiche di successo di alleanza fra scuola e territorio; un’eredità universale, incondizionata e accompagnata - da confronto strutturato a partire dai 14 anni - quando arrivi ai 18 anni; un profondo riequilibrio del carico di cura e la promozione della genitorialità condivisa. Una trasformazione o conversione ecologica giusta: sblocco delle migliaia di progetti di energia rinnovabile, sostituendo strettoie amministrative con pubblico dibattito informato e acceso territorio per territorio; un rilancio poderoso dell’Edilizia residenziale pubblica che risponda all’enorme domanda senza risposta, aiuti a ridisegnare le città, abbatta il consumo energetico. Sono alcuni degli obiettivi e proposte che prefigurano quel futuro più giusto in cui vorremmo credere. E non sono estemporanee. Camminano e crescono da tempo. E, se andate a ben guardare, alcune di loro sono le prime dieci più sostenute Q nelle oltre 900 Agorà del Pd. Su, su. Coraggio! ©RIPRODUZIONE RISERVATA
*Forum Disuguaglianze Diversità 31 luglio 2022
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Le spine di Bruxelles
L’EUROPA PER
Il presidente del Consiglio Mario Draghi, il presidente francese Emmanuel Macron e il cancelliere tedesco Olaf Scholz in viaggio verso Kiev
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DE IL TRENO NELL’INCUBO RECESSIONE, IN PIENO ALLARME ENERGETICO, LA UE FATICA A TENERE. PESANO LE CRISI DI LEADERSHIP DI FRANCIA E GERMANIA E LA FINE DI DRAGHI. INCOGNITA PNRR DI FEDERICA BIANCHI
Foto: J. Denzel - Bundesregierung via Getty Images
L’
Europa parte in vacanza orfana di Mario Draghi, l'uomo che dieci anni fa aveva salvato l'euro e a cui oggi aveva indirettamente affidato il compito di traghettarla fuori dalle conseguenze economiche di questa nuova Guerra fredda. «A mancare saranno la sua esperienza e la sua diplomazia, doti che combinate insieme sono state capaci di tenere le fila di tutti i dossier aperti sul tavolo comune», dice un ex ministro delle Finanze dell'Unione. In altre parole, ora la Ue dovrà scegliere su cosa puntare nei prossimi mesi perché né il presidente francese Emmanuel Macron, contestato a casa, né il cancelliere tedesco Olaf Scholz, l'eterno indeciso in mano all'industria nazionale, hanno da soli la capacità di trainare il Vecchio continente contemporaneamente verso l'unione fiscale, l'unione della difesa e anche quella energetica. Non adesso che il mediatore italiano non c'è più, che l'inflazione morde, che il freddo alita sul collo nonostante l'estate ardente e che la Germania potrebbe ritrovarsi in recessione a causa di scelte industriali una volta vincenti e oggi tossiche. Per non parlare dell'Ucraina: chi convincerà Scholz a non tirarsi indietro nel difenderla, nonostante l'opposizione dell'industria tedesca, che tra il ritrovarsi in bancarotta la Basf e il
regalare l’Ucraina a Vladimir Putin non avrebbe nessuna esitazione verso la seconda scelta? L'emergenza energetica sta soppiantando velocemente quella pandemica e, in assenza di una leadership forte, ancora una volta l'Europa fatica a difendere economia e valori comuni. La fotografia dei tre leader sorridenti sul treno verso Kiev - Draghi, Macron e Scholz, simbolo dell'unità e della determinazione europea, si è ingiallita velocemente, anche per chi non ci aveva scommesso davvero. «In Italia i governi tecnici durano pochissimo», dice l'analista economico tedesco Wolfang Munchau: «Quello di Draghi è sopravvissuto perfino più a lungo del previsto, la politica si è presa la rivincita». Ora la vera domanda è se l'Italia sarà in grado di sostituire alla "magia" di Draghi un ambiente politico stabile per sostenere l'economia propria e dunque quella europea in una situazione di grande incertezza. Il rialzo dell'inflazione, spinta dall'aumento dei prezzi dell'energia e delle materie prime, potrebbe diventare sopportabile dalla popolazione se i salari crescessero di pari passo, dopo un venFederica Bianchi tennio di stagnazione, senGiornalista za però spingerla ulte31 luglio 2022
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Le spine di Bruxelles riormente. A quel punto tassi d'interesse e crisi incipiente potrebbero arrestare la loro corsa. In Italia come in Europa. Il successo economico della terza economia dell'Unione e quella con uno dei debiti pubblici più alti del mondo coincide sempre più con quello di tutta l'Europa. Un dato che gli italiani tendono a dimenticare. Se l'Italia va bene, la stabilità europea è garantita. Così è stata una felice coincidenza che il giorno in cui Draghi è stato mandato a casa da Cinquestelle, Lega e Forza Italia, la Banca centrale europea di Christine Lagarde abbia varato il Tpi. È il nuovo, necessario, strumento finalizzato a garantire che le decisioni di politica monetaria siano trasmesse a tutti i Paesi dell'area euro, neutralizzando gli scossoni provocati da quegli investitori che decidono di prendere di punta un singolo Stato. Una sorta di cintura di sicurezza per lo spread, il divario tra i rendimenti dei buoni del Tesoro tedeschi e quelli italiani, che tiene sotto scacco lo Stivale indebitato. Ma gli acquisti di debito pubblico, e anche, discrezionalmente, privato, garantiti dal Tpi possono scattare solo se il Paese in questione è in regola con il rispetto degli impegni presi sul Pnrr. Il nuovo strumento di politica monetaria conserva sotto vuoto lo spread fintanto che sono rispettate le tappe del piano. «Il giorno che non lo saranno più, allora non aumenterà gradualmente fino a raggiungere livelli insostenibili come avvenne nel 2011 ma esploderà di colpo», avverte Carlo Altomonte, professore di Economia politica dell'università Bocconi e consigliere economico del governo. Dopo i primi 25 miliardi elargiti dalla Commissione come anticipo sui 222 complessivi, ogni sei mesi l'Italia potrà riceverne una ventina se avrà rispettato le tappe di riforma e di investimento previste dal programma. Il giudice è la Commissione stessa, che ha già dato luce verde alla scadenza del 30 giugno, nonostante qualche impegno mantenuto in meno, ma che ora, temono in molti, in assenza di Draghi e magari in presenza di un governo euroscettico, potrebbe diventare più puntigliosa. I prossimi 21 miliardi sono previsti il prossimo 31 dicembre. Una tappa che, a causa delle elezioni del 25 settembre, è considerata a rischio. Per questo, con il placet del presidente Mattarella, il governo, a dispetto della pausa estiva e nel perimetro del suo essere dimissionario, sta 40
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Una vista dal drone di una turbina eolica a Surbo, in provincia di Lecce
accelerando su tutte le misure necessarie. «Il vero rischio non è tanto sul capitolo concorrenza, che è stato depotenziato, ma sul varo di alcune riforme in tema di giustizia», avverte Altomonte. Come, ad esempio, i tempi del processo civile e penale dovrebbero essere tagliati del 40 per cento e rivisti anche quelli dell’agenzia delle Entrate. I tempi sono strettissimi. Ma la vera partita europea, quella su cui si fonderà la prossima scommessa sulla tenuta dell’Unione - ormai le scommesse si susseguono con lo stesso ritmo delle crisi si giocherà quest'autunno sul capitolo energia. I capi di Stato europei hanno appena approvato, modificandola per tenere conto dei progressi già fatti da ciascuno, l'ultima proposta della Commissione prima della pausa estiva, che chiede a tutti di ridurre tra il primo agosto e il 30 marzo il consumo di gas del 15 per cento (per l’Italia, Paese importatore, sarebbe il 7, un obiettivo già fissato dal governo nel suo programma di degassificazione di maggio). Occorre creare un tesoretto da redistribuire ai Paesi più colpiti dalla riduzione delle forniture di gas russo. Il primo beneficiario sarebbe la Germania che, nemesi vuole, si ritrova a chie-
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Foto: M. Romano - NurPhoto via Getty Images, Ansa
L’UCRAINA FA VACILLARE SCHOLZ ALLA DISPERATA RICERCA DI GAS NON RUSSO. E LE SCELTE ITALIANE POTREBBERO RIVELARSI DECISIVE PER INTESE SUL DEBITO dere “solidarietà” all'Europa a causa dei suoi errori strategici. Proprio nel giorno in cui gli Stati, inclusi quelli del Sud (ricordate l'odioso acronimo Piigs riesumato durante la crisi dell’euro?), che sono meno dipendenti dal gas russo, trovano l'immancabile compromesso all'europea, la Russia annuncia l'ennesimo taglio: i flussi del gasdotto Nordstream saranno ridotti a un quinto di quelli dello stesso periodo dell'anno scorso. Alle stelle è schizzato non solo il prezzo del gas ma anche il terrore dei tedeschi, imprese e cittadini, che temono un inverno al freddo e in recessione. L'indice di fiducia delle imprese tedesche è crollato a 88,6 punti in luglio dai 92,2 di giugno, il valore più basso dal giugno 2020. E anche gli esportatori dei settori della chimica, dell’alimentare, della plastica e dell'arredamento vedono nero: l'indice delle loro attese è sceso a meno 0,5 in luglio rispetto al 3,4 di giugno. «La Germania entrerà in recessione, consumerà meno gas, più elettricità, razioneranno il gas sia le aziende sia i cittadini fino a quando, con due anni di anticipo, compiranno la transizione ecosostenibile», prevede Munchau. E non è il solo economista pessimista: la Ger-
ACCORDI Il ministro degli Affari Esteri Luigi Di Maio accoglie il presidente dell’Algeria Abdelmadjid Tebboune in occasione della visita ufficiale a Roma, nel maggio scorso
mania ha basato per 30 anni il suo modello economico sull’importazione di gas a basso prezzo dalla Russia per finanziare la sua industria votata all’export verso Russia e Cina, oltre che verso l’Europa. Gli investimenti tedeschi in rinnovabili nei prossimi anni saranno massicci ma tanti saranno gli intoppi sul cammino. Ad esempio l'eliminazione delle auto a combustibile fossile prevista per il 2035 potrebbe essere rimandata perché automobili, aziende e cittadini si contenderanno l'elettricità disponibile. In questo scenario, l'Italia, che quest’anno potrebbe invece mettere a segno una crescita del 3 per cento, potrebbe diventare una sorta di hub fossile d'Europa, forte della sua grande interconnessione con il resto d’Europa, tanto che i tedeschi potrebbero trovarsi a comprare gas da noi. Fin dall'inizio della crisi, mentre Scholz rifletteva (e ancora riflette) sull'impatto dell'invio delle armi agli ucraini sull'industria tedesca, il governo italiano ha preso a girare il Mediterraneo alla ricerca di gas non russo. Con l'aumento delle importazioni dall'Azerbaijan tramite il gasdotto del Tap, di quelle dall'Algeria, che il mese scorso ha soppiantato la Russia come maggiore fornitore di gas, e di quelle di gas liquefatto dal Qatar, l'Italia, che importa il 95 per cento del gas, è passata in una manciata di mesi dal dipendere per il 42 per cento dal fossile russo a meno del 20 per cento, dato che scenderà ancora l'anno prossimo e il successivo, man mano che entreranno in azione i due rigassificatori galleggianti appena acquistati e i due nuovi impianti previsti a terra. Non solo. Nei primi cinque mesi dell'anno, il nostro Paese, nonostante abbia chiesto alla Commissione europea, che ci sta lavorando, un tetto al prezzo del gas, decuplicato rispetto all’anno scorso, ha aumentato del 578 per cento le proprie esportazioni, a stare ai dati di Altroconsumo. Insomma, Putin all'Italia non fa più paura. In un inatteso scambio delle parti, per una volta potrebbe essere la Germania a essere costretta a tendere la mano, almeno quest’inverno. E lo scambio diverrebbe ovvio: gas per debito. Ovvero, solidarietà sul gas (mancante) tedesco in cambio della solidarietà sul debito italiano. Che poi, scherza qualcuno, dopo la limatura a sorpresa di 14,3 miliardi appena annunciata dal governo l'accordo non è nemmeno così urgente. Almeno per l'Italia. Q © RIPRODUZIONE RISERVATA
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Esclusivo / Le carte segrete
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LA LOBBY DETTA LEGGE L’EMENDAMENTO VINCENTE DI DUE SENATORI RENZIANI. LA LISTA DI NOVANTA SUPPORTER POLITICI. IL COMMA VARATO E RITIRATO DAL GOVERNO DRAGHI DI PAOLO BIONDANI E LEO SISTI
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Foto: S. Montesi - Corbis / GettyImages
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La manifestazione nazionale dei tassisti, il 5 luglio a Roma, per chiedere il ritiro dell'articolo 10 del disegno di legge "Concorrenza" introdotto dal governo Draghi che, “va a vantaggio delle multinazionali” come Uber
n Parlamento per amico. Le carte segrete di Uber mostrano quanto possa essere facile, per una multinazionale con fatturati miliardari, agganciare autorevoli politici italiani e far approvare leggi su misura dei propri interessi privati. Con norme tanto favorevoli da rovesciare i risultati dei processi in corso nei più importanti tribunali italiani. E tanto premeditate da ispirare contratti milionari ancora prima di entrare in vigore. Gli Uber Files sono oltre 124 mila documenti riservati del colosso californiano dei trasporti, ottenuti dal quotidiano inglese The Guardian e condivisi con l'International consortium of investigative journalists (Icij), di cui fa parte L'Espresso. La fuga di notizie comprende circa 83 mila email dei manager di Uber, che rivelano quattro anni di manovre su politici, ministri e funzionari in decine di Stati, per bloccare indagini, modificare leggi e stroncare la concorrenza dei taxi. In Italia, le carte arrivano fino al 2016, quando si dimette Mark MacGann, il capo dei lobbisti di Uber, ora diPaolo Biondani ventato fonte dell'inchiesta Giornalista giornalistica e grande accusatore dell’azienda: «Abbiamo venduto menzogne ai governi giocando con la vita della gente». Dall'Europa all'Asia, dall'Africa all’Australia, Uber, in quegli anni, ha apLeo Sisti profittato dell'incapacità Giornalista degli Stati nazionali di controllare le piattaforme di Internet. In Italia, come in molti altri Paesi, il mercato dei taxi è regolato come servizio pubblico. Per fare il tassista serve una costosa licenza delle autorità e il prezzo delle corse è prefissato dalla legge con tariffe minime e massime. Uber è sbarcata in Italia nel 2013 senza chiedere licenze o autorizzazioni, come i suoi stessi manager ammettono di aver fatto in tutto il mondo: «Siamo dannatamente illegali», ma è «meglio chiedere il perdono che il permesso». Tra il 2015 e il 2017 i tribunali italiani, a partire da due sentenze-modello di Milano e Torino, hanno dichiarato illegale Uber Pop, il servizio più diffuso e redditizio, che
faceva una smaccata concorrenza ai taxi fingendo di utilizzare «driver» occasionali, interessati solo a dividere la spesa di un singolo percorso. Gli avvocati dei tassisti hanno invece dimostrato che erano autisti professionisti, che lavoravano a tempo pieno con la piattaforma di Uber, ma come precari licenziabili in ogni momento. Quindi i giudici hanno vietato quella «concorrenza sleale» ai tassisti. A quel punto la multinazionale ha organizzato una capillare campagna di lobby per reclutare politici italiani di ogni livello, dai Comuni alle Regioni, dal Parlamento al governo. Negli Uber Files c'è una tabella del 2015 con i nomi di oltre 90 esponenti di quasi tutti i partiti, che sono stati avvicinati e contattati, spesso più volte. I lobbisti riferiscono le posizioni di ciascuno, aggiornate dopo ogni tornata di incontri: «Pronto a sostenerci». «Molto favorevole a Uber». «Da sempre schierato con noi». «Ci può aiutare, ma non vuole apparire, per non inimicarsi i tassisti». Accanto ai parlamentari, nelle liste dei tifosi della multinazionale compaiono tecnici, giuristi, economisti, consiglieri di Stato e capi di gabinetto dei ministeri. Dopo le prime sentenze negative dei tribunali, i lobbisti concentrano l'assalto sul governo, per cambiare la legge. «Italy - Operation Renzi» è il nome in codice della più importante campagna di lobby organizzata per agganciare e condizionare l'allora presidente del Consiglio e alcuni ministri e parlamentari a lui più vicini, che allora dominavano il Pd. L'obiettivo è far inserire nella legge sulla concorrenza, allora in cantiere, un emendamento ad hoc, per legalizzare Uber. L'operazione fallisce quando Renzi inizia a perdere consensi. Nel marzo 2016 la riforma viene accantonata e i manager lo accusano di aver «tradito le promesse» e «fottuto Uber». «Mettetelo direttamente sulle spalle di Renzi», scrive MacGann ai suoi dirigenti: «Primo ministro, ti eri impegnato personalmente a riformare le regole dei trasporti in Italia: perché adesso ti pieghi alle minacce?». Gli ultimi documenti disponibili mostrano che i lobbisti, nella seconda metà del 2016, ripiegano su un obiettivo minore, già perseguito in varie città: abolire quella che loro chiamano «garage rule», la regola del garage. Il discorso riguarda gli autisti privati con un'autorizzazione pubblica di noleg31 luglio 2022
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Esclusivo / Le carte segrete gio con conducente (Ncc). Possono trasportare clienti per una singola trasferta e contrattare il prezzo senza limiti legali, ma devono partire e tornare nella loro autorimessa, senza potersi fermare a raccogliere altri passeggeri. In quei mesi, in pratica, la multinazionale usa la sua piattaforma alternativa, Uber Black, per arruolare, da Milano a Roma, finti Ncc, che in realtà fanno i tassisti a tempo pieno, come si legge nelle sentenze. Nel novembre 2016 un folto gruppo di sindacati e consorzi di taxi presentarono un ricorso d'urgenza contro Uber, per concorrenza sleale, al tribunale civile di Roma. In dicembre l'atto viene notificato alla multinazionale, che si costituisce nel gennaio 2017. Nei giorni successivi, due parlamentari del Pd inseriscono un emendamento a sorpresa nella legge «Mille proroghe», varata a fine anno per rinviare tutti i termini in scadenza. Il testo, firmato dai senatori Linda Lanzillotta e Roberto Cociancich, ha una formulazione incomprensibile per i non addetti ai lavori: «Al comma 3 aggiungere il seguente periodo: "Conseguentemente, la sospensione dell'efficacia disposta dall'articolo 7-bis, comma 1, del decreto-legge 10 febbraio 2009, n. 5, convertito, con modificazioni, dalla legge 9 aprile 2009, n. 33, si intende prorogata fino al 31 dicembre 2017"». Il significato di queste parole, che nel febbraio 2017 diventano legge, viene chiarito dal tribunale di Roma, che il 26 maggio, rovesciando i verdetti precedenti, decreta la prima, trionfale vittoria di Uber contro i tassisti. Consapevoli della portata della decisione, i giudici trascrivono l'intero emendamento, evidenziando che si tratta di «una nuova norma approvata nel corso del presente giudizio», che «sospende» due regole chiave che fino ad allora limitavano l'attività degli Ncc: il «divieto di stazionamento sul suolo pubblico» e «l’obbligo di inizio e fine di ogni servizio presso la rimessa». Addio regola del garage, insomma: almeno per il 2017, Uber Black è diventata legale. Cociancich, senatore del Pd dal 2013 al 2018, è un fedelissimo di Renzi, di cui era stato capo istruttore negli scout. Avvocato riservato ed esperto, è stato l'artefice di norme vincenti come l'emendamento «canguro», che sbloccò la riforma costituzionale (poi bocciata al referendum), e la legge a favore di armatori italiani come Vincenzo Onorato, di cui si parla nelle intercettazioni della Procu44
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IL PATTO MILIONARIO CON I LEADER DELL’ALA DESTRA DEI TASSISTI ROMANI, CONSIDERATI NEMICI: ECCO LE CLAUSOLE DEL CONTRATTO TENUTE RISERVATE La protesta di oltre cinquecento tassisti in piazza del Plebiscito a Napoli contro la deregulation del settore che apre le porte a Uber
ra di Firenze sulla fondazione Open. La stessa legge è finita al centro dell'inchiesta di Milano sui soldi versati da Onorato alla società privata di Beppe Grillo mentre il fondatore dei Cinquestelle chiedeva ai suoi parlamentari di appoggiarla. L'avvocato e senatore è citato negli Uber Files solo come possibile invitato, insieme a Lanzillotta, a un forum economico sponsorizzato dalla multinazionale. I lobbisti non avevano bisogno di lui per arrivare a Renzi, definito «un entusiastico supporter di Uber». Cociancich è tuttora il responsabile di Italia Viva a Milano. Il suo nome compare nell'enciclopedia Treccani alla voce «ultra-renziano».
Foto: M. Cantile - LighrRocket / GettyImages, A. Dadi - Agf (2)
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Lanzillotta, invece, brilla di luce propria anche negli Uber Files, dove è registrato tutto il suo curriculum dell'epoca: vicepresidente in carica del Senato, docente universitaria, ex ministra e dirigente ministeriale, dal 2013 parlamentare di Scelta Civica, poi rientrata nel Pd con il governo Renzi. I lobbisti annotano tutte le tappe della manovra per agganciarla, dalla prima stretta di mano («Hand shaking moment») ai contatti riservati per discutere le norme a favore di Uber. In un rapporto del 2016 sui «politici nazionali disposti a sostenere i nostri testi di legge», i manager scrivono che «la senatrice Lanzillotta ci ha detto di avere già preparato gli emendamenti da presentare sugli Ncc e sui rider». Lo stesso dossier di Uber elenca altri cinque parlamentari «che assicurano di poter inserire norme» e «sono chiaramente a nostro favore», indicandone uno per partito, in questo ordine: Pd, Forza Italia, Autonomie, Nuovo centro-destra, Lega. Gli Uber Files si fermano alla crisi del governo Renzi. Da allora la lobby continua, ma resta segreta. Dopo l'emendamento del 2017, il cantiere delle riforme riparte con il
IN PARLAMENTO Roberto Cociancich. In alto, Linda Lanzillotta. Sotto, la copertina de L’Espresso del 17 luglio dedicata all’inchiesta esclusiva dell'International consortium of investigative journalists (Icij) sugli Uber Files
governo gialloverde: Lega e Cinquestelle approvano una legge-quadro sui taxi, che prevede di regolare anche l'attività di Uber, ma con successivi decreti attuativi, che poi non vengono più emanati. Negli ultimi anni la multinazionale sembra aver svoltato a destra. Negli Uber Files i leader dei tassisti romani erano ancora schedati come «nemici», «collegati al centro-destra», e i loro sindacati firmavano i ricorsi legali. Tra il 2020 e il 2021, quando i giudici di Milano commissariano Uber Italy con l'accusa-shock di sfruttamento criminale del lavoro dei rider, il quadro cambia: la multinazionale, attraverso la sua associazione di categoria Assodelivery, firma un accordo decisivo con un solo sindacato di destra, Ugl, per convincere il tribunale che d'ora in poi rispetterà i diritti minimi dei fattorini che consegnano pasti in bicicletta. L’ultima svolta è di queste settimane. Mentre infuriavano le proteste dei tassisti contro il «comma Uber» del 2022, inserito nel disegno di legge sulla concorrenza varato dal governo Draghi, la multinazionale ha annunciato un'alleanza senza precedenti con il consorzio Uriservice, che riunisce migliaia di tassisti di Roma e altre città ed è guidato dagli ex «nemici». Le clausole più importanti sono segrete. L'Espresso ha potuto esaminarne una bozza finale, che svela le cifre: a Uber spetta una «commissione di servizio» tra il 5,5 e l'8,5 per cento, in base al numero di corse. Alla sua piattaforma vengono collegati, tramite la società inglese Splyt che incassa lo 0,5 per cento, migliaia di tassisti in più di trenta città: 3.500 a Roma, 1.500 a Torino, 1.400 a Milano, 700 a Genova, 500 a Napoli, 380 a Firenze, 245 a Trieste. Secondo gli esperti consultati da L'Espresso, l'accordo è la traduzione letterale di un contratto-tipo che Uber ha adattato senza curarsi troppo delle norme in vigore in Italia. Se il taxi è un servizio pubblico, ad esempio, come si giustifica un contratto segreto? Se c’è una tariffa massima visibile sul tassametro, perché il passeggero dovrebbe pagare la commissione a Uber, da dividere con Uriservice? Gli esperti evidenziano diverse clausole «ambigue», «incerte», «non in linea con le attuali norme italiane» e concludono: evidentemente la multinazionale era sicura che sarebbe passato il «comma Uber». Ora invece ritirato a furor di taxi. Q © RIPRODUZIONE RISERVATA
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Estradizione impossibile
ILL’ESILIOLATITANTE DORATO DI MATACENA DI GIANFRANCESCO TURANO
L’armatore ed ex deputato di Forza Italia Amedeo Matacena junior
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A
Foto: A3
l porto di Reggio Calabria, lungo la diga foranea rivolta alla costa siciliana e costruita a protezione dalle libecciate, è ormeggiato un traghetto che stazza 8.100 tonnellate ed è immatricolato a Madeira, Portogallo. È fermo da decenni, dopo un breve periodo di servizio verso Messina. La Dia lo ha confiscato a dicembre del 2017. Adesso sta lì a occupare spazio in una rada fra le meno trafficate del Mediterraneo, in attesa di improbabili acquirenti perché da febbraio il blocco giudiziario è stato revocato. La nave si chiama Amedeo Matacena in omaggio all’armatore napoletano arrivato sullo Stretto nel dopoguerra per fare concorrenza privata alle Fs e morto nell’agosto del 2003 dopo una vita di avventure imprenditoriali e politiche, le prime segnate dalla rottura con il fratello minore Elio, le seconde dal ruolo di finanziatore dei Boiachimolla durante la rivolta di Reggio del 1970-1971. Il proprietario del ferryboat è Amedeo Gennaro Raniero Matacena, 59 anni il prossimo settembre. Il figlio primogenito dell’armatore ha qualcosa in comune con il traghetto varato nel 1986 per fare concorrenza ai cugini dello stesso cognome, azionisti della Caronte & tourist insieme alla famiglia Franza. Amedeo junior è fermo sulla costa di Dubai dal giugno 2013. La sua latitanza è iniziata nove anni fa dopo una condanna definitiva per concorso esterno in associazione mafiosa a cinque anni e quattro mesi nel processo Olimpia 3, pena che è stata ricalcolata in tre anni dalla Cassazione l’anno successivo. L’ex deputato di Forza Italia eletto con la discesa in campo del Cavaliere nel 1994, poi coordinatore regionale berlusconiano, ostracizzato da Gianfranco Fini al tempo della Casa delle libertà, è ormeggiato confortevolmente in attesa che qualcuno decida cosa fare del suo passato ingombrante, delle sue relazioni imbarazzanti, dei suoi legami con i clan della ’ndrangheta che comandano su entrambe le sponde dello Stretto ricostruiti da varie inchieste nelle quali è coinvolto: oltre a Olimpia, Mozart, Breakfast, Stato parallelo. Nel frattempo, l’ex deputato azzurro aspetta che la sua condanna finisca rottamata come accade alle navi mangiate dalla salsedine. Il suo caso è esemplare di come i meccanismi e le garanzie della giustizia possano avvantaggiare i criminali, purché questi abbiano i mezzi per sostentarsi in luoghi che si oppongono a estradarli. Luciano Gaucci, recordman della latitanza all’estero ormai surclassato da Matacena junior, aveva trascorso circa quattro anni a Santo Domingo per la bancarotta fraudolenta del Perugia calcio
dove giocava il trequartista libico Saadi Gheddafi, figlio del Colonnello. Con Dubai la vicenda è ancora più complicata. A tutt’oggi i magistrati emiratini non hanno voluto riconoscere il reato di concorso esterno e le richieste di estradizione. La Guardasigilli Marta Cartabia, ultima di una serie di ministri non sempre zelanti, è andata di persona negli Emirati lo scorso 8 marzo a perorare la causa dell’estradizione dei numerosi fuorilegge italiani rifugiati nel Paese del Golfo. Qualche risultato si è visto. Sono tornati in Italia i camorristi Raffaele Imperiale, arrestato ad agosto del 2021 ed espatriato il 27 marzo 2022. Poi è stato il turno di Raffaele Mauriello, che andrà a giudizio per duplice omicidio. L’ultimo, ai primi di luglio, è Ciro Guglielmo Filangieri del clan Giuliano, che deve scontare diciotto anni per traffico di stupefacenti. Nel do ut des è incluso anche il trader petrolifero Andrea Giuseppe Costantino, chiuso per quattordici mesi in un carcere di massa sicurezza ad Abu Dhabi e da poco trasferito nei locali dell’ambasciata italiana in attesa di rimpatrio. Sull’ex coordinatore regionale di Forza Italia in Calabria, invece, per adesso non ci sono segnali. Un doppio ordine di problemi gioca a suo vantaggio. Il primo è di tecnica giuridica. Fonti del ministero di Giustizia riferiscono che, dopo anni di attività diplomatico-giudiziarie nulle, con gli Emirati si tratta caso per caso. La richiesta di estradizione di Matacena trasmessa all’Interpol è fondata sia sui tre anni di condanna in giudicato sia su un’ordinanza di custodia cautelare per intestazione fittizia di beni nel processo Breakfast della Dda di Reggio. Questa accusa riguarda il rapporto patrimoniale fra Matacena e l’ex moglie Chiara Rizzo, arrestata l’11 maggio del 2014. Tre giorni prima, la stessa sorte era toccata a Claudio Scajola, pluriministro forzista poi condannato in primo grado a due anni a gennaio 2020 senza riconoscimento dell’aggravante mafiosa. Contro questa sentenza la Procura ha presentato ricorso. Al centro di Breakfast c’era appunto lo sforzo, comune all’ex moglie del politico-imprenditore e al ministro, di pianificare la vita all’estero di Matacena, entrato a Dubai nell’agosto del 2013 con un volo dalle Seychelles, recluso in un carcere-resort emiratino per quaranta giorni e liberato definitivamente il 10 ottobre 2013. Secondo la Dda di Reggio, sussistono ancora i presupposti per l’arresto e l’estradizione del latitante. Sul fronte difensivo, l’opposizione è granitica. Matacena stesso Gianfrancesco Turano ha dichiarato in televisione che la sua peGiornalista na è estinta dal giugno 2022. Altri cal-
L’EX DEPUTATO FORZISTA CONDANNATO PER CONCORSO ESTERNO È DA NOVE ANNI NEGLI EMIRATI ARABI. HA SCONTATO SOLO 45 GIORNI. IN UNA PRIGIONE-RESORT 31 luglio 2022
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La ministra della Giustizia, Marta Cartabia
Il procuratore aggiunto di Reggio Calabria Giuseppe Lombardo
coli portano il traguardo al giugno dell’anno prossimo, quando la fuga compirà dieci anni. Richiesto di un commento da L’Espresso, uno dei difensori della famiglia Matacena, Enzo Caccavari, ha replicato per iscritto che Breakfast è prossimo alla prescrizione, come è stato prescritto Mozart, mentre è ancora pendente il ricorso di Matacena alla Corte europea di Strasburgo, sulla falsariga di quanto ha fatto il suo leader Silvio Berlusconi dopo la condanna definitiva nel processo Mediaset. A confondere ulteriormente le autorità emiratine c’è la sentenza della corte d’Assise di Reggio Calabria che cinque mesi fa ha dato ragione a Matacena e a Rizzo. I giudici hanno annullato sequestri e confische di Breakfast e hanno disposto la restituzione dei beni. Il patrimonio, oltre al ferryboat ancorato nel porto della città dello Stretto, include immobili, conti correnti, quattro società in Italia e otto all’estero (Usa, Panama, Liberia, Nevis) per un valore che supera i 10 milioni di euro, compreso il contante depositato nelle banche delle Seychelles e di Montecarlo, dove Chiara Rizzo e altri familiari di Matacena risiedevano abitualmente. A fare da sfondo a questa altalena di sentenze c’è un elemento tecnico fra i più banali ma fra i più efficaci per fare guadagnare tempo al fuggitivo. Per anni le Corti di Dubai hanno ricevuto documenti in inglese che, nella giustizia penale locale, non fanno testo. Le autorità italiane sono state 48
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Estradizione impossibile costrette a dotarsi di traduttori arabi. Se l’aspetto dei tecnicismi giudiziari è intricato, il secondo pilastro della latitanza record si appoggia su protezioni politiche “very discreet”, secondo la terminologia della vecchia Fininvest, che vanno molto indietro nel tempo. L’intervento più noto è quello di Scajola. L’attuale sindaco di Imperia lo ha definito così in una lettera di precisazione a L’Espresso: «Io non ho agevolato la fuga di Amedeo Matacena ma mi sono informato, quando questi era già agli arresti a Dubai per conto della procura di Reggio Calabria, sulla possibilità di ottenere asilo politico in Libano». Era lo schema concepito per Marcello Dell’Utri che, però, a Beirut è stato arrestato, estradato e ha scontato la sua pena pur occupando un posto superiore a quello del collega calabrese nella gerarchia forzista. Almeno, in apparenza. Di sicuro, Dell’Utri non ha mai attaccato frontalmente il Cavaliere del Biscione, candidato a un’elezione certa in Senato nel voto del 25 settembre 2022. Invece Matacena, in un’intervista al Corriere della sera del 2001, subito dopo la condanna in appello per Olimpia, aveva mandato un messaggio forte e chiaro: «Ritengo di essermi comportato da amico con il presidente Berlusconi. Sono andato a Palermo a testimoniare al processo di Dell’Utri contro Rapisarda (Filippo Alberto, ndr). Mi sono trascinato dietro altri testimoni che avevano perplessità a raccontare i fatti per come si sono svolti. Ritengo che quella testimonianza sia stata fondamentale per smontare il teste Rapisarda. Poi, su richiesta di Berlusconi, sono andato a testimoniare a Caltanissetta contro la Procura di Palermo. Sono stato ripagato molto male». Al tempo il fondatore di Forza Italia aveva mostrato una memoria poco brillante. «Questo signor Matacena io non me lo ricordo», aveva dichiarato l’ex premier alla testata Mediaset Tgcom24 nel 2014 dopo l’arresto di Scajola. «Sarà stato deputato di Forza Italia vent’anni fa per un breve periodo». Sette anni, in effetti. Ma altro sono le amnesie altro è l’ingratitudine e Berlusconi non ha mai dimenticato un amico in difficoltà. Non lo ha fatto con Cesare Previti, né con Dell’Utri, tornato in pista con le elezioni comunali a Palermo. Un po’ più freddi sono rimasti i rapporti con Scajola, che pure ha incassato una condanna non definitiva a rischio di prescrizione. Alle Comunali del 2018 l’ex coordinatore nazionale di Forza Italia ha battuto, alla testa di una lista civica, un avversario appoggiato da Fi, Fdi e Lega. A questo punto c’è da chiedersi quando e come si concluderà il caso Matacena. L’ex deputato ha ribadito che non intende rimpatriare neppure da libero cittadino. Il traghetto intitolato a suo padre difficilmente tornerà nella disponibilità del gruppo Caronte & tourist, che lo aveva noleggiato senza mai utilizzarlo e oggi è al quarto rinnovo di un’amministrazione giudiziaria decisa nel febbraio 2021 a tutela dalle infiltrazioni mafiose. È prevedibile che la Amedeo Matacena, a suo modo un monumento, rimanga ormeggiata a lungo. Gli anni passano presto. Come i nove in fuga a Dubai del figlio dell’armatore napoletano. Q © RIPRODUZIONE RISERVATA
Foto: Pool- Carlo Lannutti / Agf, F. Serrano’ - Agf
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Guerra in Ucraina / Il fronte
AVAMPOSTO ISOLA DEI SERPENTI È UNA FORTEZZA STRATEGICA PER CONTROLLARE MAR NERO E DANUBIO. GLI UCRAINI NE HANNO RIPRESO IL CONTROLLO MA I RUSSI NON DEMORDONO
DI LORENZO TONDO DA VYLKOVE FOTO DI ALESSIO MAMO 50
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na leggenda vuole che Poseidone sollevò dai fondali del Mar Nero uno sperone roccioso come dono per Achille, il più grande dei guerrieri greci che, secondo la mitologia, fu lì sepolto. E come l’eroico semidio anche questo misterioso isolotto ha avuto lunghe guerre nel suo destino. Per quanto remoto, inospitale, perennemente battuto dal vento e in gran parte disabitato, questo scoglio solitario di 0,7 chilometri quadrati è stato conteso per secoli da tutti i popoli della terraferma che si affacciavano su quell’angolo di mare. Lo scorso mese, sulla parte più alta di quella che oggi è conosciuta come l’Isola dei Serpenti, un gruppo di soldati ucraini ha issato ancora una volta la bandiera dopo aver scacciato le truppe russe che gliel’avevano portata via all’inizio della guerra. Nell’ora più buia di Kiev, messa con le spalle al muro da Mosca nel
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La bandiera ucraina sventola sull’Isola dei Serpenti, riconquistata dalle forze ucraine che l’hanno strappata ai russi. Nella foto grande, la spiaggia di Odessa, la città è costantemente bombardata
Donbass, la celebre isola del Mar Nero è diventata così il simbolo della battaglia per la libertà del popolo ucraino. Ma se la riconquista di questo strategico avamposto ha in qualche modo risollevato il morale delle truppe e di un’intera nazione, i massicci bombardamenti che si susseguono da mesi hanno scosso le fondamenta e le vite di Vylkove, un piccolo villaggio di pescatori nell’oblast di Odessa, il più vicino insediamento abitativo sulla costa continentale dell’Ucraina all’Isola dei Serpenti, distante appena 31 miglia. Da qui partono le navi per difendere l’isolotto dalle scorribande russe ed è qui che da settimane Kiev ha concentrato una parte delle sue truppe per consolidare la sua presenza sull’area. È a Vylkove Lorenzo Tondo che, secondo le intelligenGiornalista ce occidentali, Mosca sta-
va preparando un attacco anfibio in grande stile dall’Isola dei Serpenti, chiamata dagli ucraini isola Zmiinyi, con imbarcazioni militari cariche di marines russi. Le onde d’urto causate dalle esplosioni, senza ostacoli in mare aperto in grado di assorbirle, hanno raggiunto la costa e aperto crepe sui muri delle fragili case di legno della città, a ricordare ai suoi abitanti che il loro destino è inesorabilmente legato a quello di questo sperone tempestoso. Da mesi il governo ucraino ha vietato ai pescatori locali di uscire in mare. Una decisione che sta mettendo a rischio l’intera economia di questo caratteristico villaggio, le cui decine di canali navigabili che confluiscono nella foce del Danubio, in quella parte del mare che fiancheggia l’isola dei Serpenti, gli sono valsi l’appellativo di “Venezia ucraina’’. Yuri Suslov, 43 anni, nato e cresciuto a Vylkove, pesca nelle acque del Mar Nero sin da quando era ragazzo: «Questa è una città molto tranquilla. Non eravamo abituati nemmeno al rumore delle macchine, figuriamoci delle bombe». Sulla sua piccola barca di legno, naviga gli stretti corsi d’acqua che nei mesi estivi, più che Venezia, ricordano i fiumi del Vietnam o della Cambogia. Canneti e palafitte fiancheggiano le rive, mentre i bambini giocano tuffandosi dai pontili. Oggi, l’accesso alla foce del Danubio è bloccato da decine di soldati dislocati nei numerosi checkpoint, pattuglia31 luglio 2022
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Guerra in Ucraina / Il fronte ti giorno e notte. «È una situazione spaventosa. Dubito però che i russi proveranno ad attaccarci. Con la mira che si ritrovano rischiano di colpire la Romania, a pochi chilometri da qui. E allora sì che sarebbe un bel casino», dice Yuri. Gli abitanti di Vylkove, ricordano ancora con terrore i giorni in cui i russi, all’indomani dell’invasione, piombarono vicino alla costa con il loro carico di fuoco e bombe. «Fu orribile», ricorda Svitlana, 34 anni, l’unica guida turistica di Vylkove: «Gli aerei volavano sopra le nostre teste e le esplosioni erano molto forti. Gli infissi delle finestre scricchiolavano a causa delle esplosioni. Eravamo terrorizzati». Gli oltre settemila abitanti di Vylkove sono usciti indenni dai bombardamenti, ma Svitlana sa che non saranno le esplosioni a mettere a repentaglio la sopravvivenza del villaggio, quanto il divieto di pesca dovuto al blocco in mare. «Questa città appartiene ai pescatori e la pesca è la loro principale fonte di reddito. I danni subiti sono enormi. Poi c’è il turismo, che dava lavoro al 25 per cento dei residenti. Io faccio la guida turistica e mio marito il pescatore. Da quando è iniziata la guerra per la conquista dell’Isola dei Serpenti non abbiamo di che campare», dice Svitlana. Nonostante la storia e la letteratura siano costellate da miti e leggende che da secoli ruotano intorno a questo turbolento scoglio, l’Isola dei Serpenti, la cui amministrazione è sotto il controllo di Vylkove, è salita agli onori della cronaca internazionale lo scorso 24 febbraio, quando, rispondendo ad un messaggio radio di un incrociatore di Mosca che aveva intimato ai soldati di Kiev distaccati nell’isola di arrendersi, Roman Hrybov, ufficiale della Guardia costiera ucraina, rispose: «Nave da guerra russa: andate a farvi fottere». La frase è diventata oggi lo slogan della resistenza ucraina e la scena è stata anche immortalata in un francobollo raffigurante un soldato ucraino che mostra il dito medio alla nave russa, che nella fattispecie era la celebre Movska, orgoglio della flotta sovietica, affondata lo scorso 13 aprile da un missile ucraino. Svitlana spiega che anche prima della guerra, era molto difficile visitare l’isola per ragioni di sicurezza. «Potevi ottenere un permesso dalla polizia di frontiera, ma 52
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IL VILLAGGIO DI VYLKOVE VIVEVA DI PESCA E TURISMO: ORA È TUTTO FERMO. E I MISSILI PASSANO SULLE TESTE DEGLI ABITANTI E LESIONANO LE CASE francamente era un processo piuttosto complicato e costoso». Oltre al personale militare di stanza nell’isola, le uniche persone autorizzate erano ricercatori e un manipolo di fortunati subacquei che regolarmente perlustravano i fondali attorno all’isola che ospitano 49 specie di pesci e decine di relitti di veicoli e navi militari, come il sottomarino sovietivo “Pike” che giace a una profondità di 35 metri, a ricordare la lunga serie di guerre che ne hanno segnato la storia. Vladlen Tobak, istruttore subacqueo e fondatore di una scuola di immersioni a Odessa, ha perso il conto delle volte che si è immerso nelle acque attorno all’isola. «Un anno ho trascorso lì un’intera stagione con un team di scienziati. È probabilmente il miglior punto di immersione in Ucraina. C’è un numero enorme di veicoli affondati, senza contare le importanti scoperte archeologiche fatte in quel luogo, come il re-
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litto di una nave carica di tremila anfore risalenti al IV secolo a.C. Molti storici sono preoccupati dagli effetti che questa ennesima guerra avrà sul destino di quei reperti». L’importanza strategica dell’Isola dei Serpenti non sta solo nella sua vicinanza alla foce del Danubio, una posizione che l’ha trasformata in una fortezza a difesa del secondo fiume più lungo d’Europa e importante snodo commerciale del Paese, ma anche nel fatto che controllare l’isolotto significa poter contare su una vera e propria roccaforte militare nel bel mezzo del Mar Nero. Di più, nell’era della guerra moderna, conquistare uno scoglio di quella grandezza a pochi chilometri dalla costa, significa beneficiare di una testa di ponte per le operazioni militari di attacco e difesa e assicurarsi il dominio della fascia di mare compresa tra la costa ucraina e quella romena e le vicine piattaforme del gas che la Russia ha usato come stazioni radar.
I CANALI Il francobollo celebrativo della riconquista di Vylkove. Attraversata da canali che le hanno fatto guadagnare l’appellativo di Venezia ucraina, la cittadina vive di pesca e di turismo
Un consigliere del ministero degli Interni ucraino, Vadym Denysenko, ha definito la riconquista dell’Isola dei Serpenti come una «grande vittoria». Denysenko ha spiegato che dopo l’affondamento della Moskva i russi volevano trasformare l’isolotto in un hub di difesa antiaerea e usarlo per controllare l’intera parte occidentale del Mar Nero e lanciare un’invasione terrestre dal mare. «Ora i russi non possono fare nulla in questa zona di mare, tranne, sfortunatamente, bombardare le città ucraine con i missili delle loro navi», ha aggiunto Denysenko. A Vylkove, gli abitanti sanno molto bene che il loro destino, da secoli, è legato indissolubilmente a quello dell’isola. Al momento, l’incubo di un’invasione russa dal mare sembra lontano. Ma la gente da queste parti è consapevole che la guerra non è ancora finita. Due settimane fa, Mosca ci ha riprovato, attaccando nella notte l’Isola con una serie di razzi, che, secondo fonti ucraine, sono però finiti in mare. «Molte persone pensano che l’isola dei Serpenti sia solo un pezzo di roccia inutile», dice Svitlana: «Ma noi che abitiamo qui, a poche miglia, sappiamo benissimo che non è così. E da mesi paghiamo il prezzo della nostra prossimità all’isolotto. Sappiamo che fino a quando la guerra non sarà finita, non avremo pace e che prima o poi i russi torneranno nel nostro mare e tenteranno in tutti i modi di riprendersela». Q © RIPRODUZIONE RISERVATA
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Opposizione a Mubarak
EGITTO IL LUNGO DIGIUNO DEI DIRITTI UMANI ALAA ABD-EL FATTAH, RECLUSO DAL 2011, È IN SCIOPERO DELLA FAME DA QUATTRO MESI. MOBILITAZIONI A STAFFETTA. E SI MUOVE IL REGNO UNITO DI PAOLA CARIDI
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ra d’estate, come di questi giorni. Otto anni fa al Cairo. Il suo atto di protesta, il suo primo sciopero della fame, lo iniziò d’agosto per poter assistere suo padre, agli ultimi giorni di vita. Alaa Abd-el Fattah, il più famoso prigioniero politico egiziano, era in cella come lo è ora. Suo padre, Ahmed Seif al Islam, il fondatore dell’avvocatura per i diritti umani del Paese, era confinato nel letto di una terapia intensiva. Lo sciopero della fame di Alaa si concluse, nel 2014, quando le autorità lo fecero uscire dal carcere di massima sicurezza di Tora, al Cairo, per partecipare ai funerali di sua padre, un maestro di diritto amato e rimpianto da generazioni di avvocati e di imputati. Destini che si incrociano, quelli di un padre e di un figlio. Destini che coinvolgono una intera famiglia, la più importante e stimata famiglia di dissidenti. E il padre di Alaa
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lo sapeva bene. Lo aveva gridato a una conferenza stampa, pochi mesi prima di morire, rivolgendosi direttamente al figlio in carcere. «Figlio mio, avrei voluto che tu ereditassi da me una società democratica che proteggesse i tuoi diritti. E invece, ti ho trasmesso la cella in cui mi avevano imprigionato e in cui ora sei tu». In quella cella, Alaa Abd-el Fattah è da nove anni, salvo alcuni mesi di libertà su cauzione o libertà vigilata. La sua colpa, tutta politica, è di essere la figura più iconica della rivoluzione del 2011. L’informatico, il pensatore laico, l’intellettuale che ha fatto emergere nel mondo virtuale la presenza, viva e reale, di una opposizione alla trentennale autocrazia di Hosni Mubarak. Le accuse formali? Paola Caridi Protesta non autorizzata, Giornalista la prima. E poi l’ultima sen-
Foto: H. Elkholy / Ap Images / La Presse
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tenza di ulteriori cinque anni, dello scorso dicembre. Diffusione di notizie false, la stessa accusa mossa a Patrick Zaki. Nel mezzo, una serie infinita di udienze, altre accuse, processi farsa, detenzione preventiva, arresto e detenzione del suo difensore. Nel mezzo, una vita in cella che non è vita. Dal 2019 in una cella senza materasso, e senza un orologio, un libro, una rivista, un pezzo di carta, una penna. Senza sole, senza aria, senza l’ora d’aria. Il 2 aprile scorso, Alaa decide di iniziare uno sciopero della fame a tempo indeterminato. Niente più cibo e solo acqua. Privarsi del cibo per affermare fame di diritti e attaccamento alla vita, alla dignità, allo Stato di diritto, alla legalità. Lo sciopero della fame continua, ha raggiunto ora i quattro mesi. È il doppio dello sciopero della fame dell’irlandese Bobby Sands, per fare un paragone con un gesto inciso nella memoria europea. Nel silenzio dei governi, la protesta di
Alaa Abd-el Fattah davanti al tribunale del Cairo quando era ancora in attesa del primo processo. Ha accumulato condanne per reati legati alla sua attività politica per complessivi 15 anni di carcere. Per protestare contro il regime ha avviato ad aprile uno sciopero della fame
Alaa ha scavato il suo piccolo fiume carsico nei canali paralleli della società civile. Un digiuno della fame solidale a staffetta è in corso dalla fine di maggio in Italia. Manifestazioni si sono svolte a Londra, a Berlino, a Parigi, a New York. Tutte le associazioni dei diritti umani egiziane, e tutte le associazioni internazionali, a cominciare da Amnesty International, stigmatizzano le violazioni a cui è sottoposto Alaa Abd-el Fattah, divenuto con il suo calvario un simbolo per gli oltre sessantamila prigionieri - moltissimi dei quali in detenzione preventiva o condannati in processi farsa - che sopravvivono, o muoiono, nelle carceri egiziane, senza che neanche una flebile voce si alzi dalle cancellerie europee. Una voce, ancorché timida, si è alzata a giugno nella Camera dei Comuni, a Londra. A parlare di Alaa, la ministra degli Esteri britannica Liz Truss per informare che il governo stava lavorando «alacremente per ottenere il suo rilascio». Perché mai il governo di Londra ha preso a cuore il caso di un prigioniero egiziano? Perché l’anno scorso Alaa Abd-el Fattah ha ottenuto la cittadinanza britannica, per via di sua madre Laila Soueif, matematica dell’università del Cairo, che nel Regno Unito aveva trascorso la sua infanzia assieme alla famiglia. L’idea, anche esplicitata, è di richiedere per Alaa un esilio «consensuale» a Londra. Neanche un passaporto forte come quello britannico è riuscito, però, a cambiare molto della situazione di Alaa. Nonostante le richieste del consolato britannico che si susseguono dal dicembre dello scorso anno, nessun diplomatico è riuscito a vedere il detenuto Alaa e a sincerarsi delle sue condizioni. Nessun medico lo ha visitato e, anzi, le autorità si sono persino spinte a negare che Alaa stia conducendo uno sciopero della fame. Eppure la famiglia è testimone del suo digiuno. «Concentrati sul prezzo politico della mia morte. Deve essere il più alto possibile», Alaa ha per esempio detto a metà giugno a sua sorella Mona Seif. Aveva già sul corpo i segni di oltre due mesi di sciopero della fame: smagrito, molti chili persi, le mani così pallide da mostrare il blu delle vene. E le autorità egiziane hanno implicitamente confermato i loro timori di vederlo morire in cella, se in fretta, alla fine di maggio, lo hanno trasferito dall’inferno del carcere di massima sicurezza di Tora, all’istituto pe31 luglio 2022
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L’INTELLETTUALE È DIVENTATO UN SIMBOLO DEI SESSANTAMILA PRIGIONIERI. DAL 2019 VIVEVA IN UNA CELLA SENZA MATERASSO E GLI ERA NEGATA L’ORA D’ARIA nitenziario di Wadi al Natroun, a un centinaio di chilometri di distanza dalla capitale. Finalmente un materasso su cui dormire dopo due anni. Finalmente mezz’ora fuori dalla cella, all’aria e sotto il sole, come se fosse una conquista. E il mondo? E la comunità internazionale? E l’Unione Europea che si oppone all’autocrate Putin e poi cerca combustibile laddove possibile, anche alla corte di altri autocrati? Silenzio. Un silenzio assordante e miope. Nel nome del realismo politico, i diritti vengono considerati marginali, un orpello da mostrare quando è necessario. C’è però una differenza profonda tra il realismo politico e la conoscenza del reale. Una differenza che, in questi ultimi anni, ci ha costretti a riconsiderare molti dei paradigmi su cui si sono fondate le relazioni internazionali e tra Stati. Ci siamo accorti, per esempio, che l’Europa ha avuto un solo, determinante fattore di stabilità: la democrazia, intesa come 56
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Attivisti dell'organizzazione Avaaz protestano con mascherine con le sembianze del cancelliere Scholz e del presidente al-Sisi davanti alla Porta di Brandeburgo
sistema in cui i diritti sono protetti e sono per tutti, cittadini e no. E se la democrazia è il pilastro della stabilità, non può valere solo per noi e non per gli altri. Anche quando gli altri, in questo caso, sono egiziani e per quei diritti sono disposti a farsi anni di galera. A morirci anche. «Tutto quello che ci viene chiesto è di non smettere di lottare per ciò che è giusto», dice Alaa nel 2014, nella selezione di scritti (disponibile anche in italiano) che lo ha fatto ormai definire il Gramsci d’Egitto per la profondità del suo pensiero e della sua visione. Ironia della sorte, il 2014 è l’anno della prima guerra nel Donbass, e noi non ce ne eravamo accorti. Ironia della sorte, è l’anno in cui il regime di Bashar al Assad riprende il controllo dei cieli di Aleppo, aprendo la strada ai bombardamenti a tappeto dei caccia russi sulla città siriana culla della nostra civiltà. Ora gli occhi sono puntati su Cop27, la conferenza sul clima che il prossimo novembre si aprirà a Sharm el Sheikh. Sì, sarà l’Egitto a ospitare la conferenza, come se l’emergenza climatica non sia strettamente legata ai diritti, ambientali e prima ancora umani. Subordinare il sostegno alla conferenza al rispetto dei diritti umani da parte del regime egiziano è il gesto politico che qualifica gli Stati di diritto. Ed è qui, su questo terreno, che si gioca la credibilità e la stabilità dell’Unione Europea, che dovrebbe parlare e non, al contrario, essere silenziosa. Afasica. Opporre il proprio pensiero in modo non violento non è concesso, in un’autocrazia. Ed è anzi necessario, per un regime, espungere i corpi dalle piazze e nasconderli dietro le mura di un carcere. Renderli senza voce e invisibili. Perché una cosa senza nome non esiste. E una persona senza nome e senza storia non esiste per nessuno. «Quale sarà la mia condizione se per i vivi sarò sempre morta e per i morti rimarrò straniera?», dice Antigone mentre la portano nella grotta in cui verrà sepolta viva e non vedrà più il sole per volere del tiranno di Tebe, il crudele Creonte. È Sofocle a raccontarcelo, in una delle tragedie più belle che il teatro greco ha regalato alla cultura mediterranea. È Sofocle a svelare, allora come oggi, le dinamiche del potere che ha sempre paura del pensiero libero. In questo tempo in cui siamo immersi nelle notizie, il silenzio su Alaa, sul suo nome e sulla sua storia, dice molto - forse tutto. Q © RIPRODUZIONE RISERVATA
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Opposizione a Mubarak
Tecnologia e potere
QUESTA SMART CI
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TY È UN INCUBO
ESTRAZIONE DEI DATI PRIVATI. CONTROLLO TOTALE. A TORONTO E MARSIGLIA L’ESPERIMENTO VIENE CONTESTATO. MA LA CINA VA AVANTI DI SIMONE PIERANNI
Marsiglia
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U
na smart city «è un luogo in cui reti e servizi tradizionali sono resi più efficienti grazie all’uso di soluzioni digitali a vantaggio dei suoi abitanti e delle imprese»: è la definizione di smart city che si può trovare sul sito dell’Unione europea, uno dei grandi attori nell’universo urbanistico del futuro, la cui definizione però si attiene a quella storica formulata dalla Ibm, prima azienda a parlare di “smart city”, consegnando all’espressione una chiara connotazione di marketing. Aaron Shapiro, professore di “technology studies” alla University of North Carolina, in “Design, Control, Predict: Logistical Governance in the Smart City” (Minnesota University Press, 2020) ha provato a smontare questa “aura” delle città del futuro, presentate sempre come il rimedio a inquinamento, criminalità e inefficienze burocratiche, scavando all’interno del meccanismo che le regolerà, ovvero l’utilizzo massiccio di Big Data. In questo senso i due grandi esempi di smart city che si stanno sviluppando nel mondo, quelle cinesi e quelle occidentali, non si discostano granché: il principio è lo stesso ed è basato sull’estrazione dei dati da ogni nostra attività per procedere a una supposta organizzazione razionale degli spazi urbani. Nelle smart city, infatti, scrive Shapiro, «i dati e le informazioni non si limitano a rappresentare i processi urbani: intervengono in essi. I flussi di dati e le architetture dell’informazione strutturano la nostra
esperienza urbana, mediando il nostro accesso a istituzioni, risorse e servizi». Città del futuro e dunque - presumibilmente - “cittadinanza” del futuro: le metropoli che saranno guidate dai dati già pongono tutta una serie di interrogativi sul fronte dei diritti, che siano a Pechino o Toronto. Proprio la città canadese costituisce un valido esempio di due traiettorie: la difficoltà a uscire dal paradigma “estrattivo” delle smart city come sono concepite in Cina e la grande fame di progetti “smart” e urbani da parte delle grandi aziende tecnologiche. A Toronto SideWalk Lab di Alphabet, cioè Google, aveva vinto un bando di gara per trasformare una parte del lungomare della città in «un hub per un’esperienza urbana ottimizzata con robo-taxi, marciapiedi riscaldati, raccolta autonoma dei rifiuti e un ampio livello digitale per monitorare qualsiasi cosa, dagli incroci stradali all’utilizzo delle panchine». Solo che a maggio del 2020 il progetto era già stato dichiarato morto; per Alphabet il problema sarebbe stato il Covid, ma in realtà - come scritto da Mit Technology Review - sono stati soprattutto i cittadini di Toronto a fare naufragare il progetto: «L’opposizione alla visione di Sidewalk non riguardava questioni come la conservazione architettonica o l’altezza, la densità e lo stile Simone Pieranni degli edifici proposti. Giornalista L’approccio tech-first 31 luglio 2022
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Tecnologia e potere del progetto ha fatto paura a molti; la sua apparente mancanza di serietà riguardo le preoccupazioni sulla privacy degli abitanti è stata probabilmente la causa principale del fallimento del progetto». L’esempio di Toronto permette di addentrarsi nel vasto mondo dei progetti in corso e dei miliardi, centinaia, che ruotano intorno a sviluppi di future smart city in tutto il mondo. Toronto evidenzia un primo problema negli attuali sviluppi delle “città intelligenti”, proponendo un “tecno-soluzionismo” che tende a trascurare l’importanza degli esseri umani. E soprattutto appare come un impianto tecnologico di estrazione di dati dai cittadini, più che un luogo in grado di facilitare la vita dei suoi abitanti. L’esempio di Toronto porta a due riflessioni: intanto c’è da
CON L’OBIETTIVO DELLA SICUREZZA SI COSTRUISCONO GIGANTESCHI PROGETTI DI SORVEGLIANZA TOTALE chiedersi chi vorrà vivere - al di là di chi se lo potrà permettere - in luoghi asettici per quanto “ordinati”, come se l’ordine fosse la cosa più ambita di una città, le cui dinamiche che portano le persone a viverci sono molte altre e incrociano più quel “fascino folle” di cui sono pieni i consigli delle guide Routard, anziché un ovattato “ordine”. La seconda riflessione ha a che fare con la costante esigenza di dati dei colossi tecnologici e degli Stati. Dire dati non significa dire solo metropoli ma significa, oggi, soprattutto Intelligenza Artificiale, protagonista di una nuova corsa lanciata ormai da tempo; una competizione guardata oggi con interesse dai comparti militari alla luce della guerra in corso in Ucraina e delle possibilità tecnologiche future degli eserciti. Dire dati significa dire più possibilità di progredire sui sistemi di Intelligenza Artificiale. Ci sono altre tendenze in corso. Marsiglia a sua volta, ad esempio, rappresenta il tentativo di trasformare la “smart city” in una “security city”, grazie a un uso capillare di videocamere - proprio come in Cina - finalizzate a uno degli obiettivi principali delle città in60
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telligenti, ovvero la diminuzione della criminalità. Marsiglia si inserisce all’interno di un processo francese che ha avuto un’accelerazione dal 2015 anno degli attentati terroristici del Bataclan. Da allora a Parigi il numero delle telecamere è quadruplicato, con la polizia locale intenta a utilizzarle per imporre i blocchi durante la pandemia e monitorare le proteste come ad esempio quelle dei gilets jaunes. Il punto finale di questo processo è arrivato con una legge contestata, quella sulla “sicurezza globale”. Secondo Amnesty prima della sua approvazione - si trattava di una «nuova legge draconiana che darebbe vita a un futuro distopico che non vorremmo mai vedere. Permetterebbe alla polizia di spiare chiunque, quasi ovunque, con un drone. Questo tipo di sorveglianza è un’enorme e inaccettabile intrusione nella vita delle persone». Marsiglia è diventato così un banco di prova per la tecnologia di sorveglianza. La battaglia contro l’invasività dei sistemi di sorveglianza da parte di alcuni attivisti francesi è cominciata fin dal 2017, quando fu annunciato il progetto “Big Data of Public Tranquility”, finanziato da un investimento di 1,5 milioni di euro dall’Unione Europea, dalla città di Marsiglia e dalla regione delle Bouches-du-Rhône. Un progetto che aveva come scopo quello di raccogliere i dati della polizia locale, dei vigili del fuoco, degli ospedali e delle videocamere, utilizzando l’Intelligenza Artificiale nel tentativo di comprendere e prevedere meglio i rischi per la sicurezza. In pratica, una smart city governata sul fronte della sicurezza dai modelli predettivi,
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proprio come nel film “Minority Report”, senza i precog, ma con gli algoritmi. Il fenomeno non è solo europeo, anzi. Gli attivisti di Electronic Frontier Foundation da tempo tengono traccia della diffusione della tecnologia di sorveglianza tra le forze dell’ordine locali e hanno prodotto una ricerca sui cosiddetti Rtcc, Real Time Control Center negli Stati Uniti, unità dedite al controllo in tempo reale della criminalità, una delle caratteristiche salienti delle future smart city, almeno nelle intenzioni. Gli Rtcc «si concentrano sulla distribuzione di informazioni sulle “minacce” alla sicurezza nazionale, che sono spesso interpretate in modo ampio» e sono generalmente focalizzati «su attività a livello municipale o di contea, concentrandosi su uno spettro generale di problemi di sicurezza pubblica, dai furti d’auto ai crimini armati». L’espressione “tempo reale”, però, è alquanto fuorviante secondo la Electronic Frontier Foundation: «mentre ci si concentra spesso sull’accesso ai dati in tempo reale per comunicare ai primi soccorritori, molte forze dell’ordine utilizzano gli Rtcc per estrarre dati storici per prendere decisioni in futuro attraverso modelli predittivi, una strategia controversa e in gran parte non provata per identificare i luoghi in cui potrebbe verificarsi il crimine o le persone che potrebbero commettere crimini». Predizioni che ad oggi incidono in percentuale minimo sulle attività preventive della polizia. Big Data, modelli predittivi e controllo: per quanto la narrazione delle smart city cerchi di spingere su concetti come sostenibilità e
Un rendering del progetto Quayside di Toronto. A sinistra: un’esposizione dedicata all’Intelligenza Artificiale nella città cinese di Yangzhou
una migliore organizzazione urbanistica, è il sistema “estrattivo” dei dati a caratterizzare anche i principali esempi di smart city occidentali. E proprio queste caratteristiche pongono seri dubbi sulla possibilità di sviluppare città del futuro differenti rispetto a quanto sta accadendo nel paese che da tempo investe di più sul concetto, cioè la Cina. Un esempio - senza mai dimenticare che il contorno è differente, in Occidente è possibile contestare o bloccare alcune scelte, come successo a Toronto, ben più complicato è farlo in Cina - è stato quello di Shanghai. Come ha scritto Le Monde, nominata “smart city” dell’anno dalla società britannica Juniper Research, «Shanghai è diventata per due mesi anche la prigione più grande del mondo. Venticinque milioni di persone sono state rigorosamente confinate nelle loro case per un periodo compreso tra 60 e quasi 90 giorni, a seconda del quartiere». Per il quotidiano francese la débacle della capitale economica cinese durante l’epidemia di Covid rappresenta il passaggio - traumatico - da un’idea di città utopica a quella di città distopica. Questo processo avviene perché alla base del concetto di smart city c’è una raccolta incessante di dati, che permette una rapida trasformazione di una città da un luogo di cui si promette incontaminazione da crimine e inquinamento, in uno totalmente controllato in caso di emergenze, reali o fittizie. Non solo: la Cina è il paese che investe di più nelle tecnologie “smart city” e finirà per conquistare interi mercati (si calcola che il mercato globale delle città intelligenti dovrebbe raggiungere i 2,7 trilioni di dollari entro il 2027). Sfruttando l’enorme mercato del paese, ha scritto il quotidiano di Hong Kong South China Morning Post, «Pechino offre pacchetti chiavi in mano all’estero basati su standard proprietari delle sue aziende Huawei, Zte e Hikvision» e trasportati sui mercati di riferimento dalle infrastrutture digitali della Nuova via della Seta. Per ora Pechino agisce per lo più con i paesi in via di sviluppo (e riscontrando di recente notevoli difficoltà a entrare sui mercati europei), «installando apparecchiature basate su standard cinesi spesso non intercambiabili con alternative occidentali meno invadenti. Si stima che circa il 70% dei sistemi di telecomunicazioni 4G in tutta l’Africa siano cinesi». Q © RIPRODUZIONE RISERVATA
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Fiumi d’Italia / La grande siccità
VITE DA PO CHI ABITA SUL FIUME NE CONOSCE SEGRETI E PENE. ORA HA PAURA PERCHÉ MAI È STATO COSÌ BASSO. “RISALIRÀ, LE PIENE FANNO DANNI”. E PER I CAMPI? “CI SI PUÒ ANCORA ARRANGIARE” DI TOMMASO GIAGNI FOTO DI ALESSANDRO PENSO
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IN SECCA Il molo delle Sermide sul fiume Po, Rovigo 31 luglio 2022
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ino detto Ramon sta in piedi sulla sabbia, con una sedia e un secchio vicini, dove dovrebbe scorrere l’acqua. Pesca a ridosso di un ponte che traversa il Po e insieme il confine tra Lombardia ed Emilia. Chi vive sul fiume abita sempre una frontiera. Lui ha scelto 23 anni fa di trasferirsi in una roulotte nell’ultimo tratto di terra mantovana, sotto pioppi e robinie e aceri che ha piantato di persona. «Il sindaco di Viadana mi ha offerto una casa in paese, senza affitto. Ma non c’è la sabbia, là, non posso pescare, allora ho rifiutato. Qui sto da dio». Conosce i fiumi più importanti d’Europa, dice che il Po è il più bello. L’ha percorso tutto: dalla fonte fino a Torino a piedi, poi in barca fino alla foce. «Per me è come un figlio». Si chiama Luigi Pezzali, il nome «Ramon» l’ha preso durante un lavoro in Argentina. È stato anche saldatore in Iraq negli anni Ottanta, ha fatto i marciapiedi vicino al porto di Amburgo. Ma è sempre tornato qui. «Il ponte l’hanno costruito i miei fratelli. Quando la legna venuta giù col fiume si arenava contro i piloni, mio padre andava a toglierla e la rivendeva». Mentre parla, con la canna tira su un pezzo di plastica: «Un tempo non ce n’era, l’acqua la bevevo. Poi per tanti anni è venuta marrone». Negli ultimi dieci, quindici anni, lo stato
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dell’inquinamento è migliorato di molto grazie ai depuratori. «Posso farci il bagno, perché so cosa c’è dentro. Porto regolarmente ad analizzare campioni d’acqua». E davvero entra a farsi il bagno. Ha cominciato a nove anni, ora va per i settantasei. «In questo punto non tocco, vedi? La situazione è strana», urla: «Ma non grave come dicono i giornali. Fu basso così anche nel 1965. Però sì, la situazione è strana. In alcuni tratti si può attraversare a piedi senza nemmeno nuotare». Dice Ramon che la navigazione in questo momento è solo per esperti, il rischio di arenarsi è serio. Accanto alla roulotte ha una barca piatta, un battello: «Quello dei pescatori del Po di una volta», dice: «Ora però ci tengo le rane. È troppo pesante per portarlo al fiume e navigarci, aspetto che il fiume salga». Lo stesso battello, nel pavese lo chiamano «barcè». Risalire dal basso mantovano fino alla Lomellina significa percorrere il cuore del Po. E il cuore è ferito, spiega chi conosce il fiume come nessuno, chi veramente ci vive. Nel tempo della grande siccità, incontriamo di continuo scafi che galleggiano su poca acqua melmosa, isole di sabbia e ghiaia, pontili Tommaso Giagni con ciambelle galleggianti ormai inutili. A Scrittore Isola Serafini, nel tratto piacentino, la cen-
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Un uomo, passa a piedi sotto il ponte di Brescello. A sinistra, balle di fieno in provincia di Mantova
trale idroelettrica è chiusa per l’emergenza. La diga ha due paratoie aperte su undici, per bilanciare l’acqua da trattenere a monte e quella da mandare a valle. Sulla sponda cremonese, a Isola Pescaroli, un cartello scritto a mano dice: «Tutti insieme ce la faremo!». Intanto due trattori e una motopompa del Consorzio di Bonifica Navarolo raccolgono acqua dal fiume e attraverso grossi tubi riempiono una vasca per irrigare. Poche centinaia di metri all’interno, le zone secche nei campi di mais avvolgono in una stretta quelle verdi. «Qui mancano tre metri d’acqua», spiega Alberto Preto, 74 anni, sulla sua casa galleggiante in provincia di Pavia, sotto il ponte della Becca. La trasformazione gli sembra riguardare, più che un’emergenza di questi mesi, una tendenza degli ultimi dieci anni. Da almeno il doppio («Venti, venticinque, ho perso il conto») lui abita da solo nel punto in cui il Ticino si immette nel Po. Una scelta, dopo una vita a Milano dove aveva uno studio e restaurava il legno. Prosegue a farlo sulla casa galleggiante, picchiettata di segatura, ingombra di seghe circolari e tavoli Luigi XVI. «Potrei vivere con la pensione, ma di lavoro ne ho». Alberto indica tra le as-
si: «Stamattina qui sotto avevo un luccio di tre chili. Io non pesco, ho quattro o cinque canne mai usate, e i cacciatori mi odiano perché quando arrivano inizio a fischiare». Non ha barca, non ha auto. La sua vita è un inno ecologista, ma non rivendica una teoria e dice d’aver fatto quel che si sentiva e basta. «Ho sempre avuto un rapporto speciale col fiume, un’esigenza, diciamo, di stare col culo in acqua. Siamo in pochi a vivere con il fiume. A fonderci». Esce quasi solo per la spesa. «Le persone mi guardano come lo strano, allora le avvicino per spiegare la mia scelta di avere un piede in acqua e uno a terra». In effetti incontriamo sempre un imbarazzo,
INCONTRIAMO DI CONTINUO SCAFI CHE GALLEGGIANO SULLA MELMA, ISOLE DI SABBIA E GHIAIA, PONTILI SORRETTI DA CIAMBELLE ORMAI INUTILI 31 luglio 2022
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Claudio Bompan. A sinistra, Italo Fornasari. Sotto, Alberto Preto. Accanto, Luigi Pezzali, detto Ramon
nei bar di paese e per le strade assolate, quando chiediamo informazioni su dove trovare chi vive sul fiume. «Non cala, non può calare più di così», mostra ottimismo Italo Fornasari. Dal 2016, appena pensionato, è andato ad abitare in golena nei pressi di Cremona, in una casetta con giardino che affaccia sul Po ed era di suo nonno. Dell’intera vita da fabbro ha tenuto solo l’incudine, l’ha messa in giardino, accanto al tavolo dove si diverte a creare sculture. Oggi ha 66 anni, una conchiglia portafortuna al collo e un’ancora tatuata sulla spalla, e il fiume in questo stato non l’ha mai visto. Lo conosce più che bene: ha iniziato nel 1971 a percorrerlo in canoa, la sua passione, una volta arrivò a Venezia in tre giorni. Lo conosce e ne ha un rispettoso timore: «Mai dargli confidenza, è imprevedibile». Italo non ha mai visto il fiume così, la lingua di sabbia che si vede da casa è anomala, ma sulla siccità ha la posizione più serena che incontriamo. «A me preoccupano le piene, non le magre. Il fuoco lo fermi, l’acqua no. Da queste parti le barche vanno, con attenzione. Gli animali ci sono ancora tutti, i pesci e gli uccelli sono quelli, ci sono le lepri, c’è una volpe qui dietro. Offro una cena a chi mi mostra dove attraversare il Po a piedi». In particolare è polemico con l’allarme lanciato dagli agricoltori: «Sono amico di molti di loro
ma hanno esagerato a sfruttare i campi e a usare fertilizzanti. Il primo raccolto gli è andato benissimo, ora si lamentano per il secondo. Da qui a Brescia ho visto due campi di mais rovinati, e li ha rovinati la grandine». Lungo il Po, i sovvenzionamenti per i danni agli agricoltori sono controversi. La situazione dell’estate 2022, in questi territori, ha sollevato questioni complesse e aperto conflitti. Se il livello macro è il cambiamento climatico, si discute sulle responsabilità di gestione delle risorse da parte della politica locale. Se l’emergenza tocca l’agricoltura, in luoghi dove l’agricoltura è molto, l’ombra dei razionamenti cala su tutti. Si può attraversare in Lomellina, per esempio, spiega Claudio Bompan, muovendo un braccio col pesce tatuato, perché c’è la ghiaia invece della sabbia. Dove il livello è sottile sulla ghiaia, si dice che l’acqua rida. «Mi considerano il matto del Po», scherza Claudio, che ha 70 anni e a quattordici usò i soldi degli straordinari per comprare il primo motore della barca. Nei dintorni in verità è un’istituzione, la gente domanda a lui come sta davvero il fiume. E a noi risponde che poca acqua così non ne ha mai vista: «Mai, in sessant’anni che viaggio in barca. Qui siamo giù di 3,80 metri, quasi la metà del normale», indica il battente sui ripari di cemento, il segno che fa capire dove il Po dovrebbe essere. Claudio abita da nove anni in 31 luglio 2022
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Fiumi d’Italia / La grande siccità
Veduta del Po dal Ponte Gerola
una casetta su una lanca, un meandro acquitrinoso e separato dal Po, circa 30 km a ovest di Pavia. L’appartamento che ha ricavato dà proprio sull’imbarcadero da dove porta i turisti sul fiume. Portava, perché adesso non ha lavoro: quando c’era l’acqua non era stagione e adesso che è stagione manca l’acqua. Da un anno vive della pensione da operaio ed esce in solitaria, coi rischi che si corrono a navigare sul fiume in queste condizioni («Ho spaccato due motori»). Accenna al tratto che scivola sotto il ponte della Gerola: «Il Po è tutto lì. Un fosso. In dieci anni sarà sceso dell’80 per cento. Io non ho mai avuto paura del fiume, ma questo fa paura. Secondo me non c’è più
niente da fare. Di chi è la responsabilità? Il clima», alza un dito al cielo. «In passato gli agricoltori si sono lamentati senza motivo, ora però hanno ragione. L’acqua per arrangiarsi coi campi oggi c’è, ma nei prossimi anni come si fa?». Claudio è arrivato in Lomellina da piccolo, con i genitori sfollati dal Polesine alluvionato. Il fiume è nella sua vita dall’inizio. «Io ragiono in termini di Po, quindi Torino mi è più vicina di Pavia. Perché la gente del Po è tutta uguale, col valore della solidarietà: se qualcuno si ferma, lo aiuti anche se non lo conosci. Il mare non mi piace, giusto quello di Venezia. Odio il casino, quando vedo un’autostrada mi volto». E il Po gli svela tesori: negli anni Claudio ha trovato una mascella di mammut, un’anfora etrusca, un elmetto nazista. «Da qui sono arrivato a Venezia tre volte, e la prima cosa che ho fatto è stata andare dove sono nato». Punta le dita verso l’acqua stanca, lungo la riva si rincorrono i suoi cani, uno si chiama Fiume. Sulla stessa sponda, poco lontano, c’è una piccola Madonna nella roccia. È stata messa lì per proteggere dalle alluvioni, i fiori finti la invocano accanto al fiume mezzo vuoto. Q
“IN PASSATO GLI AGRICOLTORI SI SONO LAMENTATI SENZA MOTIVO, ORA PERÒ HANNO RAGIONE. L’ACQUA OGGI C’È, MA NEI PROSSIMI ANNI COME SI FA?” 68
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L’analisi di MARCO CATTANEO
Sul clima serve la scienza non la Provvidenza
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ppure, era tutto già scritto. Bastava leggere le pagine sul Mediterraneo del sesto rapporto dell’Ipcc, oppure sfogliare gli scenari delineati dalla Fondazione Centro euro-mediterraneo sui cambiamenti climatici per il nostro Paese. Scenari, non previsioni, vale a dire futuri possibili anche in relazione alle azioni di mitigazione e adattamento che sapremo mettere in campo per limitare i danni. In tutti questi documenti è già chiaro che l’area mediterranea è un hot spot del cambiamento climatico, vale a dire una delle regioni in cui la temperatura aumenta più rapidamente, quasi il doppio rispetto alla media globale. Le ragioni vanno dalle caratteristiche stesse del Mediterraneo, che essendo un mare chiuso si scalda più rapidamente degli oceani, ai complessi sistemi di circolazione atmosferica che trasferiscono aria calda dall’equatore verso le regioni tropicali. E che si stanno espandendo a latitudini sempre più elevate a causa del riscaldamento globale. È lì che ci siamo noi, per capirci.
Così, in una proiezione al periodo 2036-2065, dicono gli scenari, aumenteranno in tutta Italia i giorni con temperature massime superio-
ri ai 35 gradi, e diminuiranno sulle Alpi quelli con temperature inferiori agli zero gradi, con ovvie conseguenze sulle precipitazioni nevose. Quanto alle piogge, si prevede che aumentino – sia pur di poco – al nord e che si riducano ulteriormente al centro-sud. Con un incremento, però, degli eventi estremi, vale a dire precipitazioni intense e violente di breve durata. Sappiamo, dunque, che in certe aree ci saranno periodi senza piogge più lunghi e scarsità di risorse idriche, oppure che arriveranno temporali disastrosi e inondazioni più frequenti, ma non possiamo dire a lungo termine – in senso climatologico, non meteorologico – quando si manifesteranno questi fenomeni. In quest’ottica, il 2022 sembra essere solo un antipasto di quello che ci aspetta, con maggiore frequenza e intensità, nei decenni a venire. Dopo mesi di un inverno mite e senza neve, seguito da una primavera calda e secca, con l’inizio anticipato di un’estate fin qui torrida, il 22 luglio nella frazione di Pontelagoscuro, a Ferrara, l’autorità di bacino registrava una portata del Po di 114 metri al secondo, in costante diminuzione, appena il 10 per cento della media. E se esattamente un anno prima una tempesta
SCENARI, NON PREVISIONI, DICONO GIÀ CHE IL MEDITERRANEO È UN HOT SPOT DEL CAMBIAMENTO
di ghiaccio devastava un migliaio di ettari di frutteti e vigneti nel Trentino, oggi gli agricoltori della pianura mostrano pannocchie di mais e acini d’uva rinsecchiti, lontanissimi dalla maturazione. È soprattutto per questo che i rapporti non si fermano alle conseguenze del cambiamento climatico, ma sottolineano l’urgenza di mitigazione e adattamento, vale a dire di azioni che da una parte riducano il nostro impatto sul clima con una graduale ma rapida rinuncia ai combustibili fossili e dall’altra ci permettano di affrontare il futuro limitando i danni. A questo proposito, in qualche cassetto del ministero per la Transizione ecologica giace un Piano nazionale di adattamento ai cambiamenti climatici in attesa di approvazione della Valutazione ambientale strategica. Dal 2018. E, guarda caso, tra i punti più rilevanti ci sono indicazioni strategiche per attuare azioni di adattamento in un’area considerata di elevata priorità: il bacino del Po. Infine, è arrivata la pioggia, almeno al Nord, attesa come una benedizione e accolta come un dono di divinità capricciose ma benevole, a giudicare dalle migliaia di post liberatori che si leggevano in questi giorni sui social network. Non possiamo sapere se basterà a salvare i raccolti e la vendemmia, ma dice molto di noi. E di come ancora siamo più inclini ad affidarci alla provQ videnza anziché alla scienza. ©RIPRODUZIONE RISERVATA
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Fiumi d’Italia / L’inquinamento
IL SARNO HA L’ACQUA MARRONE DI LORENZO FARGNOLI FOTO DI CAIMI & PICCINNI
Il Canale San Tommaso, uno degli affluenti più inquinati del fiume Sarno
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uesto fiume lo abbiamo violentato per anni. Adesso è diventato il nostro peggior nemico». Sono le parole di Luigi Lombardi, un attivista del comitato cittadino Scafati in difesa del fiume Sarno. Mentre parla di come oramai gli scafatesi odino il loro fiume, tossisce ripetutamente. La cittadina campana infatti è invasa da un odore acre, un tanfo, che stringe come un nodo alla gola chi lo respira. Nonostante i quasi quaranta gradi, la maggior parte delle finestre dei palazzi sono serrate. L’odore è troppo forte e neanche la notte riesce a portare giovamento. Tutto questo per colpa del fiume. Il Sarno infatti è un corso d’acqua di appena 26 chilometri, tristemente famoso per essere tra i fiumi più inquinati del mondo. In una conferenza sui fiumi meno salubri del pianeta, tenutasi a New York nel 2018, è stato classificato al sesto posto in questa poco lusinghiera classifica. Per chi è così temerario da affacciarsi al di sopra dei suoi argini, si presenta con un colore marrone torbido, continuamente attraversato da filamenti gelatinosi e bolle di schiuma, che si formano e si distruggono con la forza quieta della sua corrente. Ad oggi l’unico tratto ad essere balneabile è quello dei primi 200-300 metri, praticamente solo la zona limitrofa alle sorgenti. Subito dopo le acque vengono irrimediabilmente contaminate dai quasi cento scarichi civili e industriali. Luigi, schiaritosi finalmente la voce, continua spiegando che un tempo il fiume e i suoi innumerevoli canali venivano vissuti come parte integrante del tessuto urbano, tanto da far conoscere la città di Scafati come la “piccola Venezia”. «Tutta la vita della città in qualche modo girava attorno al fiume. Adesso tutto questo è andato perduto». Il Sarno paga il pesante tributo di percorrere un territorio altamente antropizzato. Attraversa, in uno spazio relativamente breve, tre poli industriali, una campagna intensivamente coltivata e 39 comuni con una densità abitativa superiore alla media di Paesi sovrappopolati come il Bangladesh. Anche per questo la portata d’acqua del fiume non risente, neanche in questa torrida estate, del grave periodo di siccità che sta colpendo il nostro Paese. Gli scarichi fognari e pluviali di decine di comuni gonfiano la portata del fiume, portandolo ogni anno ad esondare nei mesi primaverili ed autunnali con gravi disagi per i cittadini e trasportando nelle campagne circostanti il suo limo inquinato. Per l’ingegnere civile Michele Russo quello del Sarno è un problema strutturale: un’area così densamente edificata e quindi impermeabilizzata, non riesce a drenare a sufficienza l’acqua piovana che viene così convogliata forzatamente nell’alveo del fiume Sarno. Ma la densità abitativa e la cementificazione selvaggia non sarebbero coLorenzo Fargnoli munque sufficienti a spiegare i livelli di inGiornalista quinamento a cui è sottoposto il fiume da
almeno quarant’anni. Quasi un milione di persone vive attorno al suo bacino e, secondo le stime dell’Ente idrico campano, circa 500mila non sono ancora collegate ad un sistema fognario. Le loro acque nere vengono direttamente scaricate nell’alveo del fiume, trasformandolo in una fogna a cielo aperto. In una relazione del senatore Roberto Manzione, per la Commissione parlamentare d’inchiesta sulle cause dell’inquinamento del Sarno, si stima che sono stati sprecati ottocento milioni di euro dei contribuenti, senza migliorare significativamente la situazione. Gran parte dei lavori, come la costruzione dei depuratori, alla fine fu completata, ma nessuno ha mai collegato le reti fognarie ai siti di depurazione. Da qualche anno però si tenta di intervenire per finire quello che era stato in qualche modo iniziato. La Gori, un’azienda a partecipazione privata, gestisce, per l’ente idrico campano, sia la distribuzione dell’acqua potabile sia tutte le reti fognarie del bacino idrografico del Sarno. La società promette di collegare ai depuratori tutti gli scarichi fognari entro dicembre 2025. Alla Gori, sono così
CENTO SCARICHI ATTENTANO AL CANALE DELLA VENEZIA DEL SUD. ORA PERÒ GLI ABITANTI DI SCAFATI LO VIVONO COME UN PERICOLO COSTANTE sicuri che Andrea Palomba, responsabile Gestione idrico e fognario dell’azienda, promette che il giorno della scadenza della mission aziendale farà il bagno dentro al fiume. Una promessa a cui i cittadini guardano con scetticismo, abituati ad anni di cantieri mai conclusi, fondi spariti e cattiva gestione di quello che è stato già costruito. Anzi, con un’iniziativa senza precedenti e nata dalla mobilitazione civile, le associazioni “Libera dalle mafie”, “Anpi” e “Legambiente” hanno chiesto agli attuali ministri della Salute, dell’Ambiente e del Lavoro l’apertura di un tavolo nazionale e il commissariamento della gestione della depurazione del fiume. Richiesta respinta al mittente dal ministro dell’Ambiente Roberto Cingolani. Ma qualora fossero risolti i problemi con gli scarichi fognari, rimarrebbe sempre da affrontare il grave problema degli agenti inquinanti e dei prodotti di scarto delle zone industriali: i metalli pesanti e gli agenti chimici delle concerie della cittadina di Solofra o delle tante piccole industrie che sorgono lungo il fiume e gli scarti delle industrie conserviere del pomodoro San Marzano. Alcune di queste ultime, nonostante siano attive solo per 3 mesi, da luglio a settembre, immettono nel fiume la quantità di materiale biologico (scarti e bucce di pomodoro) che un depuratore di norma gestisce in un anno, 31 luglio 2022
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Fiumi d’Italia / L’inquinamento
compromettendone l’efficienza. In quei mesi il Sarno si tinge letteralmente di rosso. Una condizione del fiume talmente compromessa da spingere i cittadini a temere per la loro salute e quella dei loro cari. Ma ad oggi è difficilissimo collegare i malati e i morti all’inquinamento, perché manca da almeno dieci anni un registro tumori della provincia, nonostante già nel 1997 l’Oms (Organizzazione mondiale della sanità) segnalasse una maggiore incidenza di cancro e leucemia proprio nel bacino del Sarno. Quella della mancanza di dati epidemiologici è la battaglia di Alfonso Annunziata, un avvocato. Recentemente ha presentato un esposto alle procure di Torre Annunziata e di Nocera Inferiore per indagare le connessioni causa effetto fra la comparsa di un linfoma in un suo cliente e le sostanze inquinanti presenti nel fiume. Finché non si porterà avanti uno studio serio sulle conseguenze dell’inquinamento del Sarno sarà complicato trovare giustizia. E non c’è un registro tumori nonostante sia obbligatorio per legge. Mentre l’avvocato parla, dalla maglietta aperta si intravede una vistosa cicatrice all’altezza del collo. Anche lui qualche anno fa si era ammalato di un tumore benigno alla tiroide. Adesso, dopo un intervento chirurgico, sta bene. Secondo lui è 72
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diventato un dato esperienziale di tutta la città che le persone si stiano ammalando. E alcune ricerche esistono e i dati sono molto preoccupanti. Secondo uno studio, “Environmental pollution effects on reproductive health – Clinical-epidemiological study in Southern Italy”, pubblicato su Pubmed, i casi di malformazioni fetali nelle città attorno al Sarno sono quattro volte superiori a quelle del “Triangolo della morte” di Acerra-Nola-Marigliano, la terra dei fuochi. I medici li attribuiscono alla presenza di metalli e agenti inquinanti. Un inquinamento certificato anche dalle analisi dell’Arpac Campania. L’agenzia, grazie ai suoi tecnici, monitora continuamente la situazione del fiume, intervenendo in collaborazione anche con i carabinieri. Secondo le tabelle i valori di cromo disciolti nel fiume nei pressi di Scafati superano mediamente di tre volte la soglia consentita. A destare più preoccupazione è la contaminazione da “Pfos”, una sostanza utilizzata in ambito industriale, che può causare tumori, ritardi della crescita, alterazioni del sistema endocrino e mortalità neonatale. Le rilevazioni di questo agente chimico, effettuate dall’Arpac nel 2018, sono arrivate ad avere valori di ottomila volte superiori ai limiti. Per l’oncologo e farmacologo Antonio Marfella siamo arrivati ad un punto critico di avvelenamento della popolazio-
Prima Pagina L'area orientale della pianura del Sarno. A sinistra, la superficie del fiume fotografata lungo i suoi 24 chilometri. Di fianco, un biologo dell'Arpac preleva campioni d'acqua alla foce del fiume Sarno a Marina di Stabia. A destra, un campione
ne. Oramai non si ammalano di tumore solo gli adulti ma anche i bambini nascono con malformazioni e malattie, poiché le sostanze tossiche hanno irrimediabilmente danneggiato i gameti dei genitori. Marfella, che è anche Presidente dei Medici per l’Ambiente di Napoli, mostra uno studio del 2015 dal nome “Distribution of toxic elements and transfer” che certifica il ritrovamento di mercurio e cromo, non solo dentro le verdure e i terreni coltivati nella piana del fiume, ma anche nei capelli dei cittadini dell’agro nocerino-sarnese. Da quasi quarant’anni le persone che vivono attorno al Sarno vengono avvelenate da un mix letale di sostanze cancerogene e dannose per la salute. Dal fiume passano ai prodotti coltivati, alla catena alimentare animale, fino ad arrivare all’uomo. Qualcuno però per forza di cose non si può abituare a questa condizione e sono Lina e Patrizia le madri di due bambini, rispettivamente Valentina ed Achille. Negli anni scorsi i loro figli si sono ammalati di tumore e le loro prognosi hanno dato purtroppo esiti infausti. Si ritrovano nella chiesa di San Francesco di Paola con le foto dei loro figli strette fra le mani. Raccontano
con dovizia di particolari tutto il calvario che hanno dovuto vivere insieme a tutta la famiglia. Il momento della diagnosi, i viaggi per le cure nelle città del nord e le difficoltà economiche. Patrizia si commuove di rabbia quando ricorda il colloquio con l’oncologo: «Ci ha detto che non avevano i fondi necessari per studiare le cause. Ho proposto a mio marito di scappare da qui anche perché adesso abbiamo una seconda figlia e abbiamo paura che possa accadere di nuovo, ma il suo lavoro è a Scafati. In quale altro posto potremmo andare?». Q ©RIPRODUZIONE RISERVATA
ATTRAVERSA TRE POLI INDUSTRIALI, UNA CAMPAGNA INTENSIVAMENTE COLTIVATA E 39 PAESI CON DENSITÀ ABITATIVA SUPERIORE AL BANGLADESH 31 luglio 2022
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I fiumi d’Italia / I progetti
SULLE SPONDE DI CITTÀ DI ANTONIA MATARRESE
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li antichi li veneravano. Consapevoli della loro forza distruttiva in seguito alle inondazioni ma anche degli elementi positivi quali approvvigionamento di acqua, pulizia, trasporto. Nelle società attuali, i fiumi sono spesso dimenticati, mortificati dal cemento e dall’incuria, intrappolati fra argini inaccessibili ai più. «Le città, grandi e piccole che siano, vedono l’acqua come un nemico, estranea al tessuto urbano. Abbiamo imparato a gestire e controllare la portata dei fiumi ma ci siamo scordati di rispettarli», esordisce Edoardo Borgomeo, ricercatore all’università di Oxford e autore del libro “Oro Blu – Storie di acqua e cambiamento climatico” (Laterza). «Prendiamo per esempio i centri abitati degli Stati Uniti: non hanno fontane e i corsi d’acqua sono stati incanalati. Eppure l’acqua non sparisce. Anzi. Ha una memoria formidabile e torna sempre dov’era. Se cerchiamo di nasconderla non facciamo altro che aumentare il rischio che si ripresenti con una forza ancora più distruttiva». Ora, però, la crisi climatica e la siccità invertono la tendenza, portando alla riscoperta dei fiumi e del loro ruolo vitale. «La nuova relazione con l’acqua passa dall’urbanistica e sono sempre più numerose le realtà che si ricollegano a questo ele-
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mento», osserva Borgomeo. «A Monaco il fiume Isaar, che la percorre per 14 chilometri, è l’oasi verde più importante con una riviera balneabile per fare attività sportive. Stessa cosa lungo il Danubio a Vienna. Dall’altro capo del mondo, a Seoul, il fiume Cheonggyecheon, coperto da un viadotto negli anni ’70, è tornato alla luce come parco lineare. In tutti questi casi, i benefici sono ambientali perché i fiumi e la vegetazione portano alla riduzione delle temperature, economici in quanto attirano turisti e pure psicologici. Vivere in prossimità di un corso d’acqua contribuisce al benessere mentale». Insomma un fiume, più che dividerla, può unire una città. Come nel caso di Torino che, di corsi d’acqua, ne conta ben quattro: Po, Sangone, Dora Riparia e Stura. «I torinesi amano il fiume e lo vivono: dalle piste ciclabili alle aree per picnic passando per gli sport acquatici come il canottaggio nei circoli storici quali Esperia, Caprera, Amici del Fiume, tutti con accesso da Corso Moncalieri sulla sponda destra del Po», racconta Michela Rota, architetto esperto in sostenibilità dall’animo green. «La vegetazione è composta da tigli e platani, la fauna Antonia conta cormorani, gru cenerine, rondini, anaMatarrese Giornalista tre, gallinelle d’acqua. La siccità si percepisce
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Foto: Gabriele Galimberti
Il Terzo Giardino di Firenze
dall’aumento delle alghe». E il fiume Po è tornato protagonista anche grazie ai Murazzi, dove tirar tardi nei locali come Giancarlo uno o mangiare sano nel nuovissimo Porto Urbano. Per assaporare una movida all’insegna della lentezza. In un prossimo futuro, potrebbe arrivare una zattera galleggiante. Anche a Verona, sulle rive dell’Adige, la percezione del fiume è cambiata: «Durante la pandemia, il parco dell’Adige è stato letteralmente preso d’assalto. Hanno inaugurato un’equivia per promuovere forme di mobilità alternativa e sostenibile, si piantano gli alberi dei Nuovi Nati, si trovano siti di interesse storico, naturalistico e culturale come Villa Buri o l’antico Lazzaretto di Porto San Pancrazio», dice l’assessore all’Ambiente uscente del Comune, Ilaria Segala. «A disposizione di turisti e residenti c’è un museo virtuale che racconta il fiume e, proprio in questa area, si è tenuto il Festival Heroes organizzato dalla cantante Elisa per la salvaguardia del pianeta. Nella stessa direzione si snoda anche il progetto Fiumeggiando che proseguirà per i prossimi due anni e coinvolge famiglie e detenuti in semilibertà del carcere di Montorio».
Si chiama Terzo Giardino ed è un polmone verde sulla riva dell’Arno a Firenze. Vi si arriva dal Lungarno Serristori e, in questi mesi, è protagonista di un progetto collettivo intitolato “Il Respiro dei sogni”. Nella doppia installazione finale, che sarà inaugurata a settembre, il pubblico potrà riascoltare tutti i sogni accompagnati da video dell’artista Jacopo Baboni Schilingi. «Dopo la tragica alluvione del 1966 la vita lungo il fiume era finita. Da alcuni anni il network Riva lavora sul tema della valorizzazione del parco fluviale e sulla memoria popolare», spiega Valentina Gensini, direttore artistico Mad, Murate art district, spazio del Comune di Firenze gestito da Mus.e. in quel complesso che è stato carcere e ancor prima monastero, a monte dell’antico Ponte alle Grazie. «Sviluppato su diecimila metri quadri, il Terzo Giardino è una sorta di giardino all’italiana in negativo che disegna mediante la falciatura i reticolati tipici delle ville medicee. Questo porta a osservare con occhi diversi l’ecosistema della riva dell’Arno dove è ricomparso il gamberetto di fiume mentre la plantago lanceolata insieme alle canne di palude sono state trasposte in una partitura sonora per sottolineare l’interazione umano-vegetale», conclude Gensini. A Roma, le sponde del Tevere fanno da quinte a rassegne culturali (Isola Cinema, Bibliobar), concerti, lezioni di yoga e di padel, gare di canottaggio. «Da cinque anni lavoriamo per riportare i romani sul fiume, collaborando con decine di associazioni», spiega Alberto Acciari, presidente “Tevere Day” che, nell’ultima edizione, ha contato oltre cinquantamila presenze. «È aumentato il numero delle persone che usa la pista ciclabile (10 km da Ponte Milvio e Ponte Marconi, ndr) e molti hanno rispolverato i pattini a rotelle. Se, da un lato, i muraglioni hanno diviso il Tevere dalla città, dall’altro fungono da protezione contro traffico e rumori», conclude Acciari, che conferma l’appuntamento con “Tevere Day” per il 9 ottobre prossimo. Fa rotta sul fiume anche l’iniziativa ideata dalla regista e sociologa Francesca Chialà, battezzata “Festa delle 7 Arti”, che mette insieme danza e pittura, solidarietà e sostenibilità, adulti e bambini. «È necessario riappropriarsi del Tevere, penalizzato da un annoso conflitto di competenze fra Regione e Comune. Se la Senna costituisce Pil per la Francia perché non potrebbe essere lo stesso qui? Magari con i battelli che portano in giro i turisti e integrano le linee della metropolitana. Il Tevere può collegare il centro alla periferia, il Serpentone di Corviale al Teatro Antico di Ostia. Trasformar-
DA FIRENZE A TORINO, DA PESCARA A ROMA, INIZIATIVE E INTERVENTI PER RIQUALIFICARE GLI ARGINI DEI FIUMI CHE ATTRAVERSANO LE AREE URBANE 31 luglio 2022
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I fiumi d’Italia / I progetti
si in luogo di lavoro grazie alle banchine dell’innovazione free wi-fi. Ospitare in alcuni tratti un orto fluviale», sostiene Chialà. Che anticipa una staffetta sportiva di plogging ovvero raccolta di rifiuti mentre si cammina a passo veloce. Dal lato opposto della Penisola, a Pescara, si tenta di fare pace con l’omonimo fiume che, per decenni, è stato sinonimo di disastro ambientale nel processo Bussi-Montedison. «Qui il corso d’acqua è ampiamente urbanizzato con strade, parcheggi, galene: un canale stretto nel cemento», esordisce Augusto De Sanctis del Forum H2O. «Sarebbe invece auspicabile la realizzazione di un parco naturale urbano eliminando i due lungofiume. Sono tornati cormorani, anatre, aironi, cinerini e spuntano piccoli canneti, pioppi neri e salici bianchi. Il fiume è in stretta connessione con la falda e, avere sopra gli alberi, fa la differenza». Ci sono poi i problemi di tipo economico legati alla storica marineria pescarese: «I pescatori vogliono restare nel fiume perché l’acqua dolce danneggia meno le barche rispetto a quella salata ma, ad oggi, il piano regolatore portuale prevede la darsena a mare. Alla foce del fiume si formerà
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SUL MODELLO DELLE GRANDI CITTÀ SI IMMAGINANO PARCHI LINEARI. NELLA CAPITALE SI DISCUTE DEL TEVERE COME RISORSA PER I COLLEGAMENTI
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Foto: Francesco Fotia / AGF, IPA
Piazza Tevere, area relax lungo la riva del fiume. Sotto: il pub City Barge sul Tamigi
una grande barra di sedimenti quindi poco profonda», conclude De Sanctis. Sarà perché sia D’Annunzio che Flaiano sono nati sul Lungofiume, il mondo culturale pescarese con la sua scoppiettante movida ha sempre guardato con interesse al corso cittadino dell’Aterno-Pescara. «Questo fiume è stato sempre divisivo e rappresentava una cesura fra Castellammare Adriatico e Pescara», racconta Daniela Pietranico, curatrice ed esperta di arte contemporanea. «Dove ora sorge un condominio di lusso vicino alla foce del fiume un tempo c’era il cementificio: finiti i turni di lavoro, il parcheggio si trasformava in balera. Lungo le mura del vecchio Bagno Borbonico hanno lasciato tracce famosi street artist fra i quali Ericailcane e Millo». Da oltre vent’anni, l’attore Milo Vallone organizza il festival “Il fiume e la memoria”, la performer Sibilla Panerai con “Attraverso la tendenza” porta danza e video bordo fiume mentre Marcella Russo, operatrice culturale specializzata in arti visive, cura residenze per artisti all’interno del progetto Matta#texture. “Hub Aterno: di pietre e di acque” prevede durante la permanenza dell’artista l’approfondimento della storia del fiume dalla sorgente fino all’area urbana di Pescara e il suo rapporto con il quartiere», sottolinea Russo. Tessere legami e riconnettere le persone con i fiumi. Anche nelle metropoli. Come ha fatto Marinella Senatore, artista campana di caratura internazionale: è in corso una sua mostra alla Battersea Power Station di Londra, ex centrale termoelettrica a carbone sulla riva sud del Tamigi. «L’arte è per me una piattaforma orizzontale sulla quale elementi diversi generano movimento energetico e quindi narrazione condivisa. Immagino le mie opere come contenuti fluidi, concepiti tenendo conto dello specifico ambiente nel quale si sviluppano e basati su un’inclusione potenzialmente infinita degli elementi in gioco. L’acqua come la luce è una costante nel mio lavoro, in particolare quello performativo, perché è energia allo stato puro. Anche nel progetto londinese Afterglow (promosso da Mazzoleni Art, ndr) la struttura del movimento del pubblico ha seguito l’andamento del fiume”, chiosa Senatore. Q
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Lorem et ipsorum
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Ritorno in classe
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Prima Pagina GRADUATORIE NON PUBBLICATE, DOCENTI IN ATTESA DELL’ORALE, QUIZ ERRATI. I PRECARI ASPETTANO DI CONOSCERE IL LORO DESTINO E LE CATTEDRE RESTANO VUOTE DI CHIARA SGRECCIA
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Foto: L.Santini / Contrasto
Una lezione in Dad al liceo artistico statale Ripetta, a Roma, durante il periodo di chiusura delle scuole per il Covid-19
idurre il precariato per dare stabilità alla scuola. Nelle intenzioni, era questo l’obiettivo del concorso per reclutare docenti da destinare ai posti comuni e di sostegno della scuola secondaria di I e di II grado, ovvero medie e superiori. Ma gli errori trovati nelle prove scritte, i ritardi nello svolgimento degli orali e le difficoltà nel comporre le commissioni, hanno fatto sì che per alcune classi di concorso non siano ancora state pubblicate le graduatorie. Così, anche chi ha superato i test resta in attesa un altro anno e la continuità didattica per gli studenti passa, ancora una volta, in secondo piano. «Oltre il danno anche la beffa», spiega Ivan Corrado trentenne, laureato in Storia e filosofia, che ha partecipato al concorso per la classe A19 in Campania. «Per come stanno adesso le cose, non solo non sarò di ruolo per l’anno 2022/2023 ma neppure ho potuto sciogliere la riserva per essere inserito in prima fascia, tra gli abilitati. Con il risultato che, nonostante abbia superato tutte le prove del concorso, mi ritrovo esattamente come un anno fa: con l’impossibilità di lavorare perché, avendo poca esperienza, sono tra gli ultimi della graduatoria per le supplenze». Corrado non è l’unico in questa situazione. Ci sono altri insegnanti per i quali il concorso si è trasformato in una mancata occasione a causa di ritardi puramente tecnici che vanificano l’abilitazione conseguita. Secondo il ministero dell’Istruzione, interpellato da L’Espresso, «si tratta di casi marginali, che Chiara Sgreccia riguardano poche classi di Giornalista concorso. Gli aspiranti che
avevano interesse a sciogliere la riserva in prima fascia Gps (Graduatorie provinciali per le supplenze ndr) hanno manifestato le loro necessità e, a quanto ci risulta, questa problematica è stata comunque risolta in tempo». Ma non ci sono dati certi che dimostrino l’effettivo numero di insegnanti rimasti senza una graduatoria a cui fare riferimento, per cui «continua la nebulosa», aggiunge Corrado, amareggiato. «Credo sia irrispettoso far perdere un anno di vita alle persone. Soprattutto visto che aspettavamo il concorso da anni. Mi sono laureato nel 2016, questo è il primo che viene bandito da allora. Ho investito tanto nel preparami. La selezione è stata dura. E adesso, per una colpa che non ho, rimango in panchina a guardare». Secondo quanto raccontano gli insegnanti, sono diverse le ragioni della mancata pubblicazione delle graduatorie. In alcuni casi, come per chi ha partecipato al concorso in Lombardia per la classe AD24 - tedesco come seconda lingua comunitaria nella scuola secondaria di II grado - «le difficoltà sono state nella formazione della commissione: non si trovavano i docenti. Così le prove orali devono ancora iniziare, nonostante gli scritti si siano tenuti ad aprile», racconta uno dei malcapitati che preferisce rimanere anonimo. Per altri, il ritardo è causato dal grande numero di candidati da valutare sia per titoli, sia in base ai punteggi conseguiti durante le prove. C’è poi il gruppo dei riammessi che ha provocato altre lentezze. Si tratta di docenti che hanno avuto accesso all’orale solo dopo che è stato ricalcolato il loro punteggio, visto che il Ministero ha riconosciuto errori nei quesiti della prova scritta. Per altri ancora la motivazione è sconosciuta. Così è, ad esempio, per i docenti 31 luglio 2022
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Ritorno in classe
DOCENTI SUL PIEDE DI GUERRA IN SARDEGNA PER I RITARDI NELLA PUBBLICAZIONE DEGLI ELENCHI DEGLI IDONEI. STRADA SBARRATA ANCHE PER LE SUPPLENZE D’ORO della classe di concorso A11 - Lettere e latino - in Sardegna. «La classe non è stata oggetto di rivalutazione e le prove, scritte e orali, sono terminate circa un mese fa», lamentano gli aspiranti insegnanti. Che in una lettera a L’Espresso chiedono di conoscere il perché la graduatoria latiti. Non è stato di aiuto lo scambio di email con l’Ufficio scolastico regionale. L’ex provveditorato mette le mani avanti: «Nulla può essergli addebitato in relazione alle procedure concorsuali per le quali non si riuscirà a pubblicare la graduatoria di merito in tempo utile». Perché, come conferma anche il ministero dell’Istruzione, «il concorso e l’aggiornamento delle Gps sono due procedure del tutto indipendenti e non è prevista alcuna consequenzialità temporale dell’una rispetto all’altra». Ma l’inghippo resta. «Il fatto che alle commissioni non sia stato dato un termine per pubblicare gli elenchi dei docenti che hanno superato il concorso ordinario è parte del problema», ribatte Andrea Degiorgi, rappresentante dei Cobas scuola per la Sardegna: «Perché non c’è alcun raccordo tra le scadenze per le immissioni in ruolo, l’accesso alla prima fascia e la pubblicazione 80
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delle graduatorie di merito che ufficializzano chi ha superato il concorso. Questo ha generato ulteriore incoerenza in quanto in base alla regione e alla classe di concorso di appartenenza ci sono docenti che possono far valere l’abilitazione conseguita e altri no». Gli uffici scolastici regionali potrebbero aprire nuove finestre per il reclutamento degli insegnanti ma non c’è alcuna certezza che accada e la decisione avrebbe senso solo se le graduatorie venissero pubblicate entro la fine di agosto. Degiorgi cita un altro paradosso: mentre per la classe A11 mancano ancora le graduatorie a prove già terminate, per la classe A41 - Scienze e tecnologie informatiche - sono invece pubblicate. I docenti hanno potuto sciogliere le riserve per la prima fascia e potranno partecipare alle immissioni in ruolo 2022/23, sebbene chi è stato ammesso in ritardo all’orale, per via degli errori negli scritti, debba ancora svolgere la prova. «Come faranno a inserirli? È scontato che prendano un punteggio inferiore a quelli che nel frattempo saranno immessi in ruolo?», si chiede Degiorgi. Il problema discende dal fatto che non tutti coloro i quali hanno superato il concor-
Foto: L.Santini / Contrasto, M. Paolone / Agf
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so sono vincitori di cattedra. Alcuni, quelli con il punteggio più basso tra prove e titoli, risultano idonei ma non vincitori. E avendo comunque conseguito l’abilitazione all’insegnamento, potrebbero passare in prima fascia di supplenze. Ma, visto che alcune graduatorie non sono state pubblicate entro lo scorso 20 luglio, termine ultimo per sciogliere le riserve, resteranno un anno in più nella stessa situazione in cui erano prima di fare il concorso. «Aspettavo quest’occasione da tanto. Il concorso ordinario è stato bandito nel 2020, poi a causa del Covid-19 rimandato fino al 2022. Quando, all’improvviso, è iniziata una vera e propria corsa contro il tempo: ci hanno chiesto di mettere da parte gli impegni familiari e personali, le vacanze, la vita che ci siamo costruiti in questi due anni di attesa, perché l’obiettivo era di concludere le procedure entro l’anno. In modo da avere il nuovo personale in cattedra a settembre. E invece ancora non ci sono le graduatorie. Per me questo concorso era l’evento della vita», racconta Francesca Deleo che ha 45 anni e fa parte della classe A19 in Sicilia. «C’è stata disparità di trattamento tra i docenti che potranno entrare di ruolo per-
Lezione in presenza al liceo artistico Ripetta di Roma. A sinistra, Patrizio Bianchi, coordinatore del Comitato nazionale degli esperti del Ministero dell’Istruzione per il rilancio della scuola, dopo l’emergenza Covid-19
ché hanno avuto le graduatorie in tempo utile e quelli che le aspettano. Ma il problema è più profondo: per alcune classi di concorso non si conosce ancora il calendario degli orali», spiega Silvia Casali dei Cobas scuola di Bologna. «In Emilia-Romagna riguarda gruppi consistenti di insegnanti come quelli della A22: Italiano, storia, geografia, nella scuola secondaria di I grado. Questo fa sì che a settembre saranno i precari, come al solito, a dover coprire le mancate immissioni in ruolo. Il punto è che il bisogno di docenti nella scuola c’è ma manca un piano di reclutamento che tenga conto della realtà dei numeri, delle diverse situazioni da cui arrivano gli insegnanti e dei diritti dei lavoratori che hanno esperienza sul campo». Per Casali il concorso è partito male e sarà un flop in termini di assunzioni. Da un lato, il metodo scelto per la selezione, quello del test a crocette. «Errori a parte, viene da chiedersi se il sistema non obbedisca più all’obiettivo di falciare una parte dei concorrenti che di assumerli», sostiene Casali. Al 31 luglio 2020, termine ultimo per la presentazione delle domande, per 33 mila posti erano state presentate più di 430 mila domande. C’è poi una questione di merito. A ingrossare i numeri sono anche i docenti già abilitati e in corsa solo per la cattedra, «come nel caso del sostegno: ha partecipato chi aveva già superato il Tfa (il tirocinio formativo attivo, corso universitario finalizzato all’abilitazione all’insegnamento, ndr). Ogni volta sembra che si apra la possibilità di riabilitare la scuola che, invece, alla fine, resiste sempre grazie alle spalle dei precari». Perché, come aveva scritto sui social l’allora ministra dell’Istruzione Lucia Azzolina, nel 2020, il giorno in cui il Governo aveva trovato uno dei tanti accordi sulle modalità che avrebbero dovuto ridurre il precariato nella scuola, «le scelte che facciamo oggi avranno ripercussioni nei prossimi anni. Abbiamo 78 mila insegnanti da assumere nel primo e secondo ciclo fra concorsi ordinari e concorso straordinario. Fra gli aspiranti anche migliaia di giovani che si preparano da tempo e vogliono avere la loro occasione per cominciare ad insegnare. Sono numeri importanti e dobbiamo fare presto. La scuola ha bisogno di stabilità e programmazione. In passato tutto questo è mancato». E il futuro può ancora attendere. Q © RIPRODUZIONE RISERVATA
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Geopolitica del futuro
SPAZIO LA BATTAGLIA DEI LANCIATORI A LUGLIO IL DECOLLO DI VEGA C MA L’EUROPA VA A RILENTO. E SCONTA LO STOP RUSSO PER RITORSIONE ALLE MISSIONI SOYUZ DI EMILIO COZZI
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a strada che separa Caienna, il capoluogo della Guyana Francese, da Kourou, sede dello spazioporto europeo, è lunga una sessantina di chilometri. Percorrendola, sembra di attraversare la luna boscosa di Endor, che per chi non conoscesse Guerre stellari significa vedere stazioni radar e rampe di lancio far breccia attraverso la foresta pluviale. È da lì che lo scorso 13 luglio è decollato per la prima volta Vega C, il nuovo lanciatore spaziale della flotta europea. Realizzato in gran parte da Avio, nei suoi stabilimenti di Colleferro, due ore dopo il lancio, Vega C aveva qualificato le sue migliorie ri-
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spetto al predecessore Vega - la “C” significa Consolidation – e rilasciato in orbite diverse il satellite scientifico “Lares 2”, dell’Agenzia spaziale italiana, e sei cubesat realizzati da altrettante università europee. Un grande passo per l’Italia, ma forse un balzo troppo piccolo per l’Europa. Perché obbiettivi tecnico-scientifici a parte, è attraverso i lanciatori che si ha accesso alla partita dello spazio, quindi alla geopolitica del futuro prossimo. E nei primi otto mesi del 2022 Emilio Cozzi quello di Vega C è solo il seGiornalista condo lancio europeo; gli
Foto per gentile concessione di : S. Corvaja - ESA
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Stati Uniti ne hanno effettuati con successo 46, la Cina 24 e la Russia 10. «Il dominio aerospaziale è la frontiera sulla quale si sta già svolgendo e si svolgerà la competizione in ambito scientifico, economico e militare a livello globale», scriveva il Copasir (Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica) nella relazione sullo spazio pubblicata a inizio luglio. «Questo dominio vede costantemente crescere il suo ruolo nel contesto della tutela della difesa e della sicurezza delle Nazioni e il conflitto tra Russia e Ucraina ha dimostrato in maniera evidente quanto ciò sia vero». Vero lo è di certo: quello di Vega C è stato, nell’anno in corso, il primo lancio di un
Il nuovo razzo Vega C dell'Esa è decollato per il suo volo inaugurale il 13 luglio dallo spazioporto europeo nella Guyana francese
vettore europeo per programmi spaziali europei, se si esclude il decollo, lo scorso 10 febbraio, di un Soyuz russo con a bordo satelliti della compagnia anglo-indiana OneWeb. Soyuz, poi, subito bloccati dalla Russia, in risposta alle sanzioni occidentali per la guerra. Non una questione marginale, visto che nel 2021 il vettore della Federazione aveva coperto 13 dei 19 lanci di Arianespace, la compagnia francese che li commercializza, che gestisce il marketing di Vega C e che afferisce al colosso ArianeGroup (joint venture di Airbus e Safran). Ed è stato uno stop dalle conseguenze immediate: dal punto di vista delle missioni “istituzionali”, a pagarne il prezzo maggiore è stata “Galileo”, la costellazione satellitare europea di posizionamento globale, concorrente del Gps statunitense, del Glonass russo e del cinese BeiDou. Nel 2022, due Soyuz avrebbero dovuto portarne in orbita quattro satelliti di seconda generazione (i Galileo 29, 30, 31 e 32), ma così non sarà. Destino identico per il “Sentinel-1eC”, apparato del non meno strategico programma satellitare europeo di Osservazione della Terra chiamato “Copernicus”. Come i sette satelliti che già oggi ne compongono la costellazione, avrebbe dovuto volare su un Soyuz, ma sarà un Vega C a inizio 2023 a rimediare al forfait russo. In un lancio che rischia di essere il primo passo concreto verso l’indipendenza spaziale dalla Russia. Peccato che per l’altra missione europea orfana di Soyuz, la scientifica “Euclid”, la stazza del satellite escluda un volo riparatore con Vega C. A causa del rinvio al 2023 della nuova ammiraglia dei lanciatori europei, il vettore medio-pesante Ariane 6, se oggi si volesse lanciare “Euclid” sarebbe obbligatorio rivolgersi altrove, leggasi a SpaceX. Cioè alla concorrenza. «Non si può trascurare come in un ambito dalle spiccate caratteristiche duali (cioè con obbiettivi sia civili che militari, ndr), la presenza di attori privati possa imprimere un salto di qualità, ma anche determinare dinamiche da governare affinché gli Stati nazionali possano mantenere il controllo dei propri assetti strategici», concludeva il Copasir. «Se si vuole essere una potenza spaziale occorre libertà d’azione. Ciò che conta non sono i satelliti o i lanciatori, ma i dati per i cittadini. Per averne l’integrità è necessario controllare tutto il processo», replica 31 luglio 2022
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Geopolitica del futuro
Daniel Neuenschwander, direttore dei Sistemi di trasporto spaziale dell’Agenzia spaziale europea (Esa). Motivo per cui Vega C costituisce il primo tassello di una strategia che è previsto si completi con Ariane 6. Con lui Vega C ha in comune il primo stadio, il nuovo P120C a propulsione solida, che costituirà i booster laterali di Ariane. Il razzo di Avio è in grado di portare carichi, cosiddetti payload, fino a 2.300 chilogrammi in orbita terrestre bassa, contro i 1.500 di Vega. Promette di trasportare il 90 per cento dei satelliti del mercato delle orbite più prossime alla Terra, quelle fino a circa mille chilometri di altitudine. Parte sostanziale dei payload potrà essere lanciata sfruttando la capacità di portarne diversi in un singolo viaggio, grazie allo “Small spacecraft mission service”, un adattatore capace di alloggiare oltre 50 micro-satelliti alla volta e, quindi, di ridurre i costi. È un decremento possibile anche grazie a commesse “indirette”, come quella sottoscritta da ArianeGroup per la messa in orbita di 19 satelliti della costellazione Kuiper, di Amazon, per Internet a banda larga. Per soddisfarla serviranno gli Ariane 64, una configurazione che impiega quattro P120C alla volta. «Sono volumi importanti, che promuovendo una produzione in scala ridurranno i costi di ogni propulsore. Un vantaggio di cui beneficerà anche Vega C», conferma Giulio Ranzo, l’amministratore delegato di Avio, che prima del lancio inaugurale poteva già vantare nove spedizioni 84
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IL FORFAIT DELLA FEDERAZIONE HA COSTRETTO A RIVEDERE I PIANI PER I SATELLITI DI POSIZIONAMENTO GALILEO E PER IL PROGRAMMA COPERNICUS I laboratori di Avio Space e, a destra, Space rider, il sistema di trasporto spaziale europeo integrato, durante un atterraggio assistito con il paracadute
prenotate: «È significativo per un prodotto che non aveva mai volato». Occorre capire, però, se questo basterà per garantire all’Europa un ruolo importante nei trasporti extraterrestri. E non è un caso se a inizio luglio, a Palermo, l’Esa abbia radunato gli attori principali per parlarne. «Il trasporto spaziale sta subendo grandi cambiamenti, che impongono all’Europa una riflessione», spiega Giorgio Tumino, moderatore a Palermo e Chief technical advisor dell’Esa per il trasporto spaziale. «Da un lato abbiamo il conflitto russo-ucraino e soprattutto una competizione particolarmente forte, che riesce a effettuare tre lanci di successo in 37 ore, riutilizzando elementi che hanno volato ventuno giorni prima (sempre SpaceX, ndr), dall’altro il boom della new space economy rende l’accesso allo spazio uno strumento ancora più indispensabile. Per questo in Esa, con i 22 Stati membri, abbiamo considerato necessaria l’elaborazione di una visione condivisa del
Foto: S. D’Amadio - Buenavista, per gentile concessione di J. Huart - ESA, F.T. Koch - ESA, M. Hitij - GettyImages
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futuro del trasporto spaziale in Europa e sviluppato una roadmap che permetta di irrobustire la base tecnologica per rispondere alle sfide della propulsione a liquido, della riutilizzabilità, della modularità e della standardizzazione. Questo insieme ad aspetti altrettanto importanti come il ruolo delle agenzie e delle industrie negli sviluppi imminenti, la necessità di bilanciare la cooperazione e la competizione tra le aziende europee». Sulla strategia comune non mancano le perplessità. «Oggi in Europa si vuole che l’azienda privata sostituisca l’istituzione nel finanziare programmi spaziali, va bene, ma sempre che si garantisca il rientro degli investimenti. Non si può altrimenti chiedere di finanziare programmi costosissimi e per di più riferendosi alla crescita di un mercato, quello statunitense, che ci è inaccessibile», dice Morena Bernardini, vice presidente Strategia e innovazione di ArianeGroup. Quel che Bernardini evoca è il Buy American Act, che impone, agli Stati Uniti, lanci rigorosamente “made in Usa”. È una forma di protezionismo i cui dati sono inequivocabili: il dipartimento della Difesa americano ha commissionato 34 lanci entro il 2027. Secondo uno studio del Government accountability office, la sezione investigativa del Congresso che monitora anche le spese extra-atmosferiche, per lo sviluppo del progetto verranno spesi 6 miliardi di dollari. Il Gao menziona poi altri 191 lanci, per cui verranno stanziati 57 miliardi. Non è tutto: a
Elon Musk, patron di SpaceX. In alto, i lavori per l’allestimento di Ariane 6, della francese ArianeGroup
maggio la United States space force ha fatto il primo passo verso la realizzazione di una costellazione nazionale e assegnato tre contratti per realizzare 126 apparati orbitanti, 42 a testa fra Lockheed Martin, Northrop Grumman e York Space Systems, ai quali andranno, rispettivamente, 700, 682 e 382 milioni di dollari. «Basterebbe verificare la spartizione dei lanci per vedere che ad aggiudicarseli sono in due: SpaceX e United Launch Alliance (joint venture fra Lockheed Martin e Boeing, ndr)», incalza Bernardini. «Una potenza come gli Stati Uniti, che per il solo programma lunare “Artemis” spenderà 93 miliardi entro il 2025, concentra i propri investimenti su due compagnie. Noi rispondiamo ipotizzando decine di sistemi di lancio diversi. Non escludo il rischio di una lotta fratricida fra newcomer europei». Sono in effetti molte le startup che puntano al mercato presidiato da Arianespace: tre sono tedesche (Isaar Aerospace, Rocket Factory Augsburg e HyImpulse), due britanniche (Orbital Express Launch e Skyrora), diverse le spagnole; c’è chi, come la gallese B2Space e l’iberica Zero 2 Infinity, studia il lancio di razzi sollevati da palloni, o trasportati da jet. Non mancano le sperimentazioni, come quelle della rumena Arca Space, che, con finanziamenti europei, sta sviluppando un tristadio di cui il primo a vapore, o dell’italiana Sidereus Space Dynamics, del nemmeno trentenne Mattia Barbarossa. Rimane, poi, un altro punto cruciale: quando nel 2014 l’Esa decise di sviluppare Ariane 6, considerò troppo audace che fosse un sistema riutilizzabile, caratteristica poi rivelatasi vincente per i lanciatori Falcon 9 di SpaceX. Detto altrimenti, il prossimo Ariane sarà un’evoluzione, non una rivoluzione. «C’era un bivio e non abbiamo preso la strada giusta», ebbe a dire il ministro francese dell’Economia e delle finanze, Bruno Le Maire. È una questione richiamata anche da Neuenschwander: «Nel lungo periodo dovremo cambiare, ma oggi è più sano dare ossigeno al comparto. Non è facile, ma dobbiamo attraversare questa fase se vogliamo trasformare il settore per farci trovare in forma domani». Arduo prevedere cosa succederà. Di certo, qui dalla luna boscosa di Kourou, il panorama sembra proprio quello di Guerre stellari. Q © RIPRODUZIONE RISERVATA
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L’Eros in un racconto
Cabina 82 11 luglio 1982. La prima volta, nell’indimenticabile notte in cui l'Italia vinse i Mondiali. Un omaggio alle emozioni dei quindici anni, che inaugura una serie di storie dedicate agli amori. E all’estate di Viola Ardone illustrazione di Antonio Pronostico
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Idee
L’Eros in un racconto
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o conservato una foto di noi due, stampata su carta satinata e un po’ sbiadita: tu sei un principe in pescura beige con la bandiera tricolore sulle spalle che ti fa da mantello, io una aspirante Kim Basinger con la frangetta bionda, gli orecchini di stoffa colorata e le guance paffute dipinte di blu. 11 luglio dell’82: l’Italia stava per vincere i mondiali, noi eravamo ancora vergini e le foto si scattavano premendo l’indice su un cilindretto di metallo. - Ho sfilato le chiavi a mia madre, - mi dicesti facendomi oscillare sotto al naso il ciondolo a forma di stella marina. Mi tolsi i finti Ray-Ban presi su una bancarella di via Roma prima di partire e scossi la testa. - Nemmeno se segna Rossi? - Macchè. - E se segna Tardelli? - E che vuol dire? Tardelli è certo che segna. - E se invece segna Altobelli e ci portiamo a casa la coppa, ci vieni con me sulla spiaggia stanotte? Quella partita di quarant’anni fa cominciò alle 20, l’ora esatta in cui stasera mi sono infilata il mio vestito sabbia, mi sono guardata allo specchio e mi sono messa a piangere. Cinquanta minuti dopo, quando la finale dell’82 era ormai al termine del primo tempo, mi sono sciacquata il viso, aggiustata il trucco e ho tirato fuori dall’armadio l’abito rosso. Alle 21, mentre il signor Arnaldo César Coelho esattamente quarant’anni prima fischiava la ripresa del gioco, mi sono svestita di nuovo, ho appallottolato il vestito rosso e l’ho gettato sulla poltrona accanto alla finestra. Che stupida. Che stupida vecchia bambina mai cresciuta. Quaranta anni sono una vita, ci passano in mezzo matrimoni, figli, separazioni, malattie, dolori. Perché sto andando a questo appuntamento? Per una promessa fatta quarant’anni fa? O per la voglia di essere ancora quella, la ragazzina
Non ci riuscimmo. Perché il corpo è un territorio che si impara a decifrare con pazienza, e la mappa del piacere si decodifica con l’intelligenza degli anni 88
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con la permanente bionda e le lentiggini? E perché no, mi dico poi frugando nell’armadio, d’altra parte è stato lui a proporlo: qualsiasi cosa accada, qualsiasi cosa sarà successo nelle nostre vite, noi ci ritroveremo qui, davanti alla cabina 82 del villaggio vacanze Stella maris, nella stessa notte in cui l’Italia vinse i mondiali. La cabina era scomoda, buia e sapeva di salmastro, lui iniziò a fischiettare Anna e Marco, la nostra canzone, poi mi sfiorò le labbra, prima a fior di pelle e poi mettendoci la lingua, sentivo il sapore di MS morbide e Peroni scivolare dentro la mia bocca, le sue dita farmi il solletico sulla pelle abbrustolita, le stringhe del costume mi si arrotolavano sulle scapole e né io né lui riuscivamo a liberarle, sotto la lingua e tra le gengive scrocchiavano i granelli di sabbia che il sudore ci aveva attaccato addosso e l’eccitazione era una bocca spalancata nel-
Foto: B. Thomas Sports Photography via Getty Images, L. Cendamo - Getty Images
Idee
la carne che chiedeva solo di mordere e tenere e non finire più. Così provammo a fare l’amore per la prima volta la notte dell’11 luglio 1982, in piedi e al buio di una cabina che puzzava di vernice e di antiruggine. Mentre il resto dell’Italia celebrava in strada la coppa del mondo noi officiavamo di nascosto dal mondo la nostra iniziazione al sesso. E non ci riuscimmo. Non ci riuscimmo perché la prima volta non si riesce mai. Perché il corpo è un territorio sconosciuto che si impara a decifrare con pazienza, perché la mappa del piacere si decodifica via via con l’intelligenza degli anni, e le ragioni del desiderio ci mettono tempo per farsi valere. E poi perché ogni corpo ha una sua storia e una sua geografia che è necessario studiare a lungo e con passione, prima di poterla percorrere agilmente. Forse è che eravamo troppo giovani, che
Madrid, 11 luglio 1982, Marco Tardelli e Antonio Cabrini esultano per la vittoria dell’Italia sulla Germania, alla finale della Coppa del mondo. Sopra: l’autrice del racconto, la scrittrice Viola Ardone, 48 anni
nella cabina 82 c’era solo una panca, che io avevo uno spigolo conficcato nella natica destra, che le zanzare ci tormentavano le gambe, che nessuno dei due sapeva ancora bene che cosa fosse quella verginità né precisamente dove si trovasse. Tutto finì in fretta, ancora prima di capire da dove si dovesse cominciare. Ci rivestimmo goffamente e pieni di imbarazzo, come se all’improvviso vederci senza il costume fosse un’oscenità, Adamo ed Eva che dopo aver addentato il frutto proibito si scoprono nudi e provano vergogna. Serrò a chiave la cabina 82 e mi girò un braccio attorno al collo con esitazione, come se fino a pochi minuti prima quel mio corpo non fosse stato una porta schiusa al suo desiderio, come se non gli avessi appena concesso la mia “nuda proprietà”. - Che dici, Anna, ce lo facciamo un Calippo? - mi chiese ridendo. - Almeno quello, - sospirai e ce ne andammo al bar. “Anna come sono tante, Anna permalosa…”, riprese a canticchiare. Il freddo del ghiacciolo mi invadeva la bocca pizzicandomi la lingua. Forse era ancora quello il piacere intenso e innocente che cercavo a quell’età, non altri. Quarant’anni dopo, all’inizio del secondo tempo di quella partita storica, mi ritrovo nuda davanti allo specchio. Ecco quello che sono. Una donna di 55 anni, una donna di una certa età, come si diceva una volta. Ma di che età, precisamente? Sono di certo più grande dei miei genitori all’epoca della promessa che ci scambiammo io e Marco, e infinitamente più giovane di quanto potessero apparire mia madre e mia nonna quando erano mie coetanee. 31 luglio 2022
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L’Eros in un racconto Mi guardo: è una donna bella, quella che mi guarda dallo specchio, le rivolgo un sorriso e lei ricambia. Possiede, a questa età, una bellezza senza scuse e senza ipocrisie: il seno più abbondante, i fianchi larghi ma il ventre non troppo prominente, il sesso depilato, una albicocca maturata al sole di molte estati, i capelli più biondi di allora e meno ricci, gli occhi uguali, con qualche segno in più in direzione delle tempie. Indosso il mio corpo nudo come se fosse una divisa, la maglia della mia vittoria, quella che ho custodito nel tempo. La vita, per il resto, ci si è squagliata addosso, come un Calippo che non si è fatto in tempo a succhiare ed è già nient’altro che acqua colorata. Solo il corpo rimane, solo la carne ci tiene compagnia. In questa notte di quarant’anni fa l’arbitro soffia tre volte nel fischietto: Pertini esulta, canta Cabrini insieme a Bruno Conti, Antognoni solleva i pugni contro il cielo e la Germania si inabissa, beffata, negli spogliatoi. Infilo canotta bianca e pantaloncini sopra al costume ancora impregnato di sale dal bagno di stamattina, e mi avvio all’appuntamento, il vialetto che porta alle cabine è solitario, la staccionata è sbiadita, la notte silente. Mi siedo con le spalle poggiate alla cabina 82 a cercare una luna che l’anno della vittoria c’era e oggi non più. Ma mentre quella tornerà tra qualche giorno sempre uguale, seguendo il suo perenne ciclo di mesi e di stagioni, io invece no. Non torneranno i quindici anni, non tornerà l’amore eterno e nemmeno la cotta di un’estate, non tornerà la permanente né la frangetta liscia, gli zaini a strisce bianche e gialle o blu. Non torneranno la nazionale dell’82, il tempo delle mele, When I’m with you it’s paradise, superclassifica show e il Commodore 64. Poi un rumore dal fondo mi riporta qui, a
Sicilia, foto matrimoniali in spiaggia. A destra, dall’alto: una prospettiva di cabine a Sestri Levante; l’attrice Sophie Marceau nel film “Il tempo delle mele”
A questa età, è una bellezza senza scuse e senza ipocrisie. Indosso la mia nudità come se fosse la maglia della mia vittoria, che ho custodito nel tempo 90
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oggi. Abbasso gli occhi e scruto il fondo del vialetto, ti riconosco subito dal passo dondolante e dalla percussione ritmica degli zoccoli in legno sulle mattonelle. Mi prendi per mano e mi sollevi, mi poggi un bacio sulla fronte, poi mi sventoli davanti agli occhi la chiave della cabina 82, con la stella marina rossa. Sei sempre tu, uguale e diverso, nello stesso modo in cui lo sono io. L’interno è buio e umido come a quel tempo, la panca in legno è stata sostituita da una in metallo, scomoda uguale. - Grazie, - mi sussurri all’orecchio. - Grazie di cosa, - gli carezzo una guancia. - Di essere tornata qui. - Sono come la luna, - dico, e mi sento ridere come quella ragazza di quindici anni che sono stata e che mi osserva dal buco della serratura dei miei anni maturi. Vedi, non cambia niente, le spiego con pazienza, tutte le età felici si somigliano: il cuore batte forte mentre le mani stringono e carezzano, il corpo diventa docile per aderire all’altro. Il sesso, cara ragazza dell’82, è caldo e umido e odora di salsedine come questa vecchia cabina. Il resto è narrativa. I vestiti sono ammucchiati a terra sul pa-
Foto: F. Scianna - Magnum Photos / Contrasto, Webphoto, Getty Images
Idee
vimento sporco, Marco siede sulla panca, io sono a cavalcioni su di lui, gli cingo i fianchi con le cosce e, mentre punto le ginocchia contro la superficie in ferro e mi adeguo al suo ritmo, mi torna in mente di cosa odorava quel giorno la sua pelle: di latte e liquerizia. Poi non penso più a niente: né al tempo passato né a quello che verrà, né al corpo che piano piano se ne va per fatti suoi, né ai figli né al fisco né alle scadenze né ai soldi né a mio marito e neanche più a me. Nel sesso c’è un istante in cui ci si dimentica di sé. Si può tradire tutto per raggiungerlo. Poi, sarà lo spazio angusto, sarà il caldo afoso, la pelle che si appiccica, la posizione scomoda, dopo qualche minuto la presa di Marco si fa debole, lui smette di agitarsi sotto di me e mi affonda la fronte in mezzo ai seni, avverto il suo sudore che mi goccia addosso. - Scusami, è l’emozione, - dice staccandosi, e cerca nella penombra gli abiti, come Adamo dopo il morso alla mela. Mi sdraio sulla panca, esausta, il fresco del metallo mi ristora. - Vabbè, ci riproviamo a casa, con l’aria condizionata e le lenzuola pulite, poi ci fac-
ciamo anche due pomodori all’insalata? Ti va? – gli propongo. - Se i ragazzi non sono già tornati dalla disco, - risponde, e si rimette i boxer. “Marco grosse scarpe e poca carne, Marco cuore in allarme”, mi metto a cantare soprappensiero mentre mi infilo la maglietta e scuoto i capelli per liberarli dalla sabbia. Sgattaioliamo fuori dalla cabina, alzo gli occhi verso le stelle e mi sorprendo a trovarci anche la luna, libera finalmente dalle nuvole. - Però alla fine ci sei venuta, - mi sorride. - Me lo ricordi ogni anno, - gli mollo un buffetto sulla guancia ancora accaldata. - Era un modo carino per festeggiare il nostro anniversario. - Ce ne sono anche di meno scomodi. Ci avviamo sul vialetto in direzione del residence, lui ciabattando rumorosamente, io silenziosa. Poi all’improvviso si ferma e mi prende per mano. - Anna, ma che ne dici, prima di ritornare a casa ce lo facciamo un Calippo? – mi trascina verso il bar dei mondiali. La lingua mi pizzica di un nuovo desiderio di freschezza. - Eh, almeno quello! Q © RIPRODUZIONE RISERVATA
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Identità in movimento
Corpi CONTRO LA NORMA
Razzializzati. Trans. Migranti. E l’impatto della politica e della tecnologia su ciò che siamo. Il filosofo spagnolo spiega perché questi sono temi che riguardano tutti
colloquio con Paul B. Preciado di Simone Alliva illustrazione di Irene Rinaldi
È Paul B. Preciado, 51 anni, saggista e filosofo esperto di biopolitica e teoria queer
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voltando le spalle a uno dei più importanti esponenti di studi di genere e politiche sessuali che si vedono centinaia di persone in lacrime. Quando Paul B. Preciado termina la sua lectio magistralis dal titolo “Lettera allə nuovə attivistə”, in occasione dello Sherocco Festival di Ostuni, piangono tutti. «In un tempo in cui è facile indignarsi, commuoversi è la vera rivoluzione», dice Titti De Simone, attivista storica Lgbt, anche lei con gli occhi umidi mentre stringe la mano della sua compagna Francesca Vitucci. Preciado scava con le parole, affonda nelle radici della storia personale e universale di questo tempo. Parla alle nuove generazioni. E sembra non interessargli altro. Intervistarlo non è facile. Sfila ineffabile tra la folla che lo insegue come se fosse l’ultima rockstar, eppure non ha nulla del divo: si sorprende della bellezza intorno e delle storie piccole che la comunità Lgbt gli porge alla ricerca di
un consiglio. «Preciado, ma questa intervista?». «La faremo». Dopo tre giorni arriva la notizia: «Si è suicidato un altro ragazzo trans. Aveva 15 anni». Preciado si irrigidisce. La voce è ferma, gli occhi severi e così inizia questo nostro colloquio. «Intanto mi sembra importante parlare di “omicidi sociali” invece che di suicidi. Perché in molti casi il suicidio è la conseguenza di un insieme di violenza istituzionale e politica così opprimente che è impossibile sopravvivere. Ciò che è veramente problematico è che la riduzione
Foto: O.Kosinsky
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della transessualità attorno alla nozione di disforia fa pensare a molte persone che il suicidio sia la conclusione di un percorso di una persona non sana mentalmente. Praticamente se sei trans sei una persona con problemi mentali. Ma non è vero. Per me la disforia non è una condizione clinica, non è una patologia. La disforia risolve un sistema epistemico di violenza politica e istituzionale ed è per questo che uso la nozione di disforia. Come nel diciannovesimo secolo con “l’isteria”, che era una nozione con la quale la borghesia
vittoriana definiva quello che per loro era il problema delle donne, cioè il loro piacere, e quindi era un sistema di controllo del corpo femminile. Nel ventunesimo secolo c’è la disforia. Da quando sei bambino entri in un protocollo clinico, all’interno di tecnologie e tecniche riparative che impediscono la disforia. Ma ciò che è realmente disforico è il regime epistemico in cui viviamo, questo regime che è normativamente binario e che oltretutto è un regime piuttosto recente, risale al diciannovesimo secolo, non a tanto tempo fa. 31 luglio 2022
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Conosco bene la vostra solitudine Dalla “Lettera allΩ nuovΩ attivistΩ”, per Sherocco Festival, l’appello a non avere paura di Paul B. Preciado So da dove venite, perché non ho dimenticato da dove vengo. So che la vita non ci ha fatto regali. Anzi, ci ha tagliato le gambe e tarpato le ali. Non voglio affermare ingenuamente che in quasi tutti i Parlamenti non ci siano rappresentanti considerati democratici che ancora adesso desiderano e preparano la vostra morte. Per odio, per ignoranza, per stupidità. Penso a voi che crescete come bambinə e adolescenti non binariə in famiglie cattoliche, ebree o musulmane, conosco la vostra vergogna, la vostra paura. Penso a voi, ragazzə effeminatə che vivete in luoghi in cui lo sfoggio della conquista eterosessuale, la forza e la violenza sono obbligatori per quei corpi che sono stati marcati come maschili alla
Madrid Pride Parade 2022, manifestanti con bandiere non binarie. A destra: Avery Jackson a 9 anni, nella sua casa a Kansas City nel 2016, quando apparve sulla copertina del National Geographic come transgender
il corpo contemporaneo possa sopravvivere in una società come la nostra grazie a un insieme di tecnologie. E queste tecnologie possono essere: nominali. Il nome è una tecnologia. Il linguaggio è una tecnologia, non è naturale. Il nome non è naturale. Il mio nome Beatriz non era naturale e neanche il mio nome attuale Paul lo è. Sono entrambi finzioni politiche. La differenza è che uno è legittimato social-
Foto: A. Zarraoa - Getty Images, Kansas City Star / Getty Images
Ma da quel momento si è cristallizzato e si è naturalizzato, è stato imposto a ogni singolo corpo, quindi ciò che sta accadendo ora, quando le persone commettono suicidio è come fosse un crimine sociale: rimuovere quei corpi non conformi dalla società». C’è uno scontro culturale in corso. In Italia come in Inghilterra, in Francia, in Spagna. Femministe trans-escludenti (Terf) contro persone transgender. Su loro, dice Preciado, non bisogna sprecare energie: «Mi sembra che la questione sia non permettere al femminismo conservatore, essenzialista, transfobico di definire i termini del dibattito. Questo per me il punto più problematico. Una delle questioni più importanti è che le terf non riconoscono il soggetto trans come un soggetto politico con il quale poter dialogare, una posizione questa insostenibile. E se queste sono le basi, io posso dialogare con le femministe terf solo se loro mi riconoscono come soggetto politico, altrimenti non è possibile. Pretendono che tu entri in un dibattito dove i termini del discorso sono stati scelti da loro e questi termini sono quelli del patriarcato coloniale, dell’oppressione, dell’esclusione, termini fortemente essenzialisti. Quindi non è che nego la possibilità di dialogo con loro, anzi il contrario, però mi piacerebbe prima di tutto essere riconosciuto come soggetto politico, per poter discutere, e poi che si cambiasse metodologia per negoziarne un’altra insieme». Prosegue Preciado: «Sembra quasi che le femministe terf esistano in quanto movimento grazie a noi. Prima non esistevano come femministe, non le avevo mai viste, non si vede la loro pratica politica, non ce l’hanno una pratica da attiviste. Faccio un esempio: l’ultima volta che sono stato in Spagna il problema era che queste persone mi chiamavano con il mio nome femminile, mi definiscono “donna” ma mi chiamano anche “signore”. Entrare in dialogo con loro significa accettare una forma di violenza». È una questione di linguaggio, anche: «Servirebbe un dibattito che non parta dalle nozioni della tassonomia moderna: uomo/donna; femminile/maschile; eterosessuale. Un discorso che riflette su quali sono le tecnologie di produzione del corpo e come
Idee nascita. A voi che volete essere chiamati con altri nomi dai vostri genitori, dai vostri insegnanti o dal sistema di salute medica. A voi che aspettate mesi per poter avere acceso agli ormoni legalmente o anni per poter ottenere un cambio di identità di genere amministrativo e legale. A voi che provate a difendere i fiumi e i boschi, mentre vi confrontate con l’indifferenza, se non con il disprezzo, dei vostri adulti. A voi che comprate pillole del giorno dopo in internet senza sapere se quello che assumerete è realmente un farmaco abortivo o una dose di veleno. Penso anche a quellə che non sono presenti alle manifestazioni. Mi domando dove siete? in quale centro di prigionia, in quale clinica, in quale trincea, in quale solitudine, in quale clausura? quale silenzio state salvaguardando, quali parole non potete ancora dire? Penso a voi, feritə come siete, quasi rottə. E vi eleggo come miei unici antenati, allo stesso tempo come eredità e lascito, come la mia unica genealogia e come il mio
unico futuro. Il vostro destino non può essere più nebuloso di quello che sembrava essere il mio quando ero bambinə. E se io sono riuscitз a uscire da lì e debinarizzarmi, se io sono riuscitз a sopravvivere a quella violenza e sono riusciutə a vivere una vita diversa da quella che era stata tracciata per me, allora vi dico che anche i vostri sogni sono realizzabili. Non è mai tardi per accogliere l’ottimismo rivoluzionario dell’infanzia. Quando aveva 84 anni Günther Anders scrisse: “Ho sentito alla radio che tale statista tedesco aveva qualificato come infantili le centomila persone che manifestavano per la pace. Magari è un segno di infantilismo da parte mia se considero che tale affermazione dimostra che il suo autore ha superato l’età di qualsiasi passione per il bene, e per tanto è “adulto” nel senso più triste della parola. In ogni caso, ho continuato ad essere un bambino per tutta la mia vita, o meglio, non ho continuato ad essere un bambino all’occorrenza … (…) Ho continuato ad essere un infantile cronico. Come bambino di 80 anni, consegno questo libro ai miei molti amici che sono già sufficientemente maturi per unirsi alle fila dei bambinə”. Ma soprattutto ricordatevi che non siete solз. Esiste un panteon di santi e streghe femministe, queer e trans e, anche se sono stato maledetto dalla
“Parlare semplicemente di libertà oggi non basta più. Perché spesso libertà è un concetto che difende il vecchio regime patriarcale. Cosa diversa è la parola liberazione”
mente e politicamente e l’altro no. Loro credono, tuttavia, che esistono nomi che sono naturali, che ci sono organi naturali. Il dibattito attuale sull’aborto per esempio è fondamentale. Perché ovviamente l’aborto non è naturale, è una tecnologia politica». Lo scenario politico preoccupa, con la destra che avanza e i diritti che si restringono? «Dobbiamo capire che il discorso sulle persone trans non è marginale, non riguarda solo poche persone, penso sia cruciale invece e riguardi tutti nel cambiamento epistemico globale. Ciò che accade al corpo trans è esemplare di quello che accadrà al mondo e alla società nell’immediato futuro. Penso che ci siano tre corpi cruciali in questa rivoluzione: il corpo razzializzato, il corpo trans e il corpo migrante. E tutto quello che riguarda il dibattito sulla riproduzione deve essere inserito all’interno di questo contesto e non riguarda solo le donne, non è un dibattito solo femminile. Queste forze tentano di reimmettere nella società proprio quel regime patriarcale che ha caratte31 luglio 2022
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Identità in movimento
cultura in cui sono cresciuto e negato per anni dalla mia famiglia, mi sono sempre sentito protetto da loro. Non c’è quasi un sol giorno in cui i santi queer non si manifestino nelle nostre vite. Quella cattedrale di santi maledetti è più forte della cultura nazionale, più accogliente della famiglia biologica, più protettiva della chiesa, più ospitale della città nella quale siete natə. È questa genealogia di appestati che vi offro ora come contributo alla vostra lotta. Sono con voi. Dovunque io sia, potete venire. Vi tenderò la mano e vi abbraccerò. Se volete qualcosa di ciò che ho appreso dalle tradizioni di resistenza politica e dalla cultura dei dissidenti, ve la darò. Quella tradizione è anche la vostra. E anche quella cultura vi appartiene. L’ho conservata per voi. Se avrete fame, vi alimenterò. Se avete perso la speranza vi leggerò Leslie Feinberg. Se avrete bisogno di coraggio, ascolteremo le canzoni di Lydia Lunch. Se
cercherete gioia, vi porterò a vedere Annie Sprinkle e Beth Stephens. Vi darò tutto quello che sono, perché l’ho costruito per voi. Il mio corpo, il mio cuore, la mia amicizia. I miei organi vivi e protesici, se ne avrete bisogno, sono vostrə. Potete venire con le vostre ferite e con i vostri ricordi, anche con la vostra amnesia o con la vostra difficoltà a parlare. Vi accoglierò comunque. Non devo fare nessuno sforzo. Mi piace la disforia e la sua esaltazione contro la norma perché è ciò che conosco dall’infanzia. La disforia è cattiva. È la nostra miseria. È esigente. È dolorosa. Ci distrugge. Ci trasforma. Ma è anche la nostra verità. Bisogna imparare ad ascoltarla. È la nostra ricchezza, la disforia. L’intuizione che ci permette di sapere che cosa è quello che bisogna cambiare. Dalla vostra disforia vi riconoscerò. Non mi darete mai fastidio. Non ho nient’altro da fare. Così che possa, a partire proprio da adesso, seguirvi ovunque voi vogliate andare. Potete trascinarmi con voi nel tornado. Se venite a cercarmi vi riconoscerò. Q Traduzione di Valeria Stabile Le opere di Paul B. Preciado sono pubblicate in Italia da Fandango Libri. Il suo ultimo libro è “Sono un mostro che vi parla”.
rizzato il diciannovesimo e ventesimo secolo. Non è solo l’estrema destra a farlo. A volte a rappresentare questo regime sono i neoliberali, a volte sono alcune femministe. Queste forze reazionarie sono trasversali alla società». Il futuro è l’unico posto dove possiamo andare e questo interessa oggi a Preciado, nient’altro: «Voglio parlare con le nuove generazioni. Sono in contatto con un’as96
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A Londra, marcia di London Trans+ Pride il 9 luglio 2022, evento della comunità trans
sociazione di teenager trans e parlo con loro spesso. E loro si costituiscono proprio come soggetti politici in queste conversazioni. È meraviglioso. La maggior parte di loro ha 14 o 15 anni, cercano di convincere i genitori a fargli prendere gli ormoni, ma già pensano a cosa fare del loro potenziale riproduttivo. Quindi questi sono i discorsi che fanno e, ripeto, hanno 14 anni. Possiamo quindi renderci conto che siamo di fronte a un modo completamente nuovo di parlare di corpi, di fluidi, di ormoni, del modo in cui vogliamo presentare noi stessi. Non all’interno di un sistema binario, ma oltre questo sistema. E questo ci porta a un’estrema libertà di pensiero e di discussione». È il mondo nuovo, anche se non lo vediamo. «Ma è il mondo reale. Non è il mondo delle femministe Terf che non fanno altro che difendere i loro privilegi. E parlare di libertà non basta perché spesso è un concetto che difende il vecchio regime patriarcale. La libertà è differente dalla liberazione». Q © RIPRODUZIONE RISERVATA
Foto: M. Kerrison - In Pictures via Getty Images
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Protagonisti
I
l 19 luglio ha compiuto settant’anni Abel Ferrara, il regista più provocatorio, controverso e sorprendente di Hollywood, dichiaratamente allergico alle dinamiche dello star system e del cinema commerciale, più vicino all’arte cinematografica artigiana europea. Chi scrive ha avuto modo di intervistarlo più volte, riscontrandone la costante abitudine a dire la sua senza filtri, senza badare al politicamente corretto e senza tralasciare nemmeno un “fucking” come intercalare. A Siracusa, all’Ortigia Film Festival, oltre a presentare il documentario “Alive in France” sul tour francese con la sua rock band Statale 66, ha riproiettato il suo film “Pasolini”, come omaggio al centenario del grande intellettuale. Partiamo da Pasolini: perché secondo lei è ancora tanto attuale? «Per la sua intelligenza. Per il modo in cui ha saputo esprimere se stesso, per gli scritti che ha lasciato, dai romanzi alle poesie, dagli articoli ai film. Intellettuali e artisti come lui vivono per sempre. Ogni volta che mi chiedono: «Perché proprio Pasolini?», io rispondo: «Perché no?». Da regista non c’è nulla di più interessante di un uomo e di uno scrittore come lui». Ha detto più volte che il suo film è soprattutto un atto di amore. «Sono un grande estimatore di Pasolini da sempre, da quando ero ragazzo: lo leggo e studio da 50 anni, lo considero il mio maestro e invidio i giovani che iniziano a studiarlo e non sanno che stanno per scoprire oro e diamanti». Pasolini scrisse «Odio il potere» e parlava dei politici come delle «maschere comiche». «Odiava soprattutto l’oppressione conseguente al potere. La divisione tra padroni e schiavi che il potere determina. E aveva ragione, è così che il mondo si configura, basti guardare che cosa sta capitando oggi: siamo a un passo dall’olocausto nucleare e sull’orlo di una nuova guerra mondiale. Non sono anni poi così diversi da quelli in cui scriveva Pasolini, anche quelli tempi di Olocausto e di guerra mondiale». Scrisse anche che l’Italia era un Paese «ridicolo». Concorda?
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TUTTI INVITATI ALLA
festa del secolo Sarà a Venezia, per l’anteprima del suo atteso film su Padre Pio. “La spiritualità è ciò che conta di più”, dice il regista. Che punta lo sguardo su Ucraina e “fucking” States colloquio con Abel Ferrara di Claudia Catalli
Una scena di “Pasolini” con Willem Dafoe
«Non mi sento di dare giudizi politici su un Paese di cui sono ospite, non parlo neanche la vostra lingua, posso però dirle ciò che penso sul Paese in cui sono nato e cresciuto, i fucking States». Vuole partire dal rovesciamento della sentenza che garantiva l’aborto a livello federale? «Personalmente non sono a favore dell’aborto, ma sono convinto che ogni donna debba avere la libertà di decidere liberamente sul proprio corpo. Invece questi sei tizi della Corte suprema hanno deciso diversamente, in nome della
loro religione: senza parole». Poco fa parlava di minaccia nucleare e di terza guerra mondiale... «Mi ha molto colpito quanto accaduto in Ucraina. In America sono convinti tutti che la guerra sia l’unica opzione possibile, nessuno sta parlando veramente di pace. A parte Papa Francesco e il Dalai Lama. Mi sorprende che nessun governo si mostri concretamente interessato alla pace, ma solo a prendere le parti dell’uno o dell’altro». E da che cosa deriva? «Dal vuoto di compassione e di spiritualità. Non so spiegarmelo bene, come tuttora non mi spiego l’Olocausto, come mai il passato non ci ha insegnato niente e siamo vicinissimi a una minaccia nucleare». La spaventa? «Di certo non lo trovo «cool». Ma ho 70 anni ormai, ho girato tutto il mondo e parlato con moltissima gente, sono pochissime le persone che pensano davvero a uccidere l’altro, la maggior parte della gente non è così guerrafondaia». Un bilancio di questi 70 anni? «Sono grato alla vita e grato per essere
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Foto: A. Guerrucci, Webphoto
Il regista Abel Ferrara, 70 anni
vivo, sobrio – non scherzo – e di vivere a Roma, che mi ispira ogni giorno». New York non le manca? «Appena mi manca ci torno, ma preferisco Roma. L’ho vissuta anche nel lockdown, ho girato “Zeros and Ones”. Fortunatamente dalla pandemia sono uscito indenne, grazie ai tre vaccini fatti». Come ha impattato la pandemia sulla sua vita? «Nessuno se lo aspettava, nessuno sapeva cosa fare, è stato un incubo. Ed è diventato una realtà che può sempre verificarsi. L’idea che qualche criminale
si metta a fabbricare un virus capace di annientare il mondo fa schifo, ma dobbiamo conviverci. Non mi riferisco solo alla Cina, da cui il virus è partito, ogni Paese sta sviluppando armi biologiche e batteriologiche. Il problema sta nel fatto che le realizzino: una volta realizzata ogni arma è utilizzabile. Compresa quella nucleare. La realtà che viviamo non è bella, anzi è molto preoccupante, ma dobbiamo guardarla dritto negli occhi, non voltarci dall’altra parte e far finta che non esista». Qual è il suo rimedio contro le preoc-
cupazioni? «Ogni tanto ripenso a ciò che diceva John Kennedy: non chiederti cosa il tuo Paese può fare per te, chiediti cosa puoi fare tu per il tuo Paese. Tolto il lato nazionalistico del messaggio, è qualcosa che abbiamo appreso anche dalle religioni, da Cristo, da Buddha. La nostra responsabilità è avere compassione dell’altro: cura e amore sono le uniche cose che contano, le sole che portano a una vita vera. Oggi alla spiritualità dedico ogni mio respiro». A proposito, a che punto è il suo film su Padre Pio con Shia LaBeouf? «È pronto, il "capo" dei cappuccini in Italia ha detto che è un capolavoro. Lo porterò alle Giornate degli Autori a Venezia, sarà proiettato in anteprima il 2 settembre alle 17, lo scriva per favore, me lo prometta. Ci tengo che vengano tutti a vederlo. Porterò la mia band a Venezia e suoneremo gratis per tutti in quella che sarà la festa del secolo». Dirigere LaBeouf è difficile come molti dicono? «Macché, è bravissimo e guai a chi me lo tocca, è il mio ragazzo. Nel film dà una grande prova di attore». Ha una rara capacità a scegliere gli attori giusti per i suoi film, penso a Willem Dafoe per “Pasolini”. «La verità è che io non scelgo nessuno, il cinema si fa in squadra. Con la produzione, il team creativo, la troupe... Per questo mi è sempre piaciuto, e ancora oggi mi fa felice, questo lavoro». Specie in Italia. «È casa. Vivere a Roma è un miracolo per gli occhi. Sono cresciuto nel Bronx, dove negli anni Cinquanta la lingua era il napoletano, oggi sono abituato a capire il romano, ma ancora non lo parlo. Amo l’attenzione che date all’arte, al cinema. In America ho dovuto lottare per fare capire cosa significhi essere un artista, in Europa avete una tradizione di cineasti solida. In Italia mi chiamano “maestro” per i film che ho fatto, negli States di un regista contano solo i soldi incassati al botteghino. Dopo il film su Padre Pio che farà? «Andrò in Ucraina per vedere cosa sta Q accadendo e lo racconterò». ©RIPRODUZIONE RISERVATA
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Musica
CANTO E SUONO LO
sbrong P
ippo Baudo, Garibaldi e Goethe/ Sciascia, Pirandello e Camilleri/ Sono passati terremoti e frane/ I poveretti c’hanno i macchinoni/ Le facce dei politici ruffiani/ L’abusivismo, i vincoli e i condoni». È diventato un inno la canzone “92100”, che si intitola come il codice postale di Agrigento. La città di Lello Analfino, 49 anni, il cantautore irriverente e guascone che insieme alla sua band, i Tinturia (che in dialetto vuol dire “monelleria” o anche “pigrizia”), da metà anni Novanta porta in giro per l’Italia un genere musicale che lui definisce “sbrong”: un mix tra pop, rock, ska, rap, reggae e folk. Sei album e tanti concerti, molti dei quali fuori dai confini della Sicilia. La canzone “92100” è la sintesi efficace di questa terra dei paradossi, che condensa come nessun’altra sublime e osceno, onestà e illegalità, coraggio e criminalità. «Devo molto ai siciliani: mi hanno esportato come un prodotto regionale», ironizza Analfino da casa sua a Palermo, su Zoom, barba brizzolata e sorriso sincero. Tra i conterranei affascinati dal suo talento due non passano inosservati: Salvo Ficarra e Valentino Picone. «Il loro primo film, “Nati stanchi”, l’hanno scritto ispirandosi alle mie canzoni. Questo mi salda a loro in maniera irreversibile», sottolinea il cantautore, che ha composto anche il brano “Cocciu d’amuri” per il film “Andiamo a quel pa-
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Irriverente e guascone, il cantautore siciliano, leader dei Tinturia, ha inventato un genere tra pop, rock, ska, rap, reggae e folk. “Ma ora voglio uscire dalla mia comfort zone” colloquio con Lello Analfino di Emanuele Coen ese” del duo comico, grande successo di qualche anno fa. Un sodalizio di lunga data: prima di questa intervista Lello e Salvo hanno trascorso la domenica sotto lo stesso ombrellone sulla spiaggia di Mondello, in una pausa delle riprese della seconda stagione di “Incastrati”, la serie tv Netflix firmata Ficarra e Picone. «Non sono mai cambiati: li ho conosciuti quando andavano nei locali per centomila lire a serata. Oggi, che sono quello che sono, restano identici. Avrebbero potuto trasferirsi altrove, invece sono rimasti in Sicilia e hanno fatto crescere qui i loro figli, con tutti i problemi che possono avere i nostri ragazzi», prosegue Analfino. Anche lui ha trascorso l’infanzia e l’adolescenza ad Agrigento, prima di spostarsi a Palermo per frequentare
la facoltà di Architettura, laureandosi nel 2004. La madre Giugia, vezzeggiativo di Gerlanda, gli ripeteva: «Chi ha fari cu ‘sta musica?», preoccupata per l’incerto futuro artistico del figlio. «Ero molto pigro, mi piaceva fare casino e la mia grande passione, unica e grande, era ed è la musica», continua il cantautore, che prima si definisce autodidatta e poi ammette che il suo primo maestro di pianoforte fu Franco Finestrella, l’autore della canzone “Nicuzza Duci”, caposaldo della musica folk siciliana. «A mia madre il maestro disse: “Non è cosa di studiare musica, lei perde tempo”. E aveva ragione perché la musica non volevo studiarla ma la volevo fare», continua Analfino. Ironia della sorte, diversi anni dopo il cantautore ha interpretato “Nicuzza Duci” in
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Foto: Courtesy F. Florio
Il cantautore Lello Analfino, 49 anni
uno show su Canale 5, facendola uscire dai circuiti folk. Se vuoi fare il cantautore non è facile vivere nella provincia siciliana, oggi come ieri. E la gavetta rischia di allungarsi a dismisura. «Come diceva Pirandello, Agrigento è una città bellissima piena di difetti, isolata dal resto del mondo», afferma Analfino: «Questo ha influito anche sulla mia carriera: quando ho cominciato con i Tinturia partivamo in sei, in treno, per suonare a Firenze, Roma, Benevento. Per arrivare a Milano servivano ventiquattr’ore, nove solo per raggiungere Messina. Non era un viaggio ma un’epopea. Oggi purtroppo non è così diverso». Malgrado tutto, però, Agrigento e la Sicilia continuano a sfornare talenti. «Quando qualcuno chiedeva ad Andrea Camilleri: “Come
mai in una provincia così povera ci sono così tanti scrittori?”, lui rispondeva con il suo vocione: “Perché scrivere non costa niente”. Qui sono nati Camilleri, Sciascia e Pirandello ma abbiamo sempre un problema con le case abusive e i condoni», aggiunge Analfino, che porta la sua testimonianza personale: «Sono figlio di un imprenditore: mio padre, negli anni Settanta-Ottanta, costruì due palazzi abusivi ad Agrigento. Invece di arrestarlo lo fecero condonare. Scendevano in Sicilia Spadolini o Andreotti e venivano a battere cassa. “Avete costruito in maniera irregolare? E allora condonate”, dicevano. Se avessero arrestato mio padre dopo il primo palazzo abusivo, non credo che ne avrebbe costruito un secondo. C’è stata una mano politica leggera, che
ha lasciato fare». L’intreccio tra politica e criminalità organizzata segna il destino di questa regione. A trent’anni dalle stragi di Capaci e di via d’Amelio quanto è forte la cultura mafiosa in Sicilia? «È straforte. Bisogna spingere sulle nuove generazioni, attratte da artisti che inneggiano alle mafie, a una vita fatta di soldi e belle donne. Non si tratta solo dei cantanti neomelodici, ma è un fenomeno che trova terreno fertile in quell’ambiente. Quando ero piccolo i miei amici, figli di avvocato e notaio, non ascoltavano la musica neomelodica. Oggi i figli della stessa classe sociale ascoltano quella musica. La cultura mafiosa è innanzitutto il disamore per la terra che ci ospita, il mafioso ama solo i soldi e il potere. Non finisco mai un concerto senza ricordare che, finché Matteo Messina Denaro non verrà assicurato alla giustizia, avremo un gap da colmare nei confronti dei territori più civili». L’impegno continua, ma Analfino alla soglia dei cinquant’anni ha deciso di cambiare rotta con la sua musica. Di recente è uscito “Mi fai stare bene”, il singolo che anticipa il nuovo album da solista senza i Tinturia, dal titolo emblematico “Punto e a capo”, in uscita il 9 settembre. I suoni elettronici e la scelta dei testi in italiano segnano l’approdo al pop. «Non voglio svincolarmi dalla cultura siciliana ma uscire dalla mia comfort zone. Sono abituato alla gente che mi applaude perché mi conosce. Non mi basta più, voglio tornare a suonare in un pub con trenta persone. O la va o la spacca», aggiunge. Con il passaggio alla maturità anche i sentimenti cambiano. Cos’è l’amore a cinquant’anni? «È la consapevolezza di aver vissuto una vita dissoluta, fatta di ubriacature, di droghe anche se leggere, di nottate. E rendersi conto che la vita si trasforma. L’amore non è guardare e bramare ogni donna, ma meritare ogni giorno quella che ami, che hai capito che ti ama. Come dice Piero Pelù: “L’amore è il mio corpo Q che cambia”». © RIPRODUZIONE RISERVATA
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Bookmarks/i libri A cura di Sabina Minardi
L’ULTIMO TRASLOCO Cosa salvare, se la tua casa sta per inabissarsi? Risponde Lorenza Pieri
LAURA PUGNO Solastalgia. Una parola nuova, variante dell’ecoansia di uomini e donne di oggi, che per l’Enciclopedia Treccani descrive l’angoscia che affligge chi ha subito una tragedia ambientale a causa dell’intervento umano sulla natura. Se la nostalgia è il dolore del ritorno, la solastalgia è la nostalgia del conforto. Per Glenn Albrecht dell’Università di Newcastle in Australia, che ha creato il termine pensando agli abitanti dell’isola di Nauru devastata dall’industria estrattiva, la solastalgia è nostalgia di casa che si prova quando si è ancora a casa. Sintesi perfetta dei sentimenti dei protagonisti di “Erosione”, nuovo romanzo di Lorenza Pieri in uscita per E/O in contemporanea al ritorno della scrittrice in Italia dopo quasi dieci anni negli USA. Da tre confliggenti punti di vista, “Erosione” è il minuzioso racconto dell’ultima giornata nella villa di famiglia, sull’immenso estuario della Chesapeake Bay, dei fratelli Amenta, Bruno Anna e Geoff, italoamericani di terza generazione. In un antico rito familiare ognuno di loro riempie una scatola di ricordi, prima di abbandonare per sempre il luogo dei sogni
dell’infanzia, destinato ad essere venduto a improbabili compratori, poi a finire preda dell’innalzamento del mare che rende ormai estreme le inondazioni in quel tratto di costa atlantica. Eppure, la responsabilità generale sub specie climatica non esime qui dalla scelta personale, che sia fallimento scarto di lato o salvezza. Se casa Amenta, secondo la spiritualità un po’ new age di Anna, ha iniziato a sprofondare alla morte del nonno Joe, creatore di una fortuna che nessuno dei tre fratelli, neanche l’avvocato di successo Bruno, è riuscito a eguagliare, ancora per qualche tempo sembra invece sopravvivere alle acque intoccata la dimora dei vicini Goodman, ricchissimi dalla nascita, e come tutti i privilegiati anche in grado di concedersi, etimologicamente, bellezza e bontà. Chi si salverà da quale catastrofe, e per quali risorse personali o ragioni di classe, è la domanda che il libro lascia aperta. Q © RIPRODUZIONE RISERVATA
“EROSIONE” Lorenza Pieri E/O, pp. 156, € 15
Da un giornalista esperto di destra estrema e criminale, una storia che intreccia extraterrestri, camicie nere, rivolte sociali di oggi e un segreto ben conservato per decenni. Almeno fino a quando un cronista consumato non lo scoperchia, svelando la storia di un oggetto volante che nel 1933, in piena dittatura fascista, precipita sulla Capitale. A lui il compito di dimostrare che qualche alieno, sopravvissuto allo schianto, si aggira ancora tra di noi.
Un’elegante villa liberty affacciata sul mare toscano fa da scenario dell’ultima notte dell’anno. Dentro si muove una girandola di personaggi, dai padroni di casa ai loro ospiti, che in una polifonia di riusciti caratteri si avvia, scandita da un vero countdown, verso l’esplosivo finale. Tra segreti e aspettative, tic, segreti ed espressioni di italianità. Mentre una voce graffiante e impietosa osserva, registra. E divertita sorride.
L’aristocratica Aleksandra Kollontaj, protagonista della Rivoluzione bolscevica. Nadezda Krupskaja, moglie di Lenin e pedagogista. Inessa Armand, collaboratrice di Lenin. Ljudmila Pavlicenko, cecchina antinazista. La partigiana e scienziata Elena Lagadinova. Cinque ritratti di rivoluzionarie socialiste, attiviste vissute a cavallo tra Ottocento e Novecento, per una storia del movimento femminista alternativa a narrazioni più note.
“GLI SCAMPATI” Mario Caprara Bordeaux, pp. 223, € 16
“L’ANNO CAPOVOLTO” Simone Innocenti Blu Atlantide, pp. 181, € 16,50
“VALCHIRIE ROSSE” Kristen R. Ghodsee Donzelli editore, pp. 193, € 28 31 luglio 2022
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L’informazione nero su bianco LA REDAZIONE A ROMA
Black Post, il sito web dei nuovi italiani “Il futuro è l’Africa” Sul giornale online i migranti di prima e seconda generazione raccontano storie, commentano l’attualità, si sfogano. E lottano contro il razzismo di Alessandro
B
angaly Fode Kante era uno studente di 19 anni quando la morte di suo padre, nel 2009, gli scaricò addosso le responsabilità del capofamiglia. Dal Mali, il suo Paese, si trasferì in Gambia per gestire la fabbrica che aveva ereditato ma la crisi economica lo costrinse a chiudere. Qualche anno dopo, nel 2012, il colpo di Stato dei ribelli inaugurò il periodo di instabilità in Mali, che dura ancora oggi. Fu allora che iniziò il suo viaggio verso l’Europa, alla ricerca di un nuovo inizio. Attraversò il deserto a piedi, si nascose in un camion che trasportava cammelli e arrivò in Libia, da dove salpò in gommone verso l’Italia. Oggi Kante è mediatore linguistico e culturale nei centri di accoglienza e tribunali di Roma, dove aiuta persone che hanno vissuto esperienze simili alla sua. È un ragazzo timido, che lascia intravedere la sua parte più intima nella poesia. La prima che ha scritto si intitola “Me orfano”, concepita in un periodo in cui si sentiva “abbandonato”. «Mia nonna mi ha sempre detto che essere orfano non vuol dire perdere i propri genitori ma vivere con i propri dolori», dice. Parte dei suoi componimenti si trovano sul Black Post, sito web amministrato interamente da migranti di prima e seconda generazione. Il suo slogan è “l’informazione nero su bianco”, un’espressione che di solito indica chiarezza, precisione, ma che in
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Leone
questo caso implica un ribaltamento di prospettiva: i migranti non sono più oggetto dell’informazione, sono soggetti attivi. Raccontano storie, commentano l’attualità, si sfogano come su un diario e lottano contro xenofobia e razzismo. «Vedo questa opportunità come un modo bello e semplice per poter allacciare le due sfere, gli italiani con gli stranieri. Noi quando scriviamo ci poniamo come stranieri, anche se in realtà io mi sento italiana a tutti gli effetti, però quando scrivo mi sento una straniera che parla a un italiano e gli tende la mano», afferma Rose Ndoli, camerunense, 37 anni, in Italia dal 1999. L’idea risale al 2018, quando Matteo Salvini era ancora ministro dell’Interno e la Lega volava nei sondaggi come primo partito. Il contrasto all’immigrazione occupava grande spazio nell’agenda politica e rappresentava uno dei punti nevralgici del programma leghista. Quando Salvini arrivò al governo mantenne le sue promesse e varò i discussi decreti sulla sicurezza e l’immigrazione, che introdussero le multe alle ong e indurirono l’accoglienza e il trattamento dei rifugiati arrivati dopo la traversata nel Mediterraneo. «Salvini ha impedito a queste persone di studiare, lavorare, andare in centro. Quotidianamente mi ritrovavo persone che mi dicevano di voler lavorare o imparare l’italiano. Questo è quello che cerca di fare una parte della politica. Ti fa vede-
re lo straniero appena arrivato con il telefonino che non fa niente mentre tu ti spacchi la schiena. Ma devi capire cosa c’è dietro», sottolinea Bruna Kola Mece, redattrice italo-albanese, 29 anni, che lavora nell’accoglienza e nel supporto ai migranti. In questo clima di crescente scontro nell’opinione pubblica, Luca De Simoni, uno studente di 28 anni, chiese aiuto a Sandro Medici, ex direttore del Manifesto e già presidente del X Municipio di Roma nella prima decade del 2000.
Storie
Nella foto di gruppo: la redazione di Black Post
«All’inizio, quando andai da Sandro a illustrargli l’idea, il nome che avevo proposto era L’Uomo Nero. Sai, la favola. Una minaccia costruita su una favola, sulla narrazione che veniva fatta da Salvini», racconta De Simoni: «Gli ho detto che con questo titolo non sarebbe andato da nessuna parte. Era molto provocatorio», gli rispose Medici. L’obiettivo era cercare i futuri redattori del Black Post e il modo più veloce ed efficiente per farlo sembrava quello di presentarsi ad alcuni degli eventi
delle comunità africane di Roma: «Mi ricordo la diffidenza. Andavamo con Luca, biondo con gli occhi azzurri, in posti dove c’erano solo persone di colore, ci guardavano diffidenti», dice Medici. Oggi non ha nessun ruolo nel progetto: «Va avanti da solo. È giusto che sia così, ha un senso se se ne occupano loro». Nel Black Post non esiste una linea editoriale. Tutti scrivono su ciò che vogliono, in totale libertà. Neanche si definisce propriamente un “sito gior-
nalistico”, perché riunisce varie forme di comunicazione. Kola Mece, per esempio, commenta l’attualità del Medio Oriente, mentre Ndoli si lascia guidare dalle riflessioni scaturite da una parola o da un evento che ha vissuto. Nel 2019, sei di loro hanno messo per iscritto le loro vite nel libro “Mig generation, la banda del Black Post si racconta”, con la prefazione di David Sassoli, ex presidente del Parlamento Europeo recentemente scomparso. Nell’introduzione si legge: «Li 31 luglio 2022
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L’informazione nero su bianco guardiamo ma non li vediamo e se li vediamo non li guardiamo. Però c’è chi li accetta e li raccoglie». IL RAZZISMO IN ITALIA Ndoli lavora in un asilo, dove i bambini ancora non sanno cosa sia il razzismo. Un giorno, fuori dalla scuola un alunno chiese a suo nonno di aspettare un momento: prima di andarsene doveva salutare un amico. «Chi è?», gli disse il nonno. «Quel bambino con la maglia rossa», gli rispose il nipote. «Quello nero?». «Si chiama Andrea». «Ah, sì, perché è tuo amico? È nero!». «È un’altra generazione», dice Ndoli: «Però ora ci siamo noi e dovremmo abbattere quella barriera. Perché un bimbo non vede il razzismo? Da dove arriva? Dalle persone che gli stanno accanto. Ai bimbi interessa solo l’affetto, la carezza, lo sguardo». Ne sa qualcosa anche Amro Mahmud, 28 anni, che scrive poesie come Kante. Vive nel quartiere Appio-Tuscolano, Roma sud, lo stesso del centro sociale Spartaco, dove la redazione del Black Post si riunisce. È nato in Italia da genitori egiziani, per questo parla italiano con accento romano e si definisce “un arabo degli anni Ottanta”. «Da bambino a scuola ero Amro l’egiziano, perché non parlavo italiano. E quando poi scendevo giù in Egitto l’estate ero l’italiano perché magari avevo un modo di fare e vestire diversi. Crescendo uno capisce che non è una mancanza ma una ricchezza. Non è facile, non so se mi sento ancora in grado. A volte prevale Amro l’italiano, a volte l’egiziano. Io non so in che lingua penso o sogno», afferma. Il Black Post trascende le frontiere del giornalismo per diventare uno spazio di condivisione di queste esperienze. Nel 2020, la Germania ha ricevuto 100mila richieste d’asilo in più dell’Italia, quinta dopo Spagna, Francia e Grecia, secondo i dati Eurostat. Durante il periodo Salvini la percezione del fenomeno si fece ancora più grave: uno studio dell’Istituto Cattaneo sosteneva che per il 70 per cento degli italiani i migranti nel Paese fossero il quadruplo di quelli effettivamente presenti. 106
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Bangaly Fode Kante
Bruna Kola Mece
A luglio dell’anno scorso, la redazione si è spinta oltre aprendo una petizione online con il brand Lush per una riforma della legge sulla cittadinanza, che ha appena compiuto 30 anni. Si chiama #Italianiveri e ha ottenuto quasi 18mila firme. In Italia uno straniero può richiedere la cittadinanza dopo 10 anni se dispone di una soglia di reddito, mentre una persona nata nel Paese deve aspettare fino ai 18 anni. Qualsiasi problema rischia di allungare di molto il processo. Oggi i cittadini stranieri sono cinque milioni: nel 1992, quando la legge è stata concepita, erano 300mila. Kola Mece è nata in Albania nel
1992, però vive in Italia dall’anno seguente. Ha aspettato con pazienza fino ai 18 anni per richiedere la cittadinanza, ma l’ha ottenuta solo a 24. «A volte puoi sbagliare un documento, oppure non hai la residenza continuativa. Avevo il permesso di soggiorno congiunto a quello di mia madre, quindi ho cominciato a richiederla a 18 anni. C’è voluto tempo e questo tempo fa la differenza per i concorsi, per i viaggi. Non puoi fare tante cose. È una negazione», pensa. Quando è diventata finalmente italiana si è candidata alle regionali del 2018 in Lombardia: «L’esercizio del tuo potere politico fa tan-
Storie
Qui sopra: Soumaila Diawara. A destra: Rose Ndoli
Nel centro sociale Spartaco, a Roma, dove si riunisce la redazione di Black Post
to. Per me è stata una sofferenza non poter votare in Italia, non poter decidere. Puoi muovere le cose e la cittadinanza ti dà questo diritto. A volte gli italiani non se ne rendono conto e questo mi fa ancora più rabbia». Per Marcelha Magalhaes, invece, prendere la cittadinanza era una questione di necessità. Arrivata dal Brasile per studiare, si è sposata con un italiano e ora lavora all’ambasciata del suo Paese d’origine. Quando ha divorziato, l’avvocato le aveva fatto intendere che chiedere la custodia di sua figlia con la cittadinanza italiana sarebbe stato più facile: «Il mio ex marito ha chiesto la
revoca del passaporto della bambina, perché secondo lui potevo portarla via. Il giudice gli ha detto no». MIGRANTI PER NECESSITÀ Il viaggio di Soumaila Diawara verso l’Italia fu molto lungo. In Mali era militante politico del partito di estrema sinistra Sadi e fu accusato ingiustamente di aver partecipato al tentato omicidio del presidente ad interim Diocounda Traoré nel 2012. Fuggì verso l’Algeria, un paese terrorizzato dal pericolo dell’Ebola, dove riuscì a racimolare una somma sufficiente per proseguire. In Libia, che definisce
“l’inferno sulla terra”, fu arrestato dalla polizia e poi rinchiuso a Bouslim. In quel breve frangente due persone morirono per mancanza di cure, prima che lui potesse negoziare la sua scarcerazione per 800 euro. Dopo un primo naufragio, il giorno di Natale del 2014 partì verso Palermo. Gli ostacoli non si placarono con l’arrivo in Europa. All’inizio si vestiva con ciò che trovava nei cassonetti, poi restò isolato per qualche mese in un centro di accoglienza a Modica. Quando seppe di non aver ottenuto l’asilo si rifugiò a Roma, da immigrato clandestino. Oggi, però, è riconosciuto come rifugiato politico: «Quando le persone pensano che i problemi dell’Italia si devono all’immigrazione e non alla corruzione, al nepotismo, alle mafie, alla scarsa educazione, vuol dire che c’è un gran problema», riflette. «Questo paese soccorre in situazioni tragiche, dopodiché si ferma lì. È caritatevole ma non c’è ancora la cultura dei diritti. Siamo in progressiva decadenza e abbiamo bisogno di queste energie. I principali sostenitori di questa posizione sono proprio i padroni, la Confindustria, perché hanno capito che questo Paese senza di loro non funzionerebbe. È cinico come ragionamento, ma è aderente al punto di realtà in cui siamo in questo momento», afferma Medici. A dicembre il governo Draghi ha firmato un decreto per concedere 70mila permessi di lavoro a stranieri, nonostante il gruppo WeBuild sostenga che ne servirebbero almeno 100mila. Nel frattempo, solo nel biennio 2018-2019 i migranti sfruttati dal caporalato con salari e condizioni degradanti sono stati 180mila, secondo uno studio di Openpolis. Nella redazione del Black Post guardano al futuro con ottimismo: «Che lo vogliano o no, la situazione cambierà. Più avanti saranno loro i veri italiani. Sono il futuro», dice Amro. Ndoli invece ribalta la previsione: «L’Africa sarà il futuro, questo è certo. In Europa le risorse si stanno esaurendo. Per l’Africa l’Europa non sarà più un sogno, il sogno sarà l’Africa». Q © RIPRODUZIONE RISERVATA
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La lotta alla corruzione
GRECIA
Svelò la Sanitopoli di Atene Dopo cinque anni la vendetta e la pm è finita sotto accusa Ha condotto l’indagine sulla rete di tangenti pagate da Novartis Hellas a trentamila sanitari e amministratori per far lievitare i prezzi e imporli nella Ue. Ma i politici l’hanno fatta franca di Elena
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Kaniadakis
Storie
La sede greca di Novartis. A sinistra, il primo ministro Kyriakos Mitsotakis interviene in Aula
Foto: Getty Images (2)
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l primo gennaio del 2017 un manager di Novartis saliva sulla terrazza panoramica dell’hotel Hilton di Atene e minacciava di gettarsi nel vuoto, prima di essere dissuaso dall’intervento della polizia. Poco dopo, la procura anticorruzione rendeva noto di stare indagando su un presunto sistema di tangenti grazie al quale Novartis Hellas, la filiale greca della potente casa farmaceutica con sede a Basilea, avrebbe corrotto medici e politici per aumentare la prescrizione dei propri farmaci e mantenere alto il loro prezzo. Lo scandalo ottenne presto risonanza internazionale poiché all’epoca la Grecia era il Paese di riferimento per fissare il prezzo dei farmaci in 30 Stati, tra cui quelli europei. In quegli anni il Paese stava attuando le riforme imposte dalla
Troika con conseguenze drammatiche sul sistema sanitario nazionale: negli ospedali i medici denunciavano di non avere il filo per le suture e di essere a corto dei macchinari per eseguire le Tac. Da allora sono passati cinque anni: la Grecia si è lasciata alle spalle gli anni bui della crisi del debito, ma il caso Novartis rimane aperto. Quello che per il partito di sinistra Syriza è «il più grande scandalo della storia dello Stato moderno» di cui ancora non si conoscono i colpevoli, per il governo conservatore di Nea Dimokratia è, al contrario, «una cospirazione», ordita da giornalisti e procuratori per infangare gli avversari politici. Il caso è tornato a infuocare il dibattito parlamentare e promette di alimentare lo scontro tra i partiti in attesa delle elezioni della prossi-
ma primavera. Tra i protagonisti di questa storia figura la procuratrice più famosa di Grecia: Eleni Touloupaki, chiamata a guidare dal 2017 al 2020 l’unità anticorruzione con l’obiettivo di fare luce sullo scandalo. Accusata dagli esponenti del governo di avere agito in combutta con la sinistra, per molti cittadini rappresenta invece il volto nobile di un Paese a lungo incapace di fare i conti con la propria corruzione endemica. Nello studio del suo avvocato di Atene, la procuratrice si dice convinta di come la strategia criminale di Novartis abbia leso il diritto alla salute di tutti i cittadini europei. «Migliaia di greci sono stati privati dell’assistenza sanitaria», racconta la procuratrice. «Ma anche l’Unione europea ha subito un durissimo colpo poiché all’epoca la Grecia era il 31 luglio 2022
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Eleni Touloupaki ha guidato dal 2017 al 2020 l’unità anticorruzione
Paese di riferimento per definire il costo dei medicinali: il sovrapprezzo dei farmaci ha quindi gravato sui bilanci degli Stati membri. Questa è stata l‘intuizione geniale di Novartis: provocare l’impennata dei prezzi in Grecia in modo da arricchirsi anche negli altri Paesi». Fondamentali alle indagini sono state le rivelazioni di due ex dirigenti della casa farmaceutica, ancora oggi protetti dall’anonimato, e di un consulente del ministero della Salute. I programmi aziendali denunciati dagli informatori celavano dietro a nomi come «Exactly» e «Harvard» un’inquietante strategia con la quale Novartis sarebbe riuscita a affermarsi come la prima casa farmaceutica in Grecia negli anni più duri della crisi. Caposala, professori universitari, dottori di studi privati: l’azienda avrebbe intessuto a partire dal 2006 una rete di 30mila medici da corrompere con il pagamento di tangenti per ottenere la prescrizione di medicinali come il Diovan, farmaco per la pressione alta, o il Lucentis, con cui cura-
re malattie dell’occhio. Secondo gli informatori, i medici sarebbero stati incentivati a prescrivere i farmaci anche a pazienti che non ne avevano bisogno. Le rivelazioni, però, non hanno travolto solo il mondo sanitario: anche ministri e politici sarebbero stati corrotti per mantenere alto il prezzo di molti farmaci. Grazie al sistema delle tangenti, inoltre, quando nel 2013 la Troika vietava al Paese di omologare nuovi medicinali per via dei tagli alla spesa pubblica, la Novartis sarebbe riuscita a fare introdurre nel mercato dieci suoi prodotti.
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uando nel 2017 Touloupaki è stata chiamata a guidare la procura anticorruzione aveva fama di essere una strenua combattente dell’evasione fiscale: documenti fondamentali come la «lista Lagarde» e i «Panama papers» avevano occupato la sua scrivania negli anni precedenti. Nel 2018, quando il partito di Syriza era al governo con Alexis Tsipras, le indagini della procura si sono concentrate su dieci
Storie politici, soprattutto ex ministri, appartenenti a Nea Dimokratia e al partito socialista del Pasok. Poi sette casi sono stati archiviati per mancanza di informazioni e nel 2020, un anno dopo la salita al governo del partito conservatore, l’unità anticorruzione è stata chiusa per legge. Oggi l’unico politico accusato di avere ricevuto tangenti è Andreas Loverdos, ex ministro della Salute eletto nel Pasok, il quale si professa innocente e attende di scoprire se verrà rinviato a giudizio o se il suo caso sarà archiviato. Oltre l’Oceano Atlantico, invece, le indagini hanno preso una piega diversa. Prima di essere chiamati a testimoniare dalla procura greca, gli informatori avevano denunciato il sistema alle autorità statunitensi, autorizzate a indagare sull’operato di Novartis poiché la casa farmaceutica è quotata nella Borsa di New York. Le indagini dell’Fbi si sono concluse due anni fa, quando l’azienda ha ammesso di avere pagato tangenti ai medici, ha puntato a un accordo extragiudiziale e ha versato un risarcimento di 345 milioni di dollari alle autorità statunitensi per avere violato il Foreign corrupt practices act, la legge che vieta alle aziende di corrompere funzionari all’estero. Nell’accordo si menzionava il pagamento di tangenti ai medici, ma non ai politici greci. Poi, lo scorso gennaio, nel Paese che si fregia del titolo di culla della democrazia, gli accusatori si sono trasformati in accusati: quattro giornalisti greci noti per essersi occupati a lungo dello scandalo, Touloupaki e l’ex ministro della giustizia di Syriza Dimitris Papangelopoulos sono stati indagati per «cospirazione», «associazione per delinquere» e «abuso di potere». Un’intimidazione politica, per gli accusati: «Fin dall’inizio, quando le indagini si sono concentrate sui piani alti delle istituzioni, l’intero sistema si è mobilitato per ostacolarle» sostiene Touloupaki. «Lo scandalo doveva essere coperto a tutti i costi perché la posta in gioco è enorme: le persone ritenute colpevoli sarebbero 31 luglio 2022
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La nonsequis re re, unt lab ipsum nis susci corum hillupi dellam re comni voluptatur,
Storie
La lotta alla corruzione
Ufficiali di polizia in assetto antisommossa di fronte al Parlamento in piazza Syntagma
Syriza si contesta l’abuso di potere per vicende non correlate a quella di Novartis; nel commentare la sentenza in Parlamento il premier Kyriakos Mitsotakis ha ribadito: «Syriza ha tentato di interferire nel sistema giudiziario per colpire gli avversari politici, ma la democrazia ha resistito». Il primo ministro ha poi chiarito come per Nea Dimokratia il caso sia «chiuso» ma ora le ultime mosse dell’esecutivo potrebbero riaprire la vicenda: un mese fa il governo ha annunciato di avere fatto causa al gigante farmaceutico con l’obiettivo di ottenere un risarcimento di 214 milioni di euro per i «danni non patrimoniali subiti a seguito delle azioni che la stessa Novartis ha ammesso, negli Stati Uniti, di aver compiuto e che riguardano il pagamento dei medici».
Kostas Vaxevanis, giornalista ed editore, finito anche lui sotto accusa e assolto
chiamate a rispondere delle loro azioni anche in altri Stati». A inizio luglio, infine, i giornalisti sono stati assolti da tutte le accuse; tra questi c’era Kostas Vaxevanis, editore del principale settimanale d’inchiesta greco, Documento, secondo il quale «queste intimidazioni sono la prova evidente del coinvolgimento della classe politica: altrimenti perché gli stessi testimoni ritenuti fondamentali dall’Fbi nel nostro Paese vengono de112
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finiti dei millantatori?». La sentenza ha anche stabilito che le indagini di Touloupaki sul caso Novartis sono state condotte legittimamente, ma la procuratrice è ancora accusata di abuso di potere per non aver trasmesso in modo tempestivo al Parlamento un fascicolo relativo a un’altra vicenda: «Un’accusa palesemente infondata», per la procuratrice: «Destinata a cadere nel vuoto come tutte le altre». Anche all’ex ministro di
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Foto: Getty Imges, Ansa
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nterpellata, Novartis Hellas fa sapere attraverso il suo ufficio stampa che l’azienda «continua a collaborare con le autorità greche nelle indagini. L’accordo del 2020 tra la casa farmaceutica e il dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti ha posto fine alle indagini ai sensi della legge statunitense, e l’azienda si riserva il diritto di difendersi da eventuali accuse in modo conforme all’ordinamento giudiziario greco. Novartis ribadisce il suo impegno a garantire l’accesso alle cure ai pazienti bisognosi». Per Touloupaki la mossa del governo è dettata dalla necessità di riscattare la propria immagine a livello internazionale dopo anni di inazione. L’esito dell’iniziativa è ancora incerto, ma ciò di cui la procuratrice è convinta è che la recente assoluzione di giornalisti e procuratori traccia una strada a senso unico per la ripresa delle indagini. «Se il sistema responsabile di avere favorito e poi tentato di nascondere lo scandalo non verrà smantellato continuerà a erodere le istituzioni e, di conseguenza, a danneggiare l’economia dell’Unione europea. La sfida di Davide contro Golia – sostiene la procuratrice – non è finita». Q
Crimini internazionali
Una delle "Madres de Plaza de Mayo" piange sul nome di suo figlio inciso sul muro del Parco della Memoria a Buenos Aires
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Storie ARGENTINA
Giustizia contro l’oblio Nonne di Plaza de Mayo in lotta da 45 anni Le guida Estela de Carlotto che ha potuto abbracciare il nipote, uno dei 300 figli dei desaparecidos, sterminati dal regime di Videla di Sabrina
Foto: G.Ceraudo
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on mio nipote è tornato anche il sangue di mia figlia, è tornata Laura. Mi ha illuminato la vita. Oggi siamo una famiglia. Mi dice “nonna ti voglio bene” e mi ha ridato la felicità». Estela Barnes de Carlotto non ha mai smesso di amare e combattere. Dal 1989 è la presidente delle “Abuelas de Plaza de Mayo”, le nonne che in Argentina, insieme alle “Madres”, portano avanti da quarantacinque anni la marcia su “Plaza de Mayo” a Buenos Aires, davanti alla Casa Rosada, sede presidenziale. Al grido «Nunca más», «Mai più», continuano a chiedere giustizia e cercare i loro nipoti, i bambini che portavano in grembo le loro figlie sequestrate tra il 1976 e il 1983, gli anni della dittatura iniziata dopo il golpe del generale Jorge Rafael Videla che il 24 marzo del 1976 ha destituito Isabelita, la seconda moglie di Juan Domingo Perón. Nonne, madri, che si battono per quei figli che tengono con loro, in quel simbolico “pañuelo blanco”, il fazzoletto bianco avvolto sulla testa come il pannolino di tela dei figli. Figli che continuano a vivere negli ideali che loro portano avanti e in una foto sbiadita, e stretta al petto. «La nostra è un’associazione umanitaria, è un lavoro di amore e incontro. Non importa se siamo ricche o povere, colte o meno, siamo nonne che soffrono ancora e cercano altri nipoti. Le nostre figlie sono state uccise dopo aver
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partorito e i militari si sono distribuiti fra loro i neonati, o li hanno dati a civili, quasi sempre complici, per farli crescere secondo le loro idee, una dinamica totalmente perversa», racconta Estela de Carlotto, 91 anni, occhi azzurri liquidi, profondi come l’abisso che ha visto e dal quale ha saputo risalire per non permettere che sua figlia Laura, che tutti i desaparecidos, venissero cancellati dalla Storia, e che i loro nipoti non conoscessero la verità. Durante la dittatura, i militari hanno messo in atto una «riorganizzazione nazionale», con l’eliminazione fisica, e segreta, degli oppositori politici. «Ragazzi “colpevoli” di appartenere a una generazione che aveva creduto negli ideali del ’68. La Lotta armata era stata, di fatto, debellata già prima del marzo del ’76, con la decapitazione dei vertici militari e di intere colonne operative dei gruppi armati dell’Erp, “Esercito rivoluzionario del popolo”, di fede trotskista-guevarista, e dei “Montoneros”, di orientamento peronista»: dice Francesco Caporale, che è stato pubblico ministero dei tre processi per otto desaparecidos, tra cui la figlia di Estela de Carlotto, Laura con suo figlio Guido, celebrati in Italia, per volontà di Sandro Pertini, ma solo tra il 1999 ed il 2010, secondo l’articolo 8 del codice penale, che consente di giudicare in Italia delitti politici commessi all’estero in danno di cittadini italiani. Sono circa 30 mila i desapareci31 luglio 2022
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Crimini internazionali dos, soprattutto giovani tra i venti e i venticinque anni, sequestrati nelle loro case, spesso di notte, bendati, incappucciati, caricati su vecchie Ford Falcon verdi senza targa e fagocitati negli oltre 350 “centri clandestini di detenzione” tenuti invisibili agli occhi della gente e della cui esistenza si sarebbe saputo solo nel 1983 quando in Argentina è tornata la democrazia, con le rivelazioni della Conadep, “Comisiòn nacionàl sobre la desapariciòn de personas”, commissione d’inchiesta istituita dall’appena eletto presidente Raúl Alfonsín per indagare sulla scomparsa degli oppositori. «Luoghi peggiori dei lager e sparsi ovunque in cui i detenuti erano costantemente incatenati e subivano torture inenarrabili», racconta l’ex pm Francesco Caporale che ha chiesto e ottenuto la pena dell’ergastolo per gli imputati, tra cui il generale Suárez Mason, «il padrone assoluto della vita e della morte di migliaia di giovani». Condanne fondamentali anche se, come spiega, «rimaste solo simboliche, nessuno di quei condannati, di cui l’Argentina non ha inteso concedere l’estradizione, ha mai scontato un solo giorno di carcere nel nostro Paese». Torture come le scariche elettriche della «picana», strumento usato nella Pampa argentina per controllare il bestiame, elettrodi messi nelle parti intime del corpo, in bocca, sugli occhi, spesso fino a far fermare il cuore. Come il supplizio del «submarino», con il quale si immergeva ripetutamente il detenuto in una vasca e lo si tirava fuori, prima che affogasse. Le giovani donne subivano violenze sessuali. Giovani spogliati, legati, narcotizzati con il Pentothal, caricati su aerei militari venivano gettati, ancora vivi, nelle acque del Rio de la Plata o nell’Atlantico Sur dai «voli della morte» praticati in centri come l’Esma, la Scuola di meccanica della Marina, o il Campo de Mayo. Le “abuelas” sono state odiate, torturate, alcune uccise, definite «las locas», «le pazze», dai militari, perché non sono rimaste in silenzio, si sono opposte al disegno di «riconciliazione naziona116
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Manifestazione delle Abuelas in Plaza de Mayo a Buenos Aires
le» di Raùl Alfonsìn che nel 1987 con la legge dell’ “Obediencia debìda”, ritenuta incostituzionale nel 2005 sotto il governo di Néstor Kirchner, ha tentato di far cadere l’oblio, scagionando da ogni responsabilità gli ufficiali di minor grado. Hanno gridato contro gli indulti concessi dal presidente Carlos Menem che hanno portato, tra il 1989 e il 1990, alla liberazione dei maggiori responsabili come l’ex dittatore Jorge Rafael Videla e l’ex ammiraglio della Marina Emilio Eduardo Massera, condannati nel 1985 durante i processi ai militari celebrati in Argentina.
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oro non hanno permesso oblio e impunità: «Io faccio tutto quello che posso anche fuori dall’Argentina. Spero di avere ancora abbastanza tempo per aiutare altre nonne, perché quello che è successo non venga mai dimenticato e non succeda altrove. La verità è sempre stata nascosta, deformata. Per molto tempo abbiamo pagato tutto di tasca nostra ma, quando la democrazia è tornata, lo Stato si è fatto carico delle spese, oggi abbiamo undici team di esperti con avvocati, psicologi, an-
tropologi», continua Estela de Carlotto. La sua vita è cambiata il primo agosto del 1977 quando suo marito Guido Carlotto, nato ad Arzignano, in provincia di Vicenza, e trasferitosi in Argentina dove aveva aperto una piccola fabbrica di vernici, viene sequestrato perché rivelasse dove si trovava sua figlia Laura, studentessa universitaria di Storia e militante nella “Juventud Peronista”. Estela de Carlotto, maestra di una scuola elementare a La Plata, città a 60 chilometri da Buenos Aires dove vive ancora, cerca suo marito tra i corpi senza vita che a volte riaffioravano sulle rive del fiume, paga qualcuno che dice che lo avrebbe fatto liberare. Il 25 agosto viene liberato, è dimagrito 14 chili e le racconta le torture subite con la «picana» nel centro di detenzione in cui aveva assistito all’uccisione di molti giovani. «Il suo corpo era talmente martoriato che rimase infermo per tutta la vita e, probabilmente, la sua morte nel 2001 è stata dovuta anche a questo». Il 26 novembre 1977 sua figlia Laura è stata sequestrata con il suo compa-
Storie «Avevo preparato una culla per mio nipote», ricorda Estela de Carlotto: «Ho abbracciato fortissimo la giudice quando mi disse che potevo incontrarlo, perché aveva accettato. Quando la notizia divenne pubblica a Buenos Aires e in tutta l’Argentina c’è stata una grande festa perché la mia storia era nota, lui era il nipote di tutti gli argentini». Grazie al “Banco nacional de datos genéticos” le “abuleas” sono riuscite a identificare 130 nipoti, ne mancano 300: «È la prima banca dati genetica del mondo, dove ci sono i campioni di sangue delle nonne e di tutti quelli che hanno dubbi sulla propria identità, serve a identificare il Dna dei figli delle persone scomparse. Ora è un’istituzione universale, usata in tutto il mondo».
Foto: Courtesy of Archivio Personale Estela De Carlotto
Estela de Carlotto, al centro, sfila durante una manifestazione delle Abuelas
gno in una pasticceria di Buenos Aires, Estela de Carlotto non aveva sue notizie da dieci giorni quando le aveva scritto una lettera per dirle che aspettava un bambino e che avrebbe voluto chiamarlo Guido, come suo padre: «Era in clandestinità con il suo compagno e mi mandava delle lettere tramite una persona, mio marito l’andava a trovare periodicamente», ricorda Estela de Carlotto che per riavere sua figlia accetta di pagare un riscatto. Dopo settimane senza notizie, si rivolge a una collega, che era la sorella del generale Reynaldo Brignone, esponente della giunta militare, a cui chiede la liberazione. O almeno di avere il corpo. Laura era stata internata nel campo di concentramento clandestino “La Cacha”: «L’hanno torturata mentre era incinta, le dicevano sempre che il giorno dopo l’avrebbero liberata e che avrebbe potuto far nascere il figlio circondata dall’affetto dei suoi cari, ma lei aveva capito che l’avrebbero uccisa. E infatti è stata assassinata il 25 agosto del 1978, e il suo corpo martoriato». Estela de Carlotto riceve dalla Polizia l’invito a recarsi al commissariato del paesino di Isidro Casanova, a circa
60 chilometri da La Plata: «Ci restituirono il corpo, così avevamo il “privilegio” di poter portare un fiore sulla tomba, anche se non eravamo certi che fosse il suo. Ne avemmo la certezza solo quando il corpo fu riesumato ed esaminato da un gruppo di antropologi forensi di fama mondiale». Suo marito e suo fratello non le consentirono di vedere Laura. I militari avevano simulato un finto conflitto a fuoco, sua figlia aveva il volto sfigurato da colpi di arma esplosi a brevissima distanza, anche sul ventre per eliminare le prove della recente maternità. La sua ultima immagine di Laura è la mano che usciva dalla bara, che lei ha accarezzato. Estela de Carlotto non si fa piegare dal dolore, cerca suo nipote per trentasei anni, fino a quando nel 2014 trova Guido Montoya Carlotto, che ha il nome di Ignacio Hurban. Era nato nell’Hospital Militar di Buenos Aires la notte del 26 giugno del 1978: mentre Laura piangeva dando la vita a suo figlio, sapendo che avrebbe perso la sua, Buenos Aires esultava per i suoi Mondiali di calcio, appena vinti battendo l’Olanda.
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l nipote è cresciuto nella Colonia San Miguel, non lontano da Olavarría, nella provincia di Buenos Aires, dove Clemente Hubron, il padre adottivo, era contadino in una fattoria. «Sono stata così felice di abbracciarlo, mi piacerebbe farlo sempre. Sono felice ogni volta che un nipote viene identificato e incontra la sua vera nonna, è come se fossero tutti un po’ nipoti miei. Noi nonne ci sosteniamo, dividiamo la gioia, e la sofferenza quando un nipote non vuole incontrare la vera nonna perché difende la sua vita, ormai instradata. È fondamentale rispettare la loro volontà». Questa è la storia della dignità di queste donne che si sono battute fino a vedere riaperti dopo il 2005 una serie di processi che stanno facendo piena giustizia. Loro non hai mai smesso di credere nelle istituzioni democratiche: «Chi ha commesso queste atrocità deve ancora ricevere le condanne che merita e che non devono venire da noi ma dai tribunali». La battaglia di queste madri e nonne continua convinte che, come grida il loro slogan che è una frase di Che Guevara: «La única lucha que se pierde es la que se abandona», «L’unica lotta che si perde è quella che si abbandona». Q © RIPRODUZIONE RISERVATA
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Ho visto cose/tv
IO SONO CAMPAGNA (ELETTORALE) Con elezioni alle porte tornano i talk e la chiacchiera politica. Molto creativa
BEATRICE DONDI Braccalo braccalo, dai forza, te lo faccio braccare!…, dice Giorgia Rombolà nel suo “Agorà estate” all’inviato da piazza Montecitorio che dovrebbe riuscire a intercettare niente di meno che Francesco Silvestri del M5S. Un po’ come il “Chiappala chiappala” di Max Vinella, peccato che faccia meno ridere. Forse. Questa lunga estate calda, in cui si sperava di tirare un filo di fiato dall’arrembaggio politico, si ritrova invece a essere il più concitato dei palcoscenici da campagna elettorale. Si erano tutti ritirati in buon ordine in attesa che riaprissero le scuole, il professor Orsini taceva come il campanello di casa Vespa e restava il brusio di sottofondo delle repliche d’ordinanza. Quando all’improvviso ecco lo scherzetto elettorale che ha rispalancato gli studi, neanche il tempo di una spolverata, mescolando giornalismo e intese programmatiche con un mestolo a forma di microfono. L’alternanza di notizie colore è a dir poco creativa, e in parte compensa l’idea della pausa di riflessione mancata. Così senza colpo ferire si passa dal delizioso scambio di gentilezze tra Meloni e Sangiuliano al Tg2 Post («Presidente io le chiedo», «Direttore io la ringrazio») agli auguri affettuosi di Conte a Grillo per il suo compleanno, fino a Rocco (Casalino) che non risponde
alle domande ma saluta simpaticamente Nicola (Porro). Da segnalare il ritorno glorioso di Berlusconi che conta sulle dita («Noi siamo in Italia i continuatori unici della: (1) tradizione liberale, (2) cristiana, (3) europeista, (4) garantista, e (5) dei valori e dei principi della civiltà occidentale»). Ma neanche il tempo di capire se sia stato più incisivo lo sfogo (sacrosanto) di Brunetta contro gli insulti ricevuti sulla sua altezza o il tentativo di consolarlo di Lucia Annunziata («Però lei ha gli occhi azzurri, una cosa delle razze superiori ce l’ha»), che il Tg4 si lancia nella scelta iconografica. E per citare Letta e gli occhi della tigre, mette a tutto schermo giustappunto una tigre, mentre Di Battista paragona Di Maio al Verdone di “Un sacco bello”, che per trovare un compare di scampagnata apre l’agendina e scorre i nomi, Olimpico Stadio, Stadio Olimpico… Insomma, se per un puro caso riusciremo mai a distogliere il pensiero dalla barba, le salsicce e il sudore di Salvini, resta la solida certezza che l’ospite fisso dei prossimi talk show non potrà che essere lo scrutatore non votante di Bersani (Samuele), che è solo un titolo o un'immagine. Ma niente paura, siamo solo all’inizio. Q
#musica Jovanotti campione di biodiversità musicale Parliamo di Jovanotti. Anzi del Beach Party che sta allegramente spumeggiando di spiaggia in spiaggia. Per i suoi stessi criteri costitutivi sembra l’apoteosi della collettiva euforia che sta portando un numero incalcolabile di spettatori a vedere il vedibile, dovunque, in ogni piazza, in ogni festival, in ogni stadio, su pratoni e valli, paesini e metropoli. Solo sommando le presenze al tour di
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GINO CASTALDO Vasco e quelle che sta accumulando Jovanotti si arriva a un milione, così tanto per farsi un’idea di quello che sta succedendo. Ma ovviamente la festa da spiaggia di Lorenzo ha caratteristiche proprie e difficilmente paragonabili con il resto. Più che un concerto è un megaparty, con vari palchi, accadimenti giornalieri, matrimoni, serata da deejay con ospiti, live band e ballabili di ogni epoca, e soprattutto si pone come una specie di villaggio nomade che atterra sulle spiagge. Il che provoca numerosi effetti collaterali. Il primo è che la
gente sembra divertirsi pazzamente, il secondo è che Jovanotti sembra divertirsi ancora di più della gente che si diverte grazie a lui, il terzo è che le polemiche permangono, riaffiorano, soprattutto per quanto riguarda l’impatto ambientale. Il che sembra far parte del destino di Lorenzo, in quanto buono, in quanto vegetariano, in quanto attento al paesaggio, all’ecosistema, al benessere di tutti, e quindi perseguibile ai sensi delle regole degli hater, che sui “buoni” si accaniscono con particolare fervore, ma anche da alcune associazioni
Scritti al buio/cinema
IN FUGA PER AMORE E SESSO In “Vieni come sei” tre giovani disabili finiscono in un bordello a Montréal
FABIO FERZETTI
Foto: Agf
Tra i grandi soggetti di questi anni il più proteiforme è forse la dipendenza. Dipendenza fisica, mentale, interiore. I tanti film dedicati a personaggi portatori di disabilità non segnano solo la ricerca di una nuova sensibilità. Rivelano un interesse per tutto ciò che ci lega e ci limita, sempre e comunque. Dietro il successo di “Quasi amici” non c’era solo la sedia a rotelle, ma l’immensa distanza di classe e mentalità tra i protagonisti. È il movimento compiuto dai due per avvicinarsi a darci gioia, più che il superamento dell’handicap. Tanto che le disabilità fisiche, specie nei film Usa, spesso si intrecciano a differenze etniche e culturali. Ce lo dimostra una volta di più “Vieni come sei”, on the road comico-sentimentale su tre giovani diversi in tutto ma ugualmente decisi a scoprire le gioie del sesso in una sorta di accogliente bordello per portatori di disabilità a Montréal (il Canada francofono resta il luogo esotico più accessibile se venite dal Midwest). Il tutto liberamente ispirato a una storia vera. Nonché remake del belga e assai più crudo “Hasta la vista”, 2011. Il quartetto al centro di questa paradossale educazione sentimentale in effetti è assai ben assortito. Ideatore e (contestato) leader dell’impresa è il tetraplegico Scotty, bianco, sboccato, manipolatore e arrapato come gli studenti delle
che si occupano di ambiente e di animali. La verità è che pensando alla storia di Lorenzo sembra difficile immaginare che non si sia occupato con scrupolo di queste questioni, e che non abbia a cuore la vita riproduttiva del Fratino, la cui esistenza è stata scoperta da molti italiani proprio in questa occasione e quindi dovrebbe essere anche questo un merito e non un demerito. Le suddette associazioni invocano a gran voce che i suoi concerti Jovanotti li porti negli stadi, come fanno tutti, senza rompere le palle alle preziose sabbie d’Italia. Il che pare un controsenso. Siamo sicuri che un concerto in uno stadio sia più ecosostenibile di un’adunata
commedie sui campus anni Ottanta, ma anche rapper dalla solida vena autobiografica. Complice della fuga, con riserva, è l’invidiato Matt, altro ragazzo in sedia a rotelle, origini asiatiche e fisico da atleta. Chiude il terzetto un non vedente di origini indiane riservato e timoroso costretto on the road alle imprese più folli ma anche destinato, come dubitarne, al vero amore. Mentre alla guida di quel furgone in fuga dalle famiglie c’è una gigantesca Gabourey Sidibe, la protagonista di “Precious”. Inutile aspettarsi tesori di finezza o inventiva da un copione simile. Chi vuole qualcosa di serio in materia cerchi “The Sessions”, 2013, con Helen Hunt “sex therapist” divisa tra la famiglia e il legame con un “cliente” chiuso da sempre in un polmone d’acciaio. Qui i toni sono più pop, ma il ritmo è vivace e non mancano affondi e trovate (la parte del leone la fa un tatuaggio sul braccio della Sidibe, una mappa del tesoro per un non vedente). Nel deserto estivo, una sia pur minima sorpresa. Q ©RIPRODUZIONE RISERVATA
“VIENI COME SEI” di Richard Wong Usa, 107'
sulla spiaggia per la quale ci sono stati studi, controlli, verifiche col Wwf, coi comuni di pertinenza, con costi altissimi e una costante promozione di temi ambientali, vedi plastica, pulizia del mare eccetera? Intanto la macchina va avanti realizzando un altro risultato soprendente. Più che un concerto, più che un party, sta diventando un festival itinerante. La quantità di ospiti che
aabcc
sta raccogliendo lungo il viaggio è stupefacente, ai 150 annunciati a bocce ferme, coprendo un arco elevatissimo di stili, e ogni grado di fama, da Ariete a Dardust, da Benny Benassi a Enzo Avitabile, da Mousse T a Tananai, se ne sono aggiunti in corsa tanti altri, Gianni Morandi, ovviamente, Max Pezzali, Brunori Sas, Renato Zero, Fedez e si potrebbe continuare a lungo. Dunque se proprio ce l’avete con Jovanotti, almeno riconoscetegli il merito di essere attentissimo alla biodiversità, perlomeno di quella musicale. Q ©RIPRODUZIONE RISERVATA
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Noi e Voi
N. 30 31 LUGLIO 2022
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VIVA L’ITALIA CHE RESISTE RISPONDE STEFANIA ROSSINI [ STEFANIA.ROSSINI@ESPRESSOEDIT.IT ] Cara Rossini, ne “Il Gattopardo”, capolavoro di Tomasi di Lampedusa, Tancredi esprime al principe zio una verità molto italiana, valida ancora oggi. Gli dice che bisogna che tutto cambi perché nulla cambi. Il giovane aveva fiutato il “mutamento” e si era arruolato tra i garibaldini. Come accadde del resto anche il 26 aprile del 1945, quando gli italiani si autoproclamarono tutti partigiani e numerosi fascisti transitarono improvvisamente nel Pci. Noi siamo così, opportunisti, cambia-casacca, voltagabbana, esperti nel gioco dei quattro cantoni, tristemente famosi nel mondo fin dai tempi di “Franza o Spagna pur che se magna”. In guerra alleati sleali e traditori. Oggi, destra o sinistra, Nato o Putin, Russia o Ue, pur di avere il gas in abbondanza. Cade Mario Draghi, tutti a brindare, insieme alla cricca del boss di Leningrado. Qui a Prosecco, là a fiumi di vodka. Vincerà la Destra, a fine settembre? Niente paura! La troika Meloni-Salvini-Berlusconi darà vita ad alcune settimane di proclami farneticanti da qualche balcone, da uno qualsiasi (non ancora quello famigerato) con la Giorgia bianco vestita o dal Papeete con Salvini tra birre e piadine o nella reggia di Arcore con il vegliardo che tiene per mano la “morosa” che ha l’età di una bis-nipote. E dagli agli immigrati, ai gay e ai trans, alle moschee! Poi, di fronte alla dura realtà, veloce e silente marcia indietro. Qualche raduno con saluto romano, magari con qualcuno di quelli che prima stendevano il braccio con il pugno chiuso, poi le piazze si spopoleranno. Ma fin da oggi, tutti ad azzannarsi sui giornali, sui meschini social, nei penosi talk show televisivi, tra giornalisti d’assalto e d’accatto. Poi, per le festività natalizie, tutti a cena, Covid-19 o meno, a strafogarsi di zamponi, cotechini, lenticchie, panettoni farciti, tutta robaccia ipercalorica e ipercolesterolica. E vai alle ammucchiate di San Silvestro, a beccarsi qualche variante di Omicron. Tutto come prima, peggio di prima. I politici si vedranno sempre, in Transatlantico e alla buvette per accordi sotterranei. Come aveva ragione, con la sua “W l’Italia!” De Gregori: un testo, valido ancora oggi, e per sempre. Franco Bifani
Un po’ esagerata l’analisi del nostro lettore, che dipinge con pessimismo paradossale il futuro prossimo di questo Paese. Ma forse immaginare il disastro è la ricetta migliore contro l’inerzia del tanto peggio tanto meglio e contro la tentazione di non votare più, opzione che si ascolta in giro sempre più spesso. Serve anche a guardare con occhi neutrali il faticoso presente, risultato inevitabile di una politica che ha dimenticato la sua missione principale che, al di là delle differenze ideologiche, è semplicemente quella di ricercare il bene comune e far vivere a tutti con dignità la porzione di storia che ci è stata assegnata. In quanto a De Gregori, qui citato per il disincanto di una sua celebre canzone, alcuni versi della stessa suggeriscono il contrario: “Viva l’Italia/ l’Italia che resiste/ L’Italia derubata e colpita al cuore/ Viva l’Italia/ l’Italia che non muore”.
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N. 30 - ANNO LXVII - 31 LUGLIO 2022 TIRATURA COPIE 209.400
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Michele Serra
Satira Preventiva
Istruzioni dell’Ikea per montare il Centro
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roseguono con successo i colloqui per un accordo elettorale nel centrosinistra. Il montaggio dei vari pezzi del centro è a buon punto, grazie all’adattamento del foglio di istruzioni Ikea per la cassettiera Trullaby. Si trattava di far coesistere undici diversi leader: Calenda, Renzi, Bonino, Toti, Carfagna, Brugnaro, ai quali si sono aggiunti all’ultimo momento gli outsider Pirulli, Giandomenichini e Mariagrazia Plum, mai sentiti nominare fino all’altro ieri ma intenzionati a far valere tutto il proprio peso politico senza fare sconti a nessuno. Inoltre si sono dichiarati disposti a dare il loro contributo, rinunciando a una lista propria, anche gli eredi Spadolini e la Fondazione Cavour. Il problema All’ultimo momento, quanto il montaggio era ultimato con successo e, nella migliore tradizione Ikea, avanzavano solo alcune viti e una brugola del 12, è sorto un problema imprevisto: come definire questa nuova coalizione liberal-democratica? Alleanza? Rassemblement? Unione? Patto? Su questo punto, considerato decisivo, sono volate parole grosse e i presenti sostengono che i leader presenti alla riunione siano anche venuti alle mani, con Bonino che cercava di dividerli e Calenda che li aizzava. Alla fine si è convenuto di rimandare a dopo le elezioni il nome della lista.
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Calenda Le sue condizioni sono tre: no a Letta premier, no a Letta vicepremier, no a ogni tipo di veto su premier e vicepremier. Fonti attendibili dicono che, per entrare nella coalizione, Calenda volesse anche l’obbligo dei mocassini e la messa fuorilegge dei Cinque Stelle, ma all’ultimo momento avrebbe deciso di rinunciare in segno di buona volontà. Calmo, sorridente, il leader di Azione ha detto ai giornalisti di essere diponibile a trattare con tutti, a parte il branco di imbecilli e di scimuniti con i quali gli tocca discutere di cose delle quali non sanno una mazza.
tro». Per evitare incidenti diplomatici, si à fatto preparare un elenco aggiornato dei partiti alla sinistra del Pd. Ha preso atto, con piacere, che sono solo una cinquantina, dei quali appena trenta, contrassegnati da un asterisco, possono vantare iscritti ancora in vita, alcuni addirittura attivi in bocciofile e centri ricreativi per anziani. Grazie all’aiuto delle sezioni e degli attivisti, il Pd sta preparando un programma di settecentoventi punti, molti dei quali dicono il contrario del precedente punto per offrire all’elettorato l’idea di un partito aperto al dibattito.
Renzi Forte del suo due per cento, solido lascito del quaranta per cento ottenuto con il Pd, il leader di Italia Viva, per evitare che Calenda gli porti via anche il poco che gli rimane, starebbe pensando a una fusione tra i due partiti (Azione Viva) o tra i due leader (Matteo Carenzi, o Carlo Renzenda). Una fidanzata in comune aiuterebbe a cementare ulteriormente l’alleanza tra i due giovani leader, eliminando l’inutile doppione tra i due piccoli partiti e semplificando il quadro politico.
Cinque Stelle Di seicento tra deputati e senatori ne sono rimasti quattordici, a conferma di una sostanziale tenuta. Un esodo così massiccio solleva questioni non solo politiche, ma anche logistiche, al quale si è cercato di dare risposta con l’inaugurazione, a Montecitorio, di un centro di prima accoglienza. Di qui verranno poi smistati, alcuni a destra, alcuni al centro, alcuni a sinistra, altri ancora affidati a famiglie disponibili.
Letta Tratta con il centro ma anche con la sinistra, facendosi aiutare da uno psichiatra e dal monaco buddista Giwa Bunda, che lo accompagna nei suoi incontri e gli ripete, allo scoccare di ogni ora, il famoso mantra che recita «Guarda fuori dalla finestra e pensa ad al-
La destra È riunita a Villa Peonia, a Rapallo, una delle residenze di Berlusconi. Domani i lavori proseguiranno a Villa Sabrina, a Lignano Sabbiadoro, altra residenza di Berlusconi. Su Tripadvisor Salvini si è lamentato della prima colazione, Meloni dei rumori notturni. Q © RIPRODUZIONE RISERVATA
Illustrazione: Ivan Canu
Le indicazioni per la cassettiera Trullaby sono servite per mettere insieme gli undici leader. Un centro di accoglienza per i transfughi di Cinque Stelle