Settimanale di politica cultura economia N. 29 anno LXVIII 24 LUGLIO 2022 Domenica 3 euro L’Espresso + La Repubblica In Italia abbinamento obbligatorio alla domenica. Gli altri giorni solo L’Espresso 4 euro
Ciao Eugenio 1924-2022
GOVERNO
ESCLUSIVO
IDEE
Ecco chi ha fermato il premier Mario Draghi
La campagna di Russia della multinazionale Uber
Un bacio salverà il mondo Parola di Manuel Vilas
Altan
24 luglio 2022
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Sommario numero 29 - 24 luglio 2022
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Il Parlamento è nudo
Lirio Abbate
Prima Pagina
Lo sfracello Susanna Turco Ancora Caimano Carlo Tecce Pd-M5S, il lungo addio Antonio Fraschilla Sistema in cortocircuito nel Paese dell’emergenza Francesco Giorgino Il green non può attendere colloquio con Elly Schlein di Gloria Riva La campagna di Russia Paolo Biondani e Leo Sisti Putin, giornalisti suggeritori Federica Bianchi Mosca e Pechino puntano sulle crisi europee Indagine sul complotto di Trump Alberto Flores d’Arcais Diritti, primi cittadini alla riscossa Paolo Di Falco e Enrico Filotico Sul clima non ci si può dividere Flavio Maria Coticone Rimini libera l’arcobaleno Marco Grieco Il petrolio è per sempre Eugenio Occorsio Dal Mediterraneo la Ue è lontana Dimitri Deliolanes e Leonardo Palmisano Il secolo di Scalfari Un intellettuale critico del potere Bernardo Valli Quel carisma inconfondibile Leopoldo Fabiani La nostra vita colorata da Eros Wlodek Goldkorn Una missione politica e civile Bruno Manfellotto Meglio Ulisse di Achille Eugenio Scalfari
Idee
Un bacio salverà il mondo A Pompei l’amore è eterno Lumi contro fake news Nell’anima nera di Scampia Il cinema? Meglio lo sport
11 12 20 26 32 34 38 42 45 46 50 53 54 58 64 66 68 71 73 76 80
colloquio con Manuel Vilas di Gigi Riva 82 Marisa Ranieri Panetta 88 colloquio con Gérald Bronner di Anna Bonalume 94 Francesca De Sanctis 98 colloquio con Mathieu Kassovitz di Emanuele Coen 100
Opinioni Altan Makkox Panarari Baasner Alberti Serra
3 8 19 25 30 122
Rubriche La parola Taglio alto Bookmarks Ho visto cose #musica Scritti al buio Noi e voi
7 17 103 118 118 119 120
COPERTINA Foto di Enrica Scalfari AGF
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Storie
La città delle donne nel Kurdistan assediato Alessia Manzi e Giacomo Sini 104 La battaglia di Dalila contro il body shaming Margherita Abis 110 Sul vulcano con i super robot per la simulazione spaziale Emilio Cozzi 114 L’Espresso fa parte in esclusiva per l’Italia del Consorzio internazionale dei giornalisti investigativi
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24 luglio 2022
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La parola
© RIPRODUZIONE RISERVATA
crisi
Al liceo il mio docente di Religione ci spiegò che «crisi» derivava dal verbo greco «craomai», «cresco», credo per dare un senso positivo ai turbamenti dell’adolescenza e, grazie a questa falsa etimologia (la derivazione sarebbe da «crino», «discerno»), guardo alle crisi come ad occasione, appunto, di crescita. Imparerò più tardi che, se di crisi politiche si tratta, a crescere saranno i problemi solitamente per il cittadino. Eppure, proprio in questi giorni mi è capitato di imbattermi in una discussione: in Italia, si diceva, le crisi sono tutte pilotate e, giuro, non si parlava del solito Covid-19, che ho imparato a sfuggire come argomento così come contagio. No, si parlava di siccità. Ebbene, una signorina dall’aria dolce e timida mi si è trasformata in pochi minuti in una orsa pronta a difendere, mordendo, i propri cuccioli: pecoroni! (Le metafore faunistiche abbondano con l’immancabile: «E chiedo scusa
agli animali»). Attendevo l’illuminata spiegazione giacché è una ovvia constatazione che non piove, che i fiumi sono in secca e tutti gli altri argomenti che alcuni sempliciotti come me osavano portare ad esempio. No, non esiste alcuna siccità, sono i mass media che ingannano noi ignoranti, proponendo ciclicamente nuove crisi. Le fake news, eccole! E perché verrebbero inventate? Ma perché è il governo che lo vuole. Colpa mia che perdo tempo ad ascoltare chi si è poi rivelato anche no-vax, no farmaci, no scienza, lo so, ma mi stupisce scoprire perché nascano certe convinzioni: la signorina proclamava il suo diritto a riempire una piscina per l’amato cagnolone in cui farlo sguazzare ogni dì e non sopportava che venisse limitata nei suoi diritti di abitante di un Paese ormai avviato alla tirannide. Ho motivi validi per non apprezzare Draghi & Co, ma non piove, governo ladro, per favore, no.
LARA CARDELLA 24 luglio 2022
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Cronache da fuori
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Makkox
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Editoriale
Lirio Abbate
Il Parlamento è nudo di fronte alle proprie responsabilità È come se Draghi si fosse stancato di stare a Palazzo Chigi. Chissà come avrebbe raccontato questo momento il Fondatore Eugenio Scalfari. Nel solco dei suoi insegnamenti ci impegniamo a tenere alta la bandiera del suo giornalismo
Illustrazione: Ivan Canu
Il numero è stato chiuso in redazione alle 21 di mercoledì 20 luglio 2022
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a fatto di tutto Mario Draghi per andare via e lasciare il governo. Ha lanciato strali contro alcuni componenti della maggioranza perché non remavano nella direzione in cui voleva andasse il Paese. Non è un politico e quindi non ha evitato la crisi e le indicazioni che sarebbero arrivate dal Colle più alto, per proseguire, lo hanno appena sfiorato. È come se questi politici lo avessero fatto stancare di stare a Palazzo Chigi. E non ha tutti i torti. Perché adesso lasciare spazio aperto alla destra è da irresponsabili. Draghi ha presentato le sue dimissioni la settimana precedente dopo l’uscita di scena del M5S, ma il Presidente Sergio Mattarella le ha respinte e gli ha detto di tornare davanti al Parlamento. Cosa che ha fatto mercoledì, giorno decisivo per il governo, con la tensione politica che è salita, provocando ripercussioni sui mercati e lo spread Btp/Bund che, dopo aver aperto in calo a 206, si è allargato a 214 punti, in attesa dell’esito del voto di fiducia. Il messaggio di Draghi al Parlamento era, in sostanza, «prendimi o lasciami». Ha offerto alcune concessioni al M5S, anche se i senatori Cinquestelle non hanno applaudito il suo discorso. Quello che viviamo e subiamo è un periodo politico ingarbugliato, capovolto, incoerente con un falso senso di responsabilità. Alla camera ardente del direttore Eugenio Scalfari in Campidoglio, Mario Draghi viene a portare i suoi omaggi al fondatore de L’Espresso. Stringe la mano ai presenti e una di loro gli dice: «Resista, presidente». Lui si ferma, la guarda negli occhi, e abbozzando un sorriso risponde: «Ma intende resistere sulla decisione delle mie dimissioni? Oppure resistere e quindi cambiare idea e andare avanti nel governo?». Ribatte immediatamente l’interlocutrice: «Deve restare, presidente». Draghi per qualche secondo si ferma a guardarla ancora con un sorriso, ma l’espressione del volto tradisce una frase trattenuta, come se volesse replicare e, per evitare di svelare il suo vero pensiero, si cucisse di colpo le labbra, limitandosi a stringerle la mano. Quindi prosegue, saluta gli altri presenti, con qualcuno rievoca la conoscen-
za che il padre aveva con Scalfari. Spiega che questo rapporto è proseguito con lui, «anche se in un paio di occasioni mi ha attaccato in prima pagina su Repubblica». Lì e altrove non fornisce alcuna risposta alla richiesta di restare. L’enigma rimane tale fino a mercoledì scorso, quando a palazzo Madama, Mario Draghi nella sua breve replica al Senato ringrazia «chi ha sostenuto l’operato del governo con lealtà». Per poi aggiungere un’osservazione «a proposito di alcune parole che avrebbero messo addirittura in discussione la natura della nostra democrazia, come se non fosse parlamentare mentre lo è e io la rispetto e mi riconosco». E ai senatori premette che sono loro che decidono, perché la democrazia è una democrazia parlamentare. E non fa alcuna richiesta di pieni poteri. Perché se dei disegni di legge non sono stati incardinati e approvati non è certo per responsabilità dell’esecutivo. La colpa delle mancate scelte legislative deve quindi essere rivolta altrove. Al Parlamento eletto dagli italiani che da mesi sembra essere bloccato, immobile, fermo su temi sociali ed economici che segnano il nostro Paese. Chissà come avrebbe raccontato questo periodo politico il direttore Eugenio Scalfari. Quella sua idea di fare giornalismo, con le battaglie politiche, culturali e sociali, ha modificato la nostra vita, e sicuramente ha migliorato la mia vita professionale. E il dolore per la sua scomparsa è profondo non solo in me ma in tutta la redazione. Abbiamo perduto il fondatore, il padre de L’Espresso, che amava ricordare che era nato per affermare il valore dell’innovazione, d’un accordo produttivo tra gli imprenditori e i lavoratori per portare la sinistra democratica al governo del Paese, purché quella sinistra abbandonasse l’ideologia marxista e soprattutto le sue aberrazioni. Volevano una forza riformista, con libera Chiesa in libero Stato, capace di lottare contro la corruzione e l’evasione fiscale. Grazie “Direttore” per quello che ci hai dato. Proseguiremo nel solco dei tuoi insegnamenti e delle tue idee, tenendo alta la bandiera del tuo giornalismo. Q © RIPRODUZIONE RISERVATA
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La crisi politica Le comunicazioni di Mario Draghi al Senato, prima del voto di fiducia
Prima Pagina L’ESTATE DELLO SCONQUASSO DEL GOVERNO DRAGHI. SFIDUCIATO SENZA SFIDUCIA. TRA IL NON VOTO DI CONTE E IL MEZZO PAPEETE 2 DI SALVINI. E CON MELONI PRONTA AL GALOPPO DI SUSANNA TURCO
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La crisi politica
L’
ultimo sorriso, l’ultimo momento di pace, si consuma ad Aula vuota. Sono le 10 e 52 di mercoledì 20 luglio, è mattina, il giorno del Giudizio del governo, tra i banchi non ci sono quasi parlamentari, sugli spalti non ci sono quasi giornalisti e cameramen. Mario Draghi ha da poco fatto il suo intervento, nel quale ha indossato una specie di inedito populismo dei banchieri buono per farne (se mai volesse) il prossimo «punto di riferimento fortissimo» - come diceva quello - di una certa sinistra. Un intervento duro, giudicato a tratti esagerato persino dai più draghiani del suo esecutivo, il prologo della fine. Alle
FINE DEL MONDO SIN QUI NOTO: IL GOVERNO DELL’EMERGENZA, IL CENTRODESTRA MODERATO, IL PARLAMENTO RESPONSABILE. VINCE LA RINCORSA AL VOTO 10 e 52 Draghi rientra e va verso i banchi del governo, verso la sua sedia di presidente del Consiglio che è l’unica nella fila di quelle dei ministri ad avere anche i braccioli. Lo ferma e l’afferra sottobraccio Pier Ferdinando Casini: l’eterno democristiano se lo porta via, amichevole, nella parte più nascosta dell’Aula, ci chiacchiera fitto fitto. Alla fine lo riconsegna ai velluti e addirittura gli cinge le spalle, un abbraccio fraterno che il presidente del Consiglio - per il resto sdegnato e accigliato - volentieri accoglie con un sorriso. Sembrano, per un attimo, i «compagni di scuola» di Antonello Venditti, i «compagni di niente» che si danno la mano al bar. Nulla, per certi versi, è più lontano dell’uno dall’altro, nulla più vicino: Casini e Draghi, il puro politico e il puro tecnico in mondi dove la purezza è un concetto parecchio relativo, l’esaltatore della 14
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vecchia politica e il neocarezzatore di una connessione sentimentale col Paese («siamo qui solo perché gli italiani l’hanno chiesto. La risposta a queste domande non la dovete dare a me, ma la dovete dare a tutti gli italiani», ha detto sferzante nel suo intervento), colui che è politicamente sopravvissuto al succedersi delle Repubbliche e delle metamorfosi del Parlamento e colui che ha sempre detto di non voler sopravvivere neanche a un rimpasto del suo governo. In quel momento i due mancati presidenti della Repubblica del 2022 paiono già conoscere, aver capito, essersi detti, il finale. Tra Casini e Draghi, alfa e omega di questo scorcio di legislatura, si stendono le macerie dell’ordine delle cose così come l’avevamo conosciuto sin qui. Il governo dell’emergenza, quello chiamato a risolve-
Foto: pagine 12 - 13 A. Solaro - AFP via Getty Image, pagine 14 - 15 A. Masiello - Getty Images
Prima Pagina
re pure l’emergenza Conte (oltre a tutto il resto), virtuosissimo e invidiato per tutto l’orbe terraqueo, e il suo mentore, prossimo alla santità whatever it takes. Il campo largo che voleva stendersi tra il Pd e il Movimento grillino, la stessa esistenza dei Cinque Stelle primo partito nelle elezioni del 4 marzo 2018, divenuto nel 2022 il partito che apre la crisi. Un centrodestra moderato, dignitoso, capace di mettere da parte le proprie tentazioni populiste pur di affrontare le difficoltà del mondo post pandemico e immerso nella guerra ucraina, divenuto un centrodestra all’inseguimento, dominato dal timore che sia una donna infine a guidarlo. Un Parlamento che si prende le sue responsabilità: in fondo anche questo scivola via, in una giornata che il segretario dem Enrico Letta alla fine definisce «folle» (ma la sera prima si era pro-
Il presidente della Repubblica Sergio Mattarella
dotto in una devastante previsione: «Domani mi sveglierò sereno»). Niente di tutto quello che c’era è rimasto in piedi - e si vedrà con quali conseguenze - in una contesa che ha il sapore della partita a poker giocata al buio tra inesperti e che ha d’improvviso spalancato lo scivolo, il burrone. Una partita a fermare Draghi che i suoi principali attori, i responsabili dai Cinque Stelle alla Lega, hanno interpretato con l’aria del non siamo noi, non è colpa nostra, noi abbiamo fatto tutti i compiti. Una contesa, che - involontario omaggio allo sceneggiatore Mattia Torre che l’inventò - Mario Draghi ha al contrario affrontato con il piglio di un Corrado Guzzanti nella serie cult Boris: «Mi pare che l’unico tra noi due che sta facendo uno sforzo per evitare che io ti meni sono sempre io, la stessa persona che prima o poi ti menerà». Lui ha fatto lo sforzo, lui ha poi menato, con tutte le conseguenze del caso. Molti solchi, nel corso di questa crisi, ha in effetti scavato un indicibile atteggiamento di fondo dell’ex presidente della Bce, divenuto infine evidente: l’insofferenza per la politica, per i suoi protagonismi, per le sue lentezze, i suoi riti (pare che anche questo obbligo di, eventualmente, restare in carica per gli affari correnti gli sia parsa una specie di sadica bizzarrìa delle prassi parlamentari). Quella determinazione a preferire una fine onorevole ai giochetti dei penultimatum, quell’allergia a chi «minaccia sfracelli», che Draghi aveva fatto baluginare solo dopo la mancata elezione al Quirinale, dacché fino a quel momento si era soltanto trattenuto dall’esprimerla. Su quella insofferenza, via via crescente nel corso degli ultimi sei mesi ma per sua natura invisibile alla politica e ad essa incomprensibile, ha potuto prosperare la tentazione leghista di un Papeete due, realizzatosi poi al Senato per interposti Massimiliano Romeo prima, e Stefano Candiani poi. «Nelle conclusioni Draghi ha esagerato», diceva nei corridoi nel giorno fatale persino un filo-draghiano come Giancarlo Giorgetti, da sempre ufficiale di collegamento 24 luglio 2022
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La crisi politica tra il capo del governo e il Carroccio. Un senso di esagerazione che ha trapassato l’intero Parlamento, arrivando a lambire anche i dem più ottimisti, che sono rimasti sbigottiti dalle sberle che - dosando le gradazioni ma senza risparmiare alcuno - Draghi ha riservato alle responsabilità e all’operato dei partiti della sua maggioranza. È su quella inconfessabile draghiana voglia di piantarli che ha potuto prosperare anche lo strappo di Giuseppe Conte. Sgangherato, grottesco, in sé del tutto inconcludente, addirittura finito nel nulla, visto che fino alla fine il gruppo parlamentare del Senato ha potuto permettersi il lusso di non votare la sfiducia, né i suoi ministri si sono mai dimessi. Eppure bastevole, quello strappo, a fare nella tela della maggioranza il taglio sul quale poi si è innestata la voglia del centrodestra e segnatamente di Matteo Salvini di andare oltre, di chiamare alle urne. Quella sirena che un centrodestra com-
SERGIO MATTARELLA, DOPO AVER ISPIRATO TRE ESECUTIVI, SI APPRESTA A ENTRARE IN UNA LEGISLATURA CHE NON ELEGGERÀ UN NUOVO CAPO DELLO STATO patto avrebbe infilato subito come un goal a porta vuota e che invece, sfrangiato tra tanti tira e molla - compresa in ultimo la lite furibonda e simbolica in Forza Italia tra Licia Ronzulli e Mariastella Gelmini, con l’una che urlava «prenditi lo Xanax» e l’altra che ribatteva «sei contenta, adesso?» per poi lasciare infine gli azzurri - ha atteso fino all’ultimo a imboccare, per le sue difficoltà di assetto, costituzionali nel senso che sono inserite nel corpo stesso del centrodestra, nella sua struttura ossea. Lo si è visto perfettamente nei giorni di questa incredibile crisi. Di qua, il tentennante Matteo Salvini e il ri-trionfante Silvio Berlusconi, uno calante ma non domo e l’altro in eterna rimonta su se stesso come capo e padrone di casa, stavolta a villa Grande, stavolta mano nella mano con la bionda Marta Fascina, stavolta del cosiddetto 16
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«centrodestra di governo». Di là, la sempre più solida e sempre più in crescita Giorgia Meloni. Libera sin qui di dire ciò che voleva, di prendere la posizione che voleva, la presidente di Fratelli d’Italia ha prosperato sul suo essere l’unico partito di opposizione, dotato peraltro di ottima sapienza parlamentare, a differenza di altri. Plasticamente, anche se era una pura coincidenza, Giorgia Meloni si trovava in piazza all’Esquilino a Roma, nella chiusura della manifestazione “Piazza Italia” organizzata da Fabio Rampelli e inaugurata dieci giorni prima (guarda caso) da Giulio Tremonti, proprio nell’ora in cui il Senato votava la fiducia. Ed eccola dal palco proclamare «si voti tra due mesi, siamo pronti», la capa di FdI, dopo aver strategicamente prosperato proprio sulle mancanze del centrodestra di governo. È a fine gennaio, con la partita del Quirinale, quando si sono mostrati tutti i limiti strategici di Matteo Salvini, che Fratelli d’Italia ha visto il sorpasso nei sondaggi, mentre con le dichiarazioni dei redditi 2021 era già riuscita a superare la Lega per quel che riguarda gli introiti derivanti dal 2 per mille. Ed è sulle posizioni rispetto alla guerra in Ucraina che Giorgia Meloni ha poi potuto fare un altro passo avanti, mentre Salvini restava imbrigliato dall’obbligo di fare corpo unico con la maggioranza. È stato dunque, per converso, l’intollera-
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Foto: R. Fabi - NurPhoto via Getty Images, A. Masiello - Getty Images, A. Casasoli - A3
bile prospettiva delle praterie che Meloni avrebbe avuto in caso di prosecuzione del governo, a persuadere il cosiddetto «centrodestra di governo» a non sostenere più il governo, con lo strumento della non partecipazione al voto. Matteo Salvini ha strattonato i governatori del Nord come Luca Zaia e i moderati come Giorgetti, fino a portarli dalla parte della rottura. E portandosi così dietro anche una Forza Italia abbastanza riluttante.
TAGLIO ALTO
Il leader della Lega Matteo Salvini. A sinistra, il ministro Giancarlo Giorgietti. In alto, la presidente di Fratelli d’Italia Giorgia Meloni
Un esito che per certi versi fa piazza pulita delle incertezze accumulate in questo tempo. Un cambio d’assetto che le stesse mosse del Quirinale avevano cominciato in ogni caso già a prefigurare, all’apertura della crisi per mano di Conte. Proprio la determinazione con la quale, sin da suo inizio, il Colle ha ripetuto per giorni sempre la medesima alternativa (Draghi o il voto), anticipa infatti la nuova prospettiva in cui si muoverà Sergio Mattarella. Capo dello Stato rieletto da quasi sette mesi, ha davanti a sé altri sei anni e mezzo di mandato presidenziale. Cioè un tempo che supera anche la prossima legislatura, per la quale si tende a prevedere una maggioranza di centrodestra ma alla quale non tocca l’elezione di un capo dello Stato. Era proprio questo, in fondo, il principale ostacolo sulla strada di una rielezione di Mattarella, tanto riluttante, dal 2018 in poi, a dare l’incarico a un leader di centrodestra, proprio nell’epoca in cui più splendeva l'astro di Matteo Salvini, e invece capace di tessere la tela di ben tre governi di orientamento diverso. È il tempo, in questo caso a dettare invece il cambio: non più l’ora del governo di tutti, comincia un’altra storia. Nella quale anche evocare l’arrivo finale di Mario Draghi in stile Arcangelo Gabriele, come s’è fatto per quasi un decennio, diventerà per la prima volta per lo meno complesso. n © RIPRODUZIONE RISERVATA
MAURO BIANI
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Il commento di MASSIMILIANO PANARARI
La ribellione populista contro il tecnico-politico
L’
epilogo della crisi di governo “made in Giuseppe Conte” e poi rilanciata, su altre posizioni, dal destracentro si è rivelata assai istruttiva. E disvelatrice di tutta una serie di aspetti più o meno noti della politica italiana nella fase storica della crisi permanente. Proprio per affrontare le emergenze che stanno determinando un cambiamento di paradigma nelle nostre società - la pandemia con la “messa a terra” del Pnrr e, più di recente, la guerra in Ucraina scatenata da Putin - il presidente della Repubblica Sergio Mattarella era stato il maieuta dell’esecutivo di (tendenziale) unità nazionale, il «Governo di alto profilo che non debba identificarsi con alcuna formula politica», affidato a una personalità autorevole, diventato una «riserva della Repubblica» (come si direbbe in Francia) anche in virtù del suo prestigio internazionale. Tenere a bada il fascino irresistibile della campagna elettorale permanente per i partiti, però, è complicato, specialmente quando si tratta degli irrefrenabili animal spirits in tal senso dei leader populisti, che i tecnici non li soffrono in senso quasi antropologico. Perciò il capo dello Stato aveva scelto la strada della parlamentarizzazione della crisi, in
modo che risultasse chiaro e trasparente agli occhi dell’opinione pubblica chi intendeva sfilarsi e sulla base di quali motivazioni, aggirando la cortina fumogena del politichese di cui è inopinatamente divenuto specialista il Movimento Cinque Stelle in versione contiana. Il Colle ha dispiegato, insomma, ancora una volta quella moral suasion che, come si è potuto constatare, costituisce ben più di una forma soft power nell’arco delle presidenze Mattarella. E, difatti, portando alla caduta del governo questa crisi politicista, che si è grottescamente sommata alle tante emergenze in corso, ha svelato che il ceto politico è nudo. E ha anche prodotto una metamorfosi politica dell’ex banchiere centrale Mario Draghi, il quale, pure, ha palesato dei tratti da impolitico in alcuni passaggi, e - per dirla in termini un po’ grossier - in taluni momenti avrebbe dovuto comunicare di più. Le lettere e le manifestazioni di sostegno dei giorni passati a Draghi avevano così plasticamente decostruito la narrazione su cui l’antipolitica - anche quella arrivata a governare (o, per meglio dire, a sgovernare) - ha prevalentemente costruito le sue fortune dagli anni di Tangentopoli in avanti. Dai sindaci agli infer-
NON È BASTATO A DRAGHI RIVOLGERSI AI CITTADINI “DISINTERMEDIANDO” I PARTITI
mieri, dalle categorie economiche ai lavoratori marittimi fino ai gruppi di cittadini autoconvocati (in stile riedizione, più trasversale politicamente, dei “girotondi” dei primi anni Duemila) non si può certo dire che una parte del “popolo” non abbia chiesto il ritorno di Draghi a palazzo Chigi. E, d’altronde, tutti i cittadini sono componenti del popolo (oltre che dell’opinione pubblica), a dispetto della narrazione dicotomica e polarizzante su cui lucrano elettoralmente i partiti populisti quando premono l’acceleratore della propaganda. Aveva allora fatto la sua comparsa un Draghi «tecnopopulista», come ha sostenuto qualcuno dopo averlo sentito pronunciare nelle sue comunicazioni al Senato la frase «Sono qui perché gli italiani lo hanno chiesto»? Sebbene la categoria - combinazione di tecnocrazia e populismo - sia una di quelle che si sono imposte di recente nel dibattito accademico, ci pare più opportuno parlare di un Draghi «disintermediatore» nei confronti dei partiti. Alla ricerca del consenso di una maggioranza parlamentare, e dunque anche - nelle articolazioni della società civile - di quello dei cittadini, proprio perché il suo governo non era l’esito di un voto popolare diretto. Disintermediando, per l’appunto, nei confronti delle segreterie e dei leader. Ma non è bastato, poiché la politica politicante, attraverso i partiti «già-populisti-e-ritornati-tali», è insorta contro il tecnico-politico che aveva provato a disciplinarla. E, naturalmente, ha finito per prevalere.Q © RIPRODUZIONE RISERVATA
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La crisi politica
ANCORA CAIMANO LA POSTURA “RESPONSABILE” NON È DURATA. BERLUSCONI HA PRESO L’INIZIATIVA CONTRO IL GOVERNO. L’ULTIMO TENTATIVO DI TORNARE ALLA GUIDA DEL CENTRODESTRA
C
i siamo cascati un’altra volta. Confusi da quel solito doppio strato di cerone o di calza color carne. Il solito Silvio Berlusconi, ineffabile e pure imprendibile, il Caimano mai sazio di morsi, ci ha fregati ancora. Così diverso e sempre uguale a sé stesso, immune agli acciacchi, ai giudici come gli piace dire, al calendario come non gli piace dire, ha diretto la caduta di governo col solito piglio da padrone di casa anche se Forza Italia è una casa sempre più piccina e di periferia. La postura non ha mai patito sondaggi e risultati elettorali. E i giorni di agonia del governo di Mario Draghi ci consegnano una immagine potente che può apparire una replica, di quelle che su Mediaset preferiscono perché non costano e hanno già ricevuto un vaglio di pubblico, spesso positivo. Ecco il Caimano, più lento nei movimenti e non
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meno truccato, più propenso ad ascoltare che a inondare di parole, con maglie più larghe e coperto sul collo, che perentorio detta la linea. Con una mano per tenersi sul bracciolo della poltrona di vimini e con l’altra consegnata alla giovane fidanzata Marta Fascina, quasi moglie dopo un quasi matrimonio, in una villa, villa Grande, tra i pini marittimi sull’Appia antica, non più nel centro di Roma nel maledetto palazzo Grazioli, e il giovane alleato Matteo Salvini, chissà quanto delfino, i suoi delfini si perdono appena nuotano in acqua alta, piegato sull’addome per tendere l’orecchio verso il Caimano. Forza Italia incluse le sue declinazioni, rifondazioni e mal riuscite fusioni ha iniCarlo Tecce ziato la sua settima legislaGiornalista tura (2018) da partito
Foto: M. Minnella / FotoA3
DI CARLO TECCE
Silvio Berlusconi. Alle sue spalle Mariastella Gelmini
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La crisi politica battuto, a sorpresa - perché fu una sorpresa, non bisogna cestinare gli appunti recenti - scalzato alla guida del centrodestra proprio da Matteo Salvini con la nuova Lega sovranista e non più federalista e incalzato nelle retrovie dai nipoti missini di Giorgia Meloni con Fratelli d’Italia. Matteo e Giorgia erano così affettuosi con nonno Silvio, e a volte infastiditi, eccome, chi si scorda le scenette durante le consultazioni al Quirinale, soltanto perché volevano spartirsi l’eredità, mica altro, non c’era altro, non un’idea comune, giusto le tasse, i magistrati, la sinistra, toh. Poi Matteo l’ha tradito con i Cinque Stelle, i nemici giurati di Berlusconi, Forza Italia, di ogni cosa avesse le sembianze berlusconiane. Tutto. Silvio non l’ha perdonato né maledetto, l’ha aspettato, sicuro che avrebbe combinato guai. Il Caimano si premurò soltanto che i ragazzi Matteo e Luigi (Di Maio) non adottassero provvedimenti contro il conflitto di interessi o lo strapotere di Mediaset. Ottenute le dovute garanzie da Salvini, bene: ragazzi, divertitevi pure finché ve lo permettono. Durò un anno, cioè dodici mesi di calvario. Dopo i brindisi del Papeete, in un’altra estate afosa, Salvini è tornato ad Arcore spaesato. Berlusconi ci tiene che venga elogiata e ripetutamente elogiata la sua bontà, perciò l’ha fatto entrare, mentre a Mediaset ormai si puntava già su Meloni per fare ascolti (e politica). Allora Salvini ha cominciato a sdoppiarsi, a vivere in sospeso tra la competizione con Giorgia e l’emulazione di un moderato qualsiasi di Forza Italia, a lamentarsi del sostegno di Mediaset a Fratelli d’Italia, ad agognare il supporto di Fedele Confalonieri, a tentare di ridurre la diffidenza di Gianni Letta. Il Caimano, sornione, non gli ha rimproverato nulla. Anzi l’ha nominato senza nomine ufficiali prossimo titolare di Forza Italia. Salvini ci ha creduto. Ci crede sempre. Non sbaglia a crederci. Forza Italia rimane l’unico modo per raggrumare più consenso di Meloni, cioè sommare i voti forzisti con i voti leghisti. Andare alla casella di partenza ripassando dal via. Siccome Berlusconi rimane un borghese con dei valori variabili, ma pur sempre valori, ha preteso che Salvini vestisse abiti più consoni - quanto adora far vibrare la esse - al centro liberale di Forza Italia. Insomma Salvini ha dovuto accettare Mario Draghi, che Silvio ha reputato figlio 22
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Fedele Confalonieri. Sopra: il saluto di Adriano Galliani al premier Mario Draghi mercoledì 20 luglio in Senato. Nella foto grande: Gianni Letta. Nell’altra pagina: Berlusconi con Marta Fascina e Matteo Salvini durante il vertice del centrodestra nella stessa giornata
suo, prodotto italiano, orgoglio tricolore. Fino a un certo punto. Perché il buon Mario non soccorse il governo Berlusconi nel 2011. Anzi. Però nel momento di unità nazionale mica il Caimano, dubbioso e forse un po’ rancoroso, poteva sottrarsi all’appello di Sergio Mattarella per salvare il Paese. Il Paese che ama. Agli ordini Salvini, dunque. Draghi ha esagerato, però, nel seguire le indicazioni di Gianni Letta senza coinvolgere gli apostoli di Silvio. Ha reclutato nel suo governo Renato Brunetta, Mara Carfagna e Mariastella Gelmini e s’è inimicato Antonio Tajani e Licia Ronzulli. Quando Forza Italia s’è opposta al trasloco di Draghi al Colle, Berlusconi non se n’è dispiaciuto poiché era più che dispiaciuto, offeso, che Draghi non avesse supportato la sua di candidatura. Per molti mesi Silvio s’è occupato di altro: il Monza da portare in serie A con Adriano Galliani, il senatore più lesto che mercoledì mattina è accorso ai banchi di governo a salutare Draghi; le visite e i controlli all’ospedale San Raffaele; la relazione con Marta mentre la ex Francesca Pascale si
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Foto: A. Casasoli / FotoA3, Riccardo De Luca / AGF, Ansa
LA FAZIONE MILANESE DI CONFALONIERI HA PREVALSO SU QUELLA ROMANA DI LETTA. E UNA DECISIONE SULLA SUCCESSIONE RESTA ANCORA LONTANA sposava con Paola Turci. Per molti mesi, infine, Silvio a Roma c’è venuto di rado e ancora meno, meno volentieri, s’è infilato nelle faccende politiche. Quando la cronaca ha richiesto la sua presenza dopo le dimissioni respinte di Draghi, ha imposto che il quartiere generale del centrodestra di governo, ben distinto dal centrodestra di non governo con Fdi, fosse nel suo giardino sull’Appia antica, che i cortei di auto blu fossero costretti a sobbalzare sui sampietrini irregolari, che dieci o venti politici in alta uniforme fossero concentrati a interpretare le sue smorfie. Sospinto da un profondo desiderio di concedersi un’altra campagna elettorale e da un indomabile istinto a essere severo con l’amico chissà quanto amico Mario, s’è infuriato, più di Salvini, dopo la visita a Palazzo Chigi di Enrico Letta e non s’è calmato quando la delegazione di centrodestra di governo è stata ricevuta in serata. Poi ha rovesciato la maggioranza, con più ferocia di Salvini, dopo l’intervento di Draghi in aula. Il pretesto, e che pretesto, per sfruttare la crepa
aperta dagli odiati Cinque Stelle. Quando si alza e se ne va vuol dire che ha prevalso Milano su Roma, che le invettive di Confalonieri, più di un eterno presidente di Mediaset, hanno sovrastato gli inviti alla placida riflessione di Letta. Fedele Fidel Confalonieri ha dichiarato in pubblico il suo gradimento per Meloni e non s’è mai entusiasmato per Draghi (al Colle mai, mai, mai). Forza Italia ha sofferto sino all’ultimo per le sofferenze del governo, ha sbandato perché da anni non ha una precisa direzione. Non importa. Il Caimano ha denti aguzzi e però non produce impronte. Ai posteri si dirà che Draghi era il migliore e anche i migliori sbagliano. Quanto a Matteo Salvini. Si tenga pronto. Non perda la speranza. Il domani è suo. E nemmeno Giorgia Meloni, non deve disperare, Silvio non caccia nessuno, il centrodestra di governo è un luogo accogliente, soprattutto per chi ha un quinto o un quarto dei voti degli italiani. Ragazzi, il futuro è vostro. A Silvio lasciategli il presente. Quello che non finisce mai. Q © RIPRODUZIONE RISERVATA
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L’analisi di FRANK BAASNER*
L’Italia si gioca la faccia al cospetto dei partner dell’Ue
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risi di governo in Italia» questa notizia probabilmente non stupisce, né a Berlino, né a Monaco o a Parigi, coloro che comunque non hanno mai creduto che l’Italia possa essere un partner europeo chiave per affrontare le enormi sfide che ci troviamo davanti. I peggiori stereotipi, ancora presenti nelle menti di molti cittadini europei, sembrano confermati: Italia ingovernabile, Italia autoreferenziale, Italia che prende i soldi degli altri e guarda solo ai giochi politici domestici. Un vero peccato, perché l’immagine dell’Italia non aveva mai visto un miglioramento come negli ultimi tempi con il governo Draghi. L’Italia, Paese di sogno per la maggioranza di cittadini europei che non hanno la conoscenza delle reali forze e debolezze del «Belpaese », si era schierata dalla parte degli attori seri dell’Ue. Nel corso della pandemia i partner hanno guardato all’Italia con un atteggiamento di partecipe solidarietà, ma anche di ammirazione per la capacità di reazione e resistenza nella crisi gravissima e per l’organizzazione più che prussiana delle misure di lockdown. Senza l’emancipazione degli stereotipi trasmessi da de-
cenni sulla scarsa affidabilità degli italiani, senza l’autorevolezza internazionale di Mario Draghi, i 26 Paesi dell’Ue non avrebbero mai accettato l’immenso piano di investimenti Next Generation Eu che vede gli italiani maggiori beneficiari con miliardi di euro donati al Paese particolarmente colpito dalla pandemia, permettendo all’Italia gli investimenti e le riforme strutturali necessarie da tempo. Come spiegare al contribuente tedesco, francese o olandese che deve spendere per un Paese che, invece di mettere in atto l’agenda politica urgente, si diverte a giocare il vecchio gioco delle vanità politiche? Ma non parliamo solo di immagini. La Francia e la Germania, tradizionalmente considerate il motore dell’Ue, si erano aperte all’idea di un terzo partner importante, per il suo peso economico, per il numero dei suoi cittadini e per il valore storico della sua cultura e civiltà. Nel 2021 la Francia e l’Italia hanno firmato il trattato del Quirinale, preparato da anni, che dà una risposta al trattato franco-tedesco di Aquisgrana del 2019. Rendere più strutturata e stabile la cooperazione in molti campi, dalla difesa alla scuola, per poter pesare di più a livello europeo, ecco l’o-
LA PARABOLA DELL’ESPERIENZA DRAGHI SEMBRA AUTORIZZARE IL PREGIUDIZIO DI INAFFIDABILITÀ
biettivo. La Germania dal lato suo si è sentita costretta a reagire per non lasciare nascere un secondo centro di potere europeo, soprattutto in vista di un’eventuale riforma del patto di stabilità che per la Francia e l’Italia va rifatto, per la Germania invece mantenuto. Il governo tedesco attuale sta dunque preparando un accordo di cooperazione rafforzata con l’Italia - meno di un trattato formalizzato, ma segno di un impegno forte e di un rapporto basato sulla fiducia. Tutto questo è rimesso in discussione con la fine del governo Draghi e con esso l’immagine dell’Italia adulta. Molti italiani sottovalutano il peso e l’immagine positiva che il loro Paese ha attualmente in Europa. E questo è merito di Draghi innanzitutto. Certo che una crisi di governo fa parte dei sistemi democratici. Ma far cadere un governo senza pensare alle conseguenze, senza misurare l’impatto che un Paese importante come l’Italia ha sulla situazione europea e internazionale è semplicemente irresponsabile e contrario agli interessi dell’Italia stessa. La reputazione si distrugge in un secondo, ricostruirla può richiedere anni. E che non ci si venga a dire che l’Italia non accetta lezioni o ordini da nessuno - guardare il proprio ombelico non basta nel contesto delle interdipendenze globali. Q *direttore dell’istituto franco-tedesco a Ludwigsburg © RIPRODUZIONE RISERVATA
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La crisi politica L’ALLEANZA CHE DOVEVA ESSERE IL CENTRO DEL CAMPO LARGO È SEMPRE PIÙ IN FORSE. E TRA I DEMOCRATICI CRESCE IL MALCONTENTO VERSO LETTA DI ANTONIO FRASCHILLA
PD-M5S IL LUNGO ADDIO L
o strappo del leader del Movimento 5 stelle Giuseppe Conte di certo ha ottenuto un risultato, oltre a far perdere l’equilibrio al governo di Mario Draghi: incrinare l’asse con il Partito Democratico e aprire una crepa nella quale si stanno fiondando diverse anime dem per convincere il segretario Enrico Letta a rompere definitivamente con il Movimento 5 Stelle. Molti capicorrente chiedono di mettere subito in soffitta l’asse giallorosso e quelle frasi della sinistra Pd di Nicola Zingaretti e Goffredo Bettini sull’avvocato del popolo «riferimento fortissimo» per i progressisti. Le mosse del presidente dei Cinque Stelle che ha aperto una crisi che, evidentemente, non ha saputo più gestire (tanto che fino
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all’ultimo momento non si capiva che cosa avrebbe votato in Senato il Movimento di fronte a Draghi dimissionario e poi si è astenuto rompendo ancora una volta l’asse con i dem) hanno aperto gli argini: e quelli che prima erano solo bisbigli nei corridoi di Montencitorio, di Palazzo Madama e di via del Nazareno, sono diventate urla al telefono e nelle riunioni riservate. Tanto che qualche peone tra i dem in Parlamento ha iniziato a chiedere la testa del proprio segretario «che ha giocato tutte le sue carte su questa alleanza, ha sbagliato, e quindi dovrebbe trarne le conseguenze». Il Partito Democratico rischia l’ennesima giravolta restando con il cerino in mano, isolato in vista del voto per le Politiche e senza una strategia chiara: «Un disastro, a questo punto dobbiamo correre da soli e
Foto: M. Minnella - A3
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massimizzare il risultato del Pd al voto provando almeno a essere primo partito nel proporzionale davanti a Fratelli d’Italia e alla Lega», dice un componete di peso della segreteria dem a L’Espresso dopo la giornata di mercoledì scorso e il caos sul governo Draghi. In realtà proprio il giorno delle comunicazioni di Draghi in Senato sulla crisi, la prima a rompere pubblicamente gli argini del “grande” asse Letta-Conte è stata l’ex ministra Marianna Madia, che in una intervista a Repubblica ha detto che «i Cinque Stelle sono degli spregiudicati, avendo aperto una crisi da folli» e Antonio Fraschilla che «questo Movimento è Giornalista incompatibile con il Pd».
L’asse in crisi Il segretario del Partito democratico Enrico Letta ha puntato tutto il suo mandato sull’alleanza con il Movimento 5 stelle guidato dall’ex presidente del Consiglio Giuseppe Conte. Tanto da lanciare il primo test: le primarie per la scelta del candidato governatore in Sicilia
Aperto il giornale, in via del Nazareno Letta è andato su tutte le furie e ancor prima dell’arrivo di Draghi a Palazzo Madama ha fatto mandare una velina alle agenzie: «Le frasi della Madia non riflettono il pensiero della segreteria del partito». Un tentativo, disperato, di tenere tutti uniti e buoni da parte di Letta che confidava in una «giornata meravigliosa» che si è presto trasformata in un incubo dopo che Silvio Berlusconi e Matteo Salvini hanno preso la palla al balzo offerta da Conte per aprire davvero la crisi del governo Draghi. Una velina che ha dimostrato debolezza e non forza, perché il segretario sapeva già bene che il malumore covava da tempo nel suo partito non solo nei confronti di Conte e delle sue giravolte, ma anche nei confronti di tutta l’operazione campo largo con i grillini in calo di consensi in maniera vertiginosa: vedasi voto delle amministrative di Palermo, una delle roccaforti dei Cinque Stelle, che ha visto il Movimento arrivare ad appena il 6 per cento dei consensi nonostante l’impegno di Conte in persona che ha girato tutti i quartieri della città in campagna elettorale. Non a caso, a esempio, in via del Nazareno si vocifera di dialogo serrato tra Letta e il suo vice nel partito, Giuseppe Provenzano, proprio nei giorni tra il mancato voto di fiducia del Movimento Cinque Stelle al ddl Aiuti e le comunicazioni di Draghi in Senato. Provenzano ha ribadito la necessità di una riflessione sull’alleanza con i Cinque Stelle: un’alleanza che rischia di mettere in grande difficoltà il partito tra l’altro senza quel valore aggiunto in termini di consenso. Della stessa opinione anche Matteo Orfini, che ai suoi ha detto chiaramente che a questo punto «meglio provare a superare Fratelli d’Italia» e diventare comunque primo partito anziché finire trascinati in basso dal crollo del Movimento. Provenzano e Orfini erano già, ben prima del mercoledì nero di Letta, un grande campanello di allarme per il segretario, considerando che culturalmente sono più vicini all’area degli ex Ds rappresentata da Zingaretti e Bettini che invece restano i più grandi sostenitori dell’alleanza con l’avvocato del popolo: tanto che proprio Bettini anche durante la confusione in Senato sul futuro del governo Draghi ribadiva che occorreva «ascoltare le istanze portate avanti da Conte». Concetto che aveva espresso anche all’ultimo 24 luglio 2022
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Il governatore dell’Emilia Romagna Stefano Bonaccini. Sopra, il leader di Italia Viva Matteo Renzi. In alto, il vicesegretario del Pd Giuseppe Provenzano
LE PRIMARIE PER LE REGIONALI IN SICILIA RISCHIANO DI ESSERE INUTILI. IL RISULTATO POTREBBE NON ESSERE NEMMENO TENUTO IN CONSIDERAZIONE 28
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i Cinque Stelle che nel frattempo si è rotto a livello nazionale. Impossibile fare finta di nulla nell’Isola. Il Partito democratico comunque rischia davvero l’isolamento e di doversi presentare al voto, in Sicilia, in Lombardia e a livello nazionale, da solo e senza alcuna possibilità di andare a governare a Palermo ma soprattutto a Roma: considerando anche la legge elettorale nazionale che prevede collegi uninominali che obbligano ad avere coalizioni al seguito per provare a vincerne qualcuno. Letta si gioca il posto di segretario, e lo sa, perché ha puntato tutto su Conte e non può certo pensare di andare al voto al massimo con un accordicchio con Italia Viva del mai amato Matteo Renzi. Anche perché, fare una campagna elettorale con i renziani soltanto è una impresa impossibile. Basta vedere quello che è accaduto a Bologna, dove proprio nel D-day del governo Draghi volavano gli stracci tra i renziani e il sindaco Matteo Lepore. Per gli esponenti di Italia viva erano «indigeribili» le parole del sindaco dem che aveva attaccato il referendum sul reddito di cittadinanza lanciato dal senatore di Rignano. Il portavoce di Iv, Alberto De Bernardi, ha detto: «Difendere il reddito di cittadinanza serve solo strumentalmente per fare la respirazione bocca a bocca all'alleanza progressista con il M5S, che fa acqua da tutte le parti. E se Lepore ci rimprovera e dice che se non amiamo il popolo non saremo ammessi al campo largo, lo vogliamo rassicurare: a noi quel campo non interessa per nulla». Proprio questo scenario, a dir poco pessimo, continua a far sperare ancora Letta e anche Dario Franceschini in una possibile alleanza con il Movimento Cinque Stelle per le prossime Politiche sostenendo la tesi che sì, Conte ha sbagliato mossa: ma in fondo non è stato lui a picconare Draghi, ma Salvini e il centrodestra. Non a caso continuano in questi giorni gli incontri riservati tra il segretario dem, il ministro della Cultura, Roberto Speranza di Leu e il presidente del Movimento Conte. Ma la strada è sempre più in salita e i malumori delle varie anime dem sull’alleanza con i grillini ormai sono esplosi e difficilmente Letta riuscirà ad andare dritto per la sua strada, l’unica imboccata da quando si è insediato alla guida del Nazareno. Q ©RIPRODUZIONE RISERVATA
Foto: N. Marfisi - Agf (2), M.L. Antonelli - Agf
coordinamento del partito in collegamento dalla Thailandia, facendo scattare la risposta del governatore dell’Emilia Romagna Stefano Bonaccini: «Ma basta con questi Cinque Stelle». Anche la corrente Base Riformista del ministro della Difesa Lorenzo Guerini ha aperto ad una rottura con i Cinque Stelle, nonostante da questo fronte proprio nei giorni della crisi si invocava massima cautela: «Perché senza i Cinque Stelle restiamo soli, ormai Carlo Calenda si è convinto che ha più visibilità andando in solitaria e non possiamo presentarci solo con Italia Viva di Matteo Renzi e i centristi che restano fuori dal centrodestra perché non graditi», ragionava uno dei più stretti collaboratori del ministro. Un ragionamento che però dopo il caos sul governo avviato da Conte non regge più. Dice a L’Espresso un deputato di Base riformista molto vicino a Guerini: «Come possiamo dire adesso agli elettori che andiamo a votare con Conte che ha rotto l’accordo che avevamo sul governo Draghi nel momento peggiore per il Paese? E allo stesso tempo, il segretario Letta che ha puntato tutto su questa alleanza non dovrebbe quanto meno presentarsi in direzione e dire “ho sbagliato”?». Nel Partito democratico crescono i dubbi sull’alleanza con i Cinque Stelle, anche se proprio questa domenica in Sicilia sono previste le primarie per la scelta del candidato governatore insieme a grillini e sinistra: in campo per i dem l’eurodeputata Caterina Chinnici, per i Cinque Stelle la sottosegretaria Barbara Floridia e per la sinistra da indipendente il deputato regionale Claudio Fava. Il rischio è che l’esito di questa consultazione sia buono soltanto per qualche titolo di giornale, e nulla più, venendo disatteso poco dopo. Impossibile derubricare ad accordo locale un patto con
La crisi politica
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L’opinione
di MANFREDI ALBERTI*
Il dibattito sul welfare è fermo all’Ottocento
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a crisi del governo Draghi, al di là dei modi e delle forme in cui si è espressa, ha riportato all’attenzione del dibattito pubblico alcune emergenze sociali ed economiche del Paese: i salari che non crescono, l’inflazione che ne erode il potere d’acquisto, la povertà diffusa anche fra chi lavora. In un Paese come l’Italia, l’unico in Europa dove i salari reali sono diminuiti dagli anni Novanta, si è cominciato anche a ragionare del salario minimo, un dispositivo esistente in altri Paesi europei e che potrebbe, a certe condizioni, evitare le forme più esose di sfruttamento del lavoro. Tra le misure più discusse spicca però il Reddito di cittadinanza, introdotto dal primo governo Conte, una misura oggi strenuamente difesa dal Movimento 5 Stelle e altrettanto duramente attaccata dalle destre. Se è sicuramente legittimo chiedersi quali siano i reali effetti del Reddito di cittadinanza (l’aumento dei salari o viceversa la loro diminuzione, in corrispondenza con la diffusione del lavoro nero), come pure domandarsi quale sia la sua efficacia nel contrasto alla povertà in presenza di truffe e irregolarità nell’assegnazione dei sussidi, non si possono tuttavia negare due circostanze. In primo luogo, la misura in questione ha introdotto per la pri-
ma volta un sostegno universale al reddito, in sintonia con i principi costituzionali di dignità e uguaglianza sostanziale tra i cittadini. In secondo luogo, i dati ci dicono che, almeno in parte, la misura ha funzionato. Il Rapporto annuale dell’Istat, presentato a Montecitorio l’8 luglio, ha dimostrato infatti che gli strumenti di sostegno al reddito erogati nel 2020 – incluso il Reddito di emergenza introdotto dopo lo scoppio della pandemia – hanno avuto un ruolo non secondario nella riduzione della povertà. Le somme erogate, secondo l’Istat, hanno permesso a un milione di individui (in 500.000 famiglie) di non trovarsi in condizione di povertà assoluta, con effetti più rilevanti tra i disoccupati e nelle regioni meridionali. Per avere un’idea delle proporzioni, uno sforzo finanziario cinque volte maggiore avrebbe – in linea ipotetica – azzerato interamente il problema. Nonostante questi fatti, voci tutt’altro che disinteressate, e non da oggi, continuano a chiedere con insistenza l’abolizione del Reddito di cittadinanza, considerato uno sperpero di risorse pubbliche e un disincentivo al lavoro. A lamentarsi non sono solo gli imprenditori della ristorazione o del settore alberghiero, convinti che i sussidi siano un incentivo all’ozio e una
IL SOSTEGNO AL REDDITO HA SOTTRATTO ALLA POVERTÀ ASSOLUTA UN MILIONE DI PERSONE 30
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minaccia per la redditività della loro impresa. Stando a quanto emerso da alcune indagini sui nuovi fatti di mafia a Palermo (in particolare l’inchiesta sul recente omicidio di Giuseppe Incontrera) anche i boss cittadini sembrerebbero fortemente ostili al provvedimento: renderebbe faticoso trovare “picciuttieddi”, ovvero giovane manovalanza disposta allo spaccio di droga e ad altre attività illecite pur di sfuggire alla miseria. Se a lamentarsi del Reddito c’è anche la mafia, forse ce ne sarebbe abbastanza per prendere un po’ più sul serio questa misura, per quanto imperfetta. Tocca purtroppo constatare che una parte della nostra classe dirigente sembra ferma al dibattito dell’Inghilterra di inizio Ottocento, agli albori della rivoluzione industriale, quando la nascente scienza economica, portavoce degli interessi della borghesia imprenditoriale, prendeva di mira il vecchio sistema delle Poor Laws inglesi, accusato di impedire la formazione di un vero mercato del lavoro, mantenendo in condizioni di oziosità legioni di poveri che, spinte dalla fame, avrebbero potuto sostentarsi attraverso il loro lavoro. Attendiamo con fiducia che il dibattito pubblico possa evolvere almeno verso le categorie novecentesche del Welfare State. Q © RIPRODUZIONE RISERVATA
*Ricercatore di Storia del pensiero economico. Dipartimento di Scienze politiche e delle relazioni internazionali. Università degli studi di Palermo.
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L’intervento
di FRANCESCO GIORGINO*
Sistema in cortocircuito nel Paese dell’emergenza
Se si adotta questa prospettiva analitica, appare di minor importanza stabilire chi abbia le maggiori colpe nell’opera di destabilizzazione del governo a guida Mario Draghi, la cui credibilità e competenza sono dai più riconosciute. Un esecutivo di unità nazionale, il suo, nato con due obiettivi, completare il piano di vaccinazione e riprogettare ed attuare il Pnrr, ma poi costretto dagli eventi a gestire con autorevolezza la delicata posizione dell’Italia rispetto al conflitto in Ucraina, con tutto ciò che ne consegue da un punto di vista geopolitico e geoeconomico, a partire da inflazione e dossier energetico. Spostando il baricentro argomentativo sulle ragioni di questa crisi sistemica, che rischia di reiterarsi ad ogni legislatura, emergono almeno tre nodi sui quali riflettere. Il primo è relativo alle difficoltà nella rappresentanza dei cittadini. Le formule più recenti, messe in campo
sfruttando le opportunità della digital transformation con l’intento prevalente di ridurre le distanze tra elettorato attivo ed elettorato passivo, si sono rivelate fragili e precarie. L’attuale legislatura, che si avvia alla fase finale, ha visto maggioranze diverse tra loro, programmi talvolta contraddittori, declinazioni identitarie differenti. E vien da chiedersi se più che la rappresentanza degli elettori non abbiano prevalso tattiche per la conservazione del potere e strategie per impedire ai propri avversari di governare. In questo quadro, anche il voto è stato sovente interpretato come uno spauracchio da evitare, più che come lo strumento funzionale a rendere simmetriche volontà dei cittadini e disegni partitici. Non si può non annotare che, solo per fare un esempio, Giuseppe Conte all’inizio è stato il nome scelto per far nascere il governo gialloverde, frutto dell’alleanza M5S-Lega. Poi è stato il nome individuato per assicurare stabilità all’Italia durante l’esecutivo giallorosso, esito dell’intesa tra M5S, Pd, Leu e Italia Viva. Da ultimo, come capo politico del Movimento fondato da Grillo e Casaleggio, è stato il soggetto posto al centro della costruzione del cosiddetto campo largo del centrosinistra.
RAPPRESENTANZA, RAPPORTI TRA GOVERNO E PARLAMENTO, COMUNICAZIONE: I TRE NODI 32
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Il secondo nodo, strettamente connesso al primo, è quello che induce a ritenere nelle democrazie rappresentative problematica la parziale alterazione della relazione, sarebbe meglio dire dell’equilibrio, tra Parlamento e governo, con il primo costretto a significative cessioni di ambiti funzionali al secondo in nome della, pur legittima, logica emergenziale. La crisi di questi giorni è nata per il logoramento dei rapporti tra i partiti di maggioranza che, molto diversi tra loro, ad un certo punto si sono impegnati nell’enfatizzazione delle proprie battaglie attraverso la difesa o la bocciatura di provvedimenti bandiera per recuperare il consenso perduto o stabilizzare quello acquisito. Il risultato? Aumento della conflittualità interna al governo, percezione esterna di instabilità a fronte dell’alta reputazione internazionale di Draghi e Mattarella, errata interpretazione del concetto di “politica”, che di certo non è solo “politic” (soggettualità partitica) ma soprattutto “policy” (capacità di programmazione). Il terzo e ultimo nodo riguarda il primato della rappresentazione sulla rappresentanza. Sono deleteri gli effetti del processo di sostituzione della politica da parte della comunicazione. È ora di intervenire affinché tra agire comunicativo, per dirla con Habermas, e agire deliberativo vi sia più sincronia. Senza sbilanciamenti illusori e dannosi. Q © RIPRODUZIONE RISERVATA
*fgiorgino@luiss.it
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on è una crisi di governo quella che, nello sconcerto internazionale, ha fatto irruzione in questo caldissimo luglio 2022. È l’ennesima prova che l’Italia sta vivendo una crisi di sistema che va compresa e affrontata con urgenza.
Economia e ambiente
IL GREEN NON COLLOQUIO CON ELLY SCHLEIN DI GLORIA RIVA
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l rapido scioglimento dei ghiacciai sulle Alpi, il Nord Italia colpito dalla siccità e il Po in secca come non mai. Contemporaneamente l’Istat racconta che la povertà assoluta è triplicata dal 2005 a oggi - sono 5,6 milioni, quasi un italiano su dieci -, e che gli stipendi sono a livelli del 2009, con inflazione e disuguaglianze al galoppo. Se aggiungiamo i rincari energetici che gravano soprattutto sulle tasche dei cittadini più poveri, sembra che sull’Italia si stia abbattendo la tempesta perfetta: crisi climatica, crisi economica, crisi sociale e crisi energetica. Una tempesta che l’Italia affronta con un governo liquefatto. Elly Schlein, 37 anni, vicepresidente dell’Emilia Romagna, come può la politica presentarsi alla prossima tornata elettorale con una proposta credibile di fronte a questo concentrato di problemi? «L’errore più grande che potremmo commettere è ritardare ulteriormente la conversione ecologica e riprodurre il modello che ci ha
RITARDARE LA TRANSZIONE, UN ERRORE CATASTROFICO. MOLTO SI PUÒ FARE SUBITO. ECCO COME TENERE INSIEME INNOVAZIONE E TUTELA DEI LAVORATORI portati fino a qui, in nome di altre urgenze. Queste crisi intrecciate prendono il nome di sindemia: alla crisi economica e finanziaria, che ha cominciato a mordere le caviglie della fascia più povera della popolazione nel 2008, si è aggiunta la pandemia mondiale e una serissima crisi climatica, tutt’altro che imprevedibile, in grado di produrre effetti devastanti 34
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sui nostri territori e nelle nostre comunità. Se a ciascuna di queste crisi offriamo risposte plasmate sul modello sociale ed economico convenzionale, allora favoriamo un costante indebolimento della società, sempre più esposta al rischio di subire nuove crisi. Serve il coraggio di scartare in un’altra direzione, di modificare alla radice il modello». Quello che è stato fatto finora in Italia per contrastare il cambiamento climatico sembra influire negativamente sul mondo del lavoro e aumentare i divari. Il 110 per cento non aiuta chi vive in aree popolari. E la trasformazione energetica rischia di impattare negativamente sulle industrie maGloria Riva nifatturiere che hanno Giornalista poche risorse per la ridu-
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Foto: M. Lapini, Tania/Contrasto
PUÒ ATTENDERE zione dell’inquinamento e l’innovazione. «In queste settimane ci sono famiglie che stanno scegliendo se pagare l’affitto o le bollette. E non stiamo parlando di casi isolati, ma di migliaia di persone che non godono di un adeguato reddito da lavoro. L’innovazione tecnologica e la transizione energetica, se non guidate da politiche redistributive e da una consapevole tutela del lavoro, producono cottimo e sfruttamento ed è qui che manca l’azione politica. Manca la mobilitazione sindacale che negli anni ’60 ha portato allo statuto dei lavoratori, ma da allora il lavoro è profondamente cambiato. Quindi è necessario che la politica favorisca da un lato un moderno statuto dei lavoratori e delle lavoratrici a tutela dei nuovi lavori, dall’altro . la nascita e la crescita di imprese ambientalmente sostenibili e di adeguate professionalità». Se non sono i cittadini a chiedere questa
Il Po in secca per la siccità a Boretto (Reggio Emilia). Nell’altra pagina: Elly Schlein
svolta, difficilmente la politica si muoverà in questa direzione. «Cinque anni fa, quando sedevo al Parlamento Europeo, eravamo in pochi a sostenere la necessità di un Green Deal che oggi è realtà non è certo perché lo chiedevamo noi, ma perché c’è stata una straordinaria mobilitazione delle nuove generazioni mossesi come un unico movimento capace di scalare l’agenda politica internazionale ed entrare nelle case delle famiglie. Ricordare questo passaggio epocale è fondamentale per capire qual è stata la leva al cambiamento. Perché a partire dal quell’istanza collettiva, da quella maggiore consapevolezza, l’Europa ha varato un Green Deal con un giusto approccio all’urgenza di riduzione dell’impatto ambientale, come per il piano Next Generation Eu, che impegna i governi a usare quelle risorse per ridurre di almeno il 55 per cento l’emissione di gas serra entro il 2030». Dunque: abbiamo la consapevolezza e le risorse per favorire la creazione di un modello economico e industriale alternativo. È sufficiente? «No. In Italia continua a mancare una politica capace di guidare la conversione ecologica con adeguate strategie. E manca anche una politica in grado di agire sospinta da una logica redistributiva. Per capirci, se Elettricità Futura, l’associazione del mondo elettrico italiano che fa capo a Confindustria, richiede un sostegno della politica e delle istituzioni al fine di investire 85 miliardi di euro nei prossimi tre anni, così da installare 60 GW di nuovi impianti rinnovabili, creando così 80mila nuovi posti di lavoro, la politica non può non sostenere questo sforzo. La politica italiana deve capire che questo è un processo da puntellare con forza per non subire gli effetti collaterali di una mancata svolta industriale. L’Italia, che è il paese del sole, dell’acqua e del vento, deve sfruttare queste caratteristiche a proprio favore, evitando gli errori commessi in pas24 luglio 2022
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Il parco eolico del monte Longano a Durazzano (Benevento)
lioni di euro per la riqualificazione energetica delle case popolari, non solo per ridurre l’impatto ambientale, ma anche per contenere il costo delle bollette e per offrire dimore più confortevoli. La via è questa: la politica deve agire affinché la transizione ecologica diventi un bene desiderabile». Resta aperto tutto il tema delle disuguaglianze. «L’aiuto pubblico a pioggia non riduce le disuguaglianze, che devono essere affrontate dalla politica attraverso un’azione chirurgica: individuando le fasce di popolazione in maggiore difficoltà. Facciamo un esempio: di norma si accede al fondo di sostegno al canone d’affitto fornendo i dati sul redditto, l’Isee, che tuttavia risalgono alla posizione economica famigliare di due anni precedenti. Quindi, chi si trova in cassa integrazione o è uno stagionale a cui non è stato rinnovato il contratto non viene preso in considerazione. Qui in Emilia Romagna grazie a un’innovativa piattaforma digitale potrà fare domanda al nuovo fondo anche chi ha subito un forte calo di reddito nell’ultimo anno. L’altro sistema per ridurre le disuguaglianze è ascoltare il territorio e rispondere alle loro esigenze». Facile a dirsi, ci faccia un esempio. «Lo scorso 24 maggio l’Emilia Romagna ha approvato all’unanimità la legge sulle Comunità Energetiche, partita da un lungo lavoro di ascolto delle proposte e delle richieste di categorie economiche, associazioni, ambientalisti e cittadini. L’ascolto ci ha permesso di raggiungere tre obiettivi: mirare a una vera indipendenza energetica per ridurre l’impatto ambientale; puntare a un considerevole risparmio in bolletta per aziende e famiglie; contrastare la povertà energetica così da ridurre le disuguaglianze economiche. Partendo dai suggerimenti della popolazione abbiamo avviato iniziative per informare i cittadini sui temi dell’energia rinnovabile e sulla condivisione dell’energia e formato le professionalità da coinvolgere per la creazione e gestione delle comunità energetiche. I finanziamenti, in tutto oltre 12 milioni, non saranno a pioggia, ma destinati in maggior misura alle comunità energetiche composte da soggetti fragili, enti del terzo settore, alloggi di edilizia residenziale pubblica o sociale, o situate in aree interne o che siano finalizzate alla creazione di progetti di inclusione e solidarietà in Q collaborazione con gli enti locali». © RIPRODUZIONE RISERVATA
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sato. Perché è già successo che agli incentivi economici per la produzione di rinnovabili non sono seguite adeguate politiche industriali di sviluppo della filiera industriale sottostante. Il mancato sostegno allo sviluppo dell’economia verde, che è ad alta intensità di lavoro e offre opportunità professionali competitive, sarebbe un danno enorme per il futuro del paese. Abbiamo bisogno di puntare su settori industriali ad alta produttività, come la produzione di energia verde, ridimensionando quegli ambiti che non offrono altrettanta ricchezza occupazionale. Per farlo è indispensabile favorire la formazione di competenze ecologiche e digitali e la creazione di nuove imprese. Non esistono alibi, perché stavolta abbiamo anche le risorse per farlo, visto che il 37 per cento del denaro stanziato dal Next Generation Eu deve essere destinato alla transizione ecologica e alla coesione sociale». Secondo lei perché la classe politica esprime ancora così tanta resistenza a un nuovo modello economico basato sulla riduzione dell’impatto ambientale? «Alexander Langer, che era un politico lungimirante, diceva che “la conversione ecologica avverrà quando apparirà socialmente desiderabile”. È quella desiderabilità che la rende accessibile alle fasce più fragili. Qui in Emilia Romagna abbiamo reso gratuito il servizio di trasporto pubblico per i giovani fino ai diciannove anni per favorire la creazione di una cultura propensa all’utilizzo del mezzo di trasporto collettivo. E abbiamo investito 20 mi-
Economia e ambiente
Esclusivo / La lobby del trasporto
LA CAMPAGNA
DI RUSSIA ACCORDI MILIONARI CON GLI OLIGARCHI. PATTI CON I BANCHIERI DI PUTIN. TUTTI I SEGRETI DELLO SBARCO DEL COLOSSO USA A MOSCA DI PAOLO BIONDANI E LEO SISTI Uber Files è il nome di questa inchiesta che ha unito più di 180 giornalisti di 44 testate internazionali, tra cui L’Espresso in esclusiva per l’Italia. I reporter di 29 nazioni hanno esaminato, insieme, oltre 124 mila documenti interni della multinazionale, ottenuti da The Guardian e condivisi con l’International consortium of investigative journalists (Icij). La fuga di notizie va dal 2013 al 2017 e svela le attività di lobby pagate da Uber per condizionare governi, bloccare indagini e modificare leggi anche in Italia, come documentano i nostri articoli pubblicati a partire dal 10 luglio. In queste pagine raccontiamo gli affari segreti del colosso Usa con gli oligarchi russi. Altri articoli sono su lespresso.it, con una videointervista a un rider nigeriano: uno dei lavoratori sfruttati da Uber Italy. L’Espresso fa parte del Consorzio internazionale dei giornalisti investigativi (Icij), una rete internazionale, coordinata da una fondazione senza fini di lucro nata nel 1997 a Washington, che oggi conta 280 cronisti d’inchiesta in cento nazioni
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ur di sfondare in Russia, i manager americani di Uber le hanno provate tutte. Hanno firmato accordi riservati con gli uomini più vicini a Vladimir Putin. Alleanze con la prima banca statale. Scambi di ricche quote azionarie. E consulenze pericolose, al limite della corruzione. La lista degli oligarchi agganciati dalla multinazionale californiana comprende diversi miliardari oggi colpiti dalle sanzioni dopo la guerra in Ucraina: da Roman Abramovich ai banchieri Herman Gref, Mikhail Fridman e Petr Aven, fino al re dell’acciaio Alisher Usmanov. Magnati russi con forti interessi anche in Italia, dove Aven e Usmanov si sono visti congelare proprietà milionarie. A svelare i segreti della campagna di Rus-
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Foto: M. Svetlov - GettyImages
Il presidente russo Vladimir Putin con Dmitry Medvedev, primo ministro dal 2012 al 2020 e vicepresidente del Consiglio di sicurezza della Federazione Russa
sia lanciata dal colosso Usa sono gli Uber Files, oltre 124 mila documenti ottenuti dal quotidiano inglese The Guardian e condivisi con l'International consortium of investigative journalists (Icij), di cui fa parte L’Espresso. Le carte rivelano le operazioni di lobby organizzate dal gruppo di San Francisco dal 2013 al 2017, che a Mosca si sono intensificate dal 2015 al 2016, mentre erano in corso altre campagne di pressione su politici e governi in Italia, Francia, Olanda e altri Paesi. A gestire la super lobby americana, in quei mesi, sono tre big: Travis Kalanick, co-fondatore e top manager della società fino al 2017; David Plouffe, ex consulente elettorale di Barack Obama, assunto come vicepresidente di Uber dal 2014 e Mark MacGann, responsabile fino al 2016 delle politiche azien-
dali in Europa, Africa e Medioriente. Il primo obiettivo è Abramovich. È un perfetto uomo-ponte, popolare in Occidente come patron del Chelsea, con forti entrature in Russia. Ne nasce una trattativa riservata, ma l'affare non viene concluso. A quel punto entra in scena Herman Gref, il capo della Sberbank, la prima banca statale russa, intimo di Putin, con un passato di ministro dell'Economia. I lobbisti di Uber sanno che quel banchiere di Mosca ama la Silicon Valley e nel 2015 invitano proprio lì, nel cuore tecnologico della California, lui e ben 36 dirigenti della Sberbank. La strategia per imporre in Russia il business del noleggio di auto con guidatore viene descritta in un rapporto di nove pagine, nel quale spiccano i nomi di Fridman e Aven, grandi azionisti di Alfa Group, che controlla anche la prima banca privata russa. Nelle prime righe si legge che Uber dovrà «tenere un basso profilo, data l'attuale situazione gePaolo Biondani opolitica». Un riferimento Giornalista alle sanzioni che hanno colpito il governo di Mosca e molti oligarchi già dal 2014, dopo l'annessione della Crimea. Per preparare l'attività di lobby, Uber elabora una mappa della nomenklatura Leo Sisti russa divisa in quattro giroGiornalista ni. Nel primo («Executive») c'è solo un nome: Putin. Nel secondo («Legislative») ci sono quattro caselle: la più grande è per Dmitri Medvedev, allora capo del governo. Nel girone «Business», oltre a Gref e altri oligarchi, ci sono i banchieri Fridman e Aven, azionisti anche di una società lussemburghese, Letter one holdings. Una nota interna di Uber, intitolata «Domare l’orso», delinea il piano per conquistare il mercato russo. Il primo risultato viene raggiunto in fretta. Nell'estate 2015 il lobbista Plouffe incontra a Mosca il banchiere Gref. Poco dopo, in settembre, Uber e Sberbank firmano un memorandum. Un'operazione in tre punti. La banca lancia un programma di prestiti agevolati per l’acquisto di vetture per gli autisti di Uber. La multinazionale ricambia offrendo punti fedeltà ai clienti di Sberbank, in base al numero di corse, 24 luglio 2022
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Esclusivo / La lobby del trasporto con il “progetto Spasibo”, che in russo significa grazie. Mossa finale: la banca emette una carta di credito «privilegiata» per chi usa Uber. L’alleanza di Uber con Sberbank viene però attaccata dalle organizzazioni dei tassisti russi. Inferociti, il 7 settembre 2015 mandano al primo ministro Medvedev una lettera di fuoco. Scrivono che già dal giugno 2015 Sberbank sta inviando sms ai titolari di carte di credito offrendo bonus per chi usa Uber invece dei taxi. Denunciano che quel patto li danneggia e viola le leggi in vigore. Invocano indagini per corruzione ed evasione fiscale. Chiedono perché una banca statale offra condizioni così favorevoli a una società americana. Medvedev viene chiamato a intervenire. Mentre i tassisti protestano a Mosca, il piano di Uber per domare l’orso russo prosegue al Forum di Davos. Tra i grandi dell'economia riuniti in Svizzera, nel gennaio 2016, la multinazionale fa «networking». Kalanick vede un manager dello staff di Alisher Usmanov, il miliardario con interessi dalla siderurgia ai media, concentrati nella sua Usm Holdings, che già mesi prima risulta aver investito 20 milioni di dollari in Uber. I lobbisti vogliono sfruttare la sua «influenza politica» a Mosca. Anche un secondo meeting ha successo. Al lussuoso hotel Belvedere c'è Alexey Reznikovich, socio di Letter one technology, filiale della lussemburghese Letter one holdings. Kalanick annota subito: «Siamo vicini a un accordo». E in febbraio Letter one annuncia di aver comprato azioni di Uber per 200 milioni di dollari. Una parte dell'accordo però rimane segreta. Ora si scopre che Uber aveva offerto altri 50 milioni in warrant (diritti d'acquisto) a prezzo vantaggioso, in cambio di «assistenza e consulenza» nei rapporti con la politica russa. A San Francisco i manager sono raggianti. E nello stesso meme «Domare l'orso» evidenziano l'importanza del «supporto personale» dei banchieri: «Con l’interessamento di Fridman, Aven e Gref, vicini a Putin, possiamo contare su un aiuto politico ad alto livello». In questa fase scende in campo un personaggio molto ammanicato, attivista del «Partito della crescita» allineato al Cremlino, un putiniano di ferro. Si chiama Vladimir Senin ed è anche un manager di Alfa Group, quindi lavora per Fridman e Aven. Sono proprio i due banchieri a segnalarlo come possi40
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ABRAMOVICH, I TRE BIG DEL CREDITO, IL RE DELL’ACCIAIO USMANOV: ECCO TUTTE LE TAPPE DEL PIANO AMERICANO PER “DOMARE L’ORSO” bile lobbista «a discrezione» del colosso americano. La sua missione è delicata: far passare in Parlamento una nuova legge ad hoc, per legalizzare Uber in Russia. Senin chiede 800 mila dollari. I vertici del gigante californiano si preoccupano e consultano primari studi legali. Il loro parere è tranchant: in caso di «tangenti per ungere le ruote» versate a un «agente straniero», c’è il rischio di essere accusati dai giudici americani di corruzione internazionale. Nonostante questo, nel maggio 2016 Uber decide ugualmente di procedere, abbassando l'offerta a 650 mila. Nel Parlamento russo però la legge contro i taxi non passa. Senin pretende comunque il suo compenso, ridotto a 300 mila dollari, da bonificare su un conto russo intestato alla compagnia offshore Btc Llc, creata lo stesso giorno del contratto con Uber. Nella sua mail sulla società di copertura, Senin usa uno pseudonimo latino: «Alter ego». Nello stesso periodo Kalanick pianifica un viaggio a Mosca, per ricambiare la visita che il banchiere Gref aveva fatto al quartier generale di Uber a San Francisco nel marzo 2016. Il 6 aprile gli scrive personalmente, au-
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Passeggeri di Uber in attesa all’aeroporto internazionale di Los Angeles. A sinistra, dal basso, Travis Kalanick, co-fondatore e top manager di Uber fino al 2017 e Herman Gref, presidente di Sberbank. Nell’altra pagina, la sede di Sberbank a Mosca.
gurandosi che Sberbank investa nel gruppo americano. Le trattative coinvolgono anche altri miliardari russi. Domenica 5 giugno, all'istituto Strelka, il manager americano incontra Alexander Mamout, un magnate dei media con un patrimonio di 2,5 miliardi. Il giorno dopo, Kalanick ha tre meeting. A pranzo, al ristorante italiano Il Forno, vede il vicepremier russo Arkady Dvorkovich. Nel pomeriggio incontra Fridman nella sede di Alfa Bank. Poi va a cena al Moscow city golf club con il banchiere Gref. Commento del lobbista MacGann: «Dio ama i russi. Qui affari e politica sono così... intimi». Martedì 7 Travis riparte. Il suo staff è entusiasta. Ma il 16 giugno proprio il vicepremier Dvorkovich, preoccupato per le proteste dei taxi, si schiera contro Uber. A quel punto il Parlamento boccia la legge. Nonostante l'appoggio di banchieri e oligarchi, dunque, la campagna di Russia è perduta. E per la multinazionale finisce un’era. MacGann si dimette nel 2016, stanco del suo «lavoro sporco», e nel 2022 diventa la fonte degli Uber Files. Nel 2017 anche Kalanick lascia la carica di amministratore delegato, su
pressione degli azionisti preoccupati da un’ondata di indagini e cause civili avviate negli Stati Uniti per sfruttamento del lavoro degli autisti. Oggi il nuovo vertice di Uber prende le distanze dagli «errori» e dai «passi falsi commessi in quegli anni». Alle domande del consorzio Icij, una portavoce di Kalanick ha risposto con una nota scritta: «Le sue iniziative per espandere il business di Uber in Russia si sono limitate a un viaggio e a pochi incontri. Kalanick ignora se qualcuno abbia abusato del nome della società per tenere un comportamento che potrebbe aver aggirato la legge». Il banchiere Aven ha dichiarato al Guardian di ricordare solo un meeting con un dirigente di Uber, precisando che lui non era coinvolto personalmente nell'investimento e di non aver mai fatto lobby: «Sono fuori dalla politica». Anche Fridman ha minimizzato il suo ruolo: «A parte il mio breve incontro con il signor Kalanick, non c’entro proprio». La società Letter one afferma di aver venduto le sue azioni di Uber nel 2019. E di non aver fatto lobby, ma solo «assistenza e consulenza strategica». Senin, Gref e il colosso Sberbank non hanno risposto. Mentre Usmanov ha fatto sapere al Washington Post che la sua società Usm ha fatto in passato molti altri investimenti tecnologici, «da Apple a Facebook, Spotify, Alibaba e Airbnb», per cui «è assurdo pensare che la holding o i suoi azionisti possano aver agito come lobbisti politici per Uber». Conclusione: «Usm ha fatto un investimento in Uber e dopo ne è uscita, realizzando un profitto che non vogliamo rivelare». Q © RIPRODUZIONE RISERVATA
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Guerra in Ucraina
PUTIN GIORNALISTI SUGGERITORI UNA PATTUGLIA DI BLOGGER CONTESTA L’ESERCITO E DETTA LA STRATEGIA, IL PRESIDENTE ESAUTORA I GENERALI, LI ASCOLTA E CAMBIA LINEA DI FEDERICA BIANCHI
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n Ucraina hanno preso a volare coltelli contro tutti gli avversari del presidente Volodymyr Zelensky, inclusi gli amici d’infanzia, oggi stretti consiglieri, come il capo dei servizi segreti Ivan Bakanov o la procuratrice generale Irina Venediktova. Amici sì, fedeli no. Con l’inizio dell’estate è diventato chiaro perché la guerra russa sarebbe dovuta durare solo tre giorni: una buona parte dell’establishment ucraino aveva spianato la via all’entrata dei carri armati moscoviti e si preparava ad assistere alla dipartita del leader e alla sua sostituzione con un novello Lukashenko. Poi, però, il presidente si è rifiutato di salire sull’elicottero offerto dagli americani e la storia ha
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preso un altro corso. In Ucraina come in Russia. Negli stessi giorni in cui Zelenzsky lo scorso giugno si è reso conto del tradimento dell’amico di sempre, Vladimir Putin ha aperto le sue porte segrete ad alcuni blogger militari pro-regime per capire davvero cosa stesse succedendo sul campo. Lo scorso 17 giugno, durante il Forum economico di San Pietroburgo, due corrispondenti di guerra russi, scavalcando il ministero della Difesa, hanno raccontato a porte chiuse, direttamente a Putin, la «confusione» Federica Bianchi che regna nelle prime liGiornalista nee. Fino a quel momento,
Foto: Laetitia Vancon / The New York Times / Contrasto
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l’informazione era strettamente controllata dai militari, con il consulente al ministero della Difesa Andrey Ilnitsky che chiedeva ai giornalisti di praticare l’autocensura e di raccontare la guerra solo dal punto di vista ideologico, senza entrare in dettagli operativi. Nessuno doveva sapere, soprattutto non il presidente, che le cose non stavano andando come narrato dagli alti generali. A stare alle fonti di intelligence, intercettate dall’Institute for the study of war, pare che Putin non sapesse nemmeno che una buona parte dei soldati al fronte ci fosse andata ignara della destinazione. Ironia della sorte, Putin è stato informato in modo corretto proprio da quella stampa che da decenni imbavaglia, impri-
Donne e uomini in attesa della distribuzione degli aiuti alimentari nella città di Mykolaiv, in Ucraina
giona, uccide. E non è un caso che da un mese i corrispondenti di guerra russi siano diventati la minaccia numero uno per gli alti ranghi dell’esercito: convinti che la Russia debba vincere, non perdono occasione per criticare le manovre mal riuscite e non coordinate dell’esercito. Come lo scorso maggio, quando un battaglione russo ha tentato di attraversare il fiume Siversky Donets all’altezza della città di Bilohorivka nel Donbass, solo per essere sonoramente battuto dagli ucraini e perdere centinaia di uomini e costose attrezzature. L’informazione libera in Russia non esiste da anni, per volontà di Putin, determinato a eliminare ogni forma di opposizione. Lo scorso marzo, il Parlamento ha 24 luglio 2022
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Guerra in Ucraina
Andrey Ilnitsky è il consulente al ministero della Difesa che ha dettato la linea alla stampa a cominciare dal divieto di utilizzare la parola guerra. A destra, Igor Girkin, comandante dei separatisti filo-russi del Donbass
addirittura approvato una legge che criminalizza ciò che considera falsità sulla guerra russa, definita «operazione speciale»: chi infrange la legge potrebbe ritrovarsi con multe fino a 20mila euro e 15 anni di prigione. La paura regna sovrana, e anche quei funzionari che non vorrebbero avere nulla a che fare con la guerra non aprono bocca per paura delle conseguenze. Putin è circondato a tempo pieno dai suoi ex colleghi del Kgb, i cosiddetti «siloviki», e dai servizi segreti per le attività militari straniere (Gru), ed è di fatto inavvicinabile. Gli alti funzionari pubblici sono sotto osservazione 24 ore al giorno, con il risultato che molti tra loro, e tra i militari, sono spariti per avere detto o fatto la cosa sbagliata nel momento sbagliato. A dispetto del fatto che non fossero oppositori. Ma i blogger militari russi e i corrispondenti dal fronte godono ancora di molti spazi di libertà. Sono gli unici a cui è consentito criticare la strategia russa e la leadership militare. Tra i più celebri c’è Voenny Osvedomitel che lo scorso 9 luglio ha
I CRONISTI GLI HANNO SPIEGATO PERCHÉ IL CONFLITTO LAMPO È FALLITO E PREMONO PER UN’OFFENSIVA MARTELLANTE A COMINCIARE DA ODESSA messo in evidenza la minaccia posta dai sistemi di artiglieria ad alta mobilità (Himars) forniti agli ucraini dall’Occidente e spiegato come complicano la logistica russa. Secondo Osvedomitel, la difesa aerea russa potrebbe diventare sempre meno efficace contro gli attacchi ucraini e ha chiesto all’esercito di migliorare il coordinamento tra intelligence e aviazione per identificare le potenti armi fornite dagli Usa. Un peso specifico importante tra questi giornalisti-militari è quello di Igor Girkin, un nazionalista russo, ex ufficiale dei servizi segreti, che ha giocato un ruolo chiave nell’annessione della Crimea nel 2014 e poi nell’occupazione del Donbass lo stes44
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so anno. Qui ha organizzato i gruppi di militanti pro-Russia fino all’assedio della cittadina di Slovyansk, città chiave del Donetsk a nord di Kramatorsk, durante il quale si è talmente messo in evidenza da diventare comandante militare di tutte le forze separatiste del Donbass, un incarico poi ufficialmente riconosciuto dai vertici russi della regione occupata. Per gli europei, Girkin è ufficialmente un criminale di guerra: il pubblico ministero olandese lo ha accusato nel 2019 di avere organizzato anche l’abbattimento del jet della Malaysia Airlines colpito da un missile russo mentre sorvolava i cieli ucraini il 17 luglio del 2014, attentato nel quale sono morti tutti i 283 passeggeri e i 15 membri dell’equipaggio. Nei suoi ultimi interventi su Telegram, Girkin ha ribadito che le truppe russe dovrebbero concentrarsi ora sul bombardare le linee di comunicazione terrestri attraverso cui arrivano gli Himars e le altre armi letali. Secondo lui, la pausa operativa di metà luglio ha nociuto all’armata russa perché ne ha esposto le vulnerabilità: l’esercito dovrebbe ricominciare immediatamente le ostilità, senza offrire alcuna tregua. Non è forse un caso che da qualche giorno siano
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MOSCA E PECHINO PUNTANO SULLE CRISI EUROPEE
ripresi con particolare veemenza i bombardamenti su militari e civili nella regione di Odessa. Di certo la voce di Girkin continua a rimbalzare su Telegram senza essere censurata. Il 29 marzo scorso aveva chiesto che la Russia si mobilitasse per conquistare «la cosiddetta Ucraina»; il 21 aprile aveva messo in guardia che «senza almeno una mobilitazione parziale della Federazione Russa sarebbe impossibile e molto pericolosa un’offensiva strategica» in Ucraina; il 13 maggio non si è tirato indietro nel criticare il ministro della Difesa russo Sergei Shoigu, accusandolo di negligenza criminale nella condotta dell’invasione. Proprio negli ultimi giorni trapelano le notizie di una campagna su larga scala in 85 regioni russe per la costituzione di battaglioni di volontari composti da uomini tra i 18 e i 60 anni, senza esperienza militare con cui rimpiazzare le truppe cadute in battaglia. Il sacrificio è ricompensato da salari di circa tremila euro al mese (1,2 milioni di euro al mese per ogni battaglione da 400 uomini) e dallo status di veterani: un prezzo altissimo. Ma anche l’unica alternativa alla coscrizione obbligatoria, che a Putin potrebbe costare la sopravvivenza. n
La crisi di governo italiana è musica per le orecchie di governi come quello di Mosca e di Pechino. Vuol dire che vacilla la tenuta dell’Unione europea, il nostro colosso economico con ambizioni geopolitiche rafforzate dalla gestione comune della crisi del Covid-19. E vuol dire anche che Bruxelles potrebbe non essere più un avversario formidabile per regimi autocratici e predatori come Mosca e Pechino. Perché se oggi la crisi ha toccato Roma e ieri ha sfiorato Parigi, togliendo a Emmanuel Macron la maggioranza assoluta in Parlamento, domani potrebbe arrivare fino a Madrid o Berlino, la cui classe dirigente, socialisti in primis, ha per anni scommesso sulla Russia. A quel punto l’unità degli europei sarebbe messa a dura prova. Per la gioia di chi vorrebbe trarre vantaggio delle divisioni e allontanare nuovamente l’Europa dagli Stati Uniti, a cui si è riavvicinata con l’invasione russa dell’Ucraina, tramite una Nato che sembrava defunta ed è tornata protagonista della geopolitica mondiale. «Non c’è dubbio che la coesione politica in molti Paesi europei è stata scompaginata quando la loro politica verso la crisi russo-ucraina è stata presa ostaggio dagli Stati Uniti», ha scritto il “Global Times”, l’organo di stampa rivolto al pubblico straniero del regime di Xi Jinping, che non definisce «guerra» l’invasione russa dell’Ucraina ma parla di «crisi russoucraina», e che continua poi con la critica diretta al premier Mario Draghi per avere dato più importanza alla pace che al condizionatore (nella sua celebre frase), ovvero all’inflazione. È proprio l’inflazione, oltre alla disseminazione di notizie false e all’iscrizione a libro paga di una serie di commentatori e politici europei, la principale arma con cui Mosca spera di ribaltare l’effetto delle sanzioni impostele dagli europei per arginare il suo espansionismo illegale. Il costo quintuplicato dell’elettricità, dovuto all’uso del gas come arma, sta da una parte finanziando la sua campagna d’Ucraina e dall’altra devastando il portafoglio di cittadini e imprese in economie che per un ventennio hanno fondato la loro ricchezza sulle forniture russe. Sta tirando colpi potenti alla Germania e anche all’Italia, anche se il dolore tenderà a diminuire man mano che ci allontaniamo dalla dipendenza: Draghi l’ha dimezzata in quattro mesi. Ma il malessere in una democrazia - lo sanno bene le dittature - si traduce facilmente in crisi politiche, cortesia di estremismi e populismi che logorano i governi, obbligandoli prima ad eccezioni, poi a retromarce, fino a fare vincere quei nazionalismi che puntano a distruggere dall’interno l’Unione europea. Questa volta la posta è più alta del solito: con gli Usa soffocati da una Corte suprema di estrema destra e un partito repubblicano forgiato nel trumpismo, Mosca e Pechino vedono più vicina la possibilità di mettere in grave difficoltà le democrazie occidentali. E puntano ad inglobarle nella loro sfera d’influenza. Una sfera che non è più soprattutto economica, come al tempo della globalizzazione, ma innanzitutto politica. E che spinge l’Occidente verso una nuova logica globale di tipo imperiale. A parti invertite. F.B. n © RIPRODUZIONE RISERVATA
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INDAGINE SUL COM
L’ex presidente americano Donald Trump
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PLOTTO DI TRUMP IL CONGRESSO E LE INCHIESTE PENALI ACCUMULANO PROVE SUL 6 GENNAIO. IL FUTURO DELL’EX PRESIDENTE È A RISCHIO. E ANCHE QUELLO DELLA DEMOCRAZIA USA DI ALBERTO FLORES D’ARCAIS DA NEW YORK
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entottanatasette minuti, poco più di tre ore. In quel lasso di tempo, era il 6 gennaio 2021, gli Stati Uniti d’America sono stati sull’orlo del baratro, con una folla armata ed inferocita che aveva assalito il Campidoglio costringendo alla fuga senatori e deputati e un presidente - formalmente ancora in carica per pochi giorni - che quella rivolta l’aveva ispirata, voluta, forse preparata. Quanto accaduto in quei 187 minuti e il ruolo giocato da Donald Trump in una rivolta armata senza precedenti negli ultimi due secoli di storia americana, sono stati al centro giovedì scorso dell’ottava udienza della commissione ristretta di deputati che indaga sull’assalto al Congresso. L’ultima udienza (per ora) di una indagine parlamentare che ha già messo in moto altre indagini (questa volta penali) e che condizioneranno da qui a due anni la vita pubblica e personale di The Donald e le vicende politiche e sociali dell’intera America. La deputata democratica della Virginia Elaine Luria, che ha condotto l’udienza insieme al repubblicano dell’Illinois Adam Kinzinger, ha ricordato le «dichiarazioni infiammatorie» fatte da Trump alla folla che si era radunata davanti al Campidoglio prima dell’assalto, le pressioni che The Donald fece sul vice-presidente Mike Pence
perché rifiutasse di accettare la sconfitta elettorale, la volontà manifestata dall’ex presidente di marciare alla testa dei rivoltosi. È stata una ulteriore presentazione di prove che implicano la diretta responsabilità di Trump in una cospirazione su più fronti per ribaltare la sua sconfitta alle elezioni del novembre 2020 e culminata nell’attacco armato al Congresso. Ha dimostrato l’incapacità dell’ex presidente di calmare la folla violenta e di come per diverse ore abbia mostrato una «suprema negligenza del dovere». La commissione ha esaminato cosa è successo dalla prima arringa di Trump fino a quando ha finalmente fatto una dichiarazione «alla nazione» invitando i rivoltosi ad andare a casa, ha riguardato i tweet dell’allora presidente che dalla Casa Bianca attaccava Pence per la mancanza di «coraggio di fare ciò che si sarebbe dovuto fare» per poi finire col dire alla folla violenta di «rimanere pacifica». Prove su prove per capire se Trump abbia violato i suoi doveri di presidente degli Stati Uniti, se abbia fedelmente o meno seguito la legge, se sia stato all’altezza del suo giuramento e della sua responAlberto Flores d’Arcais sabilità nei confronti del Giornalista popolo americano. A 24 luglio 2022
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Stati Uniti dare una mano alle motivazioni di Luria ci ha pensato Liz Cheney, deputato repubblicano del Wyoming e figlia dell’ex vice-presidente di George W. Bush, che in una precedente udienza aveva mostrato come Trump «non fosse riuscito a prendere provvedimenti immediati per fermare la violenza e a dare istruzioni ai suoi sostenitori di lasciare il Campidoglio». Cheney che alla vigilia dell’udienza ha confermato le prove: «Ascolterete un resoconto momento per momento dell’attacco durato ore da più di una mezza dozzina di membri dello staff della Casa Bianca, sia dal vivo nella sala delle udienze che attraverso testimonianze video. Non c’è dubbio che il presidente Trump fosse ben consapevole della violenza che si stava sviluppando.
THE DONALD È INTENZIONATO A CANDIDARSI NEL 2024 NELLA SPERANZA DI RIUSCIRE A TORNARE PRESIDENTE PRIMA DI UNA SENTENZA DEFINITIVA Non solo si è rifiutato di dire alla folla di lasciare il Campidoglio, ma non ha chiamato nessun membro del governo degli Stati Uniti per ordinare di difendere il Campidoglio. Non ha chiamato il suo segretario alla Difesa il 6 gennaio, non ha parlato con il suo ministro di Giustizia e neanche con il dipartimento di Sicurezza nazionale». Il futuro di Trump, del partito repubblicano e della stessa America è in gioco tra le indagini del Congresso e quelle penali che coinvolgono alcuni dei suoi più stretti collaboratori. ll dipartimento di Giustizia sta aumentando il numero di procuratori e di risorse per le indagini sulle azioni di chi si è alleato all’ex presidente per rovesciare il risultato elettorale del 2020, visto che le udienze del Congresso hanno fatto crescere il ruolo avuto dallo stesso Trump. Ad oggi i procuratori hanno accusato circa 850 persone in relazione alle violenze del 6 gennaio, tra cui più di una dozzina di membri di gruppi di destra accusati di cospirazione sediziosa contro gli Stati Uniti. Dalla 48
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L’assalto a Capitol Hill del 6 gennaio 2021
fine del 2021 il dipartimento di Giustizia ha iniziato ad indagare anche sulle fonti di finanziamento dei gruppi dell’estrema destra, assegnando le indagini a un noto e capace procuratore del Maryland, Thomas Windom. Inizialmente Windom aveva incontrato un certo scetticismo all’interno del ministero di Giustizia per le indagini sulle attività di diversi membri della cerchia ristretta di Trump, ma le ultime udienze e i nuovi dettagli sul coinvolgimento dei suoi fedelissimi gli hanno dato ragione e l’ex presidente potrebbe trovarsi presto ad essere accusato direttamente di frode, istigazione alla rivolta e ostacolo alla certificazione delle elezioni. C’è la testimonianza di Cassidy Hutchinson, ex assistente del capo dello staff della Casa Bianca Mark Meadows, che ha rivelato come Trump sapesse che alcuni dei manifestanti erano armati, ma li ha voluti comunque al suo raduno e al Campidoglio: «Non mi interessa che abbiano armi, non sono qui per farmi del male. Fate entrare la gente, da qui possono marciare verso il Congresso». L’altro punto dolente per Trump riguarda le rivelazioni sull’operato del Secret Service, gli agenti al diretto servizio di ogni presidente Usa. Durante le audizioni al Congresso sono stati confermati diversi dettagli sugli scambi di messaggi tra Trump e gli uomini della sua scorta, quando all’ex presidente venne detto che non poteva recarsi - come avrebbe voluto - al Campidoglio per guidare il corteo. Una settima-
Foto: Pool Reuters/ Contrasto, B. Stirton/Getty Images
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na fa la commissione della Camera ha emesso un mandato di comparizione ai dirigenti del Secret Service per ottenere i messaggi del 5 e 6 gennaio 2021 che sarebbero stati cancellati, oltre a tutti i rapporti successivi all’azione. Una decisione presa dopo che l’ispettore generale del Dipartimento di Sicurezza Nazionale, l’agenzia madre dei Servizi Segreti, ha incontrato la commissione e ha detto ai deputati che molti dei testi sono stati cancellati come parte di un programma di sostituzione dei dispositivi anche dopo che l’ispettore generale li aveva richiesti come parte della sua indagine sugli eventi del 6 gennaio. Anche in questo caso decisiva la testimonianza di Cassidy Hutchinson che ha ha ricordato come l’allora vice capo dello staff della Casa Bianca Tony Ornato - che aveva lavorato in precedenza per il Secret Service e poi era tornato all’agenzia nel 2021 - le ha detto il 6 gennaio che Trump era così infuriato con la sua scorta per avergli impedito di andare al Campidoglio che prima «ha allungato una mano verso la parte anteriore dell’auto presidenziale per afferrare il volante e con l’altra ha tentato di spingere via Robert Engel», l’agente a capo del Secret service. Hutchinson ha testimoniato che Ornato le ha raccontato la storia di fronte a Engel e che quest’ultimo non ha contestato il racconto. Le audizioni al Congresso hanno dimostrato come una triplice serie di elementi abbia portato al violento assalto al Campidoglio: un presidente che chiama all’azione
La testimonianza di Cassidy Hutchinson, assistente di Mark Meadows, capo dello staff di Trump alla Casa Bianca
sostenitori infuriati; una folla di ferventi sostenitori che crede alla “grande bugia” delle “elezioni rubate”; gruppi di estremisti violenti ed organizzati che guidano la folla all’assalto. Tre elementi che hanno sfruttato la rete online per diffondere disinformazione, pianificare un attacco violento, mobilitare una folla e fomentare la rabbia. Donald Trump e i suoi sostenitori hanno efficacemente approfittato di piattaforme di social media che hanno permesso alla disinformazione di agire liberamente, di reti online in grado di mobilitare rapidamente milioni di persone su siti web pro-Trump (come Parler, 4chan e Gab) e di decine di milioni di americani che non sono in grado di separare i fatti dalla finzione, soprattutto quando le informazioni false provengono da persone che dovrebbero essere fonti attendibili, come il presidente degli Stati Uniti. Per quasi un anno la squadra di fedelissimi che lavora per riportare Donald Trump alla Casa Bianca ha sconsigliato l’ex presidente dall’annunciare la sua candidatura per il 2024 prima delle elezioni di metà mandato (novembre 2022), temendo che potesse essere un freno per diversi candidati repubblicani del 2022 e che verrebbe incolpato nel caso di risultati per il Grand Old Party inferiori alle attese. Con i possibili avversari per la nomination (in prima fila il Governatore della Florida Ron DeSantis, l’ex vicepresidente Mike Pence, il senatore della South carlina Tim Scott, il Governatore del Texas Greg Abbott e l’ex ambasciatrice all’Onu Nikki Haley) a sperare che non lo facesse. Le audizioni al Congresso hanno convinto ancora di più Trump, che sembra intenzionato ad annunciare la sua candidatura entro settembre. Secondo rivelazioni del magazine Rolling Stone, da settimane l’ex presidente ha chiarito ai suoi collaboratori come le protezioni legali legate all’occupazione dello Studio Ovale siano per lui la cosa più importante. Gli ha spiegato che «quando sei il presidente degli Stati Uniti è molto difficile per i procuratori politicamente motivati arrivare a incriminarti» e che quando sarà di nuovo presidente «una nuova amministrazione repubblicana metterà fine alle indagini». Il futuro dell’America si gioca nei prossimi mesi. Q © RIPRODUZIONE RISERVATA
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Governo dal basso
DIRITTI PRIMI CITTADINI ALLA RISCOSSA IUS SCHOLAE E OMOTRANSFOBIA. IL PARLAMENTO RINVIA, I SINDACI TROVANO RISPOSTE: CITTADINANZE ONORARIE E SANZIONI COMUNALI PER GLI ATTI DISCRIMINATORI DI PAOLO DI FALCO E ENRICO FILOTICO
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gni volta che in Parlamento si parla di diritti, il copione si ripete: emergono sempre le stesse divisioni, con destra e leghisti arroccati, poi si inneggia al compromesso, quindi si getta la spugna. Perché non è mai il momento buono per parlarne, come ricordava un parlamentare, auspicando l’ennesimo rinvio. C’è sempre dell’altro a dettare le urgenze, ci sono questioni sempre impellenti che suggeriscono di posticipare all’infinito soluzioni. E mentre il Paese reale si arena, rimanendo lontano dagli standard europei, cresce il divario tra cittadini e istituzioni di cui la politica, in un curioso cortocircuito, per prima si lamenta e per di più invocando principi di coesione nazionale. A cercare di accorciare le distanze ci pro-
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vano gli amministratori locali che si ingegnano nel trovare soluzioni a quel che i diritti rappresentano: ossia bisogni reali, quotidiani, insoddisfatti e vissuti come profonde ingiustizie. Più vicini fisicamente al territorio, i sindaci ne raccolgono le istanze, ne respirano gli umori, scontano la disaffezione alla politica che è figlia di aspettative deluse e diritti negati. Da nord a sud, i primi cittadini sembrano marciare decisamente più veloci delle Camere. Complici indirizzi di governo più pratici e meno vincolati alle alchimie di tenuta delle maggioranze nazionali. Lo fanno sullo ius scholae provando a dare certezza alle legittime attese degli studenti che frequentano le nostre scuole, eppure bollati come stranieri. Sono più di 900 mila le ragazze e i ragazzi che con l’affermazione del principio dello ius scholae si vedrebbero riconosciuta la cittadinanza
Foto: A. Serrano’ - Agf
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italiana. Una ovvietà dettata dall’urgenza della realtà ma diventata materia di un dibattito strumentale e ideologico che nasconde il non detto di una serpeggiante xenofobia di marca razzista. Così Bologna, ancora una volta, nell’inerzia dei Palazzi romani, diventa punto di riferimento. Lo dice il sindaco Matteo Lepore quando annuncia la sua piccola rivoluzione cittadina: «È un voto storico quello che ha introdotto il principio dello Ius Soli nello statuto del Comune di Bologna, è la prima volta che accade in Italia e siamo contenti che abbia fatto da apripista: tanti sono infatti i Comuni che ci stanno chiedendo informazioni per replicare il nostro provvedimento. Ma la cosa che conta di più è che da oggi chi nasce o studia a Bologna potrà essere cittadino onorario bolognese. Dalle città può nascere un tempo nuovo, che spinga il Parlamento
Manifestazione a Roma a favore del disegno di legge che porta il nome del deputato dem Alessandro Zan
ad approvare riforme per i diritti, per la vita delle persone, per il loro futuro e una reale piena cittadinanza senza ipocrisie». E dai sindaci arrivano risposte indirette anche sul versante dell’omofobia, di fronte al clima d’odio che spesso degenera in violenza con cui le realtà locali fanno i conti quotidianamente. Naufragato a ottobre il disegno di legge Zan, il cui affossamento è stato salutato dagli applausi del centrodestra, sono ancora le amministrazioni a escogitare soluzioni, in assenza di un quadro normativo che inequivocabilmente fissi la discriminazione sul sesso, sul genere, sull’orientamento sessuale, sull’identità di genere e sulla disabilità come un reato peculiare, punibile con la reclusione fino a 4 anni. Del resto la fotografia di quel che è accaduto lo raccontano i cartelli comparsi al Pride di Milano con una sintesi estrema quanto efficace: «Voi 24 luglio 2022
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Governo dal basso esultate, noi moriamo». E proprio durante il Pride, il sindaco di Milano Beppe Sala ha annunciato che il capoluogo meneghino tornerà a riconoscere come figli di entrambi i genitori le bambine e i bambini nati all’interno da una famiglia omogenitoriale. Un atto politico, certo, ma anche con ricadute pratiche immediate. Spiega Gaia Romani, assessora dem ai Servizi civici e generali di Palazzo Marino: «Coerentemente con il percorso importante che stiamo portando avanti sul fronte dei diritti, insieme all’assessore al Welfare e diritti Lamberto Bertolé, abbiamo voluto adottare un atto fondamentale soprattutto per i suoi effetti concreti sulla vita di tante persone. In un quadro normativo che continua a rimanere incerto, lasciando nel limbo tante famiglie, con le sofferenze che ne conseguono per loro e i propri figli, ci siamo detti che non si poteva più attendere. Un Paese, che voglia definirsi civile, non può ignorare queste battaglie. Battaglie alle quali noi, come amministratori locali e quindi primi presidi per la cittadinanza, non potevamo più sottrarci. Ciò che ci auguriamo adesso, infatti, è che quanto fatto da Milano sia uno sprone per il Parlamento, affinché si decida a legiferare al più presto». Anche in questo campo, infatti, manca una legge a livello nazionale e molti Comuni, come Napoli, Torino e Roma già da qualche anno hanno smesso di riconoscere i figli dei genitori omosessuali. Decisiva per la marcia indietro la sentenza numero 12193 del 2019 della Cassazione a sezioni unite che ritenne non trascrivibile sul certificato di nascita italiano lo status genitoriale di uno dei due papà di un bambino nato all’estero. Chi invece non ha mai smesso di riconoscere l’omogenitorialità è il sindaco di Siracusa Francesco Italia, di Azione: «In attesa che il Parlamento italiano dia finalmente la tutela che meritano alle famiglie omoge-
Deepika Salhan, della Rete per la riforma della cittadinanza “Dalla parte giusta della storia”. In alto, manifestazione a favore del ddl Zan, organizzata dai Sentinelli all’Arco della Pace, a Milano
BOLOGNA RICONOSCE CHI STUDIA IN CITTÀ, MILANO RIPRISTINA L’OMOGENITORIALITÀ E UNA RETE DI PICCOLI CENTRI PROVA AD ABBATTERE IL MURO SUL DDL ZAN 52
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nitoriali, fin dal 2020, abbiamo scelto di tutelare i diritti loro e dei loro figli in coerenza con l’art 3 della Costituzione. Basta guardare negli occhi queste famiglie per comprendere quanto un piccolo gesto di alcuni sindaci possa trasformare le loro vite». A Siracusa sono già sei i riconoscimenti effettuati. E a spingere sull’acceleratore dei sindaci è anche il partito Gay Lgbt+, solidale, ambientalista, liberale che propone l’approvazione di delibere comunali che puniscano gli episodi di omolesbobitransfobia, prevedendo multe da 500 euro destinate alla costituzione di un fondo per la prevenzione della discriminazione oltre a istituire, come prevedeva il ddl Zan, la giornata contro l’omobitransfobia per il 17 maggio. «Stiamo invitando i sindaci ad agire in particolare nelle grandi città come Milano, Napoli, Torino, Roma e Bari dove ci sono maggioranze in teoria progressiste che dovrebbero essere a favore dei diritti per le persone Lgbt+ ed in casi come questi dare segnali concreti e non solo solidarietà», sottolinea il portavoce Fabrizio Marrazzo. «La nostra delibera sui recenti casi avvenuti a Napoli e Bari, ad esempio, avrebbe già imposto in capo agli aggressori identificati una sanzione amministrativa di 500 euro a testa, considerando l’impossibilità di applicare aggravanti alle sanzioni penali perché non c’è una legge nazionale che le preveda. E questa sanzione comunale è applicabile anche alle discriminazioni e offese online verso le persone Lgbt+, permettendo ai Comuni di avere a disposizione, solo guardando alle offese pubblicate via social nelle grandi città, migliaia di euro per fare azioni di informazione e sensibilizzazione contro l’omolesbobitransfobia», conclude Marrazzo. Due giovani romani, entrambi venten-
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ni, sono stati insultati e aggrediti alle 4 del mattino del 2 luglio dopo aver partecipato al Pride di Napoli, mentre a Bari, il 3 luglio, all’indomani del Pride, la furia omofoba si è abbattuta su un gruppo di ragazzi aggrediti e malmenati. Uno di loro, che si definisce non binary, è stato colpito con una pietra. E gli aggressori sono al momento a piede libero, sebbene sia alta la fiducia sulla possibilità che vengano identificati. L’idea di una stretta sanzionatoria a livello locale sta lentamente guadagnando adesioni. Sono già otto i Comuni che hanno manifestato l’intenzione di deliberare su quanto
Gaia Romani, assessora ai Servizi civici di Milano. A sinistra, Matteo Lepore, sindaco di Bologna
proposto dal partito Gay Lgbtq+, solidale, ambientalista, liberale: Morterone (Lecco), Cancellara (Potenza), Madonna del Sasso (Verbano-Cusio-Ossola, in Piemonte), Castiglione Cosentino e Oriolo (Cosenza), San Nicolò d’Arcidano (Oristano), Castelnuovo Cilento (Salerno) e, da ultimo, Ferla, in provincia di Siracusa. «La giunta municipale con questa deliberazione ha voluto manifestare in maniera concreta la propria condivisione in relazione ad un tema fondamentale come quello del rispetto della persona che va al di là di ogni professione e di ogni genere. Un gesto sostanziale per denunciare i soprusi nei confronti di chi è più debole: il nostro Comune è vicino a questa tematica nella concretezza di un atto amministrativo e, considerando ciò che può fare un ente locale, possiamo dire che anche noi abbiamo dato il nostro contributo», dice il sindaco di Ferla, Michelangelo Giansiracusa. Mentre il Parlamento si avvita in calcoli di opportunità, la rete dei sindaci, dal basso, dimostra che dei segnali immediati, simbolici e concreti allo stesso tempo, possono essere lanciati. E chissà, forse anche raccolti in alto, se non per adesione ai principi, quantomeno per calcolo elettorale. Q © RIPRODUZIONE RISERVATA
Foto: C. Greco - Agf (2), G. Schicchi - Ag. Fotogramma, Ansa
SUL CLIMA NON CI SI PUÒ DIVIDERE Caro direttore, sono un ragazzo di 15 anni. Proprio per questo, in qualità di cittadino del futuro mi interesso molto di cambiamento climatico e transizione ecologica. Sono ormai anni che si cercano risposte ai grandi problemi ambientali, che ultimamente si stanno facendo sentire più forti che mai. Problemi che, possiamo dirlo, finora non hanno avuto soluzione e, se continuiamo così, mai l’avranno. Tutto ciò a discapito della mia generazione e di quelle future. Glielo premetto: non sono un estremista riguardo ai temi ambientali. Il problema penso sia proprio questo: polarizzare e politicizzare, da una parte e dall’altra, anche una questione così importante come l’ambiente, che dovrebbe riguardarci tutti. È incredibile come si siano creati gli schieramenti anche sulla salvaguardia della nostra casa, accogliente ma esigente. Serve un cambio di paradigma: dobbiamo essere uniti e remare tutti e tutte verso un unico obiettivo. Mi piace dire che l’unione fa la forza sempre, e non penso
sia una frase banale. In questo Paese non sembra esserci interesse a una vera transizione ecologica. So che non è facile agire, specie in questi casi, ma quantomeno la volontà ci dovrebbe essere. Come al solito, quando ci sono di mezzo anche e soprattutto gli interessi economici, gli ostacoli si moltiplicano. Le soluzioni ai problemi sarebbero più semplici e meno divisive di quelle proposte. Dobbiamo iniziare coinvolgendo tutti, partendo dalle azioni più semplici. Credere in cambiamenti epocali e radicali senza la partecipazione attiva di tutte e tutti è impossibile. Iniziamo da qui, intanto. Ogni cosa verrà poi più naturale, se c’è armonia. Bisogna realmente porre le fondamenta su cui iniziare a lavorare per cambiare le cose. I progressi non vengono dal nulla; vanno pensati, progettati e programmati: altrimenti non troveremo mai una soluzione concreta ai nostri problemi. La ringrazio davvero dell’attenzione. Cordiali saluti Flavio Maria Coticoni
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Orgoglio e pregiudizi
RIMINI LIBERA L’ARCOBALENO DI MARCO GRIECO DA RIMINI
La spiaggia di Rimini con i lidi punteggiati dagli ombrelloni
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Prima Pagina IL 30 LUGLIO IL SUMMER PRIDE IN RIVIERA. LA CITTÀ PROVA A PROPORSI COME SIMBOLO DI INCLUSIONE MEMORE DELLE BATTAGLIE CIVILI CONDOTTE NEL TEMPIO DEL DIVERTIMENTO
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e l’amore ha bisogno del mondo per potersi affermare, Rimini, che chiude l’onda Pride dell’estate italiana, è lo scoglio dove l’arcobaleno s’infrange nei rivoli dei diritti e del cambiamento. La città simbolo della villeggiatura estiva ha spezzato la linea retta del conformismo al punto tale da diventare, come scriveva Pier Vittorio Tondelli in “Rimini”, «la frontiera tra l’illusione luccicante del divertimento e il peso opaco della realtà». Dagli anni Settanta, però, la Riviera non baratta più i sogni di una comunità con una società ansiosa di preservare il suo status quo. In fondo, non lo ho mai fatto, spiega Franco Grillini, padre di Arcigay, militante da oltre 40 anni: «Allora, il mito del vitellone, il maschio donnaiolo romagnolo, nascondeva un’assidua frequentazione da parte del mondo omosessuale, che però si voleva tenere nascosto, relegato nell’ombra di luoghi, come le cabine prospicienti lo storico bar Lina. Ma, ieri come oggi, gli atti di omofobia sono legati all’espressione pubblica dell’affettività». Lo sa bene l’influencer Gabriele Gentile aka Avocadogabb, aggredito perché indossava un vestito rosa mentre rientrava nell’albergo dove lavora come receptionist al termine della Notte rosa. Oggi il crop top macchiato dalle birre che un gruppo di 25enni gli ha riversato addosso facendolo sbandare con il monopattino, materializza una ferita che lui, tiktoker 21enne a suo agio con la propria omosessualità, porta con sé: «Non meritavo di essere trattato così quella sera, non dimenticherò mai il desiderio di sparire che ho sentito dentro. Oggi sto ritornando alla normalità, ma mi fa male sapere che, se per quei ragazzi è stato un gioco perverso di cinque minuti, per me ha rappresentato la violazione di una quotidianità».
Per questo, manifestare il proprio orgoglio è essenziale, spiega Marco Tonti, organizzatore del Summer Pride, fondatore di Arcigay Rimini e consigliere comunale, che nei prossimi giorni dichiarerà la città zona di libertà per le persone Lgbt, seconda solo a Milano: «La marea colorata di persone che sfileranno sul lungomare serve a dimostrare che ci sono più possibilità che possono mettere in discussione i nostri modi di vivere e mostrare un mondo più giusto». Se il lungomare di Rimini non è più quello che, quarant’anni fa, Tondelli descriveva come un sogno vissuto «a patto di non sbandare mai né da una parte né dall’altra», la partecipazione di attivisti e volontari è ancora necessaria a vincere le resistenze di una realtà complessa per storia e tradizioni. È a Rimini, infatti, che il 24 agosto 1928 Fernanda Bellachioma fu incarcerata per una relazione con Violet Righetti-Collins. Non esistono memorie di quell’Italietta dove il regime fascista negava l’esistenza dell’omosessualità pur ammonendo e confinando gli omosessuali in segreto. A Viserba, è ancora possibile vedere Villa Bavassano, la casa al mare da cui Fernanda fu portata via in una giornata di sole: una scatola liberty prospiciente il mare di mattoni rossi impastati di sabbia e vento, che solo il braccio di un’intolleranza marziale ha potuto scolorire in un tramonto di fine estate: «Dagli anni Ottanta, abbiamo rivendicato questa visibilità che ci veniva costantemente negata», puntualizza Grillini. Il suo ricordo va agli anni Novanta, quando l’Italia era terza in Europa per numero di malati di Aids (almeno 23mila, secondo le statistiche di allora), il virus usato dalla politica come grimalMarco Grieco dello per stigmatizzare, anGiornalista cora una volta, gli omo24 luglio 2022
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Orgoglio e pregiudizi sessuali. Erano gli anni del X Congresso mondiale sull’Aids in Giappone e, di fronte al silenzio democristiano della politica, gli attivisti di Arcigay erano i soli a fare prevenzione. Nel ’94 la Colonia reggiana di Riccione veniva tappezzata di manifesti che invitavano a proteggersi, mentre nelle discoteche si distribuiva “Il piccolo libro dell’amore senza rischio”, così contestato da essere ritirato poco dopo per l’uso di un linguaggio basilare, eppure reputato osceno. Intanto, dagli scranni del Consiglio comunale di Riccione, l’esponente dei Popolari italiani, Piergiorgio Ricci, disse: «I gay dovrebbero stare almeno un metro oltre il confine». «In quell’Italia in miniatura che era la Riviera, fondare un Arcigay a Rimini fu un atto politico», spiega Marco Tonti, indicando l’oblò della Colonia reggiana, dove ancora campeggia la scritta “Arcigay Rimini” in quello che prima fu un tempio della propaganda fascista, poi - per paradosso - un sacello dell’attivismo omosessuale. Gli fa eco Grillini: «Persiste quello che all’epoca definii clerico-fascismo di Stato. Lo ha mostrato plasticamente l’esultanza in Senato dopo la tagliola sul ddl Zan: quando un pezzo della politica gode per la sconfitta di una legge che tutela una minoranza, non stupisce la resistenza locale della pubblica amministrazione o della scuola dove, malgrado i giovani, alcuni temi non sono ancora totalmente accettati». Se la libertà è sotto scacco, anche i gesti semplici sono rivoluzionari. Come quello di Stefano Mazzotti, titolare del Bagno 27, che due anni fa ha dipinto la passerella che collega la spiaggia alla battigia con i colori dell’arcobaleno: una lunga linea rainbow fino al mare, capace di trasformare il Sissy that walk del mondo queer in un puro atto di libertà e riappropriazione dello spazio: «Per me e mia moglie significava prendere una posizione netta su temi importanti, che noi stessi abbiamo imparato dalle nostre figlie negli anni, perché a scuola certe tematiche sono state sdoganate», spiega. Due anni dopo la riapertura, il Bagno 27 è diventato una community dove trovano casa eventi a tema e spazi di sensibilizzazione, visto che Stefano ha preso ad assumere giovani con autismo e ritardo cognitivo, perché la tutela delle minoranze è un atto universale di accoglienza: «Se mia figlia un giorno mi dicesse di essere lesbica, non vorrei mai pentir56
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LA PASSERELLA RAINBOW INDICA IL BAGNO 27, COMMUNITY TERZA META DEL TURISMO LGBT+. "QUI UNO SPAZIO SICURO, PERCHÉ LÌ FUORI È ANCORA DURA” mi di lasciarla a combattere battaglie che dovremmo fare noi adulti per loro. La nostra sfida di adulti è, infatti, questa: combattere per una società sempre più aperta e inclusiva per le giovani generazioni». Oggi la Community 27 è la terza meta del turismo Lgbt in Italia, e mostra i benefici del turismo arcobaleno in termini di indotto economico, come già evidente in Spagna, dove vale otto miliardi di euro: «Il progetto di Stefano è importante, perché sta spingendo le imprese ad aprirsi a nuove possibilità», spiega Marco Tonti. Mazzotti specifica: «Io faccio l’imprenditore, e questo ha un grande valore, perché il cliente è più disposto a spendere in un’azienda che promuove azioni di sensibilizzazione. Non c’è sostenibilità economica senza una sostenibilità sociale». Ma il barlume nei suoi occhi per l’entusiasmo di quanto fatto ha una sfumatura amara: «Quando vedo che
Foto: A.Bernasconi /Luz, T. Clavarino (2), T.Bonaventura /Contrasto; pag. 56-57: T. Bonaventura / Contrasto
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una coppia gay si stringe la mano solo quando attraversa la soglia del mio Bagno, da una parte sono felice di aver costruito per loro uno spazio sicuro, dall’altra capisco che lì fuori è dura». Il successo di luoghi come il Bagno 27 o il Chiringay, il chiosco poco distante, non è infatti sufficiente a sradicare la mentalità provinciale, ammette Emiliano Ciavatta, 25enne referente del gruppo giovani di Arcigay Rimini: «Se a livello locale si sta facendo molto, come con il progetto regionale Youth, che ci darà la possibilità di accedere a fondi per progetti di inclusione, è a livello nazionale che l’omofobia va contrastata. Una volta, una donna ci ha scritto del disagio del figlio, bullizzato per il suo orientamento sessuale e isolato dai suoi stessi amici, al punto da trovare serenità solo in una città distante da Rimini, come Milano. Non sono rari i casi di omolesbobitransfobia nella pubblica am-
PROTAGONISTI Un lido con lo sfondo dei palazzi. In alto, a sinistra Stefano Mazzotti e, a destra, Marco Tonti. Nell’altra pagina, piazza Cavour
ministrazione, o nelle Asl, dove le persone trans sono spesso messe in difficoltà per il loro nome. Il più delle volte, l’omofobia passa dall’esclusione». Emiliano parla con il tono di chi ha vissuto quella solitudine che fa rumore, ma ha anche sperimentato il coraggio di reagire: «Sono ad Arcigay da due anni, è un posto che mi ha salvato perché mi ha accolto per quello che sono. Vorrei che lo ricordassimo nelle scuole, in quei luoghi di formazione dove l’omofobia è più una violenza piscologica che fisica. E questa non si combatte con la legge, ma con l’ascolto». Claudio Tempesta, storico dj del Cocoricò, il superclub nato dalle ceneri della Fragolaccia, fra i primi spazi Lgbt friendly della Riviera, guarda con un po’ di nostalgia al passato: «In quei luoghi ci sentivamo sicuri, erano un luogo fatto per noi, dove la comunità viveva la sensazione di essere un gradino avanti rispetto a una società chiusa». Non a caso, il Cocoricò nasce nell’89, quando le masse giovani abbattevano cortine di ferro e muri sociali, sfidavano l’autorità a Tienanmen e facevano della creatività artistico-musicale un atto politico. Se è vero che, come ricordava Tondelli, «l’amore ha bisogno del mondo per potersi affermare», anche un Pride che dura un giorno può fare tutta la differenza in una comunità che ha bisogno di un luogo e un tempo per ritrovarsi. E, così, continuare a vivere. Q ©RIPRODUZIONE RISERVATA
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Energia e strategia
IL PETROLIO È IL PREZZO SCENDE, MA RESTA TROPPO ALTO. BIDEN FALLISCE LA MISSIONE IN ARABIA SAUDITA. E LA TRANSIZIONE GREEN SI ALLONTANA. ECCO PERCHÉ IL MONDO NON RIESCE A FARNE A MENO
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enerdì 15 luglio, mentre Joe Biden salutava, all’ingresso del palazzo Al Salam di Gedda, il principe ereditario saudita Mohammed bin Salman con il “fist bump”, il pugnetto reso celebre dal Covid, le quotazioni del petrolio scendevano a 95 dollari al barile, esattamente il livello del 23 febbraio, vigilia dell’aggressione russa all’Ucraina. Biden era lì per convincere il regno di Saul ad aumentare la produzione di petrolio di almeno 750mila barili al giorno, arrivando a 11 milioni, e il paradosso è solo apparente tant’è vero che nei giorni successivi le quotazioni hanno ricominciato a salire. Il petrolio rimane un problema, anche più del gas perché riguarda davvero tutti (Europa compresa). È vero che ha oscillato fra 95 e 130 dollari al barile nelle settimane della guerra alternando bruschi picchi e ripide cadute dovute al rallentamento dell’economia globale a partire dalla Cina (dove il fattore guerra non c’entra nulla ma l’economia è ferma per i continui esasperanti lockdown), però anche quella fra i 95 e i 100 dollari è una Eugenio Occorsio quotazione ritenuta tropGiornalista po alta dai mercati, dai go-
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verni e dai consumatori occidentali (si pensi al prezzo della benzina). Il petrolio valeva 80 dollari all’inizio dell’anno, 65 all’inizio del 2021, 41 nell’horribilis 2020 (con punte nell’ “intraday” addirittura sottozero nei momenti più duri del Covid), 64 nel 2019. Per trovare quotazioni superiori ai 100 dollari occorre tornare al 2012 «quando però le condizioni mondiali erano ben migliori, Cina e Stati Uniti andavano a mille e si stava addirittura tentando di portare la Russia nell’arengo dell’economia di mercato», ricorda Daniel Yergin, uno storico dell’energia che al petrolio dedicò nel 2008 un libro (“The prize: the epic quest for oil, money and power”) che vinse il premio Pulitzer per la saggistica. «La crisi energetica attuale - spiega Yergin, che ora è vicepresidente di Standard & Poor’s, in un articolo su Project Syndicate - è cominciata prima della guerra ed è peggiore perfino di quella degli anni ’70 perché ora si combina con le quotazioni impazzite del gas, addirittura con il caro-carbone dovuto all’inaspettato revival di questa fonte, oltre che con le conseguenze dirette della pandemia: la frantumazione della globalizzazione, i problemi dello shipping, i ritardi nell’adeguamento delle infrastrutture dei Paesi produttori, dal Brasile ad alcuni arabi, dovuti appunto ai problemi economici legati al Covid».
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DI EUGENIO OCCORSIO
Il giacimento petrolifero Kern River di Bakersfield in California è il maggiore degli Stati Uniti
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PER SEMPRE
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Energia e strategia
Foto: S. Loeb - Afp - Bloomberg / GettyImages
ANDAMENTO PREZZO DEL PETROLIO NEL 2022 Guardando il quadro complessivo si spiega meglio la missione di Biden, così importante per l’amministrazione democratica da far superare l’imbarazzo (e le contestazioni) per la drammatica vicenda di Jamal Khashoggi, l’editorialista del Washington Post ucciso il 2 ottobre 2018 nel consolato saudita di Istanbul con ogni probabilità dagli emissari del principe MbS. Una tragedia che aveva fatto proclamare già in campagna elettorale a Biden: «Metteremo l’Arabia Saudita fuori dalla comunità internazionale». Le cose sono andate molto diversamente. L’America a produce sì ormai oltre 11 milioni di barili al giorno (un livello che aveva indotto Obama ad allentare la presenza in molti Paesi arabi) ma ne consuma 20, mentre i consumi interni sauditi non raggiungono i 4 milioni di barili su una produzione simile. La missione è stata un mezzo fallimento perché tutto quello che ha ottenuto è che la questione verrà discussa nel meeting ordinario dell’Opec di agosto. Ma è stata la conferma se ce n’era bisogno - che l’“oro nero” continua ad essere una variabile decisiva negli equilibri mondiali, funzione dai rapporti politici più ancora che il gas. Il mondo intero ha bisogno del petrolio, è così da oltre un secolo. Winston Churchill, giovane capo della marina britannica, riconvertì nel 1914 l’alimentazione delle navi da carbone a petrolio rendendole più veloci e autonome tanto da vincere la prima guerra mondiale. Impadronirsi del petrolio di Baku, Azerbaijan, oltre che di quello del Caucaso, fu il principale obiettivo dell’attacco tedesco contro l’Unione Sovietica del 21 giugno 1941. Mussolini mirava ai giacimenti albanesi e libici. Il Giappone aveva messo le mani nel 1931 sulla Manciuria, regione ricca non tanto di petrolio quanto di scisti bituminosi (gli stessi da cui il Canada estrae petrolio dalle sabbie dell’Alberta) e all’inizio del 1942 durante l’offensiva sull’Indonesia si impadronì dei giacimenti della Royal Dutch Shell. E poi il salto di qualità: il 6 ottobre 1973 scoppiò la guerra del Kippur, il quarto conflitto arabo-israeliano. Per rifarsi dalle sconfitte precedenti (e che per ritorsione verso un mai precisato ma disatteso impegno americano a non armare Israele) i Paesi arabi - guidati del potente sceicco Zaki Yamani, ministro saudita del petrolio e capo dell’Opec - decretarono un embargo totale del petrolio contro l’occidente. In pochi mesi il valore passò da 3
Dollari per barile
24 febbraio 2022 La Russia invade l’Ucraina
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Luglio FONTE: REFINITIV
Il presidente degli Stati Uniti Joe Biden. Ha deciso di incontrare il principe saudita Mohammed bin Salman per discutere di petrolio
a 12 dollari. La crisi pose fine al ciclo di sviluppo economico che aveva caratterizzato gli anni ’50 e ’60. L’austerity cambiò le vite di tutti noi, l’industria per la prima volta si trovò costretta ad affrontare il problema del risparmio energetico e il petrolio divenne ufficialmente la più micidiale arma politica globale: in suo nome vennero poi combattute rivoluzioni (Iran 1979 e Libia 2011), invasioni (Kuwait 1990), sanguinose scissioni locali (Sudan 1999-2011), ancora guerre (Iraq 2003-2011), per non parlare del Donbass che è ricco di risorse minerarie, causa non ultima del conflitto in corso. Il petrolio è talmente importante nello scacchiere mondiale che intorno ad esso imperversa una speculazione finanziaria tale da rendere ancora più complicata l’interpretazione dei fatti. «La finanza è entrata prepotentemente nel mondo del petrolio», commenta Davide Tabarelli, presidente di Nomisma Energia. «Facciamo un esempio. Guardiamo alle alle quotazioni dei futures sul greggio al Nymex (New York Mercantile Exchange), il principale mercato mondiale per la finanza sui prodotti energetici: bene, se oggi sono sui livelli che sappiamo, poco sotto i 100 dollari al barile, i futures di dicembre quotano 87,55 dollari, cioè prefigurano un ulteriore vistoso calo del valore. Fin qui potremmo starci: la questione diventa meno credibile quando si vanno a vedere i futures ad agosto 2023 che sono quotati 78,92 dollari. Poi a dicembre sempre dell’anno pros24 luglio 2022
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Energia e strategia
PAESI PRODUTTORI DI PETROLIO Situazione a inizio 2022 - Barili al giorno USA Russia Arabia Saudita Canada Iraq Cina Emirati Arabi Uniti Brasile Kuwait Iran Kazakistan Norvegia Mexico Qatar Nigeria Libia Angola Oman
11,567,000 10,503,000 10,225,000 4,656,000 4,260,000 3,969,000 2,954,000 2,852,000 2,610,000 2,546,000 1,937,000 1,744,000 1,733,000 1,297,000 1,258,000 1,220,000 1,158,000 998,000
simo scendono a 77 dollari, per poi piombare a 73,58 nell’agosto 2024, a 72,06 nel gennaio 2025 e poi via via più giù fino a 64,26 nel febbraio 2028, a 63,15 nel maggio 2030, e via dicendo. Quale affidabilità hanno verosimilmente quotazioni del genere? Se fossi un trader correrei a comprarmi un future al 2030 pagandolo con uno sconto del 40% sulle quotazioni attuali. Poi, quando al 2030 saremo arrivati e dovrò rivendermi il future, vedremo: secondo me è impensabile che per allora il petrolio sia sceso così tanto. La guerra per allora sarà finita, vorrei ben sperare, e così la recessione mondiale, un po’ d’inflazione ci sarà pur stata e la domanda si sarà ripresa, insomma il petrolio in quella data lontana costerà probabilmente ben di più di quanto i futures indicano». La finanziarizzazione esasperata distorce insomma i meccanismi del mercato. Il fatto è che da 40 anni la domanda petrolifera continua a crescere del 2-3%l’anno (oggi il mercato mondiale è sui cento milioni di barili). Il 97% dei trasporti (automobili, camion, pullman) va ancora con i derivati dal petrolio, e questi rappresentano un quarto del mercato totale dell’energia. Una spinta al ribasso del prezzo del greggio, non così ampia come indicherebbero i future ma comunque visibile, dovevano darla le politiche “green”. Ma anche qui le cose stanno andando in un’altra direzione. «L’Europa ma più in generale tutta la comunità internazionale si erano impegnate su un percorso di progres62
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siva decarbonizzazione che avrebbe portato a una riduzione del consumo di greggio», dice l’ambasciatore Ferdinando Nelli Feroci, che è stato anche Commissario europeo e oggi presiede l’Istituto affari internazionali. «La guerra in Ucraina, con le sue conseguenze su prezzi e disponibilità delle fonti fossili, ha rimesso in discussione obiettivi e scadenze della transizione energetica. La priorità è quella di riuscire a risolvere un “trilemma”: conciliare la transizione energetica con la sicurezza energetica e con prezzi che ci consentano di mantenere le aspettative di crescita delle nostre economie. In un simile contesto appare più che verosimile che il greggio (e ancora di più il gas) continuerà ancora per molti anni ad essere una fonte irrinunciabile». La guerra ha sconvolto le previsioni al punto di imporre la riapertura delle centrali a carbone per fronteggiare le caren-
LA SPECULAZIONE FINANZIARIA RENDE LE QUOTAZIONI DEL TUTTO INVEROSIMILI. E IL CONSUMO GLOBALE È DESTINATO A CRESCERE NEI PROSSIMI ANNI ze di forniture russe. Nessuno scommette più che i tempi della transizione ecologica (che avrebbe come obiettivo “zero emissioni” nel 2050) verranno rispettati. Senonché la transizione riguarda essenzialmente l’Europa, con l’America di fatto, anche se sono passati i niet di Trump, riottosa ad unirsi. Secondo l’ultimo rapporto del Global Carbon Project l’Europa è responsabile dell’emissione di 2,9 Gigatonnellate di CO2 (una Gigatonnellata è 1 miliardo di tonnellate), pari al 9,6% delle emissioni globali e in netto calo rispetto alle 3,5 Gt del 2017. Di questo passo, la riduzione sarebbe rimarchevole, solo che dall’altro 90,4% del mondo le notizie sono tutt’altro che confortanti: la Cina ha detto che per lei prima del 2060 di “net zero” non si parla, e l’America procede senza soluzione di continuità, tant’è vero che l’uomo più potente del mondo è andato a casa del “demonio” per chiedere aiuto. n © RIPRODUZIONE RISERVATA
L’anticipazione
DAL MEDITERRANEO Sarà in libreria dal 19 agosto per Fandango, “Mediterranea”, il dialogo tra Dimitri Deliolanes, corrispondente in Italia della radiotelevisione greca, e Leonardo Palmisano, scrittore e dirigente del gruppo Legalità di Legacoop, sui temi della politica europea, dalla crisi dei partiti al sovranismo, della guerra e delle migrazioni. Un colloquio con al centro il Mare nostrum e il ruolo che le due sponde possono giocare nel nuovo scacchiere geopolitico. Anticipiamo qui, l’introduzione e parte del primo capitolo.
DI DIMITRI DELIOLANES E LEONARDO PALMISANO
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guardarlo sulle carte geografiche, il Mediterraneo è un mare chiuso, un piccolo oceano circondato da terre che si allungano a Sud, a Est e a Nord. Allargando il campo di osservazione, scopriamo che è la cerniera naturale tra Africa, Asia ed Europa. Su queste acque si sono combattute battaglie tra le più cruente. Grazie a queste onde grondanti sangue sono state fondate colonie e imperi. Oggi il bacino è un nuovo cimitero, per i giovani e i disperati che lo affrontano alla ricerca di un approdo sulla riva di un’Europa vecchia e poco accogliente. Una cerniera che si trasforma in trincea, in frontiera invalicabile, in terreno da sminare dal razzismo, dal fascismo, dal fondamentalismo. L’Italia e la Grecia sono lì, all’incirca a metà, spostate a Est, tendenti a sud, incastrate timidamente nel Nord. Tutte e due in profonda crisi, come proviamo a dire in questo dialogo tra Atene e Bari. La storia multimillenaria di questo mare di pastori e pescatori è allora di attraversamenti, di migrazioni, di guerre, di tante guerre che ci hanno fatto inventare la democrazia nelle città, i politeismi e i monoteismi, i miti tragici e la commedia, lo sport e la parola come strumenti di pace. In questo Mediterraneo, insomma, è nata la civiltà occidentale, alla quale, con i suoi pregi e difetti, tutti noi apparteniamo.
irrisolte, diventate un argomento costante per accendere il dibattito politico o per spegnerlo quando gli interessi in gioco si erano ridefiniti. Come la crisi del debito pubblico, che incombe sulla scena politica come un fantasma terrificante. L’Italia ha un rapporto deficit/Pil che supera il 140 per cento. Dopo la Grecia, il secondo più alto d’Europa. Un debito che potrebbe sforare molto presto il 150 per cento. Un debito che genera mostri e che aumenterà con il Piano nazionale di ripresa e resilienza, il Pnrr. Un debito destinato a ingrandirsi ora che l’Ue ha deciso di sostenere militarmente l’Ucraina contro Putin. (…)
Leonardo Palmisano - Sai, Dimitri, c’è un modo di dire, dalle mie parti in Puglia, che suona all’incirca così “dal guasto viene l’aggiusto”. È un detto fatalistico, che rinvia a un domani senza scadenza la ricerca di soluzioni a una situazione annosa e ingarbugliata. Ho sempre trovato questa frase adatta alle tante crisi che hanno attraversato la penisola italiana. Crisi
Dimitri Deliolanes - Parliamo di mostri, allora. Locali e d’importazione. Nel bel mezzo della catastrofe provocata dalla pandemia del coronavirus i saggi leader dell’eurozona hanno giustamente pensato di adottare come rimedio un sistema economico di tipo keynesiano, permettendo deficit spettacolari e creando nuovi debiti. Ancora più radicale il
IL DEBITO DI GRECIA E ITALIA, IL RIGORE EUROPEO E LE POLITICHE COMUNITARIE. DIALOGO TRA ATENE E BARI SU MERCATI E WELFARE
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LA UE È LONTANA Mediterranea, in libreria dal 19 agosto per Fandango è un dialogo lungo l’asse Atene-Bari tra Dimitri Deliolanes e Leonardo Palmisano
Foto: K. Tsironis - Bloomberg via Getty Images
presidente americano Joe Biden, un ultraconservatore che ha sposato un programma ancora più spinto di spesa pubblica. Ad alcuni anni di distanza dalla fine di un’altra tempesta, quella della crisi del debito dell’eurozona, è ormai evidente la fragilità della logica seguita dalla Germania per impostare a suo tempo il sacro e immutabile Trattato di Maastricht. Una costruzione basata su presunte regole finanziare, eterne e immutabili, valide per tutti i Paesi membri dell’Unione monetaria, qualsiasi fosse il loro livello di sviluppo. Ora è chiaro a tutti che non funziona. Leonardo Palmisano - Da noi ormai è evidente come questo non funzioni. Il debito italiano è troppo alto per un Paese ancora, a torto, annoverato tra le economie più forti del globo. Questa condizione debitoria è il riflesso della politica nazionale. Anzi, se vogliamo è l’effetto negativo più forte della politica italiana dal secondo dopoguerra a oggi, dopo la corruzione e la collusione con il sistema mafioso. Ma non è crisi soltanto italiana, perché se guardiamo all’intera area euromediterranea, scopriamo che tutti i Paesi Ue del bacino hanno un pessimo rapporto tra debito e Pil, compresa la Francia. La differenza tra chi sta meglio e chi sta peggio la fanno la crescita economica, una relativa distribuzione della ricchezza (anche sotto forma di welfare pubblico), la tenuta occupazionale e il carisma esercitato dentro la Ue e nei confronti dei paesi del Brics. Fattori nei quali l’Italia non primeggia.
Dimitri Deliolanes - L’eurozona, cioè Berlino, non vuole ammettere questa verità sul debito. (…) Ho ancora viva nella mente l’immagine televisiva di personaggi francamente odiosi tra i quali aveva un posto d’onore l’allora ministro delle Finanze, ora presidente del Bundestag, Wolfgang Schäuble, grande democristiano, grande amico dell’imprenditoria tedesca, grande responsabile della svendita del patrimonio industriale della Ddr. Ogni qualvolta questo signore appariva di fronte alla telecamera lo si vedeva alzare il ditino, dicendo che “mai l’onesto contribuente tedesco avrebbe permesso che le sue tasse finissero nelle tasche di poltroni greci, imbroglioni italiani, sfaticati spagnoli, lestofanti portoghesi”. (…) In Italia pochi ci fecero caso ma nella sua lotta contro la inammissibile sovversione di Tsipras, Schäuble spiegò pubblicamente qual era la sua concezione della democrazia europea, sostenendo apertis verbis et ore rotundo che i governi non devono essere espressione degli elettori ma dei “mercati”, intesi come Borse. Applausi a destra. Leonardo Palmisano (…) Il rigore imposto anche al nostro Paese, con il pareggio di bilancio introdotto nel 2012 in Costituzione a voto pressoché unanime e su pressione fortissima di Bruxelles e di Berlino, ha sfavorito quegli investimenti strategici atti a compensare il disastro prodotto dal trentennio berlusconiano. A decretare fortemente l’aumento del deficit è stato lo smantellamento a caro prezzo di interi settori di economia statale nella produzione industriale e nei servizi, dove si concentrava il grosso dell’occupazione di Stato. Per precisione politica, questo colpevole smantellamento dell’economia pubblica e del pubblico impiego, fortemente voluto dalla Ue, Germania in testa, è conseguenza e origine insieme dello svilimento delle sinistre italiane e del loro slittamento sul terreno neoliberista. Diciamo che da trent’anni a questa parte, nonostante l’incremento del debito pubblico, le politiche pubbliche sono andate nella direzione della privatizzazione, della liberalizzazione e della partecipazione statale di minoranza, producendo il declino di interi comparti come quello dei trasporti, delle telecomunicazioni e dell’industria pesante. (…) Ci si sarebbe aspettati che ad avvantaggiarsi delle privatizzazioni fossero imprese italiane. All’inizio forse è stato così, quando il capitalismo italiano aveva un ascendente sulla politica nazionale, ma ora le cose stanno andando diversamente, (…). Rubando i vocaboli agli economisti, il debito pubblico italiano non è un debito buono, non favorisce l’impresa né l’occupazione stabile, ma trasferisce quote di entrate nelle mani dei Q privati scaricando i costi sui cittadini. ©RIPRODUZIONE RISERVATA
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Il secolo di Scalfari Un protagonista unico. Che con i suoi giornali ha cambiato il modo di fare informazione in Italia. Una missione civile, culturale e politica. Ricordo del fondatore de L’Espresso e di Repubblica
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Un intellettuale critico del potere DI BERNARDO VALLI
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etestava il condizionale. Faticava a tollerare il congiuntivo. Quei modi non gli si addicevano. Se ne trovano vaghe tracce nei suoi scritti e li sconsigliava ai redattori. L’inviato di Repubblica a Varsavia, durante una delle grandi crisi polacche degli anni Ottanta, era traumatizzato dal ripetuto invito del direttore a riscrivere la corrispondenza appena mandata. Per tre volte una nota asciutta accennava a una mancanza di incisività. L’inviato, un bravo collega, non riusciva a interpretare quel rimprovero. Era sconcertato dal caparbio rifiuto del suo articolo. Infine si rese conto che l’insistente uso del condizionale dava un tono allusivo alla sua cronaca. I “se”, i “ma” erano troppi. Deresponsabilizzavano lui, l’autore, e con lui risultava sfuggente Repubblica. A Eugenio Scalfari non piaceva quel vizio italiano. Voleva pezzi “d’autore”. Repubblica doveva essere un quotidiano d’opinione, e quindi i contenuti politici di un articolo dovevano essere chiari, ma contavano soprattutto l’approccio alla realtà e il linguaggio preferibilmente asciutto, senza
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troppi fronzoli e colore. Era per uno stile diretto, narrativo; a chi lo usava concedeva la sua indulgenza; anche se a volte ne abusava. Esecrava le allusioni e amava la cronaca anche in politica, in cultura, perfino in economia. Era una scelta in parte ereditata da Arrigo Benedetti, con il quale aveva lavorato a lungo a L’Espresso, e al quale veniva riconosciuto il merito di avere tentato di allontanare il giornalismo dalle dissertazioni comprensibli soltanto ai pochi in grado di interpretarne il senso nascosto nella nebbia dell’ambiguità. Allo stile di Longanesi era succeduto il missirolismo. Durante il fascismo, il primo dava agli scritti di autori abili o furbi un leggero sapore di dissenso, di fronda, che sfuggiva alla censura. Nella giovane democrazia era considerata alta acrobazia giornalistica l’abilità con cui Mario Missiroli, direttore del Corriere della Sera, stilava editoriali dotti, sibillini per i comuni mortali e sempre velatamente ossequiosi verso il Palazzo. La nascita del Giorno di Gaetano Baldacci e poi l’avvento di Piero Ottone alla direzione del Corriere hanno imposto una svolta ai grandi quotidiani italiani. La critica ha assunto
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Foto: Simonetta Scalfari / Agf(4), Agf, FotoA3; pag. 66-67: Enrica Scalfari / AGF
Nell’altra pagina: Eugenio Scalfari con la moglie Simonetta De Benedetti a Parigi nel 1954. Scalfari al mare con (da sinistra) Arrigo Benedetti, Ernesto Rossi e Mario Pannunzio. Nel 1955 con il suocero Giulio De Benedetti, direttore della
toni più aperti. Con Repubblica, Eugenio ha dato energia all’ambiziosa missione (già viva nel Mondo di Pannunzio e ancor più ne L’Espresso di Benedetti e suo) di creare un’opinione pubblica come forza politica di controllo e di tendenza. I cronisti della mia generazione, che avevano vissuto le precedenti aperture al Giorno e al Corriere, avvertirono la scossa. Non ci lasciò indifferenti la ribadita esigenza del fondatore di Repubblica di voler «pezzi d’autore». L’ affermazione non suonava tanto come un invito alla qualità, ovvio in un giornalismo in cui la forma ha prevalso a lungo sulla sostanza, in cui la buona scrittura ha mascherato la dipendenza a tanti poteri, quanto alla volontà di avere redattori di carattere, con una personalità politica e culturale. Per tradizione e convenienza, nei grandi quotidiani non di partito, l’irriverenza nei confronti del potere era consentita a pochi eletti, la cui autorità personale smorzava la responsabilità del giornale. Ed era spesso attutita dall’ironia, dall’uso della battuta che divertiva, ma soltanto di rado feriva. Il diritto a un’irriverenza praticata individualmente, riconosciuto agli “autori” di Repubblica, dette alla redazione formata da Scalfari un’impronta invidiata o irritante per chi non aveva quel diritto. Ed erano in molti. L’irriverenza, verso gli avversari ed anche, a volte, verso gli amici politici, aveva il valore di un puntuale, ripetuto atto di indipendenza. Era sempre là, in sospeso. Come la lama di una ghigliottina, di cui all’inizio, agli esordi di Repubblica, molti redattori potevano disporre. Anche perché non si tagliavano teste, ma si spalancavano scandali e menzogne.
Stampa. A fianco: con Carlo Caracciolo a Parigi, nel 1965. Sotto: riunione di redazione a L’Espresso nel 1967. In basso: con le due figlie Donata (a sinistra) ed Enrica nel 1961
Eugenio apprezzava la dignità con cui alcuni colleghi adottavano la freddezza ispirata agli stereotipi anglosassoni. Lui teneva a bada la passione, senza accorciare troppo la briglia. Non travolgeva la verità conosciuta dei fatti. Né si trincerava nella neutralità. La sua visione doveva trasparire. Esprimere un’opinione era naturale, come doveva esserlo il rispetto della realtà. A viso scoperto e senza rete di protezione: questa poteva essere la regola. Anche nel giornalismo, come nella vita privata, Eugenio era protagonista. Lo era sia nel ruolo di seduttore sia in quello di chi è esposto e vulnerabile alla seduzione. Voleva essere amato da chi lavorava con lui, ma sapeva amare. Poteva soffrire di istinto se uno, redattore o fattorino, lasciava il giornale. Il distacco da un collaboratore grande o piccolo lo feriva. In questo, come del resto nell’amicizia, aveva slanci sentimentali: era fedele come era irriducibile nella polemica. Per lui gli avversari rispettabili erano ben distinti da quelli che non lo erano. La straordinaria capacità di recupero rimarginava le sue ferite, ma la memoria era robusta. La curiosità di giornalista non si limitava al presente; la passione per la storia lo portava spesso a filtrare i fatti quotidiani attraverso il passato; e a studiarne le conseguenze senza paura di affrontare i rischi della verità del momento. Al giornalista affidava un ruolo difficile: quello di esercitare il diritto della società non solo a conoscere gli avvenimenti, ma anche a svelare quel c’ è dietro. Il retroscena non come pettegolezzo, ma come servizio reso al lettore, cioè al 24 luglio 2022
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1924-2022 1968. Scalfari con l’avvocato Giandomenico Pisapia durante un’udienza del processo per lo scandalo Sifar. A fianco: con tre illustri economisti nel 1974. Da sinistra: Beniamino Andreatta, Luigi Spaventa, Paolo Sylos Labini. Sotto, a sinistra: con Goffredo Parise (senza cravatta) che scrisse per L’Espresso reportage dal Vietnam in guerra. A destra: con Alberto Moravia a lungo collaboratore e critico cinematografico del settimanale
cittadino che non deve essere gabbato da chi detiene il potere. Analizzava e criticava la società politica da posizioni che, nonostante il zigzagante percorso di una lunga vita italiana, possono essere riassunte facilmente in quelle di un tenace liberale di sinistra, appassionato difensore delle istituzioni. Il suo pubblico l’ha via via individuato nella parte riformista e repubblicana della società. I suoi lettori ideali erano sostenitori dei diritti civili, ma anche dei doveri che ne derivano. Un momento di verità e di chiarezza fu quando di fronte al terrorismo, in particolare durante il rapimento di Aldo Moro, nella sinistra extraparlamentare, tra i radicali e non pochi intellettuali prevalse lo slogan «né con lo Stato né con le Br». Slogan che Eugenio rifiutò schierandosi in difesa dello Stato repubblicano, del quale denunciava al tempo stesso le manchevolezze e dal quale esigeva il rispetto dei diritti civili. Fu una scelta di campo, che equivalse a una rifondazione del giornale, nato da poco e ancora intento a precisare la propria identità. Lui stesso l’ha scritto. 70
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La scelta di settimanalizzare il quotidiano, ossia di offrire sempre più non la sola notizia, ma la sua genesi, i suoi effetti e il ritratto dei suoi protagonisti, colpevoli o innocenti o vittime, oggi applicata dalle grandi testate internazionali, fu la profonda riforma attuata da Eugenio. Lui la promosse da giornalista intellettuale quale era. L’espressione “intellettuale”, nata dall’Illuminismo al quale si ispirava (Denis Diderot era il suo eroe), gli si addiceva in pieno. E spiega il suo giornalismo. La formazione originaria era quella di un economista. L’ interesse letterario (e filosofico) si è esteso col tempo e ha influenzato il suo giornalismo, e la sua redazione fin dalle origini. Durante i primissimi passi di Repubblica, Roselina Balbi, responsabile delle pagine culturali, e Orazio Gavioli, responsabile di quelle degli spettacoli, furono gli interpreti indipendenti, di quella sua natura. Balbi e Gavioli spesso disubbidivano, prendevano iniziative che non condivideva. Ma lui accettava l’insubordinazione di quei due personaggi che stimava con lo spirito, appunto, di un giornalista intellettuale. Q ©RIPRODUZIONE RISERVATA
Prima Pagina Con Giorgio la Malfa (a sinistra) e Rino Formica nella sede de L’Espresso. Sotto, a sinistra, con Guido Carli e Gianni Agnelli. Con l’amico-rivale Indro Montanelli. A destra, un ritratto degli anni Ottanta
Quel carisma inconfondibile DI LEOPOLDO FABIANI
Foto: FotoA3(4), Agf, Mondadori Portfolio (3)
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o andavo ogni giorno in redazione come se andassi a una festa», ha ricordato una volta Eugenio Scalfari. Può sembrare una strana affermazione per chi conosce Scalfari solo attraverso i suoi editoriali asseverativi e solenni o per chi ricorda solo l’immagine del direttore severo, ieratico, capace di fulminare con un solo sguardo una carriera promettente. Ma la dimensione del gioco, del divertimento era parte integrante del suo carisma. Certo, c’era poco da scherzare nelle riunioni vissute da molti come «un esame universitario da superare ogni giorno». Le discussioni potevano essere accanite fino alle urla e agli insulti, poi quando il direttore interveniva a distribuire torti e ragioni i veterani ammutolivano come i praticanti. Non solo i giovani, anche i giornalisti più anziani ed esperti di lui, che magari avevano visto guerre in tutto il mondo, ne subivano il carisma. E d’altra parte, come ha ricordato Carlo Caracciolo, anche da giovanissimo Scalfari impressionava per quanto fosse «deciso e sicuro di sé». Così poteva capitare anche a un mostro sacro del giorna-
lismo, inviato su un servizio importante, di trovare, al rientro in albergo dopo cena, un telegramma del direttore. E di chiedere al portiere di leggerglielo ad alta voce, davanti agli altri colleghi, sicuro di sentire un elogio. E invece di sentirsi recitare un rimprovero durissimo. «Mi vedo costretto a rilevare che il tuo pezzo di oggi è veramente deludente, fiacco senza atmosfera...». Ma insieme c’era la leggerezza, lo scherzo, il gioco. Perché del gioco facevano parte le promesse di promozioni - «sei sulla rampa di lancio», «hai nello zaino il bastone di maresciallo» - che moltissimi hanno ricevuto. E, pur sapendo bene che quasi sempre promesse sarebbero rimaste, comunque facevano piacere. E le metafore marinare: «la nave corsara» (che è sempre stata la preferita di Scalfari, anche quando i giornali erano diventati delle corazzate), con conseguenti premi e punizione iperboliche: «vi concederò diritto di saccheggio», o «farai nove giri di chiglia sotto la nave». E c’era il direttore che si occupava della vita privata dei suoi redattori, che li invitava a confidargli i crucci sentimentali, i problemi familiari, le difficoltà quotidiane. Perché non si può lavorare bene se si è infelici e preoccupati. Resta leggendaria la mattina che nello stanzone di “Repubblica” squilla a vuoto il telefono sulla scrivania di un giornalista importante, noto seduttore. Il direttore passa e intima ai presenti: «Non rispondete. Potrebbe essere vostra moglie». Questo atteggiamento, paterno e insieme materno, aggiungeva qualcosa di inconfondibile al suo carisma già 24 luglio 2022
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eccezionale di inventore di giornali, editore, direttore, editorialista, intervistatore: una figura assolutamente unica nel giornalismo italiano del Novecento. Cosa ha significato avere un direttore così si è visto nei giorni dell’ultimo saluto, quando chi ha lavorato con lui, grandi firme e tipografi, vicedirettori e dimafonisti, inviati e commessi, tutti hanno manifestato, insieme alla immensa ammirazione per il genio del giornalismo, un autentico sconfinato affetto per la persona. «Voi dovete essere contenti», «tu devi essere contento», era un altro dei suoi mantra, ripetuto centinaia di volte. E contenti si andava in redazione, mai come se si andasse a un lavoro qualsiasi, ma consapevoli di far parte di un’avventura speciale. Perché nella concezione di Scalfari fare il giornale è un mestiere, con la sua insopprimibile componente artigianale, ma non una professione che si esercita a prescindere dal progetto. Molti ricordandolo dopo la scomparsa hanno tributato gli onori dovuti al grande successo raggiunto dei suoi giornali provando in qualche modo a separarlo dal contenuto politico, civile e culturale, quasi fosse un risultato sì straordinario, ma ottenuto solo grazie a un’eccezionale abilità tecnica. E invece Scalfari ha sempre teorizzato e praticato un principio di fondo, tenacemente ripetuto nei decenni: «La struttura editoriale e la linea politica del giornale sono tutt’uno». Come ha scritto Alberto Asor Rosa, «Eugenio ha perseguito con incredibile energia e una forza intellettuale e vitale assolutamente eccezionale una battaglia inesausta per riuscire a fare dell’Italia un Paese democraticamente maturo, 72
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rispettoso delle regole, fermo sui principi, operoso e civile, e in definitiva, puramente e semplicemente, un Paese normale, almeno secondo il canone democratico occidentale». Una battaglia con molti nemici, che tra l’altro hanno spesso tacciato questa ispirazione di fondo di essere elitaria e antipopolare. Un’accusa doppiamente sbagliata. Perché l’essere élite era ammesso, anzi apertamente rivendicato. E perché l’oggetto delle critiche scalfariane non era certo il popolo, ma la borghesia italiana, autentico ventre molle del Paese, mai capace di farsi classe dirigente a differenza delle borghesie che Scalfari ammirava, la francese e l’inglese prima di tutte. Se il programma di contribuire a “formare la classe dirigente del futuro” poteva forse sembrare ambizioso, di certo non si può dire che non fosse necessario. Oggi che di classe dirigente non è nemmeno il caso di parlare e che, lontani i giorni del successo, i giornali lottano semmai per la sopravvivenza, si resta comunque con il sentimento di aver fatto parte di un’impresa straordinaria, bella, e importante, e di averlo fatto assieme a lui con passione e impegno, e in allegria. Durante i festeggiamenti per i suoi novant’anni uno dei migliori giornalisti che hanno passato tutta la vita professionale nei suoi giornali, nel fargli gli auguri, rievoca: «Direttore, quante volte mi hai detto “Hai il bastone di maresciallo nello zaino!”». Negli occhi di Scalfari passa un lampo: «Ci siamo divertiti, eh?». Grazie, Eugenio, per averci invitato alla festa. Q ©RIPRODUZIONE RISERVATA
Prima Pagina Nell’altra pagina: 1983, con il segretario del Pci Enrico Berlinguer, con il presidente della Repubblica Sandro Pertini a metà anni Ottanta e nel 1987 con Federico
Fellini in Campidoglio. A Fianco: nel 1996 con Marcello Mastroianni e Vittorio Gassman. Qui sotto: con il direttore de L’Espresso Claudio Rinaldi nel 1997
La nostra vita colorata da Eros DI WLODEK GOLDKORN Questa intervista a Eugenio Scalfari è stata pubblicata su L’Espresso del 6 maggio 2011
Foto: Agf (4), FotoA3
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eros come pulsione di vita e l’amore come forza primaria che spinge gli umani ad agire sono al centro del nuovo libro “Scuote l’anima mia Eros” (una citazione della poetessa Saffo) che Eugenio Scalfari ha scritto, e che Einaudi manda in libreria. E in questa intervista l’intellettuale, il pensatore, il fondatore di giornali, oltre a riflettere sull’intreccio tra questi e i temi generali: il Bene e il Male, la psiche e la mente, l’istinto e il raziocinio, regala un pezzo finora non esposto al pubblico della propria biografia. Racconta della sua infanzia e dei suoi complicati amori da adulto. Ma vuole partire, Scalfari, da un altro testo: «Sto seguendo in questi giorni la discussione sul libro del sociologo Franco Cassano “L’umiltà del male”(Laterza), di cui il direttore del “Foglio”si è in qualche modo impadronito. Cassano riflette sul Bene e sul Male citando tre esempi. Il primo è il “Grande inquisitore” di Dostoevskij (le masse non sono all’altezza di capire gli esempi di virtù). Il secondo, “I sommersi e i salvati”di Primo Levi (il Male pervade il Bene). Il terzo è il dibattito, sempre sullo stesso tema, tra Theodor Adorno e Arnold Gehlen. La tesi di Gehlen è: lasciamo perdere le lezioni morali, perché una società possa vivere e funzionare occorrono invece istituzioni in grado di controllare gli istinti trasgressivi». La forza degli istinti e il potere della trasgressione è uno dei temi del suo libro. «Parto da Freud, ma ne rovescio la logica. Per Freud è il su-
per-io l’istituzione che controlla gli istinti e rende così possibile la vita sociale. È il super-io che tiene a freno la nostra propensione naturale a trasgredire. Io invece sostengo che la socievolezza è essa stessa un istinto; noi umani non siamo una specie di solitari, siamo una specie socievole. E il super-io non è altro che l’istinto di sopravvivenza della specie: ossia l’amore per gli altri». Se è l’amore a guidarci, vuol dire che la vita è governata da Eros? «Esatto. L’essere è colorato da Eros. L’eros sono amori: amore di sé e amore degli altri». E il sentimento? «Il sentimento è la forma che assumono gli istinti quando si presentano alla mente, al raziocinio. Il sentimento rende intellegibile il desiderio». Nella sua vita quanto ha contato il desiderio, l’eros? «Un bel po’. L’ho raccontato, in un modo non personale nel mio precedente, “Per l’alto mare aperto”. Chiedo a Diderot quale è il suo rapporto con l’amore. Lui cerca di evadere. Dice che l’amore è quando ci innamoriamo di una cosa, e allora lui di amori ne ha avuti tanti: il progetto dell’enciclopedia, “Jacques il fatalista”. Insisto e gli chiedo se si è innamorato delle donne. Di molte donne, risponde, perché, la ripetitività non va d’accordo con l’amore. Alla fine dice: mi sono innamorato dell’amore. Ecco, anch’io sono innamorato dell’amore». Tradotto. Lei si è innamorato della vita e della sorpresa che c’è nella vita. Eppure in questo libro si misura con la morte. «Noi sbagliamo a raccontare le nostre vite a partire dalla 24 luglio 2022
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nascita. Invece il vero modo di narrare una vita è partire dalla morte e concludere con la nascita. Perché la vita non è altro che una serie di esorcismi per ingannare la morte. Il fatto che alcuni di noi scrivano dei libri o conquistino le Gallie è un modo per dire alla morte: non mi avrai, perché rimane la memoria». Lei quindi ha scritto questo libro per cristallizzare un momento, perché noi, i suoi lettori ci ricordassimo di lei tra dieci o vent’anni? «Sì. Ricorda il mio romanzo “La ruga sulla fronte”? Lo volevo titolare “Vero è ben, Pindemonte!”: una citazione dei “Sepolcri” di Foscolo. Lui sapeva che la memoria sono le opere di ciascuno di noi». Nel suo libro parla molto di Italo Calvino. «È un’amicizia primaria. Eravamo compagni di banco al liceo di Sanremo. Giocavamo insieme a biliardo. Corteggiavamo insieme le ragazze. Una volta, credo fosse l’unica, andammo insieme al bordello (io avevo 17 anni). Per un periodo abbiamo condiviso tutto. Anche le guerre contro le altre bande, in particolare contro quella dei ragazzi dell’Istituto tecnico. Erano battaglie svolte nel mare. Corpi contro corpi. Italo spesso ci guardava seduto sulla boa. Loro erano più forti». Erano più muscolosi, avevano successo con le ragazze a differenza di voi, liceali? «Alle ragazze piacciono anche uomini intelligenti. A proposito, insieme con Italo abbiamo scoperto Atena: la mente. Nel settembre ’43 ci separammo: lui andò in montagna, diventò comunista. Io mi nascosi in Vaticano. Tornammo dalla guerra uomini differenti. Ma ci accomunava, fino alla fine, l’idea della 74
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vita come una specie di viaggio». Un viaggio iniziatico, come il suo libro. In cui parla del suo rapporto con il cardinal Martini. Un’ipotesi: lei e Martini condividete l’idea, comune agli atei e ai monoteisti veri, della solitudine dell’uomo davanti all’Assoluto. «No. Io sono un relativista». Però, quando parla di Chopin e della musica descrive l’assoluto. «Forse perché la musica è un linguaggio universale, non mediato dalle parole. Parlo di Chopin per parlare della malinconia. Che si esprime attraverso i semitoni: momenti musicali di esitazione». Nel suo libro distingue tra malinconia e nostalgia. Dice che la malinconia è il rimpianto per qualcosa che non c’è stato. C’è qualcosa a cui ha rinunciato e che rimpiange? «No. La mia vita si conclude, e io posso dire che ho impiegato tutte le valenze, tutti i talenti che ho avuto. Ho cominciato a fare il professionista in un giornale che ho fondato con Arrigo Benedetti, “L’Espresso”. Ho fondato un altro giornale, “la Repubblica”. Ho realizzato quello che volevo. Il direttore del giornale si occupa di tutto: filosofia, letteratura, la fontanella del quartiere, guerra. E in più per anni sono stato il comproprietario dei giornali che dirigevo». Eppure dice che il potere è triste. «Perché è solitario. Pensi ad Andreotti». E allora perché lei non soffre di solitudine? «Ne è sicuro? E allora le racconto la storia. Sono figlio unico. E
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Foto: Agf (2), FotoA3 (3)
Nell’altra pagina: conversando con Umberto Eco, nel 2004 al Quirinale con il presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi. A fianco: con la seconda moglie Serena Rossetti. Sotto: nel 2011 con il direttore de
ho conosciuto la tristezza del figlio unico. Di solito il figlio unico vive in una tenda di cui è insieme ai genitori il solo abitante. Per me era diverso. Avevo paura che mio padre se ne andasse: era un libertino e un giocatore, un “marito visitante” per citare Levi Strauss. Da quando avevo cinque anni percepivo, inconsciamente, la minaccia dell’abbandono. E siccome non avevo fratelli né sorelle, capivo che a tenere unita la famiglia ero io. Il triangolo della famiglia era questo: i due genitori in cima, alla base il figlio. Però era un triangolo imperfetto, perché nulla vietava che uno dei due se ne andasse. E allora, inconsapevolmente, l’ ho capovolto: sono diventato il padre dei miei genitori. Ho agito per fare in modo che i miei comportamenti fossero tali che ognuno di loro se ne riconoscesse. Questo ha instillato in me quel sentimento che è stato poi il mio modo di amare le persone: il sentimento di paternità. Ecco l’assoluto, di cui lei parlava. Il potere del padre». Secondo Lacan è il padre che dà il nome. «Ho sempre avuto due amori paralleli. Uno per mia moglie, l’altro per quella che per 43 anni è stata la mia compagna e che ho poi sposato. L’amore per mia moglie non ha subito la minima alterazione da questo rapporto. Erano due parallele. Nessuna delle due era subordinata all’altra. Sapevano l’una dell’altra. Nei primi anni, tentarono ambedue di abolire uno degli angoli di questo triangolo. E ci provai anch’io. Provavo a stare con una sola delle mie due donne. Ma era come se tentassi di tagliarmi una gamba, un braccio e metà del cervello. Il sentimento prevalente era il rimpianto per quella con cui non stavo. Ho provato più volte a risolvere questa contraddizione.
L’Espresso Bruno Manfellotto e, nello stesso anno, con Carlo De Benedetti e Monica Mondardini, rispettivamente presidente e amministratore delgato del Gruppo Espresso
Alla fine capii e dissi a me e a loro: è normale che il figlio abbandoni il padre, ma il padre non può abbandonare i figli. Ancora una volta un triangolo in cui io mi assumevo il ruolo che spetta al padre. E così in piena coscienza ho vissuto la fatica della bigamia. Sapendo la fatica, ben maggiore, che si sono assunte le mie compagne». In conclusione. In tutto quello che lei dice e scrive emerge la consapevolezza di quanto la modernità ci abbia portato alla catastrofe: l’autonomia dell’io. Ma lei, pur essendone cosciente, ne trae il lato buono, di leggerezza e dell’ottimismo. «Io penso che non esistano il bene e il male. Esiste la vita di una specie che si svolge nel quadro di un universo abitato da miliardi di altre specie, organiche e non organiche. Ma la nostra specie, pensante e desiderante, ha tanti attributi. Questi attributi da cosa derivano? Da miliardi di cellule e dall’infinità di liquidi e di vuoto (gli atomi sono divisi dal vuoto). E non c’è principio né fine. Io non progetto il futuro che consola. Io concepisco il futuro nei limiti di ciò che la mente mi consente. Oltre quei limiti non c’è nulla». Di ciò di cui non si può parlare si deve tacere? «Sta citando Wittgenstein. È uno degli esempi di quanto la modernità sia contraddittoria: qualche volta sono d’accordo pure con me stesso. Il presente transita con la velocità della luce, io so che c’è il futuro, lo progetto per quanto riguarda la ragion pratica. Il sentimento invece è solo un segmento. E se mi chiede qual è il senso ultimo della vita, rispondo che il senso ultimo non c’è». Q 24 luglio 2022
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Una missione politica e civile DI BRUNO MANFELLOTTO
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on Eugenio Scalfari, se ne va in fondo anche il “secolo di carta”. Quello dei settimanali irriverenti e combattivi, dei grandi quotidiani d’informazione e di battaglia, del giornalismo moderno che si fa protagonista della politica e dell’economia. Insomma, il “suo” secolo, perché su di esso Scalfari ha imperato come nessun altro, e lasciato un segno profondo inventando stili, rinnovando formule, fondando giornali. E naturalmente vivendo la vita con pienezza. E dunque è ben difficile riassumere qui e ora i momenti salienti di una lunga esistenza, le tante esperienze in cui si è lanciato, sempre con il piglio - e spesso con la palma - del vincitore: giornalista, amministratore, direttore, saggista, romanziere, infine poeta, sempre marito e amante. I tanti volti di un uomo cui è toccato in sorte perfino di conquistare l’amicizia del Papa. Forse meglio indagare allora le radici, la genesi, le velleità di una lunga e bella avventura, anche perché coincidono con la nascita e la vicenda stessa di questo giornale, L’Espresso. Dal quale peraltro tutto il resto è cominciato.
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Una storia, è vero, raccontata e scritta mille volte, forse perfino mitizzata. Eppure vale la pena ricordarne ancora alcuni dettagli illuminanti, se non altro perché spiegano bene molti degli eventi che si sono succeduti dopo: il successo del settimanale, l’azzardo vincente di Repubblica, la poderosa catena dei giornali locali, in altre parole l’irruzione sulla scena di un modo diverso di fare giornalismo che influenzerà a lungo l’intero mondo dell’informazione. Dunque, una mattina di primavera del 1955 due giovani uomini arrivano a Ivrea, negli uffici dalle grandi vetrate della Olivetti, per incontrare Adriano, patron dell’azienda che porta il nome di famiglia, imprenditore illuminato, l’animatore del Movimento di Comunità pensato e fondato nell’assoluta convinzione che far convivere sviluppo industriale e diritti dei lavoratori e studiare un’organizzazione del lavoro più umana avrebbe reso la fabbrica più efficiente e la società più democratica. Uno dei due ospiti è Arrigo Benedetti, ha 45 anni, viene dalla brillante scuola giornalistica di Omnibus e di Leo Longanesi e ha già fondato e diretto due settimanali di successo, Oggi e L’Europeo. L’altro è Eugenio Scalfari, di anni ne ha 31, ha da poco sposato Simonetta De Benedetti - figlia di Giulio, il geniale e spietato direttore della Stampa di Torino - ed è un ex funzionario di banca che ora scrive per Il Mondo di Mario Pannunzio articoli puntuali sui potentati dell’economia che per vivacità e autonomia di giudizio hanno colpito il patron della Banca Commerciale, il mitico Raffaele
Foto: E. Scalfari / Agf(3), P. Tre / FotoA3
Nell’altra pagina: Scalfari nella sua casa di Velletri e nel suo studio-biblioteca. Sotto: nel 2013 al Quirinale con il presidente
della Repubblica Giorgio Napolitano. A destra: con Ezio Mauro, il suo successore alla direzione di Repubblica
Mattioli. Anzi, è proprio Mattioli a spingerli a coinvolgere Olivetti nel progetto. I due amici sognano un nuovo giornale, un quotidiano totalmente diverso dagli altri perché immaginato come un settimanale che esca tutti i giorni, e che nel quotidiano porti dunque le peculiarità del settimanale. Tre i principali campi d’indagine: politica, cultura, economia (parole che ancora oggi spiccano sotto la testata de L’Espresso); grafica accattivante; massima attenzione alla scrittura; inchieste, approfondimenti, punti di vista originali: in nuce c’è già “la Repubblica”, no? A Olivetti viene spiegato il progetto, e gli piace assai; anche presentato un preciso, dettagliato piano industriale, costi e ricavi, che però gli appare subito troppo impegnativo per lui. Troppo costoso. Si offre allora di contribuire all’impresa, di acquisire una partecipazione minore, ma suggerisce di rivolgersi a qualcuno con le spalle più robuste, la Fiat di Vittorio Valletta o l’Eni di Enrico Mattei. Per tante ragioni, i due scelgono Mattei. Che li riceve subito, s’invaghisce del progetto e senza por tempo in mezzo si propone come azionista di maggioranza della nuova creatura. Era fatta, finalmente si poteva partire. Benedetti e Scalfari, felici, tornano con la buona notizia da Olivetti che invece li gela: l’idea di entrare in società con l’Eni non lo convince affatto, troppa sproporzione tra i due azionisti, bolla la possibile alleanza come «un pasticcio di allodola e cavallo». Ed è a questo punto che anche Benedetti e Scalfari cominciano a temere che il “cavallo”, l’Eni, la potente Eni dell’attivissimo Mattei possa diventare per loro troppo ingombrante, predo-
minante, e finire per condizionare idee e progetti. E si accordano con Olivetti per il settimanale. Pochi mesi dopo Mattei manderà in edicola “Il Giorno”, un quotidiano molto simile per formato e impostazione a quello che gli era stato raccontato. Ci vorranno invece vent’anni perché quel primo progetto spiegato a Olivetti e Mattei prenda finalmente corpo e Scalfari fondi la “Repubblica” (che non a caso ingaggerà subito molte firme del “Giorno”, a cominciare da Giorgio Bocca), ma in fondo tutto era già scritto. Ed è per questo che le scommesse de “L’Espresso”, di “Repubblica” e perfino della catena di giornali locali costruita con passione e pazienza da Carlo Caracciolo, vanno lette l’una pensando anche alle altre. Perché appartengono alla stessa storia, nascono dalle stesse radici. Che giornale è da subito “L’Espresso”? È un settimanale politicamente e culturalmente libero, alquanto libertino nel costume, che fa dell’irriverenza verso il potere il suo tratto distintivo. Adotta lo splendido formato “lenzuolo” che consente una titolazione robusta e un uso spregiudicato delle fotografie: tagliate e a volte talmente ingrandite da sgranarle. La scansione segue proprio l’ordine politica-cultura-economia. La cura della scrittura è ossessiva: Benedetti, il direttore che sogna di firmare grandi romanzi, sostiene di pubblicarne uno che va in edicola ogni settimana. E infatti assolda scrittori (Cancogni, Moravia, Eco, Sciascia, Arbasino…) e li usa come giornalisti, o pretende che questi si trasformino in quelli. Mitiche le sue sfuriate, gli articoli appallottolati e gettati nel cestino e poi implacabilmente fatti riscrivere e riscrivere ancora. 24 luglio 2022
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1924-2022 Sotto: ancora nel giardino della casa di campagna di Velletri. Al centro: con Roberto Benigni. A destra: Eugenio Scalfari
e Carlo Caracciolo, i due protagonisti della storia del Gruppo Espresso, nel 2005
All’inizio, su tutto faceva premio proprio l’intransigenza stilistica e laica di Benedetti, detto il Tonno per via di un corpo tozzo e rotondo poggiato su due piedini, intorno al quale si forma un gruppo di intellettuali determinati a denunciare la corruzione, la mala amministrazione, l’intreccio perverso tra politica e affari: «Missionari laici in un’Italia cattolica, arruffona, pasticciona», riassumerà più tardi Caracciolo. Tutti ricordano e citano a mo’ di marchio di fabbrica le inchieste di Cancogni contro il sacco di Roma (“Capitale corrotta=Nazione infetta”), ma poi seguiranno negli anni gli scandali della Federconsorzi, delle banane, quello dei tabacchi, dell’aeroporto di Fiumicino, l’inchiesta sulla miseria nel Mezzogiorno, il “tintinnar di sciabole” del Piano Solo approntato da carabinieri e Sifar… Scalfari s’è ritagliato il ruolo di direttore amministrativo, ma scrive articoli d’economia con una chiarezza, un’indipendenza e una competenza fino ad allora poco praticate sui giornali. Conversa con Guido Carli, governatore della Banca d’Italia, e ne traduce il pensiero in articoli firmati con lo pseudonimo di Bancor. Denunciando le insane commistioni di politica e affari, comincia ad attaccare quella “razza padrona” di boiardi di Stato - il cui campione è Eugenio Cefis che innerverà molte campagne de L’Espresso e poi di Repubblica e che negli anni Settanta diventerà un best seller scritto a quattro mani con Peppino Turani. Anno dopo anno il peso di Scalfari diventerà via via maggiore e L’Espresso si caratterizzerà per praticare un giornalismo lontano dal mito anglosassone dei fatti separati dalle 78
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opinioni caro a Lamberto Sechi che su questa pietra fonderà nel 1962 a Milano il mondadoriano Panorama, aspro concorrente del settimanale di via Po, e primo ad adottare il formato e la filosofia dei news magazine americani come Time al quali esplicitamente si ispira. No, piuttosto della tradizione anglosassone Scalfari ha adottato il principio del giornalismo come cane di guardia del potere e per questo ha sempre interpretato e praticato un’informazione orgogliosamente e dichiaratamente di parte, nel senso di criticare, prendere posizione, dichiarare i propri bersagli. Insomma, un giornale con il gusto della provocazione, protagonista del dibattito politico e culturale, che ha l’orgoglio delle sue idee e il coraggio di difenderle. Diceva Caracciolo: «Un giornale cosi non può che essere, sia pure in forme non ossessive né ringhiose, un giornale contro». Anche il campo scelto è esplicito fin dagli esordi: in senso lato è quello liberal democratico, riformista, post azionista, alquanto radicaleggiante (contiguo all’inizio alla pattuglia del Partito radicale) che guarda a sinistra e si identifica soprattutto con Ugo La Malfa. Quando nel 1967 Benedetti lascia perché in disaccordo con la linea assunta dal giornale allo scoppiare della Guerra dei Sei Giorni, Scalfari, direttore dal 1963, scrive: «Noi il nostro campo l’abbiamo scelto da molto tempo e una volta per tutte: siamo contro tutte le dittature di qualsiasi colore, sovietiche, greche, spagnole o nasseriane che siano; siamo contro la violenza e l’incitamento alla violenza da qualunque parte provenga… Siamo, dovunque, con le colombe e contro i falchi, anche se è vero che talvolta, per
Foto: E. Scalfari / Agf(2), Ansa
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sopravvivere, le colombe debbono mettere becco e artigli. Per difendersi. Mai per aggredire». La dichiarata partigianeria di Scalfari, la sua scarsa fede in una obiettività dell’informazione troppo spesso solo formale - formidabili gli scontri in materia con Indro Montanelli, l’altro grande protagonista del secolo di carta - varrà prima a L’Espresso e poi soprattutto alla Repubblica, fin dal suo debutto nel gennaio 1976, l’acida definizione di giornale-partito. Che in realtà non dispiaceva più di tanto al Fondatore che piuttosto la leggeva come il riconoscimento della missione politica e civile che i suoi giornali s’erano dati, quella di rendere l’Italia più moderna e democratica. Da una parte combattendo contro il verminaio del malaffare, della corruzione, della cattiva amministrazione, dell’omertà, dell’egoismo corporativo e di lobby che ha inquinato così tante volte la vita politica e civile; dall’altra, presuntuosamente spingendo per modernizzare e cambiare la sinistra italiana, a cominciare dal Pci, perché assomigliasse sempre più a quella dei grandi paesi democratici europei. I “missionari” s’accingono dunque all’impresa più grande, la nascita di Repubblica, avendo ben chiaro in testa quel mandato. La redazione stessa viene costruita pescando in un campo largo (da Paese Sera al Giorno all’Unità); la pagina dei commenti è una tribuna aperta a opinionisti anche difformi (per i suoi interventi Alberto Ronchey pretenderà la testatina “Diverso parere”); la scansione delle pagine segue la miscela già sperimentata: politica, cultura, economia. Tutto sotto il controllo personale e diretto di Scalfari. Mitica la quotidiana
riunione di redazione, detta “la messa cantata”, le telefonate con i potenti del momento mandate in viva voce via interfono perché tutti i giornalisti ascoltassero, cogliessero i toni da adottare in circostanze simili, seguissero l’esempio, comprendessero chi teneva la barra del timone. Una volta, come raccontano Antonio Gnoli e Francesco Merlo in “Grand Hotel Scalfari. Confessioni libertine su un secolo di carta”, il libro-intervista del 2019, il direttore porta in riunione il nastro della sfuriata di Arturo Toscanini ai suoi orchestrali perché tutti si diano una regolata. Se lo poteva permettere, perché gli veniva riconosciuto un carisma di cui lui stesso era conscio e del quale si beava da sempre. Lasciamo ancora la parola a Carlo Caracciolo, l’editore e amico: «Una volta sentii dire di lui: “Porta la testa come il Santissimo”». Appunto. Insomma quella “certa idea dell’Italia”, citazione gobettiana orgogliosamente rivendicata e adattata alla bisogna, ha sempre scandito la lunga stagione di Scalfari e dei suoi giornali. Discendeva dai valori e dall’esperienza del Partito d’Azione ma, chiusa quella stagione lontana, essa è rimasta sempre viva nello sforzo quotidiano di migliorare e cambiare un Paese diviso, incerto, frenato dai suoi stessi limiti culturali e istituzionali. Il “secolo di carta” lungo il quale si è sviluppato il sogno di un’informazione più moderna, libera e democratica, si va chiudendo. Ma ora che Scalfari non c’è più quell’impegno resta nel dna delle sue creature. Se non altro perché il Paese non è ancora quello che i “missionari Q laici” sognavano. ©RIPRODUZIONE RISERVATA
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ono contento di tornare a scrivere su L’Espresso con continuità. Credo che i lettori e gli amici capiranno questo mio sentimento: L’Espresso lo fondammo, Arrigo Benedetti, io, Antonio Gambino e pochi altri giornalisti e scrittori, 43 anni fa; da allora ci scrissi tutte le settimane fino all’autunno del 1975, quando cominciò il lavoro di fondazione di Repubblica che assorbì totalmente il mio tempo. Ma oggi, dopo aver lasciato due anni fa in buonissime mani la direzione di quel giornale, posso finalmente realizzare un desiderio: quello di collaborare a entrambe le testate che ho contribuito a far nascere. Perciò considero il mio ritorno a L’Espresso un piccolo evento che mi rallegra, e che debbo all’amicizia e alle affettuose insistenze di Claudio Rinaldi. Non sarei tuttavia interamente sincero se tacessi l’altra ragione che mi ha spinto ad accettare l’invito, ed è la prospettiva di affiancare a settimane alterne la Bustina di Minerva che Umberto Eco spedisce ai lettori infaticabilmente da oltre tredici anni. Eco ha molto amabilmente preannunciato questo mio esordio e mi ha battezzato appunto come esordiente al suo fianco, ricordando che a mia volta fui io a chiamarlo a collaborare a L’Espresso nel 1965 (pensate un po’ quanti anni sono passati da allora). Tra noi due non si sa dunque chi sia il Giovanni Battista e chi il povero Cristo: direi di lasciar le cose nell’incertezza. Scrivere a settimane alterne sulla stessa pagina di Umberto mi mette comunque in corpo molta allegria, e mi dà al tempo stesso qualche preoccupazione: ce la farò a tenere il passo? Non sarà facile con un competitor di quel calibro. Dovevo trovare un titolo a questa
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Meglio Ulisse di Achille DI EUGENIO SCALFARI mia rubrica che la distinguesse dalla Bustina ma restasse intonato sulla stessa lunghezza d’onda, e così avevo pensato ai Calzari di Mercurio. Ma poi m’è sembrato meglio evitare un eccesso di mitologia, e perciò la scelta è stata quella che i lettori vedono in testa a questa pagina. Il vetro soffiato vuole essere un’indicazione di leggerezza nel senso che Italo Calvino dava a questa parola come elemento essenziale della sua poetica, e ad essa è mia intenzione attenermi. ***
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ei giorni scorsi, in mezzo a tanti fatti felici o luttuosi che hanno attirato l’attenzione del pubblico, ne ho colto uno piccolo piccolo ma non di meno significante: un concorso che il settimanale “Tuttolibri” della “Stampa” ha bandito tra i suoi lettori con il titolo “Di quale mito sei?”. Bisogna scegliere tra una cinquantina di personaggi mitologici, da Venere a Prometeo, da Persefone a Ercole e così via. Hanno risposto in cinquecento, e primo per molte lunghezze è risultato Ulisse (63 voti) seguito da Icaro (25), Orfeo (21) e Atena-Minerva (20). Come dire: il viaggio consapevole, l’avventura spericolata, il sentimento amoroso, l’intelligenza fertile.
In realtà Odisseo e Atena formano una coppia, e infatti per tutta l’”Odissea” l’eroe è guidato e protetto dalla dea; sicché la scelta d’una vita che si realizza attraverso l’esperienza di sé e del mondo ha riscosso una schiacciante maggioranza di consensi. Vedere messi ai voti gli dei e gli eroi come si trattasse di D’Alema e di Berlusconi m’è sembrato un po’ triviale e, lo confesso, mi ha indispettito. Ma qualche soddisfazione comunque quel sondaggio me l’ha data. Mi piace per esempio constatare come tra i cinquecento che hanno risposto il coraggio irresponsabile di Icaro non abbia riscosso grande seguito; ancor meno ne ha avuto Achille (8 voti), che ricorda un terminator armato di lancia invece che di mitra. Venere ha avuto 8 voti ed Elena di Troia 5; in totale 13 voti per l’immagine della bellezza femminile, che mi sembrano francamente pochi. Sono poi rimasto deluso dalla scarsa simpatia che i partecipanti al sondaggio hanno dimostrato per Ettore: soltanto 8 voti. Ai miei tempi, quando si cominciava a studiare l’”Iliade” in prima ginnasio (allora la media si chiamava così), i ragazzi si dividevano in due partiti: chi teneva per Achille e chi per Ettore; ma era Ettore ad attrarre le maggiori simpatie, l’eroe che difende la patria e perisce sotto i colpi di un invincibile favorito dagli dei. La partita era truccata, e noi ragazzi parteggiavamo per il più debole. Guai tuttavia a scambiare i cinquecento di “Tuttolibri” per un campione rappresentativo. Si tratta evidentemente di lettori sagomati, che apprezzano la ragione più delle passioni e l’intelligenza più della forza. Ad essi, anche a nome di Umberto Eco assente giustificato, mando il mio solidale saluto. Q ©RIPRODUZIONE RISERVATA
Foto: Enrica Scalfari / AGF
La prima rubrica “Il vetro soffiato” di Eugenio Scalfari pubblicata su L’Espresso il 21 maggio 1998
La forza della scrittura
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L’amore e la bellezza per combattere la paura. La riscoperta del film “Casablanca”. Il poeta e scrittore spagnolo racconta di sé e dei miti italiani: Dante, Petrarca, Fellini. E Raffaella Carrà colloquio con Manuel Vilas di Gigi Riva illustrazione di Ivan Canu
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La forza della scrittura
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amore è la soluzione... Ascoltando Manuel Vilas, 60 anni, scrittore e poeta spagnolo tra i massimi, viene in mente per assonanza il suo collega egiziano Ala al-Aswami che conclude ogni suo scritto con la frase: «La democrazia è la soluzione». Tra le due “soluzioni” la distanza è evidente. Il personale e il politico si sarebbe detto un tempo, nei casi citati declinati in parallelo a differenza dello slogan che li voleva, al minimo, due facce della stessa medaglia. Vilas era sul palco del Bergamo Festival, la città-martire della prima ondata del Covid-19, e con il suo vitalismo vagamente epicureico proponeva come antidoto alle grandi emergenze contemporanee, la pandemia e la guerra, parole dolci come amore, appunto, bellezza, felicità, vita. Partendo da un aneddoto personale. «Durante il confinamento, che in Spagna è stato particolarmente duro, io
“Non sono un politico e neanche un sociologo. Sono uno scrittore e credo che la responsabilità della letteratura sia difendere la vita dai suoi nemici”
In alto: una donna con un bambino saluta un ragazzo su un treno a Leopoli, in Ucraina. A destra: Manuel Vilas
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guardavo le notizie alla televisione per 5-6 ore al giorno. E mi dicevo: ci deve essere pur qualcuno che non è stupido e idiota come me e non guarda le news quando c’è una catastrofe. Siccome sono anche un grande appassionato di cinema mi sono rivisto 5-6-10 volte “Casablanca”. E ho trovato la risposta nella scena in cui l’altoparlante dei nazisti annuncia l’ingresso a Parigi, la presa della capitale francese. I due protagonisti, Ingrid Bergman e Humphrey Bogart si dicono: “Il mondo cade a pezzi e io e te ci siamo innamorati”. Ecco, ho pensato, la ricetta sicura per non perdere la speranza e non cedere alla paura durante una tragedia collettiva, guerra, crisi economica, totalitarismi, pandemia: innamorarsi. Così ho scritto “I baci” (in Italia uscito con Guanda, ndr)». Per prevenire qualunque obiezione circa la mancanza di una dimensione sociale aggiunge: «Io non sono un politico, un sociologo o un intellettuale. Sono uno scrittore e credo che la responsabilità della letteratura sia difendere la vita dai suo nemici. Per la letteratura è più importante difendere la vita dell’ideo-
logia perché le ideologie hanno un potere di alienazione mentre ciò che conta è la libertà individuale». Il che non significa, tuttavia, che Manuel Vilas non abbia una solida visione politica se ha preso una netta posizione contro la Russia e a favore dell’Ucraina e, in questo, eccolo avvicinarsi al Ala as-Aswani: «Per forza. L’Occidente ha una cultura democratica che dobbiamo tenere per cara e davanti a sé c’è chi la contrasta. Un capo di governo occidentale deve dare spiegazioni al suo popolo altrimenti non viene rieletto. Dall’altro lato c’è Putin che non deve dare nessuna spiegazione. Dunque ci troviamo in una condizione di debolezza che tuttavia non ci deve deviare dai nostri principi». Ma se questo è persino scontato, lo spagnolo inserisce una ulteriore considerazione che allude alla sfera del personale. «Per il leader di un governo europeo il piacere è governare. Per godere di questo bisogno deve soddisfare il proprio popolo. Dunque conosciamo il piacere dei nostri uomini politici. Ma qual è il piacere di Putin?». Troppo facile risponde-
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Foto: D. Chiu - SOPA Images - LightRocket / GettyImages, M. Frassineti - Agf
TRA ROMANZI E POESIE
re: «Il potere». E sveltamente Vilas rincara: «Sì, ma è accompagnato da un risentimento personale verso l’Occidente da cui si sente umiliato e ciò crea per lui una difficile situazione psicologica». Con cui giocoforza ci dobbiamo confrontare partendo da una situazione di svantaggio per via delle lungaggini decisionali che il nostro sistema sconta per sua natura. Vilas aggrotta le ciglia e si interroga: «Il problema è: cosa facciamo noi tolleranti con gli intolleranti? Vogliono distruggere la democrazia e noi siamo obbligati a difenderla. Non possiamo immaginare che la difenda soltanto il governo, ogni cittadino si deve sentire chiamato in causa. Cosa dovremmo fare? Esercitare le nostre libertà al massimo, giudicarle un valore irrinunciabile». Abbiamo commesso degli errori ovviamente se si è creato uno spazio in cui si è infilata la possibilità di aggredire la democrazia. «Abbiamo negoziato con Paesi non democratici da cui ora dipendiamo economicamente. Con certi Paesi non si possono fare affari. La Russia, ad esempio, ora ci im-
Manuel Vilas, 60 anni, è tra i massimi scrittori e poeti spagnoli. Ha pubblicato raccolte di poesie e romanzi, tra cui “España”, indicato dalla rivista Quimera come uno dei dieci romanzi in lingua spagnola più importanti del primo decennio del secolo. “In tutto c’è stata bellezza” (Guanda 2019), tradotto in oltre venti lingue, è stato il primo libro pubblicato in Italia, dopo aver riscosso grande successo in patria. L’editore Guanda ha pubblicato i romanzi “La gioia, all’improvviso”, “I baci” e la raccolta di poesie “Amor”.
pedisce di prendere le decisioni che dovremmo prendere perché ci rifornisce di petrolio e di gas. E dunque viviamo in una situazione di sospensione non essendo liberi ed è una condizione penosa. Putin non vuole cittadini liberi, ti invita a bere un caffè e dentro ci mette il polonio... Putin non capisce l’Occidente, non capisce il cinema americano, il cinema italiano. Non capisce i Rolling Stones o i Beatles. Se vede un film di Fellini non lo capisce, anche se gli sembra che sia un nemico. Possiamo capire Putin solo capendo che lui non capisce». Esiste, tra noi e il “mondo russo”, secondo Manuel Vilas, una diversità irriducibile, non siamo alla stessa ora sull’orologio della storia. «Gli europei sono persone sofisticate. E la guerra è la cosa meno sofisticata. Noi siamo dedicati al piacere della vita, nessuno vuole prendere un fucile e sparare. La guerra mi pare il Medioevo, ma già la pandemia era una regressione al Medioevo». La forma di resistenza più alta, secondo la concezione dello scrittore, sta nella letteratura che è un’arma della libertà, il trionfo della bellezza, un ausilio ai lettori contro l’alienazione: «Lo stesso Kafka parlava di obbligo all’allegria, senza mediazioni, senza rimandi. Un uomo, o una donna, arrivano ai 40 anni e si dicono: io non mi sento libero ma magari più avanti... A 45 anni si confessano: ho un lavoro che non mi piace, il mio matrimonio non mi soddisfa, magari più avanti... A 50 si ripetono: non sono ancora libero, lo sarò domani... E infine a 60: ormai ho 60 anni, avrei dovuto prendere una 24 luglio 2022
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“Non diciamo mai tutta la verità perché se la dicessimo manderemmo in pezzi l’universo, che funziona attraverso ciò che è ragionevole, ciò che è sopportabile” decisione ma a quest’età non posso divorziare, non posso cambiare lavoro. E abbiamo una sola vita». Il titolo del più famoso libro di Vilas è “In tutto c’è stata bellezza” (sempre Guanda). In una delle frasi più famose di Dostoevskij ricorre la stessa parola: «La bellezza salverà il mondo». Eppure il grande russo ha anche scritto: «Troppi anni di pace nuocciono all’umanità». Come se la guerra fosse un lavacro della Terra. Come si conciliano le due cose? «Dostoevskij è un grande scrittore e come tutti i grandi scrittori è pieno di contraddizioni perché la vita è una contraddizione. Io lo amo ma ho idee diverse. Credo nella felicità e nella fraternità universale. La bellezza salverà il mondo se la vivremo sino in fondo, se non è astratta, se ci entriamo dentro». Sempre ne “In tutto c’è stata bellezza” c’è una frase un po’ scioccante circa la verità, un valore che (ipocritamente?) tendiamo ad inseguire. Scrive Vilas: «Non diciamo mai tutta la verità perché se la dicessimo manderemmo in pezzi l’universo, che fun86
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In alto: il regista Federico Fellini sul set del film “Roma”. Sotto: Raffaella Carrà
ziona attraverso ciò che è ragionevole, ciò che è sopportabile». Merita una spiegazione. «Se noi dicessimo alla moglie, al figlio, al miglior amico tutta la verità automaticamente distruggeremmo il matrimonio, la paternità, l’amicizia. Ci sono verità non comunicabili che non si possono dire nemmeno a se stessi. C’è un abisso nel genere umano e la letteratura cerca di esplorare l’abisso. La letteratura è il luogo dove posso dire ciò che non posso dire alla moglie, al figlio, all’amico. Recentemente è morto un mio amico scrittore, uno che aveva fortuna con le donne. Al funerale sono arrivate trenta donne tutte convinte di essere la sua fidanzata. Aveva avuto una vita occulta meravigliosa, molto vicina al senso dell’umorismo». C’è una morale da trarre? «Sì. Siccome nei libri si decritta l’animo umano, chi legge è tendenzialmente buono. Chi legge molti libri alla fine sarà molto buono. E nel caso di tradimento del partner potrà capire. È questo il regalo della letteratura: aiuta a capire». Della nostra letteratura che lo ha aiutato a “capire” cita Dante, Petrarca, i poeti del ventesimo secolo, Tomasi di Lampedusa, il cinema: «Amo Fellini, è presente anche nel libro che sto scrivendo. Ho vissuto sei mesi a Roma ed ero ossessionato dalle immagini del suoi film». E non disdegna di scendere nel pop: «Per me è stata un mito, anche un mito erotico, Raffaella Carrà, la regina della tv, icona della classe medio-bassa spagnola da cui provengo». C’è un’ultima sua frase, Vilas, che dovrebbe spiegare. Lei ha detto, durante la pandemia, che «abbiamo sostituito Dio con la scienza». Vecchia questione. Non possono convivere? «Intendo dire che abbiamo sostituito un fanatismo con un altro fanatismo. Chiedevamo agli scienziati la soluzione. Ma la scienza non ha una soluzione, non sa cosa facciamo qui, qual è l’origine della vita. Arriva a darci lo smartphone ma non risolve l’enigma fondamentale. In pandemia ci hanno detto che dovevamo lavarci le mani, grazie tante. Poi è vero che è arrivato il vaccino... Quando ci dice che a 800 milioni di anni luce c’è un pianeta simile al nostro a me sembra una battuta: cosa me ne faccio?». Meglio l’amore... «Esatto. È quello che voglio dare al lettore, scegliendo le parole giuste. Perché è l’amore l’esperienza più importante Q della nostra vita». © RIPRODUZIONE RISERVATA
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La forza della scrittura
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Il richiamo dell’archeologia Gli affreschi erotici al centro di una mostra. Nuove domus aperte al pubblico. Vini e cibi prodotti tra gli scavi. Si ravviva il fascino della città sepolta più famosa al mondo
A POMPEI
l’amore è eterno L’ Veduta di Pompei con la statua di bronzo raffigurante il dio Apollo
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affascinante viaggio nell’antico continua. Le case di Pompei che stanno per aprirsi al pubblico, dopo lunghe chiusure e restauri, ampliano le nostre conoscenze su usi, arte e gusti della vita quotidiana: volti, paesaggi, minute descrizioni che si rincorrono sulle pareti di domus aristocratiche. Entro l’estate, come anticipa L’Espresso, sarà accessibile la casa delle “Nozze d’argento”, scoperta nel 1893 e così denominata per l’anniversario in quell’anno dei reali d’Italia Umberto e Margherita di Savoia. Molte abitazioni infatti prendono il nome da ricorrenze, visite illustri, ritrovamenti particolari; a volte, in occasione della presenza di un sovrano o di un personaggio altolocato, come il pontefice Pio IX, si faceva finta di trovare reperti già venuti alla luce, che venivano poi offerti in regalo. La domus di cui parliamo, risalente nella prima fase al II sec. a.C., è un
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esempio di come si presentavano le case delle nobili famiglie pompeiane prima che la città diventasse municipio romano. La maestosità dell’atrio, come una cattedrale, con le alte colonne in tufo disposte agli angoli della vasca centrale, suggerisce l’importanza sociale anche dell’ultimo proprietario Albucio Celso, candidato all’edilità tra il 76 e il 79 d. C. Una tenda, rivelata da un disco di bronzo con rostro, lo separava dal tablino, dove il padrone di casa riceveva clienti, scriveva lettere, conservava documenti. Subito dietro, si apre un giardino porticato e, sulla destra, si trova la cucina con un gabinetto adiacente: una rarità, quest’ultimo servizio, manca pure in domus lussuose e ampie. Dopo la cucina, ecco un altro giardino, che esibiva tre statuine smaltate di animali a tema egizio, ora al Museo nazionale di Napoli insieme al mosaico dell’ingresso, dove è raffigurata una città turrita con il porto e il faro. Nel corso della sua storia, la casa
Foto: Giuseppe Carotenuto
di Marisa Ranieri Panetta
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Il richiamo dell’archeologia aveva subito vari rifacimenti, assicurando sempre un’esistenza più che confortevole: fontane ovunque, un bagno fornito di acqua calda, vasche all’aperto, ambienti piccoli e grandi dalle decorazioni accurate. Un’altra particolarità contraddistingue l’edificio, finora non evidenziato: sulla sinistra dell’atrio, esisteva un orto. Non tutte le zone destinate al verde erano adibite ad accogliere piante fiorite, statue e fontane, per il godimento dei proprietari e come status symbol da ostentare agli ospiti; già sono stati identificati alberi da frutto, vigneti e piante di ulivo sparsi in città. Ma ci sono molte zone destinate a coltivazioni, non indagate o abbandonate. Gabriel Zuchgrietel, direttore del Parco archeologico, vuole andare avanti in questa ricerca, con un progetto che riguarda anche Stabia e Oplontis, perché «da un censimento effettuato, le zone agricole a ridosso delle mura e negli abitati sono circa cento ettari: un patrimonio che deve essere riscoperto, reintegrato con le coltivazioni originarie». E riferisce in
Storia, arte, alimentazione e paesaggio potranno restituirci nel suo complesso la vita reale degli ultimi abitanti della città distrutta dall’eruzione anteprima a L’Espresso: «Sta per partire un bando per coinvolgere partner privati nella produzione del vino e di altri alimenti, così come avveniva in antico. Si tratta di un nuovo approccio di conoscenza, all’interno di una visione articolata del Parco: storia, arte, alimentazione e paesaggio, in grado di restituirci nel suo complesso la vita reale degli ultimi abitanti. Nello stesso tempo, si potranno generare sviluppo e occupazione attraverso la valorizzazione dei prodotti». Sono state già riaperte altre dimore, ma in autunno si conosceranno domus pregiate e un intero isolato (2300 mq), lungo la centrale via dell’Abbon90
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danza, che comprende botteghe, giardini, e due case principali. Quella dei “Casti Amanti” a più livelli, dà il nome ai fabbricati e si riferisce a una pittura murale che raffigura un banchetto con una coppia che si scambia un bacio non volgare. Decora il triclinio del quartiere residenziale e inneggia a incontri conviviali innaffiati dal vino, ribaditi in altre scene con comportamenti diversi. Entrando, si incontra prima un grande panificio, che costituiva la notevole risorsa economica del proprietario. Si vedono il forno, le mole per macinare il grano e gli scheletri dei muli che le azionavano. Erano sette; evidentemente, utilizzati anche
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L’affresco con gli amorini orafi e, qui a fianco, la sala del triclinio nella Casa dei Vettii. Sopra a sinistra: scena di banchetto dipinta nella Casa dei casti amanti
per il trasporto del pane. L’altra abitazione, dei “Pittori al lavoro”, documenta invece un cantiere in piena attività, rivelando in un salone le suddivisioni dei compiti. Pompei continuava a subire terremoti e ovunque c’erano operai per riparare tubazioni, rinforzare murature, ripristinare affreschi. Qui, era stata portata a termine una bella decorazione di soffitti (crollati in migliaia di pezzi, li stanno ricomponendo), ma c’erano tante pareti da risistemare. Appena si è scatenata l’eruzione, i pittori hanno abbandonato la casa, lasciando disegni preparatori, figure in attesa del collante finale, coppette con i pigmenti da polverizza-
re. Nessuno si aspettava quel cataclisma; sul focolare della Casa dei Casti amanti stavano arrostendo un volatile e un piccolo cinghiale. L’isolato si presenterà alle visite con una novità assoluta per Pompei: una copertura in pannelli di alluminio con lucernai in vetro stratificato e l’installazione di una passerella sospesa in acciaio che consentirà di conoscere dall’alto tutti gli ambienti. Archeologi, tecnici e restauratori sono impegnati anche nella domus dei Vettii, una delle più note, aperta in passato per poco tempo e non interamente. Apparteneva ai fratelli Conviva e Restituto, ricchi liberti nell’ultimo periodo di vita della città, che avevano fatto fortuna con attività mercantili e agricole. Come simbolo beneaugurante di prosperità, nell’ingresso avevano raffigurato il dio Priapo, che poggia il suo enorme membro sul piatto di una bilancia, mentre sull’altro è posta una borsa piena di monete. Dall’augurio alla reale sostanza economica: nell’a24 luglio 2022
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Il richiamo dell’archeologia
Gruppo scultoreo con ermafrodito e satiro nella mostra “Arte e sensualità nelle case di Pompei”
Come simbolo beneaugurante di prosperità, nell’ingresso avevano raffigurato il dio Priapo che poggia il suo enorme membro sul piatto di una bilancia trio, centro focale della casa, si notavano subito due “arche” sostenute da basamenti in muratura: bauli come casseforti, serrati da chiodi e ornamenti bronzei, per salvaguardare i beni preziosi della famiglia. In asse con l’entrata, visibile dalla strada col portone aperto, si allungava il giardino circondato da portici che traboccava di tavoli, piante e zampilli d’acqua provenienti da tante statue di marmo e di bronzo. La ricca borghesia pompeiana seguiva, nella decorazione delle proprie dimore, la moda che si diffondeva a Roma; appaiono così le pitture con motivi fantastici, protagoniste della Domus Aurea neroniana (“grotte92
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sche”), che occupano tutto il campo lasciato libero dai grandi quadri sulle pareti. Le pitture murali a Pompei, come altrove, erano la seconda pelle dell’abitazione e ne costituivano l’arredamento vero e proprio. I mobili erano pochi ed essenziali, le stanze da letto piccole, ma le pareti erano dipinte a vivaci colori; quando lo spazio era ridotto, affreschi illusori ampliavano i volumi con architetture e paesaggi. A caratterizzare le sale che si affacciano sul giardino dei Vettii sono racconti di episodi mitologici dal contenuto moralistico, come il Supplizio di Dirce, cattiva matrigna; il re Issione, punito da Giove perché si era invaghito di Era; Pasifae, la moglie del re crete-
se Minosse, invaghita di un toro, col quale aveva generato il Minotauro. Più che storie a lieto fine, erano gli amori infelici, gli atti di empietà, a ispirare tragediografi, poeti, artisti: esemplari per indicare il limite tra umano e divino da rispettare. E Conviva, che ricopriva una carica sacerdotale, si adeguava all’intento didascalico. Gli affreschi più celebrati della casa appartengono al triclinio posto al centro del portico settentrionale, e non si tratta di ampie partiture, bensì di un fregio a sfondo nero che corre nella parte inferiore delle pareti. In sequenza, sfilano scenette che, con grande abilità e grazia, rimandano ad attività quotidiane. Ad interpretare orafi, profumieri, lavandai, fabbri, sono deliziosi amorini in compagnia di psychae, il loro corrispondente femminile, e ogni singolo racconto lascia incantati. I visitatori degli scavi hanno intanto un’altra occasione per comprendere il vissuto del sito: la mostra “Arte e sensualità nelle case di Pompei”, allestita nella Palestra Grande, di fronte all’anfiteatro (a cura di Gabriel Zuchtriegel e Maria Luisa Catoni, fino al 15 gennaio 2023). L’arte e l’immaginazione si fondono nelle settanta opere esposte, provenienti dai depositi del Parco archeologico, e rimandano a comportamenti privi di inibizioni. I quadretti dipinti, le statue, gli oggetti quotidiani che raffigurano amplessi, o alludono ad incontri amorosi, non facevano parte soltanto della quotidianità di Pompei; ma furono gli scavi dell’area vesuviana a svelare una realtà lontana da come appariva il mondo classico, lasciando stupiti i primi scopritori. Nell’esposizione sono presenti anche ritrovamenti recenti, come i due medaglioni con raffigurazioni erotiche del carro cerimoniale di Civita Giuliana, e viene spiegato il contesto di riferimento per ogni opera, e il loro significato. Con l’app My Pompeii, è anche possibile rintracciare gli edifici che si riferiscono al tema della mostra. Un racconto intrigante, per una corretta comprensione storica. Q © RIPRODUZIONE RISERVATA
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Informazione e caos Lorem et ipsorum
Lumi CONTRO fake news Limiti agli influencer e lucidità contro il “lazy thinking”. Il sociologo Gérald Bronner spiega come si combatte la democrazia dei creduloni colloquio con Gérald Bronner di Anna Bonalume illustrazione di Emiliano Ponzi 94
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Foto: S. Grangier - Corbis / GettyImages
G
érald Bronner è sociologo delle credenze, professore di Sociologia all’Università di Parigi Diderot - Parigi VII, membro dell’Accademia Nazionale di Medicina, dell’Accademia di Tecnologia e dell’Istituto Universitario di Francia. Autore di tre libri tradotti in italiano “Il pensiero estremo. Come si diventa fanatici” (Il Mulino), “La democrazia dei creduloni” (Aracne), “Fake news. Smascherare le teorie del complotto e le leggende metropolitane” (Sonda), oggi co-dirige un gruppo di lavoro sul pensiero critico nel Consiglio Scientifico dell’Educazione Nazionale. In un mondo interconnesso, dove le notizie sono immediatamente disponibili, in un mercato mondiale in cui si possono vendere con poco sforzo, economico e mentale, i propri prodotti cognitivi, in uno scambio immediato di opinioni ed informazioni, come si formano le nostre credenze? Perché le fake news
si diffondono così rapidamente ? Cosa fare per preservare la democrazia dal pericolo della credulità? In un rapporto redatto per l’Eliseo, “L’illuminismo all’epoca digitale” Bronner propone una serie di soluzioni per far fronte ai rischi di un’apocalisse cognitiva.
Gérald Bronner
Oggi le fake news sono molto diffuse e il pubblico ha sviluppato una nuova sensibilità per questo genere di informazioni. Ma le fake news sono sempre circolate. Cosa cambia oggi rispetto al Medioevo ? «La nostra rappresentazione del mondo è molto evoluta, l’interpretazione letterale della Bibbia è stata superata. Il mercato dell’informazione rispetto al Medioevo si è molto trasformato, la quantità delle informazioni è superiore. Nel Medioevo l’informazione si trasmetteva oralmente, era basata sulle nostre capacità mnemoniche, modificando così il messaggio. I libri erano rari e cari. Poi c’è stata la stampa e oggi l’invenzione dell’informazione trasmessa via onde. Internet è la forma ultima della deregolazione del mercato dell’informazione. Quello che cambia è che prima solo i “gatekeeper” potevano esprimersi, i guardiani delle soglie del mercato dell’informazione, ora chiunque possieda un account può contraddire un professore di medicina sul vaccino. Inoltre la caratteristica del mercato dell’informazione di oggi è che c’è una pressione concorrenziale senza eguali nella storia dell’umanità, con la riduzione dei costi della produzione di informazione e la diffusione dell’informazione. Tutti i modelli intellettuali che pretendono di descrivere il mondo, credenze e conoscenze, pensieri magici e ideologie politiche, sono tutti in libera concorrenza, quasi senza nessun filtro. Questo crea una disponibilità d’informazione mai vista. Si sono prodotte più informazioni negli anni 2000 che nell’intero periodo che va da Gutenberg al 2000. Negli ultimi due anni abbiamo prodotto il 90 per cento dell’informazione disponibile». Lei viene definito sociologo delle credenze. Che differenza c’è tra una credenza e una conoscenza ? «È molto difficile definire le frontiere tra credenza e conoscenza. Si può dire che la credenza è un modello che pretende di descrivere il mondo, secondo la categoria del vero e del falso, del bene e del male, del bello e del brutto. Anche la conoscenza pretende la stessa cosa. Come ho scritto in “L’empire 24 luglio 2022
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Informazione e caos des croyances”, nella maggioranza dei casi siamo di fronte a credenze. I momenti di conoscenza sono momenti rari della coscienza umana. La conoscenza è quando siamo di fronte ad un enunciato che è probabilmente vero e del quale padroneggiamo tutta l’argomentazione. Le credenze non sono per forza false: si può credere alla teoria del Big Bang, per esempio. Credo in questa teoria anche se non la capisco completamente, è una credenza per delegazione. Credo perché ho fiducia nella comunità degli scienziati. Ma non posso dire che sia una conoscenza, perché non possiedo tutta l’argomentazione che mi permette di conoscere. Nella maggioranza dei casi abbiamo un rapporto di credenza nei confronti delle idee, tuttavia nel caso del Big Bang la credenza è probabilmente vera, non è identica alla credenza secondo la quale toccare ferro dovrebbe scongiurare la sfortuna. La conoscenza è un rapporto ad un enunciato di cui conosciamo perfettamente l’argomentazione e che è probabilmente vero, tutto il resto è credenza. La peggiore credenza, il grado più basso, sono quelle che sono probabilmente false e di cui non conosco l’argomentazione, come le superstizioni. Tra le due c’è una frontiera non perfettamente chiara». Nell’ultimo libro lei parla della questione cognitiva, essere dei ceduloni dipende anche dal funzionamento del nostro cervello. Che ruolo gioca il nostro cervello nella ricezione e diffusione delle credenze? «Tutto quello che sta accadendo è la conseguenza del funzionamento ancestrale del nostro cervello di fronte all’ipermodernità del nostro ambiente sociale, e in particolare digitale. I due fattori sono necessari per capire quello che ci sta accadendo. Uno dei fattori
La trasmissione “Meet the Press” della rete americana Nbc
che spiega la diffusione di false informazioni è che queste ultime vanno nel senso delle aspettative intuitive del nostro cervello, appagano quello che ho chiamato l’aspetto oscuro della nostra razionalità. Per esempio, uno studio pubblicato nella rivista Science ha mostrato che le informazioni false sono sei volte più virali su Twitter rispetto ad informazioni vere. C’è una forte asimmettria in questa concorrenza dell’informazione, e questo è un dramma ! Si sarebbe potuto immaginare che nell’insieme di tutte le rappresentazioni del mondo quelle che avrebbero avuto un vantaggio sarebbero state quelle vere. Avremmo potuto immaginare che fra qualche decina d’anni avremmo potuto dare vita a delle vere e proprie società della conoscenza, perché la conoscenza può diffondersi meglio, ma non è ciò che sta accadendo. In certe situazioni, è la fake news
«Quello che sta accadendo è conseguenza del funzionamento ancestrale del nostro cervello di fronte all’ipermodernità del nostro ambiente sociale» 96
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che vince perché può godere del “lazy thinking”, il pensiero pigro. Tutti gli studi mostrano che la variabile che determina l’affermarsi di queste informazioni è un indebolimento della nostra vigilanza razionale. Siamo tutti dotati di razionalità, ma in alcuni momenti abbassiamo la guardia. La cacofonia dell’informazione contribuisce a far abbassare il nostro livello di vigilanza. Nella maggioranza dei casi, ricerchiamo delle informazioni che vanno nel senso delle nostre credenze. Più informazioni disponibili ci sono, più ne troveremo sicuramente una che va nel senso di quello di ciò che crediamo veramente. È il paradosso della credulità informativa, più informazioni ci sono, più diventiamo creduloni, mentre potrebbe sembrare l’opposto». Stiamo vivendo in quella che lei chiama la democrazia dei creduloni? «Questa deregolazione del mercato dell’informazione è squilibrata. Internet è una strana democrazia, alcuni votano cento volte, altri non votano mai. Nell’asimmetria di visibilità, alcuni si esprimono molto di più e in generale sono persone con visioni radicali, coloro che credono fermamente in qualcosa, come gli anti-vax o i cospirazionisti. Sono sempre esistiti, non li ha
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Foto: K. Steele - GettyImages, NBCU Photo Bank via Getty Images, per gentile concessione di: Kossmanndejong (2)
In questa pagina: alcune immagini dalla mostra “Fake. The Whole Truth” a The Stapferhaus a Lenzburg, in Svizzera. Il museo è un labirinto con molte stanze, ognuna dedicata a un aspetto del vero e del falso
inventati internet, ma prima i loro argomenti erano confinati ad alcuni spazi di radicalità sociale, non occupavano lo spazio pubblico. Molti studi mostrano per esempio che gli anti-vax non sono numerosi, ma sembrano tantissimi perché si esprimono molto di più sui social, e lentamente riescono a convincere i nostri concittadini dei loro argomenti. Quando lo spiegavo nel 2013 in Francia, non avevo molti dati, ma oggi le scienze sociali-computazionali mi hanno dato ragione. Ci sono moltissimi dati che mostrano questo fenomeno. C’è un articolo molto recente sui super-users : l’1 per cento degli utilizzatori produce il 33 per cento dell’informazione disponibile». Perché questo funziona ? «Noi esseri umani siamo delle scimmie sociali. La maggior parte dei nostri punti di vista si stabilizzano sui punti di vista degli altri. Quello che pensiamo di noi stessi, lo dobbiamo molto al punto di vista degli altri, ci influenza molto. La stessa cosa avviene per il modo in cui ci rappresentiamo il mondo. Il punto di vista degli altri ci informa moltissimo, la maggior parte di quello che crediamo sapere sono delle credenze costituite a partire dagli altri. Eppure, non è internet che ha inventato questo!
È sempre andata così, ma oggi il campione di punti di vista altrui accessibili si è profondamente trasformato attraverso i social network. Prima conoscevamo il punto di vista dei nostri amici, dei colleghi, di esperti certificati alla televisione, alla radio, persone legittimate a prendere la parola. Su temi di cui non sapevamo molto, come i vaccini, ci si affidava alla parola dei medici, dei quali si aveva fiducia, non si mettevano in dubbio i benefici dei vaccini. Poi, di colpo, altre persone hanno preso la parola e il nostro campione di “reale” è influenzato dalla popolarità e dalla visibilità di alcuni punti di vista, ovvero dalla motivazione di alcuni attori nell’imporre il proprio punto di vista. Così la democrazia della conoscenza può diventare la democrazia dei creduloni». Nel rapporto “L’illuminismo ai tempi del digitale”, lei propone, tra le altre cose, di sensibilizzare gli influencer, rendendoli più responsabili rispetto ai contenuti prodotti. Questi però appartengono al mondo del mercato, rispondono alle leggi del commercio e non hanno un compito propriamente pedagogico. Sarebbe come chiedere ad un’azienda che produce armi di vendere i
propri prodotti solo a persone od entità che le useranno a scopi difensivi. Siamo sicuri che questa sia soluzione efficace ? Gli influencer non devono semplicemente vendere sé stessi o la propria immagine? «Il mercato delle armi non è un mercato libero, è regolato, ci sono norme. Nel caso degli influencer non si tratta di impedire loro di esprimersi, ma di avere delle norme di responsabilità, come quando obbligate le aziende di sigarette ad aggiungere l’avviso “fumare uccide” sui pacchetti di sigarette, è una forma di responsabilizzazione. Ci sono delle norme di regolazione del mercato che cercano di influenzare gli effetti senza toccare le libertà individuali. Quando si vuole regolare un mercato, il rischio è però quello di infrangere la libertà di espressione. La mia idea è di pensare delle regolazioni non liberticide. Quando, per esempio, YouTube propone un campione di video non rappresentativo sul riscaldamento climatico, per il gioco degli algoritmi, sta ingannando chi naviga. È necessaria l’esistenza di una diversità autentica, fare in modo che le persone o le idee siano visibili in proporzione a quello che rappresentano realmente». Q © RIPRODUZIONE RISERVATA
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Musica e parole
NELL’ANIMA NERA
di Scampia di Francesca De Sanctis
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er capire dove siamo bisogna buttarsi in un mondo fatto di storie e colori..., che per lui significa immergersi in un universo di vicoli, periferie, personaggi di una Napoli-ventre di sentimenti, relazioni, amori. Daniele Sanzone, autore e voce della band partenopea 'A67, non ha mai avuto paura di gettarsi a capofitto in un vortice di storie e persone da sempre ai margini, forse perché in quell’universo di ultimi ci è nato e cresciuto e «là dove non c’è nulla ti devi reinventare il mondo, immaginando ciò che vorresti». La sua musica, dunque, parte da lì, da Scampia, tra piazze di spaccio e luoghi di incontro fra boss e camorristi. E a quelle strade resta ancorato per scovare un’anima da ascoltare attraverso il linguaggio della musica e delle parole. Non a caso è un racconto polifonico dalle infinite sfumature il nuovo album degli 'A67, “Jastemma” (Squilibri editore), composto da 10 brani musicali che mescolano rock, reggae e blues, e 15 racconti scritti da altrettanti scrittori, poeti, narratori. Sono Viola Ardone, Alessio Arena, Luigi Romolo Carrino, Giuseppe Catozzella, Marco Ciriello, Amleto De Silva, Luca Delgado, Gennaro Della Volpe (Raiz), Raffaella R. Ferré, Nicola Lagioia, Loredana Lipperini, Carmen Pellegrino, Angelo Petrella, Alberto Rollo e Gianni Solla. Una bella pattuglia di autori, insomma. “Jastemma”, neovincitore del Premio Tenco (sezione “Album in dialetto”), è
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Piazze di spaccio, persone ai margini, l’illusione dell’amore. Il racconto polifonico di “Jastemma”, il nuovo cd-book degli ’A67. Con i testi di quindici scrittori un progetto multivocale e multiforme verrebbe da dire, illustrato da Mimmo Palladino che campeggia sin dalla copertina con quel suo volto aureo, «un artista con il quale avevamo già lavorato», dice Sanzone: «Un amico come i tanti artisti che hanno scelto di collaborare all’album», nato in un periodo molto particolare come la pandemia. «Dopo l’uscita del nostro ultimo disco, “Naples calling” (Full Heads), eravamo tutti un po’ demoralizzati perché con la pandemia non siamo riusciti a fare concerti. Ma proprio in quel periodo si è aggiunto alla band Mirko De Gaudio alla batteria, che ha portato nuova linfa al gruppo, che era formato da me, Enzo Cangiano alla chitarra e Gianluca Ciccarelli al basso. Fra di noi si è creata una particolare alchimia e nel silenzio del lockdown ci siamo
messi a suonare. E così sono nate delle canzoni d’amore, canti di vita contro la morte. A quei brani si sono ispirati gli scrittori che hanno creato racconti inediti, stimolati da una parola, da un ritmo musicale, da un ricordo. Dalla narrazione musicale, quindi, è nato un nuovo racconto che ci porta ad immergerci in un mare fatto di tanti colori e sfumature diverse. E chissà dove possono portarci ancora le sue maree». Ci sono tante storie risolte o irrisolte in “Jastemma”. Si parte dal mondo degli ultimi, per i quali l’amore, per esempio, sembra essere più un’illusione che non riesce ad alleggerire né a curare i dolori e le ferite di una vita ai margini, per poi insinuarsi tra le pieghe degli affetti consumati dall’abitudine e dalla routine e infine lasciarsi andare alle passioni senza tregua. Do-
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Foto: C. Jungeblodt - Laif / Contrasto
Qui sopra: la copertina dell’album “Jastemma” degli ’A67. Sotto: la band napoletana. A sinistra: un palazzo di Scampia
po tante disavventure a prevalere è un inno alla vita. Non si tratta, quindi, di schierarsi solo con chi sta ai margini, come spiega bene Stefano De Matteis nella prefazione al cd-book: «Perché questa volta c’è anche un altro distacco, che muove verso coloro che non hanno la necessità di fare, che non sentono il bisogno di opporsi, di mettersi in contrasto con tutto quanto c’è di storto nel mondo e con tutti coloro che ne sono complici... a cominciare dalla vita. E questo perché i veri morti non sono quelli a cui hanno sparato, ma quelli che sono spenti dentro da una vita che li ha uccisi prima e poi li ha dimenticati». Come cantano gli 'A67 «pecché ccà e veri muorti nun so’ / chilli sparati ma chilli stutati a dinto / da na’ vita ca primma l’accise e po’ sele scurdate».
E non poteva che essere il napoletano la lingua-megafono di tante storie che nascono e si mescolano per gridare l’amore in ogni sua forma. «Ho cercato di coinvolgere narratori verso i quali nutro un sentimento di amicizia o di stima, scegliendo i brani ai quali ispirarsi seguendo un po’ il mio istinto. Quando ho mandato “Sape ‘e niente” a Viola Ardone, per esempio, lei ha risposto dicendomi «mi hai distrutto» e poi ha scritto un racconto bellissimo. Nel brano “Jastemma” mi sono immedesimato in una donna e ad Alessio Arena ha ispirato una storia di omosessualità sulla difficoltà di crescere e che poi si è ampliato nel racconto di Marco Ciriello. Ho cercato di interpretare il sentire degli altri per questo album dell’anima blues. Per esempio, a proposito dell’ultimo brano, quello strumentale, “SS
162”, ho pensato ad Angelo Petrella perché suona la tromba e ho immaginato che in qualche modo il brano potesse parlargli». Il punto di partenza della musica degli 'A67 non è mai cambiato. La periferia di Scampia è il luogo in cui la band continua a creare, a gridare attraverso la musica qual è il mondo che vorrebbero. «Ho provato a vivere a Roma, ma poi sono tornato a Scampia. La periferia è qualcosa che mi appartiene» racconta Sanzone. Può essere la periferia un punto di forza? «Là dove non c’è nulla, puoi reinventare il mondo, immaginando tutto ciò che vorresti. Quello che non avevo l’ho trovato con la musica. Io sono nato in una piazza di spaccio, da lì è partito il mio urlo. Ha cercato di placare il conflitto fra i valori dei miei genitori (pittore mio padre, casalinga mia madre) e ciò che trovavo in strada. Quando si formò la band era morta da poco Annalisa Durante, la giovane di Forcella uccisa per sbaglio durante uno scotro fra clan. In quel periodo ero iscritto alla facoltà di Filosofia di Napoli e nella pausa tra una lezione e l’altra mi fermavo a prendere il sole in un convento del 1300. Un giorno passò un ragazzo, mi fissava. Io cominciai a innervosirmi. L’episodio si è ripetuto. A Napoli per uno sguardo si può morire... Ad un certo punto una mia amica mi disse che quel ragazzo era strabico. Quel giorno ho capito che avevo portato il codice del mio quartiere in un altro contesto. Io ero intriso di quei valori, ma ero un portatore sano e quell’episodio mi ha fatto riflettere. Poi quando uscì il primo disco, “A camorra song’io” (Polosud 2005), ci intervistarono tutti e un boss disse: “Ma se loro sono la camorra, noi chi simm?”. Insomma, avevamo provocato una crisi d’identità della camorra!». Negli anni la band ha collaborato con grandi artisti, da Edoardo Bennato a Pino Daniele, e ora c’è “Jastemma”, che sarà presto in tournée. Per ora segnate queste date: 10 ottobre all’Auditorium Parco della musica di Roma e 20 novembre al Teatro Trianon di Napoli. Q ©RIPRODUZIONE RISERVATA
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Protagonisti
IL CINEMA?
La delusione politica, la guerra in Ucraina, la passione per la boxe. Il regista de “L’odio”: “Non servono più i film di denuncia, purtroppo”
Meglio lo sport colloquio con
Mathieu Kassovitz di Emanuele Coen
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usqu’ici tout va bien…, «fino a qui tutto bene». Gli è rimasta incollata addosso la celebre battuta de “L’odio”, il film-manifesto che a metà anni Novanta lanciò la sua carriera di regista e quella di attore di Vincent Cassel, fissando nell’immaginario di una generazione la rabbia della banlieue. Così come risulta difficile dimenticare il suo sguardo romantico in scooter con Audrey Tautou per le vie di Montmartre, nell’altro cult movie “Il favoloso mondo di Amélie” (2001) di Jean-Pierre Jeunet. Da allora Mathieu Kassovitz, 55 anni ad agosto, ne ha fatta parecchia di strada, come regista e soprattutto come attore. In tempi recenti ha interpretato in modo magistrale la spia Guillaume Debailly, nome in codice Malotru, l’antieroe di “Sotto copertura” di Éric Rochant, serie tv sui servizi segreti francesi. E adesso lavora come regista a un film di animazione sulla guerra mondiale degli animali, in parallelo alla Seconda guerra mondiale. «Non lo sa nessuno ma noi abbiamo le prove: c’è stato il conflitto tra gli esseri umani e anche tra gli animali. Facciamo un film su questa storia», ironizza Kassovitz su Zoom mentre si accende una sigaretta, a petto nudo e in bermuda nella torri-
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da estate romana. Perché l’attore francese, sarcastico e irrequieto, ormai deluso dalla politica e dal cinema, ha poche incrollabili certezze: la passione per la boxe, lo sport e l’amicizia con i ragazzi del Piccolo America, che lo porta spesso a Roma. Non a caso, alla manifestazione “Il cinema in piazza” ha voluto partecipare all’incontro con Bebe Vio e Martin Castrogiovanni per presentare “Rising Phoenix”, documentario sulla storia delle Paralimpiadi. A proposito di sport, lei pratica la boxe a un buon livello. E qualche anno fa ha recitato in “Sparring”, film ambientato nel mondo del pugilato. Cosa la affascina? «Un buon atleta si spinge al limite e assume dei rischi. Se riesce a ottenere un buon risultato forse anche tu puoi, se invece non si è allenato risulta ridicolo. È affascinante questo aspetto oggettivo, molto motivante. L’arte invece è soggettiva: se fai un brutto film c’è sempre qualcuno che lo troverà straordinario. Nello sport o vinci o perdi, è più interessante di tante forme d’arte. Anzi, lo sport è una forma d’arte». Per la quarta edizione di fila è stato ospite della manifestazione estiva organizzata dal Piccolo America. Cosa la lega a questi ragazzi? «La prima volta mi hanno invitato per
presentare il mio film “L’odio”. Di solito non vado ai festival, ma mi ha colpito il loro spirito positivo. Non si assegnano premi, è solo un luogo per vedere film, ogni volta che me lo chiedono vengo volentieri. Anche a Cannes c’è uno spirito positivo, ma ci si va perché si vincono premi, è un festival orientato al business. Hanno 75 anni di storia e un budget colossale, qui a Roma invece è tutto più informale, le persone partecipano perché adorano il cinema, ci sono ospiti di qualità e si affrontano discussioni profonde. Dietro le quinte fanno un lavoro enorme ma con semplicità. Tutto questo è molto felliniano». Cosa pensa del cinema italiano? «Non lo seguo molto, negli ultimi anni mi sono allontanato dal cinema, sono fermo a Vittorio De Sica (ride). Negli ultimi tempi, però, ho visto film più interessanti, sia francesi sia italiani: giovani autori, attori, sceneggiatori e produttori che hanno voglia di cambiare le cose, con strumenti nuovi e un’energia che la mia generazione non ha più». Uno dei personaggi più riusciti che lei ha interpretato negli ultimi anni è Malotru, l’agente segreto controverso e ambiguo di “Sotto copertura”. Le serie tv stanno sostituendo il cinema?
Idee
Foto: A. Marechal - Abaca Press / Ipa
L’attore e regista francese Mathieu Kassovitz, 54 anni
«Si tratta di due esperienze molto diverse. Nel caso delle serie tv bisogna essere sicuri di scegliere bene un progetto, perché ogni anno si ricomincia, se sbagli diventa una tortura. Nel caso di “Sotto copertura” sono stato fortunato: non ho trovato particolarmente interessante il mio personaggio, in realtà, quanto la trama. Purtroppo la serie si è conclusa».
Se ora dovesse girare un film sulla banlieue cosa racconterebbe? «Dovrebbe chiederlo a un ragazzo di 25 anni che abita in periferia, non a me. Io ho più di cinquant’anni. Non è più il mio mondo da tanto tempo, anche se ho ancora amici in banlieue. Sarebbe come chiedere a me cosa penso del razzismo, lo domandi a chi lo subisce tutti i giorni». Il suo film “L’odio” è stato la bandiera di diverse generazioni. C’è un tema sociale che oggi le interesserebbe indagare?
«Oggi non vale più la pena di fare un film per denunciare qualcosa, lo fa benissimo YouTube. Il cinema si concentra sulla dimensione intima, umana e spettacolare. Non serve più il cinema politico, purtroppo». Le recenti elezioni legislative, in Francia, hanno sancito la vittoria dei due poli opposti, Marine Le Pen e Jean-Luc Mélenchon. La preoccupa l’exploit dell’estrema destra? «Vuole che le dica la verità? Non me ne frega niente. Non cambierà nulla, è solo rumore di fondo. Non mi interessa la politica francese, ma il mondo: come si muovono le grandi potenze, la guerra in Ucraina, gli Stati Uniti. Amo la Francia, ma i personaggi della scena politica non hanno nulla di rivoluzionario, non mi interessano, Macron non è peggio degli altri. Negli anni abbiamo visto governi di destra, di sinistra, di coalizione: non cambia nulla, un po’ come in Italia mi sembra». La foto del suo profilo Instagram è una bandiera ucraina. All’inizio della guerra, a marzo, è andato a Leopoli insieme allo street artist JR, per inaugurare un murale gigantesco e sostenere il popolo ucraino. Cosa pensa del conflitto? «Metterei sul mio profilo la bandiera di qualunque Paese aggredito in questo modo. Sono andato in Ucraina, ho dato una mano alla gente che portava aiuto ai rifugiati alla frontiera con la Polonia. Tornato in Francia ne ho parlato sui media ed è nato un movimento di solidarietà: in tanti sono partiti dalla Francia per portare cibo, hanno messo in piedi un luogo di accoglienza per quaranta donne e bambini, un lavoro magnifico». Spente le telecamere in Ucraina si continuerà a morire nell’indifferenza? «Da almeno quarant’anni le guerre vengono ignorate, dappertutto nel mondo. Adesso ci preoccupiamo dell’Ucraina perché si trova a un’ora di volo dalle nostre città, ma come è avvenuto in Siria, in Africa, in Asia un giorno chiuderemo gli occhi e ci volteQ remo dall’altra parte» © RIPRODUZIONE RISERVATA
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Bookmarks/i libri
METAMORFOSI DI UN UOMO TRANQUILLO Un libraio dell’Est non regge alla riunificazione della Germania. E diventa sovranista
SABINA MINARDI Nel novembre del 1992, appena tre anni dopo la caduta del muro di Berlino, il comico di Dresda Uwe Steimle si è presentato al Deutsches Patentamt, l’Ufficio brevetti, chiedendo la registrazione della parola “Ostalgie”, nostalgia dell’Est. Nel 2019 una delibera del Consiglio comunale della città sassone ha proclamato, dopo il pieno elettorale della destra populista, lo stato d’emergenza nazismo. Due fatti di cronaca che vengono in mente oggi, e che punteggiano la scalata di un soviet revival non certo estraneo a Ingo Schulze, che a Dresda è nato. “La rettitudine degli assassini” (Feltrinelli, traduzione di Stefano Zangrando) in quella crepa tra Est e Ovest – politica, sociale, dell’anima - scava e indaga con profondità, attraverso la figura di un libraio antiquario, fiero proprietario di un sofisticato negozio noto in tutta la Germania. Che da intellettuale libero, conoscitore delle pagine più preziose di sempre, con uno spirito critico che lo preserva dal “lasciarsi impressionare dalle aspettative del suo tempo”, scivola in una condizione di rabbioso sovranista reazionario. Come è potuto accadere? Schulze ricostruisce il mistero
Norbert Paulini, letteralmente nato in mezzo ai libri, uomo fedele alle sue letture, e dunque teoricamente fedele a se stesso. Che, al contrario, non regge l’urto del nuovo mondo che avanza con l’autunno del 1989: il capitalismo dell’Ovest svaluta la sua pregiata libreria; le certezze di una comunità di lettori, che si riunisce ogni sabato per rivendicare indipendenza dalle ombre minacciose della Stasi, vanno in frantumi. Come il matrimonio, le amicizie, i risparmi. La fiducia nei libri. In un suggestivo intreccio di sguardi, tre voci raccontano, inclusa quella di un editor che scrive la storia. E in questo gioco di prestigio, si staglia la pericolosa solitudine dell’uomo retto, quando è di colpo disilluso e disancorato. “Grazie a un muro, uno appartiene a qualcosa, sta di qua o di là… e tu sai dove sei”, diceva il vecchio berlinese vagando per la sua città. Era “Il tempo invecchia in fretta” di Antonio Tabucchi. Q ©RIPRODUZIONE RISERVATA
“LA RETTITUDINE DEGLI ASSASSINI” di Ingo Schulze Feltrinelli, pp. 271, euro 18
Amare. E non sapere come farlo. Essere fieri, innamorati della propria figlia, tanto da volerlo gridare al mondo. Ma non sapere come dimostrarlo. Lo sguardo di una donna che si poggia furtivo su due nipotine mai conosciute dà il via a uno struggente racconto familiare sul complicato, contraddittorio rapporto tra madre e figlia. Dall’attesa della nascita agli anni della crescita, tra silenzi, parole sbagliate o date per scontate, un viaggio intorno ai chiaroscuri della maternità.
Due laghi, il lago di Ocrida e quello di Prespa, su tre confini complicati: Grecia, Albania, Macedonia del Nord. Da questa prospettiva, su terre oggetto di contese e ostilità da sempre, la vicenda familiare della scrittrice bulgara (già autrice del bellissimo saggio narrativo “Confine. Viaggio al termine dell’Europa”, Edt), ricostruita attraverso le tante migrazioni, i gesti di coraggio, gli enormi tradimenti subiti. Un racconto di gente che si muove, attraversa continenti, ogni volta riparte da zero.
Un letterato musulmano di Spagna scampa a un naufragio, sulla via del ritorno dal pellegrinaggio alla Mecca. E approda in Sicilia, dove soggiorna per alcuni mesi. È il 1185. E la scoperta di quell’isola governata dai Normanni, così imprevedibile e sorprendente, lo conquista. Tra mercanti infedeli, donne vestite a festa ed eunuchi in un incontro di civiltà, tra aspettative e scoperte, che vale la pena rileggere. Il testo è la parte finale del diario di viaggio noto come la “Rihla”.
“COME AMARE UNA FIGLIA” Hila Blum (trad. di Alessandra Shomroni) Einaudi, pp. 208, euro 17
“IL LAGO” Kapka Kassabova (trad. di Anna Lovisolo) Crocetti, pp. 376, euro 19
“VIAGGIO IN SICILIA” Ibn Jubayr (a cura di G. Calasso) Adelphi, pp. 138, euro 13 24 luglio 2022
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Donne alla guida del gregge nei pascoli di Jinwar
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La città delle donne L’eco-villaggio di Jinwar nel Kurdistan assediato Spose bambine e donne in fuga dalla violenza sperimentano un modello di comunità a una manciata di chilometri dall’artiglieria turca di Alessia Manzi e Giacomo Sini foto di Giacomo Sini
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Il centro della salute aperto ai villaggi vicini. Qui si producono piante medicinali. Al centro, uno dei momenti d’incontro a l villaggio di Jinwar
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he età avrà la mia mamma? Visto com’è bella?», chiede Ciya, un vispo ragazzino mentre intreccia colorati braccialetti accovacciato su un letto, canticchiando una canzone. «Ho 28 anni e ho vissuto molte difficoltà», dice Zeynep da Gewer, nel nord del Kurdistan, che seduta a gambe incrociate versa del çay da una teiera argentata e fumante. «A quindici anni ho dovuto sposare un uomo vent’anni più grande di me che non mi lasciava uscire da casa», racconta la giovane poggiando su un tappeto rosso e blu una ciotola di caramelle. «Solo quando è nato Ciya ho scoperto come nascessero i bambini. Non avevo vestiti né per me, né per mio figlio, che picchiavo di continuo: lo avevo imparato dalle botte prese da mio marito. In fondo, anch’io ero una bambina». Sul volto di Zeynap scende per un attimo un velo di tristezza. «Fuggita a Maxumur, nel sud del Kurdistan, volevo uccidermi per il male ricevuto. Stavo lasciando Ciya in adozione, ma ho cambiato idea grazie al sostegno ricevuto da amici conosciuti lì», ricor-
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da Zeynep guardando con amore il figlio. «Come lasciare una parte del mio cuore?». Poi Zeynep viene a sapere che nel Nord Est della Siria è nato Jinwar, un eco-villaggio dove donne e bambini conducono liberi una vita comunitaria. «Arrivati a Jinwar, Ciya piangeva sempre ed io non stavo bene. Siamo andati via per tornare poco dopo. Abbiamo capito subito che il nostro posto fosse nel villaggio», dice Zeynep. «Qui ho ritrovato me stessa, e non mi guardo più attraverso gli occhi di un uomo capace soltanto di denigrarmi. So che posso farcela da sola e ho molti interessi, come giardinaggio e cucito», spiega. «Non lascerei mai Jinwar. Tutte le donne meritano una seconda opportunità per essere felici». Da una casa vicino all’abitazione di Zeynep, una donna parla ad alta voce. «Piano con quel pedale! Ecco, brava!», esclama una signora coi capelli avvolti in un foulard bordeaux rivolta ad una ragazza attenta a fare un orlo ad una tenda, fra macchine da cucire e scampoli di stoffe variopinte lasciate ovunque in questo stanzone adibi-
to a sartoria. «L’8 marzo del 2017 su questa terra abbiamo poggiato la prima pietra del villaggio. Un anno dopo, il 25 novembre, nella giornata contro la violenza sulle donne, Jinwar spalanca le sue porte», spiega Amara, una giovane abitante del villaggio situato nel cantone di Al- Hasakah, nel nord est della Siria. «Le case sono in terracotta secondo la tradizione, per essere fresche in estate e calde in l’inverno. Queste trenta casette sono state realizzate anche con l’aiuto degli abitanti dei villaggi intorno, a cui da tempo spiegavamo quale fosse il nostro progetto». La parola “Jinwar”, in Kurmanji, significa “terra delle donne” e prende spunto dalla Jineolojî: la scienza delle donne teorizzata dal leader curdo Abdullah Ocalan, che auspica una società libera dal patriarcato. «Dieci anni fa le donne hanno giocato un ruolo fondamentale nella rivoluzione. Da quel momento in poi, in questa zona del Medio Oriente molte di loro non obbediscono agli ordini del padre o dello zio, chiedono il divorzio, studiano. Alle Mala Jinê - case delle donne - si ten-
Storie
Foto: Jinwar
Delal, giovane abitante del villaggio, sistema su di un ripiano il pane appena sfornato all’interno del forno autogestito
gono riunioni per risolvere problemi di genere», prosegue Amara. «A Jinwar siamo quasi autosufficienti. Coltiviamo ulivi, albicocchi ed abbiamo creato una cooperativa agricola che offre lavoro anche alle persone esterne al villaggio. Domani faremo anche il pane», continua, passeggiando sul viale che dall’agglomerato di case si snoda tra la scuola, la fattoria e l’ambulatorio di medicina naturale. Su questa strada polverosa, tre ragazzini scorrazzano su una bicicletta dorata. «Da Afrin sono andata a Shahba per unirmi al movimento di liberazione», ricorda JÎyan, seduta al fresco nel suo giardino. «Poi ho raggiunto la Mala Jinê di Qamishlo, ho seguito qualche lezione dell’Accademia e ho deciso di andare a Jinwar. Attendevo da mio fratello i documenti per la Germania. Non ero abituata alla vita del villaggio». Alla fine, JÎyan decide di restare a Jinwar e in poco tempo cura profumati giardini e diventa responsabile del negozio del borgo, finché non viene arrestata al confine iracheno. «Stavo andando ad un in-
contro di Jineology in Europa. Sono stata rilasciata da poco», commenta. «Non andrei più in Germania. Non saprei lasciarmi alle spalle Jinwar». Una voce proviene da un edificio in cui il laboratorio teatrale porta in scena uno spettacolo contro la violenza sulle donne. «La libertà appartiene alle donne, ma in alcune famiglie non esiste! Se unite, le donne sono più forti degli uomini», recita una ragazzina dai capelli raccolti in una treccia, che parla davanti ad una parete coperta dai volti delle combattenti cadute negli scontri contro l’Isis e la Turchia. «Nella mia famiglia, ad Aleppo, non c’erano differenze tra me e i miei fratelli. Poi, tutto è cambiato dovendo sposare mio cugino a diciotto anni», ricorda Rojida, 32 anni, poggiando il vassoio con la caffettiera turca tra i divani da pavimento di casa sua. «Qui sposarsi è obbligatorio, ma a casa della famiglia di mio marito ho perso la libertà. Svolgevo faccende domestiche e non potevo parlare» aggiunge Rojida bevendo una tazzina di caffè. «Sarei voluta scappare
ma poi è nata mia figlia. Sono rimasta ancora lì provando a divorziare. Lui non voleva e così siamo fuggite: abbiamo trovato riparo in una casa protetta e poi siamo arrivate a Jinwar», racconta. «Con mia figlia prendiamo lezioni di inglese. Stiamo bene qui».
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ora di cena. Due ragazze stendono una tovaglia al centro di una piccola saletta e portano dei piatti colmi di dolma, tipici involtini di foglie di vite. «A Jinwar abitiamo con donne curde, arabe ed ezide. La lotta delle donne curde, che capiscono l’oppressione delle loro sorelle, riguarda la libertà di ogni donna in tutto il mondo. Per questo speriamo che l’esempio di Jinwar possa essere seguito ovunque, perché le donne siano supportate ad uscire dalla violenza», aggiunge Amara. A Jinwar il frastuono dei tiri d’arma pesante e d’artiglieria rompe il silenzio nelle vallate adiacenti al villaggio. A qualche chilometro di distanza, dai territori siriani occupati da Er24 luglio 2022
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Libere dal patriarcato
Una rappresentazione teatrale al villaggio di Jinwar
Sdf, Forze democratiche siriane. «Ad ogni modo, la collettività ha ben presto accettato questo processo e oggi siamo una delle componenti maggiormente presenti nella battaglia contro l’occupazione», continua la comandante. «Nel Nord Est della Siria le donne sono attive in ogni ambito sociale, non solo militare, e si battono per un’uguaglianza di genere che favorisce l’intero processo rivoluzionario», evidenzia Zilan. L’area di Tel Tamr è abitata da cristiani siriaci ed assiriani, curdi ed arabi che nel 2015 sono stati massacrati dall’avanzata dell’Isis. La linea del fronte dista solo una manciata di chilometri dalla collina che sovrasta la città. «Un tempo c’erano oltre trenta chiese fra i centri abitati dell’area. Ora sono distrutte o inaccessibili a causa degli attacchi quotidiani. È rimasta solo quella, la più antica, in cui si riuniscono gli assiriani della zona per le celebrazioni», racconta Nabil Warda, portavoce delle Assyrians khabour guards, milizie assiriane. «Abbiamo dato rifugio a cinquanta famiglie in fuga dai villaggi attaccati dai turchi. Vogliono spazzare via la presenza siriaco-assiriana dall’area, siamo pronti a proteggere tutta la comunità sino all’ultima goccia di sangue», conclude Warda.
S Yade, una delle abitanti di Jinwar cura il giardino di fronte alla sua abitazione
dogan nel 2019, milizie legate ai turchi ed esercito di Ankara, quotidianamente colpiscono la città di Tel Tamr e i villaggi a ridosso del fiume Khabour, lungo l’autostrada internazionale M4. «Il contesto patriarcale
della società ha reso inizialmente difficile la presenza delle donne accanto ai combattenti uomini», spiega Zilan Tal Tamr, comandante Ypj - Unità di protezione delle donne - del Consiglio militare di Tel Tamr, inquadrato nelle
u Jinwar la brezza della sera accarezza le spighe di grano finché si mescolano ai campi arati che si perdono verso il confine turco e le sagome di alte montagne. «Sono rivoluzionaria. Studiando sociologia ed essendo nata qui, conosco bene i problemi del Medio Oriente», dice Rojda accarezzando Lucy, un cucciolo di cane. «In questo luogo combattiamo quella stessa battaglia che il popolo curdo conduce da oltre cinquant’anni per la sua libertà. Se a Jinwar può nascere una “città delle donne”, vuol dire che questo modello si può diffondere altrove sconfiggendo il patriarcato e rendendo il mondo un luogo di pace e sorellanza». Q ©RIPRODUZIONE RISERVATA
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Storie FAT ACCEPTANCE
“Sono grassa e fiera” La battaglia di Dalila contro il body shaming Via i termini medici per rendere accettabile quello che resta un giudizio intollerabile. Da vittima di cyberbullismo a consulente sui social di Margherita
Angela, affetta da obesità grave, indossa il modellatore ortopedico che sostiene il peso
Foto: M. Sarlo - Contrasto
S
ei grassa è il peggior insulto che una donna possa ricevere. O almeno, così ci insegnano. Questa è la storia di come si sradica una convinzione, ed è una storia corale, composta da molte voci. «Io ho smesso di definirmi curvy o morbida ma parlo di me come di una fiera ragazza grassa, perché è quello che sono», spiega Dalila Bagnuli, 23 anni, attivista femminista che si occupa di body positivity e sui social combatte la grassofobia. L’idea è liberare una semplice caratteristica fisica dall’accezione negativa. Lei stessa, per raggiungere questa consapevolezza, ha dovuto lavorare in profondità. Ma ora non vacilla nemmeno mentre racconta come si annienta un bullo e come, con la diffusione dei social, sono cambiate le modalità del body shaming. Su Internet subiamo un vero e proprio bombardamento e ciclicamente ci troviamo di fronte a mode sempre nuove, sfide pericolose, trovate sadiche, come quella che alle porte dell’estate aveva iniziato a imperversare su TikTok, la Boiler Summer Cup. Come molte altre challenge social “gemelle”, è un mix di cyberbullismo, body shaming, grassofobia e «convinzione di rimanere impuniti». I meccanismi sono spesso i medesimi. Nel caso della Boiler Summer Cup venivano prese di mira le ragazze in sovrappeso, filmandole
Abis
a loro insaputa e postando i video dell’avvenuta “conquista” sui social per collezionare punti in base al peso ipotizzato della vittima. A lanciare l’allarme di ciò che si può subire sui social, in questo e in molti altri casi, sono spesso le attiviste. Dalila Bagnuli si batte con la lucidità e la fierezza di chi ormai ha la scorza dura ma il passato, come a volte accade in questi casi, è sempre lì in agguato. Cruciale nella sua esperienza da attivista è stato proprio il bullismo subito dalla prima alla terza superiore da parte dei compagni di classe. «Era il 2015, ero una ragazzina. Avevo paura di andare in spiaggia e mostrarmi in costume perché temevo di incontrare qualche compagno che mi riprendesse. Mi venivano fatti video e foto di nascosto e venivano trasformati in meme, con lo scopo di deridermi sull’aspetto fisico. I contenuti venivano diffusi sui canali Telegram a cui non ero iscritta. I video poi giravano e si diffondevano non solo nella mia classe ma in tutta la scuola. Venivo presa di mira perché ribadivo la mia opinione, non mi abbassavo di fronte ai soprusi e perché ero una ragazza grassa. Sono arrivati a organizzare anche risse contro di me». Anche a sette anni di distanza, le dinamiche verso i giovani si ripropongono. Foto scattate di nascosto, immagini (spesso di minori) diffu24 luglio 2022
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Violenze online se senza consenso, cyberbullismo, post che diventano virali sui social, body shaming. Dinamiche che portano anche a una visione distorta di sé e a non sentirsi mai a posto con il proprio corpo. «Questo tipo di bullismo mi ha reso tanto insicura e mi sono sempre vista grassa anche quando non lo ero. Ogni volta che mi riferisco a quel periodo, dico che ero una ragazza grassa ma così non era. Quando poi sono ingrassata davvero, mi sono resa conto della dimensione reale del mio corpo e del fatto che forse sono diventata così anche per quello che ho subito. Il dolore che ho provato in adolescenza mi ha causato continui attacchi di panico», prosegue Bagnuli.
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n pezzetto alla volta, è riuscita a trasformare la rabbia in carburante. Con un obiettivo: provare a cambiare le cose. Oggi lo fa attraverso la body positivity, movimento che promuove l’accettazione di tutti i corpi a prescindere da peso, altezza, genere, colore della pelle o “imperfezioni” in contrasto agli standard di bellezza attuali, considerati un costrutto sociale da abbandonare. La body positivity promuove la “fat acceptance” e combatte la grassofobia, atteggiamento discriminatorio rivolto alle persone in sovrappeso. «Voglio aiutare, essere un punto di riferimento per ragazze e ragazzi che hanno sofferto come me, persone che si sentono sole», dichiara Bagnuli. A lei si rivolgono parecchie persone, spesso giovanissime, che cercano un supporto, un consiglio, una possibilità di sfogo. Sono infatti spesso i più giovani a essere i protagonisti di queste vicende. Ma non solo. A subire body shaming sono anche donne adulte. Può succedere dopo aver affrontato un cambiamento del fisico, come in gravidanza. Non di rado capita addirittura alle celebrità, da Vanessa Incontrada a Victoria Beckham, che di recente ha parlato del body shaming subito negli anni ’90, quando fu spinta a salire su una bilancia durante una trasmissione televisiva, in modo da essere sottopo-
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Una t-shirt contro la grassofobia
Dalila Bagnuli
sta alla verifica pubblica del suo peso dopo il parto. E anche i colpevoli, non sono solo i ragazzini. Nel 20 per cento dei casi, secondo una ricerca del 2021 condotta da Skuola.net, sono gli adulti a prendere di mira i ragazzi, discriminandoli o ridicolizzandoli per
determinate caratteristiche fisiche. Tutto questo può portare a conseguenze anche gravissime per le vittime, come ansia, attacchi di panico, disturbi alimentari, depressione. Non è solo la grassofobia il fulcro del body shaming, qualunque caratteristica fisica può diventare pretestuosa ed essere presa di mira: l’altezza, la bassezza, la peluria, l’acne, la psoriasi o la magrezza. L’altra faccia della grassofobia è infatti lo skinny shaming, la discriminazione nei confronti di persone considerate troppo magre. A volte viene reputato meno grave lasciarsi andare a commenti discriminatori verso chi ha un fisico asciutto. Immediata l’associazione a ipotetici problemi di salute o a disturbi alimentari. Allo stesso modo, il leitmotiv ricorrente verso i corpi in sovrappeso è una non richiesta preoccupazione per presunti problemi di salute. «Devi dimagrire (o ingrassare) perché se no la tua salute ne risentirà».
Storie
Foto: M. Parr - Magnum Photos / Contrasto, S. Nicholson - Redux / Contrasto
Adolescenti e bambini giocano in un campo dedicato a salute e nutrizione
In realtà, quello che viene posto come una sorta di attenzione verso l’interlocutore è semplicemente un giudizio, una critica o addirittura una forma di bullismo. «Se una persona fuma ad esempio non viene bullizzata o derisa con il pretesto della salute. Viene considerata una questione sua e basta. La stessa cosa dovrebbe valere per il peso corporeo», dice Bagnuli. Ciò che attiviste come Bagnuli tendono a rifuggire è l’utilizzo di un lessico medico per descrivere i corpi; si eliminano termini come “obesità” e “anoressia”. Spesso un corpo grasso viene automaticamente associato a una persona che non ha cura di sé: altro mito da sfatare. Tra i tanti, c’è anche quello che riguarda gli uomini; si ritiene solitamente che siano solo le donne a essere colpite dal body shaming. In buona parte dei casi tuttavia, sono gli uomini a subirlo anche se sono meno propensi a raccontare e condividere le prese in
giro. Tra le caratteristiche che si ritiene un uomo debba necessariamente possedere ci sono l’altezza e una muscolatura importante, per poter proteggere e difendere il suo fragile angelo del focolare (la donna), altra convinzione che deriva da una mascolinità tossica. E di conseguenza i ragazzi con un corpo minuto vengono spesso ridicolizzati.
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ei film, nelle serie tv, nei romanzi le rappresentazioni delle persone grasse sono spesso assenti oppure relegate a qualche siparietto comico. Talvolta vengono ridicolizzate, o associate a personalità negative o goffe. Basti pensare ai flashback sulla “Fat-Monica” in Friends. Anche Thor, il più muscoloso e “prestante” degli Avengers, in un momento di sconforto della serie cinematografica perde i suoi tratti estetici distintivi perché inizia a pren-
dere peso e a trascurare il suo aspetto e viene così messo in ridicolo. Succedeva anche nei cartoni animati, dalla Regina di Cuori di Alice nel Paese delle meraviglie a Ursula della Sirenetta, i villains grassi per eccellenza. Fa anche riflettere il fatto che nei film, le scene amorose coinvolgano nella maggior parte dei casi persone con corpi stereotipati, tonici e muscolosi e si tenda a escludere quelli che non rientrano in questi canoni. Del resto, se i canoni estetici variano nel tempo, è impossibile definire a priori che cosa consideriamo un difetto e cosa un punto di forza. La grassofobia è una tendenza più recente, mentre altri tipi di discriminazioni nascevano da convinzioni passate che negli anni si sono evolute. Convinzioni, se non addirittura superstizioni popolari, come nei confronti delle persone con i capelli rossi o gli stereotipi verso le bionde. A dare largo spazio alla body positivity negli ultimi tempi sono anche le aziende e le case di moda che hanno portato in passerella persone con corpi considerati non conformi, mettendo in mostra apparenti imperfezioni. Si mira all’inclusione, anche se spesso questo può diventare una mera strategia di marketing: nella realtà capita non di rado che chi si rivolge agli stessi negozi in cerca di taglie forti, finisce per rimanere deluso. Altro approccio per certi versi affine alla body positivity è la body neutrality, che ridimensiona il ruolo del corpo e il suo aspetto esteriore, promuovendo un atteggiamento di neutralità verso di esso. Gran parte del lavoro sul tema del body shaming e del bullismo può essere svolto nelle scuole, osserva Bagnuli: «È da lì che si dovrebbe partire. Certe cose non vanno minimizzate, non sono ragazzate. La scuola dev’essere vicina alle vittime di bullismo, non le deve far sentir sole o colpevolizzare. Né deve giustificare dicendo che questo ci rende più forti. Il bullismo non rende più forti, rende più sofferenti». E la differenza è netta. Q ©RIPRODUZIONE RISERVATA
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Test extraterrestri La mano robotica del Rover lascia cadere all’interno del contenitore, posto sulle sue spalle, il materiale raccolto. A destra, il campo base della missione Arches sull’Etna
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C’è la luna in mezzo al mare Sul vulcano con i super robot per la simulazione spaziale A Pian del Lago, sotto il cratere di sud-est, gli scienziati del progetto Esa Arches provano l’impiego del rover Interact, comandato dall’astronauta da una stanza d’albergo e del drone Scout di Emilio
Cozzi foto di Vito Finocchiaro 114
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una, data imprecisata. Il rover Interact si muove sulla polvere scura. È un robot di una sessantina di chilogrammi e con quattro ruote che, se non fosse per i bracci meccanici al posto della testa e per l’assenza di cingoli, ai cinefili potrebbe ricordare Numero 5, l’automa senziente di “Corto circuito”. Interact scivola per un secondo, poi si stabilizza. Riprende ad avanzare e scorge un sasso; attiva il suo arto laterale e raccoglie la pietra per portarla a casa, come un bambino farebbe con una conchiglia sulla spiaggia. Poco distante da lui, più vicino alla nave spaziale che li ha scortati fino a lì, due suoi compagni metallici, Lightweight Rover Unit 1 e 2, stanno piazzando le antenne che serviranno per comunicare anche sul lato nascosto della superficie selenica, dove le ground station terrestri - i centri di
controllo - non possono inviare né ricevere segnali e dove i robot sono soli. Senza guardarsi, gli automi si scambiano un avviso. La missione procede per il verso giusto, si può continuare. Fantascienza? Tutt’altro, a patto si sostituiscano la data, che invece di essere vaga è il 29 giugno scorso, e il luogo: non la Luna, ma i fianchi vulcanici dell’Etna, a Pian del Lago, fra i 2.500 e i 2.600 metri di quota, appena sotto lo sbuffo del cratere di sud-est. Lì, in un’area di 500 metri quadrati, Interact e i suoi compagni stanno lavorando insieme con un lander fisso - simulacro dell’astronave deputata a portarli a destinazione - pronto a fornire connessione wi-fi e alimentazione. Con loro, c’è anche un drone simile a un millepiedi, in grado di avventurarsi lungo i pendii più scoscesi e forse anche dentro i tunnel di lava scoperti sulla Luna; lo ha costruito
il Karlsruhe institute of technology del Baden-Württemberg e lo ha battezzato Scout. Insieme, il gruppo di robot sta concludendo “Analog-1”, un progetto dell’Agenzia spaziale europea (l’Esa), la prima fase di una più ampia campagna multi-rover e multi-agenzia organizzata dal Dlr, il Centro aerospaziale tedesco. L’hanno chiamata “Arches”, acronimo di “Autonomous robotic networks to help modern societies”, e per una manciata di giorni, in Sicilia, ha testato la capacità degli automi di collaborare e condividere dati in rete in un “analogo spaziale”, cioè in un ambiente le cui caratteristiche riproducono specifiche condizioni extraterrestri. In più ha verificato, come aveva già fatto Luca Parmitano dalla Stazione spaziale internazionale durante la missione “Beyond”, del 2019, l’efficacia di un controllo umano da remoto: da un 24 luglio 2022
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Test extraterrestri
Un lander ed un rover in azione sotto il cratere di nord-est
albergo a Catania, 23 chilometri distante dall’area operativa, l’astronauta tedesco Thomas Reiter ha infatti preso il controllo di Interact. Attraverso un’interfaccia capace di restituire anche la resistenza di un oggetto agguantato dal robot - rimanendo dalle parti della fantascienza, la si definirebbe “aptica” -, muovendo un braccio, l’astronauta ha ordinato a Interact di raccogliere sassi. In quel momento, la sua mano ha sperimentato ciò che sentiva la pinza del robot: una dimensione aggiuntiva nel controllo a distanza, tutt’altro che velleitaria se si pensa che presto, nella migliore delle ipotesi entro cinque anni, gli astronauti potranno controllare una squadra di lavoratori robotici dalla Terra o dal Gateway, la stazione spaziale che la Nasa e i partner europei – Italia compresa – programmano di costruire dal 2026 nell’orbita lunare e che sarà l’avamposto umano per dirigere le operazioni sulla superficie del satellite e 116
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per fare tappa, prima o poi, verso destinazioni più lontane, su Marte in primis. «Una missione simulata come questa è un gioco di ruolo in cui è molto importante che i giocatori vivano un’immersione completa», ha spiegato il project manager di Analog-1, Kjetil Wormnes. «In questo caso, ciò significava che gli operatori del rover all’Esoc - il Centro europeo per le operazioni spaziali dell’Esa, a Darmstadt, in Germania, ndr -, così come gli scienziati nel backroom scientifico e, naturalmente, l’astronauta a bordo del nostro Gateway lunare analogico avevano tutti bisogno di sentirsi sulla Luna».
S
ull’Etna la morfologia delle rocce ricorda molto la Luna, «e forse un po’ Marte» ha spiegato Thomas Krueger, direttore dello Human Robot Interaction Lab dell’Esa, cui si deve la realizzazione di Interact. «Certo avremmo
preferito che un astronauta controllasse il rover da una stazione spaziale, ma dal punto di vista logistico sarebbe stato complicato. Abbiamo quindi deciso di procedere a tappe: nel 2019, grazie all’esperimento con Parmitano, abbiamo dimostrato di poter controllare un robot dall’orbita. Nel 2022 abbiamo provato, con Arches, che si possono eseguire compiti in un ambiente molto simile a quello lunare». «Quello che abbiamo scoperto è che il controllo remoto continuo è molto impegnativo per un astronauta; abbiamo quindi aggiunto funzionalità per alleviare la pressione, l’equivalente della guida assistita nelle automobili moderne. Adesso l’operatore può indicare una posizione e lasciare che sia il rover a decidere come arrivarci in sicurezza. La sua rete neurale è stata programmata per riconoscere da sé rocce scientificamente preziose», ha spiegato Reiter, “il pilota”, dopo il test.
Storie
Uno degli addetti ai lavori trasporta una scala metallica sulle distese laviche
Sono capacità, come suggerisce l’acronimo stesso “Arches”, utili non solo in un’eventuale ambiente extraterrestre. Ed è questo il punto fondamentale della quasi totalità delle nostre attività spaziali: sviluppare abilità necessarie per operare oltre l’atmosfera, dagli asteroidi a Marte, impone sfide tecnologico-scientifiche le cui applicazioni si riflettono nella vita di tutti e qui, sulla Terra: non avremmo i sistemi di geoposizionamento come il Gps o Galileo se non fossimo stati in grado di pensarli e costruirli oltre il cielo. Il traffico aereo e quello marittimo sarebbero ben diversi senza i satelliti. Ma anche diagnosticare anzitempo alcuni tumori al seno sarebbe impossibile se non si applicasse un software in realtà inventato per far funzionare il telescopio spaziale Hubble, una trentina di anni fa. «L’idea di inviare robot in luoghi pericolosi per gli umani e controllarli da distanza non solo è interessante per quanto riguarda lo spa-
zio, ma anche se consideriamo scenari come una centrale nucleare, si pensi a Fukushima, allo smaltimento dei rifiuti o a operazioni sottomarine, per esempio sugli impianti petroliferi», ha continuato Krueger. «Per questo penso che lo sviluppo di sistemi robotici faccia fronte a quelle che gli addetti ai lavori chiamano le quattro D: dull, dangerous, dirty e dear. Avremo condizioni migliori per l’uomo, che non sarebbe esposto ad alcun rischio». «Verrà il momento in cui anche gli astronauti europei lasceranno le loro impronte sulla superficie della Luna. E anche in uno scenario del genere, il funzionamento condiviso dei sistemi robotici e dell’equipaggio in superficie sarà efficiente», ha aggiunto Reiter. A onor del vero, premesso che un accordo per ospitare i primi tre europei sul Gateway sia stato sottoscritto a giugno fra la Nasa e l’Esa, programmi come Arches evocano anche sviluppi diversi: l’esplorazione robotica
del cosmo è tanto promettente da far paventare a qualcuno la fine dei pellegrinaggi cosmici dell’uomo. Nel loro libro “The end of astronauts. Why robots are the future of exploration” (Harvard University Press, 2022, 173 ppgg.), se ne dicono convinti anche Donald Goldsmith e Martin Rees, fra i divulgatori più popolari al mondo, il primo, e astrofisico dell’Università di Cambridge il secondo, nominato lord per meriti scientifici e già Astronomer Royal, cioè deputato a tenere edotta la Regina circa le ultime novità astronomiche. Lungi dal disapprovare l’esplorazione spaziale “abitata”, Goldsmith e Rees sono piuttosto contro l’uso di fondi pubblici per coprirne i costi e garantirne la sicurezza – secondo un rapporto del novembre 2021 stilato dall’Ispettore generale della Nasa, per la prossima avventura lunare, Artemis, gli Stati Uniti spenderanno circa 93 miliardi di dollari entro il 2025. «La ritengo un’idea estrema, di certo provocatoria», ha replicato Krueger, al cui laboratorio è deputato proprio lo sviluppo delle interazioni uomo-macchina. «Se chiedessimo agli astronauti, direbbero che non c’è motivo di inviare i robot, perché mancherebbero l’occhio e l’intuito umani, la nostra capacità di improvvisare, spesso preziosa. In questo momento penso che la verità sia da qualche parte nel mezzo. Specialmente negli ambienti non strutturati di altri pianeti, l’intelligenza artificiale è a uno stadio infantile. È ovvio si stia lavorando per migliorarla, ma credo che per i prossimi anni avremo bisogno di umani, robot e cooperazione per raggiungere obbiettivi importanti, come l’esplorazione della Luna o Marte. Se gli umani sono gli occhi del robot e operano in remoto, allora si può fare molto più che lasciando un automa a se stesso. Fra dieci anni ne riparleremo». È probabile siano questi i droidi che stiamo cercando. Numero 5, il robot senziente - ed empatico - di Corto circuito ne sarebbe felice. Q © RIPRODUZIONE RISERVATA
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Ho visto cose/tv
LE VACANZE, IL PANE E LE BRIOCHE Poveri vip, costretti dalla tv a scegliere una villa di lusso
BEATRICE DONDI Il bello della televisione dei nostri giorni è che in una sola messa in onda è in grado di spazzare via quei problemini ordinari da gente comune che attanagliano inutilmente le moltitudini. Cosette tipo governi che saltano, fondi di Pnrr buttati al vento, o ancor più semplicemente il caro ombrelloni, che obbliga quelle fortunate famiglie ancora in grado di fare un pieno di carburante a vezzi d’altri tempi come, per esempio, fare un bagno senza dover accendere un nuovo mutuo. Invece basta guardare anche di sottecchi una puntata di “Un sogno in affitto” per rendersi conto che il pane e frittata da consumare con accompagno di granelli di sabbia sia ormai pratica desueta. In sintesi, il programma (la terza stagione su Sky Uno) condotto da Paola Marella, che si conferma come una delle donne più eleganti del globo, accompagna dei cosiddetti vip, di vario genere, a compiere una scelta che definire ardua è dire poco. Ovvero decidere quale sia la casa più adatta per trascorrere in pace qualche giorno di vacanza in compagnia di amici e parenti. Ora. Al netto degli aggettivi utilizzati da Marella, che vanno da “chic” a “lussuoso”, passando per il mai troppo abusato “esclusivo”, la rosa delle magioni proposte ha mediamente una decina di stanze con relative sale da bagno, giardini pensili, pisci-
ne a forma di delfino, baldacchini nei boschi, lenzuola di broccato e cucine in grado di servire la platea di un concerto dei Måneskin. Il tutto costruito nel più entusiasmante stile dell’abuso edilizio libero e gratuito, che non sia mai che il malcapitato vip in questione debba avere la vista sull’alga compromessa da inutili quanto ingombranti faraglioni. Per dire. La nota più sorprendente del tutto, che tenta di accendere una scintilla di solidarietà nello spettatore, è quel filo di tensione a cui viene sottoposto il personaggio al momento della scelta. Perché non è facile, diciamocelo chiaro, per un Francesco Facchinetti qualsiasi decidere quale possa essere davvero la villa perfetta a porto Cervo dove portare consorte e amici per qualche giorno. Proprio lui, il figlio dei Pooh che tanto ha dato all’opinione pubblica e che in tempi recenti tuonava contro il lockdown, giudicandolo ben più dannoso del Covid, ora si trova costretto alla reclusione vacanziera e di certo non può permettersi errori di sorta. Questo il pubblico lo sa. Se poi, osservando con piacere le passeggiate tra le saune ottagonali a strapiombo sul mare tornano per puro caso alla mente suggestioni antiche sul pane e le brioche è un altro, marginale discorso. Q
#musica Sono tornati i soldi, merito dello streaming Sono tornati i soldi, e anche tanti. Il mercato discografico, diventato negli anni scorsi un luogo di agonia e sofferenza, di continue lamentazioni, con una diffusa sensazione di imminente estinzione, è tornato in auge, i possibili naufraghi di un’era morente e senza ritorno hanno trovato non solo un’isola di approdo, ma dentro l’isola hanno trovato l’Eldorado, e oggi sono tornati
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GINO CASTALDO a navigare nell’oro. Tutto questo è interessante non tanto per una questione puramente numerica, piuttosto perché racconta di un’ennesima trasformazione epocale. Il motivo è semplice, tutto questo ben di Dio dipende soprattutto dal funzionamento redditizio, al di là di ogni possibile aspettativa, del meccanismo dello streaming, un modo di far soldi semplice e naturale, succede mentre neanche ve ne accorgete, producete ricchezza semplicemente ascoltando musica. L’ascoltatore musicale è diventato
simile allo spettatore televisivo. Lì il meccanismo della pubblicità ha colonizzato il nostro tempo libero. Guardiamo Sanremo o Tale e quale, pigramente stravaccati sul divano e invece senza pensarci siamo forza lavoro, guardiamo la tele e generiamo un guadagno, perché chi fa pubblicità conta sul fatto che siamo lì a guardare lo spot. In musica sta accadendo qualcosa di simile. All’inizio paghiamo qualcosa, un piccolo abbonamento generico e poi ascoltiamo quello che ci pare, ascoltiamo, dunque,
Scritti al buio/cinema
OMBRE NASCOSTE NEL CIELO LUMINOSO Carnalità e buone maniere nel film di Husson. Spiccano i grandi attori inglesi
FABIO FERZETTI
Foto: S. Infuso - Corbis / GettyImages
Ci sono attori che da soli valgono un film e molti di loro, questo è un fatto, sono inglesi. In “Secret Love”, cioè “Mothering Sunday” (ma il bel romanzo di Graham Swift da cui è tratto viene tradotto “Un giorno di festa”) ci sono almeno tre nomi appartenenti alla categoria: Colin Firth, Olivia Colman e la gloriosa Glenda Jackson. Il film poi poggia sulle solide spalle della giovane Odessa Young e dei suoi due amori, lontani nel tempo. Ma non corriamo. Se fra i sudditi della Regina abbondano i grandi interpreti non è solo perché nella patria di Shakespeare recitare è considerato un’arte prestigiosa quanto scrivere o dipingere, ma perché il cinema britannico, tutto distanze di classe e conflitti psicologici, offre agli attori una sorta di terreno ideale. Uno spazio geometrico in cui ciò che spesso appare torbido, arbitrario, irrazionale, diventa logico, limpido, intellegibile. È un cinema solido e tradizionale in cui l’esecuzione viene sempre prima dell’invenzione. Ma non riapriamo antiche querelle: nella sovrabbondanza attuale ogni stile ha pari diritti e quello scelto dalla francese Eva Husson, tutto ombre nascoste in una luminosa primavera, si intona perfettamente ad ambienti e sentimenti. Siamo infatti nel 1924 in una, anzi in due fastose magioni di campagna. Nella prima, dai Niven (Firth e Colman), lavora come cameriera la tro-
non compriamo di volta in volta quel pezzo o quell’altro, anzi magari il nostro pezzo preferito l’ascoltiamo tutto il giorno, decine di volte, e facendolo generiamo ulteriore denaro. Una piccola cosa, un rapido clic su un brano da ascoltare, eppure questo semplicissimo meccanismo ha Salmo fatto girare una montagna di soldi, la discografia è tornata a guadagnare come negli ultimi anni
vatella Jane (Odessa Young), spirito aguzzo e gran senso d’osservazione. A casa Sheringham vive invece il suo amante segreto Paul (Josh O’Connor, perfetto), unico sopravvissuto su tre fratelli (gli altri se li è presi la guerra, sottotesto che il film usa a meraviglia cucendolo addosso alle posture e alle espressioni degli adulti). Solo che Paul, destinato a un’agiata carriera d’avvocato, è già promesso a una giovane del suo rango. Il resto, che coincide con la crescita e col dischiudersi della vocazione letteraria di Jane, va scoperto al cinema. La trovata chiave sta nel contrapporre la rigidità (e il dolore segreto) degli abiti e delle buone maniere alla verità e alla carnalità delle molte scene di nudo fra gli amanti, sia pure nei limiti di un cinema educato e “per tutti”. Un solo vero rimpianto: non aver concesso maggiore spazio al secondo amore di Jane, il filosofo nero Donald (Sope Dirisù, altro volto che rivedremo). Il personaggio potenzialmente più nuovo del film. E il più sacrificato. Q ©RIPRODUZIONE RISERVATA
“SECRET LOVE (MOTHERING SUNDAY)” di Eva Husson Gran Bretagna, 110'
del secolo scorso, crescono anche i vinili, le musicassette, si vende perfino qualche copia di cd, ma la grandissima parte del fatturato dipende dallo streaming. Anche l’Italia festeggia, è un mercato florido e in espansione e nel 2021 è stata nella top ten dei mercati del mondo. Festeggiano soprattutto gli artisti italiani. Ripensando ai poco informati politici che pochi anni fa volevano leggi autarchiche che obbligassero le radio a programmare la musica italiana, oggi siamo quasi al problema opposto, classifiche e programmazioni
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radiofoniche sono a larghissima maggioranza italiana. Tra poco bisognerà proteggere i poveri artisti anglosassoni e garantirgli qualche passaggio in radio o televisione. I soldi sono tornati, e si vede, gli artisti gongolano, c’è una sorta di generale euforia che per la verità produce bassissima qualità, girano gadget promozionali (oggettini divertenti che accompagnano il disco) che non si vedevano dagli anni Ottanta, gli artisti vengono incitati a lavorare come muli, a pubblicare quanti più pezzi riescono a produrre, a farsi vedere su Tik Tok, in televisione, per strada, ovunque si Q possa produrre un clic in più. ©RIPRODUZIONE RISERVATA
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Noi e Voi
N. 29 24 LUGLIO 2022
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IL BUCO NERO DELLA SCUOLA MEDIA RISPONDE STEFANIA ROSSINI [ STEFANIA.ROSSINI@ESPRESSOEDIT.IT ] Cara Rossini, sono reduce dall’esperienza catartica dell’esame di licenza media del primo dei miei tre figli. Il percorso scolastico è stato quello della “Generazione Covid”, studenti travolti da una serie di ordinanze che li hanno tenuti a casa per mesi. Ci sarebbe tanto da dire sul buco nero di questi anni, ma sorvolando su opinioni soggettive, tutti i provvedimenti di chiusura, doverosi per salvaguardare la salute, non hanno giovato all’istruzione e men che meno alla formazione scolastica mentale. L’esame è stato un interessante spunto di riflessione sulla scuola e un esperimento per osservare il comportamento di noi mamme. L’innata necessità che spinge le mamme a difendere la progenie è la dimostrazione di come oggi sia più facile fare retorica su concetti nobili quali trasparenza e giustizia che metterli in pratica. Il sistema scolastico attuale sforna giovani con paradossali incoerenze e una tendenza ad appiattire e omologare tutto. D’altra parte le valutazioni non ammettono più giudizi, ma numeri che oscillano dal sette, voto della vergogna, al dieci, con lode riservata ai veri fenomeni, ovvero a quei pochi ancora mentalizzati sul desueto concetto che solo la costanza, l’approfondimento e l’impegno portino a buoni risultati. I ragazzi cresceranno e avranno modo di dimostrare le reali capacità. Intanto non resta che osservare il fenomeno da fuori, godendosi i post deliranti dei genitori per annunciare i voti, sperando di non incappare nella mamma delusa e frustrata, di avere modo di salutare con commozione i professori che si sono distinti per impegno e passione, augurandosi di non incontrare quelli pusillanimi e scorretti che hanno premiato e colpito per simpatia, conoscenza, appartenenza piuttosto che per merito. Alla fine resterà un numero... di cui, dopo quarantotto ore, non si farà più menzione. Giusto il tempo di far scoppiare i fuochi d’artificio o di minacciare il ricorso al Tar da parte di alcuni genitori e di far finire l’ultima partita alla Generazione Covid. Serena Barbagallo
Cara signora Barbagallo, della scuola media ho un’esperienza personale remota e una più ravvicinata come genitore, ma ho sempre pensato che fosse il buco nero del nostro sistema scolastico. Sono tre anni cruciali che accolgono bambini formati da una scuola elementare per lo più eccellente e licenziano adolescenti prossimi all’ignoranza, come dimostrano alcune ricerche anche internazionali. Ma lei punta il dito su aspetti ulteriori e diversi che ne peggiorano l’andamento: la Dad che pure è stata una triste necessità, l’incompetenza di molti insegnanti e, soprattutto, l’ingerenza dei genitori. E lo fa nello scenario di un esame che dovrebbe essere l’ovvia conclusione di un percorso di studi, ma scatena invece passioni, delusioni e reazioni scomposte. I genitori, anzi come lei precisa, alcune madri, appaiono nel suo racconto (che purtroppo ho dovuto molto accorciare ma che sarà pubblicato per intero nella rubrica on line) erinni infuriate che usano i figli per nutrire il proprio narcisismo. Quando non capita, specie se si presenta un padre, che l’ingerenza sfoci nella violenza.
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N. 29 - ANNO LXVII - 24 LUGLIO 2022 TIRATURA COPIE 207.600
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Satira Preventiva
Michele Serra
Meteorologo uccide collega Delitto nel torbido mondo delle previsioni del tempo. Da anni gang rivali si contendono i clic degli utenti a colpi di notizie spaventose e catastrofiche
Le indagini Il principale sospettato sarebbe Leonzio Pisquani, direttore di “Final Meteo” e tradizionale rivale di Supinis. La vittima gli avrebbe sottratto migliaia di clic da quando ha inserito, nelle sue previsioni meteo, anche la pioggia di rane e la strage dei primogeniti, incontrando grande favore di pubblico. «La pioggia di rane è una idea mia, era il tema della mia tesi di laurea», avrebbe confidato il Pisquani, molto amareggiato, ai suoi collaboratori. “Final Meteo” aveva cercato di contrastare il dilagante successo dell’agenzia concorrente aggiungendo alle sue previsioni anche gemiti umani, muggiti di animali morenti, rombo di frane e altri rumori sinistri, ma con scarsi risultati. Di qui la decisione di sopprimere lo storico rivale. Il lato umano Vittima e assassino si conoscevano da molti anni. Avevano lavorato insieme a Cinecittà come esperti di effetti speciali 122
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nei film horror, tra i quali “Maciste contro le isobare” e “Cindy, la nuvola maledetta”, storia di un cumulonembo fuori controllo che distrugge la Terra. Da quelle prime, entusiasmanti esperienze la scelta di intraprendere la carriera di meteorologo, rivoluzionandola. Basta con la noiosa informazione scientifica, con le cartine geografiche, i disegnini, le musichette in sottofondo. Basta anche con le ragazze avvenenti che mostrano le nuvole mentre tutti guardano le tette. La nuova era Il gioco si è fatto duro, il pubblico aveva bisogno di sensazioni più forti. Dopo una fase di transizione (nuvole a forma di tetta) si è capito che in una società decadente anche l’erotismo esercita un fascino limitato. La merce più richiesta, più in linea con lo spirito dell’epoca, è lo spavento. Ed ecco le perturbazioni dai nomi ferali, Caronte, Apocalisse (in arrivo Godzilla, Polifemo e Putin), ecco l’annuncio ininterrotto dei picchi di caldo record - ogni giorno un nuovo picco - che stanno spingendo migliaia di italiani a fare testamento, mettendo in seria difficoltà gli studi notarili, che con il personale in ferie faticano a fare fronte alle richieste. La scienza Gli studiosi spiegano bene la differenza tra caldo reale e caldo percepito. Il caldo reale è quello indicato dal termometro, il caldo percepito è quello che avverti dopo
avere letto sullo smartphone, o visto in tivù, un bollettino meteo. Sensazione di soffocamento, stati d’ansia e veri propri attacchi di panico, sudorazione che triplica in pochi istanti: sono gli effetti, molto apprezzati, che spingono gli utenti a preferire i siti meteo più terrificanti. Tra i più recenti “l’Ultimo Meteo”, che monitorizza il clima nelle principali città del mondo con una rete di web cam nei cimiteri, e il divertente “Meteo Crash”, con il conduttore che indossa il casco sotto una grandinata artificiale. Nella prossima stagione televisiva sono molti i talk-show che vogliono rimpiazzare i virologi, che hanno fatto il loro tempo, con i meteorologi. Molto richiesti il meteorologo negazionista, convinto che la volta celeste sia finta, come in Truman Show, e la meteorologa new age, che legge le previsioni del tempo sulla mano dei clienti. Il concorso Messi di fronte a una stessa grandinata, aspiranti conduttori meteo, richiesti di descriverla, hanno dato luogo a una appassionante sfida. Il primo ha detto che i chicchi erano grandi come limoni, il secondo come meloni, il terzo come angurie, il quarto come la cupola del Brunelleschi. Ha vinto il quinto, dicendo che i chicchi di grandine erano grandi come pianeti, e forse erano proprio pianeti di un’altra galassia che stavano collassando sulla Terra. Q © RIPRODUZIONE RISERVATA
Illustrazione: Ivan Canu
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l direttore di “Extreme Meteo”, Cirillo Supinis, è stato trovato senza vita, in una pozza di sangue, nel suo appartamento di Ladispoli. Il delitto sarebbe maturato nel torbido mondo della meteorologia, da anni terreno di scontro tra gang rivali che si contendono i clic degli utenti a colpi di notizie spaventose sulle ondate di caldo e di freddo che minacciano di falcidiare l’umanità entro le quarantott’ore.
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