Montagne360 | Settembre 2021

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NOMI COMUNI DI MONTAGNA A cura di Bruno Tecci e Franco Tosolini Illustrazioni di Luca Pettarelli

13 – Tetto Normali parole che tra le vette assumono significati speciali. Come sella, terrazzo, camino – e molte altre – che nella prima definizione d’un dizionario hanno un certo senso, mentre in una relazione, guida o mappa di montagna ne acquistano un altro. Molto più pieno per chi le vette le ama e le frequenta. Tutto da scoprire per chi si sta avvicinando a esse. Questo processo, quando ci si trova lì nelle Terre alte, è per tutti istantaneo: da semplici vocaboli su carta i termini mutano in sensazioni ed esperienze vive. E a quel punto le altre comuni accezioni svaniscono.

Bruno Tecci, narratore per passione, comunicatore di mestiere. Istruttore sezionale del Cai di Corsico (MI). Autore di Patagonio e la Compagnia dei Randagi del Sud (Rrose Sélavy) e di Montagne da favola (Einaudi Ragazzi). Franco Tosolini, ricercatore e divulgatore storico. Istruttore regionale di alpinismo del Cai della Lombardia. È autore e coautore di saggi e libri tra cui La strategia del gatto (Eclettica). Luca Pettarelli, illustratore e allenatore di karate. Con le sue pitture a olio ha collaborato al volume Montagna (Rizzoli). Nel 2016 è stato selezionato alla Bologna Children’s Book Fair.

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Il tetto delle case che sicurezza che dà. Che senso di protezione. Da sempre, fin da quando l’uomo cercava riparo nelle caverne, avere un buon tetto sopra la testa è stato l’ingrediente essenziale dello star bene: la prima cosa a cui aspirare per condurre una vita degna. E poco importava – e poco importa anche oggi – se fatto di pietra, lamiera o paglia, se piatto o spiovente; a capanna, a padiglione, a smusso, a ombrello o ispirato a chissà quale altra delle tante forme elencate dal dizionario; se ancorato a una struttura portante di cemento armato o d’argilla. L’importante è averlo. Un tetto. Per poter mettercisi sotto quando cala il buio, quando fa freddo e c’è la neve o urla il vento, quando piove così forte che se stai fuori è un disastro ma se stai dentro è musica: tic, tic, tic, tac, tic, tac, tic, tic, tac, tac, tic, tic… C’è stato un tempo in cui, anche in alpinismo, se si aveva la sfortuna di incontrare un tetto durante una scalata, il decidere di rimanersene là sotto voleva dire comunque tranquillità: la tranquillità di potersi ritirare dalla parete calandosi per la stessa via percorsa in salita. Certamente con un senso di momentanea resa, ma riportando a casa la pelle e conservando la possibilità di approcciar nuovamente la montagna, magari seguendo un itinerario diverso. Tanto, all’epoca di cui parlo, le pareti erano quasi tutte ancora inviolate e le vie classiche d’arrampicata che oggi brillano sulle guide, tutte da tracciare. Scalare voleva dire esplorare l’inesplorato, anche a due passi dal proprio tetto domestico. Si studiavano dal basso muraglioni giganteschi, cercando col cannocchiale quelle linee di salita che sembravano offrire maggiori possibilità di successo, lungo fessure, diedri, camini: i punti deboli delle montagne. Quasi mai su placche lisce e decisamente mai per grandi tetti e strapiombi. Oggi, per uno scalatore forte, un tetto in parete rappresenta “giusto un problema in più” da risolvere; un passaggio da affrontare con la miglior tecnica d’arrampicata in strapiombo e di cui vantarsi in seguito. Inve-

ce, più o meno un secolo fa – decennio più, decennio meno – ritrovarsi sopra la testa una porzione di montagna che da verticale diventa improvvisamente orizzontale era un vero e proprio punto di non ritorno. In quei casi, andar su dritto per dritto – come dicono gli alpinisti – era impossibile, e allora si tentava di muoversi di lato fin dove il tetto finiva, sperando che da lì si potesse continuare poi verso l’alto... Sì, “sperando” è la parola giusta. I più intrepidi quindi, presa la decisione di proseguire, si esponevano all’ignoto, agli elementi. Un po’ come rimuovere di colpo il tetto alla propria casa durante un tifone. Sia quel che sia. Di lì in poi, o si guadagnava la cima o si periva nel tentativo di raggiungerla: la via di ritirata veniva recisa. Perché per aggirare l’ostacolo insormontabile, quello spostamento laterale sulla parete veniva effettuato nelle modalità più assurde e rischiose, anche lanciando la corda a mo’ di lazo attorno a un provvidenziale spuntone, per poi far pendolo appesi a essa nel tentativo di arrivare così ad afferrare qualche appiglio molto più alla destra o alla sinistra del tetto. Se la rocambolesca soluzione riusciva, a quel punto, richiamando la corda a sé si chiudeva automaticamente la porta a un’eventuale calata d’emergenza lungo il percorso conosciuto. Che brividi! Ma che vie che sono nate da quei pionieri dallo sguardo fisso all’insù! Il fuoco che li animava aveva il potere di sciogliere la paura più gelida e di regalar loro sensazioni non provabili dalle comuni persone. Un misto di emozioni tra ciò che deve aver provato un grande uomo come Colombo nel dimostrare al mondo che non solo ci si poteva spingere oltre le Colonne d’Ercole, ma che lì in fondo c’era una terra bellissima che non aveva nulla a che vedere con le Indie conosciute; e ciò che prova un piccolo esserino come un gatto, di notte, sulle tegole d’un tetto, mentre il mondo dorme chiuso nelle case, e lui è l’unico che si gode l’immenso spettacolo delle stelle e della luna. Ÿ bt


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