Gennaio-Marzo 2020
Diritto e pratica clinica 1 RESPONSABILITÀ MEDICA
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ISSN 2532-7607
RESPONSABILITÀ MEDICA
Diritto e pratica clinica IN QUESTO NUMERO L’obbligazione del chirurgo estetico, di Fabrizia Santini La pianificazione condivisa delle cure, di Anna Aprile e Mariassunta Piccinni Perdita di chances e responsabilità proporzionale, di Marco Capecchi Aiuto al suicidio e relazione terapeutica, di Paolo Malacarne e Barbara Pezzini
Gennaio-Marzo 2020 Rivista trimestrale diretta da Roberto Pucella
Pacini
INDICE Saggi e pareri Fabrizia Santini, L’obbligazione del chirurgo estetico, alla luce della legge Gelli-Bianco............pag. 3 Luigi Gaudino, Parole: esplicite, implicite ed escluse nel linguaggio della l. 219/2017...................» 15 Anna Aprile, Mariassunta Piccinni, Per una pianificazione condivisa delle cure: dai principi alle buone prassi................................................................................................................................» 31 Marco Capecchi, Dalla perdita di chances alla responsabilità proporzionale (osservazioni a margine di Cass., n. 28993/2019)...................................................................................................» 45 Simona Cacace, Libertà di morire o dignità nel morire: la Corte costituzionale e il suicidio assistito in Italia, in Colombia e in Germania................................................................................» 57
Giurisprudenza Cass. Civ., III sez., 6 dicembre 2019, n. 31886, con nota di commento di Italo Partenza, La CTU e il principio dispositivo: non desiderare il ruolo altrui..........................................................» Cass. Civ., III sez., 11 novembre 2019, n. 28987, con nota di commento di Ivan Libero Nocera, Rivalsa e regresso della struttura sanitaria verso l’esercente la professione sanitaria ....»
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Dialogo medici-giuristi Paolo Malacarne, Barbara Pezzini, E se il paziente chiede al medico di essere ‘aiutato a morire’? Aiuto al suicidio e relazione terapeutica dopo Corte cost. n. 242/2019..........................»
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Osservatorio medico-legale Barbara Bonvicini, Erich Cosmi, Giovanni Cecchetto, Claudio Terranova, Guido Viel, Massimo Montisci, La manovra di Kristeller. Aspetti medico-legali................................................................»
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i Saggi Saggi ee pareri pareri agg s rer e a L’obbligazione del chirurgo p estetico, alla luce della legge Gelli-Bianco Fabrizia Santini
Professoressa nell’Università del Piemonte Orientale Sommario: 1. La natura dell’obbligazione del chirurgo estetico: un dibattito mai sopito. – 2. Le ricadute dell’applicazione della legge Gelli-Bianco. – 2.1. La natura (sempre) contrattuale della prestazione, nei confronti del paziente. – 2.1.1. Segue: e della struttura sanitaria. I profili di responsabilità disciplinare. – 2.2. Il superamento della distinzione tra obbligazione di mezzi e obbligazione di risultato. – 2.2.1. Le ricadute sulla misura della “diligenza” richiesta nell’esecuzione della prestazione. – 3. La centralizzazione dell’obbligo di informazione e la (ri) definizione di una responsabilità (di risultato) aggravata.
Abstract: Nel perdurante dibattito in merito alla natura dell’obbligazione del chirurgo estetico, la legge Gelli-Bianco è intervenuta confermando la sua configurabilità quale obbligazione di risultato. In un contesto purtuttavia in cui la classica dicotomia obbligazioni di mezzi – obbligazioni di risultato non può che dirsi ormai ampiamente superata. La giurisprudenza ha infatti “rimodellato” quest’ultima nella forma di una responsabilità “aggravata o paraoggettiva”, verso il soddisfacimento prioritario di esigenze di deflazione del contezioso. Nessuno spazio sembra residuare per la responsabilità disciplinare del chirurgo nei confronti della struttura sanitaria. In the ongoing debate on the nature of the cosmetic surgeon’s obligation, the Gelli-Bianco law intervened with precise indications, confirming in several ways its configurability as an obligation of result. In a context, however, in which the classic dichotomy can only be said to be widely outdated. The judges have in fact “remodelled” the obligation by introducing an “aggravated or para-objective” responsibility which, rather than the patient’s interest, is aimed at satisfying the deflation needs of the dispute. No space seems to remain
for the surgeon’s disciplinary responsibility towards the healthcare facility.
1. La natura dell’obbligazione del chirurgo estetico: un dibattito mai sopito La prestazione del chirurgo estetico è oggetto da tempo di un acceso dibattito. Pur a fronte di una consolidata giurisprudenza, connotata da rari ripensamenti, a favore del riconoscimento dell’esistenza di una obbligazione di risultato dello specialista nei confronti del paziente, la dottrina ha da tempo iniziato a sostenere la configurabilità di una obbligazione di mezzi. Ciò al fine di assimilare tra loro tutte le pratiche chirurgiche, che siano plastiche, ricostruttive od estetiche, di conferire dignità di intervento di cura anche alla chirurgia estetica ed uniformare, al contempo, i diversi regimi di responsabilità per danni.
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La chirurgia estetica sconta infatti il pregiudizio, radicatosi fin dalla effettuazione dei primi interventi agli inizi del Novecento, ma per certi versi ancora attuale, di rappresentare nulla più che un “capriccio”1, una attività non connessa ad un profilo patologico, riabilitativo o di recupero funzionale dell’individuo, classificabile, in quanto tale, come meramente cosmetica. Il fatto in particolare che si presenti come una manomissione non necessitata del corpo l’ha resa per lungo tempo non legittimata e tutelata dall’ordinamento2. Praticata altresì non da studiosi ma da soggetti allenati ad una significativa manualità (non raramente il chirurgo estetico era un barbiere) se ne è innanzitutto negata la riconducibilità alla medicina3 e la si è differenziata dalla chirurgia plastica. A quest’ultima, a tutt’oggi invero, vengono ricondotti gli interventi che tendono a ricostruire una condizione somatica preesistente deteriorata da infortuni oltreché gli interventi resisi necessari per correggere imperfezioni naturali, pregiudizievoli per la vita di relazione, affettiva, professionale o per la salute dell’interessato. Mentre la chirurgia estetica, slegata come è da qualsiasi esigenza funzionale/ricostruttiva, si è detto, viene fatta coincidere solo con quegli interventi rivolti a correggere delle imperfezioni fisiche in vista del soddisfacimento di un desiderio
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di bellezza declinato variamente a seconda dei periodi storici. Di qui, anche la progressiva e resistente definizione di un regime di responsabilità del chirurgo estetico differenziato e ben più gravoso rispetto a quello del sanitario in generale. È vero che la visione restrittiva della chirurgia plastica di cui si è tenuto conto finora dovrebbe dirsi ormai superata, alla luce del nuovo concetto di salute che implica un completo stato di benessere fisico e psichico della persona, stando alla definizione fornitaci già alla fine degli anni novanta dell’Organizzazione Mondiale della Sanità4. Con il che anche l’etica ha genericamente superato i problemi di accettazione della chirurgia estetica recependone l’importanza in tutti i casi in cui sia idonea a modificare in positivo gli inestetismi che condizionano la vita sociale/affettiva e lavorativa dell’individuo. Negare purtuttavia oggi la natura voluttuaria della maggior parte degli interventi di chirurgia estetica, a fronte dei dati statistici che provengono dalle diverse associazioni professionali nazionali ed internazionali5, significa ignorare la portata di un
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Cfr. Mantovani, I trapianti e la sperimentazione umana nel diritto italiano e straniero, Padova, 1974, 100 ss. 1
Lega, Libere professioni nelle leggi e nella giurisprudenza, Milano, 1974, 867; Riz, Il trattamento medico e le cause di giustificazione, Padova, 1975; ed in particolare Della Casa, Liceità e fondamento dell’attività medico chirurgica a scopo terapeutico, in Riv. it. dir. proc. pen., 1980, 73, che sostiene la più corretta collocazione della chirurgia estetica tra le pratiche cosmetiche piuttosto che tra quelle mediche con finalità terapeutiche. 2
Per una ricostruzione storica della evoluzione della chirurgia estetica v. Posteraro, La responsabilità del chirurgo estetico, Sant’Arcangelo di Romagna, 2019, 11 ss. Timidamente nel 1994 la Corte di Cassazione, sentenza n. 25.11.1994, n. 10014, ha riconosciuto alla chirurgia estetica una dimensione e collocazione all’interno della ars medica precisando che non si può escludere “la legittimità della chirurgia estetica, che a prescindere dalle turbe psicologiche che potrebbero derivare da una dilatata considerazione degli aspetti sgradevoli del proprio corpo, tende a migliorare esclusivamente l’estetica”. 3
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O.M.S., Basic Documents, Forty second edition, 1999.
Secondo l’AICPE, l’Associazione Italiana Chirurgia Plastica Estetica, nel 2018 sono state eseguite in Italia complessivamente circa 1.009.200 procedure estetiche, ovvero il 7% in più rispetto a quelle registrate da ISAPS, l’International Society for Aesthetic and Plastic Surgery americano, nel 2016 (in totale 938.000). In Italia si conferma un trend di crescita del settore della chirurgia plastica e della medicina estetica rimasto pressoché costante negli ultimi cinque anni. Sul totale delle procedure estetiche le pratiche di tipo chirurgico sono state il 31,8% (pari a 320.510), i trattamenti non chirurgici (il 68,2% del totale) sono aumentati dell’8%, con 688.690 procedure nel 2018. Al primo posto tra gli interventi di chirurgia plastica ai fini estetici più richiesti nel nostro Paese si conferma per il secondo anno la mastoplastica additiva: 52.600 le operazioni per aumentare il seno effettuate nel 2018, con un incremento rispetto al 2016 del 9%. Il secondo intervento più richiesto, in modo equamente ripartito tra pazienti donne e pazienti uomini, è la blefaroplastica, la cui pratica è aumentata del 21% in due anni, con 51.000 interventi nel 2018. La terza operazione chirurgica ai fini estetici più richiesta è stata la liposuzione, con 45.600 pratiche stimate, in diminuzione però dell’11% rispetto al dato 2016. In quarta posizione tra gli interventi più richiesti troviamo il lipofilling del volto (dato 2018: 24.300, +5%) e a seguire l’addominoplastica, con 21.800 interventi rilevati nel 2018, il 21% in più rispetto 5
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Obbligazione del chirurgo estetico
fenomeno sociale che solo in minima parte può dirsi realmente caratterizzato da finalità di cura (soprattutto degli aspetti psicologici) di una specifica sofferenza dell’individuo. Se il trattamento di chirurgia estetica è realmente in grado di ridurre od eliminare quel malessere che si ripercuote negativamente in ambito comportamentale e sociale, non può negarsene la finalità di cura e la sua equiparabilità alla chirurgia plastica, riparativa-ricostruttiva e, per riflesso, alla chirurgia ordinaria. È purtuttavia assai problematico, si ripete, sia alla luce dei dati riportati, sia dell’esperienza quotidiana del chirurgo estetico stesso, avallare acriticamente questa conclusione, non essendo mai certo se l’intervento è determinato da motivo di ordine medico o meramente estetico. E proprio in virtù di tali considerazioni pare da tempo essersi assestata la posizione della giurisprudenza. Muovendo infatti dalla considerazione della “funzione tipica dell’arte medica, individuata nella cura del paziente, al fine di vincere la malattia, ovvero di ridurne gli effetti pregiudizievoli o, quantomeno, di lenire le sofferenze che produce, salvaguardando e tutelando la vita”6, i giudici qualificano la chirurgia estetica di natura voluttuaria, priva di finalità curativa o terapeutica, con scopi meramente estetici e cosmetici. Anche per costoro deve ritenersi “indubbio che chi si rivolge ad un chirurgo plastico lo fa per finalità spesso esclusivamente estetiche e, dunque, per rimuovere un difetto e per raggiungere un determinato risultato, e non per curare una malattia”7.
al 2016. A registrare una crescita decisamente più rilevante sono invece tutte quelle pratiche estetiche realizzate nello studio medico con l’utilizzo di apparecchiature biomedicali. Il totale dei trattamenti rilevati da ISAPS nel 2016 era di 67.000, mentre lo stesso dato stimato dall’Osservatorio AICPE per il 2018 è salito a 116.540, con un incremento vicino al 73%. Con questi dati, l’Italia si posizionerebbe stabilmente nelle prime 10 nazioni del mondo per numero di interventi “estetici”. 6
Cass., 25.11.1994, n. 10014, cit.
In questo senso, Cass., 6.6.2014, n. 12830; Trib. Milano, 24.7.2017, n. 8243; Trib. Bari, 19.2.2018, n. 753; Trib. Bari, 4.9.2018, n. 3690; App. Roma, 10.1.2012, n. 89. 7
Sussistendo una richiesta “capricciosa” di modifica del proprio status, la giurisprudenza ha ritenuto, secondo la tradizionale distinzione, che le parti del contratto negoziano non una classica obbligazione di mezzi8, tipica di ogni rapporto terapeutico, ma una obbligazione di risultato9. Con la conseguenza che laddove il medico non riesca a soddisfare pienamente il desiderio del paziente, dovrebbe essere giudicato come personalmente responsabile per il mancato conseguimento del risultato estetico dedotto in obbligazione.
2. Le ricadute della applicazione della legge Gelli-Bianco 2.1. La natura (sempre) contrattuale della prestazione, nei confronti del paziente È difficile d’altro canto sostenere che proprio nell’ambito della chirurgia estetica non vi sia pattuizione alcuna tra medico e paziente, che non assuma particolare valore la volontà di quest’ultimo che si rivolge al sanitario richiedendo la rimozione di un difetto specifico o la modifica di un tratto del suo aspetto; la natura contrattuale della prestazione del chirurgo estetico, in altre parole. Fin dagli inizi del 1900 questa non è mai stata contestata, ed anzi, quando la giurisprudenza è stata chiamata per la prima volta a pronunciarsi in merito alla validità di un contratto con il quale una donna, in cambio di denaro, si sottoponeva ad una serie di interventi chirurgici finalizzati esclusivamente al miglioramento del suo aspetto fisico (si trattava in particolare, di “eliminare le rughe del viso, del collo e, più specificamente, di ridurre l’abbassamento e l’allungamento dei seni”) a fronte di un esito insoddisfacente dell’operazione, il Collegio giudicante ha dichiarato la nullità dell’accordo per illiceità della causa, aven-
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Cass., 3.12.1997, n. 12253.
Espressamente in tal senso Trib. Roma, 29.9.2016. Con il che il paziente dovrebbe più correttamente qualificarsi “un cliente” secondo cfr. Rizzo, Dal paziente al cliente, in Annali della Facoltà Giuridica dell’Università di Camerino, Camerino, 2015, 35 ss. 9
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do questa ad oggetto “pratiche di vivisezione senza utilità alcuna”10. Al di là del disvalore sociale riconosciuto all’epoca alle pratiche estetiche, di cui si è già detto, è interessante ora rilevare come la pronuncia apra per la prima volta alla considerazione del risultato estetico non come mero “motivo” ma “nucleo causale” del contratto concluso tra le parti, determinandone la natura11. Quasi univocamente la giurisprudenza ha confermato l’importanza del risultato dell’intervento estetico, a tal punto da identificarlo come “la cartina di tornasole” che consente di valutarne la correttezza12. Se “la finalità dell’intervento di chirurgia estetica è migliorare l’aspetto fisico del paziente ed incrementare la positività della su vita di relazione […] il mancato conseguimento del risultato […] equivale ad un inadempimento contrattuale”13, concludono i giudici. Viene dunque dato per scontato dai giudici che chi si rivolge ad un chirurgo estetico lo fa per finalità estetiche, per rimuovere un difetto o per raggiungere un determinato risultato e non per curare una malattia. Di tal che nel normale e fisiologico rapporto tra chirurgo estetico e paziente diviene naturalisticamente ed in via automatica insito uno speciale patto di risultato il quale obbliga il chirurgo al conseguimento del successo. Quest’ultimo non si può ritenere agire in considerazione del “fine socialmente apprezzabile della guarigione del paziente […] ma risponde contrattualmente del raggiungimento del risultato consistente nel miglioramento morfologico promesso”14.
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Trib. Lyon, 27.6.1913, in Gaz. Pal., 1913, II.
Più recentemente Trib. Roma, 16.11.2018; Trib. Bari 4.9.2018; Trib. Milano, 24.7.2017, n. 8243; Trib. Bari, 19.2.2018, n. 753 e Trib. Bari, 4.9.2018, n. 3690; Trib. Milano 29.10.2015, n. 12113. 11
App. Roma, 10.1.2012; Trib. Genova, 30.6.2016; precisando altresì che questo comunque non deve residuare in inestetismi più gravi rispetto a quelli che si intendeva eliminare, Cass., 6.6.2014, n. 12830, o in “brutte cicatrici”, Trib. Milano, 23.10.2012. 12
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Trib. Genova, 30.6.2016.
Gualdi, Orientamenti dottrinari e giurisprudenziali in tema di responsabilità del chirurgo plastico, in Donati et al., 14
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Saggi e pareri
Gli esiti cui la giurisprudenza è approdata in questi anni hanno ben presto dovuto fare i conti con la l. 8 marzo 2017, n. 24 “Disposizioni in materia di sicurezza delle cure e della persona assistita, nonché in materia di responsabilità professionale degli esercenti le professioni sanitarie”, con la cd. legge Gelli-Bianco. Sebbene questa intervenga a mutare radicalmente la natura dell’obbligazione del medico specializzato, proprio nell’ambito della chirurgia estetica finisce al contrario per confermare l’interpretazione fin qui consolidatasi in giurisprudenza, con non irrilevanti conseguenze, per quanto si dirà nel paragrafo successivo, sulla natura dell’obbligazione stessa. L’art. 7 della legge, al comma 3° prevede che l’esercente la professione sanitaria “risponde del proprio operato ai sensi dell’art. 2043 del codice civile, salvo che abbia agito nell’adempimento di obbligazione contrattuale assunta con il paziente”. La legge, intervenendo direttamente sulla responsabilità civile del medico, la qualifica in generale come aquiliana. Non sembrando opportuno, per ragioni di economicità, oltreché necessario, dato l’approdo ormai certo raggiunto dal legislatore, soffermarsi sulla evoluzione della responsabilità del medico15, basti rilevare ora la precisa scelta di campo effettuata, che riporta l’elaborazione della materia alla fase precedente la celebre sentenza della Corte di Cassazione n. 589 del 22 gennaio 199916.
Chirurgia plastica ricostruttiva. Aspetti tecnici, giuridici, medico-legali, Milano, 1988, 23 ss. Cfr. da ultimo, Trib. Bari 19.2.2018; Trib. Salerno 17.1.2018; Trib. Frosinone, 3.11.2017. Per quanto concerne i contributi della dottrina si può fare riferimento alla rassegna di Corso, La responsabilità del chirurgo estetico tra salute e bellezza, in questa Rivista, 2018, 416, nt. 20. 15
La sentenza qualifica per la prima volta come “contrattuale” la responsabilità civile del medico sia che fosse dipendente che collaboratore di una struttura sanitaria pur in mancanza di un contratto concluso col paziente. Una scelta di campo questa imposta onde ovviare alle difficoltà istruttorie derivanti dalla incompleta compilazione delle cartelle cliniche prodotte. L’affermarsi dell’orientamento ha tuttavia non solo generato un acceso dibattito ma altresì la prassi della cd. medicina difensiva. 16
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Obbligazione del chirurgo estetico
L’esclusione della responsabilità contrattuale del medico non può comunque valere sempre, ammette lo stesso legislatore, ed in particolare ciò non può valere nei “casi in cui questi abbia assunto con il paziente una obbligazione contrattuale e che abbia agito nel suo adempimento”, ipotesi che sembra perfettamente riconducibile al caso di cui si discute, della prestazione del chirurgo estetico, come la giurisprudenza l’ha ricostruita. Questa invero, pur nei rari casi in cui ha anche inteso avvalorare una interpretazione contraria, non ha contestualmente mai escluso la possibilità di configurare l’obbligazione del chirurgo estetico come contrattuale, ipotesi che a parere di chi scrive non può che rappresentare la regola, anche sulla scorta del fatto che il rapporto tra medico “privato” e paziente non può che qualificarsi generalmente proprio in termini contrattuali17. I giudici hanno infatti riconosciuto che nel contratto avente ad oggetto una prestazione di chirurgia estetica, il sanitario può assumere due diversi tipi di obbligazione, in cui può essere dedotto o meno nella causa il risultato da raggiungere, da valutare caso per caso “con riferimento alla situazione pregressa ed alle obiettive possibilità consentite dal progresso raggiunto dalle tecniche operatorie”18. In conclusione, si deve ritenere la riforma Gelli-Bianco inapplicabile alla responsabilità (civile) del chirurgo estetico, con non irrilevanti ripercussioni anche da un punto di vista sistemico. Se infatti l’obiettivo dell’intervento normativo è stato quello di concentrare la responsabilità per danni al paziente e le relative conseguenze in capo alle strutture sanitarie, riducendo le ormai diffuse pratiche di medicina difensiva, ciò non può valere per il chirurgo estetico, la cui responsabilità risulta anzi appesantita nella prospettiva (forse) di richiamarlo all’esercizio della professione in maniera più responsabile.
2.1.1. Segue: e della struttura sanitaria. I profili di responsabilità disciplinare
Ai sensi della legge Gelli-Bianco le strutture sanitarie, che “a qualsiasi titolo” si avvalgano dell’operato degli esercenti la professione sanitaria, vengono chiamate a rispondere ai sensi degli artt. 1218 e 1228 c.c., per responsabilità contrattuale, per le condotte di questi ultimi che abbiano cagionato un danno19. Anche in questo caso la legge interviene a mettere ordine in un panorama giurisprudenziale che non ha mancato di registrare interventi discordanti. Se infatti la giurisprudenza è parsa pressoché unanime nell’affermare il principio secondo cui anche nel caso in cui il paziente si rivolga direttamente al medico, concludendo con questo il contratto di “cura”, vi è, in caso di errore, una corresponsabilità della struttura sanitaria, chiamata a rispondere a titolo contrattuale nei confronti del paziente20, non mancano pronunce di segno contrario che condannano il solo medico21. E progetti di legge che avvalorano questo stesso orientamento22. Per quanto riguarda la giurisprudenza, questa esclude la responsabilità della struttura in ragione dell’esistenza di un contratto di prestazione d’opera professionale stipulato “direttamente con il sanitario” da cui deriverebbe che nessun inadempimento dell’obbligazione avente ad oggetto la prestazione chirurgica può essere imputato alla prima, la cui responsabilità resta circoscritta alle prestazioni accessorie (messa a disposizione di personale, attrezzature ecc.). Né, sotto un secondo profilo, può ritenersi sussistere una responsabilità della struttura per condotta dell’ausiliario in ragione, ancora una volta, del fatto che il sanitario in questione, liberamente scelto dalla pazien-
L’art. 7 recita: “La struttura sanitaria o sociosanitaria pubblica o privata che, nell’adempimento della propria obbligazione, si avvalga dell’opera di esercenti la professione sanitaria, anche se scelti dal paziente e ancorché non dipendenti della struttura stessa, risponde, ai sensi degli articoli 1218 e 1228 del codice civile, delle loro condotte dolose o colpose”. 19
Alpa, Dal medico all’équipe, alla struttura, al sistema, in Alpa (a cura di), La responsabilità sanitaria. Commento alla L. 8 marzo 2017, n. 24, Pisa, 2017, 222. 17
Cass., 25.11.1994, n. 10014, in Nuova giur. civ. comm., 1995, I, 937; Trib. Milano, 28.5.2010, n. 7046. 18
Cass., 14.6.2007, n. 13953; Cass., 3.2.2012, n. 1620; da ultimo, Trib. Milano 2.8.2018. 20
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Cfr. Trib. Verona, 22.6.2017.
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V. Progetto di legge n. 2753 del 16 marzo 2017.
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te, non può dirsi un ausiliario della struttura non avendo questa assunto in proprio l’obbligazione di eseguire l’intervento. I giudici ancora una volta confermano la configurazione contrattuale della responsabilità del professionista escludendo purtuttavia la responsabilità della struttura, in aperto contrasto con il provvedimento normativo. E con il contratto di ospedalità23, dato che l’accoglienza del paziente non può che essere intesa come un sintomo inequivoco del perfezionamento dello stesso che determina l’assunzione in sé dell’integralità della prestazione erogata potendo, semmai, preludere al concorso della responsabilità del singolo professionista intervenuto, non certo al suo riassorbimento in essa24. La pronuncia cui si è fatto cenno deve dirsi certo isolata sebbene idonea a confermare un orientamento che ha trovato approdo nel Progetto di legge n. 2735 del 2017, avente ad oggetto la differenziazione della posizione debitoria del medico non subordinato rispetto a quella della struttura sanitaria. Secondo la proposta, il primo risponde dell’idoneità del trattamento effettuato in relazione agli scopi perseguiti stabiliti con il paziente, nonché della corretta esecuzione dello stesso; la seconda invece delle specifiche obbligazioni che emergono per le attività che le competono. Il complesso delle posizioni debitorie tratteggiato determina la configurazione, in capo al professionista, di doveri contrattuali nei confronti di soggetti diversi: il paziente da un lato ma anche la struttura sanitaria presso cui opera, dall’altro. E se il medico risulta vincolato da un contratto di lavoro subordinato, la responsabilità per errore medico nei confronti del paziente reca inevitabilmente con sé anche una responsabilità disciplinare nei confronti della struttura sanitaria presso cui ope-
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ra che, a seguito del comportamento negligente, imprudente o imperito accertato, subisce un pregiudizio economico, di immagine o anche solo organizzativo. Si tratta di una responsabilità quest’ultima che trova naturale fondamento nel rapporto di lavoro che intercorre tra medico e struttura, che viene raramente presa in considerazione, restando in secondo piano rispetto al ben più annoso problema della responsabilità, dell’uno o di entrambe, nei confronti del danneggiato. La responsabilità disciplinare del sanitario, tranne casi eclatanti, è infatti raramente azionata e la cd. riforma Gelli-Bianco non sembra far altro che consolidare questa tendenza. La struttura sanitaria che intendesse infatti accertare la responsabilità disciplinare del medico si troverebbe a dimostrare la sussistenza di quegli stessi fatti da cui dipende la propria responsabilità nei confronti dell’utente. Il datore di lavoro/struttura sanitaria spesso rinuncia dunque ad avviare un accertamento autonomo della responsabilità disciplinare del medico per non influenzare con elementi probatori ulteriori gli esiti del giudizio civile o penale. La responsabilità disciplinare avrebbe invero possibilità di “riespandersi” al termine del giudizio civile o penale, riservando alla struttura, in caso di condanna, la possibilità di procedere nei confronti del medico sulla base dei fatti accertati in giudizio. Anche in questa fase purtuttavia all’azione disciplinare vengono preferite le azioni di rivalsa ed in materia contabile per i danni economici cagionati25, manifestando il perfezionarsi di una sorta di subsistema normativo di responsabilità del personale medico dipendente26 esclusivamente fondato su logiche e categorie civilistiche27.
Tenore, La responsabilità amministrativo-contabile e disciplinare del personale sanitario, in Manuale di diritto sanitario, Castiello – Tenore (a cura di), Milano, 2012, 126. 25
Cfr. Trib. Treviso, 5.10.2017; Trib. Milano, 29.10.2015, n. 12113. 23
Questa impostazione lascia ai convenuti la discussione in ordine alla distribuzione, concordata in via eventualmente diversa, della responsabilità, cui consegue che la struttura, accertata la responsabilità del singolo professionista, ha diritto di regresso, ex multis, Trib. Milano, 24.6.2010, n. 8333. 24
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Così Zappalà, Il subsistema normativo della responsabilità sanitaria, in Riv. it. dir. lav., 2018, 399 ss. 26
Sul punto, funditus, sia consentito il rinvio a Santini, Responsabilità sanitaria e responsabilità disciplinare dopo la cd. riforma Gelli-Bianco, in corso di pubblicazione per Riv. it. med. legale, 2019, 1. 27
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Obbligazione del chirurgo estetico
2.2. Il superamento della distinzione tra obbligazione di mezzi e obbligazione di risultato Che la legge Gelli-Bianco confermi l’orientamento giurisprudenziale maggioritario, frenando al tempo stesso il processo da tempo avviato di “rivalutazione”, sotto diversi aspetti, delle pratiche di chirurgia estetica, è confermato anche da un’altra disposizione della legge stessa. Se anche non si volesse attribuire rilevanza dirimente, nella definizione della natura della prestazione, alla previsione dell’art. 3, non potrebbe comunque ignorarsi il disposto dell’art. 5. Secondo la norma, l’operatore sanitario deve ritenersi responsabile in via extracontrattuale per qualunque fatto “doloso o colposo che cagiona ad altri un danno ingiusto”, con il che dovrebbe dirsi dunque ininfluente la natura dell’obbligazione dell’agente, sia essa di mezzi o di risultato. Purtuttavia, il legislatore effettua subito dopo un passo indietro, precisando che la previsione vale salvo che questi (il sanitario) abbia agito “nell’esecuzione delle prestazioni sanitarie con finalità preventive, diagnostiche, terapeutiche, palliative, riabilitative e di medicina legale, […] salve le specificità del caso concreto, [attenendosi] alle raccomandazioni previste dalle linee guida pubblicate […] in mancanza […] alle buone pratiche socio-assistenziali”. La disposizione, in altre parole, torna ad attribuire rilevanza giuridica alla modalità di esercizio della professione svolta, identificando nel rispetto delle “raccomandazioni previste dalle linee guida” e “in mancanza […] dalle buone pratiche” i limiti entro i quali è comunque esclusa la colpa aquiliana nell’esecuzione della prestazione. L’esonero di responsabilità è però prevista solo per le prestazioni che abbiano finalità “preventive, diagnostiche, terapeutiche, palliative, riabilitative e di medicina legale”. È di immediata evidenza come la finalità estetica non sia espressamente prevista tra quelle che consentono al chirurgo di invocare la mancanza della colpa prevista dall’art. 2043 c.c. con la conseguenza di escludere che in quel contesto il mero rispetto delle buone pratiche e linee guida possa esonerare da qualsiasi responsabilità per danni eventualmente occorsi al paziente. Viene
in altri termini confermato che la prestazione di chirurgia estetica comporta sempre nella sostanza un obbligo di risultato. Come si è detto in precedenza, la chirurgia estetica non è “riparativa” perché non è finalizzata a ricostruire una condizione somatica deteriorata a causa di infortuni di vario genere e non è “ricostruttiva” nel senso di finalizzata a correggere difetti naturali pregiudizievoli per una persona. La prestazione del chirurgo plastico è “estetica” o “correttiva”, nella prevalenza dei casi. La si vorrebbe ripensare come “ricostruttiva-riparativa”, quindi “terapeutica”, ed il dibattito in materia è acceso28, o anche “terapeutica” come idonea a “lenire le sofferenze” della psiche dell’individuo che, se vive un disagio psicologico, è opportuno ricorra agli aggiustamenti estetici per guarire29. Nel dipanarsi del dibattito, il legislatore ci consegna indicazioni precise, secondo cui la chirurgia estetica deve ritenersi (confermata) come una prestazione di natura contrattuale, avente ad oggetto una obbligazione di risultato. Viene dunque sorpassato l’orientamento che a lungo ha qualificato la prestazione come obbligazioni di mezzi, al pari di qualsiasi altra prestazione intellettuale, ma anche ignorato il travolgimento della distinzione operata con la sentenza delle Sezioni Unite del 28 luglio 2005, n. 1578130,
Cass., 3.12.1997, n. 12253; Cass., 8.4.1997, n. 3046; Trib. Firenze, 11.2.2015; Trib. Bari, 23.5.2011, n. 1780. In dottrina cfr. i contributi in Aa.Vv., Chirurgia plastica ricostruttiva e chirurgia estetica. Aspetti etici, giuridici e medico legali, Milano, 1988. 28
V. Disegno di legge n. 2753 del 16 marzo 2017 recante “Disposizioni in materia di chirurgia estetica” che ancora una volta, nell’affermare la chirurgia estetica come una disciplina medica, la identifica in un “insieme di tecniche chirurgiche” finalizzate alla “costruzione o [al] ripristino dell’equilibrio psico-fisico dell’individuo, che vive con disagio la propria vita per un inestetismo mal accettato e del raggiungimento e mantenimento della salute come espressione di benessere”. Resterebbe comunque chirurgia distinta dalla chirurgia funzionale in quanto non rappresenta la cura di una malattia o patologia. 29
Secondo questa pronuncia, l’impostazione dicotomica “non è immune da profili problematici, specialmente se applicata proprio alle ipotesi di prestazione intellettuale, in considerazione della struttura stessa del rapporto obbligatorio e tenendo conto, altresì, che un risultato è dovuto in tutte 30
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poi ripresa proprio nell’ambito della responsabilità medica con la sentenza sempre delle Sezioni Unite dell’11 gennaio 2008, n. 57731. Si continua a fare riferimento alla tradizionale dicotomia per definire la responsabilità del chirurgo estetico anche perché la progressiva configurazione di una responsabilità “paraoggettiva o quantomeno aggravata”32 del chirurgo, come si spiegherà a breve, non muta sostanzialmente la conclusione. 2.2.1. Le ricadute sulla misura della “diligenza” richiesta nell’esecuzione della prestazione
Il temuto aggravamento della posizione debitoria del sanitario dovuto alla qualificazione della obbligazione come di risultato, si riflette, in senso diametralmente opposto, sul profilo disciplinare. Secondo le regole generali, nei confronti dei professionisti tenuti ad una obbligazione di mezzi, devono ritenersi operare le regole generali secondo cui l’adempimento non può desumersi ipso facto dal mancato raggiungimento del risultato utile avuto di mira dal cliente, ma alla stregua dei doveri inerenti lo svolgimento dell’attività professionale, ed in particolare del rispetto del dovere di diligenza, in relazione alla natura della prestazione dovuta33. Ciò anche qualora il professionista/medico chirurgo non sia inserito stabilmen-
le obbligazioni. In realtà, in ogni obbligazione si richiede la compresenza sia del comportamento del debitore che del risultato, anche se in proporzione variabile, sicché molti autori criticano la distinzione poiché in ciascuna obbligazione assumono rilievo così il risultato pratico da raggiungere attraverso il vincolo, come l’impegno che il debitore deve porre per ottenerlo”. La pronuncia è stata riccamente commentata, cfr. la nota bibliografica di Corso, La responsabilità del chirurgo estetico tra salute e bellezza, in questa Rivista, 2018, 411, nt. 14. 31
La definizione è stata coniata dalla Cassazione con la sentenza 19.5.2004, n. 9471 e vi si ritornerà ampiamente infra. 32
Così Cass., 8.8.2000, n. 10431. La configurazione della obbligazione del sanitario tra quelle di mezzi può leggersi come il tentativo di alleggerire l’onere probatorio in capo al danneggiato in quanto la prova del risultato non conseguito non solo può ritenersi più gravosa ma, soprattutto, non è spesso indizio di colpa professionale, non essendo trascurabile la rilevanza del caso fortuito nella specifica attività professionale e una serie di variabili non controllabili e di non facile accertamento nella loro specifica funzione causale. 33
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te in struttura, in quanto ai sensi dell’art. 1228 c.c. “salva diversa volontà delle parti, il debitore che nell’adempimento dell’obbligazione si avvale dell’opera di terzi, risponde anche dei fatti dolosi o colposi di costoro”, con conseguente azione di regresso. Con il che, il medico nella esecuzione della prestazione deve ritenersi tenuto “ad una diligenza che non è solo quella del buon padre di famiglia ex art. 1176, comma 1°, c.c., ma è quella specifica del debitore qualificato come prescritto dal secondo comma, la quale comporta il rispetto di tutte le regole e gli accorgimenti che nel loro insieme costituiscono la conoscenza della professione medica, ivi compreso l’obbligo di sorveglianza sulla salute del soggetto operato anche nella fase post-operatoria”34. Pur trattandosi di una diligenza “qualificata”, quella di cui al comma 2° dell’art. 1176, non è però sempre la medesima, ma varia col variare del grado di specializzazione di cui sia in possesso il medico e del grado di efficienza della struttura in cui si trova ad operare. Dal medico di alta specializzazione ed inserito in una struttura di eccellenza è esigibile una diligenza più elevata di quella esigibile, dinanzi al medesimo caso clinico, da parte del medico con minore specializzazione od inserito in una struttura meno avanzata35. Il rinvio alla misura della diligenza come misura della prestazione di mezzi non può che configurare dunque una posizione debitoria ampia del medico nei confronti della struttura che può valutare l’errore medico anche in caso di colpa lieve, in mancanza di danno provocato agli utenti o alla struttura, al solo fine di assicurare il rispetto della disciplina aziendale posta a presidio dell’interesse organizzativo – produttivo. Tutti profili questi che risulterebbero al contrario assorbibili dal raggiungimento del risultato, inteso come obiettivo della prestazione professionale. Si ricordi purtuttavia che, proprio con il fine di oggettivare il criterio generale astratto della diligenza richiesta, s’inserisce ancora una volta, la
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Cass., 11.3.2002, n. 3492.
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Cass., 9.10. 2012, n. 17143.
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legge Gelli-Bianco, che attribuisce un particolare rilievo al rispetto di linee guida e buone pratiche assistenziali, come misura della perizia richiesta all’esercente la professione sanitaria36. In prospettiva lavoristica, la cristallizzazione in modelli di comportamento oggettivati della gestione dell’atto medico, se da una parte riduce l’ambito di esercizio del potere direttivo tipico del datore di lavoro, dall’altro consentirebbe, o almeno dovrebbe consentire, maggiori spazi per l’accertamento delle responsabilità disciplinari. La previsione non ha mancato di generare un acceso dibattito, implicando, in altre parole, che la violazione delle linee guida dovrebbe dirsi sufficiente per l’accertamento delle responsabilità (anche disciplinari) dei diversi operatori; ed, al contrario, il rispetto dovrebbe dirsi sufficiente per escludere qualsiasi responsabilità dell’operatore.
3. La centralizzazione dell’obbligo di informazione e la (ri)definizione di una responsabilità (di risultato) aggravata A valle di quanto finora sostenuto, continuare ad interrogarsi sulla natura dell’obbligazione del chirurgo estetico si ritiene oggi operazione fine a sé stessa, si potrebbe dire financo anacronistica. La fondatezza dell’assunto risulta ancor più solida se la si argomenta dal punto di vista probatorio. Si è detto che secondo le regole generali, conformemente alla sua assimilabilità alle prestazioni intellettuali, la prestazione medica è stata a lungo qualificata come una obbligazione di mezzi. Con
Art. 5, l. n. 24/2017: “Gli esercenti le professioni sanitarie, nell’esecuzione delle prestazioni sanitarie con finalità preventive, diagnostiche, terapeutiche, palliative, riabilitative e di medicina legale, si attengono, salve le specificità del caso concreto, alle raccomandazioni previste dalle linee guida pubblicate ai sensi del comma 3 ed elaborate da enti e istituzioni pubblici e privati nonché dalle società scientifiche e dalle associazioni tecnico-scientifiche delle professioni sanitarie iscritte in apposito elenco istituito e regolamentato con decreto del Ministro della salute, da emanare entro novanta giorni dalla data di entrata in vigore della presente legge, e da aggiornare con cadenza biennale. In mancanza delle suddette raccomandazioni, gli esercenti le professioni sanitarie si attengono alle buone pratiche clinico-assistenziali”.
la conseguenza che il creditore della prestazione, in caso di danno, era tenuto a provare l’inesatto adempimento e di conseguenza l’assenza di diligenza del sanitario nell’esecuzione della operazione. Questo ha continuato a valere, sebbene solo per la chirurgia generale37. Per quanto riguarda la chirurgia estetica, un’opera di manipolazione, sotto più aspetti, è infatti sfociata ben presto nella riconduzione della obbligazione stessa entro quella di risultato, anche per il tramite di una serie di aggiustamenti progressivi del regime probatorio che grava sul paziente danneggiato. In un primo momento viene temperato l’onere della prova con la previsione di una presunzione semplice di non diligenza nell’adempimento in caso di interventi operatori di routine o comunque di non difficile esecuzione. In questo caso si è richiesta al paziente la mera dimostrazione “dell’aggravamento della sua situazione patologica o l’insorgenza di nuove patologie” idonea a “fondare una presunzione semplice in ordine alla inadeguata o negligente prestazione, spettando all’obbligato fornire la prova che la prestazione professionale sia stata eseguita in modo diligente e che gli esiti peggiorativi sono stati determinati da un evento imprevisto e imprevedibile”38. Così ragionando la colpa del professionista veniva fatta derivare direttamente dall’esito negativo dell’intervento; esito che entrato a far parte dell’elemento causale del contratto e dunque dell’obbligazione di risultato richiesta al sanita-
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Nonostante la chirurgia ordinaria e quella estetica, operando sul corpo umano, abbiano pur sempre in comune elementi di incertezza e di aleatorietà, soggetti al progredire della scienza con la possibile insorgenza di complicanze e reazioni. Verso una completa assimilazione della chirurgia estetica e quella ordinaria, Ronchi, Né obbligo di risultato né dovere di più ampia informazione al paziente da parte del chirurgo estetico, in Resp. civ. prev., 1998, 851; Princigalli, Chirurgia estetica e responsabilità civile, in Foro it., 1986, I, 121; Quadri, Profili contrattuali e responsabilità civile nell’attività del chirurgo plastico, in Dir. e giur., 1987, 761. 37
Cass., 21.12.1978, n. 6141; Cass., 16.11.1988, n. 6220; Cass., 11.3.2002, n. 3492. 38
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rio39, profilo di cui si è già ampiamente detto, ne dimostrava l’inadempimento. Ben presto la distinzione tra interventi operatori di routine e caratterizzati da problemi tecnici di particolare difficoltà cessa di rilevare quale criterio di distribuzione dell’onere della prova per divenire criterio generale di valutazione del grado di diligenza richiesto nella prestazione, gravando il sanitario dell’obbligo di dimostrare la particolare difficoltà dell’intervento40. Si afferma così un primo superamento della distinzione tra obbligazione di mezzi e di risultato, in un contesto in cui la stessa giurisprudenza andava progressivamente superando la dicotomia. Non si fa però in questo momento tanto riferimento alle perplessità suscitate dalla distinzione che, radicate nella sentenza delle Sezioni Unite n. 15781 del 2005, ne hanno, almeno formalmente, indotto l’abbandono. La pronuncia ravvisava infatti come “un risultato è dovuto in tutte le obbligazioni” in quanto “in ogni obbligazione si richiede la compresenza sia del comportamento del debitore che del risultato […]” cosicché in ciascuna obbligazione “assumono rilievo così il risultato pratico da raggiungere attraverso il vincolo come l’impegno che il debitore deve porre per ottenerlo”. Ci si riferisce piuttosto al fatto che contestualmente l’obbligazione di mezzi, oggetto della prestazione del professionista, subisce da parte degli stessi giudici una manipolazione atta a trasformarla in una “obbligazione paraoggettiva o quantomeno tale da assumere una dimensione aggravata”. “[…] Attraverso l’individuazione di doveri di informazione e di avviso […] definiti accessori ma integrativi rispetto all’obbligo primario della prestazione, ed ancorati a principi di buona fede, quali obblighi di protezione” i giudici arricchiscono la responsabilità contrattuale del professionista di prestazioni ritenute indispensabili per il corret-
Trib. Milano, 29.10.2015, n. 12113; Trib. Milano, 26.2.2015, n. 2612; Trib. Bari, 4.9.2018, n. 3690; Trib. Bari, 19.2.2018, n. 753; Trib. Milano, 24.7.2017, n. 8243; Trib. Modena, 16.6.2011, n. 1026. 39
Cass., 28.5.2004, n. 10297; Cass., 19.4.2006, n. 9085; Cass., 14.2.2008, n. 3520; Cass., 26.1.2010, n. 1538; Cass., 12.9.2013, n. 20904; Cass., 20.10.2015, n. 21177.
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to adempimento della prestazione professionale in senso proprio. L’identificazione di una responsabilità paraoggettiva o aggravata non allontana invero la giurisprudenza dal proprio consolidato orientamento: se il medico non ha raggiunto il risultato scatta con immediatezza la responsabilità presunta o paraoggettiva, per difetto di diligenza. In altre parole, l’inadempimento di una obbligazione di risultato. La tendenza muove invero dalla sentenza dell’8 aprile 1997, n. 3046, che ha ad oggetto specificamente la responsabilità professionale del medico, si consolida nella sentenza delle Sezioni Unite n. 15781 del 2005 e viene infine cristallizzata per la prestazione medica in generale con la sentenza sempre delle Sezioni Unite dell’11 gennaio 2008, n. 577. Al professionista in generale, ed al chirurgo nello specifico, viene chiesto ora dai giudici di indirizzare il “paziente” verso l’effettiva utilità dell’intervento, rispettandone le scelte nel senso di assecondarle e guidarle con competenza ed onestà. Ciò determina che al fine della valutazione dell’adempimento della prestazione nel suo complesso diviene cruciale l’ottenimento del consenso informato del paziente sulla scorta di una corretta informativa. Il paziente non vedrebbe in questo senso limitata la sua autonomia, rimanendo libero di decidere se intervenire oppure continuare a vivere con il proprio disagio, a fronte però di una rappresentazione tecnica di rischi e vantaggi puntuale operata dal chirurgo. Di qui, la configurazione in capo al chirurgo, sulla base della riconosciuta necessarietà dell’intervento, di appurare, con gli strumenti che ha a disposizione, la possibile buona riuscita dell’operazione, la effettiva possibilità di una pronta guarigione ovvero la sua inutilità chirurgica, intesa come inadeguatezza degli strumenti rispetto alle attese del paziente41. Con il che, parrebbe perdere qualsiasi ulteriore significato anche la distinzione tra medico chirurgo
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Cass., 24.10.2007, n. 22327 e Cass., 6.10.1997, n. 9705.
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ordinario ed estetico, in relazione alla natura della obbligazione assunta42. La regola generale, ancora una volta, viene purtuttavia rimodellata per il caso in cui debba applicarsi alla prestazione di quest’ultimo, permeando l’informazione il contenuto dell’obbligazione del chirurgo estetico43. In caso di chirurgia plastica infatti il chirurgo assolverebbe i propri obblighi ove renda edotto il paziente di quegli eventuali esiti che potrebbero rendere vana l’operazione non comportando un effettivo miglioramento rispetto alla situazione preesistente; in caso di chirurgia estetica, il medico deve prospettare realisticamente le possibilità di ottenimento del risultato perseguito44. Ne consegue un radicale ribaltamento di valori. La corretta esecuzione dell’intervento acquisisce ora un peso del tutto relativo rispetto al dovere di informazione. La giurisprudenza è infatti arrivata a stabilire che “quando ad un intervento di chirurgia estetica consegua un inestetismo più grave di quello che si mirava ad eliminare o ad attenuare, all’accertamento che di tale possibile esito il paziente non era stato compiutamente e scrupolosamente informato consegue ordinariamente la responsabilità del medico per il danno derivante, quand’anche l’intervento sia stato correttamente eseguito”. Con la precisazione – proseguono i giudici – che “la particolarità del risultato perseguito dal paziente e la sua normale non declinabilità in termini di tutela della salute consentono infatti di presumere che il consenso non sarebbe stato prestato se l’informazione fosse stata offerta e rendono pertanto superfluo l’accertamento (necessario quando l’intervento sia volto alla tutela della salute e la stessa risulti pregiudicata da un intervento pur necessario e correttamente eseguito) sulle determinazioni cui il paziente sarebbe
42
Cass., 25.11.1994, n. 10014, in Foro.it, 1995, I, 2914.
43
Cfr. Trib. Torre Annunziata, 14.5.2018.
Cass., 8.4.1997, n. 3046, in Foro it., 1997, I, 1801. Cfr. Cittarella, Obblighi di informazione e responsabilità del chirurgo plastico, in Resp. civ. prev., 1998, 677. 44
addivenuto se dei possibili rischi fosse stato informato”45. Seppure non si possano non menzionare pareri difformi, si è dunque giunti al consolidamento di un orientamento secondo cui l’informazione in caso di chirurgia estetica deve essere “particolarmente pregnante”46 poiché strettamente correlata alla possibilità del paziente di “conseguire un effettivo miglioramento dell’aspetto fisico che si ripercuota positivamente sulla sua vita professionale o di relazione”47. Proprio dunque in considerazione delle caratteristiche dell’intervento estetico non necessario, ancora più forte è avvertita la necessità di una informazione puntuale, completa e capillare, che sia realmente funzionale alla delicata scelta del paziente: se rifiutare l’intervento o accettarlo correndo il rischio del peggioramento delle sue condizioni estetiche48. In questa prospettiva, il sanitario che arbitrariamente scegliesse di non rappresentare certi rischi specifici, limiterebbe l’esercizio del paziente del proprio diritto di autodeterminarsi rendendo l’atto medico “sicuramente illecito, anche quando è nell’interesse del paziente, e questo perché la pratica del consenso libero e informato rappresenta una forma di rispetto per la libertà dell’individuo
Cfr. Corte Cost., 23.12.2008, n. 438; Cass., 28.7.2011, n. 16543; Cass., 27.11.2012, n. 20984; Cass., 6.6.2014, n. 12830; Trib. Bari, 19.2.2018, n. 753; App. Bologna, 24.3.2015, n. 593. 45
Cass., 6.6.2014, n. 12830, secondo cui “Può parlarsi nella maggioranza dei casi di interventi non necessari che mirano all’eliminazione di inestetismi e che, come tali, devono essere oggetto di un’informazione puntuale e dettagliata in ordine ai concreti effetti migliorativi del trattamento proposto […] le caratteristiche e le finalità del trattamento medico-estetico impongono un’informazione completa proprio in ordine all’effettivo conseguimento del miglioramento fisico e – per converso – ai rischi di possibili peggioramenti della condizione estetica. La necessità di una informazione puntuale, completa e capillare è funzionale alla delicata scelta del paziente: se rifiutare l’intervento o accettarlo correndo il rischio del peggioramento delle sue condizioni estetiche. È questa la fondamentale caratteristica dell’intervento estetico non necessario”. 46
Cass., 6.10.1997, n. 9705, ma anche Cass., 8.8.1985, n. 4394. 47
48
Cass., 6.6.2014, n. 12830.
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e un mezzo per il perseguimento dei suoi migliori interessi”49. Concludendo, la necessità di ricondurre la chirurgia estetica alle obbligazioni di risultato intendeva far fronte a quelle ipotesi in cui un intervento pur andato a buon fine, tecnicamente ben eseguito, non poteva dirsi rispondente ai risultati attesi dal paziente, che finiva in tal senso per trovarsi però privo di qualsiasi tutela. O, come esplicitato in alcune pronunce, quale utile deterrente, quale valida conseguenza punitiva50 nei confronti dei comportamenti scorretti dei sanitari che inducevano i propri pazienti a sottoporsi ad interventi non necessari solo per mero interesse economico “senza ammonirli prima riguardo al possibile non raggiungimento finale di soddisfacenti risultati sperati (e richiesti) ovvero rispetto all’inutilità medica dell’intervento stesso”51. L’analisi dell’evoluzione giurisprudenziale dimostra come, nell’alternativa, una estrema rigidità è stata assunta in particolare verso la malpractice medica rendendo dunque gli obiettivi deflattivi del contenzioso prevalenti su quelli di tutela degli interessi del paziente.
Il consenso informato non costituisce più dunque una scriminante dell’attività medico chirurgica che si autogiustifica in funzione della sua utilità sociale, ma attiene al piano dei diritti della personalità, quale è quello della autodeterminazione. Cfr. Cass., 28.6.2018, n. 17022; Cass., 13.2.2015, n. 2854; Cass., 16.10.2007, n. 21748; Cass., 6.10.1997, n. 9605, Trib. Venezia, 4.10.2004. Contra, Cass. pen., 21.4.1992, n.5639. 49
In questo senso, Barale, La responsabilità del chirurgo estetico, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 2005, 1364. 50
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Trib. Roma, 5.10.1996; Trib. Trieste, 14.4.1994.
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Saggi e pareri
i Saggi Saggi ee pareri pareri agg s rer e a Parole: esplicite, implicite ed p escluse nel linguaggio della l. 219/2017 Luigi Gaudino
Professore nell’Università di Udine Sommario: 1. Parole nuove e parole “usate”. – 2. La legge 219/2017: gli obiettivi. – 3. L. 219/2017: decidere per l’oggi. – 4. L. 219/2017: decidere per il domani, con la consapevolezza di una situazione in atto. – 5. L. 219/2017: decidere per il domani, per il timore di ciò che potrebbe accadere. – 6. I silenzi della legge (e qualche parola di troppo). – 7. Abbiamo una legge; la conosciamo a fondo. E ora?
Abstract: La 219/2017 non è solo una legge sul fine vita, né un testo che si limita a confermare quanto già acquisito in virtù dell’attività di dottrina e giurisprudenza. È una legge che consente di fare cose buone, incidendo profondamente sulle relazioni in ambito sanitario. Occorre, a tal fine, uno sforzo per riconoscere la ricchezza di significato dei termini nuovi, presenti nella legge, così come il nuovo e diverso senso che anche i termini già noti assumono all’interno del nuovo contesto; dando altresì valore a quanto, volutamente, è invece assente dal lessico della nuova normativa. Una legge oggetto di molte e profonde analisi eppure generalmente poco conosciuta e ancora meno applicata. È tempo che tutti si impegnino, ciascuno nel proprio ruolo, in uno sforzo operativo volto a rimuovere gli ostacoli che impediscono la realizzazione al molto di buono che v’è in questa legge. The l. 219/2017 is not just an Act regarding “end of life” issues, nor a text that merely confirms rules already known, by virtue of scholars’ and judges’ activity. It is an Act that allows to do good things, deeply affecting relationships in all the health sector. To this end, an effort is needed to recognize the richness of meaning of the new terms, adopted in this law, as well as the new
and different meaning that “old” words acquire in the new context; giving also value to what is deliberately absent from the lexicon of the new legislation. An Act deeply studied and analysed, yet generally little known and even less applied. It is time for everyone to commit, each in their own role, in an operational effort aimed at removing the obstacles that prevent the realization of all the good that is in this Act.
1. Parole nuove e parole “usate” Negli ultimi anni il dialogo tra il mondo del diritto e quello della salute è andato infittendosi e arricchendosi. La discussione – spesso sull’onda di una casistica mediaticamente “interessante”1 – è passata dalle aule dei tribunali alle pagine della cronaca, ai vo-
Merita sempre ricordare i nomi delle persone le cui vicende hanno imposto la riflessione su questi temi: Eluana Englaro, Piergiorgio Welby, Giovanni Nuvoli, Walter Piludu e, più di recente, Fabiano Antoniani (DJ Fabo). 1
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lumi degli studiosi e, infine, ai provvedimenti del legislatore2. In questi anni, la Gazzetta Ufficiale ci ha consegnato tre normative di grande rilevanza: a) l. 15 marzo 2010, n. 38, “Disposizioni per garantire l’accesso alle cure palliative e alla terapia del dolore”; b) l. 8 marzo 2017, n. 24, “Disposizioni in materia di sicurezza delle cure e della persona assistita, nonché in materia di responsabilità professionale degli esercenti le professioni sanitarie”; c) l. 22 dicembre 2017, n. 219, “Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento”3. Una rapida e sommaria cernita dei termini che appaiono maggiormente significativi, tra quelli che compaiono nelle tre leggi sopra citate, ci offre questo risultato: aggiornamento – alleviare – appropriatezza – assistenza psicologica – autodeterminazione – autonomia – buone pratiche – capacità effettive di comprensione/decisione (minori/incapaci) – competenza, autonomia professionale, responsabilità del medico – comunicazione – consenso libero e informato – continuità assistenziale – dignità – disposizioni anticipate di trattamento – équipe – equità – fiducia – fiduciario – formazione – inesigibilità (di trattamenti contrari a legge, deontologia, buone pratiche clinico-assistenziali) – informazione (comprensibile; adeguata) – linee guida – non discriminazione – organizzazione – ostinazione irragionevole – pianificazione condivisa delle cure – prevenzione/ gestione del rischio – programma di cura individuale – qualità (delle cure; della vita fino al suo termine) – relazione (di cura e fiducia) – responsabilità – revocare – rifiutare – rispetto – sedazio-
Una discussione segnata, come rilevato [Casalone, Diritto sulla vita e valore della vita. Prospettiva etico-teologica, a cura di Verduci, Il diritto sulla vita, Pisa, 2018, 53 s.] da una logica dello scontro e della contrapposizione che ha ridotto gli spazi di dialogo. 2
Gli intrecci e la necessità di coordinamento fra le ultime due normative sono oggetto dell’indagine di Salanitro, Il consenso, attuale o anticipato, nel prisma della responsabilità medica, in Nuove leggi civ. comm., 2019, 67 ss.; nonché delle considerazioni di Pucella, La relazione di fiducia tra medico e paziente, in questa Rivista, 2019, 75 ss. 3
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Saggi e pareri
ne palliativa profonda continua – sicurezza delle cure – sostegno – trasparenza – vita. Ovviamente l’elenco, pur ricco, di per sé non ci dice molto. Le parole assumono significato all’interno del contesto in cui vengono utilizzate. In questo senso è possibile constatare come, nell’ultimo decennio, parole nuove siano entrate a far parte del nostro armamentario; termini già usuali abbiano riacquistato vitalità e senso; formule già digerite abbiano assunto – inserite in un nuovo contesto – un significato originale. Ma è altresì possibile – forse doveroso – spingersi oltre, evidenziando come anche parole non pronunciate (o non scritte) abbiano conquistato cittadinanza nel nostro discorso, poiché evocate implicitamente nel momento stesso in cui si dichiarano gli obiettivi da perseguire e si tratteggiano le modalità e gli strumenti volti a realizzarli4.
2. La legge 219/2017: gli obiettivi Delle tre leggi sopra citate la l. n. 219/20175 è senz’altro – al di là delle critiche che, con diver-
Utili, con riguardo a questi profili, le considerazioni di Pescatore, Appunti di analisi linguistica per l’uso della legge 22 dicembre 2017, n. 219, in BioLaw Journal-Rivista di BioDiritto, 2018, 217 ss. Per un’indagine molto serrata (e critica) del lessico utilizzato dal legislatore: Cavicchi. Le disavventure del consenso informato. Riflessioni a margine della legge sul consenso informato e sulle disposizioni anticipate di trattamento, in Forum. La legge n. 219 del 2017, Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento, in Biolaw Journal-Rivista di BioDiritto, 2018, 91 ss. 4
I passaggi che hanno condotto alla sua approvazione sono ricostruiti da Mantovani, Relazione di cura e disposizioni anticipate di trattamento, in Nuove leggi civ. comm., 2019, 188 ss., nonché in Mainardi (a cura di), Testamento biologico e consenso informato. Legge 22 dicembre 2017, n. 219, Torino, 2018, 43 ss. I commenti – tanto individuali quanto a più voci – sono ormai numerosi; in particolare: Atti del Convegno “Un nuovo diritto per la relazione di cura? Dopo la legge n. 219/2017”, in questa Rivista, 2019; Commento, in Nuove leggi civ. comm., 2019; Forum. La legge n. 219 del 2017, Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento, in Biolaw Journal-Rivista di BioDiritto, 2018, 11; Speciale riforma, in Il civilista, 2018; Focus, Riflessioni interdisciplinari sulla legge n. 219/2017, in Riv. it. med. leg., 2018, 931 ss.; Questioni di fine vita, in Giurisprudenza Penale Web, 2019, 1-bis; Baldini, Prime riflessioni a margine della legge n. 219/17, in Biolaw Journal-Rivista di BioDiritto, 5
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Il linguaggio della l. 219/2017
sità d’accenti, non sono mancante6 – la più innovativa7; e lo è soprattutto per l’approccio del
2018, 97 ss.; De Filippis, Biotestamento e fine vita – Nuove regole nel rapporto medico paziente: informazioni, diritti, autodeterminazione, Milano, 2018; Di Pentima, Il consenso informato e le disposizioni anticipate di trattamento-Commento alla l. n. 219/2017, Milano, 2018; Ferrando, Rapporto di cura e disposizioni anticipate nella recente legge, in Riv. crit. dir. priv., 2018, 43 ss.; Foglia (a cura di), La relazione di cura dopo la l. 219/2017, Pisa, 2019; Travia, Biotestamento e fine vita. Legge 22 dicembre 2017, n. 219, Milano, 2018; Triberti e Castellani, Libera scelta sul fine vita. Il testamento biologico. Commento alla Legge n. 219/2017 in materia di consenso informato e disposizioni anticipate di trattamento, Firenze, 2018; Verduci (a cura di), Il diritto sulla vita, Pisa, 2018. Per qualche prospettiva (variamente) critica: Azzoni, Una legge formalmente (semanticamente) inutile e sostanzialmente (pragmaticamente) pericolosa, in Newsletter OLIR.it, 2018, consultabile all’indirizzo: www.olir.it; Bertolone, Testamento, orientamento, dichiarazioni... non soltanto etichette – Alcune prospettive di un Pastore della Chiesa Cattolica, in Vita not., 2018, 133 ss.; Bilotti, L’efficacia delle disposizioni anticipate di trattamento, a cura di Verduci, op. cit., 87 ss.; Cavicchi, op. cit., 91 ss.; Carusi, Disposizioni anticipate di trattamento – La legge “sul biotestamento”: una luce e molte ombre, in Corr. giur., 2018, 293 (“una legge dai pregi minimali”); Casella et al., La tutela giuridica delle persone affette da malattie progressivamente invalidanti anche alla luce della legge n. 219/2017, in Riv. it. med. leg., 2018, 143 ss.; Casalone, op. cit., 48 s.; D’Agostino, Come leggere la legge 219, in Forum. La legge n. 219 del 2017, cit., 15 ss. (preoccupato, al di là delle singole disposizioni della legge, per il nuovo paradigma bioetico: individualistico, funzionalistico, economicistico, eticamente freddo); Eusebi, Decisioni sui trattamenti sanitari o «diritto di morire»? I problemi interpretativi che investono la legge n. 219/2017 e la lettura del suo testo nell’ordinanza di rimessione alla corte costituzionale dell’art. 580 c.p., in Riv. it. med. leg., 2018, 415 ss.; Felis, Gli atti di disposizione del proprio corpo e Dat - Testamento biologico - Limiti e condizioni, in Vita not., 2018, 145 ss.; Liberali, Prime osservazioni sulla legge sul consenso informato e sulle DAT: quali rischi derivanti dalla prassi applicativa?, in Rivista di diritti comparati, 2018, 268, consultabile all’indirizzo: www. diritticomparati.it, sottolinea alcuni aspetti problematici del testo, che potrebbero determinare lo svuotamento dei diritti proclamati dalla legge; Pizzimenti, Il diritto di conoscere o di non conoscere il proprio stato di salute: modalità e contenuto dell’informazione, in Nuove leggi civ. comm., 2019, 67 (sottolinea una serie di lacune nell’elencazione degli obblighi informativi operata dal legislatore); Rocchi, Le nuove norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento, in La Magistratura, 2018, 169 ss. (legge “gravemente incongrua e palesemente incostituzionale”). 6
Anche il termine “rivoluzione” è comparso nella prosa di alcuni autori [Orsi, Un cambiamento radicale nella relazione 7
legislatore che ha scelto di redigere un testo che, più che obbligare/vietare determinati comportamenti8, consente di fare cose; e consente di fare cose giuste9, utili, buone10 (anche se obblighi e divieti non mancano)11. L’atmosfera – come da tutti sottolineato – è quella di un diritto attento ai principî: un diritto mite12, un diritto gentile13. La l. n. 219/2017 dichiara, all’art. 1, i suoi obiettivi: tutelare vita, salute, dignità, autodeterminazione. Appare chiara, anzitutto, dall’intero impianto della legge, come il riflettore illumini la vita “biografica” e non quella meramente “biologica”; la persona
di cura, quasi una rivoluzione (articolo 1, commi 2 e 3), in Forum. La legge n. 219 del 2017, cit., 26; Milone, Dal living will del 1997 alla legge 22 dicembre 2017, n. 219, con nota finale sul dovere di morire, in Vita not., 2018, 1397]. Il testo “ricerca l’accordo e la sintesi tra gli interessi coinvolti nelle vicende, piuttosto che l’affermazione degli uni sugli altri; disegna il perimetro di esercizio dei diritti evitando di pre-definire contenuti inderogabili e sanzioni” [Baldini, La pianificazione condivisa delle cure: prime riflessioni a margine della l. 219/2017, a cura di Foglia, La relazione di cura, cit., 131]. 8
Forni, Scelte giuste, anche alla fine della vita: analisi etico-giuridica della legge n. 219/2017, in Giurisprudenza penale web, 2019, 1-bis, 20 ss. 9
Canestrari, Una buona legge buona (DDL recante “norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento), in Riv. it. med. leg., 2017, 975. 10
Rileva Zatti, Cultura della relazione e linguaggi normativi, in questa Rivista, 2019, 34: “Il linguaggio normativo si apre a contaminazioni di tipo etico, deontologico, scientifico; e si avvicina fortemente a quello proprio alle linee-guida professionali”. Testo normativo denso, ponderato ed equilibrato, che valorizza l’autodeterminazione del paziente senza oscurare né immiserire la figura del medico, secondo Mantovani, op. cit., 192. “La forza di questa normativa, difatti, risiede tutta in un messaggio in primis valoriale, all’indirizzo dei medici (come si fa la Medicina) e dei giudici (ciò che si può, che si deve fare: la concretizzazione stessa della condotta diligente), nonché all’indirizzo, infine, dei pazienti stessi, in termini di acquisizione di consapevolezza ed assunzione delle relative responsabilità decisionali” (Cacace, La nuova legge in materia di consenso informato e DAT; a proposito di volontà e di cura, di fiducia e di comunicazione, in Riv. it. med. leg,, 2018, 937). 11
Zagrebelsky, Il diritto mite, Torino, 1992, passim, e spec. 149 ss.; 212 ss. 12
Zatti, Per un diritto gentile in medicina. Una proposta di idee in forma normativa, in Nuova giur. civ. comm., 2013, II, 4 ss. (si veda anche il sito: www.undirittogentile.wordpress. com). 13
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prima che il suo corpo14. La stessa l. n. 38/2010, art. 1, comma 3°, lett. b), segna d’altronde una via, quando indica come principio fondamentale la “tutela e promozione della qualità della vita” fino al suo termine. Inevitabile, per riempire di senso queste dichiarazioni, l’intreccio con le parole “dignità” e “autodeterminazione/autonomia” (che troviamo in entrambe le leggi). Ciò viene confermato quando si affronta il termine “salute”; è ormai assodato, infatti, che: “Health is a state of complete physical, mental and social well-being and not merely the absence of disease or infirmity”15. Salute non è quindi assenza di malattia16; misura della vita e della salute è, alla fine, la persona stessa: nella sua unica e irripetibile identità, con la sua biografia, la sua personalità, i suoi dubbi, le sue fragilità, le sue convinzioni. V’è poi un altro aspetto, di solito un po’ meno enfatizzato: quello del rispetto per la posizione di chi esercita l’attività sanitaria. La legge 219 (art. 1, comma 2°) richiama “la competenza, l’autonomia professionale17 e la responsabilità del medico”; ri-
ferimento che si coordina con la successiva (art. 1, comma 6°) precisazione: “il paziente non può esigere trattamenti contrari a norme di legge, alla deontologia professionale o alle buone pratiche clinico-assistenziali”18. In questo contesto, anche il termine “responsabilità” (comma 2°) si presta a una lettura più ricca di sfumature rispetto al significato (“classico”) evidente nel comma 6° e nella l. n. 24/2017: non già la responsabilità come insieme delle conseguenze giuridiche (civili e penali) di un proprio agire errato, bensì l’appello al “senso di responsabilità”, come consapevolezza della propria posizione professionale19 e sociale, nonché delle conseguenze che il proprio agire determina sulle vite degli altri.
“La vita della persona diviene anche altro rispetto alla pura esistenza biologica e rispetto alla mera funzionalità organica (Azzalini, Il diritto alla rinuncia o al rifiuto di cure necessarie alla propria sopravvivenza nella l. 219/2017: questioni aperte e nuove prospettive di tutela della persona, in Nuove leggi civ. comm., 2019, 116). Sul rapporto tra “biologia” e “biografia” nell’impianto della l. n. 219/2017: Zamperetti, Progetto di vita e percorsi di cura, in questa Rivista, 2019, 25 s.; Rapisarda, Consenso informato e autodeterminazione terapeutica, in Nuove leggi civ. comm., 2019, 58. Foglia, Golden Hour del paziente: consenso biografico e dignità della vita, in Giurisprudenza penale Web, 2019, 1-bis, 124 ss. Anche il dibattito in seno alla classe medica evidenzia come “molti professionisti sanitari hanno ormai ben chiaro che la prospettiva non può essere quella del mero prolungamento della vita biologica, arrestando o rallentando la progressione della malattia, ma deve essere quella di garantire il miglior benessere possibile nella situazione data” (Palermo-Fabris, Orizzonte e limiti della cura, in questa Rivista, 2019, 46).
ta individuare e proporre i percorsi di cura appropriati alle condizioni dei pazienti” distinta dall’“autonomia decisionale” di questi ultimi (Borsellino, “Biotestamento”: i confini della relazione terapeutica e il mandato di cura, in Fam. e dir., 2018, 794).
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Constitution of The World Health Organization, consultabile all’indirizzo: apps.who.int. 15
Come sottolinea Graziadei, Dal consenso alla consensualità nella relazione di cura, in questa Rivista, 2019, 38, il diritto ha effettuato una precisa scelta, adottando la prospettiva del modello biopsicosociale della malattia (contrapposto a quello meramente biomedico). 16
Autonomia, quella dei curanti, “giustificata dalla competenza professionale, in forza della quale a essi soltanto spet17
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3. L. 219/2017: decidere per l’oggi Tutelare la personalità del paziente20 significa riconoscere la sua autodeterminazione. La legge ha scelto di ricorrere alla formula “consenso informato”: “nessun trattamento sanitario
Il che esclude qualsiasi possibilità di rappresentare il medico “come mero esecutore della volontà del paziente” (Borsellino, op cit., 797; analogamente: Liberali, op. cit., 268; Baldini, Prime riflessioni, cit., 113) Questa legge “istituzionalizza la cultura del reciproco rispetto e della collaborazione fra cittadini-pazienti e professionisti sanitari, ciascuno con il proprio bagaglio di valori, esigenze, istanze e competenze” [Pari, Le opportunità (oltre gli ostacoli) della legge n. 219/2017, in questa Rivista, 2018, 221]. V’è anche chi manifesta qualche timore circa la possibilità che questa formula si presti a una lettura in contrasto con il rispetto dell’autodeterminazione del paziente (Gristina, Considerazioni in merito ai commi 5, 6 e 7 dell’articolo 1 della legge sul consenso informato e sulle disposizioni anticipate di trattamento, in Forum. La legge n. 219 del 2017, cit., 29 s.). 18
“Responsabilità del medico significa che è sotto la sua responsabilità individuare la cura appropriata al caso seguendo le regole dell’arte […] ma sempre attento ad adattarle alla condizione specifica di ciascun malato” (Ferrando, op. cit., 68 s.). 19
Anche il ricorso al termine “paziente”, da parte del legislatore, non si è sottratto a rilievi critici (Bugetti, La disciplina del consenso informato nella legge 219/2017, in Riv. dir. civ., 2019, 107; Cavicchi, op. cit., 99). 20
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può essere iniziato o proseguito se privo del consenso libero e informato della persona interessata” (art. 1, comma 1°). È una formula che molti hanno ritenuto infelice21, per la sua imprecisione concettuale22 e per le incrostazioni di significato che derivano dalla sua origine. Il termine nasce, infatti, sotto la “cattiva stella” della responsabilità medica e in un contesto di sapore contrattuale, ove la comunicazione medico/paziente viene letta come una sequenza di proposta (di indagine, di terapia) e accettazione/rifiuto. Un contesto nel quale i soggetti coinvolti sono (potenzialmente) in conflitto. Ed è noto il portato di questa esperienza: “consenso informato” come fonte di adempimenti burocratici, come strumento difensivo del mondo della salute dalle possibili lamentele e dalle azioni in giudizio degli “utenti/clienti”. Se ci accontentassimo di questa constatazione, la nostra legge sarebbe ben poca cosa23: limitandosi a sancire in via definitiva quanto da tempo elaborato in dottrina e in giurisprudenza24. Ma, come accennato all’inizio, le parole assumono un significato diverso quando immerse in un nuovo contesto: l’“ambiente”25 della legge 219/2017 è
Palermo-Fabris, op. cit., 2019, 46; “maldestra e ingannevole intitolazione”; formula “sciocca e deleteria” (Zatti, Cultura, cit., 31; Id., Spunti, cit., 248). Considerazioni simili in Di Rosa, La relazione di cura e di fiducia tra medico e paziente, in Nuove leggi civ. comm., 2019, 33. “[L]a legge non risolve il problema dell’ambiguità che accompagna da sempre il concetto di consenso informato” (Cavicchi, op. cit., 92). 21
Busatta e Furlan, Consenso informato: nuovo paradigma normativo della medicina?, a cura di Viafora, Furlan, Tusino, Questioni di vita. Un’introduzione alla bioetica, Milano, 2019, 242, nota 2. 22
“[U]na fotografia […] della situazione esistente” (Felis, op. cit., 162). 23
Il quadro, sintetico ma completo, è tracciato da Borsellino, op. cit., 790 ss. 24
In questo “ecosistema” o “ambiente” – non commensurabile a quello patrimoniale – con questa legge irrompe nel diritto positivo delle persone “l’idea della narrazione come cifra semantica e come linea guida nell’impostazione e soluzione di un problema” (Azzalini, Legge n. 219/2017: la relazione medico-paziente irrompe nell’ordinamento positivo tra norme di principio, ambiguità lessicali, esigenze di tutela della persona, incertezze applicative, in Resp. civ. e prev., 2018, 15). 25
quello della “relazione di cura e di fiducia26 tra paziente e medico che si basa sul consenso informato nel quale si incontrano l’autonomia decisionale del paziente e la competenza, l’autonomia professionale e la responsabilità del medico”. Cambia il paradigma del rapporto paziente/medico27; muta il senso del termine “consenso informato”: dal contratto alla fiducia28, dal punto alla linea29, dal consenso alla consensualità30, dall’atto al rapporto31. Il “consenso”, da imposizione burocratica, diventa il suggello di una “relazione” basata sulla fiducia32; costringendo (poiché di diritti e doveri giuridicamente rilevanti si tratta) tutti i protagonisti a rivoluzionare i propri atteggiamenti33.
Sempre in tema di aspetti lessicali, ricordiamo come, a fronte di chi vede in tale formula evocato il concetto di “alleanza terapeutica” (Rodolfi, Il “consenso informato”, in Il Civilista, Speciale riforma, 2018, 9; Rapisarda, op. cit., 43; Azzalini, Legge n. 219/2017, cit., 21); e di chi in tale formula individua la chiave di mediazione tra paternalismo sanitario e assolutizzazione dell’autodeterminazione (Bilotti, op. cit., 87 ss.) vi è anche chi critica apertamente tale concetto (Rodotà, Il diritto di avere diritti, Roma-Bari, 2015, 277; Di Masi, La giuridificazione della relazione di cura e del fine vita. Riflessioni a margine della legge 22 dicembre 2017, n. 219, in Rivista di diritti comparati, 2018, 11, consultabile all’indirizzo: www.diritticomparati.it; Borsellino, op. cit., 794: la l. n. 219 “prende le distanze dalla retorica della cosiddetta ‘alleanza terapeutica’”; considerazioni simili in La Russa et al., Consenso informato e DAT (Disposizioni Anticipate di Trattamento): momento legislativo innovativo nella storia del biodiritto in Italia, in Resp. civ. e prev., 2018, 353). 26
Sulla complessità della relazione, v. Foglia, Consenso e cura. La solidarietà nel rapporto terapeutico, Torino, 2018, 9 ss. 27
Sul passaggio dal modello contrattualistico a quello delle scelte condivise, e sulle resistenze alla sua attuazione: Orsi, La relazione in medicina, in questa Rivista, 2019, 12 s. 28
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Busnelli, Premesse, in questa Rivista, 2019, 4.
Graziadei, op. cit., 37 ss. Consensualità “che non è un atto, ma un modo d’essere della relazione” (Zatti, Cultura, cit., 31). 30
Foglia, Autodeterminazione terapeutica e poteri della persona nella relazione di cura, a cura di Sirena e Zoppini, I poteri privati e il diritto della regolazione, Roma, 2018, 247. 31
Non sfugge la disomogeneità del linguaggio del legislatore, superabile peraltro in via interpretativa: “da cancellare non è il consenso informato, ma la sua dominanza” (Zatti, Brevi note sull’interpretazione della legge n. 219 del 2017, in Nuove leggi civ. comm., 2019, 3 ss.). 32
“[P]rofondo e radicale cambiamento del concetto di cura, del suo orizzonte e dei suoi limiti” (Palermo-Fabris, op. cit., 46). 33
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La legge parla anzitutto a chi ha il compito di formare i professionisti della salute: alle Università e alle Amministrazioni; e lo fa con ben tre dichiarazioni: “La formazione iniziale e continua dei medici e degli altri esercenti le professioni sanitarie comprende la formazione in materia di relazione e di comunicazione con il paziente, di terapia del dolore e di cure palliative” (art. 1, comma 10°)34; “Ogni struttura sanitaria pubblica o privata garantisce con proprie modalità organizzative la piena e corretta attuazione dei principi di cui alla presente legge, assicurando l’informazione necessaria ai pazienti e l’adeguata formazione del personale” (art. 1, comma 9°)35; “Il tempo della comunicazione tra medico e paziente costituisce tempo di cura” (art. 1, comma 8°)36. Il modello non è più quello del medico che “informa”37 e ottiene il consenso, ma quello di chi
Saggi e pareri
si pone in “relazione”38; una relazione che deve coinvolgere l’intera équipe sanitaria (art. 1, comma 2°)39. Tutto ha inizio perciò con l’ascolto40: perché per poter informare la persona “in modo completo, aggiornato e a lei comprensibile” occorre sapere chi è la persona che si ha davanti, per poter impostare un rapporto davvero fondato sul reciproco affidamento41. Il medico, anzitutto, ascolta42. Ascolto43 è una parola che manca nel lessico del legislatore ma che è implicita nel modello tratteggiato: la comunicazione non è, e non può essere, unidirezionale44. È dialogo45 il termine senz’altro
op. cit., 70 ss. Non è poi banale rilevare come, in un’epoca in cui l’accesso alle informazioni è reso quanto mai agevole, il compito del medico sia sempre più spesso quello di correggere e integrare informazioni (sovente scorrette) già acquisite dal paziente (Baldini, Prime riflessioni, cit., 106). zimenti,
“Stabilire una buona relazione di cura diventa pertanto il primo atto terapeutico nel quale se il malato incontra una persona disponibile all’ascolto e ad accogliere la sofferenza, questa diventa più sopportabile” (Zagonel, Limite e pianificazione condivisa, in questa Rivista, 2019, 79, con riferimento alla pratica in oncologia). 38
Ambiti tematici “assenti o grandemente deficitari nei percorsi formativi di quasi tutti i professionisti sanitari” (Orsi, op. cit., 10); La formazione (ancora oggi assai carente, per quanto riguarda i medici) deve mirare a far sì che la preoccupazione dei curanti non sia più (o solo) la malattia, bensì la persona [Zamperetti e Giannini, La formazione del personale sanitario (commento all’art. 1, commi, 9 e 10), in Forum. La legge n. 219 del 2017, cit., 37]. 34
Profili oggetto dell’indagine di Faccioli, La dimensione “organizzativa” del consenso informato, in questa Rivista, 2018, 107 ss., il quale rileva opportunamente come tra gli obblighi informativi in capo al medico vi sia pure quello relativo all’adeguatezza (e alle eventuali carenze) della struttura in cui egli stesso opera, a tutela del diritto del paziente a scegliere il luogo di cura; Rodolfi, op. cit., 17 s., sottolinea come ciò si riverberi direttamente sulla posizione della struttura, che può essere chiamata direttamente a rispondere nel caso di violazione del diritto del paziente dovuto a carenze organizzative. 35
Formulazione assertiva, che “potrebbe stare ben esposta nei reparti ospedalieri come quella che nelle aule giudiziarie dice ‘La legge è uguale per tutti’” (Tripodina, Tentammo un giorno di trovare un modus moriendi che non fosse il suicidio né la sopravvivenza - Note a margine della legge italiana sul fine vita, in Quaderni costituzionali, 2018, 192; Zatti, Brevi note, cit., 8); indicazione che vale a rendere il consenso informato “una vera a propria obbligazione principale del personale sanitario” (Di Masi, Effetti redistributivi della Legge n. 219/2017 nel rapporto fra medico e paziente, in Giurisprudenza penale Web, 2019, 1-bis, 165). 36
Appare evidente “l’impossibilità di limitare la comunicazione ad una mera informazione (il che tradirebbe la stessa valenza etimologica della terminologia utilizzata)” (Di Rosa, op. cit., 31). Ampiamente, sul tema della comunicazione: Piz37
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Orsi, op. cit., 9: la legge “riconosce la realtà del lavoro interdisciplinare e interprofessionale quotidianamente svolto nella medicina contemporanea”. 39
Può essere questo il primo momento del consenso che si fa procedimento, in quanto fenomeno evolutivo/progressivo, come ricorda Piccinni, Modalità e forme del consenso, in questa Rivista, 2019, 67. Primo momento del passaggio dell’informazione da “trasmissione unidirezionale” a “processo a due vie” (Borsellino, op. cit., 795). 40
41
Pucella, ibidem.
Orsi, op. cit., 10: “il sanitario che si siede ad ascoltare il vissuto raccontato dal malato”. 42
Ascolto reciproco: Di Sapio, Muritano, Pischetola, Disposizioni anticipate di trattamento: tempo di comunicazione, tempo di cura, in Familia, 2019, 404. “pre-occupazione in ordine al rispetto del profilo identitario dell’ammalato, della sua percezione della vita, della morte, della malattia” (Cacace, op. cit., 936). 43
44
Comunicazione onesta, veritiera e bilaterale, ricorda Pizop. cit., 74. Sul punto: Di Rosa, op. cit., 32.
zimenti,
Termine che – merita sottolineare – compare nell’art. 4 del Codice deontologico delle professioni infermieristiche (“Nell’agire professionale l’Infermiere stabilisce una relazione di cura, utilizzando anche l’ascolto e il dialogo”), consultabile all’indirizzo: www.fnopi.it; ma che è invece assente in quello medico (ove peraltro non compare neppure la parola “ascolto”). 45
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più appropriato a descrivere questa relazione46: un dialogo che consente ai protagonisti di riconoscersi e interagire, valorizzando le ovvie asimmetrie47. È il dialogo a consentire al professionista una “sintonizzazione fine” su quella persona che in quel momento necessita delle sue competenze tecniche (per così dire: dal prêt-à-porter al capo di sartoria)48. Ugualmente implicite (seppur estranee al vocabolario del legislatore49) sono molte parole che ap-
“[R]elazione comunicativa, dialogica ed empatica” (Di Masi, op. cit., 125). La legge approda a una “concezione dialogica della relazione di cura” (Ferrando, op. cit., 67). Il consenso “postula una reale interazione tra medico e paziente, basata sull’ascolto e sul dialogo” (Foglia, Autodeterminazione, cit., 247; più estesamente: Foglia, Consenso, cit., 4 ss.). Dialogo, narrazione, ascolto, coinvolgimento... (Casonato, Taking sick seriously: La pianificazione condivisa delle cure come paradigma di tutela delle persone malate, in Riv. it. med. leg., 2018, 949). Sulle “fasi” del processo di adozione del consenso, e sulla necessaria dimensione dialogica e bilaterale: Fasan, Consenso informato e rapporto di cura: una nuova centralità per il paziente alla luce della legge 22 dicembre 2017, n. 219, in Giurisprudenza penale Web, 2019, 1-bis, 88 ss. 46
“Il che non significa affatto […] un offuscamento dei rispettivi ruoli, del sanitario e del destinatario della prestazione, ma piuttosto l’affermarsi di una dinamica dialogica virtuosa da fondare sull’incontro complementare di competenza e autodeterminazione” (Azzalini, Il diritto, cit., 106; v. anche Azzalini, Legge n. 219/2017, cit., 16 ss.). Sul ruolo degli obblighi informativi nella riduzione delle asimmetrie: Cilento, Obblighi informativi e tutela della parte debole: la scelta consapevole dalla relazione di cura ai rapporti asimmetrici, a cura di Foglia, La relazione di cura, cit., 35 ss.
partengono alla cura, alla relazione e alla comunicazione: accoglienza, empatia, disponibilità50, carezza, sguardo, emozione, compassione, commozione, sconforto, lacrima, abbraccio... Parole implicite, ma non assenti. Poiché senza di esse il termine stesso di relazione verrebbe svuotato di senso: entrare in relazione significa essere disposti a conoscere la persona che si ha davanti, a riconoscerla come individuo con la sua personalità, le sue esigenze, le sue debolezze, la sua vulnerabilità51. Il medico ascolta l’interessato e chi questi intenda coinvolgere (familiare, convivente, persona di fiducia)52; ascolta e si confronta e (anche questa direttiva è implicita) con gli altri membri dell’équipe: come dimenticare che gli infermieri, più dei medici a contatto con i pazienti nelle lunghe giornate di degenza, sono in grado di cogliere segnali che ad altri possono sfuggire53. Il medico ascolta – potrebbe essere opportuno, anche se la legge non lo menziona qui esplicitamente – il suo collega di medicina generale54: quello che meglio di altri conosce la persona, la sua storia, la sua
47
La “comunicazione con il malato rappresenta un fattore determinante per l’efficacia dei processi di cura e per promuovere un rapporto di fiducia tra il paziente e il curante”; comunicazione che dovrebbe essere improntata al c.d. “standard soggettivo” (ciò che il singolo paziente in quel momento vuole e può comprendere) (Pizzimenti, op. cit., 73). Ampiamente, sulla medicina narrativa, nell’ambito della l. n. 219: Foglia, Nell’acquario. Contributo della medicina narrativa al discorso giuridico sulla relazione di cura, in questa Rivista, 2018, 373 ss.; Iagnemma, “Il tempo della comunicazione costituisce tempo di cura”: l’approccio narrativo nella Legge n. 219 del 2017, in Giurisprudenza penale Web, 2019, 1-bis, 114 ss. 48
I principi ispiratori della legge sfuggono a rigide classificazioni, e richiedono “uno sforzo di apertura a valori e modelli relazionali meta-giuridici” [Verduci, Introduzione, a cura di Verduci, op. cit., 12]. D’altra parte “l’empatia, la cura affettuosa, l’ascolto, lo stesso rispetto, se sono oggetto di prescrizione legale, si traducono in immagini a bassa definizione” (Zatti, Cultura, cit., 2019, 30). 49
Duplice: del curante e della persona malata, secondo Zamperetti, op. cit., 24. 50
Si vedano, a questo proposito, le pagine di Fontanella, Le condizioni della relazione, in questa Rivista, 2019, 17 ss., ove si descrive chiaramente la situazione del paziente che, nel momento in cui varca le porte di un reparto ospedaliero, finisce per trovarsi “a casa d’altri”. 51
La legge suggella a livello normativo la prassi di coinvolgere i parenti nei processi comunicativi e decisionali, portando a compimento un percorso già iniziato con la l. n. 76/2016, sulle unioni civili e le convivenze (Bugetti, op. cit., 113). Sul ruolo dei familiari con riguardo DAT e PCC: Mantovani, op. cit., 223. 52
Lattarulo e Pais dei Mori, Le disposizioni anticipate di trattamento ed il gesto di assistenza infermieristica: quale valenza ordinistica e giuridica?, in Giurisprudenza penale Web, 2019, 1-bis, 177 ss., spec. 193 s. 53
Carusi, La legge sulle decisioni di cura e la figura del medico: una lettura critica, a cura di Foglia, La relazione di cura, cit., 13, ricorda come il “progetto Calabrò” prevedesse che fosse il medico di medicina generale a raccogliere le “dichiarazioni”: idea non peregrina, persa per effetto dello “scontro militarizzato” che ha condotto all’approvazione della l. n. 219/2017. 54
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famiglia e le dinamiche che caratterizzano i loro rapporti55. L’informazione – da medico a paziente; da professionista a “laico” – sarà in tal modo efficace, poiché calibrata in base alla conoscenza della persona che il medico stesso ha acquisito. Tornerà poi nuovamente all’ascolto, al momento di raccogliere la volontà del paziente, ormai consapevole poiché informato in maniera a lui comprensibile. Ma anche qui, non si tratta di una ricezione passiva di un sì o di un no (cioè della – abusata, meccanica, fastidiosa – raccolta di una firma in calce a un modulo): di fronte a una rinuncia o a un rifiuto le cui conseguenze si annuncino gravi, il medico deve continuare il dialogo, prospettando le possibili alternative e promuovendo “ogni azione di sostegno al paziente medesimo, anche avvalendosi dei servizi di assistenza psicologica” (art. 1, comma 5°)56. Poiché il rifiuto delle terapie non è senz’altro sintomo di un’istanza suicidaria; e non è neppure opposizione alla figura o alla persona del professionista. Esso appare bensì come una richiesta di una cura diversa o di un modo diverso di essere accudito. La relazione non si interrompe, cioè, ma prosegue: nei casi più gravi, con la rimozione dei presidi medici, con l’accompagnamento, con le terapie palliative57. È questa la “circolarità di comunicazione e decisione”58, che la legge non menziona esplicitamente, eppure disegna con chiarezza. Una circolarità che richiede tempo59, e impone altresì di trova-
Sulla natura plurale della relazione: Di Rosa, op. cit., 37 s.; Mantovani, op. cit., 197. Busatta, La sostenibilità costituzionale della relazione di cura, a cura di Foglia, La relazione di cura, cit., 154 s. Di “rapporto pienamente relazionale”, poiché potenzialmente coinvolgente tutto il personale sanitario nonché l’entourage del paziente parla Di Masi, op cit., 127. 55
V’è spazio cioè, all’interno della relazione, per una “strategia della persuasione” (Badini, op. cit., 112). 56
D’Avack, Norme in materia di consenso informato e disposizioni anticipate di trattamento: una analisi della recente legge approvata in Senato, in Dir. fam. e pers., 2018, 182 s. 57
Zatti, “Parole tra noi così diverse”. Per una ecologia del rapporto terapeutico, in Nuova giur. civ. comm., 2017, II, 143 ss. 58
Un tempo da gestire: inteso cioè non in senso lineare ed episodico – “tutto subito e qua” – bensì come tempo opportuno, diluito (Zatti, “Parole tra noi così diverse”, ibidem; Barbisan, Legge 219: tormenti, chiarezze, insidie, in Forum. 59
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Saggi e pareri
re le risorse per una diversa organizzazione non solo dei tempi ma pure degli spazi: anche l’architettura dei reparti può incidere sulla qualità della comunicazione60. La decisione finale del paziente sarà il frutto di un sentiero percorso insieme: maturato nel rispetto – appunto – della personalità del paziente e dell’autonomia e della responsabilità del professionista. Tutto questo consente di riconoscere un significato diverso alla stessa “autonomia” del paziente, che prende il largo rispetto a un’accezione meramente contrattualista61, per farsi autonomia relazionale62, che tiene conto della fragilità, della debolezza della vulnerabilità della persona malata63: titolare ultima del potere di decidere, eppure mai sola durante questo percorso64.
La legge n. 219 del 2017, cit., 14: non chronos bensì kairos), “che continua in un percorso relazionale” coinvolgendo nel dialogo l’équipe (Orsi, op. cit., 13); tempo che “deve necessariamente commisurarsi alle esigenze soggettive della persona” (Busatta, Limite e pianificazione condivisa, in questa Rivista, 2019, 84). “[I]l tempo è una risorsa di cura, da valorizzare, perché è una componente della stessa relazione terapeutica e non uno strumento di misurazione delle performance assistenziali” (Forni, op. cit., 24). Sconsolanti, in questo senso, i dati sui minuti dedicati mediamente ai pazienti, riportati da Di Sapio, Muritano, Pischetola, op. cit., 409 s. La qualità della comunicazione conta ben più della quantità delle informazioni fornite (Foglia, Consenso, cit., 29 ss.). L’assenza di spazi e tempi adeguati per l’instaurarsi di un autentico dialogo tra medico e paziente è sottolineata da Faccioli, op. cit., 114 s.; sull’importanza dell’architettura dei luoghi: Orsi, op. cit., 11. Sulla necessità di una riorganizzazione del lavoro: Bertoncello, Luci ed ombre della legge n. 219/2017, in questa Rivista, 2018, 218 s. 60
Sui cui rischi: Posteraro, Il “problema” del consenso informato: dai diritti del malato alla spersonalizzazione del rapporto medico-paziente, in Medicina e Morale, 2017, 371 ss. 61
Su questi temi: Busatta e Furlan, op. cit., 242 ss. e spec. 258 ss. 62
Autonomia (interpretata non solo “in the liberal sense of permission given for treatment and/or experimentation”), dignità, integrità, vulnerabilità sono le parole d’ordine della “Barcelona Declaration on Policy Proposals to the European Commission on Basic Ethical Principles in Bioethics and Biolaw” (adottata nel novembre 1998 dai partner del BIOMED II Project), sulla quale: Kemp e Rendtorff, The Barcelona Declaration (2008)46 Synthesis Philosophica 239 ss. 63
La relazione supera, così, il “rimbalzo” tra approccio paternalistico e approccio contrattualista (asimmetria senza 64
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Il linguaggio della l. 219/2017
4. L. 219/2017: decidere per il domani, con la consapevolezza di una situazione in atto Per i media la l. n. 219/2017 è quella sul “testamento biologico”65. Questo ha oscurato una più rilevante novità, contenuta nell’art. 566. Qui il lessico della salute si arricchisce davvero, con la nascita di un nuovo (per il nostro ordinamento) strumento: la “Pianificazione condivisa delle cure”67. Strumento accolto senza clamore; ancora poco conosciuto, eppure fondamentale. La situazione che il legislatore immagina è quella di chi è chiamato a fare i conti con una diagnosi infausta. Qui la chiave – diversamente da quanto accade con riguardo alle Disposizioni Anticipate di Trattamento – è la consapevolezza: le DAT riguardano situazioni future e ipotetiche; la Pianificazione Condivisa delle Cure segue una diagnosi attuale; consente all’interessato e alla famiglia, in continuo dialogo con i sanitari, di tracciare un percorso, adeguandolo all’evolversi della malattia; fino a prevedere il da farsi in caso di perdita di coscienza e a individuare un fiduciario, con quale il dialogo possa continuare.
Torna il ruolo centrale del medico di famiglia – con le sue competenze, con la conoscenza delle persone acquisita nel corso del tempo – quale perno della relazione tra il paziente e la sua cerchia affettiva, e l’équipe (o le équipe68) curante. L’impatto della PCC sulla condizione del malato e sulla qualità della sua vita – specialmente nelle ultime fasi – è evidente: il dialogo, la conoscenza, la consapevolezza circa le terapie del dolore e le cure palliative69 consentono di instaurare un rapporto costruttivo tra paziente, famiglie e curanti; e consentono di arrivare preparati, decidendo nel rispetto della personalità e delle sensibilità di tutti i soggetti coinvolti, sollevando i familiari dai dubbi e dalle angosce per le decisioni che saranno chiamati a prendere (il terribile momento in cui i medici chiedono a chi è vicino al malato di esprimersi sul “che fare?”; e in cui i dubbi, le insicurezze, i sensi di colpa esplodono). La PCC riduce così anche la conflittualità (all’interno della famiglia, oltre che tra questa e i sanitari): conflittualità spesso innescata più dalle incomprensioni che dagli errori70.
reciprocità v. reciprocità senza asimmetria) [Lizzola, Vulnerabilità e dignità negli scenari di cura, a cura di Foglia, La relazione di cura, cit., 239]. Rizzuti, Testamento e biotestamento: le disposizioni di ultima volontà tra persona e patrimonio, a cura di Foglia, La relazione di cura, cit., 109 ss.
65
Secondo Busnelli, op. cit., 6: “è questa la vera norma ‘nuova’ della legge” (considerazione condivisa da molti: Busatta, op. cit., 86; Azzalini, Legge n. 219/2017, cit., 21; Benciolini, Art. 5 “Pianificazione condivisa delle cure, in Forum. La legge n. 219 del 2017, cit., 64 ss.: la norma merita “un’attenzione privilegiata”, quasi prioritaria rispetto allo stesso art. 1); la PCC “rappresenta un punto di svolta radicale nella relazione medico-paziente (Baldini, Prime riflessioni, cit., 138); la PCC è figura talmente rilevante che la l. n. 219/2017 “potrebbe essere salutata positivamente anche per il solo fatto di averla confermata e precisata” (Casonato, Taking sick seriously, cit., 948). 66
Advance Care Planning: strumento nuovo per noi, ma da tempo “al centro del dibattito medico, giuridico ed etico relativo alle questioni di fine vita” (Casonato, La pianificazione condivisa delle cure, in Il Civilista, Speciale riforma, 2018, 41). 67
Non è raro il caso di persone seguite, per patologie diverse o per terapie complesse, da più realtà sanitarie, magari geograficamente distanti fra loro; il che rende ancora più importante il ruolo del medico di famiglia: unico punto di riferimento costante per il malato e per chi gli è vicino. 68
Si vedano, in proposito, gli interventi di Viafora, La sedazione in fase terminale, parte integrante delle cure palliative. Un commento all’art. 2 della Legge 219, 22 dicembre 2017, e di Morino, L’articolo 2 nella prospettiva della medicina palliativa, entrambi in Forum. La legge n. 219 del 2017, cit., 39 ss.; 43 ss. 69
Busatta, op. cit., 85. Questi sono solo alcuni dei vantaggi di questo strumento; in maniera più ampia: Casonato, La pianificazione, cit., 41 ss.; Casonato, Taking sick seriously, cit., 960; v. anche Baldini, Prime riflessioni, cit., 138 s.; Id., La pianificazione, cit., 136 s.; alcuni aspetti problematici del testo (il cui “senso ultimo” appare tuttavia cristallino) sono evidenziati da Veronesi, La pianificazione condivisa delle cure, in Forum. La legge n. 219 del 2017, cit., 66 ss. 70
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5. L. 219/2017: decidere per il domani, per il timore di ciò che potrebbe accadere Di testamento biologico o, più correttamente, di Disposizioni71 Anticipate di Trattamento, si è parlato così tanto, e così a lungo, che non v’è qui molto da dire72. È uno strumento offerto alle persone con maggiore propensione a “guardare avanti”73. Molti dei vantaggi sono gli stessi della PCC. Per altri versi le differenze non mancano: dovute so-
A fronte di una generale valutazione positiva della precisa scelta terminologica, caduta sul termine “disposizioni” (coerente con l’obbligo di rispetto della volontà del disponente), e non già su quello (più attenuato) di “dichiarazioni” (per tutti: Borsellino, op. cit., 799), non manca chi ritiene – nonostante la lettera della norma – di poter degradare le “disposizioni” a “dichiarazioni” (Calvo, La nuova legge sul consenso informato e sul c.d. biotestamento, in Studium iuris, 2018, 691); e v’è anche chi (forse per una frettolosa lettura del testo) commenta la legge utilizzando senz’altro ed esclusivamente il termine “dichiarazioni” (Bertolone, op. cit., 133 ss.). Secondo D’Avack, op. cit., 195 ss. – il quale interpreta le DAT come in realtà non del tutto vincolanti – il termine “dichiarazioni” sarebbe stato più adatto al contenuto della legge. L’uso di “direttiva” sarebbe invece stato più coerente (secondo un’ulteriore tesi: Adamo, Costituzione e fine vita, Milano, 2018, 92 s.) con il “portato orientativo-vincolante” che, si ritiene, la legge attribuisce alla DAT. 71
Ai già citati commenti alla legge nella sua interezza si possono aggiungere, per la maggiore attenzione dedicata a questo istituto: Azzalini, Legge n. 219/2017, cit., 28 ss.; Infantino, Alcune considerazioni in tema di dichiarazioni anticipate di trattamento, in questa Rivista, 2018, 381 ss.; Maffeis, Prometeo incatenato: le DAT e il dominio della tecnica, in Resp. civ. e prev., 2018, 1436 ss.; Maldonato, L’interruzione di un trattamento salvavita in assenza di DAT: quali spazi per il consenso presunto?, in Giurisprudenza penale web, 2019, 1-bis, 29 ss.; Penasa, Disposizioni anticipate di trattamento, in Il Civilista, Speciale riforma, 2018, 25 ss.; Pizzetti, Prime osservazioni sull’istituto delle disposizioni anticipate di trattamento (DAT) previsto dall’art. 4 della legge 22 dicembre 2017, n. 219, in Forum. La legge n. 219 del 2017, cit., 54 ss.; Palazzani, Le DAT e la legge 219/2017: considerazioni bioetiche e biogiuridiche, in Riv. it. med. leg., 2018, 965. 72
Non si ricorderà mai abbastanza come la redazione delle DAT non sia un obbligo né un onere, bensì un’opportunità (Mantovani, op cit., 201); chi redige le DAT è una persona preoccupata per il proprio futuro ma altresì, di regola, consapevole della loro portata e interessata ad acquisire tutte le informazioni necessarie per la loro migliore stesura. 73
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prattutto agli scenari, del tutto ipotetici al momento della redazione delle DAT. Proprio per l’incertezza che le caratterizza, poiché rivolte a un futuro solo ipotizzato74, la novità più importante appare il riferimento al “fiduciario”: colui che verrà chiamato a “decidere non ‘al posto’ dell’incapace né ‘per’ l’incapace, ma ‘con’ l’incapace”75. Ancora una volta, pur non essendo citata esplicitamente, è la figura del medico di medicina generale quella evocata76: chi redige le DAT – precisa la legge – deve farlo dopo aver “acquisito adeguate informazioni mediche sulle conseguenze delle sue scelte”. A meno di accontentarsi della consultazione del web77, è probabile che sia proprio il medico di famiglia l’interlocutore più adeguato a raccogliere i dubbi e i timori dell’assistito e ad aiutarlo a tradurre le sue volontà in disposizioni tecnicamente corrette78, davvero rispetto-
Da qui molte delle critiche, che si spingono a sottolineare come quello delle DAT sia, in realtà, “un consenso non informato, o informato per modo di dire” (Maffeis, op. cit., 1442). 74
Cass., 16.10.2007, n. 21748 (caso Englaro), in Foro it., 2008, I, 2609. Su questa nuova figura, e sulla necessità di comprenderne il ruolo al di là dei rigidi inquadramenti civilistici: Zatti, Brevi note, cit., 5 s.; Mantovani, op. cit., 214 ss.; Giardina, Il fiduciario, in Forum. La legge n. 219 del 2017, cit., 61 ss. Altri, pur apprezzando la figura, lamentano l’imprecisione e la lacunosità dell’intervento del legislatore, che obbliga l’interprete a una “poderosa attività ermeneutica” (alla fine della quale l’A. richiama la figura dell’“ufficio di diritto privato”, e la vicinanza a quella dell’esecutore testamentario: Arfani, Disposizioni anticipate di trattamento e ruolo del fiduciario, in Fam. e dir., 2018, 815 ss.). 75
In tal senso, Penasa, op. cit., 31. “Com’è possibile pensare di redigere tale atto se non nell’ambito di un colloquio esteso e profondo con una figura che non sia semplicemente un medico ma un ‘medico di fiducia’ idealmente ‘il tuo medico’” (Bertoncello, op. cit., 218). Il rapporto con il medico di base o altro medico di fiducia è il “naturale” contesto nel quale ricevere le informazioni (Borsellino, op. cit., 800). 76
È vero – come è stato rilevato (Di Sapio, Muritano, Pischeop. cit., 2019, 417, nota 66) – che la rete è in realtà assai ricca di informazioni scientificamente attendibili; resta la difficoltà di reperirle e organizzarle, non essendo così facile per un non specialista muoversi nel “mare magnum” di siti la cui evidenza in cima alla lista è dovuta ai misteri degli algoritmi. 77
tola,
La redazione delle DAT potrebbe avvenire in maniera poco accorta o addirittura alla cieca, imponendo così al medico chiamato ad applicarle pesanti oneri interpretativi, e riducendo pressoché a zero il loro valore vincolante (Maf78
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Il linguaggio della l. 219/2017
se della personalità di chi le redige79. Tutto ciò a patto che il professionista abbia potuto arricchire il proprio bagaglio umano e professionale grazie alla “formazione iniziale e continua” in materia di relazione e comunicazione di cui parla l’art. 1, comma 10°80.
6. I silenzi della legge (e qualche parola di troppo) Cosa manca da questo nostro lessico? Diciamo subito che manca – e non a caso – la parola eutanasia81.
op. cit., 1443 ss.). Dubbi circa la possibilità che vengano considerate “palesemente incongrue” anche le dichiarazioni fondate su falsi presupposti cognitivi, o che appaiano ispirate da superstizioni o timori idiosincratici o, ancora, siano formulate in termini tecnicamente atipici sono avanzati da Carusi, Disposizioni, cit., 297. Per altri (Eusebi, op. cit., 432) delle DAT prive dell’attestazione dell’avvenuta informazione medica (comprensive di una valutazione della condizione, anche mentale, del predisponente) sarebbero prive di rilievo giuridico per il medico chiamato ad applicarle. V’è poi chi suggerisce che, nel rispetto dello spirito della legge, sarebbe opportuna la predisposizione – da parte delle istituzioni coinvolte – di linee guida o di criteri uniformi che, senza incidere sull’autonomia dell’interessato, lo aiuterebbero a evitare il rischio di una cattiva interpretazione delle sue volontà, assicurando al contempo una certa omogeneità di trattamento sul territorio nazionale [Baldini, L. n. 219/2017 e disposizioni anticipate di trattamento (Dat), in Fam. e dir., 2018, 808]; altri ipotizzano l’istituzione di appositi organismi in seno alle ASL (La Russa et al., op. cit., 11). feis,
Stiamo parlando, ovviamente, di opportunità non già di obblighi; è evidente, infatti, come delle DAT fondate sull’acquisizione di informazioni mediche e redatte con un linguaggio anche tecnicamente corretto si pongano al riparo dai rischi (di venir disattese) legati alla loro interpretazione e alla valutazione circa la loro congruità (sul punto: Delle Monache, La nuova disciplina sul “testamento biologico” e sul consenso ai trattamenti medici, a cura di Verduci, op. cit., 71 ss.; estesamente, Salanitro, op. cit., 138 ss.). Altra cosa sarebbe affermare la necessità, per l’interessato, di rivolgersi a un medico, con irrigidimento delle formalità ed eventuali riflessi sulla validità delle DAT; ipotesi che appare da scartare, e sulla quale merita rinviare alle considerazioni di Di Sapio, Muritano, Pischetola, op. cit., 2019, 417 ss. 79
Sul necessario collegamento tra questa disposizione e l’art. 4, comma 1°, sulla redazione delle DAT: Benciolini, Obiezione di coscienza alle DAT? Ordinamento deontologico e ordinamento statuale, in Nuove leggi civ. comm., 2019, 173. 80
Botti, La fine di un lungo viaggio al termine della notte: la legge 219/2017 sul consenso informato e sulle disposizio81
Per quanto, nella polemica, alcuni interpreti invochino questo termine nella sua accezione più ampia82 – talvolta al fine di contestare in radice il diritto del paziente di rifiutare le cure83, altre volte per introdurre spazi di giudizio relativamente alle ragioni che inducono la persona a una scelta in tal senso84 – non v’è, in questa normativa, apertura alcuna85, ove si accolga il significato che, a livello internazionale86, le si attribuisce: atto del medico direttamente indirizzato a causare la morte del soggetto87.
ni anticipate di trattamento, in Quaderni dir. e politica ecclesiastica, 2018, 626: manca, nella legge ogni riferimento all’eutanasia, “nemmeno nel senso di vietarla”. Come ricorda Casalone, op. cit., 44 s., secondo la Chiesa cattolica per “eutanasia in senso vero e proprio si deve intendere un’azione o un’omissione che di natura sua e nelle intenzioni procura la morte, allo scopo di eliminare ogni dolore” (punto 65 dell’Enciclica Evangelium Vitae, consultabile all’indirizzo: www.vatican.va). Lo stesso autore, peraltro, definisce (poche pagine oltre) “decisamente forzata” l’interpretazione di chi ritiene che la legge introduca l’eutanasia nel nostro ordinamento. Secondo un altro autore, invece, con questa legge “viene legittimata l’eutanasia passiva” (Calvo, op. cit., 691). La medesima, ampia, definizione è adottata da Triberti e Castellani, op. cit., 16 ss. 82
Essendo la rinuncia alle cure – che non rappresentino un “accanimento” – una forma di eutanasia, il “testamento biologico” (che mira in sostanza a disporre della vita) non è accettabile, il che giustifica altresì le pretese circa l’obiezione di coscienza, sollevabile tanto dai medici quanto dalle strutture sanitarie cattoliche (Canonico, La posizione della Chiesa cattolica riguardo al fine vita, in Dir. e religioni, 2018, spec. 333 ss.). 83
Nel senso che il rifiuto di cure adeguate e utili, in assenza di ragioni valide, configurerebbe eutanasia omissiva, in quanto tale eticamente censurabile (Casalone, op. cit., 44 ss.). 84
Secondo la tesi di Rocchi, op. cit., 174, la legge giunge (consentendo a soggetti diversi dall’interessato di esprimere il consenso/rifiuto alle cure) a legalizzare addirittura l’eutanasia “non consensuale”. 85
Si consenta il rinvio a Gaudino, L’ultima libertà, Udine, 2013, 105 ss. 86
D’Avack, op. cit., 181: “l’eutanasia non può che essere quella ‘attiva’ […] la ‘eutanasia passiva’ costituisce una contraddizione in termini, in altre parole non esiste”. Sul punto: Foglia, Golden hour, cit., 134 ss.; Id., Consenso, cit., 132 ss.; né può valere, in questo contesto, il ricorrente argomento del “pendio scivoloso”, utilizzato da chi intravede nel diritto a rifiutare le cure una pericolosa deriva eutanasica (sul punto: Mantovani, op. cit., 198 s.). 87
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Anche il tema del suicidio medicalmente assistito del malato terminale è estraneo agli orizzonti della l. 219/201788. Com’è noto, su questi temi il legislatore ha scelto il silenzio, tenendo in vita un divieto (art. 580 c.p.) che non prevede distinzione alcuna fra l’istigazione al suicidio – magari motivata da ragioni del tutto egoistiche e reprensibili – e l’aiuto prestato a una persona in condizioni di sofferenza che decida liberamente di porre termine alla sua esistenza. Ci ha pensato la Corte Costituzionale, con la sua sentenza sul “caso Cappato”89; una decisione la cui portata operativa appare ancora da valutare: basti qui l’esempio dell’attribuzione ai Comitati etici90 (o ai Nuclei Etici per la Pratica Clinica) di competenze tutte ancora da disegnare. È poi assente – come non si è mancato di rilevare, e di lamentare – una disciplina dell’obiezione di
Saggi e pareri
coscienza91: assenza voluta92, per l’impossibile parallelismo tra le situazioni nelle quali il legislatore ha riconosciuto le ragioni degli obiettori – dal servizio militare (l. n. 772/1972) all’interruzione della gravidanza (l. n. 194/1978), alla sperimentazione animale (l. n. 413/1993) – e il rispetto della volontà del paziente di rinunziare alle terapie, anche se necessarie al prolungamento della vita93. Netta appare, poi, la distinzione tra autonomia professionale del medico (fondata su parametri oggettivi) e obiezione di coscienza (fondata sulle convinzioni morali personali): con la prima senz’altro tutelata dalla l. n. 219/201794. Ciò non significa, tuttavia, che la questione possa dirsi senz’altro risolta. In effetti, nel caso di rifiuto delle terapie offerte il medico non può far altro che rispettare la decisione del paziente e agire di conseguenza: non potendo egli pretendere di essere dalla sua coscienza autorizzato a intervenire forzando la
Questione affrontata, ampiamente, da Benciolini, op. cit., 152 ss.; Cacace, op. cit., 943; Azzalini, Rispetto della persona e libertà del sanitario: riflessioni in tema di obiezione di coscienza nella relazione di cura, a cura di Foglia, La relazione di cura, cit.,173 ss., e spec. 186 ss. Non manca chi si interroga (rispondendo negativamente) sulla possibile obiezione di coscienza del notaio chiamato a ricevere le DAT (Torroni Il consenso informato e le disposizioni anticipate di trattamento: un rapporto essenziale ma difficile - Commento alla l. 22 dicembre 2017, n. 219, in Riv. not., 2018, 444 s.). 91
88
Opposta l’opinione di Rocchi, op. cit., 172.
Corte cost., 22.11.2019, n. 242, consultabile all’indirizzo: www.cortecostituzionale.it; sulla quale v. gli interventi “a caldo” di Eusebi, Il suicidio assistito dopo Corte cost. n. 242/2019. A prima lettura, in Corti supreme e salute, 2019, 193; Nicolussi, Lo sconfinamento della Corte costituzionale: dal caso limite della rinuncia a trattamenti salva-vita alla eccezionale non punibilità del suicidio medicalmente assistito, ivi, 202; Tripodina, La “circoscritta aera” di non punibilità dell’aiuto al suicidio, ivi, 193 ss.; Pulitanò, A prima lettura. L’aiuto al suicidio dall’ordinanza n. 207/2018 alla sentenza n. 242/2019, in Giurisprudenza Penale Web, 2019, 12; Venchiarutti, Considerazioni a margine della sentenza sul caso Cappato, nota di aggiornamento, 25 novembre 2019, in www. rivistaresponsabilitamedica.it. 89
Questo il passo della decisione: “Similmente a quanto già stabilito da questa Corte con le citate sentenze n. 229 e n. 96 del 2015, la verifica delle condizioni che rendono legittimo l’aiuto al suicidio deve restare peraltro affidata – in attesa della declinazione che potrà darne il legislatore – a strutture pubbliche del servizio sanitario nazionale. A queste ultime spetterà altresì verificare le relative modalità di esecuzione, le quali dovranno essere evidentemente tali da evitare abusi in danno di persone vulnerabili, da garantire la dignità del paziente e da evitare al medesimo sofferenze. 90
La delicatezza del valore in gioco richiede, inoltre, l’intervento di un organo collegiale terzo, munito delle adeguate competenze, il quale possa garantire la tutela delle situazioni di particolare vulnerabilità. Nelle more dell’intervento del legislatore, tale compito è affidato ai comitati etici territorialmente competenti”.
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Scelta saggia, secondo Di Masi, op cit., 128, atteso il ruolo attivo dell’organizzazione sanitaria nonché il coinvolgimento relazionale dell’intera équipe sanitaria, del nucleo familiare e amicale (con il superamento della “dolorosa relazione duale fra medico e paziente”). Di parere opposto, invece, chi ritiene che la legge contenga uno “sbilanciamento a sfavore del medico sotto il profilo della sua coscienza” annullando “l’autonomia del sanitario sotto il profilo etico-religioso”, al punto da rendere “indispensabile ed urgente un intervento legislativo” (Casella et al., op. cit., 158); secondo Palazzani, op. cit., 974, “sarebbe una violenza nei confronti del medico imporre un comportamento che ritiene illecito”. 92
Manca, qui, “una vita terza in gioco”; v’è “solo una persona imprigionata da un sistema di cura che rifiuta” (Zatti, Spunti, cit., 251) v. anche Busnelli, op. cit., 5. Casalone, op. cit., 51. 93
Paris, Legge sul consenso informato e le DAT: è consentita l’obiezione di coscienza del medico?, in Forum. La legge n. 219 del 2017, cit., 31 ss.; Baldini, Prime riflessioni, cit., 134 s. 94
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volontà (e agendo materialmente sulla persona95) del malato96. D’altra parte non può tacersi l’esistenza di un dilemma etico nel professionista chiamato a rispettare una decisione di revoca dei presidii, in precedenza accettati97, che richieda la sua attività nella rimozione di ciò che, in quel momento, è necessario a mantenere in vita il paziente98: come nel caso di una PEG che alimenti il soggetto o di una ventilazione meccanica che ne consenta la respirazione99. Un possibile bilanciamento tra il diritto del paziente e la coscienza del professionista sembra ad alcuni essere possibile attribuendo – in vario modo100 – non già al singolo, bensì alle strutture
Un’aggressione palesemente contrastante con i diritti inviolabili tutelati dalla l. n. 219 (Azzalini, Legge n. 219/2017, cit., 31). 95
E, aggiungiamo, non potrà neppure reagire al rifiuto delle sue proposte terapeutiche con l’abbandono: è suo dovere infatti continuare nella sua opera, prospettando le conseguenze della scelta e le possibili alternative, e promuovendo “ogni azione di sostegno” (art. 1, comma 5°); così come è suo dovere “adoperarsi per alleviarne le sofferenze anche in caso di rifiuto o di revoca del consenso” (art. 2, comma 1°) [sul punto: Baldini, L. n. 219/2017, cit., 813; Eusebi, op. cit., 419 s.: “il medico non potrà mai costringere un individuo dissenziente (capace di intendere e volere) a trattamenti terapeutici che pure, in quanto professionista sanitario, ritenga del tutto ragionevoli, ma, del pari, non potrà limitare il suo ruolo alla mera presa d’atto del rifiuto, burocraticamente attestato da una firma cui attribuisca effetti deresponsabilizzanti”]. 96
“Deporre le armi, in caso di meccanismi invasivi, significa smontarle”: la questione potrebbe essere affrontata in sede legislativa, con le cautele necessarie ad evitare abusi (Zatti, Spunti, cit., 251). 97
Eusebi, op. cit., 421: “la situazione per cui, in assenza del consenso, è inammissibile agire sul corpo di una persona capace di intendere e di volere, non risulta in tutto speculare rispetto a quella per cui in forza della volontà, a fini interruttivi di un trattamento, si debba agire sul corpo della medesima”. 98
Sulla categoria dell’astensione, quale strumento concettuale utile a superare l’insufficienza della lettura in termini di omissione/azione delle condotte necessarie a realizzare il diritto del malato alla rinuncia o al rifiuto di trattamenti medici: Azzalini, Il diritto, cit., 111 ss.
99
Con un’interpretazione dell’art.1, comma 6° della legge (D’Avack, op. cit., 187 ss.); oppure facendo leva sulla “clausola di coscienza” (sulla quale: Benciolini, op. cit., 155 ss.), in base all’art. 22 del Codice di Deontologia Medica (“Il medico può rifiutare la propria opera professionale quando vengano richieste prestazioni in contrasto con la propria coscien100
sanitarie il compito di garantire, “con proprie modalità organizzative101, la piena e corretta attuazione dei principi” (art. 1, comma 9°) che ispirano la legge stessa102; disposizione che vale altresì a respingere qualsiasi pretesa103 volta a invocare una generale obiezione di coscienza da parte della struttura sanitaria104. Mancano – ma come abbiamo visto sono implicitamente coinvolte – le tante parole che riempiono di senso il richiamo alla relazione e alla comunicazione.
za…”). Sul punto: Bugetti, op.cit., 118 s.; Eusebi, op. cit., 421 ss.; Faccioli, op. cit., 116). Alla medesima soluzione si giungerebbe riconoscendo l’esistenza dell’obbligazione nei confronti del paziente in capo alla sola struttura sanitaria e non al medico ausiliario (Salanitro, op. cit., 131 ss., ove un’ampia ricostruzione del dibattito). Nettamente contrario a una lettura combinata di art. 1, comma 6°, l. n. 219/2017 e art. 22 del codice deontologico al fine di riconoscere spazi all’obiezione di coscienza sono Cacace, op. cit., 943; Paris, op. cit., 33 ss. (il quale ritiene comunque che eventuali conflitti possano essere affrontati mediante reasonable accomodation all’interno delle strutture sanitarie; soluzione che pare condivisa da Florio, L’obiezione di coscienza: diritto garantito o irragionevole ostinazione? Riflessioni a margine del recente intervento normativo in materia di “disposizioni anticipate di trattamento”, in Giurisprudenza penale Web, 2019, 1-bis, 381 ss.). Ma ben si evidenziano (Busatta, La sostenibilità, cit., 157 ss.) le difficoltà organizzative connesse a un eventuale riconoscimento, in capo ai sanitari, della possibilità di sottrarsi a quanto previsto dalla l. n. 219/2017. 101
102 Ovviamente, ciò determinerebbe l’insorgere di problemi organizzativi in capo alle strutture sanitarie (Canale e Del Vecchio, La (mancanza di una) clausola di coscienza nella legge italiana sul fine vita, in Giurisprudenza penale Web, 2019, 1-bis, 357).
Avanzata, ad esempio da Bertolone, op. cit., 137, quale conseguenza inevitabile della lettura della legge come fonte di apertura a pratiche eutanasiche. 103
In tal senso: Benciolini, op. cit., 171 ss.; Faccioli, op. cit., 116; Penasa, op. cit., 36; Pizzetti, op. cit., 59; Rodolfi, op. cit., 18. Conclusione condivisa anche da chi ritiene necessario il riconoscimento dell’obiezione di coscienza in capo al singolo professionista (Casella et al., op. cit., 158 s.). Opportunamente, Botti, op. cit., 634 ss., mette in guardia circa le varie modalità con le quali le “organizzazioni di tendenza” potrebbero cercare di sottrarsi al rispetto della legge 219. Di parere contrario D’Avack, op. cit., 189 s., secondo il quale anche le strutture ecclesiastiche dovrebbero potersi avvalere della “opzione di coscienza”, nel rispetto del Concordato tra Chiesa e Stato. 104
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Abbiamo visto poi come un soggetto il cui ruolo si annuncia centrale nel nostro campo – il medico di medicina generale (medico di famiglia) – venga menzionato, nella l. n. 38 e nella l. n. 219, solo con riferimento alle cure palliative; ma abbiamo visto altresì come l’interpretazione conduca, senza particolari sforzi, a individuarne l’importanza in vista del raggiungimento degli obiettivi che la normativa stessa dichiara. In tutta questa mole di parole, esplicite, implicite o volutamente omesse che fanno parte dell’attrezzatura con cui affrontiamo il rapporto fra salute e diritto ve ne sono alcune – esplicite e ricorrenti – che riaffiorano, come una mina vagante capace di sabotare e contraddire quanto fino a qui siamo andati esplorando. Si tratta della formula: “senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica”105 (art. 18, l. n. 24/2017; art. 7, l. n. 219/2017; la copertura è prevista invece dalla l. n. 38/2010). Bisogna essere chiari: tutto quello che è scritto nella nuova, buona legge, rischia di restare lettera morta se non si decide di investire le risorse necessarie per realizzarne gli obiettivi106. Una scelta
Sul punto, Bergonzini, Clausola di invarianza finanziaria, in Forum. La legge n. 219 del 2017, cit., 75 ss.; Francesconi, Commento alla clausola di invarianza finanziaria (Art. 7) della legge 14 dicembre 2017: Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento, ivi, 78; Busatta, La sostenibilità, cit., 165 ss.; nonché le considerazioni di Azzalini, Legge n. 219/2017, cit., 35. 105
Penasa, op. cit., 39; per Palermo-Fabris, op. cit., 47, l’attuale organizzazione delle strutture è il primo, e forse più arduo, scoglio da superare per ottenere la trasposizione dei principi della legge nella comune pratica clinica. Graziadei, op. cit., 42, si sofferma sulla dimensione organizzativa, che impone alle strutture sanitarie di dotarsi di strumenti tecnologici in grado di favorire la gestione del processo che conduce alla consensualità; la dimensione organizzativa del consenso è oggetto dell’indagine di Faccioli, op cit., 112 ss. (“la struttura sanitaria deve organizzarsi, anche tramite l’emanazione di apposite indicazioni al personale sanitario, in maniera tale da assicurare che le procedure di informazione e di acquisizione del consenso del paziente si svolgano in conformità all’ordinamento giuridico e che, pertanto, vengano rispettati i requisiti che quest’ultimo impone in tema di contenuto, di forma, di tempo, di legittimazione a fornire e ricevere le informazioni”); accenti pessimistici sono presenti in Amato, Abbandono terapeutico, ostinazione irragionevole e sedazione profonda, in Nuove leggi civ. comm., 2019, 176 ss., che parla di buone intenzioni, dichiarazioni di facciata e di “mera formula”. 106
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– quella legata ai finanziamenti volti a “dare gambe” alla legge – che appare non solo giusta, ma pure economicamente opportuna. Quelli di cui abbiamo parlato sono diritti. Se ignorati, saranno la conflittualità e le condanne risarcitorie a imporne il rispetto107. Ma questa sarebbe una sconfitta per tutti.
Esplicitamente, Di Masi, Effetti, cit., 163: la l. n. 219 “plausibilmente favorirà il risarcimento del danno non patrimoniale per lesione all’autodeterminazione nel consenso informato”. V. anche Barbara, Violazione dell’obbligo di informazione e risarcibilità del danno da mancata acquisizione del consenso informato, a cura di Foglia, La relazione di cura, cit., 51 ss.; Cilento, op. cit., 37 ss.; Foglia, Consenso, cit., 75 ss.; Ziviz, Autodeterminazione terapeutica e risarcimento del danno, in questa Rivista, 2019, 423 ss.; Ziviz, Le sabbie mobili del danno da lesione all’autodeterminazione nel trattamento sanitario, in Resp. civ. e prev., 2019, 1485 ss. In giurisprudenza, in particolare, v.: Cass., 15.4.2019, n. 10423, in Danno e resp., 2019, 791, con nota di Petruzzi, La lesione del diritto all’autodeterminazione terapeutica quale fonte autonomia di responsabilità; Cass., 22.8.2018, n. 20885, in questa Rivista, 2018, 429, con nota di Russo, La tutela del diritto all’autodeterminazione in assenza di danno alla salute. Le condizioni poste dalla Cassazione; Cass., 15.5.2018, n. 11749, in Foro it., 2018, I, 2400, con nota di Caputi, Consenso informato, autodeterminazione e contrasti occulti ma non troppo; in Nuova giur. civ. comm., 2018, I, 1652, con nota di Pizzimenti, Consenso informato e danno da lesione del diritto all’autodeterminazione: il risarcimento è automatico?, in Resp. civ. e prev., 2018, 1872, con nota di Albanese, Il trattamento sanitario arbitrario tra danno alla salute e danno all’autodeterminazione del paziente; Cass., 23.3.2018, n. 7248, in Foro it., 2018, I, 2401, con nota di Caputi, op. cit.; in Danno e resp., 2018, 609, con nota di Muià e Brazzini, Quale forma deve avere il consenso informato? Le oscillazioni della Cassazione e la soluzione della nuova legge; in questa Rivista, 2018, 321, con nota di Cerea, Violazione dell’obbligo informativo e autonoma risarcibilità del danno all’autodeterminazione; Cass., 5.7.2017, n. 16503, in Sanità pubbl. e privata, 2017, 65, con nota di Dimasi, Mancata informazione del paziente e onere probatorio: quale ripartizione?, in Rass. dir. farmaceutico, 2017, 1007; Cons. Stato, III sez., 21.6.2017, n. 3058, in Foro it., 2017, III, 377; in Resp. civ. e prev., 2017, 1660, con nota di Berti Suman, La responsabilità della P.A. per danno derivante da lesione del diritto all’autodeterminazione terapeutica nel caso “Englaro”; in Nuova giur. civ. comm., 2017, I, 1532, con nota di Azzalini e Molaschi, Autodeterminazione terapeutica e responsabilità della P.A. Il suggello del Consiglio di Stato sul caso Englaro; in Foro amm., 2017, 1228; in Rass. dir. farmaceutico, 2017, 1038; Salvatore, La recente legge sul consenso informato. un passo in avanti in tema di responsabilità medica per violazione degli obblighi informativi?, in Riv. it. med. leg., 2018, 993 ss. 107
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7. Abbiamo una legge; la conosciamo a fondo. E ora? Nei due anni trascorsi dalla sua entrata in vigore la legge 219 è stata sezionata, analizzata, smontata e rimontata per trarne ogni possibile significato e direttiva. L’interesse da parte degli studiosi – e dei molti “camici” più sensibili a questi temi – è testimoniato dalla numerosità degli interventi sulle riviste, dalle non poche monografie, dai convegni che si sono succeduti. Eppure, gli incontri pubblici ai quali capita di partecipare, e la stessa esperienza personale acquisita frequentando – da utenti – le corsie ospedaliere, rendono evidente come la conoscenza di questa legge sia ancora poco diffusa; la sua applicazione decisamente scarsa. A tacer d’altro, il “consenso informato” continua a essere poco più di un modulo, da sottoscrivere insieme al suo “cugino” relativo alla privacy: incombenza avvertita, dagli operatori, come un mezzo per difendersi da un diritto vissuto come un minaccioso intruso; dai pazienti, come un passaggio burocratico necessario per accedere alla prestazione sanitaria. E allora è tempo di attivarsi. Per rimuovere gli ostacoli108 che impediscono la realizzazione di quanto di buono v’è in questa legge è necessario uno sforzo “operativo” da parte di tutti: di chi vive nelle Università, ed è impegnato nella formazione dei futuri medici e infermieri (e dei futuri giuristi); di chi riveste posizioni amministrative nelle istituzioni sanitarie, ed è in grado di incidere sulla formazione del personale, sulla redazione dei protocolli (pensiamo, in particolare, agli uffici legali e ai consulenti), sull’informazione verso il pubblico; delle associazioni e degli ordini professionali; degli stessi operatori (sanitari e giuridici); di chi partecipa alle attività dei Comitati etici e dei Nuclei Etici per la Pratica Clinica109.
Un compito senz’altro impegnativo e faticoso110; forse “semplicemente immane”111. Un compito che può essere però affrontato serenamente, ricordando che “ogni viaggio comincia dal primo passo”.
gere Università e istituzioni sanitarie, pubbliche e private; comporta uno sforzo divulgativo fra la popolazione (Ferrando, op. cit., 74); Fondamentale – anche per sciogliere ambiguità, lacune, incoerenze (che non mancano) – l’opera dell’interprete e, soprattutto, di chi – professionisti della sanità, responsabili delle amministrazioni – è chiamato a realizzare “sul campo”, nella quotidianità della prassi, i principi ispiratori della legge (Mantovani, op. cit., 192 s.). Estremamente interessante è la lettura del lavoro di Quagliariello e Fin, Il consenso informato in ambito medico. Un’indagine antropologica e giuridica, Bologna, 2016, ove si evidenzia quale sia la situazione di partenza, Piccinni, Biodiritto tra regole e principi. Uno sguardo “critico” sulla l. n. 219/2017, in dialogo con Stefano Rodotà, in Biolaw Journal – Rivista di BioDiritto, 2018, spec. 137 ss. 110
Ben sintetizzati da Zambotto, Gli ostacoli della legge n. 219/2017, in questa Rivista, 2018, 215 s. 108
L’attuazione della legge richiede trasformazioni organizzative, culturali, nel campo della formazione; deve coinvol109
Zatti, Spunti per una lettura della legge sul consenso informato, in Nuova giur. civ. comm., 2018, II, 248. 111
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i Saggi Saggi ee pareri pareri agg s rer e a Per una pianificazione condivisa p delle cure: dai principi alle buone prassi Anna Aprile
Professoressa nell’Università di Padova
Mariassunta Piccinni
Ricercatrice nell’Università di Padova Sommario: 1. L’art. 5 della l. n. 219/2017: uno sguardo d’insieme. – 2. Testo e contesti dell’art. 5. – 3. Il ruolo del «fiduciario»: possibili configurazioni. – 4. Regole di capacità e forme per la pianificazione. – 5. Quali «modalità organizzative» per una adeguata pianificazione condivisa di cure?
Abstract: L’art. 5 della legge 219/17 introduce la pianificazione condivisa delle cure che si presenta come strumento apparentemente innovativo nell’ordinamento giuridico. Il consenso di cui all’art. 5 è un consenso “progressivo” o “bifasico” che inizia con un paziente in grado di interagire in maniera consapevole con i curanti e che potrà operare anche in una fase successiva quando il paziente non sarà più consapevole per sopravvenute condizioni di incapacità legate alla patologia. Alla luce di queste premesse, le autrici si propongono di evidenziare i problemi tecnico-giuridici che presenta l’istituto della pianificazione condivisa, collegandoli alle potenzialità applicative dello stesso nei diversi contesti clinici. Si prende ad esempio la specifica esperienza attuativa dell’azienda ospedaliera di Padova per proporre una più generale riflessione sulla possibilità di dare attuazione all’art. 5 in modo da rendere la “pianificazione condivisa delle cure” strumento di attuazione dei principi della l. n. 219/2017, ed, in particolare, di “promozione e valorizzazione” della “relazione di cura e fiducia” tra il paziente (e le persone che questi desidera coinvolgere) ed il medico (nonché l’équipe e gli altri professionisti sanitari che si trovino ad interagire con il paziente).
Article 5 of Law 219/17 introduces shared treatment planning which is presented as an apparently innovative tool in the legal system. The consent referred to in art. 5 is a “progressive” or “biphasic” consent that begins, in fact, with a patient who is able to interact consciously with the carers and that will operate even when the patient will no longer be able to interact due to incapacitated conditions pathology. In light of these premises, the authors propose to highlight the technical and legal problems that the institute of shared planning presents, linking them to its potential application in different clinical contexts. The authors take as example the specific experience of implementation in the hospital of Padua to propose a more general reflection on the possibility of implementing the “shared planning of care” of art. 5, an instrument to implement the principles of Law n. 219/2017, and, in particular, an instrument of “promotion and enhancement” of the “relationship of care and trust” between the patient (and the people he wishes to involve) and the doctor (as well as the team and other healthcare professionals who interact with the patient).
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1. L’art. 5 della l. n. 219/2017: uno sguardo d’insieme La l. n. 219/2017 introduce all’art. 5 uno strumento apparentemente “innovativo” nell’ordinamento giuridico. La «pianificazione condivisa delle cure» compare, infatti, per la prima volta in un testo normativo1; a ben guardare, ci si accorge che si tratta di un modus operandi da tempo diffuso nelle migliori prassi cliniche, con particolare (ma non esclusivo) riguardo alla programmazione terapeutica per pazienti affetti da gravi malattie degenerative a prognosi infausta2.
Di «vera norma nuova della legge» parla Busnelli, Premesse, in Atti del Convegno “Un nuovo diritto per la relazione di cura? Dopo la legge n. 219/2017”, in questa Rivista, 2019, 6. 1
Uno strumento per molti versi analogo è l’advance care planning (ACP) operativo a livello internazionale ed utilizzato nei contesti di malattia progressiva in previsione di peggioramento e con lo scopo di definire un piano d’azione rispettoso dei desideri del paziente nella prospettiva che egli perda la capacità di autodeterminarsi. Sul punto a titolo esemplificativo: Mullick, Martin, Libby, A introduction to advance care planning in practice, in British Medical Journal, 2013, 347, f6064. Nel contesto interno, di particolare rilievo è il “Documento condiviso” per una pianificazione delle scelte di cura, Grandi insufficienze d’organo “end stage”: cure intensive o cure palliative?, promosso dalla Società Italiana di Anestesia Analgesia Rianimazione e Terapia Intensiva (S.I.A.A.R.T.I.), ed approvato nel corso del 2013 da 9 società scientifiche, consultabile all’indirizzo: www.siaarti.it. Nel documento non solo si utilizza una terminologia simile a quella accolta dal legislatore – «Processo condiviso di Advance Care Planning (ACP)» – ma se ne propone nel glossario una definizione, che sembra interessante riportare: «Ci si riferisce con questa locuzione alle pratiche di condivisione anticipata del piano di cure. La scelta terminologica è dettata, per un verso, dalla necessità di fare riferimento alla letteratura e alle numerose esperienze internazionali. D’altro canto, posto che non esiste ancora, né nella normativa né nella letteratura del nostro paese, una terminologia consolidata, si è ritenuto di inserire il sostantivo “processo” seguito dall’aggettivo “condiviso” per due essenziali motivi. L’accento sulla condivisione del processo decisionale, senza nulla togliere al ruolo propulsivo dei professionisti sanitari, è anzitutto una forte garanzia per evitare che il paziente sia sottoposto a trattamenti sproporzionati in eccesso; in secondo luogo, è strumento di garanzia che il paziente sia sottoposto a trattamenti che lui stesso ha considerato proporzionati, contro il pericolo che le scelte del team curante siano guidate da sole esigenze di efficienza e razionalizzazione della spesa sanitaria». Per considerazioni più specifiche sulla scelta terminologica si vedano anche le considerazioni contenute nella parte III
Saggi e pareri
La pianificazione condivisa delle cure si presenta, in questo senso, come una particolare specie di consenso “progressivo”3. Sembra, dunque, che la fattispecie tipizzata dal legislatore all’art. 5 della l. n. 219/2017, quella della «patologia cronica e invalidante o caratterizzata da inarrestabile evoluzione con prognosi infausta»4, altro non sia che l’ipotesi in cui si rende più di frequente necessaria una programmazione protratta nel tempo. Secondo questa lettura, l’art. 5 costituisce la specificazione di un più generale principio desumibile dall’intero impianto normativo5, e già espressamente indicato dal legislatore pure nella l. n. 38/2010 (richiamata dal 1° comma dell’art. 2, l. n. 219/2017) rispetto all’accesso alle cure palliative e alla terapia del dolore appropriate; si tratta della necessità per le strutture sanitarie di assicurare un «programma di cura individuale per il malato e per la sua famiglia»6. Il principio
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del documento (sugli aspetti etici e giuridici), al par. 5 sulla «pianificazione condivisa». V. Società Italiana di Cure Palliative (S.I.C.P.), Informazione e consenso progressivo in cure palliative: un processo evolutivo condiviso, Raccomandazioni della SICP, Milano, 2015, consultabile all’indirizzo: www.sicp.it. 3
Questo ha portato qualche autore a disquisire dei requisiti richiesti per l’attivazione dello strumento ed a proporne un’interpretazione restrittiva. Cfr., ad esempio, La Russa et al., Consenso informato e DAT (disposizioni anticipate di trattamento): momento legislativo innovativo nella storia del biodiritto in Italia, in Resp. civ. prev., 2018, 353 ss. 4
Sulla necessità di considerare la programmazione condivisa delle cure come “stile” fondante il processo di comunicazione e condivisione reciproca di informazioni ed obiettivi che caratterizza ogni relazione di cura e fiducia, al di là della disciplina specifica dell’istituto di cui all’art. 5, l. n. 219/2017, v. Benciolini, Art. 5 “Pianificazione condivisa delle cure”, in BioLaw Journal – Rivista di BioDiritto, 2018, 65; Casonato, La pianificazione condivisa delle cure come paradigma di tutela delle persone malate, in Riv. it. med. leg., 2018, 947 ss.; Gorassini, Consenso informato e disposizioni anticipate di trattamento nella dimensione della c.d. vulnerabilità esistenziale, in Annali SISDIC, 2018; Zatti, Spunti per una lettura della legge sul consenso informato e DAT, in Nuova giur. civ. comm., 2018, II, 249. 5
V. sul punto per tutti Busnelli, Le cure palliative, in Diritto alla salute e alla “vita buona” nel confine tra il vivere e il morire, a cura di Stradella, Pisa, 2011, 187 ss., ora anche in Persona e famiglia. Scritti di Francesco D. Busnelli, Pisa, 2017, 251 ss. ed Orsi, nel Commentario Gabrielli, Delle persone, Leggi collegate, II, a cura di Barba e Pagliantini, Torino, 6
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Pianificazione condivisa delle cure
è, più in generale, implicito nella l. n. 219/2017 anche per le ordinarie ipotesi di consenso “attuale” (artt. 1 e 2), per le decisioni che riguardano i pazienti privi in tutto o in parte della possibilità di esprimere autonomamente un valido consenso, in quanto minori di età o in condizione di “incapacità” (art. 3), e per quelle, residuali, di consenso “ricostruito” (art. 4)7. La specifica disciplina introdotta dall’art. 5 sembra essere correlata alle particolari caratteristiche del rapporto di cura. L’istituto di cui all’art. 5 è destinato ad operare quando si prevede che il rapporto di cura sarà “bifasico”: la pianificazione condivisa inizia, infatti, con un paziente capace di interagire direttamente con il personale sanitario (“fase I”), ma è destinata ad operare anche quando il paziente perderà tale possibilità (“fase II”). È interessante notare, in proposito, come la «condizione di non poter esprimere il proprio consenso» è avvicinata a quella in cui il paziente si trovi in «una condizione di incapacità» (da leggersi, in coerenza con l’art. 4, 1° comma come «di autodeterminarsi»). Il dato normativo è ampio e permette di comprendere tutti i casi in cui venga a mancare la capacità «di prendere decisioni libere e consapevoli»8; ne esce, inoltre, rafforzata la tesi
2009, sub art. 2, l. 22.12.2017, n. 219, 1506 ss. V. sul punto Orsi, Un cambiamento radicale nella relazione di cura, quasi una rivoluzione (articolo 1, commi 2 e 3), in BioLaw Journal - Rivista di BioDiritto, 2018, 25 ss. e Piccinni, Modalità e forme del consenso, in Atti del Convegno “Un nuovo diritto per la relazione di cura? Dopo la legge n. 219/2017”, cit., spec. 67 ss. Per qualche spunto sulle “norme specchio” in ambito biogiuridico, v. Zatti, Piccinni, La faccia nascosta delle norme: dall’equiparazione del convivente una disciplina delle DAT, in Nuova giur. civ. comm., 2017, II, 1283 ss. e, più di recente, Olivero, Tra ombre e specchi: brevi riflessioni sui commi 39, 40, 41 della legge Cirinnà, ivi, 2019, II, 347 ss. 7
Per utilizzare il linguaggio introdotto dalla Consulta rispetto al diverso problema della legittimità costituzionale dell’art. 580 c.p. (v. Corte cost., (ord). 16.11.2018, n. 207). Diversamente, non sembra opportuno comprendere nella «condizione di non poter esprimere il proprio consenso» i casi in cui il paziente sia impossibilitato a causa di un ostacolo meramente fattuale. La conseguenza, che non pare auspicabile, sarebbe l’estromissione del paziente dalle scelte, mentre finché il paziente conserva le proprie facoltà intellettive è necessario preservare e 8
qui proposta secondo la quale lo strumento de quo risponde all’esigenza di poter programmare potenzialmente tutte9 le situazioni in cui il paziente, dapprima in grado di interloquire direttamente con il personale curante, si trovi in una condizione di incapacità. Alla luce di queste premesse, le autrici si propongono di evidenziare i problemi tecnico-giuridici che presenta l’istituto della pianificazione condivisa, collegandoli alle potenzialità applicative dello stesso nei diversi contesti clinici. Si prende ad esempio la specifica esperienza attuativa dell’azienda ospedaliera di Padova per proporre una più generale riflessione sulla possibilità di dare attuazione all’art. 5 in modo da rendere la “pianificazione condivisa delle cure” strumento di attuazione dei principi della l. n. 219/2017, ed, in particolare, di “promozione e valorizzazione” della “relazione di cura e fiducia” tra il paziente (e le persone che questi desidera coinvolgere) ed il medico (nonché l’équipe e gli altri professionisti sanitari che si trovino ad interagire con il paziente).
2. Testo e contesti dell’art. 5 Il testo normativo indica che la pianificazione delle cure condivisa tra il paziente e il medico riguarda l’evolversi delle conseguenze di una patologia «cronica e invalidante» o «caratterizzata da inarrestabile evoluzione con prognosi infausta».
promuovere la relazione di cura e fiducia con il personale curante, ed il problema sarà semmai quello di garantire mezzi di comunicazione adeguati alle condizioni fisiche del paziente. D’altro canto, proprio perché il principio della pianificazione condivisa riguarda anche il consenso attuale di cui all’art. 1, il paziente capace di autodeterminarsi può in ogni momento del percorso terapeutico esercitare i diritti di cui all’art. 1, comma 3°, e, di conseguenza, rifiutare di ricevere ulteriori informazioni e/o indicare la persona di fiducia incaricata di riceverle e di esprimere il consenso in sua vece. Salvo il rispetto di eventuali diverse esigenze del paziente. Si rinvia sul punto a Piccinni, Il problema della sostituzione nelle decisioni di fine vita, in Nuova giur. civ. comm., 2013, I, 219. 9
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È facile comprendere che cosa si intenda per patologia «cronica»; più indefinito è l’aggettivo «invalidante», che non caratterizza alcun grado di invalidità; in particolare, il termine non definisce natura ed entità dell’invalidità che devono costituire condizione preliminare per la redazione della pianificazione condivisa. Si possono ipotizzare, infatti, vari gradi di invalidità: da quelli che limitano solo alcune funzioni dell’organismo a quelli che compromettono pressoché totalmente l’autonomia della persona. Anche la locuzione «prognosi infausta» è piuttosto generica: non è precisato se si tratti di
prognosi infausta quoad vitam o quoad valetudinem. Le due condizioni si prestano, pertanto, ad interpretazioni diversificate. Se, d’altro canto, si conviene sul fatto che l’art. 5 altro non è che la concretizzazione del più generale principio del consenso progressivo, sembra opportuna un’interpretazione che estenda l’ambito di applicazione della disciplina a tutti i casi in cui vi è un rapporto di cura “bifasico”: una relazione, come si è ricordato, che ha inizio con un paziente capace di interagire direttamente con il personale sanitario, e che si prevede che evolva verso una fase in cui il paziente si troverà nella «condizione di non poter esprimere il proprio consenso o in una condizione di incapacità» (così il 1° comma dell’art. 5). Prendendo ad esempio l’esperienza maturata nell’ambito dell’attività di consulenza medico-legale svolta presso l’azienda ospedaliera di Padova dall’entrata in vigore della legge al mese di gennaio 2020, i casi in cui si è proceduto a pianificazione condivisa delle cure hanno riguardato a) pazienti con patologie gravemente invalidanti con prognosi infausta a medio-breve termine quoad vitam in persone affette da sclerosi laterale amiotrofica (SLA) e, più in generale, da malattie neurodegenerative dei motoneuroni; b) la programmazione di interventi chirurgici su pazienti appartenenti alla congregazione religiosa dei Testimoni di Geova che richiedevano di non essere sottoposti a trasfusioni ematiche anche qualora queste si fossero rese necessarie per salvaguardare la loro salute e la loro vita in fase operatoria o postoperatoria; c) pazienti affetti da patologia neoplastica. Lo strumento della pianificazione Responsabilità Medica 2020, n. 1
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condivisa con nomina di fiduciario è stato utilizzato in svariate circostanze che, prima dell’entrata in vigore della l. n. 219/2017, avrebbero richiesto l’attivazione della procedura per la nomina di amministrazione di sostegno10. La peculiare configurazione del rapporto di cura ne condizione la disciplina normativa. In particolare, nella “fase I” del rapporto è necessario il rispetto di tutti i principi e regole che si riferiscono al coinvolgimento del paziente in condizione di partecipare direttamente alla definizione del programma terapeutico che lo riguarda e di avere un ruolo propulsivo nella concretizzazione dei propri diritti (ed interessi). Il 1° comma dell’art. 5 non specifica quale sia il medico che procede alla stesura della pianificazione condivisa delle cure, cosicché è da ritenere che si tratti di qualsivoglia medico con il quale il paziente realizzi una relazione di cura. Può trattarsi di medico di medicina generale, di medico ospedaliero in corso di ricovero, di medico specialista, anche operante a titolo libero professionale, solo a titolo di esempio. Per poter procedere ad una pianificazione condivisa delle cure è necessario che il paziente, nonché le persone che egli stesso sceglie di coinvolgere nella pianificazione, siano adeguatamente informati. L’obbligo informativo è, da un lato, di carattere generale circa le «condizioni di salute» della persona «riguardo alla diagnosi, alla prognosi, ai benefici e ai rischi degli accertamenti diagnostici e dei trattamenti sanitari indicati,
Per fare un esempio tratto dai più recenti casi affrontati in sede giurisprudenziale, ci si può riferire a quello all’origine della vicenda su cui si è pronunciata Cass., (ord.) 15.5.2019, n. 12998, consultabile all’indirizzo: www.personaedanno. it. Il caso riguarda un paziente appartenente ai testimoni di Geova, con malformazione artero-venosa, patologia che comporta «emorragie continue con conseguente “instaurarsi di shock emorragico con rapida perdita della coscienza e compromissione delle funzioni vitali”, e con gravi difficoltà nell’eloquio». Prima dell’entrata in vigore della l. n. 219/2017, l’interessato era ricorso al g.t. per la nomina della moglie come amministratrice di sostegno, con compiti attestativi della sua contrarietà ad eventuali trasfusioni di sangue che si rendessero necessarie in un momento in cui il paziente non fosse in grado di esprimersi. Oggi sarebbe senz’altro indicato procedere con l’applicazione dell’art. 5, l. n. 219/2017. 10
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nonché riguardo alle possibili alternative e alle conseguenze dell’eventuale rifiuto del trattamento sanitario e dell’accertamento diagnostico o della rinuncia ai medesimi» (art. 1, 3° comma); dall’altro, di carattere particolare «sul possibile evolversi della patologia in atto, su quanto il paziente può realisticamente attendersi in termini di qualità della vita, sulle possibilità cliniche di intervenire e sulle cure palliative» (art. 5, 2° comma). L’informazione necessaria per una adeguata pianificazione delle cure non può che essere affidata al professionista sanitario con cui sussiste la relazione di cura. La disposizione non indica neppure quali siano il professionista e/o l’équipe vincolati da quanto indicato nella pianificazione condivisa delle cure. È però evidente che è di estrema importanza, per l’attuazione dei diritti richiamati all’art. 1 della legge, che siano attivate procedure operative che prevedano il coordinamento all’interno delle stesse strutture sanitarie e tra le diverse strutture operanti sul territorio. Da un lato, deve essere garantito al paziente che la pianificazione delle cure condivisa con un medico sia operativa nei confronti di tutti i professionisti sanitari con i quali avrà occasione di incontrarsi nel decorso della sua malattia; dall’altro, i professionisti sanitari devono essere messi in condizione di poter essere tempestivamente informati dell’esistenza e dei contenuti della stessa. È in vista della “fase II” del rapporto – quella in cui sarà necessario prendere decisioni senza potere (più) coinvolgere il diretto interessato e ci si dovrà affidare a quanto precedentemente concordato – che il legislatore prevede i particolari requisiti di forma di cui al 4° comma (su cui v. infra, par. 4), nonché la possibilità di esprimere i «propri intendimenti per il futuro, compresa l’indicazione di un fiduciario». È utile, in proposito, sottolineare la differenza di ruolo tra «familiari», «parte dell’unione civile», «convivente» e, più in generale la «persona di fiducia» che il paziente «desideri» coinvolgere nel programma di cura e la figura (più specifica) del «fiduciario». La prima figura, cui può riassuntivamente riferirsi come “persona di fiducia” – richiamata dal 2° comma dell’art. 5 e che coincide con quella in-
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dicata ai commi 2° e 3° dell’art. 1 – deve essere coinvolta dal personale sanitario, nei limiti indicati dal paziente, mentre questi ancora conserva la sua autonomia decisionale. La seconda, il “fiduciario” – che compare al 3° comma dell’art. 5 e coincide con l’istituto disciplinato all’art. 4 – è destinata ad operare nella seconda fase del rapporto di cura e può rivestire un ruolo fondamentale sia per l’eventuale raccordo tra diversi contesti ospedalieri che per vigilare sull’attuazione della programmazione condivisa da parte del personale sanitario in modo conforme agli intendimenti ed all’interesse del paziente. Nel caso della pianificazione condivisa di cura è probabile che “persona di fiducia” e “fiduciario” coincidano, ma il soggetto, o i soggetti, da coinvolgere nella fase in cui si concorda il programma terapeutico potrebbero anche non corrispondere a quello incaricato di «fare le veci» del paziente nel momento successivo al suo stato di incapacità.
3. Il ruolo del «fiduciario»: possibili configurazioni Con riferimento specifico al ruolo del «fiduciario» nell’ambito della pianificazione condivisa di cure è utile riflettere su un paio di aspetti che si sono rilevati cruciali già nella prima esperienza attuativa dello strumento. Ci si riferisce, in particolare, a) alle modalità di coinvolgimento del fiduciario nella fase di condivisione del piano terapeutico ed in quella attuativa, quando il paziente non sia più in grado di interloquire con il personale sanitario; e b) alle diverse possibili configurazioni del ruolo del fiduciario ed all’onere per il paziente di fare chiarezza su questo aspetto nella fase di stesura del programma terapeutico. Posto il compito propulsivo che la legge individua in capo alle strutture sanitarie – pubbliche o private che siano – rispetto alla «piena e corretta attuazione dei principi» della l. n. 219/2017, alla trasmissione dell’«informazione necessaria ai pazienti» (accanto all’adeguata formazione del personale), nonché all’adozione di relative adeguate
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«modalità organizzative»11, è auspicabile che ogni struttura sanitaria attivi procedure operative che possano facilitare medici, pazienti e persone a questi vicine a predisporre pianificazioni condivise di cure, che si rilevino adeguate a raggiungere l’obiettivo di interpretare al meglio i bisogni e gli interessi del paziente, nel rispetto delle sue volontà, intendimenti e, più nel complesso, della sua personalità12. a) Anzitutto, il fiduciario potrebbe astrattamente non essere coinvolto nella fase di “condivisione” del piano terapeutico; sembra peraltro opportuno, sempre che vi sia il consenso del paziente, che il fiduciario sia presente all’attività connessa alla stesura del documento di pianificazione condivisa delle cure e che ne riceva una copia13.
Cfr. l’art. 1, 9° comma, e, in generale, sul punto Benciolini, nel Commentario Gabrielli, Delle persone, Leggi collegate, II, cit., sub art. 1, l. 22.12.2017, n. 219, 1493 ss. e Busatta, ivi, sub art. 8, l. 22.12.2017, n. 219, 1638. 11
Di una più generale «necessaria interazione tra regole di disciplina dell’attività dei singoli (espressione peraltro di puntuali principi) e regole organizzative del contesto entro il quale la stessa vive ed è operante (ossia all’interno del sistema socio-sanitario)» parla Di Rosa, La relazione di cura e di fiducia tra medico e paziente, in Nuove leggi civ. comm., 2019, 29.
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Per alcune considerazioni sul punto, a partire da un emendamento, comparso nella discussione del d.d.l. n. 989/2018, di conversione del d.l. n. 135/2018 in materia di sostegno e semplificazione per le imprese e la p.a., poi stralciato, che prevedeva l’aggiunta di un frettoloso 1° comma bis all’art. 6, l. n. 219/2017 ed escludeva che il fiduciario potesse avere accesso alla DAT, v. Fortino, Interventi estemporanei in materia di Dat: errori tecnici e violazione di principi costituzionali, in Nuova giur. civ. comm., 2019, II, 138 e Olivero, Che fine hanno fatto i familiari? (Antidoti per un emendamento), ibidem, 139 ss. V. sul punto anche Mantovani, nel Commentario Gabrielli, Delle persone, Leggi collegate, II, cit., sub art. 6, l. 22.12.2017, n. 219, 1622 ss. La situazione è ora normativamente definita nel D.M. Salute, 10.12.2019, n. 168, Regolamento concernente la banca dati nazionale destinata alla registrazione delle disposizioni anticipate di trattamento il quale opportunamente precisa all’art. 1, comma 2°, tra gli obiettivi della “Banca dati nazionale” quello «di assicurare la piena accessibilità delle [DAT] sia da parte del medico che ha in cura il paziente, allorché per questi sussista una situazione di incapacità di autodeterminarsi, sia da parte del disponente sia da parte del fiduciario dal medesimo nominato» e prevede la conseguente disciplina per la raccolta, il tempestivo aggiornamento e l’accesso. 13
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In questo modo, si facilita la possibilità di valorizzarne il ruolo nella seconda fase del rapporto di cura. La relazione tra curanti e fiduciario non può che essere, infatti, di cooperazione rispetto al perseguimento del comune obiettivo di rispettare il programma terapeutico concordato con il paziente. Il personale sanitario può, dunque, sollecitare la consulenza/confronto con il fiduciario tutte le volte in cui accada che il contenuto della pianificazione non sia chiaro al medico rispetto alla situazione contingente; il fiduciario può, dal canto suo, suggerire l’interpretazione che lui ritiene corretta, in base alle sue conoscenze circa la concezione di vita e le aspirazioni del paziente, ogni qual volta gli sembri che l’attuazione del piano terapeutico si discosti dagli obiettivi condivisi. b) Un aspetto giuridicamente controverso14 riguarda la possibile ampiezza dei poteri attribuibili al fiduciario. L’interpretazione che sembra più aderente alla ratio della l. n. 219/2017 ed all’importante ruolo ivi rivestito dalla “fiducia” non solo tra medico e paziente, ma anche tra paziente e persona da questa scelta per interloquire con i curanti, è quella che lascia al paziente la possibilità di delineare ambito e limiti dei poteri attribuiti al fiduciario. Si ritiene pertanto che il paziente possa attribuire al fiduciario una funzione meramente “attestativa” o anche “integrativa” o del tutto “creativa” rispetto alla volontà espressa dall’interessato. D’altro canto, la vaghezza del testo normativo sul punto e l’importanza delle conseguenze dell’intervento del fiduciario consigliano di prevenire i dubbi interpretativi sulla portata dei poteri dello stesso nel momento in cui si dovrà dare attuazione alla volontà del paziente. Questo obiettivo può essere perseguito curando la fase di definizione della pianificazione condivisa in modo che sia specificato e documentato con chiarezza il ruolo
14 V. però sul punto le considerazioni di Zatti, Brevi note sull’interpretazione della legge n. 219 del 2017, in Nuove leggi civ. comm., 2019, 5 ss. Per un approfondimento della questione si rinvia per tutti a Mantovani, nel Commentario Gabrielli, Delle persone, Leggi collegate, II, cit., sub art. 4, l. 22.12.2017, n. 219, 1566 ss.
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che il paziente attribuisce al fiduciario da lui nominato. Si tratta di definire, infatti, se il fiduciario debba solo riportare la volontà del paziente rispetto ad un percorso già del tutto delineato dandogli voce nel momento in cui egli non sia più in grado di esprimere autonomamente la propria volontà (ruolo meramente attestativo/nunciativo) o se il fiduciario possa concordare con il medico di discostarsi dalla pianificazione ed in quali precise circostanze, specialmente qualora si tratti di circostanze non espressamente contemplate nella pianificazione condivisa in quanto non distintamente prevedibili oppure, ancorché prevedibili, talmente remote rispetto alla possibilità di un loro verificarsi da non essere oggetto di analitica prospettazione preventiva. A nostro avviso, il fiduciario può esercitare il potere di assumere decisioni sostituendosi al paziente (in funzione integrativa o del tutto creativa rispetto alla manifestazione di volontà o preferenze attuata da parte del paziente) solo quando questa indicazione venga chiaramente esplicitata dal paziente stesso. È chiaro che se il fiduciario, legittimato dal paziente a partecipare alla determinazione delle scelte in ambito sanitario, dovesse assumere decisioni proprie, palesemente incongrue e non rispettose dell’interesse del paziente, che ne determinino un peggioramento della condizione clinica o, addirittura, la morte, il medico si verrebbe a trovare in conflitto con il fiduciario e dovrebbe procedere, nelle situazioni di emergenza o di urgenza, ai sensi dell’art. 1, comma 7°, ad assicurare le “cure necessarie”, ed, in tutti gli altri casi, o non appena le circostanze lo consentano, ai sensi del 5° comma dell’art. 3, ricorrendo al giudice tutelare. Riteniamo utile richiamare in via esemplificativa un particolare scenario che si è presentato con una certa frequenza nelle prime esperienze di medicina legale clinica presso l’Azienda ospedaliera di Padova, che riguarda il problema delle trasfusioni ematiche nel caso di pazienti Testimoni di Geova. Pensiamo che una breve ricognizione delle varie ipotesi che possono configurarsi in
questa situazione possa meglio chiarire la portata del problema anche a livello più generale15. Dall’entrata in vigore dalla l. n. 219/2017 al mese di gennaio 2020, si è proposto ai pazienti Testimoni di Geova, affetti da quadri patologici per i quali era stata posta indicazione chirurgica, di pianificare congiuntamente con il medico chirurgo, l’anestesista e gli altri professionisti coinvolti nell’assistenza peri e post-operatoria, la gestione di eventuali complicanze comportanti la necessità di utilizzare trasfusioni ematiche16. L’esigenza era sentita sia dai pazienti, che cercavano rassicurazioni circa il fatto che l’intervento sarebbe stato eseguito senza ricorrere all’emotrasfusione, sia dai professionisti che, per taluni casi, valutavano eccessivamente rischioso effettuare un intervento in presenza di questa limitazione. L’esperienza si è rilevata particolarmente significativa: solo una minima parte dei pazienti ha “semplicemente” ribadito il rifiuto espresso prima dell’incontro e manifestato la volontà di non nominare alcun fiduciario ritenendo sufficiente ed esaustiva la sua dichiarazione sul punto; nella
Il caso proposto può apparire distante rispetto alla formulazione letterale dell’art. 5. Si è, sin dal par. 1, giustificata la scelta di una interpretazione del disposto normativo che includa tutti i casi in cui sia prevedibile una “struttura bifasica” della relazione terapeutica. È utile precisare che non tutte le ipotesi di interventi chirurgici “programmati” richiedono una pianificazione condivisa delle cure; questa, peraltro, sembra necessaria ogni qual volta, già in fase di prospettazione dell’intervento chirurgico, si rilevino variabili e criticità prevedibili che possono verificarsi sia in corso di intervento sia nel post-operatorio, in una condizione di incoscienza del paziente. Per i testimoni di Geova i problemi sono connessi alla richiesta del paziente di non essere trasfuso; anche in altri casi di interventi chirurgici complessi (si pensi, per fare un altro esempio, a quelli che richiedono una ventilazione assistita anche nel post-operatorio e in cui il paziente viene mantenuto sedato) la pianificazione condivisa di cure può divenire opportuna. 15
Riferiamo, in questa sede, della casistica rappresentata da oltre sessanta pazienti Testimoni di Geova, adulti, con età compresa prevalentemente nella quinta decade, distribuiti pressoché uniformemente tra maschi e femmine, per oltre due terzi coniugati con persona appartenente alla medesima fede il cui consorte è stato nominato fiduciario. Non riportiamo le vicende cliniche relative ai pazienti minorenni, che pongono peculiari problemi che non è nostra intenzione discutere in questa sede. 16
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maggioranza dei casi, invece, l’incontro ha comportato una modifica della posizione originaria o nel modulare diversamente il rifiuto, o nel riconsiderare il progetto terapeutico iniziale e si è concluso con l’indicazione della nomina del fiduciario, nonché con la definizione del ruolo che il paziente intendeva attribuirgli. Ne è emerso un panorama non uniforme: alcuni pazienti hanno espresso la volontà che il fiduciario fosse interpellato al verificarsi di condizioni tali da rendere necessaria la trasfusione per ribadire, in sua vece, ai curanti il rifiuto alla trasfusione e, nel contempo, hanno precisato che il fiduciario avrebbe dovuto essere consultato per condividere con i curanti diverse opzioni terapeutiche; altri pazienti hanno espresso il desiderio che fosse il fiduciario, insieme ai curanti, ad assumere le decisioni in caso di sua incapacità, sia per rifiutare sia anche, eventualmente, per accettare la trasfusione ritenendo che la persona indicata, in quanto di fiducia, avrebbe saputo comunque ben interpretare il suo interesse. Questa posizione, in cui il paziente assegna ampia libertà di scegliere, se trasfondere o meno, al fiduciario, è stata assunta sia in presenza di fiduciario appartenente alla stessa fede dei testimoni di Geova, sia, in un caso, di fiduciario non testimone di Geova. Il colloquio con l’èquipe dei curanti prima dell’intervento si è rivelato determinante anche per chiarire le modalità e la stessa persistenza dell’indicazione chirurgica. In alcuni casi, quando l’indicazione era finalizzata alla correzione di situazioni patologiche potenzialmente aggredibili anche con approccio alternativo non chirurgico, posti sul piano di valutazione i benefici attesi e i rischi correlati ad un intervento bloodless, il bilanciamento ha fatto prevalere la scelta di rinunciare all’intervento. In talune altre situazioni, in particolare quando l’indicazione chirurgica rappresentava l’unica possibilità di evitare una rapida evoluzione verso il decesso, i curanti hanno deciso di intervenire anche nella consapevolezza del rischio elevato di un intervento bloodless, modificando quando possibile l’approccio chirurgico preventivato. Particolarmente significativo in tal senso il caso di una giovane donna di 22 anni cardiopatica che, dopo ampia illustrazione da parte dei cardiochirurghi che l’avevano in cura della siResponsabilità Medica 2020, n. 1
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tuazione clinica che la riguardava, ha scelto di essere operata con un approccio sternotomico invece che con quello così detto mini-invasivo, mediante mini-toracotomia sottoascellare destra, inizialmente proposto. A parità di efficacia terapeutica della correzione del difetto cardiaco, l’incisione sottoascellare avrebbe comportato esiti pressoché nulli sotto il profilo estetico e un tempo di guarigione della ferita più breve rispetto alla sternotomia mediana; l’approccio mediante sternotomia, però, avrebbe garantito una migliore visualizzazione del campo operatorio e, quindi, un miglior riconoscimento delle strutture cardio-vascolari, con possibilità di miglior controllo intra-operatorio in caso di eventuali complicanze emorragiche e questa peculiarità ha indotto la giovane paziente a preferirlo. Interessante anche riportare che circa la metà dei pazienti compresi nella casistica in questione avevano prodotto ai medici curanti, un documento di disposizioni anticipate di trattamento (DAT). Si trattava di un documento sostanzialmente per tutti sovrapponibile e costituito da un modulo prestampato che riportava, oltre alle generalità, la disposizione, tassativa, di non essere sottoposto a trasfusione neppure qualora gli operatori sanitari la ritenessero necessaria per salvaguardare la vita. Rispetto alla mera indicazione di rifiuto presente nel documento di DAT, per molti di questi pazienti la condivisione con l’èquipe e la definizione di una pianificazione condivisa, ha consentito di delineare una traiettoria della cura ben più articolata delle DAT e più aderente al sentire della persona malata e rispettosa della sua volontà.
4. Regole di capacità e forme per la pianificazione La disciplina introdotta dall’art. 5 pone problemi attuativi rispetto ad altre due questioni di particolare rilievo, quali il problema della capacità richiesta e quello delle modalità e forme previste per la pianificazione. a) I requisiti di capacità. L’art. 5 non regola espressamente il problema della “capacità” richiesta per predisporre una pianificazione condivisa delle cure.
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Il testo normativo contiene un riferimento alla «incapacità» al diverso fine di individuare il momento in cui sorge l’obbligo, per il medico e l’équipe sanitaria, di attenersi alle decisioni programmate. Deve, anzitutto, sgombrarsi il campo da un possibile equivoco. Il 5° comma dell’art. 5 dispone che «[p]er quanto riguarda gli aspetti non espressamente disciplinati dal presente articolo si applicano le disposizioni dell’articolo 4». Si potrebbe, di conseguenza, pensare che le regole in materia di capacità possano direttamente evincersi dal 1° comma dell’art. 4. Deve però notarsi come le regole previste dall’art. 4 in materia di DAT non possano trovare automatica applicazione al caso della pianificazione condivisa delle cure. La situazione oggetto della disciplina e, in particolare, la più volte richiamata struttura bifasica della relazione di cura, portano a ritenere implicita una clausola di compatibilità di quelle disposizioni con l’istituto regolato all’art. 517. Nella fase del rapporto che precede la condizione di “incapacità”, il paziente è capace di interagire direttamente con il personale sanitario, e trovano applicazione (almeno limitatamente a questo arco temporale) le regole indicate all’art. 1. Si pone, dunque, il problema di coordinare le regole di capacità previste per la prestazione di consenso/dissenso attuale alle cure (artt. 1, 5° comma e 3) con quelle previste per le disposizioni anticipate, destinate a valere pro futuro (art. 4, 1° comma). Di tale distinzione tiene conto anche la formulazione dell’art. 5, 3° comma che differenzia l’espressione del consenso “attuale” al piano terapeutico «proposto dal medico» rispetto agli «intendimenti per il futuro» del paziente. Se si accoglie l’interpretazione secondo la quale le regole di capacità introdotte agli artt. 1 e 4, nonostante l’apparente divergenza letterale («ogni persona capace di agire» vs. «ogni persona maggiorenne e capace di intendere e di volere»), sono equivalenti, il problema teorico si risolve nel senso che è sufficiente che il paziente sia maggio-
renne ed in una condizione di “capacità di agire”: non sia, cioè, sottoposto a misure di protezione limitative della capacità di partecipare alle decisioni sanitarie e non si trovi in una condizione di palese incapacità di fatto18. Sono senz’altro escluse dall’applicazione diretta dell’art. 5 le persone minori di età e coloro che si trovano in una condizione di incapacità di agire. La scelta normativa, che potrebbe sembrare non giustificata, sembra comunque ridimensionata sul piano degli effetti pratici, se si ritiene che il principio della programmazione condivisa delle cure abbia una portata più generale, che deve valere, dunque, anche per il minore e per la persona in condizione di incapacità di agire, pur nelle diverse modalità previste all’art. 3. Resta aperto il problema pratico delle modalità e dei criteri per l’accertamento dei requisiti della capacità del paziente di partecipare alla pianificazione delle proprie cure. La legge non affronta espressamente il problema, anche se si possono indicare alcuni punti di riferimento normativi. Una prima indicazione discende dalla disciplina generale della capacità di agire: la persona maggiore di età, per la quale non vi siano provvedimenti giudiziari limitativi della capacità di prendere decisioni sanitarie, beneficia di una presunzione di “competenza” all’attività giuridica. Di conseguenza, il paziente «capace di agire» deve essere considerato dai professionisti sanitari come interlocutore principale nella relazione di cura e fiducia, sia ai fini di una informazione «completa, aggiornata» ed espressa in termini comprensibili sulle proprie condizioni di salute, e sui diversi scenari possibili rispetto alle cure, all’efficacia delle stesse ed ai rischi legati alle scelte, sia in vista dell’espressione del proprio consenso o dissenso alle cure proposte, che, infine, nella più ampia individuazione del percorso di cura e dei soggetti da includervi, su indicazione del paziente.
Sul problema v. Piccinni, Prendere sul serio il problema della “capacità” del paziente dopo la l. n. 219/2017, in questa Rivista, 2018, spec. 262 ss. 18
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Busnelli, Premesse, cit., 6, ritiene il rinvio “fuorviante”.
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Dalla complessiva disciplina di cui agli artt. 1, 3, 4 e 5 della l. n. 219/2017 si possono, poi, trarre almeno un paio di indicazioni che riguardano, più nello specifico, il problema della capacità di partecipare alle scelte sulla propria salute. Anzitutto, la presunzione di capacità opera fino al momento in cui, nell’ambito del rapporto di cura, non emergano gravi elementi che portino il medico a dubitare della capacità di agire del paziente e ad un conseguente accertamento della sua capacità di discernimento. In secondo luogo, nel caso in cui, a seguito degli accertamenti, emerga che il paziente ha una capacità solo parziale di interagire con il personale sanitario, vi sarà il dovere di coinvolgere il paziente «in modo consono alle sue capacità» per essere messo nelle condizioni di partecipare alle decisioni che lo riguardano (v. art. 3, 1° comma). In assenza di indicazioni normative più precise, nel caso in cui emergano dubbi sulla capacità del paziente, il compito del relativo accertamento non può che spettare al curante e deve essere svolto nell’ambito della relazione di cura e fiducia. Il professionista potrà, dunque, fare affidamento sullo stato dell’arte e sugli strumenti elaborati con riferimento alle diverse fasi della vita e ad eventuali specifiche menomazioni delle capacità decisionali per valutare, con riferimento agli specifici compiti, se il paziente possa essere suo valido interlocutore. Se si ammette che il concetto di capacità in ambito medico è funzionale al tipo di decisione da assumere, inoltre, anche con riferimento specifico alla pianificazione condivisa, si potrà valutare il paziente in grado di compiere alcune scelte e non altre. Solo per fare un esempio: per un paziente di età avanzata, con una malattia di Alzheimer in corso, la capacità richiesta per indicare come persona di sua fiducia e fiduciario un familiare con cui vi sia una lunga ed affettuosa comunione di vita (ad esempio il coniuge non separato o il convivente di fatto) potrà essere inferiore a quella richiesta per acconsentire a, o per rifiutare un, intervento terapeutico poco invasivo che i curanti considerino adeguato rispetto ad obiettivi terapeutici conseguibili e auspicabili per un pa-
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ziente in quelle specifiche condizioni di vita e di malattia19. Ove si realizzi una situazione consimile, è opportuno verbalizzare in cartella clinica che il paziente ha nominato come proprio fiduciario il coniuge – risultando il paziente capace di compiere questa scelta e fornire questa indicazione – e dare atto in cartella che le decisioni relative alla terapia da attuarsi sono state discusse e condivise con il fiduciario nominato dal paziente. Più in generale, è opportuno che il personale sanitario documenti in modo adeguato la condizione di capacità del paziente nella prima fase, in modo che non sorgano dubbi nella seconda fase del rapporto20. Analogamente, e nonostante il silenzio della legge, è necessario che sia documentato in modo adeguato il verificarsi del momento, successivo, in cui la persona non sia più in grado di interagire direttamente con il personale sanitario e si entri, dunque, nella seconda fase del rapporto, sempre in costanza dello stesso. b) Modalità e requisiti formali. Quanto alle regole concernenti la forma da utilizzare per esprimere, documentare e rendere conoscibili le proprie manifestazioni di volontà nell’ambito della pianificazione condivisa, l’art. 5, 4° comma prevede che il consenso e l’indicazione del fiduciario siano espressi in forma scritta o «nel caso in cui le condizioni fisiche del paziente non lo consentano, attraverso video-registrazione o dispositivi che
V. sul punto ad esempio, il documento su Nutrizione ed idratazione artificiale nella persona affetta da demenza: riflessioni etiche per un corretto impiego, approvato dal Comitato etico per la pratica clinica, ed adottate con delibera 28.6.2018, n. 557, del Direttore generale della Ulss 6 Euganea, Regione del Veneto, 21 s. Cfr. anche Lenti, Ai confini della cura. I ruoli di protezione, in Atti del Convegno “Un nuovo diritto per la relazione di cura? Dopo la legge n. 219/2017”, cit., 120. 19
Sugli oneri di prova della capacità a carico del personale sanitario e del paziente nel più generale contesto della l. n. 219/2017, v. già Piccinni, Prendere sul serio il problema della “capacità”, cit., 263 ss.; per un caso pratico, Aprile, Ai confini della cura. I ruoli di protezione, in Atti del Convegno “Un nuovo diritto per la relazione di cura? Dopo la legge n. 219/2017”, cit., 115. 20
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consentano alla persona con disabilità di comunicare»21. La ratio sottesa alla previsione di requisiti formali più ristretti rispetto a quelli previsti dall’art. 1 sembra rinvenirsi nell’idoneità a valere per il futuro in un tempo in cui la persona non potrà più modificare le proprie volontà. La forma è richiesta ai fini della validità e può essere particolarmente utile, anche nella prospettiva del paziente, a garantire l’efficacia della pianificazione condivisa di cure22. Un discorso a sé va fatto per l’«aggiornamento», inteso come adeguamento al mutare dei fatti, e per la «revoca», intesa come ripensamento. Il legislatore prende in considerazione espressa solo il primo (v. art. 5, 4° comma, ultima parte). Anche per aggiornamento e revoca debbono valere i requisiti di forma al limitato fine di poter fare riferimento alla pianificazione condivisa delle cure quando la persona non è più in grado di interloquire (con applicazione, ex art. 5, 5° comma, dell’ultima parte dell’art. 4, 6° comma per eventuali ripensamenti in condizioni di emergenza o urgenza). Diversamente, finché la persona conservi la propria capacità, potrà applicarsi il principio della libertà delle forme ex art. 1, l. n. 219/2017 per l’espressione della propria volontà attuale23. La legge richiede, infine, l’«inserimento» «nella cartella clinica e nel fascicolo sanitario elettronico». La cartella clinica e, dove presente, il fascicolo sanitario elettronico, si confermano così come documenti destinati alla rappresentazione in forma
scritta non solo dei rilievi di carattere sanitario in senso stretto della persona ricoverata, ma anche degli aspetti relazionali e dei dati di carattere progettuale sulla medesima. Essi sono la sede in cui inserire il verbale originale dell’incontro che ha dato luogo alla pianificazione condivisa. Nel verbale è opportuno indicare le modalità con le quali si è pervenuti a definire il percorso che il paziente condivide rispetto alle proposte di intervento diagnostico o terapeutico formulate dal medico in rapporto all’evoluzione della patologia. Qualora la pianificazione venga definita con medico curante al di fuori dell’ambiente ospedaliero24 il documento attestante la stessa sarà trattenuto nell’archivio del professionista verbalizzante. Posto il fine della norma, la mancata o inesatta registrazione delle informazioni sul processo di pianificazione e del percorso concordato nella cartella clinica non incide sull’esistenza e validità del consenso, né sulla possibilità di farlo valere nei confronti di terzi estranei al rapporto di cura25; si tratta, peraltro, di un obbligo di natura anche pubblicistica, per il medico e per la struttura sanitaria di appartenenza, il cui mancato adempimento ha conseguenze potenzialmente pregiudizievoli per il paziente. Questi potrà ottenere l’accesso ai dati che lo riguardano, chiederne, eventualmente, la registrazione, rettifica o integrazione ed, in caso di difformità o diniego ingiustificato, agire in sede amministrativa o giudiziale26.
V. sul punto Zatti, Spunti per una lettura della legge sul consenso informato e DAT, cit., 249. 24
Nell’esperienza maturata fino al mese di gennaio 2020 nell’ambito dell’Azienda ospedaliera di Padova per la verbalizzazione della volontà del paziente si è sempre utilizzata la forma scritta, in quando la verbalizzazione è stata curata dal medico responsabile della pianificazione delle cure e si è riservato al paziente “solamente” il compito di sottoscrivere con la propria firma la veridicità del contenuto della stessa. Questo ha reso possibile l’utilizzo della forma scritta anche per patologie gravemente invalidanti. 21
V. in proposito anche le considerazioni di Gaudino, DAT e pianificazione condivisa delle cure, in Atti del Convegno “Un nuovo diritto per la relazione di cura? Dopo la legge n. 219/2017”, cit., 65 e Busatta, Ai confini della cura. Limite e pianificazione condivisa, ibidem, 88 s. 22
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V. sul punto anche Casonato, op. cit.
La natura giuridica della cartella clinica (ed ora del fascicolo sanitario elettronico) è di particolare complessità. Si vedano per tutti le riflessioni ancora attuali poste da Buzzi, La cartella clinica: atto pubblico, scrittura privata o tertium genus? in Riv. it. med. leg, 1997, 1161 ss. 25
Il problema, che investe diversi profili di natura pubblicistica e privatistica (inclusa la normativa sul trattamento dei dati personali) può essere solo accennato in questa sede. Si vedano sul punto ex multis Corso, Sul trattamento dei dati relativi alla salute in ambito sanitario: l’intervento del Garante per la protezione dei dati personali, in questa Rivista, 2019, 225 ss.; Guarda, I dati sanitari, in I dati personali nel diritto europeo (a cura di Cuffaro, D’Orazio, Ricciuto), Torino, 2019, 591 ss.; Id., Fascicolo Sanitario Elettronico e protezione dei dati personali, Trento, 2011; Peignè, Il fascicolo sanitario 26
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È, poi, buona prassi, come già ricordato, che una copia di detto verbale sia consegnata al paziente e, ove nominato, al fiduciario o, in mancanza di quest’ultimo, ad una persona di fiducia indicata dal paziente. I familiari e le persone di fiducia coinvolte dal paziente dovrebbero essere istruiti circa l’approccio al paziente, qualora a domicilio si verificasse una delle condizioni rispetto alle quali il paziente ha espresso la sua volontà; sembra opportuno che anche di questo si faccia menzione nel verbale di pianificazione condivisa di cura, e che lo stesso sia sottoscritto da tutti i presenti.
5. Quali « modalità organizzative» per una adeguata pianificazione condivisa di cure? Come già ricordato, per «garantire la piena e corretta attuazione» dell’istituto della pianificazione condivisa delle cure è necessario che ciascuna struttura individui procedure operative che facilitino la possibilità per i pazienti di conoscere ed esercitare i propri diritti e, per i curanti, intesi come singoli professionisti e come équipe, di rispondere in modo adeguato ai bisogni dei pazienti27. Non è realistico, e forse nemmeno auspicabile, pensare che tali procedure siano standardizzate, ma sarebbe opportuno che vi fosse un confronto tra realtà organizzative. Le procedure dovrebbero essere per lo meno facilmente conoscibili sia per permetterne l’accesso al paziente, che per agevolare un coordinamento tempestivo tra le diverse strutture che dovessero avere in carico il paziente. Anche sulla base delle prime esperienze applicative non riteniamo opportuna la predisposizione
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di modulistica prestampata, in quanto i contenuti della pianificazione condivisa differiscono molto di caso in caso. Potrebbe essere utile, invece, tanto per il personale sanitario quanto per i pazienti e per i loro familiari, nonché per le persone indicate come fiduciari, una sorta di check list con i passaggi tendenziali da compiere nella pianificazione delle cure28, in grado di indirizzare circa la tempistica di attivazione, i soggetti coinvolti, ed i possibili contenuti. Quanto alla tempistica: un tempo giusto per l’avvio della pianificazione condivisa di cure non esiste in astratto e va valutato di volta in volta in base alla patologia ed ai bisogni del singolo paziente. La stessa verbalizzazione costituisce il momento finale di un processo che ha una durata dipendente dalle necessità del paziente. Così, per espressa indicazione normativa, una volta definito il piano, questo può essere aggiornato al progressivo evolversi della malattia, su richiesta del paziente o su suggerimento del medico. Quanto ai soggetti della pianificazione: accanto a quelli necessari, che sono il paziente ed i professionisti sanitari a vario titolo implicati nel processo diagnostico-terapeutico, devono partecipare agli incontri ed essere adeguatamente coinvolti anche i familiari e/o le persone che il paziente desidera avere accanto, nonché la persona eventualmente indicata come fiduciario. È bene che nella fase documentale si dia atto di tutti i soggetti che hanno partecipato alla programmazione, e si precisi quali saranno i poteri del fiduciario (v. supra, par. 3). Quanto ai contenuti, come già precisato nel testo, vanno indicati con chiarezza: a- le modalità con cui si è giunti alla pianificazione condivisa di cure (chi ne ha chiesto l’attivazione e quali le motivazioni; contesto e data degli incontri; soggetti partecipanti); b- le caratteristiche della patologia che affligge il paziente con l’indicazione delle ca-
elettronico, verso una trasparenza sanitaria della persona, in Riv. it. med. leg., 2011, 1520 ss.; Thiene, Salute, riserbo e rimedio risarcitorio, ivi, 2015, 1419 ss. Sul punto v. le più generali considerazioni di Zamperetti, Giannini, La formazione del personale sanitario (commento all’articolo 1, commi 9 e 10), in BioLaw Journal – Rivista di BioDiritto, 2018, 36 ss.; nonché Zamperetti, Progetto di vita e percorsi di cura, in Atti del Convegno “Un nuovo diritto per la relazione di cura? Dopo la legge n. 219/2017”, cit., 23 ss. 27
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Per un’articolata riflessione sulle modalità operative cui attenersi per garantire un adeguato funzionamento nella pratica clinica dell’istituto della pianificazione condivisa delle cure si rimanda a Rodriguez, Aprile, La “pianificazione condivisa delle cure”. Una novità che coglie impreparati sia medici che pazienti, in Quotidianosanità.it, Studi e Analisi, 6.4.2018. 28
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ratteristiche evolutive della stessa; c- i contenuti dell’informazione fornita al paziente ed il parere dei professionisti sanitari presenti (e dei professionisti che, qualora impossibilitati ad intervenire, abbiano comunicato il loro parere) circa l’evoluzione della patologia e le proposte di intervento da loro ritenute opportune, inclusa l’attestazione del paziente di aver ricevuto e recepito le informazioni relative alle risorse terapeutiche disponibili per la sua patologia; d- i desideri, le necessità, le opzioni sulle proposte dei professionisti espressi dal paziente nonché l’attestazione delle volontà del paziente, di accettazione o rifiuto, rispetto ai trattamenti suggeriti in relazione alle situazioni cliniche prospettabili in funzione delle caratteristiche evolutive della patologia; e- nel caso di paziente con capacità di interagire ridotta, la precisazione delle modalità con cui lo stesso è stato coinvolto; f- l’indicazione del fiduciario eventualmente nominato con la precisazione del ruolo che il paziente intende affidargli, nonché l’accettazione dell’incarico. Tenuto conto della peculiarità della materia, per la predisposizione di procedure applicative potrebbe essere opportuno valersi del contributo dello specialista medico-legale operante nelle aziende sanitarie, sia nel momento formativo di carattere generale rivolto agli operatori, sia nella fase applicativa dei casi che dovessero risultare di più complessa valutazione. Questa figura professionale è già incaricata, in molte realtà ospedaliere, di condividere con i professionisti sanitari impegnati nella cura, i problemi relativi alla verifica del consenso e dell’adeguatezza dell’informazione fornita, alla effettiva consapevolezza del paziente nell’accettare o rifiutare la proposta diagnostica terapeutica, al ruolo dei congiunti, ecc., nell’esercizio di quella peculiare espressione operativa della medicina legale che è la “medicina legale clinica”29.
Si fa riferimento, in particolare, all’esperienza del Servizio di Medicina Legale presso l’Azienda Ospedaliera di Padova che ha consentito di identificare, anche sotto il profilo dottrinale, questa particolare connotazione operativa della Medicina Legale (v. Benciolini, La “medicina legale clinica”, (editoriale), in Riv. it. med. leg., 2005, 452). 29
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i Saggi Saggi ee pareri pareri agg s rer e a Dalla perdita di chances alla p responsabilità proporzionale (osservazioni a margine di Cass., n. 28993/2019) Marco Capecchi
Ricercatore nell’Università di Genova Sommario: 1. Natura della chance. – 2. Fondamento della chance. – 3. Incertezza del danno e nesso di causalità materiale. – 4. Soglie di rilevanza della chance perduta: un effetto collaterale dell’accertamento del nesso causale? – 5. La perdita di chance quale paradigma della responsabilità proporzionale? – 6. Responsabilità per perdita di chances vs responsabilità “ordinaria”: una valutazione di analisi economica.
Abstract: La Corte di Cassazione, con la decisione n. 28993 del 2019 resa nell’ambito delle c.d. sentenze di S. Martino 2019, ha ripreso e meglio precisato alcuni principi di diritto in tema di responsabilità per c.d. perdita di chance già enunciati con le sentenze 5641 e 6688 del 2018, offrendo una razionalizzazione dell’intero settore del risarcimento del danno conseguente a omessa/ritardata diagnosi/intervento in ambito di responsabilità sanitaria. Con il presente contributo si intende esaminare, in particolare, le ricadute in tema di nesso causale di alcuni principi di diritto affermati dalla Suprema Corte. The Court of Cassation, with decision no. 28993 of 2019 rendered under the so-called sentences of S. Martino 2019, has taken up and better specified some principles of law in terms of liability for so-called loss of chances already stated in sentence no. 5641 and 6688 of 2018, offering a rationalization of the entire sector of compensation for damage resulting from omitted / delayed diagnosis / intervention in the field of health liability. With this contribution we intend to examine, in particular, the effects on the causal link of some principles of law affirmed by the Supreme Court.
1. Natura della chance La Cassazione conferma la tradizionale distinzione tra perdita di chance patrimoniale e non patrimoniale osservando che la prima presuppone una situazione preesistente “positiva” che non trova il suo sviluppo naturale a causa di un evento negativo imputabile al danneggiante (come nel caso del candidato cui sia illegittimamente impedita la partecipazione ad un concorso); la chance non patrimoniale-non pretensiva (o, come è stata più efficacemente definita, oppositiva1), invece, si verifica in presenza di una situazione “non favorevole” (quale l’esistenza di una malattia) il cui naturale decorso non venga impedito dal danneggiante. Ciò che maggiormente interessa evidenziare ai fini della presente analisi è che tanto la sentenza del 2018 quanto quella del 2019 ribadiscono la configurabilità di entrambi i tipi di perdita di chances, confermando l’applicabilità generale del
Izzo, Il tramonto di un sottosistema della R.C. La responsabilità medica nel quadro della recente evoluzione giurisprudenziale, in Danno e resp., 2005, 130. 1
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rimedio, a prescindere dalla tipologia di danno lamentato. La Cassazione sottolinea che la rilevanza di tale distinzione non è destinata ad esaurirsi solo sul piano concettuale, ma incide sulle modalità di quantificazione del danno che, nella chance patrimoniale, potrebbe essere liquidato in proporzione al valore del risultato atteso e non verificatosi mentre, nella chance non patrimoniale, il risarcimento dovrebbe compensare la perdita della possibilità di impedire il decorso negativo della patologia (e, quindi, pare di capire, dovrebbe essere liquidato secondo un criterio puramente equitativo). Sia consentito dubitare della rilevanza pratica di tale distinzione: in entrambi i casi la liquidazione del danno è destinata ad avvenire in via equitativa, quindi con ampia discrezionalità da parte del magistrato di valutare le circostanze del caso concreto. Certamente, prendendo ad esempio un caso di chance pretensiva quale potrebbe essere il caso di un candidato escluso da un concorso, l’esame delle statistiche (numero di candidati e tasso di superamento dell’esame) potrebbe indurre a una liquidazione da compiersi sulla base di una proporzione matematica, ma anche in tale ipotesi non mancherebbero margini di personalizzazione (ad es. la valutazione del grado di preparazione del candidato, suoi successi/insuccessi in altre procedure, etc.). Si pensi, ancora, al caso, che parrebbe inquadrabile nella chance pretensiva, dell’avvocato che lasci prescrivere i termini per un’azione risarcitoria. Il cliente non potrebbe certo basare la sua pretesa solo su dati statistici per dimostrare la fondatezza della sua pretesa: la individuazione della chance perduta così come la sua quantificazione avverrebbero valutando in modo equitativo le circostanze del caso e il fondamento della eventuale domanda risarcitoria. Insomma, in un caso come nell’altro, il ricorso alla valutazione equitativa dovrebbe consentire ampi margini di discrezionalità nella quantificazione del danno, senza mai doversi pervenire alla predeterminazione di criteri matematici, con la conseguenza che la rilevanza della distinzione sul piano pratico è destinata a sfumare, senza contare che, in molte occasioni, non si potrà avere una precisa quantificazione statistica della chance perduta ma solo Responsabilità Medica 2020, n. 1
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una sua stima in via presuntiva che si tradurrà in una quantificazione discrezionale.
2. Il fondamento della chance Della massima rilevanza è la posizione assunta dalla S.C. in relazione al noto dibattito circa il fondamento della chance: viene accolta la tesi c.d. ontologica secondo cui la chance deve essere risarcita in quanto consistente in un bene autonomo, distinto dal vantaggio finale di cui esprime la possibilità. Viene, invece, respinta la tesi eziologica secondo cui la chance sarebbe un bene omogeneo rispetto al bene giuridico finale, la cui lesione potrebbe sussistere a fronte di un grado di probabilità inferiore al più probabile che non. Sotto questo profilo, entrambe le sentenze prendono espressamente le distanze dalla c.d. scala discendente della causalità che era stata ipotizzata dalla stessa Suprema Corte nella sentenza n. 21619/2007 e dalla chance vista come una “stampella della zoppia causale”, ossia come un espediente per riconoscere il risarcimento del danno anche in casi in cui l’accertamento del nesso causale, secondo i criteri ordinari, sarebbe impossibile2. É noto come tale distinzione rilevi, in particolare, sotto il profilo processuale, in quanto la tesi ontologica permette la risarcibilità del danno solo a fronte di una specifica domanda della parte, mentre la tesi eziologica consente di procedere alla liquidazione di tale danno anche in assenza di specifica domanda, dovendo la stessa ritenersi compresa in quella volta ad ottenere il risarcimento del danno rappresentato dal verificarsi dell’evento che il comportamento imputabile al danneggiato avrebbe dovuto impedire3.
La felice espressione, ripresa testualmente anche dalla decisione in esame è di Pucella, Causalità civile e probabilità, spunti per una riflessione, in Resp. civ. e prev., 2018, 64. Cass., 16.10.2007, n. 21619, ivi, 2008, 323. 2
Cass., 29.11.2012, n. 21245, in Ragiusan, 2013, 354 ss.: “la domanda per perdita di chance è ontologicamente diversa dalla domanda di risarcimento del danno da mancato raggiungimento del risultato sperato, perché in questo secondo caso l’accertamento è incentrato sul nesso causale, mentre nel primo oggetto dell’ indagine è un particolare tipo 3
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3. Incertezza del danno e nesso di causalità materiale Proseguendo nella lettura della motivazione, desta particolare interesse il passaggio in cui la Suprema Corte chiarisce gli ulteriori requisiti necessari per potersi addivenire alla perdita di chances: “Il risarcimento del danno da perdita di chance, pertanto, può essere riconosciuto solo nei casi in cui sia incerto il danno arrecato al paziente, non anche quando vi sia incertezza sulla relazione causale tra la condotta del sanitario e il danno subito”. Due, quindi, gli ulteriori requisiti necessari perché possa addivenirsi alla responsabilità per perdita di chances: – Il danno deve essere incerto; – Deve sussistere un nesso causale tra il comportamento del danneggiante e la perdita della chances. Tali requisiti e, soprattutto, la relazione tra gli stessi meritano alcune osservazioni. Innanzitutto, desta perplessità il requisito dell’incertezza del danno. La riconduzione della chance alla tesi c.d. ontologica implica che la perdita della stessa vada qualificata come danno ingiusto, con la conseguenza che la sussistenza di tale elemento della fattispecie dovrà avvenire in fase di accertamento degli elementi costitutivi dell’illecito e quindi dell’an. In tale fase, la presenza di un elemento incerto, come si vorrebbe fosse il danno, dovrebbe condurre alla reiezione della domanda4,
di danno, e segnatamente una distinta ed autonoma ipotesi danno emergente, incidente su di un diverso bene giuridico quale la mera possibilità del risultato finale; La liquidazione di quest’ultimo non può essere operata d’ufficio dal giudice, non essendo la relativa domanda insita, come un minus in quella volta a far valere il pregiudizio derivante dal mancato raggiungimento del risultato sperato in quanto trattasi di domanda tutt’affatto diversa sulla quale, ove non proposta, il giudice non si può pronunciare”. Nello stesso senso v. Cass., 4.3.2004, n. 4400, in Resp. civ. e prev., 2005, 461 e in Giust. civ., 2005, I, 2115; Cass., 14.6.2011, n. 12961, in Resp. civ. e prev., 2011, 2039; Cass., 9.3.2018, n. 5641, in Foro it., 2018, I, 1579. Contra, v. Cass., 21.2.2007, n. 4003, in Lavoro nella giur., 2007, 1141 e Cass. 14.6.2011, n. 12961, in Resp. civ. e prev., 2011, 2039, hanno considerato la domanda da risarcimento per perdita di chances una mera diminuzione di quella originariamente proposta finalizzata ad ottenere il risarcimento dell’intera perdita subita.
La distinzione tra causalità materiale e giuridica è stata elaborata da Gorla, Sulla cosiddetta causalità giuridica: «fat4
in quanto ritengo che l’accertamento sull’an possa concludersi positivamente solo quando l’onere probatorio circa l’esistenza del danno ingiusto sia stato assolto, cioè sia stato provato che un diverso comportamento del convenuto avrebbe modificato la probabilità che l’evento sperato si verificasse (ad esempio nel caso di impugnazione tardiva) o che l’evento temuto venisse impedito (nel caso di omessa diagnosi di neoplasia). In altre parole, ciò che interessa, in tale prima fase di accertamento dell’an, è che la chance perduta esistesse, a prescindere dalla sua misura. Quanto alle modalità con cui tale prova può essere fornita, si pone il problema di stabilire se ciò possa avvenire solo mediante ricorso alla probabilità statistica ovvero anche mediante probabilità logica o presunzioni. Come già accennato, pare a chi scrive che circoscrivere la prova ai soli casi coperti da leggi scientifiche e statistiche comporterebbe una eccessiva restrizione della tutela risarcitoria e, pertanto, debba ammettersi la possibilità di fare ricorso anche alla c.d. probabilità logica, al pari di quanto già avviene per il nesso causale; pertanto, deve essere consentito al danneggiato di provare l’esistenza e la misura della chance an-
to dannoso e conseguenze», in Riv. dir. comm., 1951, 409 in relazione alla responsabilità extracontrattuale ma la Suprema Corte la applica anche con riferimento a casi di responsabilità c.d. contrattuale, in particolare v. Cass., 16.10.2007, n. 21619, cit. e Cass., 21.7.2011, n. 15991, in Giust. civ., 2013, I, 1537. Con altra sentenza di S. Martino Bis, la n. 28991/2019, la Cassazione ha meglio precisato la rilevanza del nesso causale nell’ambito della responsabilità per inadempimento, distinguendo a seconda del fatto che l’interesse giuridicamente protetto di cui il danneggiato lamenta la lesione costituisse l’oggetto della prestazione rimasta inadempiuta o meno. Nel primo caso, “il nesso di causalità materiale, pur teoricamente distinguibile dall’inadempimento per la differenza tra eziologia e imputazione, non è praticamente separabile dall’inadempimento”. Nel secondo caso, invece, causalità e imputazione tornano a distinguersi anche sul piano funzionale (e non solo su quello strutturale) e, quindi, il nesso causale tra l’inadempimento e la lesione dell’interesse lamentata dal creditore si configura in termini analoghi a quanto avviene nella responsabilità aquiliana, con la conseguenza che il debitore è onerato di provare la sussistenza di tale rapporto eziologico. Cass., 11.11.2019, n. 28991, in Foro it., 2020, I, 210. Per ulteriori riferimenti, sia consentito rinviare a Capecchi, Il nesso di causalità. Dalla condicio sine qua non alla responsabilità proporzionale, Padova, 2012, 17 ss.
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che in via presuntiva, fornendo al giudice tutti quegli elementi che dovranno essere dallo stesso prudentemente valutati al fine di stabilire sussistenza e consistenza della chance perduta. Solo una volta risolta positivamente l’indagine sull’an, si potrà passare a liquidare il quantum, operazione che, come osservato nel paragrafo precedente, avverrà solo pressoché esclusivamente in via equitativa ed è in tale sede che la misura della chance perduta rileverà concretamente perché dovrà essere apprezzata ai fini della quantificazione del danno. Altro passaggio che suscita qualche riflessione è quello relativo alla necessaria sussistenza del nesso causale. Nessun dubbio sul fatto che tale elemento della fattispecie debba sussistere anche in relazione alla perdita di chances, così come per qualsiasi altra fattispecie di responsabilità5. Tuttavia va chiarito che le modalità di accertamento
La Corte costituzionale ha affermato la necessità del nesso causale in un caso che sembra di scuola: durante una battuta di caccia un partecipante rimane ferito da un colpo partito dal fucile di un compagno ma, avendo due suoi compagni sparato contemporaneamente, non è possibile stabilire da quale fucile sia partito il colpo che lo ha ferito. Il danneggiato ricorre allora alla Corte costituzionale lamentando la illegittimità dell’art. 2050 nella parte in cui gli addossa l’insostenibile onere di provare da quale dei due compagni di battuta fosse provenuto il pallino, anziché addossare ai convenuti la prova liberatoria. La Corte con sentenza, però, esclude che «sia possibile introdurre nel nostro ordinamento un nuovo criterio di imputazione fondato non già sul nesso di causalità, ma sulla mera partecipazione all’esercizio di attività pericolosa con distinte ed autonome condotte uniformi di più persone tutte simultanee e tutte teoricamente possibili cause di danno». (Corte cost., 4.3.1992, n. 79, in Foro it., 1992, I, 1347; in Arch. civ., 1992, 251; in Giust. civ., 1992, I, 1430; in Cons. Stato, 1992, II, 373; in Giur. it., 1992, I, 1202; in Giur. cost., 1992, 807; in Resp. civ. e prev., 1992, 348; in Dir. giur. agr., 1992, 472; in Riv. dir. sport., 1992, 73). 5
Da notare che, negli Stati Uniti, casi analoghi erano stati decisi in modo opposto (individuando cioè la responsabilità solidale in capo ai due che avevano fatto fuoco); cfr. Oliver v. Miles, 1927, 144 Miss. 852, 110 So 666 e Summers v. Tice (1948) 33 Cal.2d 80, 199 p. 2. Pucella, Concorso di cause umane e naturali, la via impervia tentata dalla cassazione, in Nuova giur. civ. comm., 2012, I, 198, Id., La causalità incerta, Torino, 2007, 58 ss. osserva come nell’attuale sistema della responsabilità civile vi siano alcune fattispecie che, sebbene non possano dirsi di responsabilità
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dello stesso da impiegare in questo contesto sono diverse da quelle ordinarie, perché devono variare in funzione del fatto che si debba valutare la relazione tra il comportamento imputabile al danneggiante e la perdita di chances o il mancato verificarsi dell’evento sperato, in quanto varia la descrizione dell’evento e, quindi, il ruolo giocato dall’incertezza che, in un caso, si concretizza nel danno ingiusto mentre, nell’altro, investe il nesso causale6. Un esempio può essere utile a chiarire il concetto. Immaginiamo un caso in cui al sanitario venga imputata l’omessa diagnosi e quindi omessa terapia di una patologia che, correttamente trattata, avrebbe consentito una sopravvivenza a cinque anni del 10% dei pazienti. Sulla base di quanto esposto fino ad ora, il danneggiato dovrà individuare il danno di cui chiedere il risarcimento e potrà ricostruire l’accaduto nei seguenti termini: – Antecedente rappresentato dall’omesso intervento e danno ingiusto rappresentato dalla morte del paziente. Con questa descrizione del fatto, il nesso causale risulterà insussistente in quanto ben inferiore al “più probabile che non”. – Antecedente rappresentato dall’omesso intervento e danno ingiusto rappresentato dalla perdita di probabilità di sopravvivenza nella misura del 10%. Con questa ricostruzione del fatto, la probabilità persa dal paziente diventa il danno ingiusto, rispetto al quale il nesso causale finisce per essere in re ipsa, perché l’omissione del trattamento ha causato la perdita della possibilità di rientrare tra quel 10% di pazienti che sono sopravvissuti all’evento. Con quanto sopra, non si intende affermare che la responsabilità per perdita di chances prescinda dall’accertamento del nesso di causalità ma, più semplicemente, che non è necessario procedere ad un accertamento apposito in quanto, descrivendo l’evento in termini di perdita di chances, l’esistenza del nesso causale è implicitamente di-
stocastica, prescindono comunque da un puntuale accertamento del nesso causale, come ad esempio accade nei casi in cui la responsabilità viene ripartita in parti uguali a prescindere dall’accertamento dell’incidenza eziologica nel comportamento dei vari corresponsabili (ad es. art. 2054, comma 2°, c.c.), ovvero nel caso dei casi decisi secondo la regola res ipsa loquitur. Per una approfondita disamina della applicazione di tale tipo di causalità nell’ambito del danno ambientale, v. Parisi e Dari Mattiacci, Il nesso causale nell’inquinamento ambientale, in Danno e resp., 2004, 943.
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V. Cricenti, La perdita di chances come diminutivo astratto, in Resp. civ. e prev., 2016, 2073. 6
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mostrata (potrebbe dirsi in re ipsa7) fornendo la prova della consistenza della chance. Nel caso dell’esempio precedente, provare che l’intervento non eseguito avrebbe aumentato del 10% le chances di sopravvivenza significa riconoscere che c’è un rapporto di causalità tra l’omissione e la perdita di una chance di sopravvivenza del 10%. In ragione di tale osservazione, procedere ad un autonomo accertamento del nesso causale si rivelerebbe superfluo e, anzi, come si vedrà meglio in seguito, potrebbe essere fonte di fraintendimenti laddove venga impiegato l’ordinario criterio del “più probabile che non”. Peraltro, soprassedere a tale accertamento non comporterebbe alcun aumento del tasso di accoglimento delle domande risarcitorie perché queste ultime (nei casi che sarebbe istintivo ricondurre all’assenza di tale requisito e che si potrebbe temere vengano accolti in assenza dell’accertamento di causalità), sarebbero comunque respinte per assenza di danno: qualora ci si trovi a dover decidere un caso nel quale l’intervento omesso non avrebbe in alcun modo aumentato la chance di sopravvivenza, la domanda andrà respinta non (sol)tanto per l’insussistenza del nesso causale quanto, piuttosto, per l’assenza di danno, in quanto non è stata persa nessuna possibilità di un diverso decorso degli eventi. Un esempio volutamente assurdo spero possa aiutare a comprendere meglio il concetto: immaginiamo il caso in cui una persona malata terminale di tumore venga erroneamente esclusa dalla finale di un concorso di bellezza e che, dopo la sua morte gli eredi agiscano contro gli organizzatori del concorso di bellezza sostenendo che la mancata ammissione al concorso ha ridotto le chances di
sopravvivenza del defunto. La domanda andrebbe respinta non tanto per l’assenza di nesso causale tra l’esclusione dal concorso e la morte, quanto, piuttosto, per l’assenza di danno in quanto gli attori non potrebbero provare la diminuzione di chances di sopravvivenza (sul presupposto che l’ammissione al concorso non le avrebbe comunque aumentate). In conclusione, non pare che la responsabilità per perdita di chance possa essere ammessa a fronte di un danno incerto. Pare invece l’esatto opposto, e cioè che tale responsabilità non debba essere riconosciuta a fronte di una incertezza sull’esistenza della chance e che proprio la necessità di una prova rigorosa al riguardo sia necessaria per evitare di scivolare verso l’accoglimento di domande infondate. In base a quanto osservato poc’anzi, situazione di danno incerto, significa che il danneggiante non è in grado di provare l’esistenza della chance perduta, ossia che un diverso comportamento del convenuto avrebbe modificato la probabilità che l’evento sperato si verificasse (ad esempio nel caso di impugnazione tardiva) o che l’evento temuto venisse impedito (nel caso di omessa diagnosi di neoplasia). Ma se il danneggiato non è in grado di fornire tale prova, avremo non solo una situazione di danno incerto ma anche di assenza di prova del nesso causale perché non sappiamo se un diverso comportamento del convenuto avrebbe potuto (almeno astrattamente, cioè con una certa probabilità) incidere sullo svolgimento dei fatti.
Nello stesso ordine di idee pare Cricenti, op. loc. cit., laddove scrive “a ben vedere, l’impostazione più corretta presuppone risolto il problema causale e fa della chance solo una questione di incertezza del pregiudizio”.
Altro passaggio degno della massima attenzione è quello in cui la Suprema Corte precisa che la perdita di chances vada risarcita solo qualora abbia ad oggetto probabilità serie e apprezzabili, non potendosi applicare nel caso di semplice speran-
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Non si condivide, invece quanto si legge in Cass., 9.3.2018, n. 5641, cit., ove è scritto: “Appare, pertanto, fuorviante la distinzione tra chance cd. “ontologica” e chance “eziologica”, volta che la seconda delle predette definizioni sovrappone inammissibilmente la dimensione della causalità con quella dell’evento
4. Soglie di rilevanza della chance perduta: un effetto collaterale dell’accertamento del nesso causale?
di danno, mentre la prima evoca una impredicabile fattispecie di danno in re ipsa che prescinde del tutto dall’esistenza e dalla prova di un danno risarcibile”: il danno da perdita di chances non può considerarsi in re ipsa e, anzi, deve essere puntualmente dimostrato dal danneggiato il quale è onerato di provare che il fatto di cui si imputa l’omissione al danneggiante avrebbe avuto probabilità (statistica o, quantomeno, logica) di modificare il decorso dei fatti.
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za, dando continuità alla precedente giurisprudenza che aveva già richiesto tale requisito8. In particolare, viene esemplificato che non si potrebbe fare luogo al risarcimento in caso di sottrazione di un biglietto della lotteria perché si tratterebbe di mera speranza e non concreta probabilità. Questo passaggio della motivazione merita di essere approfondito innanzitutto perché non è chiaro cosa debba intendersi per “probabilità serie e apprezzabili”9. Alla luce delle considerazioni svolte nel paragrafo precedente, tale requisito dovrebbe interpretarsi nel senso di onerare il danneggiato della prova dell’esistenza della chance perduta (a prescindere dalla sua misura, purché superiore a zero) in quanto tale entità, non dovrebbe incidere sull’an ma soltanto sul quantum. Tuttavia, leggendo la motivazione nel suo complesso, in particolare, esaminando l’esempio della sottrazione del biglietto della lotteria, parrebbe che la locuzione “serie e apprezzabili probabilità” faccia riferimento ad una soglia minima di consistenza della rilevanza statistica della chance, al disotto della quale non sorgerebbe la responsabilità risarcitoria10, come peraltro è stato sostenuto in dottrina, ove è diffusa la preoccupazione di arginare la risarcibilità della perdita di chance11.
Ex multis Cass., 11.12.2003, n. 18945, in Mass. Giust. civ., 2003; Cass., 4.3.2004, n. 4400, in Contratti, 2004, 1094; Cass., 22.11.2004, n. 22026, in Mass. Giust. civ., 2004; Cass., 28.1.2005, n. 1752, ivi, 2005; Cass., 14.11.2017, n. 26822, ivi, 2018. Su tale requisito, v. Frenda, Errore o ritardo nella diagnosi: quanto devono essere concrete le chances perdute?, in questa Rivista, 2018, 269. 8
L’ambiguità della locuzione “serie ed apprezzabili probabilità” era già stato evidenziato in precedenza da Cricenti, op. loc. cit., cui si rinvia anche per ulteriori riferimenti. 9
Con riferimento a tale esempio, ponendosi nell’ottica ex ante rispetto all’estrazione finale, è indubitabile che il soggetto cui venga sottratto il biglietto abbia una minima chance di vittoria (diversamente sarebbe privo di causa il contratto di acquisto del biglietto), che viene persa con la sottrazione del biglietto. Negare che in tal caso sussistano i presupposti per farsi luogo alla perdita di chances, significa ritenere che la probabilità perduta non abbia superato la pretesa “soglia di sbarramento”. 10
Pucella, L’insanabile incertezza e le chances perdute, in Nuova giur. civ. comm., 2018, I, 1685; Frenda, op.cit., 269; 11
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Un requisito minimo di consistenza della chance è stato richiesto fin dal leading case in materia, giacché la sentenza n. 6506/1985 stabilì che fosse onere del danneggiato provare che la chance perduta rappresenti una percentuale di successo probabile e, cioè, pari ad almeno il 50%, poiché in presenza di possibilità sfavorevole superiore a quella favorevole, non vi è alcuna ragione che possa giustificare la prevalenza della seconda sulla prima e, quindi, la sussistenza di un danno”12. Chi scrive non ritiene che siffatta soglia sia compatibile con l’attuale disciplina della responsabilità civile13: come già osservato in precedenza, la misura della chance perduta (salva l’ipotesi della sua insussistenza) è destinata a riflettersi sull’entità del risarcimento; a fronte di una chance di ridotta entità, avremo un risarcimento di modesto importo mentre avremo importi crescenti al variare della consistenza della chance perduta fino ad una somma prossima al risarcimento del danno rappresentato dall’evento sperato. Il problema, quindi, diventa quello di capire se vi sia nel no-
Ziviz, Quale modello per il risarcimento della perdita della chance di sopravvivenza?, in Resp. civ. e prev., 2016, 1490. Nella giurisprudenza amministrativa in tema di illegittima esclusione da gare e concorsi, il requisito di consistenza della chance è stato richiesto fin dal leading case in materia, giacché la sentenza Cass., 19.12.1985, n. 6506, cit. Più recentemente Cons. Stato, V sez., 30.6.2015, n. 3249, in Foro it., 2015, III, 440 e da Cons. Stato, V sez., 11.7.2018, n. 4225, in Resp. civ. e prev., 2018, 1646. Cass., 19.12.1985, n. 6506, in Riv. dir. comm., 1986, II, 207, stabilì che fosse onere del danneggiato provare che la chance perduta rappresenti una percentuale di successo probabile e, cioè, pari ad almeno il 50%, poiché in presenza di possibilità sfavorevole superiore a quella favorevole, non vi è alcuna ragione che possa giustificare la prevalenza della seconda sulla prima e, quindi, la sussistenza di un danno. La presenza di siffatta soglia nella giurisprudenza precedente è stata evidenziata da Frenda, op. cit., 277, che osserva: “Sorge perciò il dubbio che, a dispetto dei proclami della Cassazione, la determinazione del limite minimo di possibilità (perdute) risarcibili non sia appesa ad una non meglio specificata concretezza, bensì dipenda, caso per caso, dalla gravità della colpa di colui per mano del quale tali possibilità (concrete o meno) sono irrimediabilmente sfumate. Sicché, nel decidere della risarcibilità o meno delle possibilità perdute, la concretezza della chance sembra cedere il passo, soprattutto a fronte di chances “inafferrabili”, alla “gravità della colpa”. 12
Analoghe perplessità paiono scorgersi in Frenda, op cit., 273. 13
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stro ordinamento un principio in forza del quale non si debba accogliere una domanda avente ad oggetto un danno minimo e mi pare che la risposta non possa che essere negativa. Inoltre, come accennato in precedenza, ulteriori limitazioni alla risarcibilità della perdita di chances di ridotto importo potrebbero discendere da una discutibile impostazione dei rapporti tra perdita di chance e accertamento del nesso causale condotto secondo il criterio del più probabile che non14: ciò sembra evidente nella sentenza n. 6506/1985 (in cui la limitazione della chance risarcibile discende da una applicazione “ante litteram” del principio del più probabile che non), ma anche in alcune recenti decisioni della S.C. in tema di responsabilità civile dell’avvocato, laddove si legge che “In tema di responsabilità per colpa professionale consistita nell’omesso svolgimento di un’attività da cui sarebbe potuto derivare un vantaggio personale o patrimoniale per il cliente, la regola della preponderanza dell’evidenza, o “del più probabile che non”, si applica non solo all’accertamento del nesso di causalità fra l’omissione e l’evento di danno, ma anche all’accertamento del nesso tra quest’ultimo, quale elemento costitutivo della fattispecie, e le conseguenze dannose risarcibili, posto che, trattandosi di evento non verificatosi proprio a causa dell’omissione, lo stesso può essere indagato solo mediante un giudizio prognostico sull’esito che avrebbe potuto avere l’attività professionale omessa”15. A prescindere dalla discutibile applicazione del criterio del “più probabile che non” in fase di quantificazione del danno, pare evidente l’inopportunità dell’applicazione di tale criterio laddove si pensi che:
In ambito medico legale, si esprimono nel senso della opportunità di utilizzare il medesimo criterio di accertamento del nesso causale Fiori, Marchetti, La Monaca, La causalità civile ed i suoi perduranti problemi medico legali, in Riv. it. med leg., 2014, 1073: “Il danno da perdita di chance è dunque solo un modo per individuare con maggiore precisione gli interessi da tutelare del danneggiato, rimanendo però invariato il criterio di accertamento del nesso causale civilistico tra la condotta e la chance perduta secondo il parametro del più probabile che non”. 14
Cass., 24.10.2017, n. 25112, cit.; Cass., 30.4. 2018, n. 10320 in Danno e Resp., 2018, 715. 15
– Le chances inferiori al 50% potrebbero non essere risarcite per la pretesa insussistenza del nesso causale (ove accertato secondo il criterio del “più probabile che non”); – Le chances superiori al 50% potrebbero non essere neppure domandate, in quanto il danneggiato, a fronte di chances “più probabili che non” troverebbe più conveniente tentare di sostenere la sussistenza del rapporto causale direttamente con l’evento del quale la chance costituisce la probabilità del verificarsi. L’opportunità di siffatta soglia non si giustifica neppure nella diversa prospettiva di limitare le domande risarcitorie16: come già è stato osservato in precedenza, l’onere probatorio a carico del danneggiante non è svuotato ma solo modificato rispetto alla responsabilità per mancato verificarsi dell’evento, potendo la domanda essere accolta solo a fronte della prova della sussistenza e della consistenza della chance perduta. La fondamentale importanza della prova della esistenza e della misura della chance non può condurre fino al punto di doversi richiedere al danneggiato di fornire prove ulteriori rispetto al dato statistico. Autorevole dottrina pare ritenere che il danneggiato dovrebbe fornire elementi di prova tali da provare che sarebbe potuto rientrare nella percentuale “dei fortunati”17. Pare a chi scrive che tali circostanze non debbano essere necessariamente
Temono una deriva verso la tutela del paziente a tutti i costi Buzzi, Il medico tra Scilla (la perdita di chances) e Cariddi (gli interventi compassionevoli) con l’incombente naufragio dell’accertamento medico legale del nesso di causalità e della valorizzazione delle linee guida, in Riv. it. med. leg., 2011, 563 ss. Locatelli, Le diverse vesti della chance perduta e i suoi criteri di risarcibilità, in Resp. civ. e prev., 2008, 2360 ss. Si esprime in termini di “valvola di sicurezza risarcitoria”; Zeno Zencovich, La sorte del paziente. La responsabilità del medico per l’errore diagnostico, Padova, 1994, ritiene che ha la perdita di chances sia stata “introdotta più per semplificare l’onere probatorio per il paziente che per una effettiva fondatezza”. 16
Pucella, L’insanabile incertezza delle chances perdute, cit., 1685: “al danneggiato che lamenti la perdita di una chance del 10% non sembra allora sufficiente, sul piano della prova processuale, l’allegazione di un asettico dato statistico, perché essa non è ancora dimostrazione dell’effettivo possesso (e della conseguente distruzione e perdita) della chance stessa”. 17
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provate ai fini dell’ammissibilità della domanda ma che potrebbero essere utili per quantificare la chance (e, quindi, sarà interesse di ciascuna delle parti fornirne prova in funzione dello scostamento dalla mediana). Immaginiamo che cinque candidati si presentino ad un concorso per titoli: la probabilità di superamento del concorso è astrattamente del 20% per ciascuno. Se, però, uno dei candidati potesse provare di vantare titoli molto superiori a quelli degli altri, ciò significherebbe non tanto che la sua probabilità di rientrare nel 20% “fortunato” siano maggiori, quanto, più correttamente che le sue chance di superamento del concorso sono molto maggiori del 20% e prossime al 100% (e sarà, quindi, suo interesse dare prova della maggiore “forza” dei suoi titoli rispetto a quelli degli altri). Al contrario, se si trattasse di un candidato con pochi titoli, potrebbe essere interesse del danneggiante dimostrare che l’esiguità dei titoli del candidato fosse tale da rendere molto esigue o addirittura nulla le sue chances di superamento del concorso. In tema di risarcimento dei danni derivanti da ingiusta esclusione da concorso, la Cassazione ha talvolta quantificato il danno in misura proporzionale al numero di candidati (Cass., 6.6.2006, n. 13241), ma in altre occasioni ha ritenuto insufficiente tale impostazione, stabilendo la necessità di valutare gli specifici titoli posseduti dai candidati (Cass., 3.3.2010, n. 5119), traendo argomenti di convincimento circa il grado di probabilità favorevole anche dal comportamento processuale delle parti e dalle carenze di allegazione e prova dei fatti rientranti nell’ambito delle rispettive conoscenze e possibilità di attestazione (Cass., 5.3.2012, n. 3415). Chi scrive ritiene che non vi sia alcuna ragione logica o giuridica che debba condurre a porre una soglia minima di rilevanza della chance e che, simmetricamente, neppure possa individuarsi alcuna soglia “massima” superata la quale la domanda diventi irricevibile o legittimi il danneggiato a cambiare petitum individuandolo nel mancato verificarsi dell’evento sperato18: perdita
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di chance e responsabilità civile “ordinaria” hanno due oggetti diversi, sono due binari destinati a non incrociarsi mai. In altri termini, la responsabilità per perdita di chances si pone come alternativa alla tradizionale domanda risarcitoria e non come un “diminutivo astratto” della stessa19: sarà il danneggiato a dover decidere se domandare la “responsabilità proporzionale” che può derivare dalla perdita di chance (sapendo che il risarcimento non potrà mai spingersi a coprire l’intero valore dell’evento sperato, neppure a fronte di casi di probabilità particolarmente elevate) o se, invece, puntare al risarcimento integrale del danno rappresentato dal mancato verificarsi dell’evento sperato, assumendosi in toto il rischio della reiezione della domanda che potrebbe derivare dal mancato accertamento del nesso causale. Sostenere, come si legge nelle sentenze Cass. n. 5641/2018 e Cass. n. 28993/2019 che la perdita di chances possa essere invocata solo in caso di danno incerto (e interpretando tale locuzione come sinonimo di nesso causale incerto), significa ridurne l’ambito applicativo, relegandola nell’ambito del “meno probabile che non”, condannandola a quel ruolo di “diminutivo astratto” della domanda risarcitoria o di “stampella della zoppia causale” che la stessa S.C. ha più volte negato di voler attribuire alla chance. Se la perdita di chance è
l’evento di danno sia costituito non da una possibilità – sinonimo di incertezza del risultato sperato – ma dal (mancato) risultato stesso (nel caso di specie, la perdita anticipata della vita), non è lecito discorrere di chance perduta, bensì di altro e diverso evento di danno, senza che l’equivoco lessicale costituito, in tal caso, dalla sua ricostruzione in termini di “possibilità” possa indurre a conclusioni diverse”. A giudizio di chi scrive, deve essere il danneggiato a decidere se impostare la domanda risarcitoria lamentando la perdita di chance o il mancato verificarsi dell’esito sperato, senza che il maggiore o minore grado di probabilità possa consentire di modificare una domanda di perdita di chances in una domanda avente ad oggetto il mancato verificarsi dell’evento sperato. Tale passaggio riceve l’autorevole adesione di Pucella, L’insanabile incertezza, cit., 1686. L’indicazione della perdita di chances come “diminutivo astratto della responsabilità civile” che si legge al punto 6.1.1 nella sentenza n. 5641/2018 è espressione stata impiegata da Cricenti, op. cit., il quale alla nota 1 illustra come la stessa provenga dalla tradizione francese. 19
Sotto questo profilo, non si condivide il punto 3.9.1. della sentenza Cass., 9.3.2018, n. 5641, cit., ove si legge “Qualora 18
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un danno ontologicamente diverso dal mancato verificarsi dell’evento sperato, tale differente natura deve rimanere a prescindere dalla dimensione quantitativa della chance.
5. La perdita di chance quale paradigma della responsabilità proporzionale Abbiamo visto che la responsabilità per perdita di chance si fonda su quella che è stata efficacemente indicata come “reificazione” delle probabilità perdute20, e abbiamo altresì visto che è un istituto di applicazione relativamente generale potendo avere ad oggetto tanto chances pretensive quanto impeditive, patrimoniali e non. Sorge allora spontanea una domanda: l’ambito applicativo di questo modello risarcitorio deve essere circoscritto alle sole fattispecie caratterizzate dal mancato verificarsi di un evento auspicato (mancata guarigione, mancata partecipazione ad un concorso/gara)? La risposta, a giudizio dello scrivente, non può che essere negativa. È verosimile che il modello della perdita di chance si sia sviluppato in relazione ad eventi di c.d. causalità omissiva favorito dal fatto che tale ambito è notoriamente regolato dalla c.d. teoria “normativa” (che consente l’accertamento del rapporto causale secondo criteri totalmente giuridici, ben distinti da quelli pseudo-naturalistici impiegati per il normale accertamento del nesso di causalità tra un’azione positiva e un evento) e ciò ha liberato gli interpreti dagli (apparentemente) vincolanti criteri utilizzati per l’accertamento del nesso di causalità, consentendo maggiore fantasia nella ricerca di soluzioni innovative21.
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Pucella, L’insanabile incertezza, cit., 1684.
Significative a questo proposito, per chiarire i motivi per i quali la responsabilità per omissione si è prestata a fungere da laboratorio sono le parole di Donini, La causalità omissiva e l’imputazione per l’aumento del rischio, in Riv. it. dir. e proc. pen., 1999, 50, che nel commentare le innovazioni giurisprudenziali in tema di omissione rileva che: «la causalità omissiva – a differenza di quella commissiva – è una causalità ipotetica, e per ciò solo più probabilistica di quanto non sia la causalità commissiva che peraltro – come sappia21
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Esaminando la struttura della responsabilità per perdita di chances nella configurazione da ultimo accolta dalla S.C., essa consiste nella reificazione (e conseguente risarcibilità) della perdita delle probabilità di ottenere un risultato positivo che il danneggiato ha perduto a causa di un fatto imputabile al danneggiante: non pare vi possa essere alcun problema ad individuare, in modo del tutto simmetrico, una responsabilità consistente nell’aumento del rischio del verificarsi di un evento dannoso che consegua ad un fatto imputabile al convenuto. In altri termini, una responsabilità basata sulla reificazione dell’illecito aumento del rischio del verificarsi di una lesione anziché sulla perdita delle probabilità del verificarsi di un evento positivo. É noto che lo stato attuale della conoscenza consente solo di esprimere una relazione quantitativa in ragione della quale ad un antecedente segue, secondo una percentuale statistica, una conseguenza. Perciò, il verificarsi di un antecedente non può dirsi (a meno di fare ricorso a finzioni giuridiche quale si ritiene essere il criterio del “più probabile che non”) causa di un evento ma può dirsi che abbia aumentato la probabilità che quest’ultimo avvenga. Mutuando quanto già avviene nell’ambito della perdita di chance, si può procedere ad una reificazione di tale aumento di probabilità, configurandolo come un danno in-
mo – presenta anch’essa un valore epistemologico di tipo statistico e probabilistico. Una valenza doppiamente probabilistica (probabilità logica del valore delle leggi di copertura e probabilità storica della ricostruzione controfattuale) pertanto caratterizzerebbe l’omissione come condizione di significato eziologico. La conseguenza di tale premessa pare scontata alle decisioni che si commentano e trova in alcune elaborazioni dottrinali un supporto argomentativo autorevole: trattandosi di un accertamento probabilistico e ipotetico non è possibile richiedere una certezza probatoria veramente identica o corrispondente a quella che si può esigere dalla prova della causalità “reale” delle condotte attive. Questo asserito dato di fatto, quindi, suggerisce subito una proposizione prescrittiva o meglio autorizzativa: il giudice – prosegue la tesi che si commenta – nella causalità dell’omissione può “accontentarsi” legittimamente di qualcosa di meno sul piano delle garanzie probatorie, perché la causalità omissiva è meno certa». Per ulteriori riferimenti, sia consentito il rinvio a Capecchi, Il nesso di causalità. Dalla condicio sine qua non alla responsabilità proporzionale, cit., 135 ss.
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giusto (anche in questo caso, come nella perdita di chances, autonomo e distinto da quello consistente nel verificarsi della lesione della situazione giuridica protetta), giacché chiunque sia titolare di una situazione giuridicamente protetta può pretendere che altri non ne incrementino illecitamente il rischio di lesione. Così inquadrato il problema, laddove si verifichi la lesione di una situazione giuridica tutelata dall’ordinamento, il titolare della stessa è legittimato a far valere la responsabilità di tutti coloro che abbiano illecitamente posto in essere comportamenti tali da incrementare il rischio del verificarsi dell’evento che costituisce la lesione subita dal danneggiato. Naturalmente a tali danneggianti non potrà essere imputata la responsabilità di aver causato la lesione subita dal danneggiato, ma solamente quella di aver provocato l’illecito aumento del rischio del verificarsi di tale evento e, pertanto, saranno chiamati a tenere indenne il danneggiato solo dal danno rappresentato dalla “reificazione” di tale illecito incremento di rischio. Così individuato il danno ingiusto, il giudizio circa la sussistenza del nesso di causalità materiale diventa più correttamente gestibile perché il giudice è tenuto a verificare la sussistenza del rapporto (statistico) tra fatto imputabile e aumento del rischio, potendo invece disinteressarsi del rapporto tra antecedente e verificarsi dell’evento (che, invece, attualmente è chiamato a verificare). In ragione di quanto sopra, non pare vi possano essere difficoltà ad impiegare la responsabilità per perdita di chances quale paradigma sul quale modellare quella responsabilità proporzionale che lo scrivente ha ipotizzato da tempo come auspicabile evoluzione dell’attuale sistema della responsabilità civile22.
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6. Responsabilità per perdita di chances vs responsabilità “ordinaria”: una valutazione di analisi economica Chiarito che le due responsabilità (quella per perdita di chances e quella “ordinaria”) sono differenti, sorge spontaneo l’interrogativo di capire quale tra le due meglio risponda alle finalità risarcitoria e deterrente proprie della responsabilità civile23. Sotto tale profilo, ritengo che l’attuale funzionamento della responsabilità civile secondo la logica “all or nothing”, basata sull’accertamento del nesso causale mediante il criterio del “più probabile che non”, conduca a risultati sempre e comunque insoddisfacenti, determinando alternativamente un effetto di sotto o di sopra risarcimento di ammontare tanto maggiore quanto maggiore sia l’incertezza del rapporto causale (tale distorsione sarebbe assente solo nei casi estremi di assoluta certezza di sussistenza/insussistenza del nesso causale, casi che, però, sono teoricamente inesistenti). Per meglio spiegare tale aspetto si pensi al caso di una persona che contragga una patologia a genesi multifattoriale e agisca nei confronti di un soggetto cui sia imputabile un antecedente che può ritenersi “causa” della malattia, nel senso che può aver incrementato il rischio di contrarla. Dal punto di vista scientifico, le cause della malattia possono essere molteplici (immaginiamo: fattori genetici, stile di vita, alimentazione, cause ignote) oltre a quella imputabile al preteso danneggiante. Nella logica attuale, al giudice verrà chiesto di stabilire se l’antecedente imputabile al danneggiante raggiunga la soglia del “più probabile che non”: nel caso di risposta affermativa, il danneggiante sarà tenuto a risarcire l’intera perdita subita dal danneggiato senza che venga in alcun modo valorizzata la possibilità che la causa del sinistro vada individuata negli altri rischi (che
La tesi della responsabilità proporzionale è stata sostenuta dallo scrivente in Il nesso di causalità. Da elemento della fattispecie “fatto illecito” a criterio di limitazione del risarcimento del danno, Padova, 2002. 22
Nella prima edizione del testo si era ipotizzato che alla responsabilità proporzionale potesse pervenirsi tenendo conto dell’intensità del nesso causale in fase di liquidazione del danno, riducendone in via equitativa l’importo. Le critiche ricevute da tale prima soluzione hanno portato a perfezionare la tesi, mantenendo fermo l’obiettivo di pervenire alla responsabilità proporzionale ma modificandone le modalità tramite cui pervenire allo stesso. In occasione della terza edizione del testo nel 2012 (il cui sottotitolo è mutato in Dalla condicio sine qua non alla responsabilità proporzionale e che è stata completamente
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rivista nella terza e ultima sezione), è stato proposto di attuare la responsabilità proporzionale mediante una diversa descrizione dell’evento e il risarcimento del danno ingiusto consistente nella perdita di chances e/o nell’illecito aumento del rischio, come ipotizzato anche in questa sede.
Da ultimo v. Cass., sez. un., 5.7.2017, n. 16601, in Resp. civ. e prev., 2017, 1596.
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Perdita di chances
pure sussistono) cui il danneggiato sarebbe stato sottoposto a prescindere dal comportamento del convenuto, determinando un sovra-risarcimento derivante dall’azzeramento del disvalore di questi ultimi. Specularmente, se il giudice dovesse ritenere che l’antecedente imputabile al danneggiante non raggiunga la fatidica soglia del “più probabile che non”, dovrebbe respingere in toto la domanda risarcitoria, azzerando il valore economico della potenzialità lesiva dell’antecedente imputabile che finirebbe per restare integralmente a carico del danneggiato. Inoltre, quale ulteriore conseguenza, la responsabilità civile viene a perdere la propria funzione deterrente in tutti i casi rientranti nel “meno probabile che non”, come è possibile capire meglio con un ulteriore esempio: immaginiamo che un imprenditore produca un bene di grande diffusione avvalendosi di materiali notoriamente nocivi (ipotizziamo che abbiano effetto cancerogeno nel 5% dei casi). Se tale soggetto si rivolgesse al proprio legale chiedendo un parere circa l’eventuale responsabilità in cui potrebbe incorrere continuando la produzione, la risposta, alla luce delle modalità di accertamento del nesso causale attualmente in auge (cioè il criterio del “più probabile che non”), sarebbe che la domanda di risarcimento dei danni che dovesse essere proposta dai consumatori sarebbe verosimilmente respinta per difetto del requisito del nesso causale perché la probabilità che le lesioni che i danneggiati potrebbero lamentare siano state causate dal prodotto si attestano al 5% e sarebbero quindi molto inferiori alla soglia del “più probabile che non”. Ipotizzando che il prodotto venisse diffuso in 10.000 esemplari, il comportamento del produttore potrebbe causare l’insorgenza di forme tumorali in 500 persone, ma il produttore non potrebbe essere chiamato a rispondere di tali danni per difetto di nesso causale. Addirittura, il legale potrebbe spingersi ad osservare che il produttore non dovrebbe rispondere dei danni derivanti dal suo prodotto neppure nel caso in cui la percentuale dei danneggiati crescesse ulteriormente, a patto che non superi la fatidica soglia del 51%. Risposta ben diversa verrebbe fornita dal legale laddove la responsabilità fosse imputata sulla base dell’aumento di rischio: l’imprenditore dovrebbe
risarcire (seppure con somme relativamente modeste) tutti coloro che potessero provare di aver impiegato il prodotto e subito il danno, facendosi altresì carico delle spese legali, rendendo così meno allettante la continuazione della produzione. In tale prospettiva, l’attuale sistema “ibrido” (in cui la responsabilità per perdita di chances non è alternativo alla responsabilità “all or nothing” ma convive con la stessa, nell’ambito del “meno probabile che non”) produce delle notevoli distorsioni: al danneggiato è consentito formulare la domanda risarcitoria sia puntando a dimostrare la sussistenza del “più probabile che non” (confidando che, in caso di accoglimento, otterrà un sovra- risarcimento) sia, in via subordinata, secondo la logica della perdita di chances, in tal modo dotandosi di una stampella (o, forse meglio, di un paracadute) per il caso in cui non riuscisse a dimostrare la sussistenza del nesso causale. Combinando insieme le due domande, il danneggiato si pone, rispetto al convenuto potenziale danneggiante, in una situazione di vantaggio perché al primo spetta un risarcimento per il danno subito il cui ammontare, in caso di accoglimento della domanda fondata sulla dimostrazione del nesso causale, potrebbe anche eccedere il valore astratto del danno subito e diventa corretto solo scendendo nel campo del “meno probabile che non”. Tale distorsione merita di essere corretta non tanto osteggiando la configurabilità della perdita di chances o cercando di limitarne l’impiego con discutibili soglie minime o/o massime, quanto abbandonando (anche per i casi caratterizzati da un nesso causale rientrante nel “più probabile che non”, analogamente a quanto già avviene con la perdita di chances per i casi rientranti nel “meno probabile che non”) il meccanismo “all or nothing” che, giova ricordarlo, è stato messo a punto in un’epoca in cui le conoscenze di epistemologia erano molto diverse dalle attuali e nessuno dubitava dell’esistenza di quel principio di causalità che, oggi, si è appurato non esistere24.
Per una più completa ricostruzione dell’evoluzione delle conoscenze in tema di causalità sia ancora consentito il rin24
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È noto come, allo stato attuale delle conoscenze scientifiche, l’accertamento del nesso causale costituisca un ossimoro, non potendo l’uomo determinare con certezza le cause di un evento ma avere solo una conoscenza probabilistica delle conseguenze di un dato antecedente (c.d. tramonto del principio di causalità). Purtroppo, la formulazione delle fattispecie di responsabilità civile risale ad un periodo storico nel quale ancora non si era coscienti di tale limite della conoscenza umana, cosicché le norme sono state redatte richiedendo quell’accertamento del nesso causale di cui è oggi nota l’impossibilità. É altrettanto noto come la giurisprudenza, abbia sopperito a tale situazione individuando dei criteri, rectius finzioni (per il settore civilistico il “più probabile che non”), mediante i quali dare per accertato quel requisito della fattispecie imprescindibile per l’accoglimento della domanda risarcitoria. Tuttavia, come si è visto poc’anzi, la soluzione messa a punto dalla giurisprudenza determina risultati tutt’altro che ottimali sotto il profilo dell’analisi economica. Al contrario, una responsabilità che, fermo restando il requisito del nesso causale (e, quindi, senza richiedere modifiche della disciplina vigente), individui il danno ingiusto nella perdita di chances del verificarsi di un evento auspicato e nell’aumento del rischio che si verifichi un evento non voluto, consente una ricostruzione dell’evento più corretta sia sotto il profilo logico sia sotto quello dell’analisi economica: sotto il profilo logico, perché le scienze naturali sono in grado di stabilire una relazione causale tra un evento e la probabilità che se ne verifichi un altro, mentre non sono in grado di stabilire una relazione causale (in termini di logica “all or nothing”) tra un evento e un altro; sotto il profilo dell’analisi economica perché la responsabilità proporzionale consegue quelle finalità risarcitorie e deterrenti che la responsabilità tradizionale dimostra di non essere in grado di perseguire. Perché, dunque, la responsabilità civile, deve continuare a essere interpretata nel senso di prevedere quale elemento della fattispecie un elemento
vio al mio Il nesso di causalità, cit., 205 ss.
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naturale che è stato dimostrato non esistere? Non è più corretto adeguare l’interpretazione delle norme sulla responsabilità civile allo stato delle conoscenze scientifiche, individuando un autonomo danno ingiusto rappresentato dalla perdita di probabilità di ottenere un evento sperato oppure, simmetricamente, dall’aumento di rischio del verificarsi di un evento dannoso, realizzando il tal modo un sistema di responsabilità proporzionale che sembra essere più logico e corretto sotto il profilo economico?
i Saggi Saggi ee pareri pareri agg s rer e a Libertà di morire o dignità nel p morire: la Corte costituzionale e il suicidio assistito in Italia, in Colombia e in Germania Simona Cacace
Ricercatrice nell’Università di Brescia Sommario: 1. La dignità nel morire in Italia. – 2. La dignità nel morire in Colombia. – 3. Dignità e libertà. – 4. La libertà di morire in Germania.
Abstract: L’Autore indaga i nuovi orizzonti della morte medicalmente assistita, con uno sguardo comparativo fra ordinamento italiano, colombiano e tedesco, alla luce dei principî di dignità e di autodeterminazione individuale, nonché nell’àmbito di un complesso dialogo fra le diverse fonti del diritto.
toposta a terapie di sostegno vitale e affetta da patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche ritenute non più tollerabili, nella piena capacità di adottare decisioni libere e consapevoli1.
Corte cost., 22.11.2019, n. 242, in Dir. giust., 25.11.2019, con commento di Marino, DJ Fabo: ecco le motivazioni della Consulta. Cfr. Pulitanò, A prima lettura. L’aiuto al suicidio dall’ordinanza n. 207/2018 alla sentenza n. 242/2019, in Giurisprudenza Penale Web, 2019, 12; Picchi, Considerazioni a prima lettura sulla sentenza n. 242/2019 della Corte costituzionale, in Oss. fonti, 2019, consultabile all’indirizzo: www. osservatoriosullefonti.it; Ruggeri, Rimosso senza indugio il limite della discrezionalità del legislatore, la Consulta dà alla luce la preannunziata regolazione del suicidio assistito (a prima lettura di Corte cost. n. 242 del 2019), consultabile all’indirizzo: www.giustiziainsieme.it, 27.11.2019; Cupelli, Il Parlamento decide di non decidere e la Corte costituzionale risponde a se stessa. La sentenza n. 242 del 2019 e il caso Cappato, in Sistema penale, 2019, 33; D’amico, Il “fine vita” davanti alla Corte costituzionale fra profili processuali, principi penali e dilemmi etici (Considerazioni a margine della sent. n. 242 del 2019), in Oss. AIC, 2020, 286; Razzano, Nessun diritto di assistenza al suicidio e priorità per le cure palliative, ma la Corte costituzionale crea una deroga all’inviolabilità della vita e chiama «terapia» l’aiuto al suicidio, in Dirittifondamentali.it, 2020, 640; Battistella, Il diritto all’assistenza medica a morire tra l’intervento «costituzionalmente obbligato» del Giudice delle leggi e la discrezionalità del Parlamento Spunti di riflessione sul seguito legislativo, 1
The Author studies the new horizons of medically assisted death, with a comparative look between Italian, Colombian and German systems, in the light of the principles of dignity and individual self-determination, and in a complex dialogue between the different sources of law.
1. La dignità nel morire in Italia La Corte costituzionale italiana ha dichiarato l’illegittimità dell’art. 580 c.p. nella parte in cui non esclude la punibilità di chi soltanto agevoli l’esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi in una persona sot-
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Secondo la Corte, tale esclusione della punibilità deve essere affermata quando siano state rispettate le condizioni indicate dagli artt. 1 e 2 della legge n. 219/20172, cioè sussista una relazione di
ivi, 2020, 317; Pescatore, Caso Cappato-Antoniani: analisi di un nuovo modulo monitorio, ivi, 2020, 343; Poli, La sentenza n. 242 del 2019 della Corte costituzionale alla luce della giurisprudenza di Strasburgo, ivi, 2020, 363; Caramaschi, La Corte costituzionale apre al diritto all’assistenza nel morire in attesa dell’intervento del legislatore (a margine della sent. n. 242 del 2019), ivi, 2020, 373; Furno, Il “caso Cappato” ovvero dell’attivismo giudiziale, ivi, 2020, 303; Di Maria, Brevi considerazioni sul rapporto fra tutela sostanziale dei diritti (fondamentali) e rispetto delle forme processuali: la Corte costituzionale e gli “animali fantastici”. The final cut, in Consulta online, 7.1.2020; Masciotta, La Corte costituzionale riconosce il diritto, preannunciato, a morire rapidamente e con dignità con una tecnica decisoria dalle dirompenti implicazioni, ivi, 13.1.2020; Donini, Libera nos a malo. I diritti di disporre della propria vita per la neutralizzazione del male, in Sistema Penale, 10.2.2020. A séguito dell’intervento della Consulta, il 23 dicembre 2019 la Corte d’Assise di Milano ha assolto Marco Cappato “perché il fatto non sussiste”, ricorrendo tutti i requisiti indicati dai giudici costituzionali ai fini della non punibilità dell’aiuto al suicidio: v. Ass. Milano, 30.1.2020, consultabile all’indirizzo: www.sistemapenale.it, con commento di Cupelli, Il caso (Cappato) è chiuso, ma la questione (agevolazione al suicidio) resta aperta, in Sistema penale, 6.2.2020. Cfr., ex pluribus, Foglia (a cura di), La relazione di cura dopo la legge 219/2017. Una prospettiva interdisciplinare, Pisa, 2019; Conti, Scelte di vita o di morte: il giudice è garante della dignità umana? Relazione di cura, DAT e “congedo dalla vita” dopo la l. 219/2017, Roma, 2019; Delbon-Cacace-Conti, Advance care directives: Citizens, patients, doctors, institutions, in Journ. Public Health Research, 2019, 1675; Aa.Vv., La nuova legge n. 219/2017, in BioLaw Journal – Rivista di Biodiritto, 2018, 1-104; Foglia, Consenso e cura. La solidarietà nel rapporto terapeutico, Torino, 2018; Azzalini, Legge n. 219/2017: la relazione medico-paziente irrompe nell’ordinamento positivo tra norme di principio, ambiguità lessicali, esigenze di tutela della persona, incertezze applicative, in Resp. civ. prev., 2018, 8; Ferrando, Rapporto di cura e disposizioni anticipate nella recente legge, in Riv. crit. dir. priv., 2018, 67; Foglia, Nell’acquario. Contributo della medicina narrativa al discorso giuridico sulla relazione di cura, in Resp. med., 2018, 373 ss.; Canestrari, Consenso informato e disposizioni anticipate di trattamento: una “buona legge buona”, in Corr. giur., 2018, 301; Zatti, Spunti per una lettura della legge sul consenso informato e le DAT, in Nuova giur. civ. comm., 2018, II, 247. Sia qui altresì consentito rinviare a Cacace, Il consenso informato e le disposizioni anticipate di trattamento nell’ordinamento italiano, argentino e venezuelano. A proposito di salute, di volontà e di fonti del diritto, in Saccoccio-Cacace (a cura di), Sistema giuridico latinoamericano. Summer School (Brescia, 9-13 luglio 2018), Torino, 2
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cura e di fiducia fra medico e paziente ispirata dal consenso o dal dissenso adeguatamente informato di quest’ultimo e all’insegna della tutela della vita, della salute, della dignità e dell’autodeterminazione dell’ammalato, nonché laddove sia stato previamente interpellato il comitato etico territorialmente competente. Il controllo dei requisiti richiesti e dell’iter seguìto è riservato a strutture sanitarie pubbliche appartenenti al servizio sanitario nazionale. Con precedente ordinanza, la Consulta aveva rinviato di un anno il giudizio, onde consentire «al Parlamento ogni opportuna riflessione e iniziativa» e pertanto confidando nella «sopravvenienza di una legge» a disciplinare la materia e a contemperare le diverse esigenze di tutela3.
2019, 165-194; a Cacace-Conti-Delbon (a cura di), La Volontà e la Scienza. Relazione di cura e disposizioni anticipate di trattamento, Torino, 2019, specie XVII-XXII e 365-388; a Cacace, La nuova legge in materia di consenso informato e DAT: a proposito di volontà e di cura, di fiducia e di comunicazione, in Riv. it. med. leg., 2018, 935, e a Cacace, Autodeterminazione in Salute, Torino, 2017, passim. Cfr. Corte cost. (ord.), 24.10.2018, n. 207, consultabile all’indirizzo: www.questionegiustizia.it, con commento di Bignami, Il caso Cappato alla Corte costituzionale: un’ordinanza ad incostituzionalità differita, e in Fam. dir., 2019, 229, con nota di Falletti, Suicidio assistito e separazione dei poteri dello Stato. Note sul “caso Cappato”, nonché il comunicato dell’Ufficio Stampa della Corte costituzionale, 24.10.2018, Caso Cappato, vuoti di tutela costituzionale. Un anno al Parlamento per colmarli, con nota di Ruggeri, Pilato alla Consulta: decide di non decidere, perlomeno per ora… (a margine di un comunicato sul caso Cappato), in Consulta online, 26.10.2018, 568, con cui la trattazione della questione di costituzionalità dell’art. 580 c.p. viene rinviata all’udienza del 24 settembre 2019. V. altresì Ruggeri, Venuto alla luce alla Consulta l’ircocervo costituzionale (a margine della ordinanza n. 207 del 2018 sul caso Cappato), in Consulta online, 20.11.2018; Tripodina, Quale morte per gli “immersi in una notte senza fine”? Sulla legittimità costituzionale dell’aiuto al suicidio e sul “diritto a morire per mano di altro”, in BioLaw Journal – Rivista di Biodiritto, 2018, 139, e Prisco, Il caso Cappato tra Corte costituzionale, Parlamento e dibattito pubblico. Un breve appunto per una discussione da avviare, ivi, 153. Il processo a carico di Marco Cappato, imputato per il suicidio assistito di Fabiano Antoniani ex art. 580 c.p., prende avvio con giudizio immediato l’8 novembre 2017: cfr. www.giurisprudenzapenale.com. La questione di legittimità costituzionale dell’art. 580 c.p. viene sollevata, infine, dalla Corte d’Assise di Milano con ordinanza del 14.2.2018; l’atto d’intervento del Presidente del Consiglio dei Ministri, inve3
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Tuttavia, a fronte dell’inerzia del legislatore, i giudici costituzionali non solo decidono sul caso concreto, ma delineano altresì pro futuro, e nel dettaglio, l’àmbito di disapplicazione dell’art. 580 c.p. ai fini della costituzionalità della norma medesima. Difatti, nell’ottemperare al divieto di non liquet, la Corte supera l’ottica meramente penalistica – incentrata, in negativo, sull’individuazione di una
ce, è del 3 aprile 2018: v. www.giurisprudenzapenale.com e www.eutanasialegale.it. Ex pluribus, v. Sessa, Fondamento e limiti del divieto di aiuto al suicidio: un nuovo statuto penale delle scriminanti nell’ordinanza della Consulta n. 207/2018, in Dir.pen.cont., 6.5.2019, 1; Lazzeri, La Corte costituzionale traccia la via alla liceità delle condotte di aiuto al suicidio “medicalizzato”, ivi, 30.4.2019, 1; Bartoli, L’ordinanza della Consulta sull’aiuto al suicidio: quali scenari futuri?, ivi, 8.4.2019, 1; Eusebi, Regole di fine vita e poteri dello Stato: sulla ordinanza n. 207/2018 della Corte costituzionale, ivi, 27.3.2019, 2; Canestrari, I tormenti del corpo e le ferite dell’anima: la richiesta di assistenza a morire e di aiuto al suicidio, ivi, 14.3.2019, 1; Bartoli, Ragionevolezza e offensività nel sindacato di costituzionalità dell’aiuto al suicidio, ivi, 8.10.2018, 97; Pulitanò, Il diritto penale di fronte al suicidio, ivi, 16.7.2018, 57; Massaro, Il caso “Cappato” di fronte al Giudice delle Leggi: illegittimità costituzionale dell’aiuto al suicidio?, ivi, 14.6.2018, 1; Fimiani, Le responsabilità penali nelle scelte di fine vita in attesa della Corte costituzionale nel caso Cappato, ivi, 22.5.2018, 1; Forconi, La Corte d’Assise di Milano nel caso Cappato: sollevata questione di legittimità dell’art. 580 c.p., ivi, 16.2.2018, 182; Omodei, L’istigazione e aiuto al suicidio tra utilitarismo e paternalismo: una visione costituzionalmente orientata dell’art. 580 c.p., ivi, 24.10.2017, 143; Bernardoni, Aiuto al suicidio: il g.i.p. di Milano rigetta la richiesta di archiviazione e dispone l’imputazione di Marco Cappato, ivi, 18.7.2017, 256; Id., Tra reato di aiuto al suicidio e diritto ad una morte dignitosa: la Procura di Milano richiede l’archiviazione per Marco Cappato, ivi, 8.5.2017, 381; Battaglia, La questione di legittimità costituzionale dell’art. 580 c.p.: una tappa (necessaria?) del caso “Cappato”, in Quad. cost., 2018, 493; Santosuosso-Belolli, Paradossi nel procedimento Cappato. Tre aporie generate dall’art. 580 c.p. a proposito di aiuto al suicidio, in www.giurisprudenzapenale.com, 25.9.2018; Morrone, Il “caso Cappato” davanti alla Corte costituzionale. Riflessioni di un costituzionalista, consultabile all’indirizzo: www.forumcostituzionale.it, 2018, 3; Pisu, Fine vita e aiuto al suicidio. La Consulta rinvia il giudizio sull’art. 580 c.p. e sollecita l’intervento del legislatore, consultabile all’indirizzo: www.rivistaresponsabilitamedica. it; Eusebi, Un diritto costituzionale a morire «rapidamente»? Sul necessario approccio costituzionalmente orientato a Corte cost. (ord.) n. 207/2018, in Riv. it. med. leg., 2018, 1313, e Napoli, Il caso Cappato – DJ Fabo e le colonne d’Ercole del fine vita. Dal diritto a lasciarsi morire al diritto a morire con dignità, in BioLaw Journal – Rivista di Biodiritto, 2017, 31.
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scriminante – e tratteggia una più ampia regolamentazione dei profili sostanziali e procedurali dell’ipotesi in esame, all’esito di una preventiva discrezionale ponderazione dei valori e degli interessi coinvolti. Lo scarto fra le caratteristiche della fattispecie concreta, dichiarata non punibile, e i termini dell’agevolazione al suicidio consentita per il futuro non è, peraltro, di poco momento, prima di tutto in merito all’individuazione del soggetto che può agevolare il suicidio. A fronte di un imputato che medico non è, la decisione della Corte rivela chiaramente la volontà di ricondurre la fattispecie nell’alveo della relazione di cura e di fiducia, per motivi di natura innanzitutto garantistica, onde assicurare ex ante un adeguato controllo sul paziente in ordine alle sue capacità di autodeterminazione e all’irreversibilità della patologia dalla quale egli è affetto. Il margine di liceità dell’agevolazione non è invero riservato ad una determinata categoria professionale, né è circoscritto agli atti di tipo sanitario. Ciò non toglie che co-protagonista della decisione della Corte sia il medico, accanto ad un soggetto che non è semplicemente “ammalato”, ma è, piuttosto, “paziente”: la stessa terminologia prescelta evoca l’esistenza di una relazione già in corso con il personale sanitario. È la medicalizzazione della morte assistita: peraltro preclusa, s’è detto, a contesti estranei al servizio sanitario nazionale, sempre al fine di scongiurare abusi di sorta. Tali rilievi trovano riscontro là dove la Corte correla la richiesta di suicidio assistito al rifiuto del trattamento sanitario salvavita e alla revoca del consenso al trattamento, cui consegua una condotta interruttiva del medico direttamente connessa con l’exitus. Infatti, poiché l’ammalato supportato da terapie di sostegno vitale può chiederne la cessazione e ritenere così preferibile il decesso, similmente al medesimo soggetto viene consentito un accesso alla morte più diretto ed immediato. L’alternativa fra suicidio assistito e interruzione del trattamento è rimessa dai giudici costituzionali alla decisione del diretto interessato, perché coinvolge i medesimi beni e valori (la vita e l’autodeterminazione) e non legittima, dunque, una diversa valutazione e reazione da parte dell’ordiResponsabilità Medica 2020, n. 1
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namento. In quest’alternativa, peraltro, può rientrare anche la sedazione palliativa profonda continua (eventualmente associata con l’interruzione del trattamento), così accentuando la sua paventata natura di succedaneo dell’atto eutanasico e altresì di mero deterrente all’atto eutanasico medesimo4. La scelta del paziente, dunque, dettata dalla sua personale concezione della dignità nel morire, è fra subitanea morte biologica o mera morte biografica (la cessazione della coscienza), alla quale il decesso segue solo dopo giorni. Può obiettarsi che, se i valori sono i medesimi, è la concezione stessa del ruolo del medico a cambiare. In questo senso, il Comitato Nazionale per la Bioetica riserva la definizione di “trattamento sanitario” alla sola sedazione (la quale «non va confusa con l’eutanasia o con il suicidio assistito o l’omicidio del consenziente»)5 e distingue l’«aiuto nel morire» dall’«aiuto a morire», là dove il coinvolgimento della figura del medico in pratiche tese a cagionare la morte comporterebbe un «profondo
Cfr. Comitato Nazionale per la Bioetica, Sedazione palliativa profonda continua nell’imminenza della morte, parere del 29.1.2016, consultabile all’indirizzo: www.bioetica.governo.it, 19, Postilla di Carlo Flamigni: «trovare il modo di camuffare l’eutanasia facendola passare da atto necessario, misericordioso e lecito, è una operazione possibile, per certi rispetti lodevole, ma che non dovrebbe riguardarci, la dovremmo affidare alla sapienza degli esperti di diritto o alla fantasia degli uomini politici». 4
Comitato Nazionale per la Bioetica, Sedazione palliativa profonda continua nell’imminenza della morte, cit., 15. Sia qui consentito rinviare, anche per tutti gli opportuni riferimenti bibliografici, a Cacace, La sedazione palliativa profonda e continua nell’imminenza della morte: le sette inquietudini del diritto, in Riv. it. med. leg., 2017, 469. V. anche Pizzetti, «Ai confini delle cure»: la sedazione palliativa (o terminale) tra diritto di non soffrire e diritto di morire, in Macchia (a cura di), Ai confini delle cure. Terapia, alimentazione, testamento biologico. Profili clinici, giuridici, etici, Napoli, 2012, 135. Quanto alla definizione di trattamento sanitario, v. Monateri, Illiceità e giustificazione dell’atto medico nel diritto civile, in Belvedere-Riondato (a cura di), Le responsabilità in medicina, in Rodotà-Zatti (diretto da), Trattato di biodiritto, Milano, 2011, 7-8. Definisce, invece, trattamento sanitario ogni «azione del medico (…) su un paziente con farmaci, strumenti, attrezzature (…) al fine di modificarne la condizione clinica» Riccio, Sedazione profonda, Mario Riccio: “Ecco dove sbaglia il CNB”, consultabile all’indirizzo: www.eutanasialegale.it.
Saggi e pareri
mutamento» di tale figura, dei suoi còmpiti e del significato etico-deontologico della professione sanitaria6. La Corte, dunque, non si limita a dettare criteri di rideterminazione del contenuto non costituzionalmente vincolato della norma dichiarata illegittima, ma capovolge la prospettiva della non punibilità e si inserisce direttamente all’interno della relazione medico/paziente, offrendo indicazioni decisive in merito alla diligenza della condotta sanitaria. Pur così sostituendosi al legislatore, però, i giudici precisano come la «declaratoria di illegittimità costituzionale» si limiti «ad escludere la punibilità dell’aiuto al suicidio nei casi considerati, senza creare alcun obbligo di procedere a tale aiuto in capo ai medici», restando affidato «alla coscienza del singolo medico scegliere se prestarsi» o meno all’agevolazione e «ad esaudire la richiesta del malato». Soltanto la legge, difatti, può tramutare in imperativo giuridico la condotta di ottemperare alla richiesta dell’ammalato, eventualmente altresì disciplinando «la possibilità di una obiezione di coscienza del personale sanitario coinvolto nella procedura». Si tratterà, allora, di definire gli esatti termini di tale obiezione, chiarendo se essa possa essere assimilata a quella di cui alla legge n. 194/1978 (richiamata dall’art. 43 CDM) o se, invece, debba svincolarsi da qualsiasi previa manifestazione e formalizzazione, così da potersi enucleare in una dichiarazione estemporanea di volta in volta espressa, alla stregua della clausola di coscienza di cui all’art. 22 CDM7.
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Comitato Nazionale per la Bioetica, Riflessioni bioetiche sul suicidio medicalmente assistito, parere del 18.7.2019, consultabile all’indirizzo: www.bioetica.governo.it, 15 ss. 6
V. Rossi, Obiettare è boicottare? L’ambiguità dell’obiezione di coscienza e i fini dell’ordinamento, in BioLaw Journal - Rivista di Biodiritto, 2019, 125; Azzalini, Scegliere insieme: decisione e coscienza nella relazione di cura alla luce della legge n. 219/2017, in Cacace-Conti-Delbon (a cura di), La Volontà e la Scienza, cit., 79 ss.; Id., Rispetto della persona e libertà del sanitario: riflessioni in tema di obiezione di coscienza nella relazione di cura, in Foglia (a cura di), La relazione di cura dopo la legge 219/17. Una prospettiva interdisciplinare, cit., 173 ss.; Benciolini, Obiezione di coscienza alle DAT: ordinamento deontologico e ordinamento statuale, in Nuove leggi civ. comm., 2019, 152 ss.; Mastromartino, Esiste un diritto ge7
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Così tratteggiata, dunque, la richiesta di una morte medicalmente assistita giunge alla fine di un percorso di cura e di relazione fra il paziente e il personale sanitario, caratterizzato da conoscenza e da fiducia reciproche, nonché improntato ad una comunicazione autentica, in cui la volontà del paziente deve quanto più possibile essere scevra da pressioni ed interferenze che sfruttino la sua condizione di particolare vulnerabilità8. È però difficile presupporre, nell’ammalato che versi nelle condizioni sopra descritte, una autodeterminazione “forte”; il paziente è, per definizione, “debole”: perché sta male, perché in taluni casi sta persino morendo. Ciò non basta, tuttavia, ad elidere la possibilità di una autodeterminazione in tal senso, che dovrebbe altrimenti essere esclusa anche nelle ipotesi di rifiuto del trattamento di sostegno vitale e, ancor più in generale, riguardo a qualsivoglia manifestazione della vo-
lontà (pur positiva) in àmbito sanitario, là dove il paziente versi in condizioni particolarmente critiche. D’altro canto, la non punibilità, che la Corte delinea, concerne la mera agevolazione in ordine alla realizzazione dell’autodeterminazione del paziente e non deve essere in alcun modo confusa con l’istigazione, che incide direttamente, invece, sulla formazione stessa della volontà. Ancora una volta, come già si scriveva per la legge n. 219/20179, è il messaggio valoriale a rappresentare l’aspetto dirompente della decisione della Corte. La sentenza n. 242/2019 e la stessa legge che in futuro potrebbe scaturirne, nel momento in cui consentono una determinata condotta (“uccidere” l’ammalato che ciò richieda, benché al ricorrere di condizioni stringenti), affrancano quest’ultima dallo stigma sociale, ancor prima che giuridico, che a lungo l’aveva connotata10. La sola previsione
nerale all’obiezione di coscienza?, in Dir. quest. pubbl., 2018, 25; Azzalini, Integrità del malato e “giuridicizzazione” della coscienza: no ad una cura contro la persona, in Resp. med., 2018, 343 ss.; Cacace, Autodeterminazione in Salute, cit., 312 ss.; Veronesi, Tra deontologie e obiezioni di coscienza: il sempre attuale problema del limite, in BioLaw Journal - Rivista di Biodiritto, 2016, 9; Amitrano Zingale, L’obiezione di coscienza nell’esercizio della funzione pubblica sanitaria, in Giur. cost., 2015, 1099; Vallini, Il diritto di rifiutare le cure e i suoi risvolti: spunti per una discussione multidisciplinare, in Riv. it. med. leg., 2014, 495; Saporiti, La coscienza disubbidiente: ragioni, tutele e limiti dell’obiezione di coscienza, Milano, 2014; V. Abu Awwad, L’obiezione di coscienza nell’attività sanitaria, in Riv. it. med. leg., 2012, 403; Paris, L’obiezione di coscienza. Studio sull’ammissibilità di un’eccezione dal servizio militare alla bioetica, Firenze, 2011; Eusebi, Obiezione di coscienza del professionista sanitario, in Lenti-Palermo Fabris-Zatti (a cura di), I diritti in medicina, in Rodotà-Zatti (diretto da), Trattato di biodiritto, cit., 173; Chiassoni, Libertà e obiezione di coscienza nello stato costituzionale, in D&Q, 2009, 9, 65. Cfr. altresì il parere del Comitato Nazionale per la Bioetica Obiezione di coscienza e bioetica, 30.7.2012, consultabile all’indirizzo: www.bioetica.governo.it Sulla necessità di tipizzare l’obiezione di coscienza v. anche Cons. Stato, 2.09.2014, n. 04460, in Nuova giur. civ. comm., 2015, I, 74 ss., con commenti di Zatti, Consistenza e fragilità dello «ius quo utimur» in materia di relazione di cura, di Palermo Fabris, Risvolti penalistici di una sentenza coraggiosa: il Consiglio di Stato si pronuncia sul caso Englaro, di Ferrara, Il caso Englaro innanzi al Consiglio di Stato, e Benciolini, «Obiezione di coscienza?».
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Così Comitato Nazionale per la Bioetica, Riflessioni bioetiche sul suicidio medicalmente assistito, cit., 24.
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Cacace, La nuova legge in materia di consenso informato e DAT: a proposito di volontà e di cura, di fiducia e di comunicazione, cit., 935. Ai fini della agevolazione al suicidio ex art. 580 c.p., è sufficiente qualsivoglia comportamento dell’agente, volontario e consapevole, che abbia reso più agevole la realizzazione del suicidio, a nulla rilevando l’esistenza di una intenzione, manifesta o latente, di suscitare o rafforzare il proposito suicidario altrui e presupponendo, anzi, che l’intenzione di autosopprimersi sia stata autonomamente e liberamente maturata dalla vittima: cfr. Cass. pen., 12.03.1998, n. 3147, in Riv. pen., 1998, 74; in Foro it., 1998, I, 456; in Cass. pen., 1999, 871, con commento di Bisacci, Brevi considerazioni in margine ad un episodio di doppio suicidio con sopravvivenza di uno dei soggetti; in Giust. pen., 1998, II, 449; in Studium jur., 1998, 1126, e in Riv. it. med. leg., 2000, 569, con commento di Introna, Il suicidio è un omicidio ruotato di 180°?. Tale agevolazione penalmente rilevante è integrata da una condotta che sia direttamente e strumentalmente connessa all’attuazione materiale del suicidio e che si ponga essenzialmente come condizione di facilitazione del momento esecutivo del suicidio stesso (per esempio, fornire i mezzi per il suicidio od offrire le istruzioni per l’uso degli stessi), non rilevando, dunque, la condotta di chi si limiti ad accompagnare in auto l’aspirante suicida dalla propria abitazione in Italia fino ad una struttura per il suicidio assistito in Svizzera, senza in alcun modo influire sull’altrui proposito suicidario: cfr. Trib. Vicenza, 2.3.2016, in Riv. it. dir. proc. pen., 2017, 300, con commento di Silva, Suicidio assistito in Svizzera. Riflessioni in ordine alla rilevanza penale della condotta di agevolazione. Cfr. altresì, ancora sul “caso Cappato” e sulla ordinanza n. 207/2018, Marini-Cupelli (a cura di), Il caso Cappato. Riflessioni a margine dell’ordinanza della Corte Costi10
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dell’alternativa, d’altronde, rende l’opzione stessa, nel cuore della nudge theory11, ipotizzabile, accettabile e praticabile.
tuzionale n. 207 del 2018, Napoli, 2019; Masoni, Riflessioni su suicidio, suicidio assistito, interruzione delle cure ed eutanasia, alla luce della pronunzia della Corte cost. n. 207 del 16 novembre 2018, in Dir. fam. pers., 2019, I, 465; Azzalini, Il “caso Cappato” tra moniti al legislatore, incostituzionalità “prospettate” ed esigenze di tutela della dignità della persona, in Nuova giur. civ. comm., 2019, 540; Salerno, Eutanasia cosciente e agevolazione del suicidio: l’ultimatum della Corte costituzionale, in Ilpenalista.it, 3.1.2019; Pisu, Fine vita. La Corte costituzionale si rivolge al legislatore inaugurando una nuova stagione di «relazionalità istituzionale», in Resp. civ. prev., 2019, 122; Leo, Nuove strade per l’affermazione della legalità costituzionale in materia penale: la Consulta ed il rinvio della decisione sulla fattispecie di aiuto al suicidio, in Riv. it. dir. proc. pen., 2019, 241; Gentile, La Corte costituzionale e il suicidio assistito, tra giurisdizione e politica, in Foro it., 2019, I, 1876; Romboli, Il «caso Cappato»: una dichiarazione di incostituzionalità «presa, sospesa e condizionata», con qualche riflessione sul futuro della vicenda, ivi, I, 1892; Vinciguerra, L’aiuto al suicidio in Italia (art. 580 c.p.). Alcune osservazioni fra storia e attualità, ivi, I, 1897; Cupelli, Il caso Cappato, l’incostituzionalità differita e la dignità nell’autodeterminazione alla morte, in Cass. pen., 2019, 533; Aprile, Originalità processuali nell’ordinanza “monito” adottata dalla Consulta nel “caso Cappato” sul reato di aiuto al suicidio, ivi, 2019, 1087; Anzon demmig, Un nuovo tipo di decisione di “incostituzionalità accertata ma non dichiarata”, in Giur. cost., 2018, 2459; Pinardi, Il caso Cappato e la scommessa della Corte (riflessioni su un nuovo modello di pronuncia monitoria), ivi, 2465; Repetto, Interventi additivi della Corte costituzionale e ragionevolezza delle scelte legislative in un’ordinanza anticipatrice di incostituzionalità, ivi, 2018, 2487; Massa, Una ordinanza interlocutoria in materia di suicidio assistito. Considerazioni processuali a prima lettura, in Riv. it. med. leg., 2018, 1323; Azzalini, il “caso Cappato” davanti alla Consulta: equivoci e paradossi in tema di aiuto al suicidio e diritto all’autodeterminazione terapeutica, in Nuova giur. civ. comm., 2018, 1462; Tripodina, Sostiene la Corte che morire all’istante con l’aiuto d’altri sia, per alcuni, un diritto costituzionale. Di alcune perplessità sull’ord. 207/2018, in Giur. cost., 2018, 2445; D’Amico, Scegliere di morire “degnamente” e “aiuto” al suicidio: i confini della rilevanza penale dell’art. 580 c.p. davanti alla Corte costituzionale, in Corr. giur., 2018, 737. Cfr. Eusebi, Regole di fine vita e poteri dello stato: problemi aperti di carattere biogiuridico in rapporto alla ord. n. 207/2018 della Corte costituzionale, in Cacace-Conti-Delbon, La Volontà e la Scienza, cit., 152. V. anche Id., Decisioni sui trattamenti sanitari o «diritto di morire»? I problemi interpretativi che investono la legge n. 219/2017 e la lettura del suo testo nell’ordinanza di rimessione alla Corte costituzionale dell’art. 580 c.p., in Riv. it. med. leg., 2018, 415 ss. In questo senso, cfr. Cour Sup. Québec, Truchon c. Procurer général 11
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Saggi e pareri
Come osserva il Comitato Nazionale per la Bioetica, la medicina non è una attività «meramente tecnica e neutrale», bensì è «una pratica basata su un’etica e una deontologia che pone al centro la tutela della vita, la cura e il prendersi cura del paziente»12, che attiene alla coscienza quanto alla scienza del medico, nell’àmbito di un irriducibile pluralismo assiologico. In questo senso, merito della legge n. 219/2017 è di aver statuito, su sollecitazione degli arresti giurisprudenziali dell’ultimo decennio, la dignità non solo deontologica della relazione di cura, mutuando peraltro gran parte dei suoi enunciati dal Codice deontologico medesimo. La sentenza n. 242/2019 rappresenta, invece, un momento di rottura, sia rispetto alla giurisprudenza precedente sia rispetto al dettato deontologico, che vieta al medico di realizzare o favorire atti finalizzati a provocare la morte del paziente, anche laddove questi lo richieda (art. 17 CDM). Il Consiglio Nazionale dell’Ordine dei Medici provvede tuttavia a riallineare responsabilità giuridica e disciplinare solo un paio di mesi dopo, modificando e aggiornando il relativo Codice conformemente alle indicazioni della Corte13.
du Canada, 11.9.2019, n. 500-17-099119-177, consultabile all’indirizzo: www.eol.law.dal.ca «(…) les personnes vivant avec un handicap risquent non seulement d’être sujettes aux pressions sociales, mais aussi de percevoir le message implicite qu’elles seraient mieux mortes, que leur meilleure option est de mettre un terme à leur vie et que la vie avec un handicap ne vaut pas la peine d’être vécue». Riguardo all’affaire Truchon cfr., amplius, infra nt. 41. Comitato Nazionale per la Bioetica, Riflessioni bioetiche sul suicidio medicalmente assistito, cit., 15 e 17. 12
Il 6.2.2020, infatti, il Consiglio Nazionale dell’Ordine dei Medici Chirurghi e degli Odontoiatri approva all’unanimità i nuovi Indirizzi applicativi all’art. 17 (Atti finalizzati a provocare la morte): «La libera scelta del medico di agevolare, sulla base del principio di autodeterminazione dell’individuo, il proposito di suicidio autonomamente e liberamente formatosi da parte di una persona tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale, affetta da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche intollerabili, che sia pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli (sentenza 242/19 della Corte Costituzionale e relative procedure), va sempre valutata caso per caso e comporta, qualora sussistano tutti gli elementi sopra indicati, la non punibilità del medico da un punto di vista disciplinare». Cfr. www.quotidianosanita.it. 13
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Libertà di morire o dignità nel morire
Lo scollamento fra diritto e deontologia si realizza ogniqualvolta il legislatore individui – a séguito dell’evoluzione biotecnologica, ma non solo – nuovi istituti giuridici o nuovi spazi di legittimità e di liceità dell’atto sanitario, così come è già in passato accaduto per l’interruzione volontaria di gravidanza, per la procreazione medicalmente assistita, per le disposizioni anticipate di trattamento14. Rispetto ai cambiamenti del passato, però, la peculiarità di un intervento legislativo in materia di suicidio assistito risiede nella inedita portata assiologica di quest’ultimo (a fronte di una sua frequenza applicativa presumibilmente molto contenuta), in quanto suscettibile di incidere sul nucleo essenziale della ‘missione’ del medico, ridefinendo la nozione stessa di trattamento sanitario.
2. La dignità nel morire in Colombia In Colombia come in Italia, la morte medicalmente assistita – rispettivamente sotto le spoglie dell’homicidio por piedad e dell’agevolazione al suicidio – è frutto dell’audace elaborazione della Corte costituzionale. Con più di vent’anni di anticipo rispetto all’esperienza italiana, in Colombia la Corte Consti-
Quanto a rapporti e sinergie fra deontologia e diritto, cfr. ex pluribus Penasa, La scienza come “motore” del biodiritto: diritti, poteri, funzioni, in BioLaw Journal – Rivista di Biodiritto, 2019, 311; Pulice, La deontologia medica come “motore” della Costituzione, ivi, 2019, 323; Valdini, La deontologia medica nell’evoluzione codicistica. Una lettura sinottica delle sette edizioni 1958-2014 e relativi giuramenti, Torino, 2017; Pulice, La deontologia come fonte del diritto. Codificazione dell’etica medica in Francia, Germania e Italia, in Dir. pubbl. comp. eur., 2017, 745; Ead., La deontologia medica tra pluralismo assiologico e pluralità di sedi di giudizio, in BioLaw Journal – Rivista di Biodiritto, 2016, 15; Veronesi, Tra deontologie e obiezioni di coscienza: il sempre attuale problema del limite, ivi, 2016, 9; Patuzzo-Tagliaro, Il Codice di deontologia medica 2014: riflessioni critiche, in Riv. it. med. leg., 2015, 843; Aa.Vv., Forum: il nuovo Codice di deontologia medica, in BioLaw Journal – Rivista di Biodiritto, 2015, 53; Iadecola, Le norme della deontologia medica: rilevanza giuridica ed autonomia di disciplina, in Riv. it. med. leg., 2007, 551; Quadri, Il Codice deontologico medico ed i rapporti tra etica e diritto, in Resp. civ. prev., 2002, 925; Comporti, La deontologia medica nelle prospettive della pluralità degli ordinamenti giuridici, in Riv. it. med. leg., 2002, 855. 14
tucional15 ha dichiarato la legittimità dell’art. 326 (Homicidio por piedad) del Código Penal, giustificando però la condotta del medico nel caso di omicidio di pazienti terminali che abbiano liberamente espresso una volontà positiva in tal senso. Come in Italia, la Corte aveva sollecitato il legislatore a disciplinare, nel più breve tempo possibile, la c.d. muerte digna, in particolare prevedendo: 1. una rigorosa verifica delle concrete condizioni in cui versa l’ammalato, della patologia di cui soffre, della sua competenza decisionale e dell’inequivocità della sua volontà di morire; 2. l’indicazione dei soggetti qualificati ad intervenire nella procedura normativamente definita; 3. le modalità e la forma con cui dev’essere prestato il consenso del paziente; 4. le misure per il tramite delle quali si perviene al decesso; 5. l’impegno statuale a sensibilizzare, responsabilizzare ed educare la società civile sul tema del valore della vita, ai fini
Sentencia n. C-239, 20.05.1997, consultabile all’indirizzo: www.corteconstitucional.gov.co, in merito alla legittimità costituzionale dell’art. 326 (Homicidio por piedad) del decreto n. 100/1980 (Código Penal): «el que matare a otro por piedad, para poner fin a intensos sufrimientos provenientes de lesión corporal o enfermedad grave o incurable, incurrirá en prisión de seis meses a tres años». Cfr. Sánchez Gordillo, Eutanasia en Colombia: aspectos jurídicos, eclesiales y culturales, in Rev. Iber. Bio., 2019, 1; Lampert Grassi, Aplicación de la Eutanasia: Bélgica, Colombia, Holanda y Luxemburgo, 2019, consultabile all’indirizzo: www.bcn.cl; De La Torre-Marcos, Y de nuevo, la eutanasia: una mirada nacional e internacional, Dykinson, Madrid, 2019, 151 ss.; Delgado, Eutanasia en Colombia: una mirada hacia la nueva legislación, in Justicia, 2017, 226; Díaz Amado, La despenalización de la eutanasia en Colombia: contexto, bases y críticas, in Rev. Bio. Der., 2017, 125; Aguirre Román-Silva Rojas-Pabón Mantilla, Eutanasia, estado constitucional y democracia: la validez de los argumentos religiosos en las decisiones de la Corte Constitucional Colombiana a la luz de la propuesta de Habermas sobre el rol de la religión en la esfera pública, in Opinión Jurídica, 2015, 53; Guerra García, Responsabilidad del Estado por la práctica de la eutanasia en Colombia, in Rev. Principia iuris, 2013, 19, 19; Pereira Otero, Alcance del principio de libertad individual en la eutanasia activa a la luz de la sentencia C-239 de 1997, in Derecho y Realidad, 2013, 263; Araque Moreno-López Camargo, Eutanasia, entre la vida y la muerte ¿quién y qué la decide?, in Rev. Principia iuris, 2012, 215; Quinche Ramírez, Derecho constitucional colombiano de la Carta de 1991 y sus reformas, Bogotà, 2009, 247; Lozano Villegas, La eutanasia activa en Colombia. Algunas reflexiones sobre la jurisprudencia constitucional, in Rev. Der. Estado, 2001, 95. 15
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della residualità del ricorso alla scriminante di cui sopra. Nelle more dell’intervento legislativo, la condotta del medico in caso di omicidio per pietà è stata considerata suscettibile di indagine penale, affinché ne sia verificata la legittimità in relazione all’autenticità e affidabilità del consenso manifestato dal paziente, nonché alla presenza delle oggettive condizioni sanitarie specificate dalla citata decisione dei giudici costituzionali. Il carattere terminale delle condizioni di salute del paziente e l’intensa sofferenza a queste correlata accomunano la decisione colombiana a quella italiana. Al contrario della seconda16, però, la prima non specifica la natura e l’origine dei patimenti dell’ammalato (fisici e/o psichici), né ritiene come necessario prerequisito la sussistenza di terapie di sostegno vitale. Il medico, inoltre, è considerato unico soggetto attivo possibile, in quanto unico legittimato a somministrare al paziente l’informazione indispensabile ai fini del consenso, garantendo, nella pratica, le condizioni per una morte degna. La fattispecie considerata non è quella del suicidio assistito (agevolazione al suicidio), bensì quella dell’omicidio del consenziente per motivi pietistici (eutanasia propriamente intesa), con una vittima, però, rispetto a quella di cui agli artt. 579 e 580 c.p. italiano, già ampiamente “qualificata”17.
Saggi e pareri
I giudici colombiani, peraltro, individuano – a beneficio del legislatore – alcune modalità onde assicurare la genuinità della volontà dell’ammalato, la quale non deve essere espressione di una depressione momentanea: il consenso deve essere reiterato entro un determinato lasso temporale; il paziente deve aver previamente ottenuto un’autorizzazione giudiziale; deve essersi svolto un colloquio fra un equipo de apoyo e il paziente attorno alle condizioni in cui egli versa e alle possibili alternative alla scelta di morire, specie in termini di cure palliative. Come il Parlamento italiano, così quello colombiano non accoglie l’invito e la sollecitazione ad intervenire. Il silenzio normativo non dura, però, un anno soltanto, bensì venti ed oltre18. Nel 2014, la Corte costituzionale colombiana si pronuncia nuovamente sul tema, approfondendo alcuni profili di non scarso momento19. Si chiarisce, anzitutto, che il diritto di morire degnamente è da intendersi come fondamentale20
clasificación de las modalidades de vulneración del derecho a la vida en Colombia, in Novum jus, 2019, 205. Cfr. Grajales López, Criterios jurídicos para fijar sanciones a los congresistas frente a las omisiones legislativas en Colombia, in Inciso, 2017, 48. Da ultimo, il 3 dicembre 2019 la Cámara de Representantes colombiana in composizione plenaria ha respinto (77 a 69) il progetto di legge in discussione. 18
Sentencia n.T-970, 15.12.2014, consultabile all’indirizzo: www.corteconstitucional.gov.co. Cfr. Guarín Ramírez-Olarte López-Garzón Barrera, El pluralismo social en la jurisprudencia de la Corte Constitucional colombiana y sus efectos en la realización efectiva de los derechos, in Via Inveniendi et Iudicandi, 2019, 11; Cantillo Arcón-Bula Beleño, Eutanasia activa directa y consentimiento del sujeto pasivo como eximente de responsabilidad penal en eventos de enfermedades incurables no terminales. Una aproximación interdisciplinar desde el test de proporcionalidad en sentido estricto, in Estud. socio-juríd., 2017, 13; Flórez Rincón, Dignidad y autonomía del paciente terminal: responsabilidad de las E.P.S. frente a la dilación en el procedimento de la eutanasia, in Rev. Temas Socio Juríd., 2016, 31; Ortega Díaz, Eutanasia: de delito a derecho humano fundamental. Un análisis de la vida a partir de los principios fundamentales de la libertad, autodeterminación, dignidad humana y más allá de la mera existencia, Bogotà, 2016, specie 90 ss.; Parreiras Reis de Castro-Cafure Antunes-Pacelli Marcon-Silva Andrade-Rückl-Ângelo Andrade, Eutanasia y suicidio asistido en países occidentales: una revisión sistemática, in Rev. bioét. (Impr.), 2016, 355. 19
Cfr. il comunicato dell’Ufficio Stampa della Corte costituzionale, 26.9.2019, Fine vita: correzione di errore materiale nel testo del comunicato del 25 settembre 2019, consultabile all’indirizzo: www.cortecostituzionale.it, con il quale viene corretta la congiunzione “e” (utilizzata, «per un refuso», nel comunicato del giorno precedente) con la disgiuntiva “o”: «fonte di sofferenze fisiche o psicologiche». L’utilizzo del nesso disgiuntivo già ricorreva, peraltro, nell’ordinanza n. 207/2018. 16
In Colombia si tratta attualmente degli artt. 107 (Inducción o ayuda al suicidio: «El que eficazmente induzca a otro al suicidio, o le preste una ayuda efectiva para su realización, incurrirá en prisión de dos a seis años. Cuando la inducción o ayuda esté dirigida a poner fin a intensos sufrimientos provenientes de lesión corporal o enfermedad grave e incurable, se incurrirá en prisión de uno a dos años») e 106 (Homicidio por piedad: «El que matare a otro por piedad, para poner fin a intensos sufrimientos provenientes de lesión corporal o enfermedad grave e incurable, incurrirá en prisión de uno a tres años»), a séguito dell’emanazione della legge n. 599/2004 di riforma del Código Penal. Cfr. Parra Ávila-Báez Alipio, Una 17
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Sulla natura fondamentale di un diritto cfr. altresì Corte const., sentencia T-760, 31.07.2008, in www.corteconsti20
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Libertà di morire o dignità nel morire
proprio perché intimamente connesso al rispetto della dignità individuale e dunque traducibile in un vero e proprio diritto soggettivo, avente un titolare e un contenuto precettivo determinato verso altri destinatari e, in genere, suscettibile di rinvenire un consenso, benché latamente inteso, a livello legislativo, giurisprudenziale, costituzionale e internazionale. La sofferenza, inoltre, è valutabile attraverso una duplice verifica, avente una componente di natura oggettiva, affidata al medico e relativa alla sussistenza di una patologia terminale, e di natura soggettiva, connessa alla percezione che l’ammalato stesso ha del proprio dolore, ritenuto non compatibile con la propria personale idea di dignità. In particolare, la valutazione medico-scientifica in ordine all’intensità del patimento non può sopravanzare quella frutto dell’autonomo giudizio del diretto interessato21. La prevalencia de la autonomía del paciente è proprio il primo dei princìpi che devono governare, secondo la Corte, la procedura per una morte medicalmente assistita, seguìto dalla celeridad e dall’oportunidad, al fine di non vanificare il diritto ad una morte degna in termini di inutile e prolungata sofferenza, nonché dall’imparcialidad della condotta del sanitario, eccezion fatta per una sua eventuale obiezione di coscienza, con il coinvolgimento, dunque, di un medico diverso
tucional.gov.co; Corte const., sentencia T-227, 17.03.2003, in www.corteconstitucional.gov.co; Corte const., sentencia T-801, 16.12.1998, in www.corteconstitucional.gov.co. Così anche il Protocolo para la aplicación del procedimiento de eutanasia en Colombia (v. infra nt. 24), sub “Recomendaciones sobre los procesos de evaluación que garanticen que el paciente tiene capacidad de solicitar la aplicación de la eutanasia”, 14. In merito alla polidimensionalità del dolore, inoltre, si riconosce come questo possa essere «físico, mental, social, espiritual o existencial» (Protocolo, cit., 58). Sul punto cfr. anche Morresi, Audizione Movimento per la Vita – 8 aprile 2019 – Eutanasia: PdL di iniziativa popolare n. 2 e PdL Cecconi n. 1586, Commissioni riunite Giustizia e Affari Sociali – Camera dei Deputati, 5, in www.camera.it: «(…) se si ammette che ci sono condizioni per cui la scelta di morire è plausibile, al pari di quella di vivere, condizioni definite da una sofferenza intollerabile, allora ogni limite potrà essere superato, in nome della soggettività della soglia del dolore tollerabile. Il legislatore è sconfitto in partenza». 21
ed ulteriore22. Tale obiezione, d’altro canto, è già corredata di requisiti stringenti: a fronte dell’esigenza del pieno rispetto dei diritti fondamentali del paziente, la designazione di un secondo professionista deve intervenire entro ventiquattro ore dalla dichiarazione scritta, resa dal primo medico, delle ragioni per le quali la realizzazione della procedura è in contrasto con le sue convinzioni personali. In ultima battuta, poi, la Corte riserva al malato la possibilità di ricorrere alla acción de tutela, quale azione costituzionale diretta e rapida – tipicamente latinoamericana – a presidio dei diritti fondamentali individuali. Contrariamente ai giudici italiani, dunque, quelli colombiani delineano un diritto ‘azionabile’, a fronte di una condotta sanitaria doverosa e dalla quale il medico può prescindere solo nei termini di un’obiezione di coscienza già analiticamente disciplinata, senza attendere l’interpositio legislatoris. Sviluppando l’idea dell’equipo de apoyo, i giudici prevedono, inoltre, la creazione di un comité científico interdisciplinario de acompañamiento al paciente y su familia, in grado di garantire un sostegno continuo di natura psicologica, medica e sociale e di vigilare circa la regolarità della procedura e l’imparzialità dei soggetti attivamente coinvolti, segnalando alle autorità competenti le eventuali irregolarità rilevate. A tal fine, dunque, la Corte dispone che il Ministero della Salute – entro trenta giorni lavorativi dal deposito della sentenza – impartisca direttive affinché tutte le strutture e i professionisti della sanità si conformino alle statuizioni di cui in decisione, ivi compresa la costituzione di questi gruppi di esperti multidisciplinari e multifunzione. Ancora, il Ministero dovrà sottoporre ai medici un protocollo, destinato ad essere discusso da specialisti diversi, quale punto
Cfr. Prieto Martínez, Libertad religiosa y de conciencia en el derecho colombiano, Bogotà, 2019; Posada-Maya, La objeción de conciencia como eximente de la responsabilidad penal en Colombia, in Rev. Nuevo Foro Penal, 2018, 103; Córdoba Cuesta, La objeción de conciencia en Colombia, Bogotà, 2016; Hincapié-Mejía Quintana, Justicia y objeción de conciencia, in Novum jus, 2015, 11, e Prieto Martínez, La objeción de conciencia en instituciones de salud, Bogotà, 2013. 22
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di riferimento per l’attuazione delle procedure di morte degna. Anche nel 2014, infine, i giudici costituzionali esortano il legislatore ad intervenire (sulla scorta dei criteri indicati ed esposti, peraltro, in maniera ben più analitica rispetto alla decisione del 1997), ma il tentativo di dialogo è destinato, ancora una volta, a fallire. Al contrario, il Ministerio de Salud y Protección Social raccoglie entrambe le sollecitazioni ricevute, con la predisposizione, da una parte, della Resolución n. 1216 del 20 aprile 201523 e, dall’altra, del Protocolo para la aplicación del procedimiento de eutanasia en Colombia24. È il mondo medico-scientifico che predispone, anche a beneficio del legislatore futuro, gli strumenti terminologici e definitorî necessari e che altresì appronta le migliori pratiche, nell’àmbito dell’iter delineato dalla Corte per rispettare il diritto fondamentale ad una morte degna. Nella Resolución n. 1216/2015, dunque, viene individuata la nozione stessa di terminalità25, la com-
Saggi e pareri
posizione del comité científico interdisciplinario para el derecho a morir con dignidad (un medico con la specialità della patologia di cui soffre il paziente, differente dal medico curante; un avvocato; uno psichiatra o uno psicologo clinico)26 e la precisa tempistica che dev’essere rispettata, con una procedura gratuita e la predisposizione di opportune garanzie per prevenire il pericolo di una obiezione di coscienza diffusa27. Al Comitato, inoltre, sono affidati còmpiti di controllo più rigoroso là dove ricorra un consentimiento sustituto, il quale può essere espresso dai rappresentanti legali del malato o dai suoi familiari solo qualora la richiesta di morte degna sia stata manifestata dal paziente in un documento de voluntad anticipada o testamento vital28, prima del sopraggiun-
Salazar, Las voluntades anticipadas en la Ley de cuidados paliativos. Fortalecimiento de la relación médico-paciente, in Criterio Jurídico, 2015, 79. hez
Quanto all’imparzialità dei componenti, cfr. il Protocolo para la aplicación del procedimiento de eutanasia en Colombia, sub “Recomendaciones sobre los procesos de evaluación que garanticen que el paciente tiene capacidad de solicitar la aplicación de la eutanasia”, 15: «Este Comité debe ser independiente del médico tratante (en especial, relación jerárquica), no debe haber atendido previamente al solicitante, y no debe tener relación personal/profesional con éste». 26
Por medio de la cual se da cumplimiento a la orden cuarta de la sentencia T-970 de 2014 de la Honorable Corte Constitucional en relación con las directrices para la organización y funcionamiento de los Comités para hacer efectivo el derecho a morir con dignidad, in www.dmd.org.co. Sulla legittimità dell’intervento ministeriale cfr. Cons. Estado, 27.08.2015, n. 11001-03-24-000-2015-00194-00, consultabile all’indirizzo: www.consejo-estado.vlex.com.co. In merito, invece, all’applicazione della Resolución, cfr. Corte const., 4.07.2017, n. T-423, consultabile all’indirizzo: www.corteconstitucional.gov.co. V. Ramos Ortega-Tirado Álvarez Insuficiencia de las medidas implementadas por el Estado para la garantía del acceso a la eutanasia en Colombia, in Derecho y Realidad, 2018, 1. 23
24
Cfr. www.minsalud.gov.co.
Ai sensi dell’art. 2, infatti, «se define como enfermo en fase terminal a todo aquel que es portador de una enfermedad o condición patológica grave, que haya sido diagnosticada en forma precisa por un médico experto, que demuestre un carácter progresivo e irreversible, con pronóstico fatal próximo o en plazo relativamente breve, que no sea susceptible de un tratamiento curativo y de eficacia comprobada, que permita modificar el pronóstico de muerte próxima; o cuando los recursos terapéuticos utilizados con fines curativos han dejado de ser eficaces». Tale definizione è letteralmente mutuata dall’art. 2 della Ley n. 1733/2014, «mediante la cual se regulan los servicios de cuidados paliativos para el manejo integral de pacientes con enfermedades terminales, crónicas, degenerativas e irreversibles en cualquier fase de la enfermedad de alto impacto en la calidad de vida». Cfr. Sánc25
Responsabilità Medica 2020, n. 1
«Los integrantes del Comité no podrán ser objetores de conciencia del procedimiento que anticipa la muerte en un enfermo terminal para morir con dignidad, condición que se declarará en el momento de la conformación del mismo» (art. 6, Parágrafo, Resolución n. 1216/2015); «De acuerdo con la jurisprudencia constitucional, en ningún caso la IPS podrá argumentar la objeción de conciencia institucional» (art. 12, comma quinto); «La objeción de conciencia sólo es predicable de los médicos encargados de intervenir en el procedimiento para hacer efectivo el derecho a morir con dignidad» (art. 18). 27
Anche ai fini di tale procedura, dunque, tali documenti «se considerarán manifestaciones válidas de consentimiento y deberán ser respetadas como tales» (art. 15, Resolución n. 1216/2015). Il documento de voluntad anticipada è disciplinato dall’art. 5, comma quarto, della Ley n. 1733/2014: «Toda persona capaz, sana o en estado de enfermedad, en pleno uso de sus facultades legales y mentales, con total conocimiento de las implicaciones que acarrea el presente derecho podrá suscribir el documento de Voluntad Anticipada. En este, quien lo suscriba indicará sus decisiones, en el caso de estar atravesando una enfermedad terminal, crónica, degenerativa e irreversible de alto impacto en la calidad de vida de no someterse a tratamientos médicos innecesarios que eviten prolongar una vida digna en el paciente (…)». Cfr. altresì la Resolución n. 1051/2016, consultabile all’in28
Libertà di morire o dignità nel morire
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gere dello stato di incapacità legale o anche solo naturale. Il Protocolo, a sua volta, affronta questioni rilevanti sia per il giurista sia per il clinico, attinenti ad una ancor più precisa definizione temporale del paziente ‘terminale’29, alla decisione in punto di refrattarietà della sofferenza, alla verifica della competenza decisionale del malato e all’individuazione delle procedure medico-sanitarie più corrette e sicure per garantire una morte rapida e indolore. L’obiettivo dichiarato, infatti, è di fornire ai professionisti della salute incaricati dell’assistenza di pazienti in fase terminale uno strumentario che consenta loro di adottare le migliori decisioni «cuando la voluntad del paciente sea la aplicación del procedimiento denominado eutanasia en Colombia»30.
Parimenti, in Colombia la c.d. muerte digna è riservata a personas competentes con madurez de juicio e, benché sia previsto un consentimiento prestato da terzi por sustitución, la volontà del paziente deve essere già comunque deducibile da un documento redatto prima del sopraggiungere dello stato di incapacità. Ciò non impedisce ai giudici costituzionali colombiani di riconoscere il diritto fondamentale a morire dignitosamente anche a taluni pazienti minori di età, purché presentino un idoneo «desarrollo psicológico, emocional y cognitivo» e una adeguata comprensione ed astrazione del concetto stesso di morte, in as-
3. Dignità e libertà
minorenne cfr. Stanzione, Autodeterminazione del minore e consenso al trattamento medico, e Benini, La pianificazione condivisa di trattamento in àmbito pediatrico. Riflessioni su come desideri e scelte si confrontano con scienza e normativa, contributi entrambi pubblicati in Cacace-Conti-Delbon (a cura di), La Volontà e la Scienza, cit., rispettivamente 79 e 132; Cacace, Il trattamento sanitario su minore o incapace: il miglior interesse del paziente vulnerabile fra (più) volontà e scienza, in Foglia (a cura di), La relazione di cura dopo la legge 219/2017. Una prospettiva interdisciplinare, cit., 71 ss.; Stanzione, Persona minore e salute, diritto all’autodeterminazione, responsabilità genitoriale, in www.comparazionedirittocivile.it, 2013; Id., Minori (condizione giuridica dei), in Enc. dir., Milano, 2011, 725 ss.; Cacace, Autodeterminazione dei minori e trattamenti sanitari. Il caso del rifiuto alle cure per motivi religiosi, in Amram-D’Angelo (a cura di), La famiglia e il diritto fra diversità nazionali ed iniziative dell’Unione Europea, Padova, 2011, 359; Lenti, Il consenso informato ai trattamenti sanitari per i minorenni, in Lenti-Palermo Fabris-Zatti (a cura di), I diritti in medicina, in Rodotà-Zatti (diretto da), Trattato di Biodiritto, cit., 417; Benzoni-Cesaro-Lovati-Vizziello (a cura di), Prima dei 18 anni: l’autonomia decisionale del minore in ambito sanitario, Milano, 2010; Osellini, Il consenso del minorenne all’atto medico: una breve ricognizione dei problemi di fondo, in Minorigiustizia, 2009, 137; Dell’Utri, Il minore tra «democrazia familiare» e capacità di agire, in Giur. it., 2008, 6; Piccinni, Il consenso al trattamento medico del minore, Padova, 2007; Quadri, L’interesse del minore nel sistema del diritto civile, in Fam. dir., 1999, 80 ss.; Ferrando, Diritti e interesse del minore tra principi e clausole generali, in Pol. dir., 1998, 167 ss.; Autorino Stanzione, Diritto di famiglia, Torino, 1997, 280; Dosi, Dall’interesse ai diritti del minore, in Dir. fam. pers., 1995, II, 1604 ss.; Stanzione, Interesse del minore e “statuto” dei suoi diritti, in Studi in memoria di Gino Gorla, II, Milano, 1994, 1767; Id., Capacità e minore età nella problematica della persona umana, Napoli, 1975, spec. 346 ss. Amplius v. Bessone, sub art. 30, in Comm. Cost. Branca, Bologna-Roma, 1976, 86 ss.
La Corte costituzionale italiana, nel momento in cui tratteggia i requisiti di un suicidio assistito non punibile, fa riferimento ad un paziente capace di decidere, implicitamente rinviando alla disciplina di cui all’art. 3 della l. n. 219/2017, che, a sua volta, richiede il raggiungimento della maggiore età e il conseguente acquisto della capacità di agire31.
dirizzo: www.minsalud.gov.co, e la Resolución del Ministerio de Salud y Protección social n. 4343/2012, art. 4.2, che prevede «el derecho a que los familiares o representantes, en caso de incosciencia, incapacidad para decidir o minoría de edad del paciente, consientan o rechacen procedimientos o tratamientos», nonché il diritto del paziente di «aceptar o rechazar procedimientos, por sí mismo o, en caso de incosciencia, incapacidad para decidir o minoría de edad, por sus familiares o representantes, dejando expresa constancia en lo posible escrita de su decisión». V. anche Corte const., sentencia C-233, 9.04.2014, consultabile all’indirizzo: www. corteconstitucional.gov.co. «Enfermo terminal es aquel paciente con una enfermedad medicamente comprobada avanzada, progresiva, incontrolable que se caracteriza por la ausencia de posibilidades razonables de respuesta al tratamiento, por la generación de sufrimiento físico-psíquico a pesar de haber recibido el mejor tratamiento disponible y cuyo pronóstico de vida es inferior a 6 meses» (Protocolo, cit., 13). 29
Ministerio De Salud Y Protección Social, Protocolo, cit., Objetivo General, 23. 30
31
Sulla capacità decisionale in àmbito sanitario del paziente
Responsabilità Medica 2020, n. 1
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senza dei quali non è possibile che si formi una volontà libera ed informata, sempre necessaria32. Benché nel 2014 la stessa Corte costituzionale abbia asserito – rispetto al diritto alla vita e rispetto all’autonomia individuale – l’indipendenza del diritto fondamentale a morir dignamente, è evidente come l’affermazione della dignità passi, in quest’àmbito, solo attraverso l’autodeterminazione, in Italia come in Colombia. La disponibilità del corpo, in effetti, sussiste solo se autodeterminazione e possibilità di autodeterminarsi siano realmente riscontrabili. La disponibilità ultima ed estrema del proprio corpo rappresenta, anzi, manifestazione suprema della libertà individuale e massima espressione della propria idea di dignità: è l’affermazione del sé definitivamente negando se stessi. La Corte costituzionale colombiana33 osserva come l’inerzia legislativa non possa affatto impedire la
Cfr. la sentencia n. T-544, 25.08.2017, consultabile all’indirizzo: www.corteconstitucional.gov.co, nonché la susseguente Resolución del Ministerio de Salud y Protección Social n. 825, 9.3.2018, ove appunto sono esclusi dalla procedura eutanasica (art. 3) i «recién nacidos y neonatos», la «primera infancia» (0-6 anni), i bambini fra i 6 e i 12 anni (eccezion fatta per quei pazienti che presentino «un desarrollo neurocognitivo y psicológico excepcional que les permita tomar una decisión libre, voluntaria, informada e inequívoca en el ámbito médico» e la cui capacità di comprensione della morte raggiunga per maturità quella di un ragazzo di più di dodici anni) e i bambini affetti da «discapacidades intelectuales» o «con trastornos psiquiátricos diagnosticados que alteren la competencia para entender, razonar y emitir un juicio reflexivo». Infine, similmente a quanto previsto per l’adulto incapace, nel caso di minori che presentino «estados alterados de conciencia» sarà possibile ricorrere al consentimiento sustituto dei genitori (non rilevando in questa sede «representaciones legales diferentes a la patria potestad») se la volontà è stata già opportunamente manifestata e là dove il paziente si trovi nella mera impossibilità di reiterarla (art. 11). Il parere concordante degli esercenti la responsabilità genitoriale è richiesto, peraltro, solo qualora l’ammalato non abbia ancora compiuto i 14 anni; se il paziente ha fra i 14 e i 17 anni, i genitori devono essere semplicemente informati riguardo alla decisione adottata dal minore (art. 10). 32
Sentencia n. T-970, 15.12.2014, cit. In punto di dignità umana e di libero sviluppo della personalità, cfr. gli arresti della Corte costituzionale colombiana n. T-090, 6.03.1996, consultabile all’indirizzo: www.corteconstitucional.gov.co, n. T-493, 28.10.1993, in www.corteconstitucional.gov.co, e n. T-401, 3.06.1992, in www.corteconstitucional.gov.co. Cfr. Rey Vallejo, El derecho a la vivienda digna, in Di Posada-López 33
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Saggi e pareri
attuazione di un diritto che trova espresso riconoscimento nella Carta fondamentale del Paese (art. 1: «Colombia es un Estado social de derecho, organizado en forma de República, (…) fundada en el respeto de la dignidad humana»). L’imposizione al paziente terminale di una sofferenza da questi ritenuta intollerabile costituirebbe, peraltro, un trato cruel e inhumano, ai sensi dell’art. 12 della Carta medesima. Il diritto di vivere e quello, parimenti, di morire secondo dignità34 si coniugano e si confondono nel medesimo percorso di tutela. La stessa chiave di lettura, d’altro canto, è impiegata dalla Corte costituzionale italiana nel momento in cui riconosce che il rifiuto del trattamento di sostegno vitale associato ad una sedazione palliativa profonda e continua («la strada italiana» negletta dallo stesso DJ Fabo35) condurrebbe al decesso «secondo tempi e modalità non corrispondenti alla visione della dignità del morire propria del morente che, ad esempio, potrebbe non accettare di sottoporre sé stesso e i propri cari ad un processo di morte in ipotesi lungo e straziante, preferendo essere messo nelle condizioni di dare seguito con immediatezza alla propria determinazione». Si tratta, dunque, dell’esercizio di una libertà mossa da una personale idea di dignità quale autorappresentazione del sé, che taluni pretenderebbero di negare in nome di una concezione più elevata, “oggettiva” ed eteroimposta, della dignità medesima, della vita, del dolore e della morte36.
(a cura di), Manual de constitución y democracia, I, De los derechos, Bogotà, 2008, 227 ss. Cfr. Corte const., 17.10.2002, n. T-881, in www.corteconstitucional.gov.co, che declina la vida digna secondo tre dimensioni: l’autonomía («vivir como se quiere»), la supervivencia («vivir bien») e il respeto («vivir sin humillaciones»). 34
Si esprime in questi termini proprio Marco Cappato, imputato per il suicidio assistito di Fabiano Antoniani, ex art. 580 c.p. 35
Cfr., da ultimi, anche per gli opportuni riferimenti bibliografici, Tripodina, Diritti alla fine della vita e costituzione, in BioLaw Journal - Rivista di Biodiritto, 2019, 405; Razzano, Sulla sostenibilità della dignità come autodeterminazione, ivi, 2019, 95; Violini, La dignità umana, inesauribile fonte di suggestioni per il costituzionalismo, ivi, 2019, 83; Prisco, La dignità nel dibattito biogiuridico e biopolitico. Linee ricostruttive, ivi, 2019, 61; Veronesi, Fisionomia e limiti del diritto fondamentale all’autodeterminazione, ivi, 2019, 27. 36
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Libertà di morire o dignità nel morire
L’esito sarebbe d’imporre al singolo un determinato standard di tutela, proteggendolo anche da se stesso e strumentalizzando tale protezione per affermare una supposta e più elevata concezione dell’esistenza individuale37. La dignità, quale suprema realizzazione della personalità dell’ammalato, diviene obiettivo ultimo dell’autodeterminazione individuale, che sola può riempirla di contenuti e di significato. È un valore “vuoto”, altrimenti, e la stessa Carta costituzionale non ne offre una connotazione precisa. Tuttavia, benché insuscettibile d’arrecare nocumento ad
Cfr. Marchesiello, Per una cultura giuridica della dignità. Alla ricerca del Santo Graal, in Conte-Fusaro-Somma-Zeno-Zencovich (a cura di), Dialoghi con Guido Alpa, Roma, 2018, 355 ss.; Di Masi, La giuridificazione della relazione di cura e del fine vita. Riflessioni a margine della legge 22 dicembre 2017, n. 219, in Riv. dir. comp., 2018, 110; Landi, Art. 5, in Perlingieri-Carapezza Figlia (a cura di), Codice civile annotato con la dottrina e la giurisprudenza, Aggiornamento, Napoli, 2016, 19 ss.; Cosco, La disposizione del corpo tra disciplina codicistica e complessità del sistema delle fonti, in Ordines, 23.12.2015, 108; Morozzo Della Rocca, Capacità di volere e rifiuto delle cure, in Eur. dir. priv., 2014, 387; Salito, Autodeterminazione e cure mediche. Il testamento biologico, Torino, 2012; Cordiano, Identità della persona e disposizioni del corpo. La tutela della salute nelle nuove scienze, Roma, 2011, 73 ss.; Lonardo, Il valore della dignità della persona nell’ordinamento italiano, in Rass. dir. civ., 2011, 791; Busnelli, Problemi giuridici di fine vita tra natura e artificio, in Riv. dir. civ., 2011, 159; Cricenti, Diritto all’autodeterminazione? Bioetica dell’autonomia privata, in Nuova giur. civ. comm., 2011, II, 203; Monaco, La tutela della dignità umana: sviluppi giurisprudenziali e difficoltà applicative, in Barletta-Eusebi-Gentile-Maganzani-Mazzucato-Monaco-Rinoldi (a cura di), Dignità e diritto: prospettive interdisciplinari, Roma, 2010, 167; R. Pucella, Autodeterminazione e responsabilità nella relazione di cura, Milano, 2010, 69 ss.; Nicolussi, Al limite della vita: rifiuto e rinuncia ai trattamenti sanitari, in Quad. cost., 2010, 269; Pasquino, Autodeterminazione e dignità della morte, Torino, 2009, 42 ss.; Salvatore, Per uno studio sul consenso informato, in Dir. giur., 2009, 33 ss.; Zatti, Di là dal velo della persona fisica. Realtà del corpo e diritti «dell’uomo», in Aa.Vv., Liber amicorum per Francesco D. Busnelli. Il diritto civile tra principi e regole, II, Milano, 2008, 121; Venuti, Atti di disposizione del corpo e principio di gratuità, in Galasso-Mazzarese (a cura di), Il principio di gratuità, Milano, 2008, 285 ss.; Cricenti, I diritti sul corpo, Napoli, 2008, 129 ss.; Jonas, Tecniche di differimento della morte e il diritto di morire, in Jonas, Tecnica, medicina ed etica, Torino, 2006, 185; Nannini, Valori fondamentali e conflitto di doveri, Milano, 2004, 37; Morozzo Della Rocca, Autonomia privata e prestazioni senza corrispettivo, Torino, 2004, 98 ss.; Piepoli, Dignità e autonomia privata, in Pol. dir., 2003, 498. 37
altri, questa autodeterminazione richiede il coinvolgimento attivo di un terzo, incidendo sulla sua posizione di garanzia e sui suoi obblighi professionali. È un problema, peraltro, anche di discriminazione. S’è visto come in Colombia il requisito della terminalità non s’accompagni a quello della sussistenza di terapie di sostegno vitale38, invece richiesto dai giudici italiani onde accordare l’opzione del suicidio assistito al solo paziente che avrebbe comunque potuto conseguire il decesso con l’interruzione del trattamento sanitario salvavita. Il ricorso al suicidio assistito può rappresentare, in questo senso, solo un’alternativa rapida, mai l’unica possibilità. V’è un binomio pietà/dignità, che indica quando l’ordinamento debba intervenire per ripristinare quel livello minimo di dignità in cui l’individuo crede, ma che non è più autonomamente in grado di assicurare a se stesso. La risposta dell’ordinamento, peraltro, deve rinvenire nella pietà – mai nella convenienza economica o in una comodità sociale – la sola motivazione, con l’obiettivo di evitare al paziente una morte indegna, oltre che una malattia indegna: è il caso di Nicklinson o di Nuvoli, con l’ammalato che si lascia morire di fame perché è l’unico modo che gli rimane39.
Quanto all’inclusione/esclusione di determinate “categorie” di pazienti, cfr. gli arresti della Corte constituciónal n. T-557, 29.08.2018, in www.corteconstitucional.gov.co; n. T-721, 12.12.2017, in www.corteconstitucional.gov.co; n. T-322, 12.05.2017, in www.corteconstitucional.gov.co. 38
Cfr. [2014] UKSC 38, in www.biodiritto.org, e Trib. Alghero, sez. dist. Sassari, 16.07.2007, in Foro it., 2007, I, 3025, con commento di Casaburi, Interruzione dei trattamenti medici: nuovi interventi della giurisprudenza di legittimità e di merito; Procura della Repubblica di Sassari, 13.02.2007, in Guida dir., 2007, 16, 92, con nota di Salerno, A questo punto diventa indispensabile avviare una «conversione costituzionale», e Procura della Repubblica di Sassari, 23.01.2008, in Quad. dir. pol. eccl., 2008, 727. Cfr. Stellin, La prosecution del mercy killing e del suicidio assistito nel sistema inglese: una questione di public interest?, 2019, in www.giurisprudenzapenale.com; Napolitani, L’amministratore di sostegno e la pianificazione anticipata delle cure mediche, in Fam. pers. succ., 2010, 126; Mazza Galanti, Il sintetizzatore vocale e la manifestazione di volontà del malato, in Giur. mer., 2008, 1264, e Ferrato, Il rifiuto alle cure e la responsabilità del sanitario: il caso 39
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Tanto più a fronte dell’inevitabile soggettivizzazione della sofferenza, la definizione dei requisiti che consentono l’applicazione della disciplina è còmpito che riguarda il legislatore e la sua discrezionalità, perché attiene a scelte di politica del diritto suscettibili di giustificare le inevitabili discriminazioni per il tramite di una lettura giuridica determinata e di un obiettivo valoriale condiviso. In ordine a tali requisiti, se nel 1997 la Corte costituzionale colombiana40 faceva riferimento ad un paziente terminale che non sta scegliendo «entre la muerte y muchos años de vida plena», bensì «entre morir en condiciones que él escoge, o morir poco tiempo después en circunstancias dolorosas y que juzga indignas», ventidue anni dopo la Cour Supérieur du Québec41 indica la sofferenza
Nuvoli, in Resp. civ. prev., 2009, 1148. Nel Regno Unito cfr., da ultima, la decisione della Supreme Court R (on the application of Conway) (Appellant) v Secretary of State for Justice (Respondent), 27.11.2018, in www.biodiritto.org. 40
Sentencia n. C-239, 20.05.1997, cit.
Cfr. Cour Sup. Québec, Truchon c. Procurer général du Canada, cit., la quale dichiara l’incostituzionalità della legge federale canadese e della legge provinciale québécoise là dove prevedono, quale requisito di accesso all’aide médicale à mourir, la morte naturale ragionevolmente prevedibile del richiedente. V. la loi du Canada modifiant le Code criminel et apportant des modifications connexes à d’autres lois (aide médicale à mourir), 17.6.2016, L.C. 2016, ch. 3, in www.lawslois.justice.gc.ca, e la loi concernant les soins de fin de vie, 5.6.2014, RLRQ chap. S-32.0001, in www.legisquebec.gouv. qc.ca. Cfr. il comunicato dell’Ordine dei Medici del Québec, all’indomani della sentenza Truchon, in www.cmq.org/nouvelle: «Le Collège prend acte du jugement prononcé hier par la Cour supérieure (…). Tant que le Code criminel et la Loi concernant les soins de fin de vie ne seront pas modifiés, les médecins devront en respecter les articles et suivre les indications du guide d’exercice et des lignes pharmacologiques sur l’aide médicale à mourir (…)». V. Supr. Court Canada, Carter v. Canada, 6.02.2015, n. 35591, che sancisce l’incostituzionalità di una blanket prohibition in punto di physician-assisted dying, richiedendo l’intervento del legislatore federale: al riguardo, cfr. Somerville, Is Legalizing Euthanasia an Evolution or Revolution in Societal Values?, in Quinnipiac L. Rev., 2016, 747; Ghozia, Responsabilité médicale en droit canadien, in Rev. gén. droit méd., 2016, 417; Di Martino, La Corte suprema canadese fa un «overruling» e dichiara incostituzionale il reato di aiuto al suicidio, in Oss. cost., 2015, 19; White, Physician Aid-in-Dying, in Hous. L. Rev., 2015, 595; Keown, A Right to Voluntary Euthanasia? Confusion in Canada in Carter, in ND J. L. Ethics & Pub Pol’y, 2014, 1; Beschle, Carter v. Canada (Attorney General): Canadian Courts Revisit the 41
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Saggi e pareri
quale unico criterio dirimente, a pena di discriminare quei soggetti la cui «mort naturelle» non sia «raisonnablement prévisible». La ratio del diritto di ricevere un’aide médicale à mourir non risiede, infatti, nell’essere il paziente alla fine della sua vita, bensì nei patimenti che egli soffre, rispetto ai quali la morte medicalmente assistita è a tutti gli effetti una cura (soin). Non è una cura, invece, per il sol fatto di essere somministrata al termine dell’esistenza dell’ammalato. Si potrebbe, anzi, rilevare proprio il contrario: la previsione della condizione di terminalità unitamente al requisito della sofferenza intollerabile significa negare tutela e cura, nell’ottica del suicidio assistito, proprio a coloro che più ne necessiterebbero, perché destinati a patire per un tempo maggiore. Per interrompere una sofferenza «atroce» muore in Svizzera anche Davide Trentini, paziente affetto da sclerosi multipla, né terminale né dipendente da terapie di sostegno vitale42. In un caso come questo, peraltro, l’alternativa al suicidio assisitito non è né la sedazione – impraticabile se la morte non è “imminente” – né l’interruzione del trattamento salvavita, perché siffatto trattamento non è stato neppure attivato. Le alternative sono la sopportazione di una sofferenza e di una malattia ‘indegne’ ovvero un suicidio “fai da te”, che però parimenti rischia di ledere, per le sue modalità di realizzazione, la dignità medesima dell’ammalato.
4. La libertà di morire in Germania Con la morte medicalmente assistita, il paziente si autodetermina non solo in funzione della propria idea di salute e di qualità della vita, secondo una concezione olistica dell’essere umano e del suo benessere, ma soprattutto in nome di una perso-
Criminalization of Assisted Suicide, in Wayne L. Rev., 2013, 561. È in corso dinanzi al Tribunale di Massa il processo a Marco Cappato e a Mina Welby per reato di istigazione o aiuto al suicidio sotto forma di concorso fornito a Davide Trentini: cfr. www.radioradicale.it. Cappato e Welby si sono autodenunciati per la morte di Trentini, avvenuta in una clinica svizzera il 13 aprile 2017. 42
Libertà di morire o dignità nel morire
nale e specifica idea di dignità, che profondamente lo motiva e che esige rispetto. Anche la Corte costituzionale tedesca accoglie, da ultimo, un’idea di autodeterminazione come libertà di sé e su di sé, costituzionalmente tutelata ai sensi del primo comma degli artt. 1 e 2 GG, i quali rispettivamente consacrano dignità e personalità individuale43. La tecnica e l’occasione è sempre la medesima: sancire la illegittimità costituzionale di una norma del Codice penale che, nel caso di specie deciso dal Secondo Senato del Bundesverfassungsgericht, punisce il favoreggiamento commerciale del suicidio (§ 217 StGB), ovvero l’assistenza al suicidio realizzata da associazioni o da organizzazioni, benché non necessariamente a scopo di lucro44. Il diritto di decidere di porre termine alla propria vita e la libertà di morire, altresì a tal fine ottenendo l’aiuto di terzi, esulano da qualsivoglia giudizio o valutazione eteronoma, ancorché guidati da valori generalmente riconosciuti, da dogmi religiosi, da norme sociali o da una supposta oggettiva razionalità. Tali considerazioni, però, sono circoscritte all’àmbito dell’agevolazione al suicidio e non si estendono all’ipotesi dell’omicidio del consenziente, contrariamente all’ampia ed omnicomprensiva nozione di muerte digna di elaborazione colombiana. In capo ai terzi, inoltre, non è sancito alcun obbligo giuridico di realizzare la suicidiaria volontà individuale. È una autodeterminazione che non si
Cfr. Corte costituzionale federale – 2 BvR 2347/15, 26.2.2020, consultabile all’indirizzo: www.bundesverfassungsgericht.de e www.biodiritto.org. Cfr. altresì Adamo, Il diritto convenzionale in relazione al fine vita (eutanasia, suicidio medicalmente assistito e interruzione di trattamenti sanitari prodotti di una ostinazione irragionevole). Un’analisi giurisprudenziale sulla tutela delle persone vulnerabili, in Riv. AIC, 2016, 31; Vigato, Il suicidio medicalmente assistito in Germania. Il Tribunale amministrativo di Berlino riapre la questione tra (presunti) divieti assoluti ed (alcune) eccezioni, in Dir. pubbl. comp. eur., 2012, 940; Pellegrino, “Koch c. Germania”: in tema di suicidio assistito, in Quad. cost., 2012, 910; Alagna, Eutanasia e diritto penale in Germania, in Riv. it. med. leg., 2012, 873. 43
Nel dettaglio, cfr. Jarvers, La fattispecie tedesca di favoreggiamento al suicidio, in Fornasari-Picotti-Vinciguerra (a cura di), Autodeterminazione e aiuto al suicidio, Padova, 2019, 53 ss. 44
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tramuta, dunque, in un diritto ‘azionabile’, né nei confronti della singola associazione, che è libera di erogare o negare il servizio, né tantomeno nei confronti del medico, per il quale questo tipo di assistenza è persino dubbia dal punto di vista della responsabilità disciplinare che potrebbe derivarne. A fronte di tale libertà fondamentale, la Corte costituzionale federale si interroga riguardo al ruolo del legislatore e ai limiti o ai requisiti che la legge può eventualmente imporre o prescrivere. Il punto cruciale, secondo i giudici tedeschi, è che si tratta di una autodeterminazione il cui esercizio non è subordinabile alla presenza di determinate categorie di malattie, né ad un certo stadio di una patologia né ad un certo momento della propria vita. L’imposizione di simili condizioni rappresenterebbe una restrizione e una interferenza inaccettabili. Le scelte del legislatore devono assoggettarsi ad uno standard di proporzionalità e di valutazione del rischio. L’esito di una eventuale disciplina normativa non può mai essere la mera negazione della libertà, neanche in nome della tutela della vita stessa, bene comunque subordinato alla concezione che di tale esistenza nutre il diretto interessato. Poiché l’unico obiettivo perseguito è il rispetto dell’autodeterminazione, il còmpito della legge si riduce e può unicamente rivolgersi ad assicurare il corretto svolgimento di quest’ultima e l’assenza di indebite interferenze esterne. Da una parte, dunque, la Corte ventila l’opportunità di una regolamentazione che presidî, a titolo esemplificativo, una preliminare e adeguata informazione, la disponibilità delle cure palliative, la necessità di un tempo minimo di riflessione ai fini di una decisione sì definitiva, il rispetto di determinati protocolli e la verifica circa la competenza decisionale del richiedente. Il timore dell’abuso, difatti, non legittima la negazione dell’autodeterminazione, ma solo una attenzione e una protezione particolari. Similmente, la paura di normalizzare e banalizzare il suicidio non può giustificare la impossibilità di procedervi, ma solo indurre a controlli rigorosi, mai volti a limitare tale libertà, bensì esclusivamente a garantirla nella sua autenticità.
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Né, d’altro canto, la realizzazione dell’autodeterminazione individuale può essere affidata alla maggiore apertura di altri ordinamenti, così costringendo il richiedente ad una sorta di turismo tanatologico. Il suicidio assistito offerto in modo “organizzato”, inoltre, fornisce migliori garanzie di attuazione del diritto, altrimenti dipendente dalla buona volontà o dall’ardire del singolo medico, il quale si limiterebbe tutt’al più ad una prescrizione di farmaci. Le argomentazioni della Corte costituzionale tedesca sul suicidio assistito richiamano prepotentemente alla mente dell’interprete il dibattito dottrinale e giurisprudenziale degli ultimi decenni in tema di interruzione volontaria della gravidanza. In primo luogo, è una quérelle che si ripropone per la dicotomia dei modelli: l’uno, connotato dall’assenza di condizioni e di requisiti, a patto che vi sia, da parte di un soggetto capace, la libertà della decisione individuale; l’altro, che pone come centro della tutela non l’autodeterminazione in sé e per sé considerata, bensì un benessere più o meno oggettivamente inteso, con la previsione di presupposti stringenti (la terminalità della patologia del paziente o il pericolo per la salute o la vita della donna, per esempio). Nel primo modello, si è liberi di morire conformemente alla propria idea di dignità della vita; nel secondo modello, l’ordinamento limita tale libertà e restringe il campo delle possibilità di declinazione della dignità individuale vagliando le ragioni che conducono alla scelta. Nel caso del suicidio assistito, in particolare, il secondo modello non consente di morire, ma permette a chi già sta morendo – secondo sfumature e sfaccettature diverse, come evidenziato nell’analisi dell’ordinamento italiano e di quello colombiano – di scegliere la modalità più consona alla propria idea di dignità. In secondo luogo, come per i giudici statunitensi in tema di aborto negli Stati Uniti45, così per i
Cfr. Roe v. Wade (1973) 410 US 113 e Kohm, The Controversy Continues: Session 5: Roe’s Effects on Family Law, in Wash & Lee L. Rev., 2014, 1339; Block, Wrongful Birth: The Avoidance of Consequences Doctrine in Mitigation of Damages, in Ford. L. Rev., 1985, 1107; Teff, The Action for «Wrongful Life» in England and the United States, in Int. Comp. Law 45
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Saggi e pareri
giudici tedeschi sul suicidio assistito il legislatore non può intervenire per vietare, bensì solo per garantire il rispetto del bene oggetto della tutela primaria: la privacy o l’autodeterminazione. Onde evitare che siffatta disciplina rappresenti un undue burden per lo svolgimento di tale autodeterminazione e persegua finalità diverse dalla sua mera assicurazione, i giudici dovranno operare un severo test di ragionevolezza, che ponderi gli effetti della misura normativa eventualmente prevista (per esempio, il rispetto di una determinata procedura), anche in relazione alle alternative suscettibili di conseguire il medesimo risultato con una minore restrizione46.
Quart., 1985, 440; O’neill, Damages and the Unwanted Child, in Auckland U. L. Rev., 1984-1987, 180; C. Smearman, Drawing the Line: The Legal, Ethical and Public Policy Implications of Refusal Clauses for Pharmacists, in Ariz. L. Rev., 2006, 469; Cook, Human Rights and Reproductive Self-Determination, in Am. U. L. Rev., 1995, 975; Wyser-Pratte, Protection of RU486 as Contraception, Emergency Contraception and as an Abortifacient Under the Law of Contraception, in Or. L. Rev., 2000, p. 1121. Cfr. altresì Failinger, An Offer She Can’t Refuse: When Fundamental Rights and Conditions on Government Benefits Collide, in Vill. L. Rev., 1986, 833; Goldstein, A Critique of the Abortion Funding Decisions: On Private Rights in the Public Sector, in Hast. Const. L. Q., 1981, 313; Horan-Marzen, The Supreme Court on Abortion Funding: The Second Time Around, in St. Louis U. L. J., 1981, 411; Rubin, The Resurrection of the Right-Privilege Distinction? A Critical Look at Maher v. Roe and Bordenkircher v. Hayes, in Hast. Const. L. Q., 1980, 165; Linton, The Legal Status of Abortion in the States if Roe v. Wade is Overruled, in Issues L. & Med., 2007, 3; Beck, Self-Conscious Dicta: The Origins of Roe v. Wade’s Trimester Framework, in Am. J. Legal Hist., 2011, 505; Mans, Liability for the Death of a Fetus: Fetal Rights or Women’s Rights?, in U. Fla. J.L. & Pub. Pol’y, 2004, 295; Calhoun, Cost Consequences of Induced Abortion as an Attributable Risk for Preterm Birth and Impact on Informed Consent, in J. Reprod. Med., 2007, 929, e Fallon, Childress Lecture: if Roe new Overruled: Abortion and the Constitution in a Post-Roe World, in St. Louis L. J., 2007, 611. Cfr. Planned Parenthood v. Casey 505 U.S. 833 (1992) e Goldstein, Reading Casey: Structuring the Woman’s Decisionmaking Process, in Wm. & Mary Bill of Rts. J., 1996, 787; Ford, The Casey Standard for Evaluating Facial Attacks on Abortion Statutes, in Mich. L. Rev., 1997, 1443; Van Detta, Constitutionalizing Roe, Casey and Carhart: A Legislative Due-Process Anti-Discrimination Principle that Gives Constitutional Content to the “Undue Burden” Standard of Review Applied to Abortion Control Legislation, in S. Cal. Rev. L. & Women’s Stud., 2001, 211; Forsythe-Presser, The Tragic Failure of Roe v. Wade: Why Abortion Should be Returned to 46
Libertà di morire o dignità nel morire
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Riguardo alla libertà di morire, peraltro, non v’è interesse collettivo che possa fare da adeguato contraltare e giustificare limitazioni diverse da quelle dettate onde assicurare l’autenticità della volontà. Al contrario, in merito all’interruzione della gravidanza, v’è un momento a partire dal quale può ritenersi legittimo, anche per il primo modello, il divieto normativo puro e semplice: è il momento a partire dal quale il feto gode di vita autonoma. Il bilanciamento fra interessi, allora, sarà suscettibile di atteggiarsi diversamente, perché il titolare del bene vita a repentaglio non è il medesimo del mero diritto ad autodeterminarsi in ordine al proprio corpo.
the States, in Tex. Rev. Law & Pol., 2005, 85; Wharton-Frietsche-Kolbert, Preserving the Core of Roe: Reflections on Planned Parenthood v. Casey, in Yale J.L. & Feminism, 2006, 317; Gaylord-Molony, Casey and a Woman’s Right to Know: Ultrasounds, Informed Consent, and the First Amendment, in Conn. L. Rev., 2012, 595; Roseberry, Undue Burden and the Law of Abortion in Arizona, in Ariz. St. L.J., 2012, 391; Trahanas, How The Undue Burden Standard Is Eroding Informed Consent, in Seton Hall Cir. Rev., 2013, 231; Gaylord, Casey and the First Amendment: Revisiting an Old Case to Resolve a New Compelled Speech Controversy, in S.C. L. Rev., 2015, 951; Gilles, Restoring Casey’s Undue-Burden Standard After Whole Women’s Health v. Hellerstedt, in Quinnipiac L. Rev., 2017, 701.
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s i r Giurisprudenza iu g de u r p Giurisprudenza
Cass. civ., III sez., 6.12.2019, n. 31886 Cassa App. Perugia, 29.9.2016
Poteri istruttori del CTU – Limiti – Principio dispositivo – Nullità d’ufficio (Cost., art. 111; c.p.c., artt. 112, 115, 183, 194)
È preclusa al CTU l’indagine su fatti mai allegati dalle parti, nei termini perentori di cui all’art. 183, comma 6°, c.p.c. né lo stesso può acquisire di propria iniziativa la prova dei fatti costitutivi della domanda o dell’eccezione oppure acquisire dalle stesse parti o da terzi documenti che forniscano una prova a riguardo. Pertanto – salvo che la prova acquisita non riguardi fatti tecnici accessori e secondari, oppure elementi di riscontro della veridicità delle prove già prodotte dalle parti – la violazione di tali principi comporta la nullità della CTU per violazione del principio dispositivo delle prove e tale nullità è rilevabile ex officio e non sanabile neppure dall’acquiescenza delle parti. Il testo integrale della sentenza è leggibile sul sito della Rivista
La CTU e il principio dispositivo: non desiderare il ruolo altrui Italo Partenza
Avvocato in Milano Sommario: 1. La decisione: le ragioni argomentative ed i principi di diritto. – 2. Il ruolo del CTU: “unicuique suum”. – 3. I principi che tutti dovrebbero condividere.
Abstract: La sentenza pone una serie di limiti ai poteri istruttori dei CTU ed a taluni eccessi che risultano lesivi degli oneri probatori a carico delle parti e delle preclusioni previste dall’art. 183, comma 6°, c.p.c., prevedendo la nullità della CTU – rilevabile ex officio – che svolga indagini su fatti costitutivi della domanda o dell’eccezione mai ritualmente allegati dalle parti negli atti precedenti la CTU stessa.
void and it can be ascertained ex officio by the judge in any phase of the trial.
The judgement limits the investigating power of the Expert appointed by the judge who is not allowed to investigate about facts relevant for the decision that parties have not introduced in the trial. CTU in these case is
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1. La decisione: Le ragioni argomentative ed i principi di diritto Oggetto della pronuncia della Terza Sezione Civile della Suprema Corte è un tema di assoluta rilevanza nel processo civile, in quanto coinvolge i principi fondanti dello stesso, fino ad orientarne – sovente – l’esito. La questione attiene alla interpretazione dell’art. 194 c.p.c. e, conseguentemente, alla definizione dei poteri istruttori del consulente tecnico d’ufficio alla luce di tale articolo e, in particolare: – Quali siano ambiti e limiti degli stessi; – Quando possano essere derogati; – Quali le conseguenze processuali della loro violazione. La pronuncia ha ricordato l’esistenza di tre differenti orientamenti interpretativi dell’art. 194 c.p.c. Secondo il primo di essi – diremmo più “lasco” e più risalente – il CTU avrebbe il potere di compiere “ogni e qualsiasi indagine ritenga utile per l’esaustivo svolgimento del proprio incarico” e, quindi, spingersi all’accertamento dei fatti storici prospettati dalle parti, assumendo “di sua iniziativa informazioni” anche esaminando “documenti non prodotti in causa, anche senza l’espressa autorizzazione del Giudice”1. A questo riguardo la pronuncia ricorda precedenti che riconobbero il potere del consulente tecnico d’ufficio di acquisire documenti dai terzi e dalle parti e di raccoglierne la confessione ex art. 2733 c.c., anche qualora i termini per le produzioni documentali fossero spirati. L’unico limite istruttorio, quindi, secondo tale interpretazione dell’art. 194 c.p.c., sarebbe il confine delineato dall’oggetto dell’accertamento demandato dal Giudice.
La pronuncia annotata ricorda a riguardo Cass., 12.12.1977, n. 5388; Cass., 30.5.1983, n. 3734, in Mass. Giust. civ., 1983; Cass., 24.2.1984, n. 1325, ivi, 1984; Cass., 7.11.1987, n. 1987; Cass., 30.5.1988, n. 3734; nonché Cass., 15.10.2003, n. 15448, ivi, 2003, in ambito di acquisizioni documentali a termini ex art. 183, comma 6°, scaduti e Cass., 27.8.2012, n. 14652, ivi, 2012, 1048, in tema di raccolta da parte del CTU di confessione ex art. 2733 c.c.
Giurisprudenza
Il secondo orientamento, ricordato nella pronuncia in esame introduce una distinzione fra consulenza “deducente”, in base alla quale al consulente d’ufficio è demandata la mera valutazione di fatti già accertati dal Giudice e incontroversi fra le parti, e consulenza percipiente, nella quale al consulente è chiesto di accertare “determinate situazioni di fatto non ancora dimostrate in giudizio, e che è possibile accertare solo con l’ausilio di speciali cognizioni tecniche”. Nel primo caso, essendo già avvenuta l’assunzione dei mezzi di prova o, comunque, non sussistendo contestazioni sui fatti, non vi sarebbero problemi di limitazione dei poteri del CTU, in quanto di per sé già limitati dall’avvenuta formazione della prova. Nel secondo caso, invece, il CTU avrebbe il potere di accertare fatti anche costitutivi della pretesa attorea, potendosi spingere ad approfondimenti delle indagini, che altrimenti parte attrice non avrebbe le competenze tecniche per attuare, fino al “raggiungimento di un accertabile grado di certezza”2. Il terzo orientamento comporta, invece, che il consulente non possa mai svolgere attività istruttorie su questioni mai prospettate dalle parti, poiché in tal modo vi sarebbe una palese violazione del principio dispositivo vigente nel processo civile che comporta l’onere di allegazione dei fatti secondo l’antico brocardo “ne procedat iudex ex officio, ne eat iudex ultra petita partium”3. Secondo tale più recente orientamento il CTU potrebbe dare una valutazione scientifica o comunque tecnica di fatti già provati o riscontrare la veridicità di fatti comunque documentati dalle parti nei termini previsti dall’art. 183, comma 6°, c.p.c., senza mai poter introdurre nel processo fatti nuovi o ricercare di propria iniziativa l’evidenza di fatti costitutivi della domanda o della eccezione. La Terza Sezione della Suprema Corte, con la pronuncia in esame, sceglie – senza se e senza ma
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Cass., 4.11.1996, n. 9522, in Danno e resp., 1997, 15 con nota di Carbone. 2
La Corte ricorda espressamente in questo senso Cass., 19.1.2006, n. 1020, in Mass. Giust. civ., 2006; Cass., 10.8.2004, n. 15411, ivi, 2004; Cass., 14.7.2004, n. 13015, ivi; Cass., 10.3.2015, n. 4729, ivi, 2015. 3
CTU e principio dispositivo
– il terzo orientamento e, per le ragioni che si argomenteranno in seguito, qualsiasi giurista non può che essere grato di ciò, posto che finalmente si riporta il processo civile al suo effettivo ruolo ed alla sua effettiva funzione, depurandolo da intromissioni e prevaricazioni che sovente hanno svilito un patrimonio di cultura giuridica di cui il nostro ordinamento deve andare fiero. La pronuncia in esame, soprattutto perché declinata in un caso di responsabilità sanitaria, rappresenta una manifestazione di manzoniana Provvidenza, ponendo un freno inequivocabile ed insuperabile a talune improprie derive, che anche in questa Rivista sono state oggetto di esame4. Gli argomenti utilizzati dalla Terza Sezione sono quantomai ineccepibili ed illuminanti. In particolare, si afferma: (i) L’orientamento scelto è, secondo gli Ermellini, l’unico coerente con i principi di parità delle parti di fronte al Giudice e di ragionevole durata del processo ex art. 111 Cost., art. 6, p. 1, CEDU, al quale rinvia l’art. 6, comma 3°, del Trattato sull’Unione Europea. Infatti l’idea stessa di un CTU che svolga una propria attività istruttoria di fronte alla quale le parti non abbiano alcun potere di replica, essendo i termini dell’art. 183, comma 6°, c.p.c. già decorsi, fa rabbrividire anche uno studente di giurisprudenza che abbia con profitto superato l’esame di procedura civile (si badi, le note critiche dei consulenti di parte non sono certamente una replica, in quanto possono contenere osservazioni tecniche, ma non possono fornire prove contrarie a quelle arbitrariamente introdotte dai CTU, non avendo le parti stesse tali poteri).
“[…] Accade invece, purtroppo non raramente, che taluni CTU nell’esprimere il loro parere su temi di responsabilità professionale, si approprino, impropriamente (perdona il bisticcio di parole), di quegli aspetti di competenza giuridica che dovrebbero rimanere oggetto di valutazione dei difensori e del giudice e inseriscano nelle loro risposte espressioni tratte dal linguaggio forense e prive di contenuti scientifici di natura tecnico-biologica”. Aprile, Quando il CTU vuole fare il Giudice, in questa Rivista, 2019, 370 ed anche Pucella, Giudice che è medico legale: necessità di un dialogo tra funzioni distinte, ivi, 373. 4
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(ii) L’art. 194 c.p.c., laddove prevede che il CTU, se autorizzato dal Giudice, possa chiedere chiarimenti alle parti o assumere informazioni da terzi, debba necessariamente coordinarsi con il principio dispositivo previsto dagli artt. 112 e 115 c.p.c., pena altrimenti la conseguente abrogazione di fatto dell’art. 183, comma 6°, c.p.c., i cui termini, perentori per le parti, potrebbero essere aggirati ad libitum da un consulente del Giudice che finirebbe di fatto per avere più poteri del Giudice stesso, al quale infatti è precluso acquisire prove d’ufficio, salvi i casi di legge. Pertanto, dopo tale pronuncia, risulta inequivocabile che le indagini che il Giudice può richiedere al CTU consistono esclusivamente nella valutazione di fatti materiali già dedotti dalle parti (consulenza deducente) o l’accertamento degli stessi (consulenza percipiente). I chiarimenti che possono essere chiesti alle parti devono riguardare soltanto fatti oscuri e mai introduttivi di nuovi temi di indagine e le informazioni che il consulente può richiedere a terzi non possono divenire l’occasione per l’escussione di testimoni o consentire l’ingresso nel giudizio di documenti che era onere delle parti introdurre, salvo i casi previsti dall’art. 198 c.p.c. A tali principi corrispondono due limitate e giustificabili deroghe: la prima è in favore della parte che sia impossibilitata a provare il fatto costitutivo della sua domanda o della sua reiezione, se non ricorrendo a cognizioni tecnico scientifiche non possedute, l’altra riguarda fatti “accessori e secondari” che servano esclusivamente a consentire un riscontro o una verifica di quanto affermato da un punto di vista tecnico (ad esempio una verifica delle caratteristiche tecniche di un macchinario mediante informazioni alla ditta costruttrice o venditrice, come esemplificato in sentenza). La conseguenza della violazione di tali principi, ora da parte del Giudice in sede di affidamento dell’incarico, ora da parte del CTU, è la nullità della CTU stessa. Afferma infatti a riguardo la Terza Sezione che “Non v’è dubbio che molte delle nullità in cui possa incorrere l’ausiliario conservino la natura di nullità relative (l’omissione di avvisi alle parti, l’omesso invio della bozza di consulenza ai difensoResponsabilità Medica 2020, n. 1
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ri delle parti; l’ammissione alle operazioni peritali di un difensore privo di mandato o di un consulente di parte privo di nomina), come tali sanabili se non eccepite nella prima difesa successiva al compimento dell’atto nullo. Tra queste nullità, però, non possono più farsi rientrare quelle consistite nella violazione, da parte del c.t.u., del principio dispositivo, commessa vuoi indagando su fatti mai prospettati dalle parti, vuoi acquisendo da queste ultime o da terzi documenti che erano nella disponibilità delle parti, e che non furono tempestivamente prodotti. Quest’ultimo tipo di nullità, infatti, consiste nella violazione di norme (gli artt. 112, 115 e 183 c.p.c.) dettate a tutela di interessi generali, come sopra ricordato: si tratta dunque di nullità assolute e non relative; non sanabili dall’acquiescenza delle parti; sempre rilevabili d’ufficio (salvo il giudicato), a nulla rilevando che non siano state eccepite nella prima difesa successiva ai compimento dell’atto nullo”.
2. Il ruolo del CTU: “unicuique suum” I principi di diritto enunciati dalla Terza Sezione con la pronuncia annotata costituiscono un forte ed autorevole richiamo ad un altro principio di fondamentale importanza nel nostro ordinamento processuale, la cui protezione non deve mai venir meno, costituendo esso – al pari dell’integrità del contraddittorio – uno dei fondamenti del processo civile. La “regola” generale richiamata dalla Suprema Corte nega al CTU quegli stessi poteri e facoltà che sono negati anche al Giudice, tenuto a giudicare, conformemente a quanto previsto dall’art. 115 c.p.c., sulla base dei fatti allegati dalle parti, con le limitate eccezioni di poteri istruttori riconosciuti al Magistrato (l’interrogatorio non formale delle parti – cfr. art. 117 c.p.c. – l’ispezione di persone e di cose – cfr. art. 118 c.p.c. – la richiesta di informazioni alla P.A. – cfr. art. 213 c.p.c. – l’assunzione di nuovi testimoni – cfr. art. 257 c.p.c. – il giuramento suppletorio – cfr. art. 240 c.p.c.), che ovviamente non sono estesi al CTU. Fanno da corollario a quanto ribadito dalla Cassazione altrettanti orientamenti circa l’inammissiResponsabilità Medica 2020, n. 1
Giurisprudenza
bilità di una CTU esplorativa ed il suo non poter essere considerata un mezzo di prova. È orientamento consolidato, infatti, che la consulenza disposta dal Giudice abbia la finalità di adiuvare il Giudice stesso nella valutazione degli elementi acquisiti o nella soluzione di questioni che comportino specifiche conoscenze, e non quella di esonerare la parte dal fornire la prova di quanto assume o di supplire alla lacuna delle proprie allegazioni o offerta di prove, ovvero a compiere un’indagine esplorativa alla ricerca di elementi, fatti o circostanze non provati5. Proprio per tali ragioni la CTU non è mezzo di prova e quindi non può costituire lo strumento per fare entrare nel giudizio fatti e circostanze fondanti la domanda o l’eccezione, che avrebbero invece dovuto varcare la soglia del processo entro il termine previsto dall’art. 183, comma 6°, c.p.c. È assolutamente ineccepibile, fin quasi a sembrar scontato – se di scontato ci può esser qualcosa nel diritto – quanto evidenziato dalla Corte, ovverosia che la natura perentoria del termine fissato dall’art. 183, comma 6°, c.p.c. non può essere aggirata ed affievolita dalla previsione di una sorta di scappatoia processuale attraverso la quale la CTU divenga il modo per rimediare a termini elassi. Ciò a tutela non soltanto dell’esigenza pubblicistica della durata del processo, ma anche della evidente alterazione del contraddittorio che in tal modo si verifica, poiché le stesse memorie di replica dei consulenti di parte – previste a garanzia del contraddittorio medesimo – non potrebbero porre rimedio alla lesione del diritto dell’altra parte che si veda opporre fatti in merito alla cui
Ex multis Cass., 15.12.2017, n. 30218, in Mass. Giust. civ., 2018, a mente della quale “La consulenza tecnica d’ufficio non è mezzo istruttorio in senso proprio, avendo la finalità di coadiuvare il giudice nella valutazione di elementi acquisiti o nella soluzione di questioni che necessitino di specifiche conoscenze. Ne consegue che il suddetto mezzo di indagine non può essere utilizzato al fine di esonerare la parte dal fornire la prova di quanto assume, ed è quindi legittimamente negata qualora la parte tenda con essa a supplire alla deficienza delle proprie allegazioni o offerte di prova, ovvero di compiere una indagine esplorativa alla ricerca di elementi, fatti o circostanze non provati.”. 5
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CTU e principio dispositivo
esistenza o veridicità o rilevanza non abbia più modo processualmente per controbattere. Il limite alle indagini del CTU è anche un elemento indispensabile ad evitare un outsourcing della Giustizia che sottragga al Magistrato il potere/dovere di valutare le prove allegate dalle parti. Nulla di meno, nulla di più. La CTU non è l’entrata di servizio di un nobile palazzo dalla quale far passare di sottecchi ciò che altrimenti non potrebbe entrare. Tali principi – e non è un caso che la sentenza annotata riguardi un caso di responsabilità medica che ha visto il CTU acquisire da una parte una cartella clinica mai prodotta – marchiando col fuoco l’invalicabile limite al quale il CTU medico legale deve attenersi, sancisce – non avrebbe dovuto essercene bisogno, ma così non è – un chiaro e non superabile confine fra la consulenza tecnica d’ufficio e l’arbitrato irrituale o, se si vuole, la perizia collegiale, così in uso nel mondo assicurativo per decidere in ambito di polizza rischio infortuni. La nobile esigenza di accertare la verità non attribuisce al CTU medico legale poteri del Giudicante, anche se si sta trattando di fatti medici che richiedono una specifica competenza tecnica: la CTU medico legale inevitabilmente riguarda l’accertamento di fatti e circostanze, soprattutto comportamentali, che necessitano di una qualificazione in termini di adeguatezza, che il Giudice non può dare ed in questo senso al CTU medico legale è sempre “percipiente”, ma un conto è l’accertamento di fatti allegati dalle parti (con autorizzata acquisizione di circostanze secondarie a chiarimento dei fatti medesimi), un altro è l’indagine su fatti ulteriori, sulla base dei quali il CTU, una volta che li abbia impropriamente acquisiti, elabori anche le sue conclusioni in punto colpevolezza. Su questo punto ci si richiama anche ad una delle sentenze di San Martino 2.0, che qualche settimana prima della pubblicazione di questa pronuncia aveva chiarito molto bene come non spetti al CTU di pronunciarsi, neppure sul tema della causalità giuridica, ovverosia delle conseguenze giuridiche
di un fatto la cui causalità materiale sia stata accertata dal CTU stesso6. E se due sentenze della Suprema Corte in meno di un mese sui limiti del CTU in ambito di responsabilità medica hanno stimolato il dibattito giuridico e se la questione – come già visto in nota 4 – è oggetto di dibattito in dottrina, la questione sembra acquisire i connotati caratteristici di una presunzione semplice, ovverosia di fatti e circostanze gravi, precisi e concordanti. Sembra a chi scrive che una qualche responsabilità per talune tracimazioni istruttorie dei CTU medico legali, come quella rappresentata nel giudizio che ha dato luogo alla sentenza della Cassazione qui in esame, oltre a trovare un lontano fondamento nel precedente orientamento giurisprudenziale citato, siano divenute in qualche modo assai più frequenti anche grazie alla Legge Gelli7. Parrebbe che sia indiscutibile la circostanza che la stessa introduzione dell’ATP conciliativo ex lege dell’art. 696 bis c.p.c. come condizione di procedibilità di un’azione di responsabilità medica sia divenuto il principale grimaldello per sottrarre di fatto alle regole previste dall’art. 115 c.p.c. ed ai principi in tema di ripartizione dell’onere probatorio sanciti dalla Suprema Corte a partire dalle sentenze del gennaio 20088.
“[…] Nella stima del danno alla salute al medico-legale si demanda il prezioso compito di misurare l’incidenza della menomazione sulla vita della vittima, misurazione che come detto avviene, per risalente tradizione (oggi recepita dalla legge), in punti percentuali. Ma non va mai dimenticato che il grado percentuale di invalidità permanente non è che una unità di misura del danno, non la sua liquidazione. Quella misurazione non può dunque che avvenire al netto di qualsiasi valutazione giuridica circa l’area della risarcibilità […]”. Cass., 11.11.2019, n. 28986, in Guida al dir., 2019, 25. 6
Chi scrive ha già pubblicato articoli in questa Rivista fortemente critici su tale normativa, uno fra tutti Partenza, Buon compleanno legge Gelli, in questa Rivista, 2019, 195, ma non si tratta in realtà di una ossessione, bensì della necessità di rendere evidenti talune conseguenze – da chi scrive ritenute nefaste – di un principio che parrebbe sotteso alle prescrizioni di tale norma, ovverosia che la giustizia nell’ambito della responsabilità medica sia meglio tutelata se gestita da medici e non lasciata nelle mani di Giudici ed Avvocati. 7
Cass., sez. un., 11.2.2008, n. 577, ex multis in Resp. civ. e prev., 2008, 849 con nota di Gorgoni, Dalla matrice contrattuale della responsabilità nosocomiale e professionale al 8
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Lo spirito conciliativo, che tutto avvolge, tutto copre, tutto permea, diviene il mezzo più evidente non già per ridurre i tempi di un processo o per deflazionare il contenzioso giudiziario in ambito sanitario9, quanto piuttosto per creare dei veri e propri arbitrati irrituali nei quali il CTU ambisce alla facoltà/potere di tentare la transazione e nessun vaglio sembra formalmente previsto circa il rispetto da parte del CTU di quei principi sacrosanti che la Suprema Corte ha con questa sentenza ribadito. Anzi, la CTU formatasi in questa vera e propria perizia collegiale, benedetta dall’illuminato Legislatore, entra a pieno diritto nel processo civile, con la conseguente ed inaccettabile partenza in salita della parte che si trovi a voler stigmatizzare eventuali accertamenti ex officio eventualmente eseguiti dal CTU. Ed invero, non si può non rilevare come la Suprema Corte abbia accomunato nell’applicazione della sanzione della nullità rilevabile d’ufficio – anche a prescindere dall’acquiescenza delle parti – due vizi della CTU, ovverosia la violazione dei succitati poteri istruttori e la presenza nella CTU di valutazioni di natura giuridica. Ricorda infatti a riguardo la Suprema Corte “[…] l’affidamento per contro al c.t.u. di quesiti concernenti fatti mai dedotti dalle parti o, peggio, di valutazioni giuridiche, sarebbe quesito nullo dal punto di vista processuale e, nel secondo caso, fonte sinanche di responsabilità disciplinare per il magistrato (Sez. Un., Sentenza n. 6495 del 31/03/2015, Rv. 634785) […]”. In realtà parrebbe che la questione posta così chiaramente dalla Suprema Corte altro non sia che la manifestazione di un epifenomeno in virtù del quale il CTU rischi di svolgere un ruolo di supplenza giudiziale con poteri ancora maggiori dello stesso Giudicante, il tutto nello spirito di deflazionare un contenzioso che evidentemente è
superamento della distinzione tra obbligazioni di mezzo/risultato. Sul punto – sempre per citare l’art. 115 c.p.c. si può ritenere fatto notorio che l’ATP in questione non ha affatto ridotto né i tempi del processo, né il numero degli stessi. 9
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Giurisprudenza
vissuto da taluni non già come metodo di tutela dei diritti, ma come mera speculazione. In questa ottica, liberato il tema della lesione del diritto alla salute da lacci e lacciuoli rappresentati dai sofismi giuridici, finalmente il mondo medico può giudicare sulle pretese dei pazienti con competenza, saggezza e sapienza. A questa visione, senza certo nulla voler togliere al fondamentale ruolo della medicina legale, chi scrive si oppone con tutte le limitate forze in suo possesso: non è questione di metter confini sui ruoli professionali (cosa questa che non sarebbe poi tanto male), quanto piuttosto di difendere a tutti i costi la civiltà giuridica di un sistema a tutela della quale la Corte di Cassazione si vede costretta a porre dei paletti che mai avrebbe dovuto dover porre, perché mai si sarebbe potuto ipotizzare che un CTU traesse conclusioni giuridiche dai suoi accertamenti scientifici o che interrogasse le parti o che acquisisse documenti mai allegati dalle parti stesse. La Corte di Cassazione è intervenuta perché qualcosa di grave sta accadendo nel nostro ordinamento. Questo “qualcosa di grave” è il superamento di fatto dei principi di ripartizione degli oneri probatori nel processo civile in nome di un ADR ante litteram nel quale rischia di trasformarsi il processo in ambito di responsabilità medica, nel quale il medico legale accerta, valuta, propone, conclude. A questa visione tutti gli attori del processo, tutti gli operatori del diritto, tutti i cittadini devono opporsi perché la giurisdizionalizzazione della lite e anche tutte le forme di ADR devono rispettare i principi fondamentali del nostro ordinamento, fra i quali vi è quello per cui il Giudice deve giudicare iuxta alligata. Il processo non è dei Giudici, né degli avvocati, ma è sempre e soltanto delle parti, alle quali è affidata la richiesta di giustizia ed il potere dispositivo delle prove. Non spetta al CTU e neppure al Giudice la ricerca nel processo civile di una verità “altra” rispetto a quanto portato nel processo. Vi è in questo senso la necessità di un indispensabile richiamo alle differenze fra giudizio civile e
CTU e principio dispositivo
penale10, sicché le zone grigie che inevitabilmente si presentano nell’accertamento della responsabilità sanitaria devono tassativamente e necessariamente essere valutate nell’ambito della rigorosa ripartizione degli oneri probatori sanciti dalla Suprema Corte, in virtù dei quali spetta all’attore l’allegazione dell’astratto qualificato inadempimento e la prova (ovviamente non definitiva, non potendo in questo senso l’attore essere anche Giudice) del nesso di causalità materiale fra inadempimento e fatto, ed al convenuto la prova del corretto adempimento o quella dell’impossibilità dovuta ad una causa a sé non imputabile.
3. I principi che tutti dovrebbero condividere Nel rispetto dei necessari ruoli di tutti gli attori di un processo civile in ambito di responsabilità sanitaria ed in attuazione di un necessario dialogo professionale fra Giudici, medici ed avvocati per l’accertamento dell’eventuale lesione del diritto alla salute del paziente, è indispensabile che vi sia una piena condivisione dei principi fondanti della responsabilità civile in ambito sanitario e
“[…] si è da questa Corte costantemente posto in rilievo come sia ormai da tempo tramontata la concezione etica della responsabilità civile informata sulla concezione psicologica della colpa, propria invero del diritto penale, rilevando essa (non solo nell’adempimento delle obbligazioni ma anche nei comuni rapporti della vita di relazione: cfr. Cass., 27/8/2014, n. 18304, e, da ultimo, Cass., 20/2/2015, n. 3367; Cass., 8/5/2015, n. 9294) in termini di colpa obiettiva, e cioè quale violazione del modello di condotta cui il debitore del rapporto obbligatorio e il soggetto dei comuni rapporti della vita di relazione sono tenuti ad improntare la propria condotta (v. sent. Cass., 27/10/2015, n 21782; Cass., 20/2/2015, n. 3367; Cass., 8/5/2015, n. 9294; Cass., 27/8/2014, n. 18304); in altri termini, quale violazione dello sforzo diligente dovuto in relazione alle circostanze del caso concreto adeguato ad evitare che la prestazione di adempimento o il comportamento da mantenersi arrechino danno (anche) a terzi (cfr. Cass., 6/5/2015, n. 8989; e, in diverso ambito, Cass., 20/2/2006, n. 3651). Con particolare riferimento al nesso di causalità è d’altro canto noto che, mentre nel processo penale vige la regola della prova ‘oltre il ragionevole dubbio’, in materia civile opera la diversa regola della preponderanza dell’evidenza o del ‘più probabile che non’ (v. Cass., Sez. Un., 11/1/2008, n. 576; Cass., 16/10/2007, n. 21619)”. Cass., 21.4.2016, n. 8035, in Mass. Giust. civ., 2016. 10
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del processo civile in genere, condivisione questa non sempre attuata in pieno. La CTU non è il luogo – e non dovrà mai diventarlo – ove tentare bonarie composizioni di conflitti, oppure ricercare una verità extraprocessuale o disperdersi in considerazioni tecnico scientifiche per valutare le conseguenze nel processo e gli accertamenti eseguiti. I confini entro i quali la CTU deve mantenersi sono proprio quelli tracciati dalla Suprema Corte e che ben possano essere riassunti in due divieti, uno in comune con il Giudice, l’altro proprio del CTU: – non prendere in considerazione fatti, documenti, prove in genere, non allegati tempestivamente dalle parti nel giudizio; – non formulare conclusioni sulle conseguenze giuridiche dei propri accertamenti. Quest’ultimo divieto è altrettanto importante quanto il primo, poiché non è l’esperto medico – come non lo è qualsiasi altro esperto di qualsiasi altra materia – ad essere chiamato a rispondere alla domanda di giustizia rivolta al Giudice: il CTU medico legale deve rispondere ad una domanda di “accertamento”, non ad una domanda sulla fondatezza o meno di una pretesa risarcitoria. Troppe volte capita di leggere nelle CTU conclusioni in punto responsabilità fondate sulla impossibilità ad adempiere, sulla prevedibilità o imprevedibilità di una determinata conseguenza, sulla adeguatezza dell’eventuale consenso. È di tutta evidenza che su tali aspetti non può comunque mancare un pronunciamento medico legale, ma in termini di accertamento scientifico e mai di valutazione giuridica. Tutte le parti del processo, in ambito di responsabilità sanitaria, sono chiamate a condividere a livello culturale, prima ancora che giuridico, alcune “miles stones”, delle quali le principali sembrano essere le seguenti: (i) L’impossibilità esimente prevista dall’art. 1218 c.c. comporta che non sia sufficiente che per il convenuto fosse impossibile adempiere, bensì che tale impossibilità – oltre a sussistere – dipenda da una causa a sé non imputabile: la circostanza non è di poco conto e la valutazione sulla imputabilità spetta al Giudice e non al CTU, che è invece chiamato ad accertare sotto
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un profilo scientifico se l’impossibilità sussisteva o meno. (ii) Prevedibilità ed imprevedibilità attengono al nesso causale e non al profilo soggettivo, dovendo tenere distinta l’impossibilità ad adempiere dal tema della colpa. Ricorda in questo senso la Suprema Corte che “Al riguardo deve essere ribadito il principio secondo cui nel giudizio di responsabilità medica, per superare la presunzione di cui all’art. 1218 cod. civ. non è sufficiente dimostrare che l’evento dannoso per il paziente costituisca una ‘complicanza’, rilevabile nella statistica sanitaria, dovendosi ritenere tale nozione (indicativa nella lettura medica di un evento, insorto nel corso dell’iter terapeutico, astrattamente prevedibile ma non evitabile) priva di rilievo sul piano giuridico, nel cui ambito il peggioramento delle condizioni del paziente può solo ricondursi ad un fatto o prevedibile ed evitabile, e dunque ascrivibile a colpa del medico, ovvero non prevedibile o non evitabile, sì da integrare gli estremi della causa non imputabile (CFR. Corte Cass. Sez. 3, Sentenza n. 13328 del 30/06/2015)”11. (iii) Chi opera nel mondo del diritto deve accettare che non vi è posto per volenterosi ma biasimevoli tentativi di ricerca della verità oggettiva o di quella che appare tale alla luce di proprie convinzioni personali: gli operatori del diritto – fra i quali entra inevitabilmente il medico che accetta di svolgere un ruolo di consulente nel processo – condividono inevitabilmente il fondante principio democratico in virtù del quale “quod non est in actis non est in mundo”. Su questi punti occorre rafforzare una fratellanza fra mondo forense, giudiziale e medico legale, nella consapevolezza che i differenti ruoli che l’ordinamento riconosce a ciascuno assolvono ad una funzione non certo limitante delle competenze di ognuno, bensì esaltante la democraticità della tutela dei diritti. Non vi è posto nel processo per “scavallamenti” di ruoli. Valga un nuovo comandamento: “non desiderare il ruolo altrui”.
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Cass., 11.11.2019, n. 28985, in Guida al dir., 2019, 63.
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Giurisprudenza
s i r Giurisprudenza iu g de u r p Giurisprudenza
Cass. civ., III sez., 11.11.2019, n. 28987
Responsabilità medica – Attività medico-chirurgica – Responsabilità della struttura sanitaria per fatto esclusivo del medico – Rivalsa nei confronti del sanitario (disciplina “ante” legge n. 24 del 2017) – Regresso – Ripartizione paritaria della responsabilità (c.c., artt. 1226, 1298, 2049, 2055; legge n. 24/2017, art. 9)
In tema di azione di rivalsa nel regime anteriore alla legge n. 24 del 2017, nel rapporto interno tra la struttura sanitaria e il medico, la responsabilità per i danni cagionati da colpa esclusiva di quest’ultimo deve essere ripartita in misura paritaria secondo il criterio presuntivo degli artt. 1298, comma 2°, e 2055, comma 3°, c.c., in quanto la struttura accetta il rischio connaturato all’utilizzazione di terzi per l’adempimento della propria obbligazione contrattuale, a meno che dimostri un’eccezionale, inescusabilmente grave, del tutto imprevedibile (e oggettivamente improbabile) devianza del sanitario dal programma condiviso di tutela della salute che è oggetto dell’obbligazione. Il testo integrale della sentenza è leggibile sul sito della Rivista
Rivalsa e regresso della struttura sanitaria verso l’esercente la professione sanitaria Ivan Libero Nocera Avvocato in Torino
Sommario: 1. Il caso. – 2. L’indebita sovrapposizione tra distinte fattispecie di responsabilità. – 3. La responsabilità per fatto dell’ausiliario ex art. 1228 c.c. – 4. Il rapporto tra responsabilità ai sensi dell’art. 1228 c.c. e quella in forza dell’art. 2049 c.c. – 5. Il regresso dell’ente ospedaliero sull’esercente la professione sanitaria. – 6. La misura della ripartizione interna della responsabilità tra coobbligati solidali. – 7. La ripartizione paritaria della responsabilità secondo la Cass. n. 28987/2019. – 8. Conclusioni: regresso e rivalsa prima e dopo la c.d. legge Gelli.
Abstract: Nella complessiva ricostruzione nomofilattica della responsabilità sanitaria realizzata dalla terza sezione della Corte di Cassazione con le pronunce depositate l’11 novembre 2019, la n. 28987 spicca per affrontare il tema del recupero dei costi sopportati dalle strutture sanitarie per medical malpractice, concentrandosi sul
meccanismo di distribuzione del carico economico del risarcimento tra la struttura ed il medico nel regime anteriore alla legge n. 24/2017. In the overall nomophilactic reconstruction of health care liability carried out by the third section of the Supreme Court with the rulings filed on 11 Novem-
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ber 2019, no. 28987 stands out because it addresses directly the issue of recovering the costs of medical malpractice by healthcare providers, focusing on the mechanism of distribution of the economic burden of compensation between the doctor and the health facility in which the activity is carried out in the regime prior to Law no. 24/2017.
1. Il caso La fattispecie al centro della sentenza in esame riguarda un’azione risarcitoria rivolta da una paziente nei confronti di una casa di cura e di un chirurgo plastico che all’interno della predetta struttura sanitaria aveva eseguito un intervento di mastoplastica in maniera inesatta, senza che le due operazioni successive alla prima avessero rimediato agli errori iniziali. Il Giudice di prime cure aveva accolto la domanda, ritenendo solidalmente responsabili la struttura sanitaria e il medico, con sentenza confermata dalla Corte d’Appello, la quale – richiamando il tradizionale orientamento che riconosce natura contrattuale alla responsabilità medica1 – aveva
Sulla questione della natura giuridica della responsabilità, prima e dopo le leggi del 2012 e del 2017, si veda, tra i tanti, Ponzanelli, Medical malpractice: la legge Bianco-Gelli, in Contr. e impr., 2017, 356; Pucella, I difficili assetti della responsabilità medica, in Nuova giur. civ. comm., 2007, II, 445; Breda, La responsabilità civile delle strutture sanitarie e del medico tra conferme e novità, in Danno e resp., 2017, 283, nonché i contributi di Calvo, La «decontrattualizzazione» della responsabilità sanitaria; Cicero, La presunta eclissi della responsabilità, tra contratto e torto, da contatto sociale e Guaglione, La responsabilità da contatto sociale nell’evoluzione dell’ordinamento, in La nuova responsabilità sanitaria dopo la riforma Gelli-Bianco (legge n. 24/2017), a cura di Volpe, Bologna, 2018. Giova rammentare come la Cass., 22.1.1999, n. 589, in Corr. giur., 1999, 441, con nota di Di Majo, L’obbligazione senza prestazione approda in Cassazione; in Danno e resp., 1999, 294, con nota di Carbone, La responsabilità del medico ospedaliero come responsabilità da contratto; in Foro it., 1999, I, 3333, con note di Di Ciommo, Note critiche sui recenti orientamenti giurisprudenziali in tema di responsabilità del medico ospedaliero, e di Lanotte, 1
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Giurisprudenza
escluso il regresso dell’ente verso l’esercente la professione sanitaria, affermando che le quote di ripartizione interna della responsabilità si presumono eguali. Invero, l’oggetto del contratto di spedalità tra paziente e casa di cura include la prestazione medico-professionale svolta dal sanitario quale suo ausiliario necessario, a prescindere sia dalla sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato sia dalla circostanza che il “contatto” tra paziente e medico preceda o segua l’ulteriore “contatto” tra il paziente e l’ente, atteso il collegamento comunque esistente tra la prestazione del sanitario e l’organizzazione aziendale2.
L’obbligazione del medico dipendente è un’obbligazione senza prestazione o una prestazione senza obbligazione?, abbia adottato l’orientamento sostenuto da autorevole dottrina (Castronovo, L’obbligazione senza prestazione ai confini tra contratto e torto, in Le ragioni del diritto, Scritti in onore di Luigi Mengoni, Milano, 1995, 147 ed oggi Id., Tra contratto e torto. L’obbligazione senza prestazione, in La nuova responsabilità civile, Milano, 2006, 443; Di Majo, Delle obbligazioni in generale, nel Commentario Scialoja-Branca, Bologna-Roma, sub artt. 1173-1176, 73 e 194; Roppo, Il contatto sociale e i rapporti contrattuali di fatto, in Casi e questioni di diritto privato, a cura di Bessone, Milano, 1993, 1) individuando la fonte dell’obbligo risarcitorio nell’ambito della responsabilità medica nel “rapporto contrattuale di fatto o da contatto sociale”. Pertanto, è pacifico in giurisprudenza che «Il rapporto che si instaura tra paziente e casa di cura (o ente ospedaliero) ha la sua fonte in un tipico contratto a prestazioni corrispettive con effetti protettivi nei confronti del terzo, da cui, a fronte dell’obbligazione al pagamento del corrispettivo (che ben può essere adempiuta dal paziente, dall’assicuratore, dal S.s.n. o da altro ente), insorgono a carico della casa di cura (o dell’ente), accanto a quelli di tipo lato sensu alberghieri, obblighi di messa a disposizione del personale medico, del personale paramedico e dell’apprestamento di tutte le attrezzature necessarie, anche in vista di eventuali complicazioni od emergenze. Ne consegue che la responsabilità della casa di cura (o dell’ente) nei confronti del paziente ha natura contrattuale e può conseguire, ai sensi dell’art. 1218 c.c., all’inadempimento delle obbligazioni direttamente a suo carico, nonché, in virtù dell’art. 1228 c.c., all’inadempimento della prestazione medico-professionale svolta direttamente dal sanitario, quale suo ausiliario necessario pur in assenza di un rapporto di lavoro subordinato, comunque sussistendo un collegamento tra la prestazione da costui effettuata e la sua organizzazione aziendale, non rilevando in contrario al riguardo la circostanza che il sanitario risulti essere anche di fiducia dello stesso paziente, o comunque dal medesimo scelto» (così, tra le tante, Cass., 14.6.2007, n. 13953, in Contratti, 2007, 897). 2
Sul percorso giurisprudenziale in tema di qualificazione
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Come per le altre “decisioni di san Martino”3, il processo giunge a pubblica udienza a seguito di ordinanza interlocutoria, sottolineando la natura nomofilattica della questione sul regime dell’azione di rivalsa ovvero di regresso nelle obbligazioni solidali, riferibile al rapporto tra struttura sanitaria ed esercente la professione sanitaria, ritenuti responsabili4. La sentenza si concentra, quindi, sulla disciplina del riparto della responsabilità nei rapporti interni tra struttura sanitaria e il professionista del quale la prima si avvalga, nell’ipotesi in cui il danno sia causalmente riconducibile in via esclusiva alla malpractice del secondo5. In particolare, la Suprema Corte – attesa la non applicabilità ratione temporis dell’art. 9 della legge n. 24/2017 – verifica se e in che termini l’ente possa agire in regresso, recuperando dall’esercente quanto eventualmente liquidato al paziente danneggiato. Il tema si colloca all’interno dell’orizzonte sistematico dell’art. 1228 c.c. – corrispondente all’art. 2049 c.c. sul piano aquiliano – in forza del quale, salva la diversa volontà delle parti, si mantiene in capo al debitore la responsabilità per la produzione del
del contratto tra struttura e paziente si rinvia a Breda, Itinerari della giurisprudenza. La responsabilità del medico e della struttura sanitaria, in Danno e resp., 2006, 955; Id., Il risarcimento dei danni da inefficienza della struttura sanitaria, in La responsabilità civile. Tredici variazioni sul tema, a cura di Ponzanelli, Padova, 2002, 302. Per una sintesi dei punti più rilevanti di tali pronunce si rinvia a Ponzanelli, Il restatement dell’11 novembre 2019 ovvero il nuovo codice della responsabilità sanitaria, in Danno e resp., 2020, 5 e Franzoni, Spigolature sulle sentenze di san Martino, ivi, 2020, 7. 3
Le sentenze dell’11 novembre 2019 segnano un “ritorno” all’egemonia interpretativa della giurisprudenza dopo gli interventi normativi di cui alla c.d. legge Balduzzi e alla c.d. legge Gelli. In proposito si vedano le riflessioni di Ponzanelli, La responsabilità medica: dal primato della giurisprudenza alla disciplina legislativa, in Danno e resp., 2016, 816.
danno anche quando si avvalga dell’opera di ausiliari allo scopo di effettuare la prestazione.
2. L’indebita sovrapposizione tra distinte fattispecie di responsabilità Prima di addentrarsi nell’analisi della sentenza, giova premettere che, benché sovente si registri un uso promiscuo dei termini “regresso” e “rivalsa”, essi poggiano su presupposti differenti. Invero, il regresso sottintende una solidarietà passiva di più soggetti coobbligati, entrambi tenuti al pagamento integrale di un’unica prestazione, con diritto del solvens di ripetere verso i condebitori le quote spettanti a ciascuno di essi (artt. 1299 e 2055 c.c.). La rivalsa si riferisce invece – specialmente in materia assicurativa e tributaria – ad un mero recupero verso l’effettivo debitore di quanto pagato ad un creditore, in presenza di distinti e autonomi rapporti, senza, dunque, alcun vincolo di solidarietà dal lato passivo. Quest’ultimo termine è ora utilizzato – evidentemente in senso atecnico – dall’art. 9 della legge n. 24/2017, come sinonimo di regresso, atteso il pacifico rapporto di condebito tra struttura ed esercente la professione sanitaria6. Nel regime precedente all’entrata in vigore della legge n. 24/2017, l’azione di rivalsa della struttura pubblica, devoluta alla giurisdizione esclusiva della Corte dei Conti, è stata sempre connotata dal limite dell’elemento soggettivo, essendo subordinata all’accertamento del dolo o colpa grave del medico danneggiante7. In senso analogo si è mossa la contrattazione collettiva con riferimento
4
Si vedano sul punto Granelli, La medicina difensiva, in La tutela della persona nella nuova responsabilità sanitaria, a cura di Iudica, Milano, 2019, 136; Serani, Polizze “a secondo rischio”, responsabilità del medico e rivalsa della struttura sanitaria, in Riv. it. med. leg., 2018, 728; D’Adda, Solidarietà e rivalse nella responsabilità sanitaria: una nuova disciplina speciale, in Corr. giur., 2017, 771. 5
Sul tema si vedano diffusamente Paladini, L’azione di rivalsa nei confronti dell’esercente la professione sanitaria, in questa Rivista, 2018, 139; Chessa, La c.d. “azione di rivalsa” nei confronti dell’esercente la professione sanitaria, in Resp. civ. e prev., 2019, 403; Franzoni, La responsabilità civile del personale medico dopo la legge Gelli, in Ist. fed. riv. st. giur. e pol., 2017, 345. 6
Si vedano gli artt. 22 e 23 del d.P.R., 10.1.1957, n. 3, T.U. sugli impiegati civili dello Stato. 7
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alle rivalse esercitate dalla struttura sanitaria private nei riguardi del proprio dipendente8. La disciplina codicistica sul regresso, che non sopporta limitazioni né nell’elemento soggettivo né quantitative, era, invece, pienamente operante nei confronti dell’esercente la professione sanitaria presso la struttura in regime di libera professione, senza un vincolo di subordinazione9. Il formante giurisprudenziale che si è confrontato con tale tematica non ha avuto un orientamento univoco. Invero, il ventaglio di possibili articolazioni interne della responsabilità riconosciute dalla giurisprudenza comprende sia il recupero integrale da parte dell’ente con una rivalsa integrale, facendo conseguentemente gravare sull’esercente il “costo” del pregiudizio10 sia l’accoglimento della domanda di rivalsa nel limite della metà dell’importo liquidato. Il riparto del costo del danno per la metà è variamente motivato: (i) per non aver l’ente esercitato un’adeguata attività di controllo e vigilanza sull’esercente la professione sanitaria11; (ii) in via presuntiva ex art. 2055, comma 3°, c.c. per mancato assolvimento da parte dell’ente ospedaliero dell’onere probatorio circa l’adempimento degli obblighi di corretta organizzazione del personale e di vigilanza sul suo operato12; (iii) in base al principio cuius commoda eius incommoda, in forza del quale colui che si avvale dell’opera dell’ausiliario o che ricava dalla medesima vantaggio ed utilità, deve subirne i rischi ed i relativi danni, di talché «la struttura ha un precipuo interesse economico nell’operato dei sanitari, traendone guadagno»13.
Si veda in proposito l’art. 21 del C.C.L.N. 3 novembre 2005. 8
Sulle tipologie di recupero dei costi sopportati dalle strutture sanitarie pubbliche e private si vedano le riflessioni di Bocchini, Il recupero dei costi sopportati dalle strutture sanitarie, in Nuova giur. civ. comm., 2018, II, 1534. 9
In tal senso, vedasi Trib. Ravenna, 3.10.2019; Trib. Taranto, 16.9.2019; Trib. Ravenna, 2.9.2019; Trib. Latina, 26.2.2019, tutte in Pluris. 10
In proposito, si veda, fra le tante, Trib. Reggio Emilia, 11.4.2019, in Pluris. 11
In argomento, si veda, ex multis, App. Milano, 29.6.2019, in Leggiditalia. 12
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Così, in termini, Trib. Milano, 12.1.2018, n. 266. Nota di
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Giurisprudenza
A prescindere dalla soluzione accolta in ordine al dispiegarsi dei rapporti interni tra ente ed esercente la professione sanitaria, si riscontra, quale tratto comune degli arresti giurisprudenziali, un’indebita sovrapposizione concettuale tra il regime della responsabilità dei padroni e dei committenti ex art. 2049 c.c. e la responsabilità per fatto degli ausiliari di cui all’art. 1228 c.c.14. Del resto, l’itinerario ermeneutico tradizionale reputa entrambe tali due fattispecie espressioni del riferito principio cuius commoda eius incommoda15, sminuendo così il diverso fondamento dei due tipi di responsabilità (contrattuale ed extracontrattuale)16. È pur vero che la responsabilità medica si distingue per gli interessi coinvolti, la commistione tra pubblico e privato nonché la frequenza e rilevan-
aggiornamento, 29 gennaio 2018, in www.rivistaresponsabilitamedica.it. Per un’approfondita ricostruzione giurisprudenziale si veda Breda, La responsabilità – riformata? – della struttura sanitaria, in La responsabilità medica, Guida operativa alla riforma Gelli Bianco. Inquadramento, profili civili e penali, assicurazione, procedimento stragiudiziale e giudiziale, diretto da Cendon, a cura di Todeschini, Milano, 2019, 929. 14
Tra i primi commentatori del codice civile si vedano in tal senso Colagrosso, Il Libro delle obbligazioni (parte generale), in Commento al nuovo codice civile italiano, Milano, 1943, 98; Bufera, Libro delle obbligazioni, in Codice Civile italiano, I, Torino, 1943, 113; Barassi, La teoria generale delle obbligazioni, II, 2, Milano, 1964, 509. 15
Secondo Betti, Teoria generale delle obbligazioni, I, Prolegomeni: funzione economico-sociale dei rapporti d’obbligazione, Milano, 1953, 150, la ratio di entrambe le fattispecie risiederebbe nell’assunzione di un «rischio professionale», il quale fonda a carico dei soggetti designati come responsabili – non una presunzione di colpa, bensì più correttamente – un’«attribuzione di colpa», cioè «un’imputazione del danno a chi lo ha causato, o appare, nella normalità dei casi, come autore del danno stesso, quantunque la illazione desunta dalla esperienza della normalità dei casi sia tale che nel caso specifico potrebbe anche essere smentita». Pertanto, «[i] n ragione di codesto rischio professionale un consociato è imputabile del danno che ha recato ad altri consociati come organizzatore o come dirigente: organizzatore al quale spetta, secondo il meccanismo interno dell’impresa o dell’industria, la leva di comando di quell’apparato tecnico e quindi il potere di controllo sul suo retto funzionamento. Nella coscienza sociale si ravvisa inerente a tale posizione il potere di previsione e di prevenzione dei rischi che sono inseparabili dal funzionamento dell’apparato». 16
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Rivalsa e regresso della struttura sanitaria
za delle ipotesi di danno, tanto da far ritenere tale materia un sottosistema della responsabilità civile, caratterizzato da regole proprie (quali l’enucleazione di un concetto unitario di diligenza nel quale assume rilevanza il rispetto di linee guida e protocolli, il concorso improprio di responsabilità, l’applicazione ai soli interventi facili del meccanismo della res ipsa loquitur, la trasversalità del concetto di obbligazione di mezzi)17. Anche in ragione del valore della certezza e della prevedibilità del diritto18, l’intervento nomofilattico della Suprema Corte si apprezza per il proposito di fare chiarezza in subiecta materia, prendendo le mosse dall’analisi specifica delle distinte fattispecie di responsabilità, al fine di correttamente inquadrare l’azione promossa dall’ente ospedaliero in una corretta cornice normativa, da cui trarsi il corollario operativo sulla ripartizione interna della responsabilità. Già all’esordio della parte motiva la sentenza sottolinea la necessità di identificare correttamente l’azione di rivalsa, distinguendola così dal diritto di regresso19, in quanto caratterizzata dalla mera ripetizione postuma verso il debitore di quanto pagato al creditore in estinzione del debito in assenza di un vincolo di solidarietà verso il creditore. Quindi, per ricostruire l’istituto della rivalsa, la pronuncia si focalizza sulla natura della responsa-
Si vedano in proposito Breda, La responsabilità medica e le regole giurisprudenziali, in La Responsabilità sanitaria. Valutazione del rischio e assicurazione, a cura di Comandè e Turchetti, Padova, 2004, 30; Alpa, La responsabilità medica, in Resp. civ. e prev., 1999, 315; De Matteis, La responsabilità medica tra scientia iuris e regole di formazione giurisprudenziale, in Danno e resp., 1999, 781; Id., La responsabilità medica. Un sottosistema della responsabilità civile, Padova, 1995; Roppo, La responsabilità civile dell’impresa nel settore dei servizi innovativi, in Contratto e impr., 1993, 89. 17
Si rinvia in argomento alle acute considerazioni di CastroEclissi del diritto civile, Milano, 2015, 9; Benedetti, Oggettività esistenziale dell’interpretazione, Torino, 2014, 261; Irti, Calcolabilità weberiana e crisi della fattispecie, in Riv. dir. civ., 2014, 987 e Id., Per un dialogo sulla calcolabilità giuridica, in Riv. dir. proc., 2016, 917 (entrambi ora raccolti in Id., Un diritto incalcolabile, Torino, 2016). 18
novo,
Sulla nozione di regresso, vedasi Sicchiero, voce «Regresso», nel Digesto IV ed., Disc. priv., sez. civ., XVI, Torino, 2001, 550 e, più recentemente, Balbusso, Il regresso nella solidarietà debitoria, Milano, 2016. 19
bilità per fatto dell’ausiliario diversa da quella ex art. 2049 c.c.: solo la prima è una responsabilità diretta per fatto proprio atteso che il debitore è responsabile in quanto titolare del rapporto obbligatorio, mentre nessun rapporto contrattuale intercorre tra i suoi collaboratori e la parte creditrice20. In altre parole, l’art. 1228 c.c. regola l’ipotesi in cui il fatto dell’ausiliario abbia determinato l’inadempimento o l’inesatto adempimento della prestazione principale21.
Valga osservare che il codice Pisanelli, sulla scia del Code Napoléon, difettava di una norma che prevedesse la responsabilità del debitore per il fatto dei propri preposti, limitandosi a puntuali specifiche previsioni: l’art. 1664 c.c. 1865, che prevedeva la responsabilità dell’appaltatore per «l’opera delle persone da lui impiegate»; l’art. 1247 c.c. 1865, secondo cui il debitore di una cosa certa e determinata era responsabile dei «deterioramenti provenienti da fatto o colpa di lui o delle persone da cui deve rispondere». Inoltre, giova segnalare l’art. 398 c. comm. che reputava responsabile il vettore per il fatto delle persone cui avesse affidato l’esecuzione del trasporto. Si deve a Ferrara, La responsabilità contrattuale per fatto altrui, in Scritti giuridici, Milano, 1954, 108, l’intuizione di reputare la responsabilità del debitore per il fatto dei propri preposti quale principio immanente nel sistema giuridico, alla luce della nozione di causa estranea di cui all’art. 1225 c.c. 1865: invero la condotta dolosa o colposa degli ausiliari non poteva ritenersi quale causa estranea al debitore, vale a dire a lui non imputabile, essendo invece interna alla sua sfera economica, in quanto era stata realizzata con il contributo dello stesso debitore. Per una ricostruzione storica, si veda Ceccherini, Responsabilità per fatto degli ausiliari – Clausole di esonero da responsabilità, nel Commentario Schlesinger, Milano, 2003, sub artt. 1228-1229, 3. Peraltro, l’ordinamento francese, anche a seguito della recente Réforme du droit des obligations (l’Ordonnance n° 2016-131 del 10 febbraio 2016), continua a non dedicare alla responsabilità per fatto degli ausiliari (si veda Réforme du droit des obligations, Un supplément au code civil 2016, Parigi, 2016, 24, Rapport, JO 11 févr. 2016). Tuttavia la condotta degli ausiliari viene ricondotta al debitore attraverso la previsione dell’art. 1147 per cui il debitore risponde di “dommages et intérêts” ogni qualvolta l’inadempimento non sia giustificato da una “cause étrangère qui ne peut lui être imputée […]”, senza tuttavia fornire una risposta univoca alla questione del criterio di imputazione. 20
In proposito si rinvia alle lucide riflessioni di D’Adda, Responsabilità per fatto degli ausiliari, Commento sub art. 1228 c.c., nel Commentario del codice civile, diretto da Gabrielli, Delle obbligazioni, II, a cura di Cuffaro, Torino, 2013, 335; Barbarisi, La responsabilità del debitore per fatto degli ausiliari, in Obbl. e contr., 2012, 4; Visintini, La responsabilità del debitore per fatto degli ausiliari, nel Trattato Visintini, Padova, 2010, 585; Ceccherini, La responsabilità contrattuale per fatto degli ausiliari, nel Commentario Schlesinger, Mila21
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3. La responsabilità per fatto dell’ausiliario ex art. 1228 c.c. Correttamente, nella sentenza in commento, la Suprema Corte rammenta che nella responsabilità ex art. 1228 c.c. l’ausiliario è la persona della cui opera il debitore si avvale nell’adempimento dell’obbligazione («quale strumento di attuazione dell’obbligazione contrattuale») in capo al quale dovrà accertarsi l’elemento soggettivo. Proprio la nozione di ausiliario rappresenta uno dei sentieri utilizzati dalla giurisprudenza per distinguere progressivamente l’ambito di applicazione dell’art. 1228 c.c. da quello dell’art. 2049 c.c. Invero, mentre fino agli anni sessanta tale nozione si faceva coincidere con quella di “commesso” di cui alla norma in materia responsabilità extracontrattuale – qualificando pertanto come “ausiliari” solo i soggetti legati al debitore da un vincolo di subordinazione22 – in seguito, la giurisprudenza di legittimità ha ampliato tale concetto fino a includervi altresì i lavoratori autonomi23. Pertanto, è adesso pacifico che i terzi di cui si avvale il solvens nell’ambito dell’art. 1228 c.c. possono essere considerati ausiliari qualora siano identificabili al contempo (i) un’iniziativa del debitore, con cui viene affidato al terzo l’incarico di eseguire la prestazione e (ii) la completa estraneità dell’ausiliario al rapporto obbligatorio24. Tale
no, 2003, 68; Bianca, Dell’inadempimento delle obbligazioni, nel Commentario Scialoja e Branca, II, Bologna-Roma, 1979, sub art. 1228, 454. In tal senso si vedano Cass., 15.6.1955, n. 1908, in Giur. it., 1955, I, 91; Cass., 24.3.1955, n. 878, in Giust. civ., 1955, I, 1087; Cass., 13.9.1948, n. 1601, in Riv. dir. comm., 1949, II, 289. 22
Si vedano, in ordine cronologico dalla pronuncia più remota, Cass., 21.6.1960, n. 1639, in Rep. Giur. it., 1960, Agenzia (contratto di), che ha applicato l’art. 1228 c.c. al caso di dell’agente che «per l’esecuzione del contratto si serve dell’esecuzione del contratto si serve della collaborazione dei suoi dipendenti o ausiliari autonomi, come mandatari o subagenti»; Cass., 28.4.1965, n. 752, in Giust. civ., 1965, I, 1834; Cass., 9.8.1968, n. 2841, in Rep. Giur. it., 1968, Responsabilità civile, 143. 23
Secondo la dottrina più avvertita occorre considerare ausiliari «tutti coloro che si adoperano nell’esecuzione della prestazione promessa dal debitore»: così Visintini, La responsabilità del debitore per fatto degli ausiliari, cit., 585 e Bianca,
Giurisprudenza
secondo presupposto consente, dunque, di escludere recisamente che possano essere compresi nella nozione di ausiliari i debitori solidali: questi, infatti, non devono sopportare le conseguenze dei fatti dolosi e colposi degli altri condebitori, in forza del principio della non comunicabilità degli effetti pregiudizievoli e dell’estensione di quelli favorevoli. Nell’ambito della responsabilità delle strutture sanitarie, è oramai pacifica l’irrilevanza ai fini della configurazione del concetto di “ausiliario” del tipo di rapporto di lavoro intercorrente tra medico e struttura, essendo sufficiente che l’ente si sia avvalso del medico per adempiere la prestazione verso il paziente, anche nell’ambito di un rapporto di collaborazione se del caso pure occasionale. È, invece, controverso se l’estraneità dell’ausiliario dal rapporto obbligatorio debba essere intesa anche come estraneità rispetto al creditore. Un indirizzo più restrittivo esclude dal perimetro applicativo dell’art. 1228 c.c. sia l’ipotesi di adempimento del terzo sia quella in cui l’ausiliario sia stato scelto dalla parte creditrice o con il consenso di questa oppure – benché sia stato designato dal debitore – le modalità di scelta siano state previamente concordate con il creditore25. Un altro orientamento discrimina a seconda che il creditore abbia scelto una persona estranea o meno all’organizzazione del debitore. Nella prima fattispecie, il creditore non può invocare l’art. 1228 c.c. in quanto egli deve sopportare le conseguenze dannose causate da dolo o colpa del personale da lui prescelto. Qualora, invece, la scelta sia avvenuta tra i dipendenti della parte obbligata, l’atto di designazione del creditore opera nell’ambito di una scelta già precedentemente effettuata dal debitore ed il terzo rimane ausiliario, con conseguente applicabilità dell’art. 1228 c.c. Nella responsabilità medica l’inadempimento del professionista è imputabile comunque alla struttura sanitaria nell’ipotesi in cui l’esercente la professione sanitaria fosse anche medico di fiducia
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Dell’inadempimento delle obbligazioni, cit., 459. In tal senso si veda ancora Visintini, La responsabilità del debitore per fatto degli ausiliari, cit., 588. 25
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del paziente, qualora sia comunque collegato all’organizzazione aziendale26 o anche estraneo a questa ma autorizzato ad operare al suo interno27.
Si vedano, tra le tante, Cass., 3.2.2012, n. 1620, in Mass. Giust. civ., 2012, 124; Cass., 14.6.2007, n. 13953, in Foro it., 2008, I, 1990; Cass., 13.4.2007, n. 8826, in Danno e resp., 2007, 811; Cass., 2.2.2005, n. 2042, ivi, 2005, 441; Cass., 14.7.2004, n. 13066, ivi, 537; Cass., 8.1.1999, n. 103, in Resp. civ. e prev., 1999, 683; Cass., 20.4.1989, n. 1855, in Foro it., 1990, I, 1970.
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In proposito, Cass., 28.8.2009, n. 18805, in Corr. giur., 2010, 199, ha affermato che «ove un istituto autorizzi un chirurgo od un medico ad operare al suo interno, mettendogli a disposizione le sue attrezzature e la sua organizzazione, e con essa cooperi [...] viene ad assumere contrattualmente, rispetto al paziente, la posizione e le responsabilità tipiche dell’impresa erogatrice del complesso delle prestazioni sanitarie, ivi inclusa l’attività del chirurgo». Ha inoltre aggiunto che «Non si può certo ammettere che un ente ospedaliero dia accesso a chiunque si presenti, senza averne previamente verificati i titoli di abilitazione, la serietà, la competenza e affidabilità, anche in relazione alle esperienze pregresse, per poi trasferire sui pazienti gli effetti dannosi dell’eventuale imperizia dell’operatore, adducendo a motivo di averlo solo temporaneamente ospitato (peraltro non a titolo gratuito e traendone quindi un utile dall’attività di impresa per cui non può poi sottrarsi ai relativi rischi)». Va, tuttavia, sottolineato che nel caso oggetto di tale sentenza non era stata raggiunta la prova che fossero stati stipulati due distinti contratti con separazione di competenze fra i soggetti coinvolti, avendo ritenuto il giudice di merito che il paziente, dopo essersi affidato in prima battuta al chirurgo si sarebbe, poi, rivolto alla clinica alla quale il medico stesso l’aveva indirizzato, per ottenere la prestazione chirurgica unitamente a tutte le prestazioni accessorie, mediche e non. In proposito, Cass., 13.1.2015, n. 280, in Leggiditalia, (e in senso analogo Cass., 26.6.2012, n. 10616, in Danno e resp., 2013, 839 con nota di Caputi) ha stabilito che «Pur quando manchi un rapporto di subordinazione o di collaborazione tra clinica e sanitario, sussiste comunque un collegamento tra i due contratti stipulati, l’uno tra il medico ed il paziente, e l’altro, tra il paziente e la casa di cura, contratti aventi ad oggetto, il primo, prestazioni di natura professionale medica, comportanti l’obbligo di abile e diligente espletamento dell’attività professionale (e, a volte, anche di raggiungimento di un determinato risultato) e, il seconde, prestazione di servizi accessori di natura alberghiera, dì natura infermieristica ovvero aventi ad oggetto la concessione in godimento di macchinari sanitari, di attrezzi e di strutture edilizie specificamente destinate allo svolgimento di attività terapeutiche e/o chirurgiche». Nello stesso senso, più recentemente, si veda Cass., 29.1.2018, n. 2060, in Leggiditalia. Secondo Cass., 27.3.2015, n. 6243, in Nuova Giur. civ. comm., 2015, I, 109, con nota di Pucella, La responsabilità dell’asl per l’illecito riferibile al medico di base, la responsabilità “vicaria” scatta anche per i medici che operano in convenzione, osservando che «l’ASL è responsabile civilmente, ai
Appurato che «l’attività dell’ausiliario è incardinata nel programma obbligatorio originario che è diretto a realizzare, e per la cui realizzazione il debitore contrattuale si è necessariamente avvalso dell’incaricato», la sentenza de qua puntualizza che la responsabilità di cui all’art. 1228 c.c. è «pur sempre fondata sull’elemento soggettivo dell’ausiliario, il che ne esclude la configurabilità in termini di responsabilità oggettiva», prendendo così posizione sulla sua natura28. Su impulso della scuola pisana si è, invero, affermato l’indirizzo che valorizza la dicotomia tra
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sensi dell’art. 1228 c.c., del fatto illecito che il medico, con essa convenzionato per l’assistenza medico-generica, abbia commesso in esecuzione della prestazione curativa, ove resa nei limiti in cui la stessa è assicurata e garantita dal S.S.N. in base ai livelli stabiliti secondo la legge». Nel senso contrario all’orientamento su esposto si veda Cass., 13.4.2007, n. 8826, in Danno e resp., 2007, 811, secondo la quale non sarebbe applicabile l’art. 1228 c.c. ed il medico dovrebbe considerarsi quale mero “cooperatore del creditore”, che fornendo al debitore il mezzo per l’adempimento sopporta le conseguenze dannose da tale soggetto causate. Tra le pronunce di merito si vedano Trib. Varese, 26.11.2012, in Danno e resp, 2013, 375; Trib. Treviso, 5.10.2017, in Leggiditalia. In dottrina, in senso adesivo a tale ultima tesi si veda il commento di Faccioli, Vecchi e nuovi orientamenti giurisprudenziale in tema di responsabilità medica in una sentenza “scolare” della Cassazione, in Resp. civ., 2007, 967. Per una critica all’applicazione dell’art. 1228 c.c. in simili casi ed anche quando vi sia comunque un previo rapporto contrattuale con il medico si vedano le considerazioni di Cerdonio Chiaromonte, Responsabilità contrattuale per fatto degli ausiliari e incarico contrattuale diretto al medico: il dubbio ruolo della casa di cura privata, in Riv. dir. civ., 2017, 489. Similmente nei Principles of European Contract Law (Pecl) secondo l’art. 1:305, se un terzo ha eseguito una prestazione affidatagli da una delle parti, o ha adempiuto con l’assenso di quest’ultima, ed ha agito con dolo o colpa grave oppure in difformità dalla buona fede e dalla correttezza, tale condotta è imputata alla parte (vedasi altresì gli artt. 4:111 e 8:107). Allo stesso modo, il Code Européen des contrats, dopo aver affermato all’art. 89 che «un obbligo contrattuale si considera inadempiuto se un contraente o suoi collaboratori o incaricati tengono un comportamento diverso da quello dovuto in base al contratto», accomuna le cause di inadempimento materialmente riferibili tanto alla persona del debitore quanto ai suoi ausiliari ai fini della responsabilità da inadempimento, comunque gravante unicamente sul debitore, tant’è che l’art. 162, comma 5°, stabilisce che «[a] meno di diverso accordo, il debitore è responsabile [...] anche se è ricorso per l’esecuzione del contratto ad ausiliari o a terzi, salvo il suo diritto di rivalersi, se del caso, su questi ultimi». 28
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imputazione al debitore del fatto dell’ausiliario e valutazione dell’inadempimento. Infatti, quest’ultima è regolata dalle ordinarie regole in materia di responsabilità contrattuale che poggiano sul criterio della colpa. Invece, il fatto del terzo, costituendo solo un mero “strumento” utilizzato dal debitore per realizzare la prestazione dovuta, non è compreso nell’attuazione del rapporto obbligatorio. Di conseguenza, poiché la decisione discrezionale del debitore di valersi dell’opera di un ausiliario è causa del fatto doloso o colposo di questi, il debitore ne risponde in quanto la sua condotta ne è una sorta di causa causae29. Tuttavia, non manca in dottrina chi reputa che la responsabilità del debitore per fatto degli ausiliari sia di tipo oggettivo in forza sul principio per cui ogni soggetto è tenuto a sopportare i rischi della propria economia individuale30. Pertanto, ravvisando nell’art. 1228 c.c. la funzione di tutelare il creditore, la responsabilità del debitore per i fatti dei propri ausiliari rientrerebbe nel rischio d’impresa, inducendo la parte obbligata ad adottare nuove misure di diligenza tutte le volte in cui il loro costo sia inferiore ai danni di cui dovrebbe rispondere in caso d’inadempimento31.
Si vedano in proposito le considerazioni di Natoli, L’attuazione del rapporto obbligatorio, II, Il comportamento del debitore, nel Trattato Cicu-Messineo, XVI, 2, Milano, 1984, 75 e Breccia, Le obbligazioni, nel Trattato Iudica-Zatti, Milano, 1991, 469. Del resto, l’art. 1228 c.c. è ispirato al § 278 del BGB sulla Haftung für Erfüllungsgehilfen, a tenore del quale il debitore risponde per la colpa dei terzi dei quali si avvale nell’adempimento “in gleichem Umfang zu vertreten wie eigenes Verschulden”, cioè nella misura in cui egli stesso risponderebbe per colpa. 29
Si vedano in proposito le riflessioni di Osti, Deviazioni dottrinali in tema di responsabilità per inadempimento delle obbligazioni, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 1954, 593; Id., Revisione critica della teoria sull’impossibilità della prestazione, in Riv. dir. civ., 1918, 222, successivamente riprese da Visintini, La responsabilità contrattuale per fatto degli ausiliari, Padova, 1965, 11; Cottino, L’impossibilità sopravvenuta della prestazione e la responsabilità del debitore, Milano, 1955, 304. 30
In tal senso Trimarchi, Rischio e responsabilità oggettiva, Milano, 1961, 41. 31
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Giurisprudenza
4. Il rapporto tra responsabilità ai sensi dell’art. 1228 c.c. e quella in forza dell’art. 2049 c.c. È oramai pacifico che l’ente di cura, con l’accettazione del paziente nella propria struttura, conclude un contratto “di spedalità” in virtù del quale l’ente assume l’obbligo di fornire una prestazione di assistenza sanitaria articolata, che abbraccia sia la prestazione principale medica sia una serie di obblighi c.d. di protezione. Pertanto, la responsabilità della struttura ospedaliera si colloca certamente sotto l’egida dell’art. 1218 c.c., autonomamente ed indipendentemente dall’operato dei sanitari di cui si avvale, qualora sia inadempiente nella messa a disposizione del personale medico ausiliario, del personale paramedico e dell’apprestamento di tutte le attrezzature necessarie, anche in vista di eventuali complicazioni od emergenze32. Tuttavia, per quanto attiene alle prestazioni mediche effettuate tramite i professionisti propri ausiliari, l’ente risponde sulla base dell’art. 1228 c.c. in ragione del rapporto tra la prestazione effettuata dal sanitario e l’organizzazione aziendale della struttura. Di conseguenza, la condotta negligente del singolo esercente la professione sanitaria non può essere avulsa dalle scelte organizzative, di politica sanitaria e di razionalizzazione dei servizi operate dall’ente. Con la pronuncia in commento la Suprema Corte sottolinea come la responsabilità di chi si avvale dell’esplicazione dell’attività del terzo per l’adempimento della propria obbligazione contrattuale trova radice nel rischio connaturato all’utilizzazione dei terzi nell’adempimento dell’obbligazione e non in una colpa “in eligendo” degli ausiliari o “in vigilando” circa il loro operato. Tale rischio, «a differenza di quanto avviene per gli strumenti tecnici, non può essere eliminato o ridotto al margine del caso eccezionale con l’impiego della nor-
Sia sufficiente il richiamo a Cass., sez. un., 1.7.2002, n. 9556, in Nuova giur. civ. comm., 2003, I, 689, con nota di Favilli, La risarcibilità del danno morale da lesioni del congiunto: l’intervento dirimente delle Sezioni Unite. 32
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male diligenza»33, realizzandosi una sorta di “appropriazione” o “avvalimento” dell’attività altrui per l’adempimento della propria obbligazione: se la struttura sanitaria gode della collaborazione del professionista (in utilibus) si trova del pari a dover rispondere dei danni da costoro eventualmente cagionati (in damnosis)34. Tale tratto parrebbe astrattamente accomunare la responsabilità ex art. 1228 c.c. e quella ai sensi dell’art. 2049 c.c. (al pari della rilevanza, in entrambe le ipotesi, della sussistenza di un “nesso di occasionalità necessaria” tra quanto compiuto dall’ausiliario o commesso, da un lato, e l’inadempimento o il fatto illecito, dall’altro). Nella disposizione di cui all’art. 2049 c.c. il mancato aggancio al requisito della colpa ha l’effetto pratico di rendere del tutto irrilevante l’eventuale accertamento compiuto in sede penale in ordine alla mancanza di colpa del datore di lavoro nell’ambito del giudizio civile, in cui il danneggiato fa valere la responsabilità del predetto datore di lavoro quale “preponente”. Nondimeno, la Suprema Corte con la sentenza in commento ha cura di sottolineare in maniera netta la diversità di natura e ambito di applicazione tra le due fattispecie. Invero, nell’art. 1228 c.c. è elemento precipuo la sussistenza di un vincolo primario, la cui violazione, determinata dal fatto dell’ausiliario, comporta la mancata attuazione del rapporto obbligatorio; invece nell’art. 2049 c.c. non vi è alcun vincolo e la condotta pregiudizievole si traduce nello svolgimento di mansioni dannose per un soggetto terzo sprovvisto di
una pregressa relazione qualificata con il debitore35. Quest’ultima configura, dunque, un’ipotesi di responsabilità oggettiva giacché l’inesatto svolgimento delle mansioni dell’ausiliario pregiudica un soggetto che non ha avuto alcun rapporto con il debitore, il quale non si è avvalso dell’ausiliario per svolgere una determinata attività che forma il contenuto di un’obbligazione36. Inoltre, in ambito contrattuale, alla parte debitrice viene direttamente imputato l’obbligo che non è stato adempiuto dall’ausiliario, longa manus del debitore: l’inesatta esecuzione da parte dell’ausiliario della prestazione affidatagli dal debitore comporta che su quest’ultimo saranno automaticamente traslate le implicazioni di responsabilità37. Nell’ipotesi di responsabilità ex art. 2049 c.c., invece, il committente risponde per fatti compiuti dai loro commessi, in quanto verificatisi nella loro sfera d’azione, assumendo, dunque, il rischio insito nell’utilizzazione di terzi nello svolgimento di un’attività. Si comprende, dunque, come il committente risponda in forza dell’art. 2049 c.c. anche nell’impossibilità di qualunque accertamento in concreto, ovvero in presenza di pregiudizi cagionati dal fatto di un preposto rimasto ignoto38. Di
Si vedano in proposito le lucide riflessioni di Giardina, Responsabilità contrattuale e responsabilità extracontrattuale (Significato attuale di una distinzione tradizionale), Milano, 1993, 187.
35
Sul punto si vedano Natoli, L’attuazione del rapporto obbligatorio, cit., 76; Busnelli, Nuove frontiere della responsabilità civile, in Jus, 1970, 41; Breccia, Le obbligazioni, cit., 614. 36
In argomento si vedano le osservazioni di D’Adda, Fatto degli ausiliari (responsabilità e “rivalse”), in Le parole del diritto. Scritti in onore di Carlo Castronovo, II, Napoli, 2018, 773, pubblicato anche con il titolo Ausiliari, responsabilità solidale e “rivalse”, in Riv. dir. civ., 2018, 361. 37
In questi termini Bianca, Dell’inadempimento delle obbligazioni, nel Commentario Scialoja-Branca, Bologna-Roma, 383. 33
In argomento si veda Cass., 6.6.2014, n. 12833, in CED Cassazione, 2014, secondo cui «La responsabilità di chi si avvale di terzi per l’adempimento della propria obbligazione contrattuale trova fondamento nel rischio connaturato alla loro utilizzazione sicché, nell’ipotesi di minore affidato ad un centro estivo comunale, il Comune è direttamente responsabile qualora l’evento dannoso patito dal minore sia da ascriversi alla condotta colposa del terzo (nella specie alla condotta negligente della vigilatrice), della cui attività l’ente territoriale si era avvalso per l’adempimento delle prestazioni ricreative oggetto del contratto stipulato con i genitori del minore».
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In proposito si veda Visintini, I fatti illeciti, II, L’imputabilità e la colpa in rapporto agli altri criteri di imputazione, II, Milano, 1998, 506 e in giurisprudenza, tra le tante, Cass., 28.12.2011, n. 29260, in CED Cassazione, 2011, secondo cui «L’azione civile per il risarcimento del danno, nei confronti di chi è tenuto a rispondere dell’operato dell’autore del fatto che integra una ipotesi di reato, è ammessa – tanto per i danni patrimoniali che per quelli non patrimoniali – anche quando difetti una identificazione precisa dell’autore del reato stesso e purché questo possa concretamente attribuirsi ad alcune delle persone fisiche del cui operato il convenuto sia civilmen38
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conseguenza, la condotta pregiudizievole posta in essere dal preposto è imputabile al preponente solo in via indiretta configurando una forma di responsabilità per fatto altrui, espressione del principio della “tasca profonda” (c.d. “deep pocket”), per il quale i danni vengono imputati a quelle categorie di persone che sono maggiormente in grado di reggerne il peso39.
5. Il regresso dell’ente ospedaliero sull’esercente la professione sanitaria Le ragioni della netta dicotomia tra le due forme di responsabilità si riflettono nell’ambito dei rapporti interni tra debitore/committente ed ausiliario/commesso: occorre pertanto precisare se e in che limiti, il solvens (di regola il dominus) possa agire in regresso. Nella fattispecie di cui all’art. 2049 c.c., come da approdo pacifico in giurisprudenza40, il committente ed il commesso rispondono per titoli distinti ma uno solo di essi è l’autore del danno, di talché opera il modello della solidarietà ad interesse esclusivo. Il danneggiato è legittimato ad agire in risarcimento nei confronti di entrambi, sebbene di regola l’azione verrà esercitata nei riguardi del committente e della sua compagnia assicuratrice. Di conseguenza, il responsabile per fatto altrui – per definizione estraneo alla produzione dell’evento dannoso – che ha risarcito il pregiudizio in qualità di padrone o committente in ragione della
te responsabile in virtù di rapporto organico; pertanto, ove il legale rappresentante di una società in accomandita semplice abbia commesso un reato nello svolgimento dell’attività sociale, del relativo danno rispondono civilmente anche la società ed i soci illimitatamente responsabili». In senso analogo si vedano Cass., 6.4.2002, n. 4951, in Giust. civ., 2002, I, 1513 e Cass., 10.2.1999, n. 1135, in Giur. it., 2000, 507, con nota di Pandolfini. In proposito si vedano le considerazioni di Castronovo, La nuova responsabilità civile, Milano, 2006, 489; Id., Problema e sistema nel danno da prodotti, Milano, 1979, 49; Grembi, Guido Calabresi e l’analisi economica del diritto, in Riv. crit. dir. priv., 2006, 449. 39
In tal senso si vedano, tra le tante, Cass., 5.7.2017, n. 16512, in Foro it., 2017, I, 3034 e Cass., 1.12.2016, n. 24567, in CED Cassazione, 2016. 40
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solidarietà verso il danneggiato, potrà esercitare l’azione di regresso, nei confronti dell’autore immediato del danno, per l’intera somma pagata41. In tale ipotesi, dunque, non si verifica un concorso nella produzione del fatto dannoso e pertanto – fatte salve diverse regolazioni dei rapporti interni ostative all’esercizio del regresso – l’onere del risarcimento non si ripartisce tra i coobbligati in proporzione della rispettiva colpa ai sensi dell’art. 2055 c.c. (il quale consente di provare, in sede di regresso, la colpa maggiore o esclusiva dell’altro concorrente nella causazione materiale dell’illecito). Tale norma rende, invero, solidalmente responsabili gli autori di condotte illecite autonome ma convergenti nel cagionare il medesimo danno patito dal soggetto danneggiato42. Al contrario, l’art. 1228 c.c. descrive una fattispecie nella quale è fondamentale accertare la preesistenza di un rapporto obbligatorio alla condotta dannosa d’inadempimento, essendo l’ausiliario un mero strumento del debitore al quale l’eventuale responsabilità contrattuale sarà imputata in via diretta, cioè per fatto proprio. Pertanto, nei rapporti interni di regresso occorrerà tenere in conto che il debitore ha assunto un’obbligazione che ha volontariamente delegato in fase esecutiva ad un suo ausiliario, di talché sarebbe astrattamente ipotizzabile negare il diritto ad essere tenuto inte-
La sentenza in commento in proposito è limpida nell’affermare che «sebbene la norma di cui all’art. 2055 c.c., co. 2°, non detti alcuna disciplina del regresso nell’ipotesi di concorso tra responsabili senza colpa e colpevoli, deve riconoscersi che, dovendo escludersi in tal caso la possibilità di ripartire l’onere del risarcimento tra i coobbligati in proporzione a distinte colpe e quindi di attribuire al responsabile per fatto altrui (come il committente), per definizione estraneo alla produzione dell’evento dannoso, una qualsiasi porzione dell’onere nei rapporti interni col responsabile diretto del fatto dannoso, il responsabile mediato o indiretto, che ha risarcito il danno in ragione della solidarietà verso il danneggiato, potrà logicamente esercitare l’azione di regresso, nei confronti dell’autore immediato del danno, per l’intera somma pagata (Cass., 05/09/2005, n. 17763; conforme Cass., 01/12/2016, n. 24567 e Cass., 08/10/2008, n. 24802, ma già Cass. 12/02/1982, n. 856)». 41
In proposito si veda Gnani, L’art. 2055 c.c. e il suo tempo, in Danno e resp., 2001, 1037; Id., nel Commentario al codice civile Schlesinger-Busnelli, Milano, 2005, sub art. 2055, 39, 187 e 201. 42
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gralmente indenne per avere risarcito un danno, attesa la «immedesimazione dell’attività dell’ausiliario nella prestazione dovuta dal debitore»43. Traslando tali considerazioni nella materia della responsabilità dell’ente ospedaliero, il danno da medical malpractice sarebbe esclusivamente imputabile alla struttura sanitaria, senza diritto di regresso nei confronti del medico allorché la condotta imperita degli ausiliari sia strettamente esecutiva del programma terapeutico costituente oggetto dell’obbligazione assunta dall’ente. Tuttavia, la sentenza in commento rigetta tale soluzione, attesa la possibilità offerta nel nostro ordinamento di cumulare la responsabilità contrattuale della struttura con quella aquiliana nei confronti del medico. Del resto, nell’esecuzione della prestazione di norma il sanitario manifesta la propria autonomia professionale operativa per cui, ai fini del riparto interno di responsabilità, occorrerà riconoscere il giusto rilievo all’agire del medico. Allo stesso modo, la pronuncia in epigrafe rifiuta l’ipotesi di imputare il pregiudizio al solo professionista anche in ipotesi di sua colpa esclusiva nella produzione dell’evento di danno, applicando il paradigma della corresponsabilità solidale contrattuale tra coobbligati. Secondo la Corte di Cassazione, dunque, il peso dell’obbligazione risarcitoria dovrebbe ritenersi ripartito tra la struttura sanitaria e l’esercente la professione sanitaria anche in ipotesi di colpa esclusiva di quest’ultimo, a meno che la condotta di questi non sia totalmente divergente dal piano obbligatorio, ovvero si collochi al di fuori del perimetro programmatico di tutela della salute del paziente, condiviso con la struttura sanitaria («si pensi al sanitario che esegua senza plausibile ragione un intervento di cardiochirurgia fuori della sala operatoria dell’ospedale»). Secondo tale assunto, il pregiudizio rinverrebbe la propria causa non solo nell’apporto individuale dell’ausiliario esercente la professione sanitaria, ma altresì nel deficit complessivo dei servizi resi dall’ente clinico nel cui ambito opera l’ausiliario,
limitando così il pericolo di “overdeterrence” in capo al medico. La responsabilità dell’ente ospedaliero risiederebbe, quindi, in precisi oneri organizzativi e di protezione dei pazienti che, lungi dall’essere ridotti a mera attività di fornitura di servizi di degenza o comunque accessori alla prestazione medica primaria, costituiscono parte essenziale della prestazione stessa. Atteso che l’illecito dell’ausiliario è requisito costitutivo della responsabilità del debitore ai sensi dell’art. 1228 c.c., l’accertamento dell’inadempimento imputato all’esercente la professione sanitaria non fa venire meno i presupposti della responsabilità della struttura; ciò sia in relazione alla prestazione medica principale sia con riferimento agli altri obblighi derivanti dal contratto di spedalità. Pertanto, ai fini della corretta identificazione del quantum del credito da regresso dell’ente ospedaliero nei confronti del professionista, dovrà aversi riguardo non solo al contributo personale all’illecito del sanitario che agisce all’interno dell’ente ma anche all’articolato apporto della struttura sanitaria, su cui grava il rischio insito nell’avvalimento dell’attività altrui per l’adempimento di una propria obbligazione44.
6. La misura della ripartizione interna della responsabilità tra coobbligati solidali Secondo la sentenza in commento, fatti salvi i casi in cui la condotta dell’esercente la professione sanitaria sia del tutto discrepante rispetto al piano dell’ordinaria prestazione dei servizi di spedalità, tra questi e l’ente di cura sussisterà, dunque, un vincolo solidale in relazione all’obbligazione risarcitoria, in quanto soggetti – pur a diverso titolo – concorrenti nella produzione dell’evento lesivo. Pertanto, la pronuncia in epigrafe colloca l’azione proposta dall’ente nei confronti del professionista nell’ambito degli artt. 1298 e 2055 c.c.; di talché
In argomento si vedano Cass., 21.8.2018, n. 20829, in Foro it., 2019, I, 1378; Cass., 29.3.2018, n. 7814, in CED Cassazione, 2018; Cass., 27.8.2014, n. 18304, in Foro it., 2015, I, 232. Nella giurisprudenza di merito, ex plurimis, Trib. Milano, 4.9.2017, in Leggiditalia. 44
In questi termini si veda Castronovo, Eclissi del diritto civile, cit., 162. 43
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qualora la struttura sanitaria – condebitore in solido – risarcisca il danno, potrà agire in regresso sul corresponsabile esercente la professione sanitaria. Giova, tuttavia, concentrare l’attenzione sull’inciso della sentenza in commento che aggancia la ripartizione interna della responsabilità «sia pure in modo complessivamente analogico, al portato degli artt. 1298 e 2055 c.c.», per evidenziare come tali norme poggiano su presupposti differenti e articolano il riparto interno in base a criteri non esattamente sovrapponibili. Invero, una volta che uno dei debitori ha pagato per intero al creditore, estinguendo così l’obbligazione45, la disciplina scolpita dagli artt. 1298-1299 c.c. in tema di obbligazioni solidali implica l’esclusione del diritto del solvens ad essere ristorato per l’intero in ipotesi di comunione d’interessi fra condebitori e, viceversa, il riconoscimento di un diritto di regresso integrale nei confronti del soggetto nel cui interesse esclusivo sia stata assunta l’obbligazione in ipotesi di interesse unisoggettivo46. Il meccanismo solidaristico che si esprime verso i rapporti esterni con il creditore, si riflette nei rapporti interni – per converso – secondo il principio di parziarietà, facendo riemergere il sostrato d’interessi sottostante all’obbligazione47, la cui consistenza come comune o esclusivo costituisce una valutazione di mero fatto. Pertanto, qualora risulti che l’obbligazione sia stata assunta nell’interesse esclusivo di un solo condebitore, nei rapporti interni essa non si dividerà; quando, invece, vi siano più debitori ad avere interesse all’obbligazione il solvens avrà regresso per le rispettive quote. In
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altre parole, nelle obbligazioni solidali ad interesse comune, aventi un’unica causa obligandi, il peso economico del debito si divide tra tutti nei rapporti interni, mentre in quelle “a interesse unisoggettivo” il peso economico resta a carico del solo debitore “interessato”48, realizzandosi un’ipotesi di solidarietà “diseguale”49 o “accidentale”50. Il capoverso dell’art. 1298 c.c., al fine di semplificare il rapporto interno tra i consorti, dispone una presunzione iuris tantum di parità delle quote quale espressione di un principio di uguaglianza, parallelo a quello previsto dall’art. 1101 c.c. per i partecipanti alla comunione51. Nell’ipotesi di medical malpractice si è già affermato che – atteso il c.d. contratto di spedalità o di assistenza sanitaria tra struttura e paziente – si realizza un “concorso” improprio tra l’inadempimento di tale negozio e l’illecito aquiliano cui sia l’art. 7 della legge Gelli che la legge Balduzzi riconducono il rapporto tra l’esercente la professione sanitaria e il paziente. In tale ipotesi è comunque applicabile la regola dettata in via generale dall’art. 1298 c.c., secondo la quale l’obbligazione
Sul punto Busnelli, L’obbligazione soggettivamente complessa (Profili sistematici), Milano, 1974, 53 e Id., voce «Obbligazioni soggettivamente complesse», in Enc. del dir., XXIX, Milano, 1979, 335, sottolinea la differenza di struttura tra le obbligazioni soggettivamente complesse senza eadem causa obligandi e quelle che si traducono in un rapporto obbligatorio unitario, caratterizzato dalla contitolarità di più soggetti nel debito o nel credito. 48
Tale espressione è usata da Campobasso, Coobbligazione cambiaria e solidarietà disuguale, Napoli, 1974, 63. 49
In questi termini si esprime Travaglino, Transazione e obbligazioni solidali; in Corr. giur., 2012, 313. 50
In proposito, si vedano le riflessioni di Bigliazzi Geri et al., Diritto civile. 3. Obbligazioni e contratti, Torino, 1989, 60 e Gorassini e Siclari, Di alcune specie di obbligazioni, Napoli, 2013, 207. 45
Si vedano per tutti, Riccio, Le diverse specie di obbligazioni: pecuniarie, alternative, solidali, indivisibili, in Le obbligazioni, a cura di Franzoni, I, L’obbligazione in generale (1173-1320 c.c.), Torino, 2004, 1240; Rubino, nel Commentario Scialoja-Branca, Bologna, 1985 (ristampa), sub art. 1306, 225; Amorth, L’obbligazione solidale, Milano, 1959, 224. 46
In proposito si vedano Bianca, Diritto civile,4, L’obbligazione, Milano, 2019, 719, e Zinno, Le obbligazioni solidali e le dinamiche della «quota», Napoli, 2019, 73. 47
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In argomento, ancora Busnelli, L’obbligazione soggettivamente complessa (Profili sistematici), cit., 368, osserva: «La presunzione di eguaglianza delle quote dei vari consorti – ivi stabilita per il caso in cui non risulti diversamente – non va intesa come mero criterio suppletivo, privo di ogni altro significato che non sia quello di colmare una eventuale lacuna della fonte dell’obbligazione in ordine alla misura delle singole quote. Essa costituisce, soprattutto, un vecchio principio generale in materia di comunione e, nella sua sfera, rappresenta un segno indubbio dell’intento del legislatore di favorire, in via dispositiva, una partecipazione paritaria dei vari consorti all’obbligazione soggettivamente complessa, fin dal momento della sua costituzione». 51
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in solido si divide tra i diversi debitori in parti che si presumono eguali «se non risulti diversamente». Ora, nella fattispecie inerente la responsabilità sanitaria, avuto riguardo alla regolamentazione degli interessi effettivamente perseguiti dai soggetti condebitori in solido, il trattamento sanitario in favore del paziente-creditore è indefettibilmente attuabile solo con l’esecuzione congiunta delle prestazioni incombenti sia sulla struttura sanitaria che sull’esercente la professione sanitaria. Pertanto, l’ente ospedaliero risponderebbe solidalmente del proprio operato contrattualmente per fatto proprio sia in caso di inadempimento delle proprie obbligazioni strumentali, indipendentemente ed a prescindere dalla concorrente responsabilità del professionista sia – ancora per fatto proprio – in ragione dell’inadempimento del professionista, ausiliario necessario della struttura sanitaria ai sensi degli artt. 1218 e 1228 c.c. Di conseguenza, non è ragionevolmente predicabile che l’obbligazione solidale risarcitoria sia contratta nell’interesse esclusivo di uno solo dei consorti52. Ovviamente, ai fini della ripartizione interna delle parti dell’obbligazione solidale, la struttura sanitaria potrà provare il proprio esatto adempimento, dimostrando così una diversa incidenza del fatto del proprio inadempimento rispetto a quello del professionista, in modo da superare la presunzione di riparto paritario dell’obbligazione o anche escludere in toto la responsabilità stessa della struttura. È, invece, differente il parametro ai fini della ripartizione interna del peso del risarcimento tra i corresponsabili nell’ipotesi di responsabilità solidale tra i coautori del fatto dannoso ai sensi dell’art. 2055 c.c. Invero, per determinare la misura del diritto di regresso in capo al solvens si ha riguardo non già all’interesse fra i condebitori bensì alla gravità delle rispettive colpe e dell’entità delle conseguenze che ne sono derivate. Non si tratta di un’eccezione alla regola dell’irrilevanza del grado della colpa nella quantificazione del
risarcimento, in quanto in tale norma la colpa si atteggia a parametro di ripartizione interna della responsabilità. Inoltre, il comma 3° della stessa norma stabilisce una presunzione relativa di parità delle quote operante in via sussidiaria e non di principio (come invece nell’art. 1298, comma 2°, c.c.). Come rammentato dalla sentenza in commento, l’art. 2055 c.c. opera in presenza di disomogeneità di titoli di responsabilità in capo ai condebitori e anche nel caso – come quello della medical malpractice – in cui siano configurabili titoli di responsabilità contrattuale ed extracontrattuale53, muovendo dal principio di equivalenza dei criteri d’imputazione54. L’art. 2055 c.c. consente di calibrare il peso della contribuzione della struttura sanitaria e del professionista determinando la misura del regresso con una valutazione complessiva che tiene conto non solo del grado di responsabilità dei singoli coobbligati ma anche degli effetti prodotti, vale a dire i «danni derivanti dalla lesione dell’interesse giuridicamente protetto»55, scongiurando così che l’applicazione di uno solo dei due criteri comporti conseguenze inique (es. colpa lieve che ha causato un rilevante pregiudizio). La residuale presunzione iuris tantum di pari contribuzione al danno
Sul punto la Cass., 17.1.2019, n. 1070, in CED Cassazione, citata dalla sentenza in commento, ha affermato che «per il sorgere della responsabilità solidale dei danneggianti l’art. 2055 c.c., co. 1°, richiede solo che il fatto dannoso sia imputabile a più persone, ancorché le condotte lesive siano tra loro autonome e pure se diversi siano i titoli di responsabilità di ciascuna di tali persone, anche nel caso in cui siano configurabili titoli di responsabilità contrattuale e extracontrattuale, atteso che l’unicità del fatto dannoso considerata dalla norma suddetta deve essere riferita unicamente al danneggiato e non va intesa come identità delle norme giuridiche da essi violate (Cass., 16 dicembre 2005, n. 27713; Cass., 14 gennaio 1996, n. 418)». In senso analogo, meno recentemente, vedasi Cass., 9.2.1999, n. 1087, in Giust. civ., 1999, I, 1357. In dottrina si vedano le riflessioni di Franzoni, L’illecito, nel Trattato resp. civ., diretto da Franzoni., I, Milano, 2010, 143. 53
Si veda in proposito Marullo di Condojanni, Art. 2055 – Responsabilità solidale, a cura di Carnevali, nel Commentario del cod. civ., diretto da Gabrielli, Dei fatti illeciti. Artt. 20442059, Milano, 2011, 449. 54
In tal senso Trib. Milano, 2.8.2018, in Pluris; Trib. Milano, 16.2.2018, ivi; Trib. Milano, 12.1.2018, n. 266, Nota di aggiornamento, 29 gennaio 2018, in www.rivistaresponsabilitamedica.it. 52
Così, Orlandi, La responsabilità solidale. Profili delle obbligazioni solidali risarcitorie, Milano, 1993, 284. 55
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da parte dei condebitori solidali implica che, ai fini del regresso nel rapporto interno tra condebitori solidali, il solvens abbia l’onere di dimostrare la diversa misura delle colpe e delle conseguenze cagionate56.
7. La ripartizione paritaria della responsabilità secondo la Cass. n. 28987/2019 Nonostante il richiamo all’art. 2055 c.c., la Suprema Corte – confermando l’orientamento sulla distribuzione della colpa già diffuso presso parte della giurisprudenza milanese57 – formula il principio di diritto per cui «in tema di danni da malpractice medica nel regime anteriore alla legge n. 24 del 2017 nell’ipotesi di colpa esclusiva del medico la responsabilità dev’essere paritariamente ripartita tra struttura e sanitario nei conseguenti rapporti tra gli stessi, eccetto che negli eccezionali casi d’inescusabilmente grave, del tutto imprevedibile e oggettivamente improbabile devianza dal programma condiviso di tutela della salute cui la struttura risulti essersi obbligata». Secondo la Corte di Cassazione, dunque, l’obbligazione solidale risarcitoria, id est il costo finale del risarcimento, graverebbe pro quota per il 50% sulla struttura sanitaria anche qualora questa abbia esattamente adempiuto alle proprie obbligazioni strumentali inerenti alla somministrazione dei servizi accessori. Invero, seguendo l’indirizzo della Suprema Corte, in una offerta sanitaria cumulativa ed integrata quale quella dell’ente e del medico, la struttura dovrebbe comunque sopportare la quota di responsabilità connessa all’obbli-
L’onere della prova delle circostanze volte a superare l’eventuale situazione di dubbio spetta a quella delle parti che vi abbia interesse: così «l’interesse sarà dell’attore se pretenda il rimborso di una somma superiore alla metà; sarà del convenuto se intende opporsi ad una richiesta pari alla metà, opponendo la propria totale assenza di colpa ovvero il grado inferiore di questa, poiché trattasi di fatto impeditivo della presunzione di pari concorso di colpa» (in questi termini, Cass., 10.2.2017, n. 3626, in CED Cassazione, 2017).
Giurisprudenza
go derivante dal contratto di spedalità di avvalersi di professionisti autorizzati ad operare per proprio conto, fatto salvo «l’evidente iato tra (grave e straordinaria) malpractice e (fisiologica) attività economica dell’impresa, che si risolva in vera e propria interruzione del nesso causale tra condotta del debitore (in parola) e danno lamentato dal paziente». È evidente come tale soluzione tenda ad avvicinare la responsabilità sanitaria ad un regime caratterizzato da un parametro oggettivo di responsabilità, escludendo di fatto, sul piano dei rapporti interni, il diritto ad un regresso integrale della struttura nei confronti del medico. Tale soluzione pare, tuttavia, dettata, più che dalla rigorosa applicazione delle norme positive, da ragioni equitative ancorate – come si è detto – ad una sorta di “deep pocket rule”, di talché, in vista d’una efficiente ripartizione dei rischi di danno, si preferisce porlo a carico di chi è nella migliore condizione per evitarli e gestirli. È, invero, noto che gli enti che erogano servizi sanitari in forma organizzata sono reputati i soggetti più idonei sui quali canalizzare la responsabilità per medical malpractice in quanto, oltre ad essere maggiormente solvibili, sono in grado di assumere provvedimenti in termini di riduzione dei costi grazie anche all’internalizzazione degli stessi nonché – come detto – in termini di prevenzione e di gestione dei danni. Pertanto, in ultima analisi, il peso della responsabilità gravante sulla struttura sanitaria viene limitato comunque alla metà del costo del danno in quanto all’adempimento delle obbligazioni dell’ente è collegata la rimunerazione della prestazione promessa che comprende altresì il rischio d’impresa, secondo il richiamato adagio cuius commoda eius et incommoda58.
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Si vedano Trib. Milano, 20.9.2018; Trib. Milano, 14.6.2018; entrambe a quanto consta inedite, nonché Trib. Milano, 18.6.2019, in Leggiditalia. 57
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In giurisprudenza il principio cuius commoda eius et incommoda è più volte richiamato con riferimento agli artt. 1228 e 2049 c.c. In particolare, secondo Cass., 6.6.2014, n. 12833, in CED Cassazione, 2014, «Come questa Corte ha già avuto più volte modo di affermare, in base alla regola generale di cui agli artt. 1228 e 2049 c.c., il debitore il quale nell’adempimento dell’obbligazione si avvale dell’opera di terzi risponde anche dei fatti dolosi o colposi di costoro (v. Cass., 24/5/2006, n. 12362; Cass., 4/3/2004, n. 4400; Cass., 8/1/1999, n. 103), ancorché non siano alle sue dipenden58
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Tuttavia, la soluzione adottata nella sentenza in commento desta perplessità avendo riguardo ai criteri previsti dal comma 2° dell’art. 2055 c.c. nonché alla presunzione iuris tantum di parità delle quote di cui al comma 3° della stessa norma, che – come anticipato – opera in via sussidiaria e residuale. Invero, la Corte afferma che per ritenere superata tale presunzione «non basta escludere la corresponsabilità della struttura sanitaria sulla base della considerazione che l’inadempimento fosse ascrivibile alla condotta del medico, ma occorre considerare il duplice titolo in ragione del quale la struttura risponde solidalmente del proprio operato, sicché sarà onere del solvens dimostrare non soltanto la colpa esclusiva del medico, ma la derivazione causale dell’evento dannoso da una condotta del tutto dissonante rispetto al piano dell’ordinaria prestazione dei servizi di spedalità». In altre parole, per il riconoscimento di un diritto di regresso in misura integrale – o comunque di differente graduazione rispetto alla divisione paritaria – l’ente (ove foss’esso il solvens) deve provare
ze (v. Cass., 11/12/2012, n. 22619; Cass., 21/2/1998, n. 1883; Cass., 20/4/1989, n. 1855). La responsabilità per fatto dell’ausiliario (e del preposto) prescinde, infatti, dalla sussistenza di un contratto di lavoro subordinato, essendo irrilevante la natura del rapporto tra i medesimi sussistente ai fini considerati, fondamentale rilevanza viceversa assumendo la circostanza che dell’opera del terzo il debitore comunque si avvalga nell’attuazione della sua obbligazione, ponendo la medesima a disposizione del creditore (v., da ultimo, con riferimento a diversa fattispecie, Cass., 26/5/2011, n. 11590), sicché la stessa risulti a tale stregua inserita nel procedimento esecutivo del rapporto obbligatorio. La responsabilità che dall’esplicazione dell’attività di tale terzo direttamente consegue in capo al soggetto che se ne avvale riposa, invero, sul principio cuius commoda cuius et incommoda, o, più precisamente, dell’appropriazione o ‘avvalimento’ dell’attività altrui per l’adempimento della propria obbligazione, comportante l’assunzione del rischio per i danni che al creditore ne derivino». Analogamente, benché con riferimento alla responsabilità oggettiva di cui all’art. 2049 c.c., Cass., 4.12.2012, n. 21724, in Pluris, evidenzia che «Come è noto il fondamento di siffatta regolamentazione è la scelta, di carattere squisitamente ‘politico’, di porre a carico dell’impresa – come componente dei costi e dei rischi dell’attività economica – i danni cagionati da coloro della cui prestazione essa di avvale per il perseguimento della sua finalità di profitto, in conformità al brocardo per cui ubi commoda, ibi incommoda».
la sussistenza di elementi tali da interrompere il nesso causale tra la condotta del professionista e quella della struttura sanitaria, dimostrando che il fatto lesivo sia riconducibile in via esclusiva alla malpractice del professionista. Con tale conclusione, nondimeno, non pare che la Suprema Corte faccia buon governo del complessivo meccanismo previsto dai commi 2° e 3° dell’art. 2055 c.c. al fine di graduare la misura del diritto di regresso tra gli obbligati in solido. Là dove la sentenza stabilisce che «in assenza di prova [...] in ordine all’assorbente responsabilità del medico intesa come grave, ma anche straordinaria, soggettivamente imprevedibile e oggettivamente improbabile “malpractice”, dovrà, pertanto, farsi applicazione del principio presuntivo di cui sono speculare espressione l’art. 1298, co. 2°, c.c. e l’art. 2055, co. 3, c.c.» parrebbe ammettere come alternativa alla prova dell’esclusiva responsabilità del medico per grave e straordinaria negligenza unicamente la divisione paritaria dell’obbligazione solidale59. Addirittura, la Corte si spinge ad affermare «l’impraticabilità di un diritto di rivalsa integrale della struttura nei confronti del medico». Applicando le norme codicistiche, la modulazione interna della responsabilità dovrebbe, invece, in primo luogo essere commisurata alla gravità della colpa e all’entità delle sue conseguenze in ragione dell’art. 2055, comma 2°, c.c.; solo l’incertezza in ordine al concreto operare nel caso specifico di tali parametri dovrebbe giustificare una presunzione di eguaglianza delle colpe dei condebitori solidali. Pertanto, occorrerà accertare in che misura il pregiudizio subito dal paziente sia causalmente imputabile al professionista e alla struttura con rife-
Si vedano in proposito le osservazioni di Zorzit, La rivalsa delle strutture sanitarie: le oscillazioni della giurisprudenza e l’intervento della Cassazione, in Danno e resp., 2019, 745, criticando l’orientamento che parrebbe «rovesciare l’ordine dei criteri ed attribuire priorità al comma 3 della norma, dando per supposta una “situazione di dubbio” che, forse, non c’è (essendo appunto stato appurato che la lesione è stata cagionata, in via esclusiva da un errore del chirurgo)». In senso parzialmente analogo, si veda D’Adda, I limiti alla rivalsa della struttura sanitaria sul medico (e del debitore sul proprio ausiliario): la Suprema Corte si confronta con il sistema della responsabilità civile, in Danno e resp., 2020, 59. 59
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rimento agli obblighi organizzativi e di gestione logistica delle risorse, senza trascurare di verificare la portata degli effetti scaturiti dagli adempimenti di ciascuno, criterio equipollente a quello della colpa ex art. 2055, comma 2°, c.c. Sicché a seconda del concreto atteggiarsi delle fattispecie si dovrà riconoscere in capo alla struttura sanitaria un diritto di regresso integrale o escluderlo del tutto o ancora ammetterlo in una determinata misura percentuale, adottando il commodus discessus della presunzione del concorso paritario solo in ipotesi di effettivo dubbio sull’effettiva proporzione della ripartizione della responsabilità. In ultima analisi, perché sia riconosciuto un diritto al regresso (integrale o in misura superiore alla metà) l’ente sanitario che agisca “in rivalsa” avrà l’onere di allegare non già la «grave e straordinaria malpractice» tale da interrompere il nesso causale tra la condotta dell’ente e il danno (con conseguente esclusione già “a monte” della responsabilità della struttura ex art. 1228 c.c.) ma di provare anche “solo” una condotta colposa dell’esercente la professione sanitaria nonché l’entità delle conseguenze che ne sono scaturite maggiore rispetto alla colpa e agli effetti a sé riferibili, potendosi, quindi, ammettere che sia il professionista a sopportare il maggior costo del danno60.
Giurisprudenza
Altrimenti opererà la presunzione di ripartizione paritaria della responsabilità.
8. Conclusioni: regresso e rivalsa prima e dopo la c.d. legge Gelli Come premesso, la sentenza n. 28987/2019 si riferisce ad una fattispecie verificatisi anteriormente all’entrata in vigore della legge Gelli n. 24/2017 «che non prevede, peraltro, effetti retroattivi»61, la quale all’art. 9 ha introdotto l’azione di rivalsa della struttura nei confronti del medico62. Secondo il suo tenore letterale tale norma sembra presupporre che il danneggiato abbia proposto la domanda risarcitoria soltanto nei confronti della struttura sanitaria e che l’esercente la professione sanitaria, oltre a non essere stato originariamente convenuto in giudizio, non sia neppure intervenuto volontariamente (art. 105 c.p.c.) e non sia stato chiamato in causa (art. 106 c.p.c.). L’art. 9, comma 2°, vincola l’azione di rivalsa a una serie di presupposti sostanziali e limitazio-
Coerentemente con il principio di diritto affermato da un’altra sentenza “di San Martino”: Cass., 11.11.2019, n. 28994, in CED Cassazione, 2019. 61
La previsione e la disciplina dell’azione di rivalsa costituiscono elementi di novità della legge n. 24/2017. Per un’accurata analisi della disciplina della rivalsa di cui alla legge n. 24/2017 si vedano le lucide riflessioni di Paladini, L’azione di rivalsa nei confronti dell’esercente la professione sanitaria, cit., 2018, 139; D’Adda, Solidarietà e rivalse nella responsabilità sanitaria: una nuova disciplina speciale, cit., 773; Chessa, La c.d. “azione di rivalsa” nei confronti dell’esercente la professione sanitaria, cit., 2019, 403; Franzoni, La responsabilità civile del personale medico dopo la legge Gelli, cit., 345; Martini, Azione di rivalsa o di responsabilità amministrativa, in La nuova responsabilità professionale in Sanità. Commentario alla Riforma Gelli-Bianco (L. 8 marzo 2017, n. 24), a cura di Genovese e Martini, Santarcangelo di Romagna, 2017, 100; Pari, L’azione di rivalsa e l’azione di responsabilità amministrativa nei confronti dell’esercente la professione sanitaria: le novità introdotte dalla l. n. 24/2017, in questa Rivista, 2017, 365; Bernardi, L’azione di rivalsa, in Benci et al., Sicurezza delle cure e responsabilità sanitaria. Commentario alla legge 24/2017, Roma, 2017, 121. Per una più generale analisi degli effetti positivi e negativi della legge n. 24/2017, si vedano Pardolesi, Chi (vince e chi) perde nella riforma della responsabilità sanitaria, in La nuova responsabilità sanitaria dopo la riforma Gelli-Bianco (legge n. 24/2017), a cura di Volpe, cit., 37. 62
In proposito, recentemente la Cass., 27.9.2019, n. 24167, in Ri.da.re, 2019, con nota di Altomare, I limiti dell’azione di regresso della struttura verso il medico libero professionista che opera al suo interno ha, invero, stabilito che «Laddove la struttura sanitaria, correttamente evocata in giudizio dal paziente che, instaurando un rapporto contrattuale, si è sottoposto ad un intervento chirurgico all’interno della struttura stessa, sostenga che l’esclusiva responsabilità dell’accaduto non è imputabile a sue mancanze tecnico-organizzative ma esclusivamente alla imperizia del chirurgo che ha eseguito l’operazione, agendo in garanzia impropria e chiedendo di essere tenuta indenne di quanto eventualmente fosse condannata a pagare nei confronti della danneggiata, ed in regresso nei confronti del chirurgo, affinché, nei rapporti interni si accerti l’esclusiva responsabilità di questi nella causazione del danno, è sul soggetto che agisce in regresso a fronte di una responsabilità solidale che grava l’onere di provare l’esclusiva responsabilità dell’altro soggetto. Non rientra invece nell’onere probatorio del chiamato l’onere di individuare precise cause di responsabilità della clinica in virtù delle quali l’azione di regresso non potesse essere, in tutto o in parte, accolta». 60
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Rivalsa e regresso della struttura sanitaria
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ni processuali. In primo luogo, il presupposto sostanziale della responsabilità dell’esercente la professione sanitaria è costituito dal dolo o dalla colpa grave. L’azione può essere esercitata soltanto successivamente al pagamento del risarcimento avvenuto sulla base di titolo giudiziale o stragiudiziale, a pena di decadenza entro un anno dall’avvenuto pagamento. Sotto il profilo processuale, inoltre, nel giudizio in cui non sia stato parte il medico, (i) le prove assunte non possono assurgere neppure ad argomenti di prova, (ii) la sentenza non fa stato in ordine ad alcun accertamento o statuizione e (iii) neppure la transazione è opponibile all’esercente la professione sanitaria. Al fine di graduare la misura della responsabilità dei coautori dell’illecito, nella disciplina anteriore alla legge Gelli (che, come affermato al primo paragrafo, non si applica retroattivamente), la struttura sanitaria convenuta dal paziente danneggiato ha il diritto “recuperare” l’esborso risarcitorio chiamando in causa il professionista proprio ausiliario senza i menzionati presupposti. Si comprende, pertanto, come la sentenza in commento, concentrandosi sui presupposti e sul quantum del diritto di regresso in una fattispecie ante legge n. 24/2017, tenti di circoscrivere la possibilità per la struttura di recuperare l’intero esborso risarcitorio nei riguardi dell’esercente la professione sanitaria, sebbene deviando – come si è tentato di illustrare – dai parametri previsti dall’art. 2055, commi 2° e 3°, c.c.: è del resto evidente il proposito di contrastare efficacemente il fenomeno della c.d. medicina difensiva63, altrimenti incentivato da un’azione di regresso senza limiti soggettivi o quantitativi, invece previsti – benché con numerosi profili di criticità64 – dalla legge Gelli.
Un’analisi del fenomeno, in considerazione della diffusione del fenomeno negli Stati Uniti, è realizzata da Studdert, Defensive Medicine Among High-Risk Specialist Physicians in a Volatile Malpractice Environment 2005 (286) JAMA 2609. Recentemente, si veda l’approfondito saggio di Marchisio, Evoluzione della responsabilità civile medica e medicina “difensiva”, in Riv. dir. civ., 2020, 189. 63
Per un’approfondita analisi critica dei presupposti dell’azione di rivalsa introdotti dalla legge n. 24/2017 si rinvia a Paladini, L’azione di rivalsa nei confronti dell’esercente la professione sanitaria, cit., 139. 64
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o g Dialogo Dialogo medici-giuristi medici-giuristi ialo ci d di sti i e r E se il paziente chiede al m giu medico di essere ‘aiutato a morire’? Aiuto al suicidio e relazione terapeutica dopo Corte cost. n. 242/2019 Paolo Malacarne
Direttore dell’Unità Operativa di Anestesia e Rianimazione P.S. presso l’Azienda Ospedaliero Universitaria Pisana
Barbara Pezzini
Professoressa presso l’Università di Bergamo
Paolo Malacarne “Dottore, ma ora dopo la decisione della Corte costituzionale non c’è più bisogno che io vada in Svizzera per smettere di soffrire? Lei mi aiuterà vero?”. Una domanda, quella della malata, fattami con un filo di voce, ma con uno sguardo che esprimeva nel contempo la speranza in una mia risposta affermativa, la disperazione in caso di una mia risposta non affermativa e la certezza che io, medico, non la lascerò sola in questa scelta. Io prendo tempo e rimango d’accordo con la malata (e i suoi familiari) che ritornerò da loro nei giorni successivi. Intanto mi leggo con attenzione la sentenza della Corte, per cercare di capire come questa sentenza può incidere sul mio lavoro e sulla relazione di cura, avendo ben presente la malata e la sua richiesta.
Barbara Pezzini Per cercare una risposta a questo ed agli altri impegnativi interrogativi posti con tanta attenzione da Malacarne – e, prima ancora, dalla stessa relazione tra Malacarne e la malata che gli affida con un filo di voce sofferenza, aspettative e speranza (c’è speranza anche nell’attesa della morte) – anch’io ho dovuto rileggere, scoprendo un’emozione diversa, la sequenza costituita dall’ordinanza 207/2018 e dalla sentenza 242/2019, trovando una volta di più inesauribile materia di riflessione di fronte agli interrogativi di fondo che il tema del fine vita ci obbliga ad affrontare, che mostrano tutta la loro complessità ogni volta che spostiamo, anche solo di poco, il nostro punto di vista. Prima di entrare direttamente in confronto con le questioni sollevate, penso che due premesse, pur sintetiche, siano utili al nostro procedere. La prima.
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La sentenza 242/2019 e, prima ancora, l’ordinanza 207/2018 poggiano su costruzioni giuridiche complesse e non certo prive di criticità, ampiamente rimarcate e discusse dalla dottrina alluvionale che le ha commentate; tra tali criticità penso di dover sottolineare quella che a me pare più rilevante e che, nello specifico, può gettare luce anche sulla difficoltà di ricavare indirizzi applicativi sufficientemente chiari. Riproponendo “la libertà di autodeterminazione del malato nella scelta delle terapie, comprese quelle finalizzate a liberarlo dalle sofferenze, scaturente dagli artt. 2, 13 e 32, secondo comma, Cost.”, la Corte costituzionale sembra porsi in linea di continuità con l’indirizzo dottrinale e giurisprudenziale che – nel quadro della relazione medico-paziente e, più nello specifico, dei processi di costruzione del consenso informato ai trattamenti sanitari1 – ha visto negli articoli 2, 13 e 32 Cost. un intreccio virtuoso al servizio dell’autodeterminazione della persona in materia di salute, che viene spinta oggi sino a ricomprendere la scelta delle terapie finalizzate a liberare dalle sofferenze. Ma, in realtà, i contenuti dell’ordinanza presentano indubbie discontinuità rispetto alla serie dei precedenti, rendendo problematica la distinzione tra ciò che trova fondamento nell’art. 32 e ciò che è invece garantito dall’art. 13 Cost.: vale a dire, rispettivamente, il diritto alla salute come fondamentale diritto dell’individuo, da cui non può essere assente una componente pretensiva (diritto a ottenere le prestazioni essenziali al fine della
Sul consenso informato come processo volto a consentire una consapevole volizione: Pizzolato, Autodeterminazione e relazionalità nella tutela della salute, in Corti supreme e salute, 2018, 439; Zatti, Spunti per una lettura della legge sul consenso informato e DAT, in www.rivistaresponsabilitamedica.it, 31.1.2018, 2-3; la stessa qualificazione del consenso come “informato” ne postula il carattere e la dimensione relazionale: Pucella, Autodeterminazione e responsabilità nella relazione di cura, Milano, 2010, 12. Sull’“inderogabile esigenza di fornire al singolo un’informazione corretta e comprensibile” a garanzia dell’“effettiva possibilità di uno svolgimento corretto e compiuto del procedimento di formazione della volontà” di sottoporsi a un trattamento terapeutico v. già Pezzini, Il diritto alla salute: profili costituzionali, in Dir. soc., 1983, 42. 1
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tutela della propria salute), e la libertà personale, che tutela una dimensione di assenza di ingerenze e interferenze. Di fronte al tema del suicidio medicalmente assistito, infatti, il richiamo degli artt. 2 e 13 acquista un autonomo spessore, non potendo più essere inteso come semplicemente ad adiuvandum rispetto all’art. 322, già di per sé in grado di dare fondamento e garanzia costituzionale all’autodeterminazione del malato3. Trasformando il caso Cappato (la condotta di chi, aiutando una persona gravemente malata a realizzare il proposito di suicidio medicalmente assistito) nel caso Antoniani (il malato irreversibile e sofferente che ha liberamente e in piena consapevolezza voluto accedere al suicidio medicalmente assistito e ha dovuto farlo in Svizzera), la Corte costituzionale ha intrecciato, e per certi versi sovrapposto, il tema della libertà e autodeterminazione del malato al tema del fondamento costituzionale del reato di aiuto al suicidio. E, allargando i confini della relazione terapeutica a garanzia della sfera di libertà di un particolare malato che si trovi in talune limitate e ben determinate ipotesi di peculiare prossimità alla morte, ha individuato, negli artt. 32, 2 e 13 Cost., il fondamento comune a pratiche mediche di accompagnamento nel processo del morire con cure palliative, terapia del dolore e SPPC, da un lato, e di somministrazione di un farmaco letale, dall’altro. Ma così facendo ha superato, nell’ambito della relazione terapeutica e propriamente dell’art. 32 Cost., la distinzione tra killing e letting die che, pur concernendo situazioni che nella pratica clinica e nell’esperienza esistenziale possono risultare contigue, sul piano giuridico conserva, a me pare, una sua sostanza e capacità di selezionare comportamenti (quelle distinzioni tanto impor-
Con riferimento alla sent. 438/2008 v. Balduzzi, Paris, Corte costituzionale e consenso informato tra diritti fondamentali e ripartizione delle competenze legislative, in Giur. cost., 2008, 4963. 2
Ordinanza CC 207/2018 “la libertà di autodeterminazione del malato nella scelta delle terapie, comprese quelle finalizzate a liberarlo dalle sofferenze, scaturente dagli artt. 2, 13 e 32, secondo comma, Cost.” (p.to 9 cons. in dir.). 3
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tanti per la funzione del diritto di orientare comportamenti limitando l’incertezza). Il richiamo dell’art. 32, che l’argomentazione della Corte costituzionale ripropone come centrale nel suo ragionamento, finisce per essere poco convincente e fonte di ambiguità, tanto più che non sarebbe neppure necessario. Quando la valutazione di medico e paziente, maturando ed esprimendosi nel contesto di una relazione terapeutica che ne resta l’ineliminabile presupposto (relazione che appartiene interamente alla sfera costituzionalmente definita dall’art. 32), dovesse convergere nel riconoscere l’intollerabilità della sofferenza cui resterebbe esposto il malato rifiutando le cure salvavita ed il percorso palliativo4, sarebbero i valori della dignità e autodeterminazione della persona in quanto tali, che trovano fondamento negli articoli 2 e 13 Cost., a prendere – indipendentemente dall’art. 32 – il centro della scena. Dignità e autodeterminazione personale si rendono autonome dalla sfera della tutela della salute e determinano una discontinuità della relazione terapeutica, che colloca le relazioni interpersonali in una dimensione diversa da quella precedente: si afferma e prevale la necessità di riconoscere e garantire la dignità della persona, fuoriuscendo dalla sfera propria del diritto alla salute per approdare interamente nella diversa dimensione del riconoscimento della libertà del paziente nella dignità del morire. Siamo di fronte a una dimensione di libertà costituzionalmente presidiata in cui, osserva la Corte costituzionale, alla possibilità di autodeterminazione in ordine al percorso individuale di incontro con l’evento finale e ineluttabile della morte non si contrappone – nel contesto specificamente considerato – alcun altro interesse costituzionale da tutelare5, dal momento che la vulnerabilità dei
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Si intende quanto la legge 219/2017 già prevede.
Dice l’ordinanza in conclusione del punto 9: “entro lo specifico ambito considerato, il divieto assoluto di aiuto al suicido finisce, quindi, per limitare la libertà di autodeterminazione del malato nella scelta delle terapie, comprese quelle finalizzate a liberarlo dalle sofferenze, scaturente dagli artt. 2, 13 e 32, secondo comma, Cost., imponendogli in ultima analisi un’unica modalità per congedarsi dalla vita, senza 5
soggetti particolarmente fragili è saldamente presidiata (come vedremo, dalle condizioni complessivamente individuate dalla giurisprudenza costituzionale, innanzitutto ancorando l’accertamento delle condizioni di intollerabilità delle sofferenze alla esistenza ed alle forme della relazione terapeutica). Così ricostruito il quadro costituzionale – ma, lo ripeto, si tratta di una ricostruzione che muove dalla critica al diverso e meno persuasivo sviluppo argomentativo delle due pronunce della Corte costituzionale –, ci si può meglio orientare nel quadro ordinamentale definito dalla giurisprudenza costituzionale, risolvendo alcuni dubbi ed evitando sia di ricondurre all’art. 32 Cost. e alla relazione medico-paziente condotte ampiamente ritenute estranee alla sfera propriamente della cura6, sia di mettere a rischio il consolidamento della dimensione sostenibile7 della relazione terapeutica, per come è stata finalmente – e, come è noto, con grande fatica politica – definita dalla l. n. 219/2017. La seconda premessa. Siamo di fronte a un modulo decisionale nuovo, che la Corte costituzionale ha sperimentato nella consapevolezza di trovarsi di fronte ad una materia la cui regolamentazione spetterebbe innanzitutto al legislatore. Un nuovo modulo monitorio8, una sola decisione costruita in due tempi e
che tale limitazione possa ritenersi preordinata alla tutela di altro interesse costituzionalmente apprezzabile, con conseguente lesione del principio della dignità umana, oltre che dei principi di ragionevolezza e di uguaglianza in rapporto alle diverse condizioni soggettive”. Repetto, La Corte, il caso Cappato e la “parola che squadra da ogni lato”, in Forum di Quad. cost., 24.6.2019, 3, osserva esservi “un ampio consenso sul fatto che il diritto al suicidio assistito non è da ritenersi costituzionalmente dovuto sulla base della corretta interpretazione da dare, in particolare, all’art. 32”. 6
Sostenibilità come “equilibrio tra le istanze dell’autonomia individuale e la dimensione relazionale del diritto alla salute”, v. Busatta, La sostenibilità costituzionale della relazione di cura, in La relazione di cura dopo la l. 219/2017, a cura di Foglia, Pisa, 2019, 152. 7
Pescatore, Caso Cappato-Antoniani: analisi di un nuovo modulo monitorio, in Osservatorio costituzionale, 2020, 343. 8
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due atti9 che, per precisa scelta, trasforma in una sequenza necessaria la mera eventualità di una “doppia pronuncia” (cioè di una dichiarazione di inammissibilità della questione per rispetto della discrezionalità del legislatore, seguita eventualmente nel tempo – di fronte al protrarsi dell’inerzia legislativa – da una sentenza di accoglimento). Questo ci costringe a leggere le due pronunce tenendo conto del fatto che le argomentazioni della prima (l’ord. 207/2017) si saldano a quelle della seconda (la sent. 242/2018): le prime servono a chiarire il quadro e individuare un’area di incostituzionalità prospettata (accertata ma non ancora dichiarata) e si indirizzano principalmente al legislatore, sollecitato a intervenire; le seconde – una volta preso atto che l’intervento del legislatore non c’è stato – determinano gli effetti dell’incostituzionalità in precedenza accertata. L’accertamento dell’incostituzionalità non produce immediatamente una sentenza di accoglimento perché la Corte ha riconosciuto e già puntualmente individuato interessi costituzionalmente rilevanti messi a rischio dal vuoto normativo determinato dall’incostituzionalità, rilevando, nel contempo, una sfera di discrezionalità del legislatore, al quale ha primariamente rimesso la regolazione della materia entro il termine dell’udienza di rinvio. La sentenza che segue “si salda, in consecuzione logica” con il precedente accertamento, occupandosi degli effetti che ne derivano. Da un lato (pars destruens), dichiarandola formalmente, rimuove l’incostituzionalità accertata e, dall’altro (pars construens), introducendo una disciplina provvisoria (sentenza additiva cedevole), previene l’incostituzionalità che potrebbe derivare dalla mera rimozione della norma incostituzionale. Questo per dire della complessità di lettura, che deriva dall’intertestualità delle due pronunce, e della difficoltà di ricavare da esse i contenuti della disciplina creata dalla sentenza additiva cedevole,
Pezzini, Dal caso Cappato al caso Fabiano Antoniani e ritorno: i vincoli di coerenza imposti dalla ordinanza 207/2018, in Libertà fondamentali alla fine della vita. Riflessioni a margine dell’ordinanza n. 207 del 2018 della Corte costituzionale, Firenze, goWare, 2019, 92. 9
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attualmente vigente e che tale resterà sino all’intervento del legislatore (che resta, comunque, fortemente auspicato nel par. 9). Paolo Malacarne Nel paragrafo 2.2 della sentenza della Corte leggo una serie di affermazioni di principio molto chiare: “- dal diritto alla vita non può derivare il diritto a rinunciare a vivere, un vero e proprio diritto a morire; - non si può derivare dalla Costituzione il dovere di riconosce all’individuo la possibilità di ottenere dallo Stato o da terzi un aiuto al morire; - lo Stato ha il dovere di tutelare la vita di ogni individuo, soprattutto delle persone più deboli e vulnerabili; - l’ordinamento penale intende proteggere da una scelta estrema e irreparabile come quella del suicidio”. Sono affermazioni che fanno oggi da cornice generale alla relazione tra me e i malati, ma che, pur nella loro importanza, lasciano comunque a me, alla malata e ai suoi familiari il compito di decidere qui ed oggi della vita e della morte di una persona? Barbara Pezzini Tenendo conto di quanto detto nella seconda premessa, le affermazioni del par. 2.2 CID sono il primo passaggio argomentativo che conduce verso il dispositivo, ma sono anche la sintesi di tutta quella prima parte dell’ord. 207/2018 che respinge la prospettazione della incostituzionalità come formulata dal giudice a quo, cioè come tesi dell’incostituzionalità del reato previsto dall’art. 580 c.p. Sono quindi innanzitutto argomenti a conferma del perdurante divieto penale di aiuto al suicidio. In questo senso, direi piuttosto che qualsiasi relazione interpersonale (non solo quella del medico) con una persona che intende decidere attivamente della propria morte (suicidio) si trova collocata “nella cornice generale” del permanente divieto penale di aiuto al suicidio, ancorché si tratti di forme di aiuto non rafforzativo del proposito della persona stessa. La sentenza ribadisce che non vi sono ragioni per ritenere tale divieto di per sé incostituzionale, anzi, trova fondamento nella
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necessità di tutela dei soggetti in particolari condizioni di fragilità e vulnerabilità. È il successivo par. 2.3 a erodere – nell’ambito di tale generale divieto – una “circoscritta area di non conformità costituzionale della fattispecie criminosa”, vale a dire un’area (un ambito di condotte) in cui la punibilità generalmente prevista viene esclusa. Un’area definita dalle condizioni in cui si trovava Fabiano Antoniani quando Marco Cappato l’ha aiutato a compiere il suicidio (l’aiuto fornito da Cappato è, in realtà, consistito nell’accompagnarlo in Svizzera, nella clinica ove a Fabiano Antoniani è stato possibile compiere un suicidio medicalmente assistito), che la Corte generalizza in quattro condizioni (ai casi in cui l’aspirante suicida sia persona: “(a) affetta da una patologia irreversibile e (b) fonte di sofferenze fisiche o psicologiche, che trova assolutamente intollerabili, la quale sia (c) tenuta in vita a mezzo di trattamenti di sostegno vitale, ma resti (d) capace di prendere decisioni libere e consapevoli”). Paolo Malacarne In modo del tutto corretto la Corte riconosce che queste condizioni vengono a delineare “situazioni inimmaginabili all’epoca in cui la norma incriminatrice (art. 580 c.p.) fu introdotta, portate sotto la sua sfera applicativa dagli sviluppi della scienza medica e della tecnologia, spesso capaci di strappare alla morte i pazienti in condizioni estremamente compromesse, ma non di restituire loro una sufficienza di funzioni vitali”: la Corte sta parlando proprio di me, del mio lavoro di rianimatore e degli esiti che questo mio lavoro ha sui malati. La Corte mi sta dicendo che non posso, una volta che con la mia competenza e la tecnologia che ho a disposizione ho generato una persona viva, lucida e consapevole ma non più in grado di vivere autonomamente senza l’aiuto irreversibile di macchine, cateteri, tubi, ecc., voltarmi dall’altra parte e lasciare il malato a sé stesso? Barbara Pezzini Prendendo in considerazione “gli sviluppi della scienza medica e della tecnologia … capaci di strappare alla morte … ma non di restituire … sufficienza di funzioni vitali”, la Corte osserva, con
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riferimento alla norma penale, il sopraggiungere di un vero e proprio “anacronismo legislativo” (quel fenomeno per cui quanto in passato/in origine non risultava in contrasto con le garanzie costituzionali può successivamente diventare incompatibile con la Costituzione), che attrae fuori dal campo di applicazione della norma penale “le situazioni inimmaginabili all’epoca in cui la norma fu introdotta” e delimita l’incostituzionalità dell’art. 580 c.p. A dire che il medico non può lasciare a sé stesso il malato – condotto dalla tecnologia a una condizione di esistenza lucida e consapevole ma irreversibilmente dipendente da ausili e macchinari – è stata già la legge n. 219 /2017 e, in realtà, prima ancora e direttamente, lo dice l’art. 32 Cost.; il malato in quelle condizioni può, infatti, per il suo fondamentale diritto individuale alla salute e avvalendosi dell’esplicita garanzia che ora fornisce la l. 219, sottrarsi a un mantenimento artificiale in vita e “accogliere la morte”, rifiutando o chiedendo l’interruzione dei trattamenti di sostegno vitale in atto e associando la richiesta di SPPC e terapia del dolore. Quello che la sequenza decisionale ordinanza 207 – sentenza 242 aggiunge è il riconoscimento della possibilità che il malato non ritenga una soluzione accettabile per se stesso l’“annullamento totale e definitivo della coscienza e della volontà” conseguente alla SPPC e intenda per questo “accogliere la morte” avvalendosi di un “aiuto che valga a sottrarlo al decorso più lento”: negargli questa possibilità di aiuto significherebbe “limitare ingiustificatamente nonché irragionevolmente” la sua libertà di autodeterminazione nella scelta delle terapie. Se anche non dice espressamente che l’aiuto diretto a morire (somministrazione di un farmaco letale) rientra tra le terapie esigibili, ci va molto vicino (aprendo, tuttavia, come vedremo, anche una serie di contraddizioni); ma l’espressione potrebbe essere intesa nel senso che una persona non sarebbe realmente in condizioni di autodeterminarsi nel rifiuto o nell’interruzione di una terapia vitale se, in conseguenza di ciò, non potesse sottrarsi a sofferenze da lei ritenute intollerabili. Paolo Malacarne Penso alla mia malata, e mi fermo a riflettere sulla questione dei trattamenti di sostegno vitale: oggi Responsabilità Medica 2020, n. 1
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la mia malata non è tenuta in vita da alcun trattamento; ma quel trattamento, nella fattispecie la ventilazione meccanica non invasiva, ha una indicazione nella condizione della malata, e quel trattamento è stato prescritto dai medici: se la malata non lo pratica, ella non muore in pochi minuti (come accadrebbe ad esempio ad un malato di S.L.A. in fase molto più avanzata e sottoposto a ventilazione meccanica invasiva continua mediante tracheotomia a permanenza con assenza totale di possibilità di respiro spontaneo) ma se non lo pratica, innanzitutto patisce maggiormente la dispnea, cioè quella bruttissima sensazione di “fame di aria” che caratterizza la condizione clinica di chi non può aumentare per nulla la sua capacità di ventilazione respirando già costantemente al limite delle sue possibilità; e in secondo luogo, se non lo pratica, la sua evoluzione verso la insufficienza respiratoria terminale, e quindi verso la morte, è molto più rapida: posso considerare quindi la sola appropriata indicazione clinica alla ventilazione meccanica non invasiva un trattamento di sostegno vitale che tiene in vita la mia malata? Barbara Pezzini Tutta la sequenza decisionale è stata costruita ruotando intorno al caso Cappato-Antoniani. La Corte sottolinea ripetutamente che il presupposto è “l’interruzione di trattamenti di sostegno vitale”: è in questo scenario – di una morte che si avvicina per l’interruzione di cure che il paziente ha il diritto di pretendere – che ritiene irragionevole che, da un lato, la possibilità di essere medicalmente assistiti tramite una serie di interventi che accompagnano alla morte (cure palliative, terapia del dolore, SPPC) sia affermata e tutelata come un diritto e che invece, dall’altro, la possibilità di ricevere un diretto aiuto a morire (a sottrarsi a un decorso più lento e più lungo nel tempo e alla perdita di coscienza e volontà nel momento della morte) sia addirittura impedita dall’esistenza di un divieto penale. Le due situazioni (in cui si potrebbe trovare un malato nelle condizioni analoghe a Fabiano Antoniani una volta interrotte le cure) vengono messe a confronto per rilevare l’irragionevolezza del trattamento attualmente riservato alla seconda, senza Responsabilità Medica 2020, n. 1
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che vi sia una netta affermazione di equivalenza tra di esse. Tuttavia, quando introduce i richiami specifici alla l. n. 219/2017 per costruire quella disciplina cedevole che serve a evitare “intollerabili vuoti di tutela per i valori protetti” (par. 5), la sentenza sottolinea che la declaratoria di incostituzionalità riguarda l’aiuto al suicidio prestato a favore di soggetti “che già potrebbero alternativamente lasciarsi morire mediante la rinuncia a trattamenti necessari alla loro sopravvivenza”; e, del resto, nel richiamato art. 1, rifiuto e revoca (interruzione) dei trattamenti sono disciplinati insieme. Il momento dell’opzione alternativa tra: 1: accettare l’accompagnamento alla morte con SPPC che comporta un decorso più lungo e la perdita di coscienza; 2: ottenere un aiuto diretto a morire, più rapido e in piena coscienza fino al momento della morte, ha come presupposto la dipendenza della persona da trattamenti di sostegno vitale, che può rifiutare dall’inizio o accettare e poi chiedere di interrompere (o, anche rifiutare in una certa fase e successivamente accettare: la sentenza pone specificamente l’accento sulla reversibilità della decisione del malato, v. al par. 5, richiamando la necessità che al paziente sia possibile modificare la volontà precedentemente espressa, notando anche che ciò “nel caso dell’aiuto al suicidio, è insito nel fatto stesso che l’interessato conserva, per definizione, il dominio sull’atto finale che innesca il processo letale”). La differenza tra le ipotesi riguarda l’accertamento della condizione di dipendenza: mentre l’interruzione di trattamenti salva-vita rende manifesta la condizione di dipendenza dagli stessi (dimostrando fattualmente l’esistenza della condizione posta dalla Corte costituzionale alla lettera c), in altre ipotesi la condizione di dipendenza (requisito giuridico) richiede di essere accertata per mezzo di valutazioni di carattere prettamente tecnico-medico (richiede una dimostrazione argomentativa di carattere tecnico-scientifico). Paolo Malacarne E se no, non si crea nei fatti una discriminazione tra quei malati che sono sottoposti a trattamenti e quindi rientrano nella fattispecie delle condizioni che permettono di adire al percorso dell’aiuto al
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suicidio rispetto quelli che non sono di fatto sottoposti a quei trattamenti o perché li rifiutano o perché medici meno prudenti non li prescrivono in una fase precoce di malattia? E per quanto tempo nell’arco della giornata o della settimana (penso ad es. alla dialisi tri-settimanale) il trattamento di sostegno vitale in atto è da considerare rientrante nelle condizioni previste dalla sentenza? Barbara Pezzini Sul piano del diritto costituzionale la questione della discriminazione fra situazioni dipende dalla loro comparabilità. La disciplina sostitutiva introdotta dalla sentenza 242 con dispositivo di additiva (una disciplina costituzionalmente necessaria ma a contenuto non costituzionalmente vincolato, ricavabile dalle coordinate del sistema vigente) cedevole (fin tanto che sulla materia non intervenga il Parlamento) che oggi regola questi casi introduce una causa di non punibilità in presenza di determinate e specifiche condizioni. Potrebbe diventare a sua volta un termine di paragone per altri casi, che ampliano e/o riconfigurano dette condizioni? Forse è proprio la “cedevolezza” che, almeno per il momento, lo esclude, per lo meno sino a che non sarà trascorso un lasso di tempo significativo nel silenzio del legislatore. Paolo Malacarne Due parti della sentenza (quella relativa ai trattamenti di sostegno vitale già discussa e quella introdotta al punto 2.4 relativa alle cure palliative) mi interrogano non tanto sul piano della relazione di cura quanto su un piano “procedurale”, nelle cui pieghe si possono nascondere molte criticità: certamente la sentenza non può entrare nel merito di queste questioni, ma dal momento che oggi non c’è nulla di definito da parte della legislazione né nazionale né regionale, la mia difficoltà è grande: che significa “coinvolgimento in un percorso di cure palliative”? Barbara Pezzini Il punto è effettivamente cruciale, anche perché la sentenza assegna un ruolo determinante alla
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garanzia di un percorso di cure palliative: dicendo che l’“accesso alle cure palliative, ove idonee a eliminare la sofferenza, spesso si presta, infatti, a rimuovere le cause della volontà del paziente di congedarsi dalla vita” (par. 5), mostra, infatti, di attribuire alle cure palliative una funzione potenzialmente disincentivante del suicidio. Mi pare che questo richieda una particolare attenzione nel documentare non solo la proposta e la effettiva disponibilità delle cure palliative, ma anche la valutazione dell’idoneità a eliminare quel tipo e/o livello di sofferenza fisica o psichica che il paziente ritiene intollerabile. Paolo Malacarne Chi e con quali modalità deve attuare la verifica della sussistenza dei presupposti? Che significa, in pratica, la funzione consultiva e di riferimento del Comitato etico? Deve il Comitato etico dare solo un parere non vincolante o autorizzare la procedura? E se oggi il Comitato etico territorialmente competente mi mette per iscritto che non è al suo interno “munito delle adeguate competenze” per esercitare quella funzione di organo collegiale terzo? E in quale struttura del S.S.N. posso andare oggi ad effettuare la procedura? Deve esserci una autorizzazione formale del Direttore generale? Barbara Pezzini Su questi aspetti mi pare valga, innanzitutto, un implicito richiamo all’art. 1 comma 9°, l. n. 219/2017 al netto delle specifiche modalità eventualmente adottate nella struttura sanitaria interessata, mi sembra sufficiente che la relazione terapeutica – rispetto alla quale si documenta nelle forme prescritte (cartella clinica e fascicolo sanitario elettronico) la volontà del paziente e l’adeguata informazione ecc. da parte del medico – si svolga nel contesto di una struttura pubblica del servizio sanitario nazionale. Richiamando gli artt. 1 e 2 della l. n. 219/2017 la sentenza sembra ritenere che tali disposizioni soddisfino già le esigenze di tutela ritenute indispensabili; non c’è nulla nella sentenza che faccia pensare alla necessità di una specifica autorizzazione ed i soggetti rilevanti per la relazione
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di cura e di fiducia sono indicati nel 2° comma dell’art. 1. Al quadro della l. n. 219/2017 resta estraneo l’ulteriore requisito previsto dalla sentenza 242, vale a dire l’intervento del Comitato etico territorialmente competente: richiamato per “la delicatezza del valore in gioco”, in quanto “organo terzo” in grado di garantire “la tutela delle situazioni di particolare vulnerabilità”. A parte la perplessità che mi suscita la definizione di terzietà (terzo fra quali parti contrapposte? rimanda a una visione oppositiva, anziché strutturalmente collaborativa fra medico e paziente? da chi si intende proteggere il malato – che è evidentemente il soggetto che potrebbe trovarsi in situazioni di particolare vulnerabilità? da chi è eventualmente in grado di proteggerlo il Comitato etico?), mi sembra che l’inserimento del Comitato etico sia di tipo procedurale e non sostanziale; che il suo sia un parere (il dispositivo lo qualifica espressamente tale, e la motivazione fa riferimento al possesso di “funzioni consultive” richiamando la legislazione vigente), certamente obbligatorio, ma non un’autorizzazione (a prescindere dal fatto che taluni pareri resi in ambiti diversi dallo specifico contesto del suicidio medicalmente assistito possano essere configurati nella legislazione vigente come vincolanti); mi sembra che potrebbe, piuttosto, rilevare il mancato o non sufficiente approfondimento di taluni aspetti del processo in cui ha preso forma la volontà del malato di richiedere l’aiuto medico a morire. La previsione di un organo collegiale terzo munito di adeguate competenze è suggerita al legislatore e, nelle more del suo intervento, il compito è direttamente affidato ai CET in quanto ritenuti e qualificati dalla Corte costituzionale come “organi terzi e collegiali con adeguate competenze”; il modo stesso in cui la sentenza li investe attribuisce loro, direttamente, anche la competenza adeguata, che non deve più essere oggetto di qualsivoglia verifica (o autoverifica). Dubito, pertanto, che un Comitato etico possa declinare la propria competenza, e, se dovesse farlo, la condizione procedurale prescritta (acquisirne il parere) sarebbe comunque soddisfatta (non è il parere che costituisce le condizioni da rispettare, semmai
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il fatto che il parere del CET ne attesti il rispetto agevola la prova della loro ricorrenza). È importante sottolineare che il parere del CET è richiesto al fine di tutelare le situazioni di particolare vulnerabilità: dovrà, di conseguenza, essere posto nelle condizioni di poter escludere interferenze indebite sulla volontà della persona interessata. Paolo Malacarne Sempre per il mio lavoro è fondamentale il paragrafo 6 della sentenza che esplicita che “resta affidato alla coscienza del singolo medico scegliere se prestarsi o no a esaudire la richiesta del malato”, garantendo quindi l’obiezione di coscienza o, per meglio dire, la “clausola di coscienza” dal momento che la sentenza “si limita ad escludere la punibilità dell’aiuto al suicidio nei casi considerati, senza creare alcun obbligo di procedere a tale aiuto in capo ai medici” Ma se la scelta è affidata alla “coscienza”, rimango perplesso di fronte al fatto che la mia “coscienza” potrebbe non essere trattata allo stesso modo della coscienza di chi rispetterà l’art. 17 del Codice Deontologico Medico scegliendo di “non prestarsi”: infatti, quando io mi “presterò” ad esaudire la richiesta, da un lato, non trattandosi di “morte naturale” la salma del malato finirà all’obitorio della “Medicina Legale” a disposizione della Magistratura Inquirente che, trattandosi di morte da “causa violenta” potrebbe aprire una indagine nella quale io rimarrei sicuramente coinvolto (con la necessità ad es. di nominare un legale e di essere interrogato dagli inquirenti) anche se poi verrei scagionato (passatemi il termine poco ortodosso); dall’altro, il mio Ordine dei Medici, in base alla recente decisione del 6 febbraio 2020, potrebbe comunque aprire nei miei confronti un procedimento disciplinare, visto che la mia “libera scelta di agevolare il proposito di suicidio ….va sempre valutata caso per caso”; due conseguenze, quella penale e quella deontologica, che, se da un lato non arriveranno a condanna, dall’altro però saranno un “deterrente” alla mia scelta di “coscienza” (mi ricorda, perdonate il riferimento alla mia esperienza personale di vita, quando per il fatto di aver scelto di essere obiettore di coscienza al servizio militare feci due anni di servizio civile anziché il canonico unico anno di servizio militare).
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Aiuto al suicidio e relazione terapeutica
Barbara Pezzini A fronte di diversi orientamenti emersi in dottrina10, ritengo che una volta che la Corte costituzionale abbia ritenuto che la presenza di specifiche condizioni valga ad escludere la responsabilità penale del medico che metta a disposizione di un paziente un farmaco letale, a maggior ragione le stesse condizioni debbano valere ad escludere la responsabilità deontologica del medico. E a tali conclusioni mi sembra essere approdato anche l’Ordine dei medici, approvando il 6 febbraio scorso gli indirizzi applicativi dell’art. 17 del codice deontologico11; per quanto prevedendo “sempre” una valutazione caso per caso, tali indirizzi finiscano per gravare l’aiuto medico al suicidio di un’ulteriore forma di controllo delle procedure in sede deontologica, non prevista dalla Corte costituzionale. Quanto all’obiezione di coscienza, viene sbrigativamente liquidata nella brevissima argomentazione sub par. 6, in cui sostanzialmente si esclude l’esistenza di un problema di obiezione, dal momento che “resta alla coscienza del singolo medico scegliere se prestarsi o no a esaudire la richiesta del malato” e, dunque, non c’è alcuna obbligatorietà di prestazioni. Personalmente mi sembra che proprio questo aspetto contribuisca a rendere evidente l’esistenza, nella sequenza decisionale, di quella indubbia discontinuità rispetto alla giurisprudenza costitu-
Bresciani, Il lungo anno dell’art. 580 cod. pen.: l’art. 17 Codice Deontologia Medica può precludere la partecipazione del medico ai suicidi assistiti?, in www. forumcostituzionale. it, 2.5.2019; Pulice, Autonomia e responsabilità medica: la scelta deontologicamente (dis)orientata, in BioLaw Journa l– Riv. BioDiritto, 2019. 10
Delibera adottata dal Consiglio nazionale FNOMCeO: “La libera scelta del medico di agevolare, sulla base del principio di autodeterminazione dell’individuo, il proposito di suicidio autonomamente e liberamente formatosi da parte di una persona tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale, affetta da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche intollerabili, che sia pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli (sentenza 242/19 della Corte Costituzionale e relative procedure), va sempre valutata caso per caso e comporta, qualora sussistano tutti gli elementi sopra indicati, la non punibilità del medico da un punto di vista disciplinare”. 11
zionale sul consenso informato segnalata in premessa12, nonostante la Corte costituzionale l’abbia sfumata, o persino dissimulata nel richiamo sintetico dei propri precedenti. L’evocazione, pur indiretta, dell’obiezione, significativamente rimasta estranea alla legge n. 219/2017, rappresenta un ulteriore indicatore del superamento del perimetro costituzionale propriamente definito dall’art. 32 Cost.: l’obiezione di coscienza introduce una configurazione oppositiva dei ruoli del paziente e del medico – proposti come portatori originari di posizioni e interessi contrapponibili anziché convergenti – che incide sulla possibilità stessa di riconoscere nel rapporto in cui opera una autentica relazione terapeutica nel senso ricostruito sulla base dell’art. 32 Cost., secondo cui il medico assume nella relazione terapeutica un ruolo finalizzato al e orientato dal formarsi di decisioni consapevoli di altri sulla propria salute e sulle proprie complessive condizioni di vita (secondo la ampia definizione di salute dell’OMS) e, di conseguenza, al realizzarsi di conseguenti pratiche terapeutiche da altri subite sul proprio corpo. La sentenza non sfugge alla contraddizione di lasciare privi di garanzia i diritti fondamentali del malato da cui pure ha preso le mosse (dignità e autodeterminazione nella scelta delle terapie finalizzate a liberare dalle sofferenze), dal momento che la sua richiesta non diventa una pretesa esigibile. La discrezionalità riconosciuta al medico – diversa dalla competenza e autonomia professionale costituzionalmente presidiata dall’art. 33 Cost.13 – porta, a mio avviso, fuori dalla relazione di cura, dove c’è obbligo: perché, appunto, la prestazione richiesta non è propriamente di cura, certamente non come l’assistenza doverosa in caso di interruzione o rifiuto negli artt. 1 e 2 della l. n. 219/2017.
Criticamente discussa in Pezzini, Oltre il perimetro della rilevanza della questione affrontata dall’ordinanza 207/2019: ancora nel solco dell’autodeterminazione in materia di salute?, in Forum di Quad. cost., 22.6.2019. 12
Carminati, Libertà di cura e autonomia del medico, Bari, 2018. 13
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Rivelando ulteriormente la difficoltà di considerare davvero omogenee le condotte che un paziente, dopo avere a pieno diritto rifiutato o richiesto l’interruzione di trattamenti salvavita, può esigere dal medico che lo assiste: il doveroso accompagnamento con cure palliative, da un lato (per le quali non è prevista l’ipotesi di alcuna obiezione di coscienza), e la discrezionale somministrazione di un farmaco che determina la morte, dall’altro (per la quale, invece, si lascia al medico la possibilità di scegliere in piena autonomia e secondo la propria coscienza “se prestarsi, o no, a esaudire la richiesta del malato”); per quanto contigue, mostrano chiaramente tutta la loro diversità. Ciò che la sentenza in definitiva riconosce è una sfera di libertà del singolo costituzionalmente presidiata in via diretta dagli artt. 2 e 13 Cost., ma solo indirettamente connessa all’art. 32; quindi l’atto finale di somministrazione del farmaco letale, per quanto compiuto da un medico in un contesto fortemente medicalizzato (strutture pubbliche del servizio sanitario nazionale, alle quali spetta un controllo anche delle modalità di esecuzione) non è trattato come un’attività terapeutica, ma è visto essenzialmente nella sua natura di atto puramente solidale, compiuto spontaneamente, che eccezionalmente, per la cornice di condizioni che ne attestano la assoluta gratuità e direzione puramente altruistica, non risulta punibile in sede penale, né rilevante in sede deontologica. Paolo Malacarne Io penso da medico che il malato che sceglie di porre fine alla propria vita (ottemperando alle condizioni dettate dalla sentenza) abbia il diritto ad una assistenza medica massimale proprio in questa ultima fase di vita, per garantire la assoluta mancanza di sofferenza e la gestione rapida e ottimale di ogni possibile complicazione durante la procedura: la sentenza garantisce questo? Che cosa potrò dire alla malata e ai suoi familiari quando tornerò da loro? Barbara Pezzini Come sopra accennato, la sentenza affida alla struttura pubblica del servizio sanitario di verificare che l’aiuto al suicidio avvenga con modalità di esecuzione tali da evitare abusi in danno di Responsabilità Medica 2020, n. 1
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persone vulnerabili, da garantire la dignità e evitare sofferenze. Non garantisce però il diritto a ricevere tale aiuto da un medico, né la possibilità di pretenderlo. Certo, la giurisprudenza costituzionale rivela proprio in ciò una contraddizione, dal momento che, sino a che la richiesta del malato non diventa una pretesa nei confronti del medico e del servizio, non garantisce fino in fondo quei diritti fondamentali del malato da cui muove. Nel contempo, quando il percorso decisionale della persona malata sia giunto al punto estremo in cui si danno effettivamente le due alternative prese in considerazione dalla decisione nata dal caso Cappato-Antoniani, è l’intera struttura che, scongiurato il rischio di abusi in danno di persone vulnerabili, deve garantire dignità ed evitare sofferenze ulteriori al malato. E a me sembra che questo lasci intendere che non devono frapporsi ostacoli e dilazioni non necessari al compimento della volontà del malato, una volta che questa risulti formata nel rispetto delle condizioni prescritte; e che, dunque, si ponga a carico della struttura di assicurare che – a prescindere da chi sia il soggetto che collaborerà in concreto all’aiuto fornendo al malato il farmaco o il trattamento opportuno (dal momento che tale comportamento non può essere preteso, né coartato) – venga comunque complessivamente garantita quella assistenza ottimale alla quale la domanda di Paolo Malacarne fa riferimento.
i r o t Osservatorio Osservatorio medico-legale medico-legale er va ico s d le s e o La manovra di Kristeller. m ga le Aspetti medico-legali Barbara Bonvicini*, Erich Cosmi**, Giovanni Cecchetto*, Claudio Terranova*, Guido Viel*, Massimo Montisci* Sommario: 1. Premessa. – 2. La responsabilità professionale in ostetricia. – 2.1. I presupposti giuridico-deontologici della responsabilità professionale medica. – 2.2. Evidence Based Medicine e responsabilità professionale medica. – 2.3. Linee guida: implicazioni medico-legali. – 3. La manovra di Kristeller. – 3.1. Evidenza scientifica e raccomandazioni nazionali/internazionali. – 3.2. Interpretazione delle evidenze scientifiche e considerazioni medico-legali. – 4. Problematiche in caso di danno alla madre e/o al feto. – 4.1. Valutazione della condotta sanitaria ostetrico-ginecologica – 4.2. Nesso di causa tra condotta e danno materno e/o fetale – 5. Conclusioni.
Abstract: L’attività medica ha risentito negli ultimi anni dei profondi mutamenti normativi che hanno coinvolto la materia della responsabilità professionale sanitaria. La necessità di operare nel rispetto delle evidenze scientifiche, ha messo in luce la vulnerabilità di alcuni settori specialistici, come quello ostetrico-ginecologico, interessato da una crescita esponenziale delle azioni giudiziarie e dell’entità del contenzioso economico, tra i più elevati nelle diverse discipline mediche. In tale ambito, la pressione del fondo uterino, nota anche come manovra di Kristeller, eseguita durante la seconda parte del travaglio di parto, espone i professionisti al rischio di azioni legali e sentenze potenzialmente sfavorevoli per l’assenza di sufficienti prove scientifiche a suffragio o a sfavore della procedura, peraltro non sempre dichiarata nei documenti sanitari a causa delle possibili implicazioni medico-legali che ne possono derivare. Gli autori ritengono auspicabile redigere linee guida o raccomandazioni specificamente mirate ad identificare le manovre che possono essere compiute durante il parto vaginale, illustrare le tecniche consentite e quelle assolutamente vietate, allo scopo di orientare gli specialisti nel loro operato.
The medical practice has been influenced by recent changes in laws in the area of medical liability. The need to work in compliance with the Evidence Based Medicine highlighted the vulnerability of some specialist sectors, such as obstetrics and gynecology, where litigation claims have higher average indemnity payments and higher paid-to-closed ratios than most other medical specialties. In this context, the fundal pressure, also known as Kristelle maneuver, performed during the second part of labor, exposes practitioners to the risk of malpractice lawsuits and potentially unfavorable outcomes, because there is currently insufficient evidence for the routine use of procedure and a significant amount of data concerning maternal-fetal injury are missing due to medicolegal implications. The authors suggest that it would be desirable to draft specifically targeted guidelines or recommendations on maneuvers during vaginal delivery to point out exactly what kinds of maneuvering techniques are to be considered appropriate or banned, in order to guide the specialists in their work.
Sede di Medicina Legale, Dipartimento di Scienze Cardiologiche, Toraciche e Cardiovascolari, Università degli Studi di Padova. ** Dipartimento di Salute della Donna e del Bambino, Università degli Studi di Padova. *
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1. Premessa Negli ultimi anni, si è assistito nella realtà occidentale ad una crescita esponenziale dei casi di responsabilità professionale che afferiscono all’autorità giudiziaria, prevalentemente, ove la realtà dei servizi sanitari è maggiormente evoluta. I presupposti di tale fenomeno si riconoscono in ragione di una progressiva crescita culturale e socio-economica, accompagnata da una sempre maggior consapevolezza del singolo cittadino, e della collettività nel complesso, circa i propri diritti, con conseguente mutamento delle proprie aspettative nei confronti del Servizio Sanitario e delle prestazioni professionali mediche. Tale realtà ha comportato nel tempo un significativo trend, sostanziato non soltanto da uno spiccato aumento dei costi di gestione dei sinistri, delle spese legali e di giustizia, ma anche del Sistema Sanitario tout court, avendo alimentato il cosiddetto fenomeno della “medicina difensiva”, per la quale si registrano ogni anno aumenti delle spese mediche e degli esami a cui il paziente viene sottoposto, nel tentativo da parte del professionista sanitario di ridurre le probabilità di contenzioso. Il settore specialistico dell’ostetricia-ginecologia risulta peraltro tra quelli a maggior incidenza in termini di entità dei risarcimenti e trend di crescita temporale, interessando in modo economicamente importante anche i medici in formazione specialistica. Si rende pertanto imprescindibile, nel novero della disamina di argomenti inerenti la responsabilità professionale medica, e con particolare riguardo al delicato campo dell’ostetricia, frequentemente bersaglio di contenziosi giuridici, una riflessione in merito agli aspetti medico-legali che scaturiscono dall’applicazione di “pratiche” e/o “manovre” cliniche non sempre di comprovato valore scientifico, e.g. la “manovra di Kristeller”, frequentemente adottate nonostante gli attuali orientamenti giurisprudenziali dettati dal legislatore sui principali aspetti della materia in discorso (Legge 8 marzo 2017, n. 24) che richiamano il professionista ad attenersi alle buone pratiche cliniche ed alle raccomandazioni previste dalle linee guida redatte dalle società scientifiche.
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2. La responsabilità professionale in ostetricia 2.1. I presupposti giuridico-deontologici della responsabilità professionale medica Il fenomeno del contenzioso giudiziario in ambito sanitario trova fondamento nella lesione del bene salute, ovvero di quel diritto fondamentale che consente all’individuo di integrarsi nel suo ambiente naturale e sociale, la cui compromissione impone il risarcimento del danno a prescindere dalla capacità del danneggiato di produrre reddito (danno biologico). A partire dalle direttive fondamentali stabilite dalla Conferenza Internazionale della Sanità (New York, 1946) e recepite dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), la salute è definita come: “uno stato di completo benessere fisico, mentale, sociale e non consiste soltanto nell’assenza di malattie o infermità. Il possesso del migliore stato di sanità che si possa raggiungere costituisce uno dei diritti fondamentali di ciascun essere umano”. In linea con la dichiarazione dell’OMS, le principali Convenzioni Internazionali sanciscono il diritto alla salute come uno dei diritti fondamentali dell’individuo e della collettività. Parimenti, ai sensi dell’articolo 32 della Costituzione Italiana, “la Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti”. Tale diritto si concretizza in un complesso di regole e servizi volti alla promozione ed al mantenimento del benessere psico-fisico della popolazione1. Il principio e la definizione del bene “salute” quale interesse individuale giuridicamente e costituzionalmente tutelato, rendono conto del grande interesse della società rispettivamente alla garanzia del diritto alla salute, divenuto pertanto sempre più oggetto di contenzioso legale. Di pari passo, la fattispecie giuridica della responsabilità professionale medica in Italia, come nel resto d’Euro-
Angioni et al., The legal and forensic value of the guidelines, in P&R Scientific, 2011; 1 (1): 16-21. 1
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pa, configura un tema di grande attualità per la crescente considerazione che, a livello sociale, viene dedicata al diritto alla salute, fondamentale e degno della massima tutela. Se da una parte, infatti, le nuove acquisizioni in ambito diagnostico-terapeutico hanno contribuito al miglioramento delle prospettive di guarigione e di benessere della popolazione ed alla diminuzione dei rischi intrinseci a determinati atti medico-chirurgici, si sta assistendo per contro ad un aumento della richiesta risarcitoria per presunti errori medici. In tale contesto vi è stata un’evoluzione della normativa che passando attraverso il decreto Balduzzi è approdata nella oramai non più recente legge Gelli-Bianco che ha cercato di modificare la previgente disciplina nel tentativo di trovare un corretto bilanciamento tra la tutela della salute del paziente e la tenuta del sistema sanitario, apportando significativi cambiamenti sia sul versante civilistico, sancendo definitivamente la natura extracontrattuale della responsabilità del medico, sia su quello penalistico, inserendo una causa di esclusione della punibilità ad hoc. 2.2. Evidence Based Medicine e responsabilità professionale medica In ambito di responsabilità professionale medica, la valutazione della correttezza dell’operato medico da parte del giudice rappresenta un percorso logico-valutativo di particolare impegno e difficoltà, dovendosi identificare la sussistenza di errori e/o inosservanze di doverose regole di condotta che abbiano configurato un profilo di “colpa”, che può derivare da generiche imprudenza, imperizia o negligenza nell’atto medico (colpa generica), ovvero da inosservanza di leggi, regolamenti, ordini o discipline (colpa specifica). L’identificazione di profili “colposi” è pertanto conseguente alla sussistenza di inosservanze di specifiche regole di comportamento volte a prevenire il verificarsi di un danno. L’individuazione delle regole di condotta, la cui trasgressione dà luogo a colpa, può essere compiuta solo attraverso l’identificazione, rigorosamente ex-ante, della prevedibilità e della
evitabilità dell’evento dannoso2. L’errore vero in ambito medico si identifica quindi in un’azione che, alla luce della Medicina delle Evidenze, sia giudicata inopportuna e/o svantaggiosa; errore, quindi, definito come tale secondo il criterio di probabilità scientifica, secondo assunti statistico-epidemiologici o secondo credibilità razionale, per i quali l’evento dannoso possa essere giudicato prevedibile e pertanto prevenibile e/o evitabile. Nella valutazione della condotta medica è necessario accertare se il sanitario, avvalendosi del background culturale e dei livelli di competenza caratteristici della propria categoria professionale, abbia correttamente definito in termini prognostici il succedersi degli eventi ed abbia pertanto formulato correttamente diagnosi e procedure terapeutiche. A fronte di tale definizione medico-legale di errore e di inosservanza di doverosa regola di condotta, si farà riferimento, nella valutazione dell’operato medico da parte del Giudice, alla “leges artis”, sostanziata, in termini concreti, da principi di comportamento che siano frutto di consolidata esperienza, corroborata attraverso sistematiche revisioni critiche da parte della comunità scientifica. Il principio di pratica medica ispirata alle più recenti acquisizioni e conoscenze scientifiche e, pertanto, il monito al professionista sanitario ad una costante revisione ed aggiornamento del proprio bagaglio culturale, costituisce inoltre uno dei fondamentali richiami deontologici al medico, allorché, all’articolo 12, il Codice di Deontologia Medica sottolinea che “[…] le prescrizioni e i trattamenti devono essere ispirati ed aggiornati a sperimentate acquisizioni scientifiche anche al fine dell’uso appropriato delle risorse, sempre perseguendo il beneficio del paziente. Il medico è tenuto ad un’adeguata conoscenza della natura e degli effetti dei farmaci, delle loro indicazioni, controindicazioni, interazioni e prevedibili reazioni individuali, nonché delle caratteristiche di impiego dei mezzi diagnostici e terapeutici e deve
Valmassoi, Le Linee-Guida nella pratica clinica: considerazioni giuridiche, in Minerva Anestesiol., 2000; 66:479-85. 2
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adeguare, nell’interesse del paziente, le sue decisioni ai dati scientifici accreditati e alle evidenze metodologicamente fondate”. In tale contesto viene quindi a definirsi l’importanza della cosiddetta Evidence Based Medicine (EBM), come strumento di guida per il professionista sanitario nelle scelte di condotta diagnostico-prognostico-terapeutiche3. La diffusione della Medicina Basata sulle Evidenze ha peraltro trovato piena corrispondenza istituzionale nella stesura di specifiche linee guida dapprima richiamate dal Programma Nazionale Linee Guida (PNLG) introdotto dal Piano Sanitario Nazionale 1998-20004 e, successivamente, divenute un dettame normativo secondo la legge Gelli-Bianco (art. 5), in cui si rimanda l’operato specialistico al rispetto delle “raccomandazioni previste dalle linee guida come definite e pubblicate ai sensi di legge”5.
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ze disponibili siano correttamente interpretate e delineate (validità); che a partire dalle medesime evidenze scientifiche siano desumibili le medesime conclusioni da parte di più esperti revisori (riproducibilità); che tutte le discipline più importanti abbiano contribuito allo sviluppo della linea guida (rappresentatività); che il gruppo cui esse sono destinate sia chiaramente definito (applicabilità clinica); che venga utilizzata una terminologia precisa (chiarezza). L’interesse medico legale al tema delle linee guida assume rilievo allorché si debba procedere alla valutazione della condotta medica in tema di responsabilità professionale. Come precedentemente illustrato, la condotta medica deve sottendere a norme e principi, di derivazione deontologica e giuridica, la cui mancata osservanza, per inadeguate perizia, prudenza e/o diligenza, implica la definizione di “colpa”. L’operatore sanitario, medico o paramedico, assume in altri termini una posizione di garanzia nei confronti della tutela della salute, diritto fondamentale dell’individuo. Nell’arduo compito di valutazione della condotta medica da parte del giudice, questi avrà il compito di valutare se l’operato clinico sia stato conforme ai dettami ed alle conoscenze disponibili nello specifico momento storico di accadimento dell’evento, facendo riferimento non già alla soggettività dell’esperienza del singolo, bensì a conoscenze accreditate, consolidate a seguito di processi di corroborazione e di revisioni della comunità scientifica. È pertanto in tale contesto che linee guida, così come documenti di consenso, protocolli, trattati di riferimento e letteratura scientifica (concorrenti a definire la “Evidence Based Medicine”), assumono rilievo medico legale in sede giuridica, inquirente e giudicante, come sancito dall’art. 5 della novella n. 24 del 7 aprile 20177. In sede civile, la verifica del comportamento del professionista in relazione alle buone pratiche cliniche, servirà al giudice per definire l’ammontare del risarcimento; nell’ambito penale, l’aver rispet-
Viero, Montisci, Prospettive della responsabilità sanitaria alla luce della c.d. legge Gelli Bianco (L. 24/2017). L’apporto medico-legale, op. cit.
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2.3. Linee guida: implicazioni medico-legali La progressiva diffusione negli ultimi anni di raccomandazioni, linee guida e protocolli, testimonia l’esigenza della comunità scientifica di ordinare il sapere medico in sistemi conoscitivo-operativi, finalizzati al raggiungimento di elevati standards di qualità6. Le linee guida, la cui finalità ed il cui ruolo consistono nell’orientare il medico alla miglior gestione delle problematiche cliniche, devono, in quanto tali, essere soggette a costanti revisioni, rispecchiando la conoscenza medico-scientifica più recente, compito attualmente demandato al Sistema Nazionale per le Linee Guida (SLNG) istituito dal Ministero della salute. Lo sviluppo di linee guida impone infatti: che le conoscen-
Viero, Montisci, Prospettive della responsabilità sanitaria alla luce della c.d. legge Gelli Bianco (L. 24/2017). L’apporto medico-legale, in questa Rivista, 2018, 223-227. 3
Ferrara, Pfeiffer, Unitariness, evidence and quality in bio-medicolegal sciences, in Int J Legal Med., 2010; 124(4): 343-4. 5
Valmassoi, Le Linee-Guida nella pratica clinica: considerazioni giuridiche, op. cit. 6
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Viero, Montisci, Prospettive della responsabilità sanitaria alla luce della c.d. legge Gelli Bianco (L. 24/2017). L’apporto medico-legale, op. cit.
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tato le raccomandazioni previste dalle linee guida, potrà comportare per il medico, ai sensi dell’art. 6 della citata novella, l’esclusione di punibilità in caso di imperizia (esimente) per i reati di lesioni personali ed omicidio colposo. Per contro, è importante considerare che le linee guida non assumono e non assumeranno mai valore di “verità”, essendo esse rappresentative della conoscenza scientifica di un dato periodo storico e, pertanto, “relative”. La leges artis non deve quindi essere tassativamente interpretata come insieme di inderogabili norme di condotta cui il medico deve soggiacere, bensì come orientamento, di carattere più o meno specifico e dettagliato, alla risoluzione di problemi, soggetto a potenziale mutamento nel tempo8. D’altro canto nella stessa norma, all’art. 5, è esplicito il richiamo alle raccomandazioni previste dalle linee guida, ovvero, in mancanza di queste alle buone pratiche clinico-assistenziali, purché le stesse “risultino adeguate alle specificità del caso concreto”, conferendo potere di autonomia decisionale al medico. Quest’ultimo potrà infatti autodeterminarsi nell’applicazione dei mezzi che egli ritenga maggiormente opportuni ai fini della risoluzione delle specifiche problematiche cliniche, potendo egli disattendere le indicazioni fornite dalle linee guida, ovvero potendo applicare discrezionalmente metodiche diagnostico-terapeutiche di propria scelta in caso di assenza di linee guida o di altre indicazioni della comunità scientifica, purché nel rispetto delle best practices9.
3. La Manovra di Kristeller 3.1. Evidenza scientifica e raccomandazioni nazionali/internazionali La manovra di Kristeller, altrimenti detta “Fundal pressure”, consiste nell’applicazione di pressione, esercitata con le mani e/o con il braccio dell’operatore, a livello del fondo uterino, coadiuvando le forze espulsive naturali e facilitando la progressione ed il disimpegno fetale attraverso il canale vaginale. Tale metodica nacque originariamente, alla fine del ‘900, allo scopo di ridurre le tempistiche del secondo stadio di travaglio, in particolare in casi di sofferenza fetale acuta per i quali si rendesse necessaria l’espulsione rapida del feto. Nella valutazione degli aspetti medico-legali inerenti tale pratica è necessaria, come illustrato nelle premesse giuridico-deontologiche alla valutazione della responsabilità professionale, una preliminare disamina delle evidenze cliniche più aggiornate, attraverso la valutazione delle raccomandazioni desumibili dalle linee guida nazionali ed internazionali, dai trattati di riferimento e dalla letteratura scientifica di merito. Va sottolineato come la manovra di Kristeller necessiti ai fini della sua realizzazione, condizioni ginecologico-anatomiche permittenti, sostanziate dall’assenza di sproporzione feto-pelvica, dall’assenza di ostacoli alla progressione fetale costituiti da parti molli materne e dalla mancata sovra-distensione del segmento inferiore pelvico. È, inoltre, preferibile non porre in essere la manovra prima che la parte presentata abbia raggiunto il piano perineale10. In ordine alle complicanze descritte in trattatistica, si annoverano contusioni uterine e/o peritoneali, distacco intempestivo di placenta, rottura d’utero, lesioni viscerali materne, fratture costali o sternali, lacerazioni perineali di terzo o quarto grado11.
Dickens, Cook, The legal effects of fetal monitoring guidelines, in Int J Gynaecol Obstet., 2010; 108: 170-173. 8
A tale riguardo, secondo l’orientamento giurisprudenziale e di Corte costituzionale “la pratica dell’arte medica si fonda sulle acquisizioni scientifiche e sperimentali, che sono in continua evoluzione […] La regola di fondo in questa materia è costituita dall’autonomia e dalla responsabilità del medico, che, sempre con il consenso del paziente, opera le scelte professionali basandosi sullo stato delle conoscenze a disposizione” (Corte cost., 26.6.2002, n. 282). 9
10 Pescetto et al., Ginecologia e Ostetricia, vol. II, Roma, 2009.
Matsuo et al., Use of uterine fundal pressure maneuver at vaginal delivery and risk of severe perineal laceration, in Arch Gynecol Obstet., 2009; 280(5):781-6. 11
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A carico del feto, sono più frequentemente segnalate fratture di femore o altre ossa, morte perinatale, emorragia intracranica e sottogaleale, compressioni funicolari, alterazioni della circolazione intervillosa con possibilità di trasfusione feto-materna e possibile microembolismo trofoblastico o amniotico. In particolare, viene descritta quale controindicazione relativa l’effettuazione della manovra a carico di partorienti precedentemente sottoposte a parto cesareo ovvero ad altri interventi chirurgici a carico dell’utero, nonché in casi di gravidanze gemellari. L’eccessiva pressione sul fondo uterino è descritta in associazione ad incrementi di pressione intracranica fetale, sino a quadri di significativo decremento del flusso cerebrale con pattern di FCF patologici. La compressione del funicolo e le alterazioni funzionali nello spazio intervilloso causate dalla compressione sul fondo dell’utero possono compromettere lo stato fetale determinando ipossia ed asfissia fetale. Come desumibile da quanto sopra sinteticamente riportato, sono quindi descritte numerose “complicanze”, a fronte di un unico beneficio (accelerazione della fase di disimpegno senza ausilio di mezzi meccanici). Passando poi alla revisione delle raccomandazioni internazionali inerenti la procedura, emerge come la maggior parte dei trattati e dei manuali di riferimento nel contesto centro-europeo e nella realtà anglosassone, non descrivano tout court la manovra. Essa è inoltre non ammessa o scoraggiata in Olanda, Irlanda, Austria, Germania, Francia, Gran Bretagna, Svizzera e Slovenia12. Revisioni sistematiche della letteratura (Cochrane reviews) concludono affermando l’assenza di evidenza scientifica in ordine alla appropriatezza ed alla sicurezza della manovra di Kristeller nell’accelerazione del secondo stadio di travaglio13.
V. Simpson, Knox, Fundal pressure during the second stage of labor, in Am J Matern Child Nurs., 2001; 26(2): 64 -70. Si veda altresì Clinical Practice Guidelines, Use of fundal pressure during the second stage of labour. Formal consensus – Haute Autorité de Santé – 2007.
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Tale assenza di evidenza è infine sostanziata dall’assenza di concrete, sistematiche indicazioni da parte della comunità scientifica nazionale, non essendovi, nel novero delle linee guida più recenti, precise indicazioni all’effettuazione della metodica. Alcune linee guida, come quelle del Regno Unito e degli Stati Uniti, vietano nella pratica ostetrica l’uso di tale procedura nel corso del travaglio di parto solo nei casi di possibile rischio di distocia di spalla, mentre non ne definiscono chiaramente l’applicazione in presenza di altre condizioni neonatologiche14. 3.2. Interpretazione delle evidenze scientifiche e considerazioni medicolegali Le evidenze scientifiche ad oggi disponibili in merito alla manovra di Kristeller sono indicative di quanto di seguito sinteticamente esposto. a. È descritto un elevato numero di possibili complicanze, a fronte di un singolo potenziale vantaggio; b. Il rapporto rischio-beneficio risulta largamente sfavorevole; c. Le possibili complicanze della tecnica sono ampiamente descritte in trattatistica, pertanto tutte classificabili come “prevedibili”; d. Molte delle complicanze descritte (e.g. contusioni viscerali materne e/o fetali; fratture materne e/o fetali; compressioni funicolari) sono riconducibili ex-post con certezza alla manovra, essendo pertanto giudicate “evitabili” con difformi condotte sanitarie; e. Non vi sono indicazioni univoche, ufficiali ed unanimi da parte della comunità scientifica internazionale; tuttavia, vi è una evidente preponderanza di raccomandazioni alla non effettuazione della pratica. Pertanto, si può concludere affermando che il professionista sanitario, ferma restando l’autonomia nella scelta dei mezzi e delle procedure ap-
12
Hofmeyr et al., Pressure during the second stage of labour, in Cochrane Database Syst. Rev., 2017; 7: 3. 13
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Zaami et al., Fundal pressure: risk factors in uterine rupture. The issue of liability: complication or malpractice?, in J Perinat Med., 2018. 46 (5): 567-568. 14
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plicabili in ciascun specifico caso, ha il dovere giuridico-deontologico di essere edotto ed aggiornato circa i dati scientifici consolidati ed accreditati, al fine di porre in essere le metodiche e le procedure più appropriate (id est scientificamente valide), nell’interesse del paziente. A fronte della mancanza di raccomandazioni favorevoli all’effettuazione della pratica, nonché a fronte delle evidenze scientifiche indicative di uno sfavorevole rapporto rischio-beneficio e di un elevato tasso di complicanze certamente prevedibili, alcune delle quali evitabili con difforme condotta, il professionista sanitario che si accingesse all’applicazione della metodica deve avere consapevolezza che, dal punto di vista medico-legale, dovrà assumersi la responsabilità degli eventuali danni cagionati alla gestante e/o al feto, con relativo onere della prova (a propria discolpa) in caso di valutazione della condotta in ambito giudiziario.
4. Problematiche in caso di danno alla madre e/o al feto 4.1. Valutazione della condotta sanitaria ostetrico-ginecologica La legge Gelli-Bianco, all’art.7, è intervenuta a disciplinare la responsabilità civile, introducendo un “doppio binario” di responsabilità: – quella della struttura sanitaria che risponde sempre a titolo contrattuale per fatto proprio ex art. 1218 c.c. (a causa dell’inadempimento di una prestazione gravante direttamente sulla struttura), ovvero per fatto derivato dalle condotte poste in essere dai dipendenti o degli ausiliari ex art. 1228 c.c., anche laddove i professionisti siano stati scelti dal paziente e non siano dipendenti della struttura; – quella degli esercenti la professione sanitaria, che sarà invece generalmente di natura extracontrattuale ex art. 2043 c.c., salvo, però, essere contrattuale nel caso in cui il paziente si sia rivolto direttamente al medico incaricandolo di eseguire una prestazione. Nel caso di malpractice, anche in campo ostetrico-ginecologico, viene quindi riconosciuto al danneggiato (madre e/o feto) il diritto di poter cumulare le proprie azioni risarcitorie (nei con-
fronti della struttura e del medico) con aspetti giuridico-procedurali che si differenzieranno in relazione al riparto dell’onere probatorio ed ai termini di prescrizione dell’azione. Nei giudizi vertenti in ambito di responsabilità contrattuale, il paziente danneggiato, entro dieci anni dal verificarsi dell’evento, si limiterà a provare che esiste un contratto con il sanitario danneggiante e che è insorto o si è aggravato uno stato di malattia, per poi semplicemente affermare che il sanitario danneggiante ha posto in essere un inadempimento astrattamente idoneo a determinare la condizione patologica. Nella responsabilità extracontrattuale, invece, colui il quale agisce, sostenendo di aver subito un danno, è tenuto a provare, entro cinque anni, l’effettiva verificazione del danno lamentato, che questo è imputabile al danneggiante, il danno subito ed il nesso di causalità materiale tra fatto e conseguenze di nocumento. Ancorché il focus delle azioni giudiziarie, alla luce di quanto indicato, si sia spostato nei confronti della struttura ospedaliera lasciando maggior respiro al professionista, la specializzazione ostetrico-ginecologica continua ad essere una delle “massime unità di rischio” con risarcimenti per malpractice che risultano essere tra i più elevati nel settore sanitario, coinvolgendo spesso economicamente anche i medici in formazione specialistica. Si deve poi considerare che in ambito sanitario, cosi come in ogni altra prestazione d’opera intellettuale, l’orientamento giurisprudenziale e di Suprema Corte prevede che la dovuta diligenza si traduca concretamente nella cosiddetta “obbligazione di mezzi”, dovendo il professionista impegnarsi ad applicare tutti i migliori mezzi, diagnostico-prognostico-terapeutici, necessari al conseguimento del risultato nell’interesse del paziente15. Nello specifico, i mezzi che il professionista è giuridicamente tenuto ad utilizzare devono essere coerenti con i dettami della metodologia clinica, basata sull’utilizzo di conoscenze accre-
Cass., 13.4.2007, n. 8826, in Nuova giur. civ. comm., 2007, II, 445.
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ditate e corroborate, appartenenti pertanto alla “Medicina dell’Evidenza”. Analogamente, dal punto di vista deontologico (Codice deontologico - 2006) il medico è tenuto ad “attenersi alle conoscenze scientifiche” (art. 5); “le prescrizioni e i trattamenti devono essere ispirati ad aggiornate e sperimentate acquisizioni scientifiche” (art. 13); vige infine l’obbligo deontologico di “mantenersi aggiornati in materia tecnico-scientifica, etico-deontologica e gestionale-organizzativa, onde garantire lo sviluppo continuo delle sue conoscenze e competenze in ragione dell’evoluzione dei progressi della Scienza” (art. 19). Nella valutazione della condotta del sanitario da parte del giudice, è evidente che i parametri di valutazione della perizia, della diligenza e della prudenza debbano basarsi sull’evidenza scientifica consolidata ed accreditata, al fine di garantire la massima obiettività nella valutazione e nel giudizio. La Medicina dell’Evidenza è quindi il parametro di riferimento per identificare la sussistenza di errori e/o di inosservanze di doverose regole di condotta. Calandosi nel contesto pratico, nel caso di danno al paziente si dovrà stabilire, facendo riferimento alle evidenze scientifiche consolidate ed attraverso un ragionamento ex-ante, se esso fosse: 1) non prevedibile e pertanto non evitabile (non si configura l’errore e la responsabilità del professionista è esclusa); 2) prevedibile, in quanto rientrante fra le “complicanze” note della pratica adottata, ma non evitabile con difforme condotta (non si configura l’errore); 3) prevedibile ed evitabile con difforme condotta, ovvero non raccomandato o non indicato (errore vero e responsabilità del professionista). La prevedibilità dell’evento, come più volte ribadito, scaturisce dalla sussistenza di evidenze di trattatistica e letteratura. Prendendo ora in esame casi di danno conseguenti all’applicazione della manovra di Kristeller, gli eventi negativi cagionabili a seguito della messa in atto della manovra sono ampiamente illustrati e documentati nella Letteratura di riferimento oste-
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trico-ginecologica e non vi sono pertanto dubbi in merito alla loro prevedibilità. Posta la prevedibilità del danno, si tratterà dunque di stabilire se quest’ultimo fosse: 1) evitabile attraverso l’applicazione di manovre/ presidi maggiormente accreditati dal punto di vista scientifico, così configurando un errore commissivo sostanziato da errata scelta terapeutica, identificativo di responsabilità del professionista; 2) non evitabile, nel caso in cui l’applicazione della manovra fosse, nel caso concreto e per le specifiche condizioni clinico/organizzative del momento, l’unica/la migliore opzione disponibile nell’interesse della paziente, circostanza identificativa dell’esclusione di profili di responsabilità in capo al professionista. Si evidenzia tuttavia, sotto il profilo giurisprudenziale, come nel caso della responsabilità extracontrattuale il danneggiante risponde sempre di tutti i danni che il danneggiato ha subito, anche quelli che non potevano prevedersi al momento in cui è sorta l’obbligazione (quando è stato commesso l’illecito). Ergo, l’insorgenza di un evento iatrogeno (legato alla procedura sanitaria), relativamente comune e descritto in letteratura, rientrante nel novero delle c.d. complicanze, prevedibili ma non evitabili, non sempre è scevro da conseguenze sotto il profilo giuridico civilistico. In merito, per consolidato orientamento giurisprudenziale16, il lemma “complicanza” identifica “un evento dannoso, insorto nell’iter terapeutico, che pur essendo astrattamente prevedibile, non sarebbe evitabile”; in quest’ottica, la Suprema Corte17 ha ribadito che in caso di insorgenza di un peggioramento delle condizioni del paziente con evento di danno: 1. “o tale peggioramento era prevedibile ed evitabile, ed in tal caso esso va ascritto a colpa del medico, a nulla rilevando che la statistica lo annoveri in linea teorica tra le complicanze;
Cass., 30.6.2015, n. 13328, in Resp. civ. e prev., 2015, 1990 ss. 16
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Cfr. nota 16.
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2. ovvero tale peggioramento non era prevedibile oppure non era evitabile: ed in tal caso esso integra gli estremi della causa non imputabile di cui all’art. 1218 c.c., a nulla rilevando che la statistica clinica non lo annoveri in linea teorica tra le complicanze”. 4.2. Nesso di causa tra condotta e danno materno e/o fetale A seguito dell’analisi della condotta, una volta identificata la sussistenza di errore e/o di inosservanza di doverosa regola di condotta, si procederà alla valutazione della valenza causale dell’errore rispetto al danno. Il nesso di causalità materiale (per condotta omissiva o commissiva) rappresenta infatti condizione indispensabile per l’affermazione della responsabilità professionale. L’accertamento della valenza causale dell’errore/ inosservanza e, conseguentemente, l’identificazione della responsabilità professionale, implica criteri valutativi diversi per ambito giuridico, essendo diverse le finalità perseguite dal diritto civile e da quello penale (di natura principalmente risarcitoria in civile, sanzionatoria in penale). Si ricorre infatti al principio per il quale il grado di probabilità di verificazione dell’evento deve essere inversamente proporzionale all’importanza del bene protetto. In concreto, in sede penale, dovendo prevalere la protezione dell’innocente ed essendo a rischio la libertà individuale del cittadino, fondamentale bene protetto dalla legge, l’accertamento della valenza causale dell’errore dovrà soggiacere ad una estrema rigorosità, potendo emanarsi una sentenza di condanna unicamente a fronte di un giudizio di elevata probabilità – quasi certezza (con livelli probabilistici prossimi a 100%) circa la sussistenza del nesso causale. Diversamente, il bene primariamente protetto in ambito civile, ossia l’interesse risarcitorio del danneggiato, implica la possibilità di ridurre la soglia di rigore, ammettendosi nell’accertamento giudiziale del nesso causale livelli probabilistici di grado quantitativamente inferiore rispetto all’ambito penale (secondo il cd criterio del “più probabile che non”). Calandosi nel contesto della valutazione di ipotesi di responsabilità professionale in caso di danno
derivato dall’applicazione della manovra di Kristeller, potranno essere diversi i giudizi espressi in sede penale e civile, stante il diverso grado di probabilità necessaria all’identificazione del nesso di causa. La manovra è gravata, come illustrato nei precedenti paragrafi, da evidenze controverse, essendovi esigui vantaggi della pratica a fronte di un elevato rischio di complicanze, prevedibili e spesso evitabili mediante l’applicazione di difformi condotte (e.g. utilizzo di forcipe, effettuazione di parto cesareo, etc…). Non vi sono, tuttavia, raccomandazioni univoche ed ufficiali che vietino in maniera tassativa la pratica, dichiarandola obsoleta ovvero nociva. Pertanto, in sede penale potrà essere più difficile, in particolare per determinate tipologie di danno (ad esempio in caso di paralisi cerebrale), l’identificazione della manovra quale causa certa o altamente probabile, escludendo in tal modo profili di responsabilità. Diverso potrà essere invece il percorso accertativo in ambito civile, in cui le evidenze scientifiche di svantaggioso rapporto rischio-beneficio e la non concordanza della comunità scientifica internazionale circa l’ammissibilità della pratica assumeranno maggior rilievo nella definizione di un rapporto causale fra condotta e danno, conducendo più facilmente all’attribuzione di responsabilità in capo all’ostetrica e/o al medico co-responsabile.
5. Conclusioni In epoca recente si è verificata un’evoluzione normativa che ha caratterizzato l’intera materia della responsabilità civile, coinvolgendo prevalentemente il settore sanitario, quale conseguenza della centralità assunta dalla persona e dai suoi valori, specie il bene salute. Grazie inoltre al progresso tecnologico e scientifico, nel rapporto medico-paziente, si è passati da una mera aspettativa di tutela della salute, ad una pretesa di garanzia di risultato, con sviluppo della medicina difensiva ed aumento dei costi sanitari. Nel “microsistema” della responsabilità medica, un ruolo di primario ordine è riservato all’ambito ostetrico-ginecologico, posta la crescita esponenziale del contenzioso che ha interessato gli specialisti del settore, la cui attività è da ritenersi Responsabilità Medica 2020, n. 1
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“a doppio rischio”, per la duplicità dei centri di interesse coinvolti: la donna ed il nascituro. Uno studio americano che ha raccolto i dati relativi alle richieste indennitarie presentate alle compagnie d’assicurazione tra il gennaio 2005 ed il dicembre 2014, oltre a confermare il trend di crescita temporale del fenomeno, ha evidenziato come l’entità dei risarcimenti nel settore ostetrico-ginecologico sia più elevata (+30% circa) rispetto alla maggior parte delle altre specialità mediche18, coinvolgendo spesso i Medici in Formazione specialistica, tenuto conto che non hanno ancora maturato adeguate capacità esperienziali, idonee a soddisfare le richieste di una medicina sempre più basata sulle evidenze scientifiche19. La necessità di operare nel rispetto di quest’ultime, ha rappresentato il filo conduttore del percorso giurisprudenziale che con la Legge Gelli-Bianco ha trovato la sua massima espressione, richiamando il sanitario (all’art. 5) ad osservare le raccomandazioni previste dalle linee guida ovvero, in mancanza di queste, le buone pratiche clinico-assistenziali20. In tale contesto, la manovra di Kristeller, ancorché ad oggi largamente applicata nella maggior parte degli ospedali di tutto il mondo, costituisce una pratica clinica la cui validità scientifica non è riconosciuta. Molti autori, nonché istituzioni come l’American College of Obstetricians and Gynecologists (ACOG) e Cochrane Collaboration21, si esprimono scoraggiando o vietandone l’applicazione, con non poche ripercussioni sotto il profilo della re-
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sponsabilità laddove la manovra venga attuata da parte del ginecologo e dell’ostetrica. A livello internazionale, la procedura (assieme all’episiotomia) è stata addirittura inserita tra gli atti medici che configurano la “violenza ostetrica”, intesa come violazione dei diritti umani che si configura ogni qualvolta che nell’assistenza al parto vengano poste in essere manovre non necessarie, non raccomandate, ovvero obsolete22. Nel merito, si è anche espressa l’Organizzazione Mondiale della Sanità, che a far tempo dal 2014, ha riconosciuto la “violenza ostetrica” come un problema di salute pubblica23, peraltro sottostimato nella sua portata e gravità. Recentemente gli Autori di un documento che ha raccolto dati sull’entità reale del contenzioso relativo alle lesioni provocate dall’esecuzione della manovra di Kristeller24, in esito ad un’approfondita disamina di motori di ricerca generali (PubMed-Medline, Cochrane, Embase, Google, GyneWeb), oltre che di banche dati legali italiane, britanniche e statunitensi (De Jure, Bailii; WestLaw, Thomson Reuters, ecc), hanno concluso che il fenomeno è molto più ampio di quanto non appaia attraverso i canali ufficiali. Ciò in ragione del fatto che una quantità significativa di informazioni relative al danno materno-fetale derivato dalle procedure e/o manovre finalizzate ad accorciare la seconda fase del travaglio di parto, non vengono annotate nei documenti sanitari, causa le implicazioni medico-legali che ne possono derivare.
Sul punto si vedano Jardim, Modena, Obstetric violence in the daily routine of care and its characteristics, in Rev Lat Am Enfermagem, 2018, 29; 26: e3069; Lansky et al., Obstetric violence: influences of the senses of birth exhibition in pregnant women childbirth experience, in Cien Saude Colet, 2019 5; 24(8): 2811-2824. 22
18 Glaser et al., Trends in malpractice claims for obstetric and gynecologic procedures, 2005 through 2014, in Am J Obstet Gynecol., 2017; 217: 340.e1-340.e6. 19 Glover et al., Schaffer A. Characteristics of Paid Malpractice Claims Among Resident Physicians from 2001 to 2015 in the United States, in Acad Med., 2020 Feb;95(2):255-262.
Viero, Montisci, Prospettive della responsabilità sanitaria alla luce della c.d. legge Gelli Bianco (L. 24/2017). L’apporto medico-legale, cit. 20
Hofmeyr et al., Fundal pressure during the second stage of labour, in Cochrane Database Syst Rev, 2017; 7:3. 21
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Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), La Prevenzione ed eliminazione dell’abuso e della mancanza di rispetto durante l’assistenza al parto presso le strutture ospedaliere, Ginevra, 2014. 23
Malvasi et al., Kristeller maneuvers or fundal pressure and maternal/neonatal morbidity: obstetric and judicial literature review, in J Matern Fetal Neonatal Med., 2019; 32(15): 2598-2607. 24
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Peraltro, sempre in riferimento alla manovra di Kristeller, non esiste un’unica procedura di pressione sul fondo uterino in sé identificata e descritta in modo uniforme, ma una varietà di tecniche che si differenziano in intensità, modalità di applicazione e utilizzo, ovvero in una serie di condizioni di carattere spesso empirico/soggettivo non facilmente standardizzabili ai fini di un accordo o consenso universale sull’efficacia o meno della pratica durante il parto25. Alla luce di quanto indicato appare di evidenza palmare come la manovra non possa soddisfare il principio guida di pratica medico-sanitaria basata sulle “Evidenze”, ovvero fondata sull’applicazione delle migliori metodologie, conoscenze e prassi operative derivanti dal consenso della comunità scientifica e Professionale di riferimento e basate su dati scientifici oggettivi, consolidati e comprovati a livello di efficacia (c.d. “Piramide delle Evidenze”, di crescente oggettività e valore probatorio). Tali argomentazioni non potranno essere ignorate dal professionista ostetrico, tenuto peraltro conto che numerosi tribunali, sia negli Stati Uniti d’America (USA) che negli Stati membri dell’Unione Europea (UE), hanno decretato l’uso della manovra stessa, assumendo una posizione favorevole alla presunzione di colpa nei confronti di quei medici e operatori sanitari che ne hanno fatto ricorso nell’assistenza ostetrico-ginecologica di una paziente. Pertanto, tenuto conto che la manovra di Kristeller costituisce ancora oggi una controversa procedura ostetrica, lo specialista che scelga di metterla in pratica dovrà prestare particolare attenzione al proprio processo decisionale valutando accuratamente, in riferimento al caso concreto ed alle circostanze cliniche ed organizzative del momento, i potenziali vantaggi, le prevedibili complicanze,
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il rapporto rischio-beneficio e le possibili alternative terapeutiche, con particolare riferimento all’opportunità di applicare metodiche/presidi maggiormente accreditati e scientificamente validati. L’auspicio concreto è che le società scientifiche, anche alla luce della citata novella Gelli-Bianco, redigano linee guida o raccomandazioni specificamente mirate alle manovre durante il parto vaginale, in cui indicare esattamente quali tipi di tecniche devono essere assolutamente vietate e quali manovre possono essere consentite e in quali condizioni l’applicazione può essere considerata appropriata, al fine di fornire un supporto scientifico capace di validare l’operato specialistico laddove, in caso di eventuali eventi negativi, il sanitario venga chiamato a dimostrare la correttezza della propria condotta.
Si vedano Merhi, Awonuga, The role of uterine fundal pressure in the management of the second stage of labor: a reappraisal. Review., in Obstet Gynecol Surv., 2005; 60: 599-603; Matsuo et al., Use of uterine fundal pressure maneuver at vaginal delivery and risk of severe perineal laceration and aneedforepisiotomy, in Arch Gynecol Obstet., 2009; 280: 781786. 25
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