Feltrino News n. 2/2020 Novembre

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N° 2 - Novembre 2020 - Supplemento del periodico Valsugana News

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L’editoriale di Waimer Perinelli

IL VIRUS DEMOCRATICO Donald Trump, Boris Johnson, Silvio Berlusconi... Sono alcuni degli uomini politici famosi, perfino ministri alla sanità, colpiti ma non affondati, grazie al tempestivo intervento sanitario, dal Corona 19, il virus che non ha risparmiato nemmeno le teste coronate come il principe Carlo d’Inghilterra e Alberto di Monaco o attori e divi come Flavio Briatore, Giuliana De Sio, Tom Hanks, Paulo Dybala, Cristiano Ronaldo. Un lungo elenco di ammalati a causa di un virus democratico.

È

vero non guarda in faccia nessuno ma a morire sono soprattutto i poveri, quelli ai quali una voce anonima suggerisce di restare in casa e curarsi “ Se poi si aggrava richiami”. Quelli che, non sono poveri ma vivono in comunità forzate, in strutture per anziani. Gli spavaldi che sfidano il virus convinti che la movida lo spaventi o sopravvalutano le difese immunitarie del proprio corpo. Attenti, perché fra le decine di contraddittorie teorie di virologi, immunologi, medici di base c’è anche quella che attribuisce ad una eccessiva reazione di anticorpi del proprio fisico la causa della morte: è come, dicono, se per distruggere una zanzara si impiegasse una bomba in casa. E mentre fioriscono ipotesi si scatenano i tamponamenti sui quali pure esiste qualche ambiguità. Un fotografo padovano è passato dall’essere negativo al positivo in mezz’ora. Tamponando in massa si è scoperto che, beati loro, ci sono quelli che il virus ce l’hanno ma non ne subiscono i danni. Alessandro

Manzoni li avrebbe messi fra gli untori. Non è perciò sufficiente chiudersi in casa perché il Covid potrebbe già essere fa di noi. Il premier Giuseppe Conte rassicura: a fine dicembre avremo il vaccino. C’è chi in economia con il Virus ci convive benissimo. Carlo Bonomi, presidente di Confindustria e industriale del settore biomedicale, parla di economia di guerra. E’ possibile e credibile che l’industria trainante non potendo essere quella dei carri armati e delle bombe, sia la sua. Ma durante una guerra mentre gli uomini, e le donne, muoiono al fronte aumentano le forze lavoro e non si licenzia, come chiede Maurizio Landini leader della Cgil. E invece crescono come una pandemia i vergognosi contratti atipici, co.co. co, i lavoratori a chiamata, anche oraria. Per i corrieri più fortunati anche due o tre euro a pacco consegnato. Crescono così soprattutto i miliardi dei miliardari. Milena Gabanelli riporta sul Corriere della Sera, non smentita, che negli USA

da marzo a settembre il conto bancario di 643 persone è salito di 845 miliardi di dollari mentre 50 milioni di persone hanno perso lavoro e 14 milioni sono ancora disoccupati. Duemilacentocinquantatre (2153) miliardari nel mondo hanno più risorse di 4,6miliardi di persone messe assieme. In Italia Giovanni Ferrero, il re della Nutella, nel 2019 ha guadagnato 8,73 miliardi portando il suo patrimonio a 29 miliardi. E trova il tempo per scrivere romanzi. Paese che vai pandemia che trovi: in Cina dove è nato il Covid, la peste suina ha permesso al miliardario allevatore di guadagnare fior di miliardi aumentando il prezzo della carne. La cosa che infastidisce maggiormente è che, grazie alla legge, questi signori fondano società offshore in paradisi fiscali. Eppure secondo il calcolo di Oxfam, società impegnata nella lotta alla povertà, una tassazione dello 0,5% in più all’uno per cento dei più ricchi consentirebbe in dieci anni di creare nel mondo 117 milioni di posti di lavoro nella scuola e nell’assistenza sanitaria. Una goccia nel girone dei dannati, come quella di vaccino che a dicembre, forse ci verrà iniettata, nell’attesa o avvento, come sostiene qualche politico illuminato, per vivere non ci resta che convivere con il Virus. È la vita bellezza.

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Sommario DIRETTORE RESPONSABILE Prof. Armando Munaò - 333 2815103 Email: direttore@valsugananews.com CONDIRETTORE dott. Walter Waimer Perinelli - 335 128 9186 email: wperinelli@virgilio.it REDAZIONE E COLLABORATORI dott.ssa Katia Cont (Cultura, arte, cinema e teatro) dott.ssa Elisa Corni (Turismo, storia e tradizioni). dott. Maurizio Cristini (Enologo ed esperto in giochi ed enigmistica) dott.ssa Laura Fratini (Psicologa) Veronica Gianello (Storia, arte,cultura e tradizioni) dott.ssa Francesca Gottardi (Esteri- USA) dott.ssa Laura Mansini (Cultura, arte, tradizioni,attualità) dott. Nicola Maschio (attualità, politica, inchieste) Paolo Rossetti (Attualità, inchieste) - Patrizia Rapposelli (attualità, cronaca) dott.ssa Alice Rovati (Responsabile Altroconsumo) dott. ssa Chiara Paoli (storica dell’arte - ed. museale -cultura e tradizioni) dott. Zeno Perinelli (Avvocato) dott.ssa Laura Mansini (Cultura, arte, attualità) dott. Franco Zadra (politica, attualità) dott.ssa Erica Zanghellini (Psicologa) CONSULENZA MEDICO - SCIENTIFICA Dott. Francesco D’Onghia - Dott. Alfonso Piazza Dott. Giovanni D’Onghia - Dott. Marco Rigo- Dott. Francesco D’Onghia RESPONSABILE PUBBLICITÀ: Gianni Bertelle Cell. 340 302 0423 - email: gianni.bertelle@gmail.com IMPAGINAZIONE E GRAFICA : Punto e Linea di Alessandro Paleari - Fonzaso (BL) Cell. 347 277 0162 - email: alexpl@libero.it

Novembre 2020

L’editoriale

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Medicina & scienza: gli antibiotici

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Sommario

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Medicina & Salute: essere genitori

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Attualità. Bauli in piazza

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Benessere & Salute: la depilazione intima

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Qui Italia: situazione carceri

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Medicina & Salute: i farmaci generici

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Le donne nella storia: Nilde Iotti

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Salute & benessere: la frutta, alimento indispensabile

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Politicando: taglio dei parlamentari

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RICERCA PERSONALE

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Società Oggi: la famiglia allargata

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Modi di dire: il primo passo

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Ricordo di un grande: Ennio Morricone

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Ieri avvenne: Irpinia, la terra trema

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L’intervista al G.I.L.F.

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Curiosità nella storia: la prima milionaria d’America

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Feltre: Il Teatro de la Sena

20

Ieri avvenne: 1989, cade il muro di Berlino

76

In filigrana: i nuovi emigranti

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Ecologia, arte e musica

78

Tra passato e presente: le grandi epidemie

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Pensare a noi stessi

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In controluce. Le profetesse di oggi

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Gli occhiali e il Design

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Storie di ieri e di oggi

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Altroconsumo risponde: le bollette inesatte

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Società oggi: piccole Lolite

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Curiosità nel mondo: il premio IgNobel

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Ieri avvenne: il disastro del Vajont

35

Curiosità nel mondo: le aste pazzesche

86

Solidarietà nel mondo: I Lions Clubs

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I nostri piccoli amici: la corretta alimentazione

88

L’Arte nei secoli: Antonio Canova

46

Cosa da mamma…e da papà: il babywearing

89

Conosciamo le aziende: Biasiotto – Vini e Spumanti

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Conosciamo il nostro passato: le ferrovie portatili

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Il nobile fagiolo di Lamon

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Tempo libero: il gin, Re dei cocktails

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Arte, danza ed erotismo: il Burlesque

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Curiosità in tavola: mangiare etnico

Il Burlesque, un gioco sessuale

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Giocherellando

PROPOSTA PROPOSTA33 Tra passato e presente: il Boccaccio e la quarantena 58 EDITORE E STAMPA GRAFICHE FUTURA SRL- Via Della Cooperazione, 33- MATTARELLO (TN) FELTRINO NEWS Supplemento al numero di novembre di VALSUGANA NEWS Valsugana News – Registrazione del Tribunale di Trento: n° 4 del 16/04/2015. COPYRIGHT -Tutti i diritti riservati Tutti i testi, articoli, intervista, fotografie, disegni, pubblicità e quant’altro PROPOSTA 33 su FELTRINO NEWS, sono coperti da copyright GRAFICHE FUTUPROPOSTA pubblicato RA srl e quindi, senza l’autorizzazione scritta del Direttore Responsabile o dell’Editore, è vietata la riproduzione e la pubblicazione, sia parziale che totale, su qualsiasi supporto o forma. Gli inserzionisti che volessero usufruire delle loro inserzioni pubblicitarie, per altri giornali o pubblicazioni, posso farlo richiedendo l’autorizzazione al Direttore Responsabile o all’editore. Quanto sopra specificato non riguarda gli inserzionisti che utilizzando propri studi o agenzie grafiche, hanno TRATTAMENTI PER BENESSERE PSICO FISICO TRATTAMENTI PER ILIL BENESSERE PSICO FISICO prodotto in proprio le loro grafiche e quindi fatto pervenire alla redazione o all’ufficio grafico di FELTRINO NEWS, le loro pubblicità, le loro immagini, Ieri avvenne Il Lions Club Feltre Attenti al cuore i loro testi o articoli. Per quanto sopra GRAFICHE FUTURA srl, si riserva Martin Luther King Castello di Alboino L’infarto cardiaco il diritto di adire le vie legali per tutelare, nelle opportune sedi, i propri +39 392209123 +39 392209123 interessi e la propria immagine. Pagina 22 Pagina 42 Pagina 60

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Attualità di Katia Cont

“BAULI IN PIAZZA”

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l 10 ottobre di questo sfortunato 2020, Piazza del Duomo a Milano è stata occupata da 500 “flight case” che, per chi non lo sapesse, non sono altro che i bauli che contengono la strumentazione tecnica necessaria per allestire eventi: cavi, microfoni, fari, aste e molto altro ancora. E’ stata una protesta educata, silenziosa. Una performance allestita con tutti i crismi e i dettami di un grande evento, organizzata nel dettaglio, in ordine, senza fronzoli e, soprattutto, senza maleducati proclami. “Un unico settore, un unico futuro” – per sostenere professionisti, aziende e lavoratori del settore della musica in crisi a causa della pandemia. Questo lo slogan di “Bauli in piazza”, la manifestazione nata sull’onda del movimento americano “We make events”, che riunisce tutta la filiera del settore gravemente colpito negli ultimi mesi. Oltre ai 500 bauli, però, Piazza Duomo ha accolto anche una folta rappresentanza dei lavoratori dello spettacolo, tutti vestiti di nero. Un colore che si addice particolarmente al difficile momento che questo settore sta attraversando. Basti pensare che in Italia sono oltre 500 mila i professionisti a rischio. La loro voce si è aggiunta al coro di una manifestazione suggestiva, che ha alternato momenti di religioso silenzio a fragorosi applausi, scandita in sottofondo dalla musica creata dal battito delle mani sui tanti bauli presenti. Al centro di tutto un baule rosso, per ricordare tutti i lavoratori della spettacolo che hanno perso la vita facendo il loro dovere. Già, perché quello che i lavoratori dello spettacolo lamentano è proprio una mancanza di rispetto e di riconoscenza verso la loro professionalità. Lavoratori seri e preparati, rispettosi delle regole, e con alle spalle un bagaglio enorme di esperienza. Mica lavoratori improvvisati della domenica.

Purtroppo, però, questi lavoratori continuano ad essere dimenticati. Lo sono ora e lo erano anche prima di questa pandemia. Mancano infatti contratti, non ci sono tutele e nessuno ha mai considerato l’ipotesi di adottare dei provvedimenti seri per regolamentare il settore. La fortuna di queste persone è che vivono di passione vera per questa professione, che continuano a svolgere nonostante tutto, come tutti quelli che amano ciò che fanno. In questo Paese sono molte le persone che vivono di e con lo spettacolo: padri, madri, famiglie intere che si sostengono grazie all’arte. Non sono alieni, ma persone in carne e ossa, che silenziosamente da anni si muovono dietro le quinte. Sono quelli che ad ogni comizio accendono il microfono, che regolano le luci, e che prima ancora montano il palco, lo stesso palco sul quale sono salite anche quelle persone che ora fingono di non ascoltare, e ai quali ora è rivolto questo “grido” di piazza. Purtroppo, però, le speranze si affievoliscono Dpcm dopo Dpcm, l’ultimo dei quali – firmato lo scorso 25 ottobre dal Presidente Conte - inserisce tra i luoghi

più rischiosi i cinema e i teatri, decretandone quindi la chiusura. Un provvedimento difficile da accettare, soprattutto alla luce di una recente indagine condotta dall’Ufficio Studi e Programmazione dell’Agis (Agenzia generale italiana dello spettacolo), che dimostrerebbe proprio il contrario. Su 347.262 spettatori, si legge su un post condiviso dal Teatro Pubblico Pugliese, «in 2.782 spettacoli monitorati tra lirica, prosa, danza e concerti, con una media di 130 presenze per ciascun evento, nel periodo che va dal 15 giugno (giorno della riapertura dopo il lockdown) ad inizio ottobre, è stato registrato un solo caso di contagio da Covid 19 sulla base delle segnalazioni pervenute dalle ASL territoriali. Una percentuale, questa, pari allo zero e assolutamente irrilevante, che testimonia quanto i luoghi che continuano ad ospitare lo spettacolo siano assolutamente sicuri». Non rimane quindi che aspettare tempi migliori e capire se le manifestazioni civili, organizzate e ordinate possano avere maggiori riconoscimenti di quelle arroganti e distruttive.

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Qui Italia di Nicola Maschio

Rapporto 2019 situazione carceri in Italia

C

ome ogni anno, i dati forniti dal Garante dei Detenuti della Provincia Autonoma di Trento sullo stato dell’arte delle carceri in Italia ci permettono di delineare i trend e le situazioni sulle quali porre la maggior attenzione. Il numero di detenuti infatti, negli ultimi anni, ha subìto una leggera flessione, salvo poi tornare ad aumentare in quest’ultimo periodo. Dati comunque distanti dal picco raggiunto nel 2012 (ben 65.701 persone detenute in tutta Italia), ma che restano tuttavia preoccupanti per una serie di motivi. Prima di tutto, la capienza regolamentare e complessiva delle carceri a livello nazionale: nel 2012 infatti, a fronte dei più di 65mila detenuti sopra citati vi erano solamente 47.040 posti realmente disponibili. Numero quest’ultimo che è aumentato nel tempo, prima ai 49.640 del 2015 ed ora, nel 2019, ai 50.688 complessivamente a disposizione. Eppure, questa quantità non si può ancora definire soddisfacente: dopo il calo di detenuti registrato nel 2015, ovvero 52.434 (abbastanza in linea con il numero di celle disponibili), la quantità dei detenuti stessi è aumentata di circa 2mila unità all’anno, con un incremento stabile del 3,6%. I 3.648 nuovi posti all’interno delle carceri creati negli ultimi otto anni sono dunque ancora insufficienti, a fronte di un numero di detenuti pari a 60.769 nel solo 2019. A pesare, soprattutto in alcune Regioni, è oggettivamente la percentuale di detenuti stranieri sul totale dei presenti in carcere: se la Toscana arriva al 49%, percentuali superiori si registrano in Emilia Romagna (50%), Veneto (54%), Liguria (55%), Valle

d’Aosta (65%) ma anche in Trentino Alto Adige, con il dato che si attesta al 62%. Complessivamente, considerando la media a livello nazionale, i detenuti stranieri rappresentano un terzo della popolazione detenuta, anche se in specifiche aree geografiche questo fenomeno è quasi capovolto. Le percentuali minori si registrano in Basilicata (appena il 12%), Campania e Puglia (entrambe al 13%), Abruzzo e Sicilia (ferme tutte e due al 18%). A conti fatti perciò, la media nazionale riporta un 37% di detenuti stranieri contro il 63% di italiani. Ma come sono suddivisi questi 60.769 detenuti sul territorio nazionale? In tutto, il nostro Paese conta 189 istituti penitenziari: ben 23 di questi si trovano in Sicilia, 18 in Lombardia, 16 in Toscana, 15 in Campania e 13 in Piemonte. Chiudono la “classifica” invece Basilicata e Molise con 3 istituti, il Trentino Alto Adige con 2 e la Valle d’Aosta, con appena un carcere per tutto il territorio. I problemi di sovraffollamento sono comunque evidenti, soprattutto in alcuni casi come quello pugliese (2.517 posti contro 3.814 detenuti complessivi),

piemontese (3.971 posti a fronte di 4.531 detenuti), ed in particolar modo lombardo (6.199 rispetto ai ben 8.547 carcerati presenti) e campano, dove i 6.164 posti sono decisamente insufficienti se pensiamo ai 7.412 detenuti. Numeri, per così dire, “normali” invece quelli di Sicilia (6.497 posti e 6.445 detenuti), Sardegna (2.710 spazi e 2.288 carcerati) e Marche, che sforano solamente di alcune unità (898 detenuti su un totale di 857 posti). Le Regioni con il maggior numero di stranieri sono invece Emilia Romagna (1.930), Lazio (2.486) e Lombardia (3.630). Rispetto al genere invece, solo il 4% sono detenute donne, mentre il restante 96% sono uomini. Infine, le misure alternative alla detenzione: 18.132 sono gli affidamenti in prova al servizio sociale, 1.040 le semilibertà, 10.429 le detenzioni domiciliari, 18.180 le messe alla prova, 8.314 detenuti sono impiegati in lavori di pubblica utilità, 4.148 in libertà vigilata, 114 in libertà controllata e solamente 3 in semidetenzione.

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La donna nella storia di Waimer Perinelli

NILDE IOTTI: “la Signora della Repubblica”

“Io stessa - non ve lo nascondo - vivo quasi in modo emblematico questo momento, avvertendo in esso un significato profondo, che supera la mia persona e investe milioni di donne che attraverso lotte faticose, pazienti e tenaci si sono aperte la strada verso la loro emancipazione”.

È

il 1979 quando Nilde Iotti, appena eletta alla presidenza della Camera dei Deputati, pronuncia queste parole. E’ la prima donna a raggiungere un traguardo tanto elevato nella Repubblica italiana che lei stessa ha contribuito a fondare. Leonilde, questo il suo vero nome, aveva 26 anni quando venne eletta Deputato alla Costituente nel 1946, subito dopo quel referendum del due giugno con cui gli italiani avevano bocciato la monarchia. Era nata nell’aprile del 1920 a Reggio Emilia, da una famiglia povera. Il padre era un deviatore delle ferrovie, sindacalista socialista, cattolico, “meglio stare con i preti che con il fascismo”, diceva. Fu anche per questo che Nilde s’iscrisse all’università Cattolica, facoltà di lettere, nel 1940, grazie ai sacrifici e all’ambizione del padre e della madre. Era matricola quando s’iscrisse al partito Comunista ed allo scoppio della guerra mondiale partecipò attivamente alla Resistenza come staffetta dirigendo anche i Gruppi di Difesa della Donna di Reggio Emilia, un’esperienza che la porterà, il 25 giugno del 1946, assieme ad altre venti donne, nella Costituente. E’ l’anno in cui viene riconosciuto alle donne il diritto di voto. Come deputata s’impegnò subito per la riforma del diritto di famiglia, la parità e dignità della

donna. Una lotta non facile se ricordiamo che il Codice Penale entrato in vigore nel 1942, concepiva le donne come “beni”, sui quali il padre prima ed il marito poi, esercitavano assoluta autorità. Rafforzata dall’impegno nella Costituente ed eletta parlamentare nel 1948, Nilde proseguì l’impegno in difesa dei più deboli e delle donne promuovendo le più importanti leggi sulla famiglia, il matrimonio, il divorzio, i figli. Sono anni terribili quelli in cui viene eletta presidente della Camera. Il 9 maggio del 1978 venne ucciso dalle Brigate Rosse l’onorevole Aldo Moro, in un tentativo fallito di fermare il compromesso “Storico” fra Democrazia Cristiana e Partito Comunista Italiano. L’anno dopo, Nilde Iotti venne eletta Presidente della Camera ruolo che, secondo i suoi stessi colleghi ricoprì, con equilibrio e saggezza, fino al 1992. Nel 1993 ottenne la presidenza della Commissione Parlamentare per le riforme istituzionali e nel 1997 venne eletta Vicepresidente del Consiglio d’Europa. Anche nella vita privata non sono mancate occasioni per difendere il ruolo della donna nella

società e contro attacchi maschilisti. Al centro è la storia sentimentale con Palmiro Togliatti, leader carismatico del PCI. “Robusta, alta, i capelli sciolti sulle spalle, il manifesto desiderio di imparare a fare il deputato”, secondo la descrizione del suo portavoce alla Camera G. Frasca Polara, Nilde conobbe Palmiro Togliatti, a Montecitorio dove era da poco entrata. Fu un amore avversato da molti membri del partito, forse un uso strumentale nella lotta politica. Ma poiché era donna in occasione di discorsi brillanti si disse “Glielo avrà scritto lui”, e nei corridoi del Transatlantico alcuni compagni la evitavano. Togliatti morì nel 1964 e lei ricorderà qualche anno dopo, “”Solo dopo la sua morte il partito mi rispettò”. E iniziò la fase politica più importante della sua vita! Si è dimessa dalla carica parlamentare, per motivi di salute, il 18 novembre 1999 ed è morta il 4 dicembre.

11


Politicando di Armando Munaò

Gli italiani vogliono meno parlamentari Il referendum del 20 e 21 settembre 2020 è stato indetto per approvare o respingere la legge di revisione costituzionale dal titolo “Modifiche agli articoli 56,57 e 59 della Costituzione in materia di riduzione del numero dei parlamentari” già approvata in Parlamento nell’ottobre del 2019 da tutti i partiti. Il nostro paese, dopo la vittoria del SI’, scende dal primo al quinto posto in Europa per numero di parlamentari, dopo Regno Unito (1.430 rappresentanti), Francia (925), Germania (778) e Spagna (616).

I

l 20 e 21 settembre si è tenuto il referendum costituzionale (il quarto nella nostra storia repubblicana) che chiedeva agli elettori di esprimersi sulla riduzione di un terzo dei nostri rappresentanti alla Camera e al Senato. Di fatto gli italiani dovevano dare il loro parere su una modifica già approvata in Parlamento, ma sottoposta a referendum per le norme speciali che regolano le variazioni della nostra Costituzione. E gli italiani si sono espressi in maniera chiara e inequivocabile perché i SI’ sono stati il 69,5 per cento dei voti (17milioni 169mila) mentre i NO hanno ricevuto il 30,4 per cento (7milioni 500mila). L’affluenza è stata di circa il 54%. Per effetto di questo risultato dalla prossima legislatura i deputati passeranno da 630 a 400 e i senatori da 315 a 200. Fino ad oggi, ovvero prima di questo referendum che ha determinato la più importante modifica dell’assetto istituzionale nella storia della Repubblica italiana, nel nostro paese veniva eletto un deputato ogni 96 mila abitanti e un senatore ogni 188 mila. Con il taglio referendario ci sarà un deputato ogni 151 mila abitanti e un senatore ogni 302 mila. Inoltre, con la nuova riforma elettorale, saranno ridotti anche i parlamentari all’estero: da 12 a 8 i deputati e da 6 a 4 i senatori. E altra modifica riguarderà i senatori a vita nominati dai presidenti della

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Repubblica che dovranno essere massimo 5 e non più otto come prima. E’ importante precisare che quello cui sono stati chiamati ad esprimersi gli italiani era un referendum confermativo, ovvero si chiedeva loro, non di votare per eliminare una legge, bensì di approvare una riforma del testo costituzionale già vagliato da Camera e Senato. E in questo caso, a differenza dei referendum abrogativi, non era necessario raggiungere il quorum del 50% dei votanti, ovvero una soglia minima di voti per renderlo valido. Vinceva il risultato che avrebbe ottenuto il maggior numero di voti. E ha vinto il SI’. L’ultimo referendum, sul quale gli italiani sono stati chiamati a votare è stato quello del 4 dicembre 2016 (chiamato riforma “Boschi-Renzi”) che si concluse con una vittoria del “NO” al 59%. Tra le proposte bocciate, c’era il superamento del bicameralismo perfetto, in particolare la riforma del Senato e la riduzione del numero di senatori, l’abo-

lizione del CNEL (Consiglio nazionale per l’economia e il lavoro), la ridefinizione del Titolo V parte II della Costituzione, con una riduzione delle competenze regionali e il contenimento dei costi di funzionamento delle istituzioni.


SARDEGNA

8 17

SENATORI DEPUTATI

LIGURIA

5 11

Politicando 16 10 8

5

7 14

4 9

8 16

5 10

7 13

4 8

7 11

6 7

7 9

3 6

7 6

3 4

2 3

2 2

SENATORI DEPUTATI ABRUZZO

Cosa Cambia alla Camera e al Senato COSA CAMBIA ALLA CAMERA E AL SENATO SENATORI

Regione per regione

REGIONE PER REGIONE REGIONE LOMBARDIA SENATORI DEPUTATI

CAMPANIA SENATORI DEPUTATI

LAZIO SENATORI DEPUTATI

PRIMA

49 102

31 64

29 60

18 38

28 58

18 36

PIEMONTE SENATORI DEPUTATI

SICILIA SENATORI DEPUTATI

VENETO SENATORI DEPUTATI

22 55 25 52 24 50

14 29 16 32 PAG 16 32

22 45

SENATORI

DOPO

DEPUTATI

Referendum

MARCHE SENATORI

EMILIA/ROMAGNA Referendum

DEPUTATI

TOSCANA

18 38

SENATORI DEPUTATI

CALABRIA

10 20

SENATORI DEPUTATI

SARDEGNA

8 17

SENATORI DEPUTATI

LIGURIA SENATORI DEPUTATI ABRUZZO SENATORI DEPUTATI

MARCHE SENATORI DEPUTATI

FRIULI V.G. SENATORI DEPUTATI

1

14 29 12 24 6 13 5 11

8 16

5 10

7 14

4 9

8 16

5 10

7 13

4 8

DEPUTATI

FRIULI V.G. SENATORI DEPUTATI

TRENTINO A.A. SENATORI DEPUTATI

UMBRIA SENATORI DEPUTATI

BASILICATA SENATORI DEPUTATI

MOLISE SENATORI DEPUTATI

VALLE D'AOSTA

1 1

SENATORI DEPUTATI

TRENTINO A.A.

2

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Società oggi di Waimer Perinelli

Famiglia allargata e figli surrogati La famiglia composta da madre, padre e figli è un retaggio archeologico. Oggi l’identità familiare è molto labile: ci possono essere due madri o due padri, figli generati da un coniuge con altra persona, o in provetta con l’inseminazione assistita.

S

ono passati 71 anni dal tempo in cui l’antropologo francese Claude Levi Straus descriveva nel celebre saggio “Le strutture elementari della parentela” dinamiche, affetti, scambi familiari. Oggi il suo schema è crollato ed è giusto che sia così, visto che lo scienziato fotografava una realtà esistente, ma non per questo immutabile. In mezzo alle funzioni sociali dell’incesto o dello scambio di donne o uomini, si trova il problema della parentela che in società primitive, come quelle descritte da Levi Strauss, incidono in modo scarsamente incisivo sulla realtà sociale ed economica. Ma in una società complessa e variamente ricca come la nostra, il rapporto parentale è importantissimo per il nucleo familiare e la sua sopravvivenza nel tempo. Tanto importante da essere regolata da precise leggi ed oggetto di contenziosi giudiziari. E’ il caso di due donne veronesi di 34 e 33 anni conosciutesi ed innamoratesi nel 2016. La meno giovane nel 2017 è ricorsa alla donazione di seme ed ha partorito un bambino. Nel 2018 si sono unite in matrimonio con rito civile. Successivamente anche la più giovane ha avuto un figlio con la donazione del seme. Risultato, due mamme e due bimbi, regolarmente adottati dalla coppia, ma, dicono ora le due donne, giuridicamente non fratelli. Non lo sono nemmeno geneticamente visto che i due innocenti non hanno nulla geneticamente in comune. La loro situazione è uguale a quella della

figlia adottiva di Liz Taylor o di Tom Cruise, rispettivamente coniugati con Richard Burton, e l’affascinante Nicole Kidman. Coppie sposate eterosessuali che hanno adottato dei bimbi aventi ora uguali vantaggi ed oneri giuridici. Secondo le due mamme veronesi la loro situazione familiare è identica a quella delle coppie eterosessuali : “Giuridicamente, dicono, i figli di coppie eterosessuali che adottano bimbi, anche di razze diverse, sono fratelli. Perché dunque escludere dai benefici di legge (in primis linea ereditaria e obbligo di assistenza familiare) i loro bimbi? Tanto più che i fratellini sono molto uniti psicologicamente.” Sono convinte che il giudice darà loro ragione. E c’è un precedente positivo nel bolognese. La vicenda apre il sipario sul palcoscenico mondiale dove casi uguali sono frequentissimi. Ci sono enti ed associazioni che aiutano a superare la sterilità o l’ assenza della bisessualità nella coppia. E godono di ottima salute commerciale. Un ente che ha nella pubblicità l’inquietante frase “ Center for human reproduction”( Centro per la riproduzione umana) ha sospeso temporaneamente il servizio, per “eccesso di domande”. Se ne deduce pertanto che, in questa Clinica modello,che ha sede in Ucraina,

ed è leader “ nel campo della medicina riproduttiva, programmi avanzati di ovodonazione e maternità surrogata” hanno finito gli ovuli ed i semi; uteri in affitto compresi. Il futuro sembra ormai quello della riproduzione umana senza sudore, affanni, sospiri..qualche volta piacere..... Tutto lindo, pulito, asettico. Alla faccia della biblica frase della Genesi “Con dolore partorirai i figli”Bibbia da dimenticare mentre si studia un utero artificiale che toglierebbe dolore e lavoro alla madre in affitto. La scienza guarda ormai lontano. Ricordiamo nel 1996 la pecora Dolly il primo mammifero clonato da una cellula e ora Emmanuelle Charpentier e Jennifer A. Doudna i Premi Nobel 2020 per gli studi sul cambiamento del Dna. Gli scrittori di fantascienza hanno anticipato anche questo: figli perfetti, tutti uguali, e, a scelta, senza i difetti dei loro genitori, spesso privi di dubbi morali.

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In ricordo di un “Grande” di Katia Cont

Ennio Morricone Musica, disciplina e ...amore. “A mia moglie Maria il più doloroso addio”

C

ompositore, musicista, direttore d’orchestra e arrangiatore, ha regalato al mondo più di 500 colonne sonore per il cinema, da Per qualche dollaro in più a Mission. Cinque nomination e due premi Oscar: il primo alla Carriera, nel 2007 e l’altro nel 2016 per la partitura del film The Hateful Eight di Quentin Tarantino. Una stella, la numero 2574, sulla Walk of Fame di Hollywood. Era difficile non considerarlo un genio, ma Ennio Morricone teorizzava che tutto quello che aveva realizzato nasceva unicamente dall’abnegazione e dal lavoro: “l’ispirazione non esiste” ripeteva, “c’è solo il lavoro quotidiano, sodo e preciso.” Un uomo riservato, a volte sfuggente e durissimo, quasi spietato. Non è mai stato una persona conciliante, severo e critico nei confronti di tutto quello che lo allontanava dalla sua idea di perfezione. Un uomo incredibilmente prolifico che è stato in grado di musicare anche 10 film l’anno per 20 anni di seguito, una macchina melodica che non ha mai avuto battute d’arresto. Ma non solo film, ha anche realizzato circa un centinaio di brani di musica classica e musica commerciale eseguendo gli arrangiamenti di capolavori come Sapore di sale di Gino Paoli e Se telefonando. Il grande compositore, appena scomparso all’età di 91 anni è stato un infaticabile lavoratore rivoluzionario e sperimentatore. Nelle sue colonne sonore si affacciarono per la prima volta nella storia della musica i “rumori”, le sue

armonie iniziarono a mescolarsi con suoni e discontinuità rumorose come urla, colpi di frusta, sassi rotolanti, suoni che ora siamo abituati a sentire nei film western. Morricone, ha condiviso tutto con la donna che ha sposato nel 1956: «Nell’amore come nell’arte la costanza è tutto. Non so se esistano il colpo di fulmine, o l’intuizione soprannaturale. So che esistono la tenuta, la coerenza, la serietà, la durata. E, certo, la fedeltà», Ennio Morricone e Maria Travia sono una bellissima storia d’amore, un solo grande amore. Maria, 89 anni, è stata al suo fianco fino alla fine, dopo il ricovero in ospedale a seguito di una caduta. “Lucido fino alla fine, ha salutato l’amata moglie Maria che lo ha accompagnato con dedizione in ogni istante della sua vita umana e professionale e gli è stata accanto fino all’estremo respiro”, così recita il comunicato stampa inviato dalla famiglia. A lei Morricone aveva voluto dedicare, sul palco del Dolby Theatre, il premio più importante: l’Oscar per la colonna sonora di The Hateful Eight nel 2016. Con voce tremante aveva alzato la statuetta verso la donna della sua vita: «Lo dedico a mia moglie Maria, mio mentore». Morricone, ha sempre voluto

metterlo in chiaro: gran parte del merito è di Maria. «È stata bravissima lei a sopportare me. È vero, qualche volta sono stato io a sopportarla. Ma vivere con uno che fa il mio mestiere non è facile. Attenzione militare. Orari rigorosi. Giornate intere senza vedere nessuno. Sono un tipo duro, innanzitutto con me stesso e di conseguenza con chi mi sta attorno». Maria è sempre stata la prima ad ascoltare la sua musica: «È lei che giudica prima di tutti» un privilegio raro. “A mia moglie Maria il più doloroso addio” l’amore che prevale sulla sua razionalità espressa nell’ennesimo gesto rivoluzionario del necrologio che egli stesso ha voluto scrivere, lasciando questa volta alle parole il ruolo che lui ha sempre affidato alla sua musica.

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L’intervista di Franco Zadra

Il Gruppo Interaziendale Lavoratori Feltrini (G.I.L.F.)

si appella ai giovani per rinnovarsi

N

on così anziano come Edith Piaf, Italo Svevo, o Alberto Tomba con i quali condivide la data del compleanno il 19 dicembre, ma qualche acciacco dell’età lo sta accusando il Gruppo Interaziendale Lavoratori Feltrini, nato nel 1974 allo scopo di coordinare le attività dopolavoristiche delle varie aziende del suo territorio. «Fino a dieci anni fa – dice il presidente Stefano Antonetti - il Gilf che per statuto svolge attività culturali, ricreative e sociali aperte a tutti i cittadini, era arrivato a contare circa mille soci, poi mano a mano ridottisi a la metà e con un direttivo “anziano” che avrebbe urgente necessità di un ricambio generazionale, pur continuando a fare cose eccezionali non gli si può chidere di più.

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Le nostre porte sono aperte a chiunque volesse realizzare un progetto di corso di qualche tipo. Bastano minimo otto iscritti e mettiamo a disposizione tutta la nostra esperienza, gli spazi d’incontro e un supporto logistico e organizzativo collaudato in quasi mezzo secolo di animazione culturale del territorio». Il Covid poi ci ha messo del suo bloccando in pratica tutte le attività incompatibili con il distanziamento sociale, come la Mostra dell’artigianato, ridimensionata nell’ultima edizione a un piccolo concorso di forgiatura, attuato con grande sforzo organizzativo, quasi per uno scatto d’orgoglio in onore del Museo dei ferri battuti e delle arti decorative, la Galleria d’Arte Moderna Carlo Rizzarda che dell’illustre feltrino scomparso nel 1931 custodisce la collezione d’arte, con dipinti, sculture, oggetti d’arte decorativa, mobili e cineserie appartenute all’artista. «On line – dice Antonetti – non siamo attrezzati, e anche questo è un aspetto conseguente alla nostra “anzianità”. L’ingresso di giovani, energie fresche, idee nuove, darebbe nuova linfa a un’associazione con ancora grandi potenzialità creative e generative di opportunità culturali, e che merita riconoscenza per quanto ha dato in tutti questi anni».

Nata come Circolo dopolavoristico di una grande azienda parastatale di Feltre, la Sapa che ora è diventata Idro Group, l’associazione Gilf ha nel proprio Dna di rispondere alla necessità, espressa allora da quei lavoratori, di avere un centro di ritrovo e organizzare delle attività dopolavoristiche. «Praticamente tutti i feltrini – sottolinea Antonetti – sono passati dal Gilf che fin dagli esordi si mise a organizzare corsi di tutti i tipi, divenendo anche un luogo per dare spazio a chi aveva delle professionalità da trasmettere e condividere, ma noi che siamo stati i pionieri ci troviamo ora in compagnia di una folla di proposte. Cerchiamo di rimanere sul tradizionale, ma organizziamo pure corsi di inglese, spagnolo, russo, o anche di potatura quando è il suo periodo, vedendo un po’ quelle che sono le richieste della gente. Il Gilf era diventato famoso anche per i corsi di cucina a tutti i livelli, anche per i bambini, per fare la pizza, o il pane.


L’intervista

Facciamo anche corsi di ginnastica per tutti, come la ginnastica presciistica, con docenti esterni, o anche la ginnastica per i più anziani con esercizi riabilitativi in un corso tenuto da un fisioterapeuta. Il Gilf è stato un punto di aggregazione formidabile dal quale è scaturita la mostra dell’artigianato città di Feltre, uno degli eventi più importanti nel palinsesto Feltrino, all’interno della quale come associazione ci occupiamo della ristorazione, sia tradizionale che veloce, con uno stand gastronomico e la nostra cucina molto

attrezzata. Gli interessi dei giovani sono più verso lo sport, e infatti Feltre ha delle manifestazioni sportive importantissime, nazionali e internazionali, che vedono la partecipazione di molti giovani, ma è troppo importante portare avanti anche la realtà del Gilf, una associazione sana dal punto di vista economico come lo è stata in tutta la sua storia, e anche ora, nonostante sia da febbraio che tutti i corsi sono bloccati e le spese di gestione rimangano, abbiamo risorse sufficienti a passare anche questo momento difficile. Mancano i giovani e speriamo che da queste pagine arrivi loro l’appello a partecipare, a interessarsi al Gilf e a portare il loro contributo di idee e proposte per non lasciare

che la nostra associazione vada a morire. Se hanno un sogno nel cassetto, una passione che non sanno come attuare, qualche cosa da insegnare agli altri o da imparare meglio, il Gilf fa al caso loro con una vita associativa interessante e capace di sostenere e realizzare ogni tipo di progetto. Siamo una associazione dallo spirito giovane dove i giovani non possono che trovarsi bene».

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Il palcoscenico di casa nostra di Waimer Perinelli

Il teatro DE LA SENA:

È

LA PICCOLA FENICE

una piccola sala teatrale, un gioiello nel forziere dei tesori architettonici e artistici italiani. Nel 2019 l’ associazione Perspective, ( Prospettiva), che raccoglie i Teatri Storici d’Europa, lo ha consacrato Teatro Storico. Ed in effetti la sala teatrale di Feltre ha una lunga e fantastica storia. «Due cose contribuirono alla mia intiera soddisfazione. La buona Compagnia... ed un Teatro nel palazzo medesimo del Podestà..., e là principiai a gustare il piacer dell’applauso, e del pubblico aggradimento”, questo scriveva il commediografo Carlo Goldoni, nel 1730 dopo avere assistito alla rappresentazione di due suoi intermezzi musicali, Il buon padre e La Cantatrice, nella bella sala del teatro a Feltre. Una sala che aveva già 129 anni di

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vita. Il Teatro De La Sena (scena) è stato costruito infatti nel 1601. Inizialmente il salone era destinato ad accogliere i membri del Maggior Consiglio, assemblea cittadina costituitasi ufficialmente quell’anno. Tuttavia, a causa dell’eccessiva capienza della sala e per la difficoltà di riscaldamento, la sede assembleare fu ben presto trasferita al piano inferiore. Nel 1621 la struttura funzionava già come sala teatrale. Il Podestà Veneziano Andrea Pesaro scrive che: “Vi tenevano di continuo una sena per recitar commedie in carnevale”. Il Teatro della Sena fu una dei primi delle Tre Venezie. Il teatro Olimpico del Palladio a Vicenza era stato costruito fra il 1580 ed il 1884. La Fenice di Venezia vede la

luce solo nel 1792 in una città tuttavia non mancavano certo i teatri. A Trento all’inizio del 1600 si recitava nelle sale della chiesa dei Gesuiti e bisognerà aspettare il 1760 per averela sala Osele e il 1820 per il glorioso Teatro Mazzurana diventato poi l’attuale Sociale. A Feltre, il Teatro De La Sena venne destinato definitivamente a teatro pubblico nel 1684. Nel 1769 colpito da un fulmine fu gravemente danneggiato e riaprì solo nel 1797 per essere subito richiuso in coincidenza con la caduta della Repubblica di Venezia conquistata dai francesi di Napoleone Bonaparte. Nel 1802 si pensò a una ristrutturazione e ad una nuova progettazione del Teatro. Venne così convocato l’architetto veneziano Gian Antonio Selva, progettista del


Il palcoscenico di casa nostra febbraio del 2020, con la messa in sicurezza delle vie di fuga dei palchetti, e alla loro fine i posti disponibili saranno 300-312 .

IL TEATRO DELLA COMUNITÀ

teatro “La Fenice” e del “Teatro Nuovo”. Per le decorazioni ci si rivolse a Tranquillo Orsi, che già come il Selva aveva lavorato all’interno del prestigioso teatro veneziano. I lavori terminarono nel 1813. Grazie a questi due artisti,ancora, oggi il teatro De La Sena è soprannominato “La Piccola Fenice”. A causa di crisi economiche, due guerre mondiali e problemi strutturali, il Teatro fu più volte chiuso negli anni successivi e dal 1929 si presentava in completo abbandono. Nel 1970, grazie anche all’intervento di Italia Nostra, è stato avviato il restauro. I lavori hanno portato al recupero di materiali scenici di grande importanza storica. Fra di loro il sipario del 1843 dipinto da Tranquillo Orsi, il decoratore della Fenice di Venezia, un pezzo d’arte unico che si può ammirare all’interno del teatro nella sua collocazione originaria. La struttura è stata più volte rimaneggiata ed oggi si presenta come teatro all’italiana con tre ordini di palchetti. Dal 2013 la sala è utilizzata come teatro con capacità ridotta, di soli 130 posti. Nuovi lavori di restauro sono iniziati nel

Alessandro Del Bianco, 29 anni, una laurea il lettere antiche e dal 2017 assessore alla cultura del Comune di Feltre. 2019 ha organizzato una prima stagione comunale. Un cartellone interessante. “A ottobre, dice l’assessore, abbiamo inaugurato con lo spettacolo “ Macbetto” di Alessandro Serra, vincitore del premio Ubu Teatro, ideato dal critico Franco Quadri nel 1974. Lo spettacolo, tratto dal Macbeth di Shakespeare e tradotto in lingua sarda, ha riempito la sala.” C’era proprio voglia di teatro. “Si il pubblico di Feltre e dintorni ha confermato di amare il teatro. Devo dire che tutto il Cartellone ha avuto un positivo riscontro. Sala esaurita tutte le sere e purtroppo la ridotta capienza ha lasciato molte persone senza posto”. Feltre ed il Feltrino hanno in realtà

una vivace cultura teatrale. “E’ vero abbiamo artisti professionisti e filodrammatici di elevata qualità L’elenco è ricco ma cito per esempio Roberto Faoro anima dell’Associazione culturale Teatro nel Cuore. Faoro oltre ad essere un bravo attore e drammaturgo è un divulgatore, che sa appassionare al teatro. Importante è il lavoro sul territorio svolto dal Tib teatro che ha sede a Belluno. E non voglio dimenticare l’ottimo lavoro svolto da Slowmachine associazione con sede a Belluno che arricchisce il repertorio contemporaneo. “. Le rappresentazioni sono state sospese a fine febbraio di quest’anno, un po’ consentire i lavori di restauro delle vie di fuga e in parte a causa del Covid. Quando riprenderanno? e sarà sempre il Comune a gestire la Stagione? “ I lavori per la sicurezza sono a buon fine. Per il Covid la fine non è certa. Gli spettacoli torneranno e sarà il Comune a gestire il Cartellone. Organizzeremo una Commissione per gli spettacoli e, se sarà necessario, affideremo alcune scelte ad esperti qualificati. L’amore per lo spettacolo, prosa o musica, c’è. Il pubblico di Feltre ama il suo teatro, fa parte della storia, è parte integrante del tessuto sociale”.

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Ieri avvenne di Veronica Gianello

L’ECO di Martin Luther KING a cinquantadue anni dal suo assassinio

A

52 anni dal suo omicidio, la storia e il mito di Martin Luther King non cessano di stupire e ispirare. Del resto, è innegabile, la sua figura d’uomo, prima ancora di quella di politico e pioniere, resta tutt’oggi salda e forte tra i grandi pilastri del XX secolo. Le ragioni di questa immutata stima nel corso del tempo sono molteplici: dai suoi famosi discorsi, alle sue marce pacifiste, alla sua reclusione, paziente e dignitosa, a quel grande sogno di uguaglianza e rispetto che ha rincorso per

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tutta la vita. Nato ad Atlanta(Georgia) il 15 gennaio del 1929, King è figlio di un pastore battista e cresce nel profondo sud degli Stati Uniti, area che più di tutte, e fin dalle prime colonizzazioni, vive in un pesante e costante clima di razzismo e segregazione. Nonostante ciò, la famiglia King ha la possibilità di offrire ai propri figli un’ottima educazione. Inutile dire che, nonostante le possibilità economiche della famiglia, Martin frequenta una delle poche scuole del Paese dove era

permesso studiare anche alle persone di colore. L’impegno e la dedizione costanti gli permettono di ottenete la laurea in Filosofia e di seguire poi le orme paterne diventando egli stesso pastore. Nonostante le difficoltà,, egli decide comunque di continuare a vivere nel Sud dell’Alabama, a Montgomery, lanciando già così il primo dei tanti segnali di resistenza e lotta al sistema di segregazione. Scappare, pur avendone la possibilità, per cercare una vita più facile e sicura altrove non rientra tra i piani del giovane


Ieri avvenne predicatore, che vede già nella vicinanza al suo popolo in affanno il primo passo verso l’unione di una comunità decisa a farsi rispettare. Questo credo di uguaglianza ed emancipazione diventa il motore dell’azione di King che persegue i suoi obiettivi in maniera pacifista e non-violenta. Più il clima si fa ostile, più egli riesce a creare una comunità solida e attiva. Siamo negli anni ’50 e inizia a girare il Paese, partecipando a sit-in, marce e mostrandosi sempre pronto in prima linea. In compagnia di altri attivisti per i diritti civili della comunità afroamericana, fonda il Southern Christian Leadership Conference. L’obiettivo di questa associazione era di organizzare in modo chiaro i vari gruppi attivisti sparsi nelle singole parrocchie e città e di dare un’autorità di riferimento al movimento per i diritti. Così facendo, King inizia a creare una solida rete di persone che, come lui, hanno gli occhi del mondo puntati addosso. Rimane celebre la stretta di mano tra lo stesso King e l’allora presidente degli USA J. F. Kennedy, ma anche solidarietà con altri attivisti. Tra tutti, King volle conoscere di persona Rosa Parks, oggigiorno famosa e conosciuta come la donna che venne arrestata perché si rifiutò di cedere il proprio posto sul bus a un uomo bianco. Questo espediente diede il via ad una delle manifestazioni di resistenza più ricordate nella storia dell’emancipazione

della popolazione di colore. I diversi gruppi di attivisti di colore del Paese organizzarono uno spettacolare boicottaggio dei mezzi pubblici locali, mettendo in ginocchio l’amministrazione locale. Il boicottaggio durò ben 382 giorni; fu una protesta pacifica, seppure dura. Soprattutto però fu una protesta che mai come prima di allora portò la situazione razziale americana e la lotta in corso sotto gli occhi di tutto il mondo. È l’inizio di una battaglia che per King durerà tutta la vita, una battaglia pacifica, che lo porterà a marciare per la causa dei neri fino alla morte. Nel 1963 organizza proprio una delle sue marce, la più grande e memorabile, quella che, grazie alle sue parole, lo porterà a incidere il suo nome nella storia, ad essere ricordato come abile e sincero oratore, ad essere recitato a voce alta, e pensato nello sconforto per portare speranza e ottimismo. Siamo a Washington e oltre 200.000 persone sfilano davanti al Lincoln Memorial per far sentire che ci sono, che il

tempo della discriminazione deve finire, che il popolo nero non deve più essere silente e remissivo. È proprio in questa occasione che King pronuncia il più famoso dei suoi discorsi: I have a dream. Gli anni che seguono creano un vortice sempre più pericoloso tra la riconoscenza a King come rivoluzionatore pacifista—vincerà infatti il Nobel per la Pace nel 1964—e il crescente odio dei clan razzisti nei confronti del suo operato. La crescente violenza che questi opposti pensieri creano portano al più tragico degli eventi. Nella notte del 3 aprile del 1968, mentre si trovava a Menphis per sostenere un gruppo di attivisti locali, Martin Luther King venne assassinato. Aveva solo 39 anni.

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In “filigrana” di Nicola Maccagnan

Dalla valigia di cartone al touchscreen: dove nascono le nuove “emigrazioni”?

C

i sono numeri che fanno riflettere e numeri che fanno paura. Uno di questi, che mi ha profondamente colpito, è quello che riguarda i nostri giovani - feltrini, cadorini, bellunesi -, sempre più protagonisti di un fenomeno, quello dell’emigrazione, che qualcuno di noi aveva pensato di relegare all’album, oramai sbiadito, dei ricordi. Abbiamo ben distinte, tra le storie di famiglia, quella di un avo, di un nonno, di un prozio, a volte anche di un genitore, partito “in cerca di fortuna”, soprattutto nel periodo a cavallo tra la metà dell’800 e la prima metà del secolo scorso. Ricor-

di fatti di foto in bianco e nero, valigie di cartone in mano, lunghi viaggi della speranza per dare un futuro a moglie e figli, quasi sempre lasciati a presidio della casa e dei campi nostrani. Pellegrinaggi fatti di sogni, sempre intrisi di fatica, sudore, lontananza e nostalgie, spesso umiliazioni, con le destinazioni

cari alla fame e alla miseria, costruire una prospettiva di riscatto - magari dopo le sofferenze della guerra - e costruirsi una casa dignitosa nell’amata terra natia. Storie e ricordi che pensavamo di avere chiuso nei bauli della soffitta, quasi un retaggio di un passato che non sarebbe mai più tornato. E invece? E invece i numeri ci dicono (ce lo dice l’Associazione Bellunesi nel Mondo) che nel solo 2019 sono stati oltre 2.000 i giovani che hanno lasciato la nostra terra per vivere un’esperienza di lavoro

più diverse: le miniere di Francia e Belgio, le prime industrie europee, la Svizzera, le terre lontane dell’America (del nord ma anche del sud) e perfino dell’Australia. L’obiettivo di allora? Il pane, sottrarre i propri

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In “filigrana” all’estero, o per trasferirsi definitivamente. 2.000. Avete capito bene. Circa l’1% dell’intera popolazione residente nella nostra provincia. Certo, non partono più con la valigia tenuta insieme da cinghie improvvisate, i nostri nuovi emigranti; spesso non lasciano a casa mogli e bambini, bensì genitori, fratelli e sorelle. Nella maggior parte dei casi sono giovani diplomati e laureati (spesso anche brillantemente), che - smartphone e tablet alla mano vogliono conoscere il mondo e nuove opportunità. In molti casi a spingerli non è la necessità impellente di un tempo, bensì il desiderio di trovare un’occasione professionale stimolante, vivere un’esperienza personale che li appaghi e li arricchisca, a volte semplicemente “mettersi in gioco”. Qualcuno etichetta questa nuova ondata di emigrazione, che potremmo definire

2.0, un capriccio”, un inutile desiderio di novità, quasi il mondo delle nostre valli, dei nostri paesi e delle nostre cittadine non bastasse loro. Personalmente penso che un fenomeno di questa portata non si possa liquidare in maniera così semplicistica. Forse qualche domanda un po’ più approfondita sarà il caso di porsela, con approccio critico. Qui si sta tutto sommato bene; emergenze a parte (!!!) il lavoro, e con esso una certa sicurezza economica, non mancano; il paesaggio naturale è senza dubbio fantastico; criminalità e disagio sociale sono a livelli che tutta Italia ci invidia. Eppure. Eppure, parlando con alcuni di questi nostri giovani che scelgono di provare l’esperienza estera, tutto questo non sembra bastare. Chiedono orizzonti nuovi, i nostri giovani. Provato magari il clima della città universitaria, spesso dinamico e multiculturale, sentono la necessità di esperienze adeguate,

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dove essere valorizzati solo e soltanto per il loro sapere e il loro essere, a costo di sacrifici che qui – a casa – forse non dovrebbero sopportare. Va anche detto che, prima o poi, molti di questi giovani fanno rientro a casa, nella loro terra natale, che evidentemente ha ancora molto da dare, sotto tanti punti di vista. Il rischio è però di perderli proprio nei loro anni migliori, quando sono più motivati, pieni di energia e di forza innovatrice, quando potrebbero essere un vero motore di sviluppo e cambiamento per la nostra Terra. Non è facile, né immediato...ma vedo in questo la vera sfida che attende tutti noi (istituzioni, imprese, associazioni e cittadini): dare loro, oltre a un posto di lavoro, dei modelli sociali e culturali nuovi, in cui possano credere e ritrovarsi, senza la necessità di dover guardare per forza lontano...col rischio – per di più – di restare delusi.

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Tra passato e presente di Elisa Corni

Le grandi epidemie del Novecento

I

n questi giorni sui giornali e in tutti i mezzi di informazione campeggiano i titoli riguardanti la terribile epidemia che sta minacciando tutto il mondo: il Coronavirus. Misure estreme, come la quarantena per tutta la provincia di Wuhan, focolaio dell’epidemia, si affiancano a misure meno radicali, come lo scanner della temperatura corporea negli aeroporti per tutti i viaggiatori; misure adottate anche grazie all’esperienza maturata nel secolo scorso di contenimento delle epidemie. Nel corso di tutto il Novecento numerose malattie pandemiche hanno messo a dura prova la specie umana. La più nota, nonché una delle più devastanti, è sicuramente stata l’Influenza Spagnola (H1N1) che, sul finire della Prima Guerra Mondiale ha falcidiato il mondo intero. Tra il 1918 e i primi anni venti, questa influenza è stata la causa della più grande pandemia della storia. Secondo alcuni studi a morirne furono tra i cinquanta e i cento milioni di persone, tra il 3 e il 5% della popolazione mondiale dell’epoca. Il virus, probabilmente originario della Meso America, si diffuse prima in Europa con le truppe statunitensi sbarcate nel vecchio continente, ma fu in grado di raggiungere anche le più remote isole del Pacifico. Esaurita la pandemia, il virus continuò a circolare probabilmente

fino agli anni Cinquanta, con la pseudo-pandemia che nel 1947 colpì nuovamente le truppe americane in Corea e Giappone; vi fu un ritorno di fiamma nel 1977 in Russia e poi la Suina ricomparve sul finire del secolo con la Sars nel 2009. Se alla fine della Seconda Guerra mondiale l’H1N1 fu decisamente poco efficace, incidenza maggiore la ebbe la cugina di fine millennio: in poche settimane raggiunse ben 37 paesi, provocando quasi 20.000 vittime. Nel 1957 un nuovo ceppo di virus si fece largo nel globo: H2N2, anche nota come l’Asiatica, fu un’influenza altamente virale. Il virus era stato isolato pochi anni prima nei laboratori cinesi, dove lo identificarono come virus influenzale di tipologia aviaria. Ma la malattia si diffuse con una tale rapidità che, come riportava il New York Times, a Hong Kong l’Asiatica colpì 250 mila persone nel giro di pochi giorni. Si stima che in tre anni furono quasi due milioni i morti, nonostante già nel 1957 si realizzò un vaccino in grado di contenere la diffusione della malattia. A causare molti decessi furono soprattutto le complicazioni a livello polmonare per chi era stato infetto. Da questo ceppo di virus una mutazione diede origine alla terza grande pandemia globale dell’ultimo secolo: H3N2 o l’Influenza di Hong Kong. In Italia questa influenza con le sue complicazioni portarono alla morte di circa 20.000 persone. Questa e la sua parente stretta H2N2 furono malattie che colpirono soprattutto individui appartenenti alle fasce più deboli della società. E poi ci sono tutte quelle epidemie “in corso ma dimenticate”. Come l’HIV che, seppur contenuta, ha mietuto oltre 39

milioni di vittime da quando è comparsa a oggi; la tubercolosi, tutt’altro che debellata e che nel 2012 ha fatto oltre un milione di vittime: o addirittura la lebbra che fa centinaia di migliaia di contagiati ogni anno. Non tutti ad esempio sanno che, soprattutto nel territorio degli Stati Uniti d’America, ci sono ancora numerosi focolai di peste bubbonica attivi. La dominatrice del medioevo è ancora operativa ad esempio in Cina, dove lo scorso anni si è registrato il quindi caso. Si tratta sicuramente di una malattia sotto controllo, anche se tutt’altro che debellata. Esistono poi epidemie silenziose, che non fanno notizia perché le malattie sono considerate “normali” dall’opinione pubblica e dalla stampa. È il caso ad esempio del morbillo per il quale esiste un efficace vaccino ma che comunque riesce a colpire migliaia e migliaia di persone ogni anno. L’ultima in Italia è datata 2017 e si sono registrati ben 1600 casi, il doppio dell’anno precedente. Alcuni epidemiologi e virologi ritengono che ciò sia dovuto anche a una minor copertura vaccinale. Secondo l’OMS con l’aumento delle vaccinazioni in tutto il globo i casi di morbillo si sono drasticamente ridotti: si è passati dai 32.768.300 del 2000 ai 9.719.600 solo cinque anni dopo. E poi ci sono quelle malattie che non fanno scalpore, di cui pochi parlano e in misura ridotta, forse perché non ci riguardano direttamente. Sono l’Ebola, comparsa nel 1976 attorno all’omonimo fiume in Congo, una malattia terribile diffusa soprattutto in Africa e con una mortalità del 90%. O il Colera che si presenta soprattutto in quei paesi dove le condizioni igieniche sono scarse e che ogni anno fa tra i 3 e i 5 milioni di morti. O la Malaria, i cui malati sono per il 90% nell’Africa Subsahariana.

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In controluce di Franco Zadra

Thunberg e Fonda, profetesse di oggi A chi avesse avuto occasione di seguire la doppia intervista andata in onda su Rai3 nella trasmissione Che tempo che Fa, con la giovane attivista svedese Greta Thunberg e la star hollywodiana Jane Fonda, 17 anni la prima e 82 la seconda, non sarà sfuggita l’urgenza “esistenziale” con la quale venivano proposti i temi cari da sempre all’ambientalismo ecologista.

«

Non c’è più tempo!» è il preoccupante messaggio lanciato a chiare lettere da Fabio Fazio, e «Bisogna ascoltare gli scienziati!» la corale e perentoria indicazione della «sola e unica via d’uscita» che rimane all’umanità di fronte alla prevista e ineluttabile catastrofe che ci attende a partire non da domani, ma da ieri. «L’apocalittico ultimo appello», viene da due persone estremamente “autore-

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voli”, la Thunberg, iniziatrice del movimento globale Fridays for future in favore dello sviluppo sostenibile e contro il cambiamento climatico che, appena diciassettenne, ha ricevuto due nomination per il Premio Nobel per la Pace (nel 2019 e nel 2020), inserita da Forbes, il magazine più famoso al mondo su classifiche, cultura economica, e leadership imprenditoriale, nell’elenco delle 100 donne più potenti al mondo, persona dell’anno 2019 per il Time; e Jane Fonda, vincitrice di 2 Oscar, 7 Golden Globe, 1 Emmy Award, due Premi Bafta, un David di Donatello, e il Leone d’oro alla carriera, attivista politica e sociale, che ha da poco pubblicato “Salviamo il nostro futuro! Il mio impegno per l’ambiente, l’equità e la salute”. Molto interessante e assolutamente “digeribile” in prima serata è apparso questo straordinario e assolutamente intacitabile richiamo per la voce di due “profetesse” d’attualità delle quali sappiamo, o pensiamo di conoscere, già tutto poiché l’informazione di massa ce le ha ben presentate e per così dire

ce le ha rese familiari, vincendo ogni nostra difesa con le sottili armi della propaganda e della pubblicità (sinonimi ma non esattamente uguali), per cui ci viene ormai naturale provare simpatia e dare generosamente il nostro assenso alle loro proposte, forse anche per rimediare a un certo senso di colpa per l’inascoltata, per più di mezzo secolo, Fonda, siamo acriticamente spalancati alla ragazzina che, appena quindicenne, indossò per quasi un mese di fronte alla sede del parlamento svedese prima delle elezioni legislative, il cartello “Skolstrejk för klimatet” ovvero “Sciopero della scuola per il clima”. Intendiamoci, partecipo anch’io a questo entusiasmo per due attiviste che rispetto e ammiro per il coraggio e la determinazione che hanno saputo dimostrare, ma mi permetto di porre una semplice domanda senza la pretesa di mettere in crisi nessuno, anzi, seguendo proprio il metodo scientifico che progredisce proprio grazie alle nuove domande. Quali scienziati dovremmo ascoltare per avere ancora una qualche possibilità di scampare alla catastrofe? O meglio, perché dovremmo rivolgerci agli scienziati dal momento che, su stessa ammissione sia di Fonda che di Thunberg, sono stati proprio loro, assecondando il potere di turno, a portarci sull’orlo del baratro? Si potrebbe immaginare di dover ascoltare la “comunità scientifica”, se davvero


In controluce ne esistesse una, per cui l’indirizzo sicuro da seguire dovrebbe essere quello accolto a piene mani anche dalla enciclica “ambientalista” di papa Francesco, Laudato sii, che ci invita fin dall’incipit a convertirci dal crederci proprietari e dominatori della nostra «casa comune», la madre terra, smettendo di sentirci autorizzati a saccheggiarla. Ma a questo punto dovremmo dare per risolto e superato l’eterno conflitto tra scienza e fede che invece il messaggio delle due “profetesse” sembra ignorare del tutto, denunciando implicita-

PRATICHE VEICOLI

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mente la rinuncia ad affrontarlo e discuterlo e dichiarando invece la “vittoria a tavolino” della scienza. Penso che scienza e religione possano e debbano accordarsi per una soluzione “scientifica” del problema ambientale, ma non trovo corretta questa forzatura che si presenta con i tratti del condizionamento ideologico verso l’ascolto di “una sola campana”. Penso ancora che due millenni di cultura cristiana meritino se non altro più ascolto e attenzione di mezzo secolo di battaglie ambientaliste. Dal canto mio, di fronte alla proposta di chi dover ascoltare per trovare una via di salvezza non ho dubbi, ma mi sento di rigettare ogni atteggiamento scientista autoreferenziale che nega di fatto la realtà di fondo e più evidente dell’esistenza, il fatto cioè che la nostra vita dipende da un Altro, checché ne dicano gli scienziati.

TASSE AUTOMOBILISTICHE

Riscossione bollo auto anche per prima immatricolazione Gestione pratiche di contenzioso bolli con la Regione Veneto Gestione domande di rimborso bollo auto

PATENTI

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SERVIZI VARI

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Storia di ieri e di oggi di Marco Nicolò Perinelli

La via Claudia Augusta: 2000 anni di storia lungo 350 miglia La strada si inerpicava ben visibile lungo il fianco del colle, il segno dell’arrivo della civiltà in quella terra ancora in parte selvaggia. Erano passati ottantacinque anni da quando Druso ne aveva iniziato la costruzione e i lavori portati avanti dall’Imperatore Claudio l’avevano resa degna dell’Impero che serviva.

N

on era la prima volta che Caio Servilio, Prefetto della Legio XXI Rapax inviata da Vespasiano contro i Batavi in rivolta Germania, cavalcava lungo quel tracciato. Pochi mesi prima aveva scelto di non seguire il resto della sua Legione quando Vitellio aveva deciso di marciare contro Roma stessa e, insieme agli ausiliari al suo comando, aveva fatto ritorno nella sua Aquileia, distaccandosi dal resto dell’esercito e rischiando così la sua stessa vita. Ma ora, ristabilito l’ordine e fiducioso nelle capacità del nuovo Imperatore, aveva risposto alla chiamata e stava dirigendo verso Abodiacum, al di là delle Alpi, dove avrebbe atteso l’arrivo del resto dell’armata, partita da più di una settimana dall’accampamento estivo e diretta a nord. Lungo il tracciato ben delineato della strada, si vedevano

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qua e là campi coltivati, con bassi vigneti da cui proveniva quel vino retico tanto apprezzato nella capitale. Caio si fermò a guardare il grande specchio d’acqua ai piedi del colle e scese da cavallo per poter appoggiare i piedi al suolo dopo tante miglia. Si mise ad ascoltare in silenzio i suoni che provenivano dalla cima del colle e distinse chiaramente un vociare di bambini. “Loro si godono la pace – pensò amaramente – senza sapere cosa sta accadendo nel resto dell’Impero”. Come si era aspettato, arrivato in cima al pendio, si imbatté in una mutatio, una stazione di posta, dove riposare e ristorarsi. Attorno al basso edificio in pietra, si addossavano alcune case in legno con il tetto in paglia. Animali da cortile scorrazzavano qua e là e alcuni bambini li inseguivano per rimetterli nei recinti prima del tramonto del sole. Il suo arrivo non era stato inosservato e un uomo dal volto segnato dagli anni, vestito in abiti civili, si avvicinò appoggiando il passo claudicante a un bastone di vite. Il Prefetto lo osservò e notò il gladio appeso a sinistra, come era solito fare ai centurioni. “Benvenuto – disse l’uomo avvicinandosi e sollevando l’indice in segno di saluto – quali notizie porti, Equites?”. “Ave et tu, Miles – rispose Caio – Sono diretto a nord dove i Germani si agitano al confine”. Il suo sguardo si posò allora su una pietra miliare con incisa la cifra LXI. “Sessantuno miglia da Feltria – disse pensando ad alta voce – per oggi

posso fermarmi”. La bellezza del luogo lo aveva colpito e aveva deciso di fermarsi lì a riposare per quella sera, godendosi il calore di quell’ultimo sole primaverile che ancora gli ricordava il Mare Nostrum e i profumi della sua terra affacciata sul mare, una terra che forse non avrebbe rivisto mai più”. Questo è il racconto immaginario di un viaggio che un antico romano, nel 70 d.C., avrebbe potuto compiere per raggiungere la Germania Superiore parten-


Storia di ieri e di oggi do da Aquileia, una delle città più ricche dell’Impero, passando per Altino, dove avrebbe incrociato la via che collegava il Veneto, l’Emilia Romagna e la Baviera. Una strada che, nelle sue diramazioni, rappresentava una straordinaria via di comunicazione tra il sud e il nord delle Alpi e del quale rimangono alcune importanti tracce archeologiche. Una di queste è a Tenna, proprio dove il nostro Prefetto, Caio Servilio, si sarebbe potuto fermare e vedere quella pietra miliare che ancora oggi si trova in centro al paese a cavallo tra i due laghi della Valsugana. E oggi quella strada rappresenta una straordinaria opportunità di crescita e sviluppo per tutti i territori che attraversa, da Feltre, a Trento, alla Baviera. Un tracciato che – dove identificato - si può percorrere a piedi, in mountain bike o a cavallo, e che rappresenta una attrazione turistica ancora non pienamente sfruttata. A dimostra-

zione di quanto sia conosciuta all’estero, proprio poche settimane fa, in centro a Tenna, ho incontrato un personaggio molto particolare che, in compagnia di due asini, stava percorrendo a piedi proprio questa via, partito dalla Germania e diretto in Sicilia, lungo la via Claudia Augusta, la Romea e la Francigena. E sono tanti i visitatori provenienti proprio dal nord delle Alpi che vengono alla scoperta di questa strada, lungo la quale per secoli viaggiarono le truppe romane, i mercanti, le popolazioni e, soprattutto, la cultura. Una cultura che oggi è risorsa turistica e quindi economica, che unisce la Valsugana con Feltre a Sud e la Baviera a Nord, creando un unico percorso da scoprire e valorizzare. Marco Nicolò Perinelli è archeologo e scrittore

La copia di una pietra miliare romana indica a Donauwörth l’inizio della pista ciclabile Claudia Augusta

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Società oggi di Patrizia Rapposelli

Piccole lolite nel girone dei lussuriosi Digito su Google come guadagnare soldi facili e scorrendo le molte voci correlate compaiono qua e là annunci bollenti, pornografia e siti d’incontri; il tutto ben visibile da chiunque utilizzi il web, ragazzini compresi. Mi chiedo poi quanto possa essere semplice per una minorenne avviarsi nel mondo della prostituzione. Basta un sito d’incontri on line, cliccare accetto sull’opzione dichiarando la maggior età, facile dire il falso, ed il gioco è fatto. Pubblico l’annuncio sugli appositi siti, cominciano le chat, piovono le risposte di uomini sposati, professionisti, uomini il cui nome li protegge in una nicchia e scattano gli “acquisti”. Dettagli scabrosi sull’aspetto fisico della ragazza, richieste di appuntamento in camere d’albergo, domande sulle tariffe; chi fa il gentile e chi offre uno Smartphone e quell’alibi del cliente di non sapere fossero “bambine”.

S

torie diventate normali, spietatamente normali. Di quelle che si ripetono, con poche diversità sul tema, in molte città d’Italia; sono quei racconti di sesso, droga, internet e soldi. Sono le storie delle Piccole Lolite. I recenti fatti di cronaca rievocano scandali e morbosa curiosità, dalle vicende passate ai Parioli ai festini nel bolognese, per quel mondo silenzioso della prostituzione minorile. Nuovo allarme baby squillo? Negli anni passati c’era stata un’impennata di casi, soprattutto dopo la vicenda che vide coinvolte due studentesse di un liceo a Roma di 14 e 15 anni. Adescate su internet da tre uomini, sono state avviate al mercato

del sesso in un appartamento del quartiere bene dei Parioli. Da 2013 ad oggi di casi eclatanti non ve ne sono stati, se non quest’ultima nottata nell’emiliano consumata tra cocaina e sesso, ma un noto pubblico ministero della procura capitolina, alla guida dei pool dei magistrati che si occupano dei reati contro la violenza di genere e contro i minori, riscontra nuovi dati inquietanti. La prostituzione minorile esiste, fatica a venire alla luce, ma è una condizione generale che si sta verificando nel tempo, con dinamiche simili, in tutto il Paese. Il fenomeno è variegato nella sua organizzazione e non circoscritto, da una parte lo sfruttamento e il ricatto, dall’altra l’idea che lavorare con il proprio corpo possa garantire facili e veloci guadagni. La fascia oscura della società italiana vede come protagonisti gli over 40 che cercano emozioni forti e quelle adolescenti che vivono il sesso in una maniera inedita. Uomini e ragazzine

ridotti a merce di scambio, senza valore, nemmeno quello della trasgressione che fu. Forse è segno di un fallimento di due generazioni, un brivido forte per sostituire l’assenza di progetti e prospettive. Nascono ragazze smaliziate, spinte dalla molla del consumismo da una parte e dall’altra dal bisogno di ottenere ciò che si vuole a qualunque prezzo. Alla base una debolezza morale, un sistema di valori che cambia, una mancanza di personalità e di coesione sociale che porti ad apprezzare il tempo dell’attesa. Una società usa e getta. Il tempo della conquista graduale e dell’attesa non sono valori accettati. Tutto e subito. È una società “Just Time”. Le baby squillo sono l’offerta e hanno intercettato una domanda di mercato, ossia un pubblico che le usa, le desidera e ne vuole usufruire. La domanda ha alimentato un’offerta, perché la platea è diventata vasta. Semplice, il mercato del sesso è ormai paragonabile al mercato del lavoro. Si dimentica che stiamo parlando di “bambine”. Il principio in base a cui scegliere le azioni nella nuova idea generazionale si impoverisce nel guadagno. È questa la conquista della capacità educativa?

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Ieri avvenne di Elisa Corni

Il disastro del Vajont

E

ra il 9 ottobre 1963. Moltissime persone ancora se lo ricordano, si ricordano la notizia che passava di bocca in bocca, i bambini svegliati di notte, le informazioni che, a differenza di oggi, circolavano più lentamente. Voci che parlavano di migliaia di morti; una tragedia umana incredibile per l’epoca. Una tragedia che a 55 anni di distanza rimane una ferita aperta nella storia d’Italia e del Nord-Est. Una tragedia che poteva essere evitata. Il disastro del Vajont fu provocato dalla caduta di una gigantesca frana dal Monte Toc, sul versante sinistro del neo bacino idroelettrico artificiale del Vajont.

Quando si parla di una massa incredibile, bisogna rendersi conto che fu esattamente così: gli esperti stimano che circa 270 milioni di metri cubi di roccia scivolarono direttamente nella diga piena d’acqua, sollevando un’onda che forse oggi le cronache battezzerebbero impropriamente come tsunami. Sì, perché l’onda di circa 115 milioni di metri cubi d’acqua non fu sollevata da un terremoto, eppure viaggiò a circa 108 chilometri orari e raggiunse l’impressionante altezza di 250 metri, travolgendo tutto ciò che incontrava sul suo cammino. Dell’utilizzo sulle montagne italiane dell’energia idroelettrica abbiamo scritto qualche numero fa, concentrandoci sul Trentino della prima metà del Ventesimo secolo. Questa tradizione continuò anche nei decenni successivi, dato che il nostro suolo è povero di carbone, la principale fonte di energia negli anni Cinquanta e Sessanta. Tutto l’Arco alpino, quindi, fu costellato di dighe e condotte forzate in grado

di trasformare torrenti e laghi di montagna in fonti inesauribili di energia. Fu proprio in questo contesto che nacque e si sviluppò l’idea di sfruttare come bacino idroelettrico la valle del fiume Vajont, sul confine tra Veneto e Friuli Venezia Giulia. La Società Idroelettrica Veneta si occupò della realizzazione di un’imponente diga, in grado di fermare e rilasciare a piacimento l’acqua del fiume. Il primo progettista fu l’ingegner Carlo Semenza già nel 1926. Ma tra perizie geologiche, progetti nuovi e sempre più grandi, la diga vide la luce solo dopo la Seconda guerra mondiale: la concessione definitiva per la costruzione di questo gigantesco impianto fu accordata solo nel 1948; è allora che si cominciò a parlare, nell’ambiente, di “Grande Vajont”, un progetto sempre più imponente. Vi basti pensare che i 202 metri di altezza previsti nel progetto iniziale divennero 679 dell’ultimo progetto per la diga. L’anno successivo, era il 1949, cominciarono i controlli geologici per accertare la struttura della valle e la possibilità che potesse ospitare una struttura di quella portata. Contemporaneamente le popolazioni dei due paesini che si sviluppava35


Ieri avvenne

no su uno dei versanti della valle, Erto e Casso, cominciarono a protestare contro questo progetto che li avrebbe costretti ad abbandonare non solo le loro case che si sarebbero trovate sotto il livello dell’acqua, ma anche i campi coltivati, loro principale fonte di sostentamento. Proteste che nulla poterono: negli anni Cinquanta arrivò l’OK definitivo e cominciarono gli espropri di terreni sui quali avrebbe dovuto svilupparsi il colossale impianto idroelettrico. Impianto che, secondo alcuni geologi ed esperti, presentava alcune criticità che non potevano essere sottovalutate. Il progetto definitivo prevedeva una diga alta “solo” 261 metri: un invaso che avrebbe potuto contenere fino a 159 milioni di metri cubi di acqua (contro i 58 del progetto originale). I lavori di fatto cominciarono nell’agosto del 1958, con le prime gettate di calcestruzzo per la costruzione dell’immensa diga. Il primo esperto a sollevare osservazioni fortemente critiche sulla costruzione della diga in un luogo che aveva, nel corso delle ere geologiche, subito una serie di trasformazioni che rendevano il territorio geologicamente non completamente 36

stabile, fu Leopold Müller. Il famoso specialista tedesco di esplorazioni minerarie fu consultato dai progettisti stessi, ma le sue conclusioni sul rischio di frane non fu ascoltata. In particolare il geologo Giorgio Dal Piaz, che aveva seguito il progetto fin dagli anni Trenta, confermò le sue iniziali osservazioni confermando così la sicurezza dell’area. La paleofrana - una frana molto antica non completamente sedimentata e quindi non ancorata al terreno sottostante - che provocherà poi il disastro passò inosservata agli studi geologici fino al 1959 quando Edoardo Semenza, figlio del primo progettista, ne ipotizzò la presenza dopo una perizia lungo la valle del Vajont. Purtroppo quello fu anche l’anno della fine dei lavori: la diga era terminata e poteva cominciare a fare il suo dovere. Il bacino fu riempito e cominciarono a entrare in funzione le condotte forzate e le pale per

trasformare il movimento dell’acqua in energia elettrica da portare nelle case di tutta Italia. Ma non ci volle molto perché emergessero i primi problemi. Nel novembre del 1960, a poco più di un anno dall’entrata in servizio della diga stessa, ci fu la prima frana di medie dimensioni (si stima che piombarono in acqua dal versante sinistro solamente 800.000 metri cubi di terra e rocce). Il lago, in quel momento, aveva raggiunto quota 650 m.s.l. Non vi era dubbio: esisteva una paleofrana lunga un chilometro e mezzo. Il dibattito si accese; c’era chi suggeriva di cementarla, chi invece di sbancarla, ma nessuna era una soluzione davvero convincente. Così fu coinvolta l’Università di Padova e si costruì un modello in scala della vallata e della diga per capire meglio la situazione. Il test diede riscontro negativo: secondo il professor Augusto Ghetti non si dovevano temere né cedimenti né ulteriori versamenti nella diga in grado di produrre onde superiori ai trenta metri, un’altezza di assoluta sicurezza. Purtroppo nella realtà dei fatti la frana fu di quasi 300 milioni di m³ (circa 8 volte il valore massimo previsto) e si mosse a velocità tripla di quella prevista; tutto ciò produsse un’energia cinetica di quasi 100 volte superiore al massimo previsto, e il livello dell’onda superò i 200 metri, scavallando oltre la diga. Comunque furono apportati dei sistemi di sicurezza per fermare la frana; i movimenti, di fatto, si arrestarono rapidamente e probabilmente non si


Ieri avvenne

sarebbero riattivati se, per motivi di collaudo, quella fatidica notte non si portò il livello d’acqua nel bacino sopra quota 700 metri sul livello del mare, innescando il devastante movimento di terra e roccia. Alle ore 22.39 del 9 ottobre 1963, un volume di terra più che doppio rispetto a

quello dell’acqua contenuta nell’invaso scivolò nel bacino della diga del Vajont, provocando un’onda che si arrampicò lungo il versante destro della valle distruggendo Erto e Casso; un’altra parte dell’acqua messa in movimento dalla frana (circa 30 milioni di metri cubi) saltò oltre al diga e si riversò nella Valle del Piave, travolgendo Longarone e i centri abitati vicini. Poi si fermò sul fondo della diga e formò un laghetto. Ma nel frattempo aveva colto nel sonno tutti gli abitanti di quei territori. Il numero delle vittime non è ancora accertato. Alcune fonti riportano 1909 vittime, altre

1917; quello che è certo è che le vite di quasi 2000 persone furono strappate nel sonno. A provocare questo disastro furono sicuramente la negligenza umana, la cattiva gestione del territorio, la sottostima della gravità della situazione. Ma Bisogna tenere anche conto del particolare assetto idrogeologico del monte Toc che concorse non solo alla frana ma anche alla sua velocità di scivolamento e le abbondanti precipitazioni dei gironi immediatamente precedenti. Tutto ciò portò a quello che è uno dei peggiori disastri della nostra storia, una tragedia che il territorio di quella vallata segnato dall’imponente onda, ancora oggi ci riporta come imperituro monito e ricordo delle vittime dell’arroganza umana.

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Solidarietà nel mondo di Armando Munaò

I Lions Clubs…

…al servizio della comunità Il Lions Clubs International è un’associazione filantropica e di assistenza più grande al mondo con oltre 1,36 milioni soci (tra uomini e donne) e più di 46.000 club che operano in oltre 202 paesi ed aree geografiche.

«

Aiutare gli altri è promuovere se stessi e indirizzarsi al bene». È questa la formula “segreta” di una associazione umanitaria, il Lions Clubs International, fondata nel 1917 da Melvin Jones, un giovane dirigente di Chicago. Il riconoscibilissimo emblema dei Lions è costituito da una lettera “L” d’oro inscritta in un’area circolare blu con due teste di leone, rivolte una a destra e un’altra a sinistra a simboleggiare la fierezza di quanto fatto in passato e la fiducia nel futuro. La parola “Lions” appare sulla sommità e la scritta “International” sul basso, e fregia una rete di club dei quali sono invitati a farne parte maggiorenni che godono di buona reputazione e agiscono ispirati dal significativo motto “We serve”(“Noi serviamo”). Lo scopo dell’associazione è, infatti, quello di permettere ai volontari di servire la propria comunità, di soddisfare i bisogni

umanitari, di favorire la pace e promuovere la comprensione internazionale attraverso i club. Questi si riuniscono almeno due volte al mese ed eleggono gli “officers” annualmente. L’Associazione è diretta da un consiglio d’amministrazione internazionale. Ogni anno si tiene un incontro internazionale, al quale partecipano oltre 20.000 persone. Sono presenti anche associazioni giovanili denominate Leo club. Melvin Jones lavorava presso una compagnia di assicurazione e nel 1913 ne fondò una propria. Affiliato alla massoneria, definita anche Arte Reale, un’associazione iniziatica e di fratellanza a base morale che si propone come patto etico-morale tra uomini liberi, e socio di un’associazione professionale rivolta alla crescita del benessere economico dei propri soci (il Club of business men of Chicago) di cui era segretario, Jones si sentì chiamato a una sintesi coinvolgendo i suoi amici ad adoperarsi per migliorare le proprie comunità e il mondo nella sua globalità. Il Business Circle

di Chicago accolse le idee di Jones e contattò altri gruppi simili degli Stati Uniti. Il 7 giugno 1917 a Chicago si tenne una riunione organizzativa e fu fondata un’associazione tra i circoli partecipanti. Il nuovo gruppo prese il nome di uno di essi, e divenne “Associazione dei Lions Clubs”. Successivamente fu coniato l’acronimo utilizzando quelle iniziali, e formando lo slogan «Liberty, Intelligence, Our Nation’s Safety» («Libertà, intelligenza, sicurezza della nostra nazione»). A ottobre fu organizzato a Dallas il primo congresso nazionale, nel quale vennero approvati lo statuto e il regolamento della nuova associazione, decisi i suoi scopi e il suo codice etico: in particolare, secondo le idee di Jones, fu stabilito che «nessun club dovrà avere quale obiettivo il miglioramento delle condizioni finanziarie dei propri soci». Nel 1920 fu fondato un Lions Club in Canada e l’associazione divenne internazionale. Nel 1925 nella convention internazionale dell’associazione a Cedar Points (Ohio, USA) Helen 39


Solidarietà nel mondo

Keller, la scrittrice e attivista sordo-cieca, li invitò a divenire «cavalieri dei non vedenti nella crociata contro le tenebre» e da quel momento l’associazione si impegnò a favore dei non vedenti. Dal 1945 collaborò con le

Nazioni Unite per il settore delle organizzazioni non governative. Durante gli anni cinquanta e sessanta si espanse in Asia, Europa, e Africa. Nel 1950 venne creato il primo Lions Club di lingua italiana a Lugano (Svizzera, nazione cui si devono anche gli albori del lionismo di lingua tedesca e francese). Nel 1951 venne creato da Oskar Hausmann il primo Lions Club italiano a Milano. Il primo presidente fu Mario Boneschi. Nel 1952 nacquero i Lions Club di Napoli e Torino, poi Bergamo, Como, Firenze, Parma, e Pescara. Nel 1953 nacque il distretto unico 108 per l’Italia. Nel 1968 venne fondata la Lions Clubs International Foundation (Lcif) con lo scopo di supportare più efficacemente la missione del Lions Clubs International nella erogazione dei servizi e dei progetti umanitari su larga scala. Una tappa importante della storia dei Lions fu la convention del 5 Luglio 1987 a Taipei in cui venne votata con grande maggioranza la fine della discriminazione delle donne nella partecipazione attiva al club. Fino ad allora infatti le donne, pur potendo partecipare ai servizi erogati dai Lions, non avevano diritto di voto e non potevano accedere alle cariche dell’organizzazione. Il 15 luglio 1994, nella convention tenutasi a Phoenix in Arizona, venne eletto presidente del Lions Club International, l’italiano Giuseppe (Pino) Grimaldi, un medico siciliano di Enna e fondatore del locale Lions Club nel 1962; il primo, e tutt’ora unico, italiano eletto ai vertici dell’associazione. In occasione della convention per il 100° anno dell’associazione, tenutasi a Chicago dal 30 giugno al 4 luglio 2017, è stato eletto presidente il dottor Naresh Aggarwal di Batala nel Punjab (India) per il periodo 2017-2018. Alla

carica di presidente per il periodo 2018-19 è stata eletta la dott.ssa Gudrun Yngvadottir, scienziato biomedico di origine irlandese, ma, soprattutto, è stata la prima donna in 102 anni di vita dell’associazione a ricoprire la carica di Presidente internazionale dei Lions Club. Il dott. Jung-Yul Choi è l’attuale presidente.

GLI SCOPI DEL LIONS CLUB INTERNATIONAL Lo scopo dell’associazione è quello di permettere ai volontari di servire la propria comunità, di soddisfare i bisogni umanitari e di favorire la pace e promuovere la comprensione internazionale attraverso i club e gli scopi dell’associazione. E più precisamente: - Creare e stimolare uno spirito di comprensione fra i popoli del mondo. - Promuovere i principi di buon governo e di buona cittadinanza. - Prendere attivo interesse al bene civico, culturale, sociale e morale della Comunità. 40

- Unire i Clubs con i vincoli dell’amicizia, del cameratismo e della reciproca comprensione. - Stabilire una sede per la libera ed aperta discussione di tutti gli argomenti di interesse pubblico, con la sola eccezione della politica di parte e del settarismo confessionale. - Incoraggiare le persone che si dedicano al servizio a migliorare la loro Comunità senza scopo di lucro e promuovere un costante elevamento del livello di efficienza e di serietà morale nel commercio, nell’industria, nelle professioni, negli incarichi pubblici e nel comportamento in privato.


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Solidarietà e altruismo di Armando Munaò

Il Lions Club Feltre Castello di Alboino 019 FRONTE

I

l Lions Club Feltre Castello di Alboino riceve la Charter (la carta costitutiva) il 23 ottobre 1999. Nasce come Comitato costituito dalle consorti dei Soci del Lions Club Feltre, divenuto poi, nel maggio del 1980, Club Lioness Feltre, promotore, sin da subito, di numerose qualificate iniziative sociali. I tempi cambiano, il mondo si evolve, e nel 1987 il Lions Club International, dapprima solo con presenze maschili, apre l’associazione alle donne. Il Club Lioness, però, non cambia denominazione ma continua a operare come tale. Nell’anno sociale 1998-99 arriva la svolta decisiva perché il governatore di allora, certamente sollecitato dalla sede centrale, obbliga il Club “delle donne” a una scelta sostanziale: diventare Lions oppure chiudere. Nel 1999 le socie, sostenute dal Gover-

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natore di allora, Enzo Viola, iniziano un nuovo percorso, non privo di difficoltà, tanto che al momento della trasformazione più della metà si dimettono. Gli anni passano e nonostante il numero femminile si fosse ridotto drasticamente, nelle “Lioness” rimaste è ferma, sempre di più, la volontà di continuare il percorso iniziale che ha motivato la nascita del “loro” Club. E Oggi il Lions Club Feltre Castello di Alboino (misto, per la cronaca, con l’ingresso del primo uomo avvenuto nel 2011) ha un “fare” più che mai attivo e dinamico. Tanti i progetti realizzati, conservati nel cassetto dei ricordi più belli. Tante le occasioni di solidarietà e altruismo, e tanto il continuo impegno, come l’ideale dei Lions chiede. Un fare rivolto alla comunità, ai più deboli, ai più bisognosi e ai meno abbienti. Per saperne di più, per meglio conoscere questa realtà “umanitaria” e presentarla ai nostri lettori, abbiamo intervistato Maria Teresa Bighi, l’attuale Presidente, e Federica Stien, Presidente della 3a circoscrizione.

L’INTERVISTA

Presidente Bighi, l’essenza dei Lions si basa su due principi: solidarietà e altruismo. Cosa rappresentano per Lei e per i Lions queste due parole? La nostra è un’associazione di servizio rivolta all’umanità, ai più deboli, ai meno

abbienti e ai più bisognosi. Noi consideriamo il rispetto, ma soprattutto l’aiuto, a queste persone come elemento portante del nostro “modus operandi”. Un fare che si concretizza non solo nella loro quotidianità, ma anche nei tragici momenti di calamità naturale. Essere Lions, quindi, significa essere “sempre” e comunque al servizio delle persone, nessuna esclusa. Com’è d’uso nei Lions ogni presidente propone un progetto, oppure obiettivi di solidarietà qualificati, ovviamente rivolti ai più bisognosi e ai più deboli. Nel suo caso, c’è qualcosa che avete realizzato e che ha gratificato Lei e il Club che presiede? L’anno scorso, dopo tre anni di raccolta fondi, abbiamo donato un cane guida a una persona non vedente. E mi creda, per noi è stata una grandissima soddisfazione e, nel corso della consegna, abbiamo vissuto un momento molto, ma molto toccante. Purtroppo questo animale, davvero “speciale”, non può di certo cambiare la vita di un non vedente, ma indiscutibilmente la migliora. È necessario anche sapere che un cane guida ha un costo di circa 25mila euro, metà donati dalla scuola stessa mentre l’altra metà è a carico del Club, sempre impegnato nella raccolta fondi. In questo specifico caso c’è stata una fattiva collaborazione con i Club Lions vicini. Mi permetta anche di porre l’accento sul fatto che dal 1959 esiste una scuola cani guida dei Lions e che in questo lungo tempo sono stati donati oltre 2mila di questi fantastici e indispensabili anima Signora Federica, lei è stata una delle fondatrici Lions Club Feltre Castello


Solidarietà e altruismo di Alboino. In questi lunghi anni, nel tempo e con il tempo, c’è stata una vera e concreta trasformazione dell’organizzazione Lions che ha visto la continua e crescente presenza di uomini e donne. Il suo parere in proposito? Ciò che lei dice è vero perché non solo i Lions, ma anche tutte le varie associazioni che operano nella nostra quotidianità, nessuna esclusa, devono adattarsi ai tempi. Nel nostro caso anche i Lions l’hanno fatto, nella qualificata logica di avere al loro interno la componente femminile, e non solo per il loro fattivo contributo, ma anche per concretizzare una diversa visione di come si opera e si agisce. Da sempre donna e uomo, quando esiste una loro comunione d’intenti, bene riescono a vivere in una positiva e fattiva collaborazione, in una perfetta simbiosi che indiscutibilmente può dare, e certamente darà, solo e solamente buoni risultati. Purtroppo c’è ancora molto da fare per accrescere e potenziare il binomio

uoma-donna. Per esempio, nel nostro distretto la presenza femminile è di circa il 26%. A mio modesto avviso è ancora poco. Noi, però, siamo molto fiduciose e quindi sono del parere che, piano piano, arriveremo a ottimizzare questo aspetto. Signora Maria Teresa, a suo parere la cittadinanza, e non mi riferisco al Feltrino, ma a tutte le realtà geografiche, è abbastanza sensibilizzata sui concetti di solidarietà e altruismo? Penso che le persone abbiano ben compreso questi fondamentali concetti. Purtroppo il fare e l’operare dei Lions per la comunità sono poco conosciuti, forse per mancanza di comunicazione e

d’informazione. Ciò potrebbe spiegare il motivo per cui le iniziative societarie e i progetti che annualmente realizziamo sono, purtroppo, destinatari di poco riscontro. Ed è anche per questo che tutti noi siamo costantemente impegnati, Governatore Buodo in prima persona, affinchè si possa migliorare la comunicazione per fare meglio, e più opportunamente conoscere, sia i nostri progetti, e sia, soprattutto, l’essenza e gli scopi dei Lions. A tal proposito mi permetta, in particolare, di sottolineare il Progetto Martina che nasce circa quindici anni fa e che è un testamento virtuale di una ragazza mancata a 20anni per un carcinoma. Un service rivolto ai ragazzi della scuola superiore per spiegare loro il corretto stile di vita allo scopo, non solo di conoscersi meglio, ma anche per approfondire, nel modo giusto e appropriato, i concetti della prevenzione e della “positiva” vita in comune. Questo service, conosciuto a livello internazionale, nasce da un’idea di Cosimo Di Maggio (senologo) con la collaborazione, nel tempo, del dott. Stefano Camurri Piloni. Altro nostro impegno societario è il “Sight for Kids” ovvero un particolare esame di prevenzione che riguarda

soprattutto i bambini delle scuole materne affette da Ambliopia (occhio prigro) che, a questa età, non riescono a spiegare e far comprendere ai loro genitori la difficoltà visiva. Di poi, la lotta contro il diabete che nel tempo e se non ben curato, manifesta alcune gravi complicanze, tra le quali una in particolare che interessa gli occhi e la vista, causando a volte anche la cecità. E sempre nel tema “salute” un service che ci sta particolarmente a cuore riguarda appunto la cardiologia con l’istituzione di corsi, per docenti e studenti maggiorenni (da parte di personale preparato e autorizzato), all’uso appropriato del defibrillatore e primo soccorso con manichino dato in uso alle scuole. E ancora numerosi Service di solidarietà sociale e sanitaria quali la raccolta di occhiali usati (ricondizionati e poi inviati ai paesi e zone disagiate e in povertà), “dona un cane guida”, ovvero il reperimento fondi per donare un “angelo” a quattro zampe a una persona non vedente.

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Solidarietà e altruismo

Da sottolineare che il 2020 non è stato un anno davvero facile. Anche il Lions ha dovuto adeguarsi ai nuovi bisogni e nuove modalità d’intervento, soprattutto a causa del Corona virus. Il Club Castello di Alboino ha saputo, perciò, accantonare molti dei progetti già delineati ed intervenire dove l’emergenza era più grave. A tal proposito, e per venire incontro a particolari esigenze della comunità, abbiamo donato dispositivi di protezione individuali (DPI), strumenti sanitari ad alcune RSA del territorio della Valbelluna e 11 Tablet e 2 PC all’istituto comprensivo di Borgovalbelluna.

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È favorevole alla proposta di istituire nella scuola italiana dei corsi specifici o qualificati incontri che abbiano come tema portante la maggiore conoscenza e l’educazione ai concetti di solidarietà e altruismo? Certamente! Sarebbe decisamente una ottima cosa, un progetto di alto valore morale, civile ed educativo, in tutti i sensi. E credo che servirebbe anche a combattere la dannosa e crescente pratica del bullismo che sempre più si manifesta tra ragazzi e ragazze, specialmente in ambito scolastico. In questo momento state concretizzando qualche particolare iniziativa? Sì. Come Club Lions Castello di Alboino, abbiamo introdotto, per primi nella nostra zona, il progetto il “Kairòs” che nasce dalla volontà di mettere a disposizione la propria “ricchezza interiore” da parte di alcuni soci Lions e come obiettivo primario si prefigge di riuscire a migliorare l’integrazione scolastica e quindi anche sociale delle PERSONE che per inconsapevolezza, timori e pregiudizi, troppo spesso considerano ”diverse” da noi, “presenti normodotati”, finendo con il privarle persino della loro dignità umana. Un progetto seguito non solo dagli insegnanti, ma anche da personale esperto e competente e che, attraverso dei libricini o piccole dispense, dà la possibilità di meglio conoscere questi due grandi universi della nostra società. A oggi, risultati e riconoscimenti sono stati, per noi, molto gratificanti anche e principalmente da parte degli insegnanti e da coloro i quali hanno

partecipato e contribuito alla riuscita dell’iniziativa. “ Kairòs, è quindi un progetto culturale rivolto a tutti e si basa su un innovativo concetto di “integrazione al contrario” e a un “pensare speciale”. E altro Service, per noi importante è formativo, è un particolare concorso scolastico “Scambi Giovani”, rivolto agli studenti del IV anno superiore (aventi maggiore età alla partenza) su un tema, con argomento a scelta del Club) Il vincitore/vincitrice avrà la possibilità di vivere un’esperienza all’estero concretizzando uno scambio culturale, ospite di una famiglia Lions e soggiorno in Camps Lions nel Mondo.

DIRETTIVO LIONS CLUB FELTRE CASTELLO DI ALBOINO ANNO 2020/2021 PRESIDENTE Maria Teresa Bighi PRIMO VICE PRESIDENTE Barbara Feltrin SECONDO VICE PRESIDENTE Gianni Gorza SEGRETARIO Nilva Scarton TESORIERE Federica Stien CONSIGLIERE Pierangelo Sponga CONSIGLIERE Adriana Bavosa Camurri Piloni CERIMONIERE Adriana Bavosa Camurri Piloni GST Dorino Moret COMUNICAZIONE MARKETING Sergio Cugnach


L’Album Fotografico

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L’arte nei secoli di Laura Mansini

Antonio Canova il genio e il marmo

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er un viaggiatore che voglia scoprire le bellezze d’Italia partendo da Nord, non può sfuggire Possagno, una cittadina di poche migliaia di abitanti, in Provincia di Treviso, ma che, grazie al genio di uno dei suoi figli che hanno fatto grande l’arte italiana dagli ultimi anni del 1700 ai primi dell’800, Antonio Canova, possiede la più importante collezioni d’Europa. Gessi pitture e molto altro ancora ed il suo monumento più rappresentativo della concezione dell’Arte Neoclassica: la Chiesa Arcipretale della Santissima Trinità conosciuta ora come il Tempio Cannoviano, da lui progettata, la cui prima pietra Canova pose l’11 luglio

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1819. Il grande tempio è la sintesi dell’arte neoclassica che vuole rendere omaggio all’arte greca con il magnifico colonnato che fa da ingresso e ricorda il Partenone di Atene, mentre il tempio si rifà al Pantheon di Roma. Ricordo ancora la strana sensazione che provai da bambina quando con i miei genitori visitai a Roma, il Museo Borghese che esponeva la stupenda statua di Paolina Buonaparte. Era una figura bellissima


L’arte nei secoli adagiata con grande eleganza su un Triclinio. Osservandola, affascinata, mi venne istintivo allungare la mano per accarezzare le pieghe della leggera veste che le copre parzialmente le gambe; oltre al rimprovero deciso dei miei genitori, la fredda sensazione che mi colse quando la toccai mi ritorna in mente ancora adesso. Mi sembrava una morbida stoffa, ma era pur sempre marmo. Fu così che imparai a conoscere Antonio Canova, scultore di estrema raffinatezza, capace di trattare il marmo come una sarta lavora le sue stoffe. Per i Veneti il marmo è parte della loro storia, le “cave de marmo” non disturbano gli abitanti, che trovano in questi sfregi delle loro montagne, ricchezza, lavoro e beneficio. Fin da piccoli vengono a contatto con questo meraviglioso dono della natura e ogni famiglia che abita vicino alle Cave ha uno scalpellino in casa. Antonio Canova non faceva eccezione era figlio e nipote di scalpellini. Artista veneto fra i più interessanti del Neoclassicismo, periodo artistico che si insinua fra il Barocco ed il Romanticismo, Antonio nacque a Possagno il primo novembre del 1757 . Rimasto prematuramente orfano di padre, quando la madre si risposò trasferendosi in un paese vicino, venne affidato alle cure del nonno paterno, Pasino abile scalpellino e capomastro. Personaggio burbero e severo col piccolo nipote,

al quale insegnò i primi rudimenti del mestiere, seppe tuttavia cogliere nel fanciullo le straordinarie doti nella scultura e nel 1768, a soli 11 anni, lo mandò a Venezia per iniziare il proprio apprendistato. Frequentò la scuola di Scultura, oltre alla pubblica Accademia del nudo, dove realizzò le sue prime opere che gli dettero una certa notorietà nell’ambiente artistico locale. Nel 1773, a soli 16 anni, scolpì “Orfeo e Euridice”, poi il giovane bellissimo “Apollo” e “Dedalo e Icaro” nel 1779. Opere straordinarie, ispirate alla grande tradizione classica, Greco-Romana. E fu proprio per avvicinarsi alla grande Storia che, nel 1779, si recò a Roma, città che lo conquistò a tal punto da decidere di lasciare il Veneto, trasferendosi definitivamente in essa, pur mantenendo i contatti con la terra d’origine. Qui va incontro al proprio destino d’artista. Visita Ercolano, Pompei e Paestum, conosce e fa amicizia con i più grandi artisti e gli intellettuali, inizia con loro a teorizzare un nuovo ritorno al classico, che nelle sue opere si manifestò sempre più come ad esempio “Teseo e il Minotauro” (1781-83), per proseguire con la serie di sculture, sempre di soggetto mitologico, eseguite sul finire del ‘700 che gli dettero fama internazionale. Fra queste ci piace ricordare “Eros giovinetto”, “Amore e Psiche”, “Ebe”. ” Venere e Adone” e le splendide “Tre Grazie”.

Uomo di straordinaria Cultura, venne soprannominato “ Il nuovo Fidia”. Visse a Roma, ma non scordò mai la sua Terra, infatti nel 1801 fu raggiunto dalla madre e dal fratellastro, il giovane abate Sartori. La madre dopo poco tempo, non sopportando la vita frenetica di Roma tornò a Crespano, mentre Giovan Battista, uomo di grande cultura ed intelligenza, rimase per sempre al fianco del fratello aiutandolo come consigliere, segretario, amministratore del patrimonio. Entrambi raggiunsero vette altissime imponendosi nella società del tempo grazie alle straordinarie doti nei loro reciproci campi. Alla morte di Antonio il 13 ottobre del 1822 Monsignor Giovanni, uomo coltissimo e generoso ritornò a Possagno dove si dedicò alla memoria del Fratello, terminando la grande opera di Antonio, costruendo la Gypsoteca nel giardino della Villa, nella quale raccolse tutti i modelli in gesso che si trovavano nello studio di Roma . Alla sua morte lasciò tutti i loro averi al paese di Crespino e di Possagno, con l’impegno di non disperdere quanto ricevuto, nacque cosi “La Fondazione Canova” di Crespano, con sede a Possagno, in via Canova, nella villa del grande artista. Due fratelli, figli di una terra, il Veneto che sa coniugare la ricerca dell’arte con lo spirito imprenditoriale.

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Conosciamo le aziende di Armando Munaò

BIASIOTTO

VINI E SPUMANTI...

...la tradizione si tramanda da padre in figlio.

N

el presentare ai nostri lettori una qualsiasi realtà, sia essa industriale, commerciale o artigianale, non sempre si riesce a identificare e scrivere su quelli che sono gli elementi portanti e le caratteristiche salienti dell’azienda. Nel caso della BIASIOTTO – Vini e Spumanti - con sede a Quero Vas, il nostro compito risulta essere veramente facile. Intanto la sua data di nascita 1907 che è certezza di voluta e continua crescita produttiva mirata sempre, nel tempo e con il tempo, alla ricerca degli utili e indispensabili miglioramenti tecnici e tecnologici per offrire al cliente, sia esso pubblico o privato, un prodotto decisamente di alta qualità. Una crescita, la sua, da quattro generazioni, che in quel lontano anno prese spunto da quella saggia e “umile” cultura contadina che è ancora oggi punto di riferimento nella produzione. Capostipite della famiglia e fondatore della BIASIOTTO, è stato Luigi il quale, considerate che c’erano tutte le valide e giuste condizioni, a partire dalla localizzazione produttiva situata nel cuore della migliore zona del prosecco, decise di iniziare a produrre e dare quindi vita a quella che 48

sarebbe diventata l’azienda di famiglia. Di poi Silvio e infine Luigi BIASIOTTO padre di Andrea che insieme alla sorella Tatiana, ha preso le redini dell’azienda di famiglia apprendendo i preziosi consigli del padre, tuttora elemento portante della cantina. La loro è stata una discendenza unica dove i concetti del produrre e l’insieme di conoscenze acquisite si sono tramandati nel tempo e per diverse generazioni. Oltre un secolo di continue verifiche durante il quale la filosofia di orientamento alla qualità e al buon gusto è rimasta sempre la stessa. “Nella produzione del nostro vino, ci sottolinea, infatti, Tatiana, ovvero nella vinificazione e nella spumantizzazione, usiamo tutto il bagaglio di esperienze che ci sono state tramandate dal bisnonno, nonno e anche da nostro padre, che è ancora uno dei pilastri della nostra azienda, senza tralasciare, anzi, tenendo presente, l’innovazione che evolve di anno in anno a vantaggio di un prodotto in grado di soddisfare il palato anche dei più esigenti, nell’ottica di un alto rapporto tra qualità, prezzo e buon servizio”.

“Ciò che ci guida, continua, è la passione che combinata all’esperienza e alla ricerca di un continuo miglioramento, ci aiuta a soddisfare pienamente il nostro consumatore. Miglioramento che si sposa anche con alcune e precise scelte aziendali: quella di utilizzare in modo esclusivo serbatoi in acciaio; l’uso dell’azoto per la saturazione delle vasche in modo tale da evitare che il vino venga a contatto con l’ossigeno. La stessa particolare attenzione la mettiamo nella coltivazione delle viti salvaguardando l’ambiente che le circonda, evitando che particolari sostanze nocive possano disperdersi nell’ambiente inquinando il prodotto finale. In altre parole, sottolinea Tatiana BIASIOTTO, accortezza particolare in tutte le fasi del processo produttivo allo scopo di garantire la ricercata qualità e genuinità”. E a proposito della qualità e genuinità dei vini e spumanti BIASIOTTO, impressiona lo straordinario Palmares di riconoscimenti, attestati e premi ottenuti sia a livello nazionale che internazionale. Per fare qualche esempio, Il Prosecco DOC Andrea BIASIOTTO è stato definito da Luca Maroni, dal 2016 al 2020,


Conosciamo le aziende il migliore d’Italia, ottenendo punteggi sempre crescenti. Stesso titolo, stesso riconoscimento e stesso attestato al Prosecco Extra dry, indicato nell’annuario 2021 con un punteggio di 96 punti su 99. E ancora altri numerosi riconoscimenti nazionali e internazionali quali quelli di Jancis Robinson, Decanter e Merano WineHunter. Una bacheca che annovera prestigiose medaglie d’oro di cui quattro Gilbert & Gaillard, una al Berliner Wein Trophy e un’altra al XVI Concorso Internazionale di Madrid, in Spagna. “Certo, questi premi e riconoscimenti ci inorgogliscono, conclude Tatiana, ma ciò che ci gratifica maggiormente è il tradizionale “passaparola” tra i nostri clienti che sono i veri e quotidiani giudici della nostra produzione. Molti i prodotti della BIASIOTTO con il

fiore all’occhiello quello più ricercato dal cliente, ovvero il Prosecco DOC Andrea BIASIOTTO, destinatario di non pochi consensi e moltissimi premi. E non da meno è la versione più amabile di questo vino nonchè l’ Extra Brut con fermentazione in bottiglia. E ancora Il Prosecco fermo (senza bollicine), lo spumante Brut di Chardonnay e tutto l’assortimento dei rossi con alcuni pregiati barricati. Il tutto integrato da spumanti e vini dolci da dessert.

In conclusione, non bastassero le lodi e gli attestati di valore conquistati sul campo a convincerci, per innamorarci dei vini e spumanti BIASIOTTO dovremmo forse rifarci al motto di un famosissimo presentatore televisivo, Guido Angeli, molto noto negli anni Ottanta soprattutto per terminare il suo programma con «Provare per credere!». (p.r.)

La BIASIOTTO-Vini e Spumanti dispone di una tenuta a Codroipo (Udine) che si estende per oltre 25 ettari. La cantina è attrezzata con modernissimi impianti di vinificazione a temperatura controllata con uso esclusivo dell’acciaio sia per l’uva sia per il mosto/vino. Un’azienda a gestione familiare che ancora oggi rappresenta l’essenza degli antichi “vinai”, producendo vini e spumanti di alta qualità che indubbiamente possono essere conservati nelle cantine più pregiate. Azienda Agricola BIASIOTTO S. Ag. S. Via Piave 16 Quero-Vas (BL) Italia Tel.0439 788000 - Fax 0439 787734

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Conosciamo il territorio di Waimer Perinelli

LAMON e il nobile FAGIOLO

Era il 1532 quando, con eccellenti sementi, donate da Papa Clemente settimo, venne introdotto il fagiolo nella coltivazione agricola di Lamon.

E

ro a Milano, a metà degli anni 70 del secolo scorso, quando, ad una cena di redazione del settimanale Tempo Illustrato, il caporedattore, Flavio Simonetti, dopo avere fatto servire un contorno, disse con orgoglio: “I fagioli favolosi che avete mangiato sono di Lamon”. Confesso di avere scoperto in quel momento l’esistenza di questo paese, contrassegnato da un minuscolo puntino rosso sulla mappa d’Italia, che ho visitato solo vent’anni dopo in occasione di un servizio realizzato per la Rai e da me suggerito. Così ho scoperto perché fagioli tanto

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famosi erano così ricercati e rari: hanno qualità particolari e crescono in un territorio proporzionalmente ridotto. Lamon è un comune di 2259 anime, con 54 kmq, che confina con gli altri comuni bellunesi di Arsiè, Fonzaso e Sovramonte e con quelli trentini, di Canal San Bovo, Castello Tesino e Cinte Tesino. Tutte terre accomunate in passato da aspri conflitti e dalla lotta continua contro la miseria e le asperità del suolo. Per le guerre non ci sono pause, durante tutto il medioevo, non cessarono quasi mai, sebbene si trattassero di scaramucce di signorotti locali. Bisogna arrivare al 1420 perché Venezia porti fra queste montagne e vallate, a colpi di bastone e spada, un po’ di serenità. Cento anni dopo, a causa dell’ingordigia francese e dell’ arroganza spagnola, nella guerra dichiarata dalla Lega di Cambrai, la Serenissima, assalita da ogni parte, dovette difendere ogni metro del territorio. Si combattè al monte e al piano, sul mare, mentre il territorio di Feltre e dintorni venne invaso e saccheggiato dalle truppe di Massimiliano primo d’Austria, capo supremo del Sacro Romano Impero, titolo ormai poco più che onorifico, ideatore delle truppe stanziali tirolesi, chiamate Schutzen, ancora oggi esistenti. Venezia sconfisse prima le truppe imperiali, liberando il Cadore ed il feltrino, poi annientò proprio i Tirolesi di

Massimiliano. E mentre i veneziani affrontavano i soldati della Lega, compresi alcuni staterelli confinanti come il ducato di Milano e quello di Ferrara, gli abitanti del Feltrino e del Tesino decisero di combattersi fra di loro. I tesini vincitori costrinsero i lamonesi a versare una taglia di 1200 ducati, pagabili in bestiame e denaro, e a cedere parte del monte Poit e l’intero monte Agaro. Nella seconda metà del 1500 si riaccesero vertenze territoriali fra Lamon ed Arsiè e nel 1573 si combattè sul monte Poit e la Valporra, fra Lamon e Castello Tesino. Nel 1578


Conosciamo il territorio

trecento tesini armati invasero il territorio di Lamon rivendicando il possesso dei pascoli sul monte Poit. Anche gli abitanti di Cinte Tesino, lo stesso anno, forse approfittando della vertenza promossa dai cugini, rivendicarono la proprietà

del monte Gnei. In questo marasma generale, sedato solo con l’intervento delle Cancellerie di Venezia e del Tirolo, l’abate bellunese Giovanni Pietro Dalle Fosse, conosciuto come Piero Valeriano, avviò fra il 1528 ed il 1532, la coltivazione del fagiolo di Lamon. Venne chiamato la carne del povero perché ricco di sostanze alimentari indispensabili alla crescita. Poveri per modo di dire, i consumatori, visto che oggi il fagiolo di Lamon e della vallata bellunese, riconosciuto IGP, e riconducibile a quattro varietà, costa mediamente 22 euro il chilogrammo. A questo fagiolo, dalla buccia sottile ed elevata solubilità in acqua, ogni anno, a fine settembre, viene dedicata una festa. Il fagiolo è stato un vero “principino”

fino al 1817 quando, per mancanza di raccolto e conseguente carestia, a sostegno dell’alimentazione basata essenzialmente sul granoturco, venne introdotta la patata, la regina della tavola. E’ noto che, mentre gli uomini si combattono per un pezzo di prato, le verdure vivono in armonia e pace: così è nato in cucina, il Pendolon succulento piatto a base di fagioli e patate. Quello che ho mangiato quel giorno a Milano.

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Arte, danza ed erotismo di Armando Munaò

Il BURLESQUE Tra danza, satira, ironia, comicità ed erotismo

Il burlesque è un particolare spettacolo d’intrattenimento nato in Inghilterra agli inizi dell’Ottocento e che negli Stati Uniti si sviluppò a tal punto fino a diventare vero e proprio varietà subendo, con il trascorrere del tempo, numerose modifiche che lo hanno trasformato in un dinamico e piacevole show dove satira, danza, eros e pura allegria si sposano in uno spettacolo unico. Lydia_Thompson, dopo aver lavorato come ballerina in Inghilterra ed in Europa, divenne una ballerina ed attrice di spicco nel burlesque sui palcoscenici di Londra. Nel 1868 ha introdotto il burlesque in America suscitando grande clamore e ricevendo grande notorietà.

I

Inizialmente il burlesque diede origine a veri scandali, ma poi, grazie alla professionalità, alla grazia, all’ironia e al sex apple delle prime ed apprezzate ballerine, riesce a sfondare nei grandi teatri di Broadway, New York, Chicago Cincinnati, trasformando tutto ciò che può essere interpretato e definito “erotico” in vera ed autentica ironia, con balletti a volte sensuali, a volte ammiccanti, ma mai volgari. Il tutto integrato da una accattivante e piacevole comportamento che richiama e coinvolge gli spettatori. Oggi questo apprezzato spettacolo è frequentatissimo e le sue maggiori interpreti, da Immodesty Blaze alla famosissima Dita Von Teese e all’italiana Eve la Plume, sono richiesti da tutti i maggiori teatri d’Europa perché in un piacevole erotismo sanno

l burlesque, nella sua interpretazione originaria, prevedeva canzoni con marcate caricature, danze e balletti eseguiti da ballerine, con il tempo sempre più svestite o che si presentavano sul palcoscenico in particolari abiti succinti. Con il passare del tempo, sebbene sia rimasta inalterata l’essenza della recita e delle interpretazioni di allora, nel corso dello spettacolo le artiste si esibiscono in veri e propri spogliarelli che a differenza, però, dello strip-tease non prevedono e contemplano il nudo integrale o atteggiamenti eroticamente spinti, bensì atteggiamenti dove il vedo-non vedo è l’elemento portante. 53


Arte, danza ed erotismo

coniugare danza, teatro, ironia e vera espressività femminile. Il burlesque è oramai considerato una vera forma d’arte, un indiscutibile momento d’intrattenimento dove bellissime ragazze dalle forme sinuose alternano danza ed eros a momenti di comicità coinvolgendo il pubblico, sia esso

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maschile che femminile e dove elementi anche circensi, l’estetica delle pin-up, le capacità artistiche delle ballerine e l’arte dello spogliarsi, si sposano in un unico quadro estetico dove la cornice è anche una decisa presa in giro dei moltissimi aspetti della vita quotidiana. Gli spettacoli di Burlesque che si sono enormemente sviluppati anche in Italia, grazie alle capacità artistiche delle nostre interpreti che presentano, in uno spettacolo ricco di sfumature, e un perfetto abbinamento di espressività sensuale alla comicità dei doppi sensi, alla satira e al piacevole gioco delle parti. Le ballerine, il cui abbigliamento è fatto di corpetti, bustini, pizzi, merletti destinati poi ad essere tolti in uno spogliarello che non è mai volgare, alternano danze sinuosamente eccitanti a battute comiche ed esilaranti proponendo uno spettacolo di intrattenimento sensuale, malizioso e piacevole a vedersi, che attrae l’attenzione dello spettatore. Oggi si parla di neo-burlesque e non pochi lo intendono un vero

e proprio fenomeno di massa, riservato anche alla crema della società, che ha trovato la sua evoluzione ed il suo gradimento da parte del pubblico grazie e soprattutto per il look e le performance delle grandi interpreti quali Immodesty Blaize, Dirty Martini, Catherine_D’Lish, Dita Von Teese, ritenute oggi le vere ed indiscusse icone. Ed è stata appunto quest’ultima, Dita Von Teese, che in una sua intervista ha sottolineato… “come lei non si sente affatto limitata come donna, tutt’altro, perché nel burlesque ha coniugato i suoi studi di danza classica con l’estro che la contraddistingue, non scadendo mai nella volgarità, anzi divenendo imprenditrice di se stessa”.


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Satira, danza e sensualità di Waimer Perinelli

BURLESQUE: UN GIOCO SENSUALE Satira, danza, e ammiccante sensualità sono i tre ingredienti fondamentali del Burlesque il genere teatrale che sta tornando di moda. Ma non è uno sfizio passeggero; è un viaggio nel mondo della donna e nei desideri dell’uomo.

caratteristica, cresciuta nei secoli, è però l’ironia a volte colta, altre quasi volgare; uno spettacolo ricco di contaminazioni, capace di unire vari generi. Con il tempo lo spettacolo ha smesso la sua funzione di critica letteraria parodistica e satirica, per divenire una forma di passatempo leggero, simile alla burletta, una provocazione costante, irriverente di sensuale licenziosità con numeri, da avanspettacolo, ai quali partecipano donne affascinanti, ballerine in costume più o meno succinto, veri e propri numeri di spogliarello. Pensate

L

a scuola di burlesque era in un capannone artigianale. L’esterno anonimo, un po’ appassito. Leggermente in ombra, fra altre targhe, c’era quella con la scritta Sartoria Teatrale Chiara Defant, l’ ideatrice del corso per aspiranti seduttrici. Il burlesque è infatti un gioco di seduzione, con agguati per gli occhi e per la mente, un invito espresso con la voce, l’abito, il canto, il corpo. Spesso l’offrirsi e il ritirarsi, l’invogliare ed il respingere. Sempre guardare ma non toccare. Ne ha fatta di strada quella ragazza. L’ho conosciuta poco più che ventenne, quando, con il fresco diploma dell’Accademia Belle Arti di Bologna, si era presentata, all’inizio degli anni 80, al Teatro Stabile di Bolzano diretto dal giovane Marco Bernardi. Aveva fatto la gavetta e quando nel 1992 ho lasciato il

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mio incarico giornalistico, lei aveva maturato un’ utile esperienza creativa con cui qui, nel capannone trasformato in sartoria con sala prove ed uffici, offre un corso professionistico di affascinazione. Per comprendere meglio cos’è il burlesque rivediamo le immagini del Festival di Sanremo 2010 dove la bella Dita Von Teese, interprete mondiale, cabarettista, molto svestita, sdraiata in un bicchiere colmo di Martini, offriva a milioni di spettatori la sua malia. Il burlesque è uno spettacolo teatrale, un’arte antica che affonda le radici nell’Inghilterra del XIV secolo, quando vennero rappresentati alcuni episodi dei celebri e osceni Racconti di Canterbury. Prove di spettacolo dissacrante, trasformate nel tempo in satira e parodia della società. La sua principale


Satira, danza e sensualità sia frequentato da un pubblico di uomini guardoni e invece dice Chiara Defant “E’ uno spettacolo interpretato da donne che piace soprattutto alle donne”. Nel 2013 Chiara ha chiamato a svolgere un corso Barbara Meda, in arte Peggy Sue, la regina italiana di questo genere teatrale. “ La mia è una lezione di femminilità, aperta a tutte le donne, disse, in quella occasione, Peggy Sue, una dimostrazione di uso dell’ironia, di conoscenza del proprio corpo e dell’espressività quale strumento di attrazione”. Senza disdegnare gli oggetti. “ Una sedia per esempio; imparare come sedersi, stare sedute, bere con ammiccante sensualità, o ancora servirsi di un abbigliamento comodo, leggins e top, oppure gonna e

camicetta, scarpa decolté con tacco alto minimo 10 centimetri, infilare o sfilare un guanto con movimenti appropriati.” Piccoli gesti naturali in tante seduttrici, o frutto di studi accurati, come quelli, lo ricordate, di Marlene Dietrich nel film “L’Angelo Azzurro”. “Sedurre è una vera e propria arte, che va nutrita con il sentimento, le nostre emozioni, la nostra personalità, disse Peggy, ogni donna possiede l’innata arte seduttiva deve solo scoprirla, rivelarla a se stessa ed accettarla.” Il burlesque, vissuto con questo spirito, è anche e soprattutto un gioco, la ricerca della propria sensualità, la liberazione da tanti tabù e strumentali oppressioni. “Il Burlesque, dice Chiara Defant, ha

CHIARA DEFANT sarta... burlesque

C

hiara Defant, 63 anni è una sarta per scelta, con la vocazione del teatro. “ Superati i sessant’anni è normale pensare di essere stagionate. In realtà mi sento una ragazzina, dice, e il mondo vivace, brillante del palcoscenico è una specie di fontana della giovinezza”. Ricordo quando sei venuta allo Stabile

di Bolzano, sembravi un pesciolino. Due grandi brillanti , curiosi occhi. “Si, di anni ne avevo solo ventitre e un diploma d Accademia ancora fresco d’inchiostro in tasca. Nel teatro sono stata catapultata e mi ha conquistata con il gioco dell’essere e dell’aprire”. Essere “Altri” accade anche nel burlesque? “Il teatro è un gioco delle parti, il burlesque aiuta a trovare la parte principale. Dell’esperienza fatta con questo genere teatrale ricordo le donne che si avvicinavano ai corsi con timore e timidezza, poi si abbandonavano al gioco, senza pensare a qualche eccesso di forma che in altre situazioni sarebbe sembrato insopportabile.

sempre portato le donne, di ogni misura e forma, a guardarsi con occhi diversi, a prendersi con più ironia e di conseguenza ad avere una maggiore stima di sé”. E’ un genere teatrale interpretato da grandi professionisti: da Leopoldo Fregoli ed Ettore Petrolini, Gigi Proietti, Paolo Villaggio nelle parti comiche e bellissime donne che recitano e ballano avvolte da luci e lustrini. Donne oggetto del desiderio ma capaci, attraverso lo spettacolo, di essere padrone di se stesse. Uno spettacolo spesso paradossalmente ambiguo dove le donne volutamente caricano il trucco ed i gesti fino a sembrare uomini travestiti che recitano le donne. Donne che fanno ridere e sono i maschi ad essere derisi.

Con il burlesque faceva infine parte della seduzione”. Perché hai lasciato? “Ho dovuto abbandonare perché non ho un clone, sono sola, e la passione che ho nel fare le cose è difficile da condividere, purtroppo non avendo trovato un valido aiuto il mio sogno si è concluso”. Come sarta alla moda continui a lavorare. “La mia creatività si incrocia con il mondo della moda per motivi storici e attuali. A volte la sartoria è fonte di ispirazione e stravolgimento dell’ interpretazione dell’ abito, elemento in questo periodo sociale poco femminile, ma anche poco maschile”. Burlesque addio per sempre? “Mai dire mai. Mai come oggi forse ce n’è bisogno. Viviamo tempi dove la donna è concentrata nel seguire schemi impostai da influencer, e ti confesso che riprenderei ancora oggi, per far capire alle donne che si può essere manager, medico, insegnante senza essere volgare nel sedurre”.

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Tra passato e presente di Veronica Gianello

QUARANTENA: la lezione di BOCCACCIO

Quarantena. Una parola che abbiamo imparato ad usare molto spesso di questi tempi, una parola che, come molte altre, può acquisire un significato più o meno negativo, a seconda di come si decida di viverla. Inutile dire che per molte persone non si tratta di scegliere come vivere questo periodo di isolamento forzato: parlo di lavoratori, di volontari, di malati che si trovano inevitabilmente nel vortice della pandemia. Molte altre persone però, hanno avuto la possibilità di #restareacasa, con più o meno commissioni da sbrigare, bambini da badare, compiti da svolgere, persone da accudire. Persone in ansia, in pensiero: persone con il cuore fuori casa. Una sfida, questo è certo, per tutti. Eppure, si sa, non siamo stati i primi della storia. Siamo stati i primi di quest’era nuova, di questo vivere a mille all’ora, di questo tecnomondo che gira in modo strano.

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uarantena (in realtà forma veneta di “quarantina”) prende origine dall’isolamento di quaranta giorni che veniva imposto agli equipaggi delle navi come misura di prevenzione contro le malattie che imperversavano nel XIV secolo. Prima grande città di mare e commercio a imporre questa pratica preventiva fu Venezia che iniziò a utilizzare addirittura un’isola lagunare—e in seguito più di una— come ospedale per i contagiati: da qui il nome odierno dell’isoletta di Lazzaretto Vecchio. Quarantena, abbiamo imparato, vuol dire tante cose: isolamento, mancanze, realizzazioni improvvise, difficoltà, certo, ma anche possibilità. Così in questo tempo nuovo, inaspettato, scopriamo e riscopriamo noi stessi. Abbiamo visto la rincuorante nascita di nuovi lettori, l’esercizio fisico quotidiano, pani, panetti e pagnotte di ogni genere, penne che disegnano e scrivono, abbiamo visto genitori giocare con i propri figli, case finalmente vissute e folli artisti al balcone di questa Italia immobile. In tutto ciò una fortuna e una condanna, come sempre: la tecnologia. Possiamo condividere, possiamo parlare, possiamo essere più vicini alle persone che

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amiamo, possiamo studiare, tenerci aggiornati, confrontarci…Se vogliamo. Questa è stata la nostra quarantena. Tuttavia un tempo, ormai molto lontano, un tempo in cui non c’erano respiratori, terapie intensive e la gente moriva per strada, c’era chi senza farsi prendere dal panico provava a rifugiarsi. Siamo improvvisamente nel 1348, in una Firenze devastata dalla peste, e un gruppo di giovani amici decide di isolarsi fuori città. Sono 7 ragazze e 3 ragazzi, e tra di loro c’è anche un certo Giovanni Boccaccio. Grazie a loro e ad altri documenti storici, ritroviamo descritta la realtà dell’epoca: una realtà per certi aspetti vicinissima a noi. Si racconta di gente con le mani piene di fiori e lembi profumati di spezie che annusava spesso, come protezione e scudo dalla peste. Si legge “Assai e uomini e donne abbandonarono la propria città, le proprie case, i lor luoghi e i lor parenti e le lor cose, e cercarono l’altrui o almeno il lor contado”, e la nostra mente corre subito alle immagini della Stazione Centrale di Milano. La bellezza della letteratura, spesso, è il suo essere senza tempo. Diciamolo, tutti abbiamo sbadigliato in classe mentre il professore leggeva qualche novella del Decameron di Boccaccio, eppure, oggi più che mai, quel ragazzo


Tra passato e presente

scappato dalla città per scampare la peste ci sembra più vicino e ci insegna che esistono intrattenimenti che fanno bene al cuore. Il Decameron, scritto per l’appunto in queste giornate di isolamento, racco-

glie 100 novelle raccontate e scritte da questo gruppetto di amici per passare il tempo in questa reclusione: un gioco bellissimo che ci regala oggi una delle testimonianze più importanti della nostra letteratura. Il taglio delle novelle è spesso umoristico e non mancano i richiami all’erotismo bucolico, per questo la raccolta sarà spesso censurata. La struttura è ben definita, così come i temi, scelti giornalmente da ognuno dei ragazzi. L’intenzione del Boccaccio è quella di offrire una panoramica quanto più

ampia della società fiorentina del Trecento, con i loro—molti—vizi e le loro virtù. A rincorrere l’uomo nella varietà della propria vita sono Fortuna e Natura, le antiche ministre del mondo, che si intrecciano tra loro delineando già il nuovo uomo che uscirà da questo cupo periodo. Si tratta di un uomo nuovo, consapevole, creatore del proprio destino: l’uomo dell’Umanesimo e del Rinascimento. Boccaccio con il suo Decameron infatti, traccia un’analogia con l’Exameron di Sant’Agostino: come quest’ultimo riformula in versi la Genesi biblica, così Boccaccio narra la ri-creazione dell’umanità. Sono solo dieci ragazzi che, per passare il tempo, si raccontano delle storielle, eppure la loro lezione è grande: la scrittura e l’ingegno umano hanno il potere di rifondare un mondo nuovo, e chissà… Magari migliore di quello di prima.

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Attenti al… cuore di Armando Munaò

L’infarto CARDIACO P

er infarto cardiaco si intende la necrosi (morte di una parte del muscolo cardiaco) per una improvvisa interruzione del flusso sanguigno( ischemia). Di solito questo deficit è causato da una occlusione o da una stenosi critica (restringimento) delle arterie che portano il sangue. Normalmente la causa di questa gravissima patologia è causata dalla aterosclerosi, una malattia dovuta all’accumulo di grasso lungo le pareti delle arterie coronarie. In alcune circostanza questi accumuli (placche) si rompono innescando un processo di coagulazione che porta alla formazione di un trombo che occlude completamente la coronaria. L’ interruzione del flusso sanguigno, se non ripristinato in tempo, causa la morte di quella parte del cuore alimentata dalla coronaria occlusa. Da qui l’infarto. In Italia, ogni anni, si verificano oltre 130 mila casi di infarti di cui una grandissima parte letali. E sempre nel nostro paese la mortalità per attacco di cuore è di circa il 12%. Per fortuna, sia per le migliori diagnosi, sia per le terapie e sia per la prevenzione, secondo gli esperti, questa percentuale potrà essere dimezzata. I sintomi più comuni dell’infarto sono: 1) Dolore improvviso al centro del petto e dietro lo sterno che da origine ad una sensazione di costrizione, come una morsa. Il dolore può coinvolgere la mascella, le spalle e le

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braccia ed è quasi sempre prolungato e anche quando non particolarmente violento si accompagna ad una sensazione di morte imminente che il soggetto non aveva mai avvertito prima. 2)Stordimento, capogiro e sudorazione fredda. 3)Mancanza di respiro, e battito del cuore irregolare. Purtroppo l’infarto può esordire con una aritmia letale. Talvolta, soprattutto negli anziani, nelle donne e nei diabetici, il dolore non è avvertito. Cosa importantissima da sapere che come prima cura e terapia dell’infarto è la tempestività dell’intervento (il tempo è miocardio). In presenza di questi sintomi e se non si ha immediato accesso ai servizio medico, chiamare URGENTEMENTE il 112 e farsi accompagnare al più vicino ospedale.

ARITMIA CARDIACA

L’aritmia cardiaca è un’alterazione del ritmo cardiaco che causa un battito irregolare. La forma più comune di aritmia è la fibrillazione atriale che origina nell’atrio di sinistra (una delle quattro cavità cardiache) dove provoca una contrazione irregolare ad altissimo frequenza (circa 300/500 battiti al minuto). L’ incidenza di questa aritmia nella popolazione si aggira intorno all’1%, ma aumenta fino al 6-7%, raggiungendo il

6% nelle persone con più di 60 anni. Può essere cronica (stabile nel tempo), parossistica (brevi episodi che si risolvono da soli) o persistente (episodi prolungati, che richiedono l’intervento medico per essere interrotti). L’aritmia può essere non percepita oppure avvertita sotto forma di palpitazioni, mancanza di respiro e dolore toracico. La complicanza più temibile di questa aritmia è la formazione di coaguli di sangue (trombi) all’interno della cavità atriale sinistra. Sovente questi trombi si staccano ed entrano improvvisamente in circolo causando l’occlusione acuta di vasi arteriosi che alimentano numerosi organi (cervello, cuore, intestino, reni, milza e arti). L’improvvisa interruzione


Attenti al… cuore

Triplicati i decessi per malattie cardiovascolari

del circolo provoca una condizione di ischemia ( mancato apporto di ossigeno) che può causare: l’ictus celebrale, l’infarto miocardico, intestinale, renale, splenico (della milza) e degli arti. Il riconoscimento dell’aritmia talvolta è assai facile: basta controllare il polso. Talvolta la diagnosi viene fatta mentre si misura la pressione arteriosa specialmente se si usano strumenti con dei software dedicato in grado di riconoscere l’aritmia. In ogni caso, per la conferma del sospetto clinico, è indispensabile sempre e comunque l’esecuzione di un elettrocardiogramma.

In Italia, secondo una recentissima statistica, le malattie cardiovascolari (sono un gruppo di patologie che colpiscono il cuore e/o l’intero sistema dei vasi sanguigni dell’organismo, cervello, reni e apparato locomotore). Sono ancora, purtroppo, la principale causa di morte nel nostro Paese. In particolare muoiono più di 240 mila persone all’anno tra, ischemie, infarti, malattie del cuore e cerebrovascolari e rappresentano oltre il 44% di tutti i decessi, e nello specifico il 32,5% nei maschi e 38,8% nelle femmine. Eppure sono anche le malattie che si possono meglio prevenire e curare grazie a stili di vita appropriati e farmaci specifici. Purtroppo chi sopravvive ad un evento cardiaco diventa un malato cronico e la malattia modifica la qualità della vita. Nel 2020, rispetto allo stesso periodo del 2019, la mortalità è stata tre volte maggiore con un aumento significativo passando da circa il 14 al 41%. Lo dice uno studio condotto in 54 ospedali italiani e illustrato dal Prof. Ciro Indolfi (Professore Ordinario di Cardiologia Università Magna Graecia di Catanzaro). E molto, si evidenzia, è dovuto al fatto che a causa Covid si sono tralasciate molte patologie quali appunto quelle cardiovascolari. Ciò è confermato da una ricerca della Società Italiana di Cardiologia sottolinea che “La sanità si è concentrata sulla pandemia e i cardiopatici hanno evitato gli ospedali per paura del contagio”.

Si ringrazia il dott. Giovanni D’Onghia per la preziosa colaborazione. Il dott. Giovanni D’Onghia è cardiologo presso la S.C. di Cardiologia dell’Ospedale Santa Chiara di Trento

GLOSSARIO

Le malattie cardiovascolari indicano tutti i disturbi cardiaci e circolatori che possono essere così sintetizzate: causa solitamente di un coagulo che forma accumuli nelle arterie, Aterosclerosi Una malattia che porta alla formazione di accumuli (grasso, colesterolo, e calcio) nelle arterie, causando un loro restringimento e una conseguente diminuzione del flusso sanguigno

Malattia coronarica

Quando l’aterosclerosi intacca le arterie coronariche, che portano il sangue al cuore. Conosciuta anche come CAD (Malattia delle arterie coronariche) e ischemia cardiaca

Angina

Dolore al petto causato dal ridotto afflusso di sangue al cuore

Attacco cardiaco

Quando il flusso sanguigno al cuore é ostacolato, solitamente a

danneggiando o distruggendo il muscolo cardiaco. È anche chiamato infarto miocardico

Ictus

Causato dal ridotto afflusso di sangue al cervello. Quando è dovuto ad arterie ostruite prende il nome di attacco ischemico

Aritmia cardiaca

Termine che indica battito cardiaco non nella norma o irregolare

Arresto cardiaco

Un improvviso malfunzionamento del cuore che lo fa smettere di battere, impedendo al sangue di essere pompato verso gli organi vitali

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Medicina e scienza di Elisa Corni

ANTIBIOTICI Storia e curiosità Antibiotici, virus, batteri, antivirali… c’è una gran confusione su questo tema. Per questo motivo domandarsi: “Cosa sono gli antibiotici e a cosa servono” non è così sciocco come sembra.

I

nnanzitutto bisogno tenere presente che batteri e virus sono due cose molto diverse. Pur essendo entrambi microorganismi, i primi sono composti da un’unica cellula, mentre i virus sono forme di vita semplici e di dimensioni piccolissime che, non possedendo strutture di replicazione, a differenza dei loro lontani cugini, hanno bisogno di essere ospitati da forme di vita operative e non possono sopravvivere su superfici inerti come ad esempio i pavimenti di casa. Questi parassiti devono infettare nuovi ospiti, e alcuni di questi essendo patogeni possono dare origine a delle malattie. Anche i batteri esistono in forma patogena provocando infezioni per le quali il medico può prescrivere i famosi antibiotici. Per virus come il corona virus che sta flagellando la Cina in questo momento, dunque, gli antibiotici non servono a granché. Però possono comunque servire

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molto, dato che grazie ad alcuni di essi si sono salvate innumerevoli vite. Basti pensare alla penicillina, il “primo antibiotico della storia umana”. La sua scoperta è stata attribuita al medico scozzese Alexander Fleming solo nel 1928. Questi lavorando nel suo laboratorio su una piastrina di coltura contaminata da muffa, osservò che la crescita batterica era inibita da qualche fattore a lui sconosciuto. Analizzando la coltura, scoprì la presenza di questa sostanza prodotta da dei microrganismi e la battezzò Penicillina. Nonostante questa scoperta portasse a Flemming il nobel nel 1945, è importante sapere che probabilmente a scoprire, osservare e descrivere questa sostanza per primo fu un medico italiano, Vincenzo Tiberio. Molisano di origine, nel 1895 lavorava presso l’Università di Napoli e riportò l’osservazione di una muffa la cui presenza inibiva la proliferazione batterica. Precursore delle scoperte degli anni Trenta, scriveva che “Le proprietà di queste muffe sono di forte ostacolo per la vita e la propagazione dei batteri

patogeni”. Sì, perché antibiotico significa letteralmente “contrario alla vita”, e un abuso in medicina può provocare danni piuttosto seri al nostro organismo. Questo perché alcuni processi metabolici e fisiologici che avvengono nel nostro corpo sono veicolati e prodotti proprio dall’azione dei batteri. Per questo dopo un ciclo di antibiotici ci consigliano di assumere prodotti in grado di assistere la nostra flora batterica. Ma questi prodotti non sono usati solo nell’uomo. L’allevamento intensivo di animali per la macellazione è spesso collegato a situazioni fortemente contrastanti rispetto ai naturali cicli vitali: i polli, perché crescano in fretta, sono esposti costantemente alla luce; gli animali sono costretti in ambienti malsani dove il contagio è all’ordine del giorno; l’alimentazione con insilati fa aumentare il rischio di insorgenza di malattie. E così vengono preventivamente “curati” con antibiotici. Il risultato, come rilevato da recenti studi scientifici, è che i batteri superstiti sviluppano una resistenza agli antibiotici, rendendoli inutili perché inefficaci. E questi geni potrebbero addirittura essere trasmessi all’uomo, inibendo l’effetto di questi farmaci salva-vita anche nella nostra specie. Scienziati e studiosi stanno quindi lanciando un allarme: dopo moltissimi anni dalla loro introduzione gli antibiotici rischiano di farci ripiombare nella situazione precedente. È ora di prendere delle contromisure.


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Medicina & Salute di Erica Zanghellini

ESSERE GENITORI non è sempre facile

E

ssere genitori, è veramente difficile, e non si può nemmeno immaginare prima di diventarlo, quanto ti cambierà. Tutto si modifica: le priorità, i propri spazi e le proprie routine. Cercare di portare a termine tutti i compiti della giornata potrebbe diventare un’impresa. Si cerca di fare tutto al meglio, ma la perfezione non esiste e quindi potremmo dover fare i conti anche per esempio con momenti di sconforto, o di tristezza, o ancora avere la sensazione che la situazione sia più grande di noi e di non farcela. Non per forza queste emozioni e sensazioni saranno dovute al ruolo genitoriale, ma come genitori sicuramente dobbiamo farci i conti. Il come ci sentiamo infatti, si riversa immancabilmente nella capacità di gestione della vita quotidiana, con manifestazioni di diverso tipo, come per esempio una diminuzione della pazienza o ancora a scoppi di pianto improvviso e questo di certo verrà notato dai nostri cari. Se pensiamo che poi i figli, in questi casi sono meglio di un detective, e rilevano qualsiasi incongruenza, potremmo ritrovarci a dover gestire la richiesta esplicita di cosa c’è che non va. E come va gestita questa situazione? Ci troviamo incuneati tra quello che proviamo e quello che vorremmo essere. Potremmo per cui entrare in confusione. Mentire o essere sinceri e spiegargli che cosa succede?... dire o non dire? E magari ci si rende conto a posteriori di aver detto troppo. Qual è la scelta migliore? Innanzitutto voglio dirvi che se questo “malessere” dura da un po’, forse è il caso di chiarire la motivazione che lo tiene vivo. Se è vero ed inevitabile che una persona attraversi momenti di sconforto, di tristezza o di deflessione dell’umore

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e anche vero che se non c’è una motivazione importante, come può essere un lutto, credo sia il caso di approfondire e cercare una soluzione, in primis per se stessi e poi per i propri figli. Una circostanza che tende a cronicizzarsi potrebbe portar con sé delle conseguenze, anche importanti e che idealmente dovrebbero essere individuate il prima possibile per evitare che si instaurino stabilmente. Può infatti succede, che i bambini in casi granitici sviluppino dei blocchi emotivi specifici, per cui come conseguenza non riusciranno a sperimentare il mondo emotivo. Potrebbero quindi non riuscire più a manifestare il proprio disagio, oppure le proprie debolezze perché per loro significherebbe far star male o preoccupare ulteriormente, i propri genitori. Ma ritorniamo a noi, come affrontare e gestire le situazioni di malessere temporanee? Comincio col dire che tutte le emozioni sono sane e naturali, il problema si crea solo quando uno stato umorale

negativo perdura tanto tempo e crea disagio nella vita di tutti i giorni. Anche la tristezza quindi è naturale provarla, dobbiamo “attraversarla” per metabolizzarla, non possiamo fare finta di niente. I figli, richiedono attenzione ed energia, soprattutto ai più piccoli ne dobbiamo riservare di più e quindi in questi momenti in cui vengono meno saranno i primi ad accorgersi che qualcosa non va. Sarà importante essere sinceri con loro, dire che la mamma o il papà sono un po’ tristi per quel motivo. Logicamente le parole dovranno essere calibrate per l’età del bambino e soprattutto non dovremmo andare troppo nello specifico. La cosa importante da trasmettere sarà un senso di normalizzazione della cosa, far capire al minore che è naturale provare anche le emozioni negative e soprattutto che si può manifestare quello che si ha dentro. Un altro punto importante sarà quello di comunicare che questa situazione è temporanea, che come è arrivata passerà, serve solo un po’ di tempo. Dobbiamo


Medicina & Salute avere un occhio di riguardo, soprattutto per i bambini ipersensibili, ovvero quei minori che riescono a percepire un maggior numero di stimoli e soprattutto con maggior intensità. Con loro dovremmo aver qualche attenzione in più, loro vivono di emozioni per cui può risultare molto impattante quello che gli diciamo. A loro la sintesi e una forma delicata nel spiegare le cose è dovuta. Dobbiamo essere accordi, non dobbiamo investire i bambini di eccessiva preoccupazione, dobbiamo essere chiari e soprattutto ricordargli che loro non centrano nulla. Una cosa fondamentale da sapere è, anche se per noi adulti sembra impossibile, che loro possono conferirsi colpe anche per situazioni in cui non centrano nulla. Fa parte del “normale” sviluppo questa fase, per cui mi raccomando siate chiari su questo punto. Meglio ripeterlo più volte che una sola.

Ed infine ricordiamoci che se ci rendiamo conto di aver agito le nostre emozioni e che in qualche modo sia stato lui o lei a pagarne il conto, possiamo anche chiedere scusa. Spieghiamo che il nostro essere stato troppo nervoso, irascibile o magari assente e dipeso dal nostro vissuto non da lui/lei. Anche perché è normale che se noi siamo a disagio, nostro figli diventi più richiedente. La sua figura di riferimento gli può apparire incerta, assente o non disponibile nei suo confronti. Questo causerà stress e incertezza anche in lui/lei per cui aumenterà le richieste di attenzione e di cura per aver conferma che noi siamo ancora il suo porto sicuro.

Dott.ssa Erica Zanghellini Psicologa-Psicoterapeuta Riceve su appuntamento Tel- 3884828675

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Benessere & Salute di Paolo Rossetti

Pericoli di una pratica alla moda

DEPILAZIONE INTIMA

È stato il telefilm di culto di fine anni ’90, Sex and the City, a sdoganare anche in Italia la depilazione totale, o quasi, delle parti intime femminili, garantendo un ottimo effetto estetico. Una pratica irrinunciabile della newyorkese emancipata, ma anche pericolosa per la salute. Oltre a sentirsi più sexy con il proprio partner e più sicure a letto, sembra che molte donne lo facciano per sentirsi più “pulite” considerandola una pratica igienica e ignorandone invece i rischi. Una moda dilagata sempre di più come confermano anche gli esperti del settore i quali rivelano che ora anche i maschi chiedono sempre più spesso la depilazione intima totale.

I

tanto odiati peli pubici però costituiscono una sorta di “cuscino protettivo” per la pelle intima e mantengono un’adeguata umidità impedendo il proliferare di batteri, funghi, e germi in quanto impediscono il loro passaggio in vagina proteggendo dunque da eventuali infezioni e malattie. Mantengono gli organi genitali femminili a una temperatura corretta, trattengono l’odore personale che trasmette i segnali sessuali al partner e prevengono l’irritazione e l’arrossamento della zona genitale durante il rapporto sessuale tramite lo sfregamento. Le ragazze in età prepuberale sono quelle più esposte a irritazioni e problemi. Aumenta il numero di “incidenti” dato da depilazione totale e semitotale. I maggiori responsabili dei traumi genitourinari sono i rasoi usati spesso in modo non adeguato. Le microabrasioni che ne derivano provocano ascessi, follicoliti (che potrebbero degenerare in cisti), foruncolosi, lacerazioni e si registrano anche reazioni allergiche alle sostanze irritanti contenute nei prodotti riservati alla depilazione come le creme depilatorie. Con la depilazione totale la pelle ne risente, i follicoli piliferi si irritano e causano la comparsa di peli incarniti, bruciature con la ceretta e taglietti con il rasoio. La ceretta a caldo indebolisce i pori che in-

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sieme all’umidità e al calore del corpo crea un habitat adatto ai batteri e agli streptococchi di tipo A e che a questo punto non hanno più barriere in ingresso. C’è anche chi ricorre alla depilazione con il laser o luce pulsata e in quel caso diventa una situazione definitiva da cui non si può più tornare indietro. Le donne che scelgono la depilazione totale sono anche più soggette a soffrire di herpes genitale, e secondo lo studio condotto dall’Accademia spagnola di Dermatologia di Barcellona aumenterebbe il rischio di contrarre papilloma virus (HPV), verruche genitali e sifilide, di cui negli ultimi anni si è registrato un aumento di casi segnalati, soprattutto tra i giovanissimi. La depilazione totale poi risulta pericolosa non solo per chi la fa ma, anche per il partner con cui si entra in

contatto che risulta quindi più esposto a contrarre queste malattie. Per chi soffre di disturbi cutanei come eczemi e psoriasi la depilazione totale potrebbe addirittura andare a peggiorare la situazione. Questo non significa che non si possano tenere “in ordine” le parti intime per andare in piscina, incontri speciali o semplicemente per se stessi, ma la cosa importante è mantenere una quantità sufficiente di pelo nella zona centrale.


Medicina & Salute di Paolo Rossetti

I farmaci GENERICI o EQUIVALENTI

Da oltre vent’anni esistono i farmaci equivalenti o generici da quando cioè sono scaduti i brevetti sui farmaci originali. Ciò ha permesso a qualunque altra azienda, dopo aver ottenuto l’autorizzazione dell’autorita’ competente (in Italia è il Ministero della Salute), di produrre e quindi commercializzare il farmaco generico usando, però altro nome o un’altra dicitura farmacologica. La scelta se usare il farmaco equivalente interessa e coinvolge il medico, il paziente e il farmacista. Quest’ultimo poi deve fornire l’informazione sull’esistenza del medicinale equivalente, sia nel caso il farmaco sia fornito dal SSN oppure a pagamento. Importante però è evitare SEMPRE il famosa “fai da te”.

S

econda la vigente normativa un farmaco è definito equivalente o generico quando contiene lo stesso principio attivo e la stessa quantità rispetto al farmaco di riferimento e quindi si può affermare che sono la stessa cosa. Per molto tempo il termine generico è stato etichettato dalla pubblica opinione come un medicinale non dotato di valida specificità se non addirittura di qualità inferiore a quello di marca. Fu con una Legge 149 del 26 luglio 2005 che, di fatto, si sostituisce il termine generico con “equivalente” E’ utile ricordare che prima che un qualsiasi medicinale possa essere venduto, (sia equivalente o di marca), deve sempre ottenere un’autorizzazione da parte degli organi competenti che, di fatto, confermano come il farmaco evidenzia tutti i requisiti di qualità, purezza delle materie prime, sicurezza ed efficacia. E sebbene gli equivalenti non siano identici agli originali (possono avere, ad esempio una diversa composizione in eccipienti oppure formulati con una diversa tecnologia farmaceutica) sono una validissima alternativa terapeutica ai farmaci originatori anche se sono venduti a un prezzo inferiore. Ciò è possibile in quanto il loro processo di sviluppo non prevede i tempi e i costi della ricerca. E soprattutto non presentano differenze significative in termini di sicurezza ed effi-

cacia nè possono causare reazioni avverse e sconosciute perché il loro uso, garantito e sicuro, riproduce lo stesso effetto del farmaco originale e come quest’ultimo possiede, all’interno della scatola, il famoso “bugiardino” ovvero il foglio illustrativo che accompagna tutti i medicinali. E’ importante sapere e quindi non farsi condizionare dal fatto che i farmaci equivalenti possono essere differenti sia nella confezione, sia nel colore della capsula o compressa e sia nella forma. Queste caratteristiche visive non influiscono affatto sul farmaco. Se capita ciò è perché l’aspetto del farmaco potrebbe essere ancora oggetto di brevetto da parte del produttore originario e quindi la versione generica deve essere diversa da quello di marca. Per quanto riguarda i dati che interessano il nostro paese, presentati dal Report sui trend del mercato italiano, realizzato dal Centro Studi di Assogenerici su dati IQVIA, e riferito all’uso degli equivalenti, si evidenzia che nei primi nove mesi del 2019 i farmaci equivalenti hanno assor-

bito il 22% del mercato. Una tendenza che, in alcune regioni del nostro paese, è in aumento a svantaggio dei farmaci originari mentre in altre questo mercato è il flessione. Sembrerà strano, ma - secondo gli ultimi dati - gli italiani spendono in media 1,2 miliardi in più all’anno pur di avere il farmaco con il brand più famoso, nonostante il principio sia lo stesso. E l’Italia sugli acquisti dei farmaci equivalenti è decisamente spaccata in due. Da una parte i cittadini del Nord che sono più propensi a scegliere il farmaco con un prezzo inferiore, ovvero quello generico e “non di marca”, dall’altra quelli del Sud, mediamente con un reddito medio inferiore, che continuano a preferire l’acquisto di un medicinale che sulla scatoletta ha il brand più famoso e dunque più costoso

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Salute e benessere di Emanuele Stefani

LA FRUTTA, ALIMENTO INDISPENSABILE

Tutti i maggiori ed esperti studiosi dell’alimentazione sono concordi nell’affermare, perché scientificamente provato, che un abbondante consumo di frutta (e verdura) fresca, riduce notevolmente l’insorgere di numerose malattie. Ed è sempre consigliabile far uso di frutta di stagione per goderne in pieno le proprietà oltre che il gusto. Da sottolineare che la frutta è un alimento povero di calorie, ricco in nutrienti e dalle numerose proprietà benefiche. Si caratterizza anche per l’elevato contenuto di acqua (80-90%) di fibre idrosolubili e da un quantitativo medio-basso di zuccheri. La frutta assume anche particolari benefici al nostro organismo per presenza delle fibre che agiscono regolando il transito intestinale, rallentano l’assorbimento degli zuccheri semplici e dei grassi e aumentano il senso di sazietà.

L

a conferma di questa affermazione ci viene dal dr. Herbert Shelton che è il maggiore studioso mondiale di alimentazione di tutti i tempi, il quale sottolinea che non solo mangiando quotidianamente frutta ma anche imparando il modo corretto di assumerla si ha la possibilità concreta di migliorare la salute, l’energia vitale, il peso forma e, per lo donne, anche preservare nel tempo la bellezza della pelle. E tutto questo dipende principalmente sia dai contenuti della frutta che dal rispetto di alcune precise regole alimentari per assumerla. Acqua, carboidrati, fibre, vitamine, sali minerali, proteine, grassi, profumi e pigmenti e calorie sono i principali elementi che con la frutta si possono assumere. La frutta è divisa in: acidula- semiacida - zuccherina-dolce

(banane, datteri, fichi, mele dolci, pesche, susine, uva, uva dolce, ananas), semiacida (albicocche, ciliegie, fragole, mele, pere, pesche, prugne, uva), acida (ananas, arance, clementine, limoni, mandarini, melagrane, pompelmi, ribes), secca (noci, mandorle, arachidi, pistacchi), e in più melone e anguria che devono essere mangiati da soli senza altri abbinamenti. Ovviamente la loro quantità e tipo dipende dal tipo di frutta che si mangia. farinosa (castagne) oleosa- contiene un elevato quantitativo di lipidi (50-65%) e proteine (10-20%) oltre ad un discreto quantitativo di carboidrati (15-20%). L’apporto calorico è di circa 600 Kcal (arachidi, noci, nocciole, mandorle, pinoli, pistacchi). In merito alle regole invece bisogna tener presente che:

1)E’ bene mangiare la frutta a stomaco vuoto o 20-30 minuti prima del pasto principale. L’unica eccezione è l’ananas, mela, kiwi e papaya che hanno degli enzimi digestivi che facilitano la digestione e che gli permettono di essere mangiati a fine pasto favorendo l’assimilazione dello stesso. 2) E’ possibile ingerire diversi tipi di frutta insieme, ma come sottolineano gli esperti, è necessario rispettare la combinazione: Frutta acida + semiacida; Frutta dolce + semiacida. Evitare invece di mescolare frutta dolce con frutta acida. 3) Il melone e l’anguria vanno mangiati da soli altrimenti fermentano con grossa facilità dato l’elevato contenuto di glucidi (zuccheri). Ma c’è un lato positivo: impiegano solo 10 minuti per essere digeriti quindi l’ideale è mangiarli prima di iniziare il pasto.

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“Modi di dire” di Franco Zadra

Il primo passo è sempre il più difficile

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esta e piedi sono le due nostre estremità che più di altre ci permettono di mantenerci in asse con il senso della nostra esistenza. In questo momento, con l’intenzione dichiarata di intrattenervi con leggerezza e non certo di propinarvi una saccenteria a buon mercato, vi propongo di fare due chiacchere metaforiche - ovviamente, poiché voi leggete e risponderete a voi stessi, mentre io scrivo e immagino le vostre riflessioni - su l’estremità più “concreta e pratica”, i piedi. Trovo lo spunto per “mettere in piedi”, preparare, allestire, costruire, far sorgere, questo articolo, dalla provocazione di un amico che, al mio accennare a un pensiero vagamente “filosofico” troncò il nostro dialogo con «occorre stare con i piedi per terra», lasciandomi di fatto senza più parole per ribattere e mandandomi subito ko. Per uno che si reputa “filosofo”, l’invito perentorio a “tenere i piedi per terra” suona di fatto molto offensivo, poiché questa frase idiomatica è, nell’uso corrente, associata all’avere la testa sulle spalle, avere giudizio e comportarsi in modo “riflessivo” e razionale, il che è abbastanza

in linea con quanto proponevo nell’incipit circa l’asse portante del nostro senso dell’esistenza. È indubbio che con il mio amico sono “partito con il piede sbagliato”, non ho saputo cioè considerare con attenzione l’opportunità dell’esprimere il mio pensiero in un contesto e una circostanza che non lo potevano accogliere. Mi sono così dato “la zappa sui piedi” procurandomi nei suoi confronti un danno d’immagine con un’azione - esprimere un pensiero è comunque anche una azione - che ha prodotto risultati contrari alle mie intenzioni e certamente controproducenti. Per questo trovo utile il consiglio dei nonni di “andarci con i piedi di piombo” con certi discorsi, occorre cioè saper valutare con attenzione la delicatezza dei momenti e usare le parole con circostanza e cautela. Non mi è rimasto altro da fare che “togliermi dai piedi”, andarmene, liberando me stesso e l’altro di un certo imbarazzo del tutto conseguente e assimilabile alla situazione di chi, inavvertitamente “pesta i piedi a

qualcuno”. Avrei potuto “puntare i piedi”, ostinandomi e incaponendomi nella convinzione di ottenere ragione e volendo dimostrare che il mio pensiero non era poi così insensato, ma serebbe stata una cosa “fatta con i piedi”, poiché improvvisata sul momento, raffazzonando tanto per dire una diatriba che non aveva ragione di essere, nata all’improvviso, così “su due piedi”, e che rischiava di “prendere piede” minando un’amicizia fino a quel momento mai messa in discussione. Spero tanto che quel mio amico legga questo articolo e smetta di credermi “sul piede di guerra” così da poter di nuovo incontrarci senza il tormento di aspettarci da un memento all’altro uno scontro ideologico, anche se mi conosce per uno sempre pronto a combattere. Del resto, come leggiamo nella Bibbia, sono sempre “belli i piedi del latore di lieti annunci” e, come potete immaginare, non sarebbe finita qui, ma questo è solo un “primo passo”.

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Ieri avvenne di Chiara Paoli

Irpinia 1980: la terra trema “Ad un tratto la verità brutale ristabilisce il rapporto tra me e la realtà. Quei nidi di vespe sfondati sono case, abitazioni, o meglio lo erano”, Alberto Moravia in “Ho visto morire il Sud” dal settimanale “L’Espresso” del 7 dicembre 1980.

O

re 19:34:52, domenica 23 novembre 1980, la terra in Irpinia trema, 90 secondi di paura, 2.914 morti, 8.848 feriti e circa 280.000 sfollati. Campania e Basilicata vengono colpite da scosse di Magnitudo 6,9 della scala Mercalli, l’epicentro del sisma si colloca a 10 km di profondità tra i comuni di Teora, Castelnuovo di Conza e Conza della Campania. I danni si contano su un territorio che si estende per 17.000 km dall’Irpinia al Vulture, una zona che nei secoli è stata ripetutamente colpita dai sismi. Ma gli effetti disastrosi si estendono a tutta l’area centro meridionale, con crolli a Napoli, Poggioreale, dove si contano 52 morti per il cedimento di un palazzo e a Balvano, dove nel crollo della chiesa di Santa Maria Assunta perdono la vita in 77 fedeli partecipanti alla messa, per la maggior parte bambini e ragazzi. La drammaticità dell’evento non viene colta nell’immediato a causa dell’interruzione delle telecomunicazioni e anche i soccorsi tardano ad

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arrivare, come da intervista al Presidente della Repubblica, Sandro Pertini giunto in elicottero sul posto e trasmessa nel TG2 del 25 novembre 1980: «Non vi sono stati i soccorsi immediati che avrebbero dovuto esserci. Ancora dalle macerie si levavano gemiti, grida di disperazione di sepolti vivi». Le abitazioni erano già state danneggiate dai terremoti del 1930 e del 1962, ma i mezzi di soccorsi si trovano in difficoltà anche a causa del crollo di ponti e strade, non sono certo d’aiuto poi l’isolamento geografico di queste zone e l’impossibilità di comunicazione, vista l’assenza di energia elettrica. Ma ad incidere è anche e soprattutto la mancanza di un’organizzazione di protezione civile che potesse garantire un soccorso immediato e coordinato. Di questa mancanza si rende conto immediatamente il Capo dello Stato, che denuncia le inadempienze dei soccorsi, giunti dopo 5 giorni dalla

tragedia. L’effetto del discorso di Pertini ha come risvolto la mobilitazione di un ingente numero di volontari, oltre alla destituzione del prefetto di Avellino Attilio Lobefalo e le dimissioni di Virginio Rognoni, Ministro dell’interno, che vennero in seguito respinte. Se dapprima la notizia diffusa dai quotidiani e telegiornali parla solo di una scossa di terremoto, “Un minuto di terrore. I morti sono centinaia” titola Il Mattino di Napoli del 24 novembre, ma nei giorni seguenti appare in prima pagina l’entità della catastrofe. I titoli mutano: “I morti sono migliaia 100.000 i senzatetto”, drammatico l’appello del 26 novembre “Cresce in maniera catastrofica il numero dei morti (sono 10.000?) e dei rimasti senza tetto (250.000?) - FATE PRESTO per salvare chi è ancora vivo, per aiutare chi non ha più nulla”. Molti sono i paesi non soltanto europei, che intervengono inviando donazioni in


Ieri avvenne denaro, insieme a uomini e mezzi per la ricostruzione. Gli Stati Uniti contribuiscono con 70 milioni di dollari, 136 uomini con 6 elicotteri, la Germania Ovest con 32 milioni di dollari, 1 ospedale da campo con 90 sanitari; 650 uomini e 3 elicotteri; 1 gruppo di esperti della Croce Rossa; 47 volontari-elettricisti, un gruppo di salvataggio, un gruppo depurazione; 16 cani da salvataggio con guida. Dall’Arabia Saudita giungono 10 milioni di dollari, 3 dall’Iraq, 500.000 dollari dall’Algeria. Il Belgio, la Francia, l’Austria e la Svizzera inviano uomini e mezzi. Purtroppo però questi imponenti aiuti economici ebbero un risvolto negativo con speculazioni e loschi dirottamenti dei fondi, verso aree che non erano state colpite dal sisma e per cui si sono coniati i termini Irpiniagate o Terremotopoli. Questi furono successivamente al centro dell’inchiesta denominata Mani sul terremoto, rientrate nel più noto filone di “Mani Pulite”.

Impegnato nella ricostruzione per dare un tetto alla popolazione rimasta senza casa, il gruppo altoatesino Rubner, che crea un apposito stabilimento di produzione a Calitri, offrendo i primi chalet nel febbraio dell’anno seguente e giungendo a 150 abitazioni consegnate il 25 aprile seguente. L’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia (INGV) ha accertato che in realtà si è trattato di tre diverse spaccature, che si sono succedute nell’arco di circa 40 secondi, generando una frattura lunga 35 km. Studi più approfonditi hanno permesso di appurare che un evento di questo tipo, avviene in questa zona ripetutamente a distanza di 2000 anni. Per far fronte alle spese di ricostruzione post sisma, ancora oggi in Italia è in vigore un’accisa di 0,04 € per ogni litro di carburante pagato.

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Curiosità nella storia di Chiara Paoli

La prima milionaria di colore d’America

In questo periodo difficile è bello leggere storie che ci inducono ad avere fiducia nel futuro, racconti di vita che dimostrano che i sogni possono avverarsi se siamo dotati di resilienza e tanta forza di volontà.

L’idea mi venne in sogno. I capelli sono bellezza. I capelli sono emozione. I capelli sono il nostro retaggio. I capelli ci dicono chi siamo, dove siamo stati e dove andiamo. Mi chiamo Sarah Breedlove e creare prodotti per capelli è stato il mio sogno”. Queste le parole che danno inizio alla miniserie visibile su Netflix, che narra le vicissitudini della prima afroamericana che diviene milionaria fondando il suo impero sulla cosmesi agli albori del ‘900, dando lavoro a migliaia di ragazze di colore e facendo scoprire loro non soltanto la bellezza, ma anche la dignità di esseri umani che possono prendersi cura di sè. Sarah Breedlove è la quinta di 6 figli e nasce il 23 dicembre 1867 a Delta, piccolo villaggio della Louisiana che contava poche

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case e numerose baracche di legno in cui tiravano a campare gli schiavi di colore. La madre, il padre e i fratelli più grandi versavano in stato di schiavitù, costretti alla raccolta del cotone, in una piantagione a Madison Parish. Sarah nasce poco dopo il proclama di emancipazione, la piantagione di Burney nel 1865 era stata requisita dagli uomini dell’Unione, ma la famiglia rimane alle dipendenze del proprio padrone. Rimasta orfana di madre a soli 4 anni il padre si risposa, ma anche lui in breve tempo viene a mancare. Sarah si trasferisce nella casa dalla sorella e di suo marito Willie Powell che la maltratta e la induce a sposarsi a soli 14 anni con Mosè McWilliams per sfuggirgli. Nel 1885 nasce la figlia Lelia, che a soli due anni si ritrova senza padre, mentre Sarah, vedova decide di trasferirsi a Saint Louis dove i fratelli praticano l’attività di barbieri. Qui si mantiene lavorando come lavandaia per i bianchi. Nel 1894 sposa John Davis, ma il matrimonio non è affatto felice, l’uomo si rivela un alcolista giocatore d’azzardo che non ha alcuna voglia di lavorare e per giunta la picchia, l’unione durerà fino al 1903. Sarah come

tante altre donne inizia a perdere i capelli, le malattie del cuoio capelluto si moltiplicavano a causa della scarsa igiene. E’ così che inizia a testare alcuni prodotti presenti sul mercato per la crescita dei capelli, in particolare la pomata Poro, formulata e commercializzata da Annie Malone che aveva aperto una sede a St. Louis e per la quale Sarah lavora come venditrice porta a porta. Nella miniserie, basata sul libro scritto dalla pronipote A’Lelia Bundles e intitolato “On her own ground - the life and times of Madam C. J. Walker”, vediamo una Sarah C.J. Walker rifiutata come venditrice come “troppo nera” e soprattutto impresentabile quale modello di bellezza ideale. Da qui si scatena la rivalità tra le due donne, Sarah si trasferisce a Denver e si sposa con Charles Joseph Walker, che realizza pubblicità per i giornali; qui si dedica a sviluppare una nuova formula per shampoo e pomata a base di zolfo e inizia a commercializzare il


Curiosità nella storia

suo prodotto. Annie Malone di rimando inserisce nei suoi inserti pubblicitari la dicitura “beware of imitations” (attenzione alle imitazioni)! In realtà non esisteva all’epoca alcun brevetto, tanto più che i benefici dell’igiene del cuoio capelluto e le proprietà dello zolfo erano note sin dal ‘500.

Leggenda narra che la formula del prodotto di Madame Walker le sia stata rivelata in sogno da un “grande uomo nero”, ma la realtà dei fatti porta a credere che sia stata elaborata grazie all’aiuto di un farmacista, Edmund L. Scholtz. Il sogno prende forma vendendo a domicilio il suo “Madam Walker’s Wonderful Hair Grower” e ampliando velocemente la rete di vendite. Nel 1908 si trasferiscono a Pittsburgh dove inaugurano il Lelia College, scuola di formazione per agenti di vendita e parrucchiere, dando una possibilità di guadagno e indipendenza economica a numerose ragazze di colore, altrimenti

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costrette a lavorare al servizio dei bianchi. Nel 1910 viene costruita una grande fabbrica a Indianapolis e i suoi prodotti raggiungono i Caraibi. Si dirigono quindi alla volta di Harlem dove comprano casa e aprono un salone di bellezza, insieme a una nuova scuola per venditrici. Nel 1917 si trasferisce nella Villa Lewaro a Irvington, eretta su progetto del primo architetto nero ad aver ottenuto la licenza nello stato di New York. Sarah C.J. Walker si dedica anche alla politica per favorire e sostenere la rivendicazione dei neri troppo a lungo sfruttati, filantropa e sostenitrice di progetti culturali come il Walker Theatre, ogni anno finanziava con 10 mila dollari gli studi di giovani neri. Si spense il 25 maggio 1919, per complicazioni dovute all’ipertensione di cui soffriva. Nel 1993 è entrata a a far parte della National Women’s Hall of Fame.

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Ieri avvenne di Elisa Corni

Novembre 1989, cade il muro che ha cambiato l’Europa Era il 13 agosto 1961 quando il governo comunista della Repubblica Democratica Tedesca (RDT, o Germania dell’Est) iniziò a costruire con il filo spinato e il cemento tra Berlino Est e Ovest quella che loro definirono l’”Antifascistischer Schutzwall”, il “baluardo antifascista”. Lo scopo di questo muro era quello di impedire ai fascisti, ovvero ai tedeschi d’occidente, di entrare nella Germania dell’Est e di minare quindi lo Stato socialista; in realtà si trattava del sistema migliore per definire il confine tra le due Germanie, cosa che fece egregiamente per quasi trent’anni.

A

lla fine della seconda guerra mondiale attraverso una serie di conferenze di pace le potenze vincitrici si divisero la Germania per un controllo preventivo affinché il passato non si ripetesse. La nazione sconfitta fu dunque divisa in quattro zone di occupazione alleate: la parte orientale occupata dall’Unione Sovietica, la parte occidentale divisa tra Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia. Anche se la città di Berlino, capitale di quella Germania divisa, si trovava all’interno della parte sovietica del paese le stesse conferenze di pace la divisero, come il resto del paese, in quattro. Già nel giugno del 1945 truppe americane, inglesi, francesi e sovietiche si impossessa-

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rono della città. E così, nel bel mezzo della Germania Est, dove vigevano una politica e un’economia comuniste, vi era un’area dove il capitalismo la faceva da padrona. Opulenta, ricca e consumista era infatti la Berlino Ovest dell’immediato dopoguerra. Era un bel problema per le forze sovietiche, che dovevano in qualche modo arginare l’esodo da ovest a est. Nel 1948 i sovietici istituirono un blocco nei confronti di Berlino Ovest per portare alla fame gli occupanti occidentali. Questi, invece di ritirarsi, rifornirono i loro settori della città dall’alto con invio di casse di cibo, generi alimentari e altro. Fu quindi istituito il famoso ponte aereo che nei mesi successivi permise di far arrivare in

città più di 2,3 milioni di tonnellate di cibo, carburante e altre merci a Berlino Ovest. Un decennio dopo, nel 1958, le tensioni si riaccesero; da un lato le forze comunista erano rincuorate dai grandi successi avuti nella corsa allo spazio, ma dall’altro si trovavano di fronte a una fuga di persone impressionante: quasi 3 milioni di cittadini, per lo più operai qualificati, medici, insegnanti e ingegneri avevano lasciato Berlino Ovest nei dieci anni di quiete appena trascorsi. Il 12 agosto si raggiunse il record di disertori: in circa 2.400 lasciarono la Germania dell’Est. Si rese quindi necessario intervenire. Quella notte, il premier Krusciov diede al governo della Germania orientale il


Ieri avvenne permesso di fermare il flusso di emigranti chiudendo definitivamente il confine. E così, in sole due settimane, i due lati della città furono definitivamente separati. Prima che il muro fosse costruito i berlinesi potevano muoversi abbastanza liberamente: attraversavano il confine per lavorare, fare acquisti, andare a teatro e al cinema. I treni e le linee della metropolitana trasportavano i passeggeri avanti e indietro. Dopo la costruzione del muro tutto ciò cambiò radicalmente. Si poteva andare dall’altra parte solo se in possesso di particolari e rari permessi e solo attraversando uno dei dodici Check Point, come il più famoso a Friedrichstrasse “Checkpoint Charlie”. Eppure la voglia e il bisogno di varcare quel confine non si fermarono: famiglie divise, lavori perduti, necessità, fame, difficoltà economiche e minacce per posizioni politiche contrarie al partito portarono numerosissime persone a tentare il tutto

per tutto, pur di attraversare quel confine. A volte rischiando anche la propria vita. In Almeno 171 persone sono state purtroppo uccise nel tentativo di scavalcare, superare o aggirare il muro di Berlino. Ma ciò non poteva fermare le persone: in modi creativi e ormai leggendari tra il 1961 e il 1989, più di 5.000 tedeschi dell’est - comprese circa 600 guardie di frontiera - riuscirono a passare il terribile confine. Il 9 novembre 1989, mentre la Guerra Fredda iniziava a sciogliersi, il portavoce del Partito comunista di Berlino Est annunciò un cambiamento. A partire dalla mezzanotte di quel giorno i cittadini della

dalla riva

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Paola Antoniol

RDT erano liberi di attraversare i confini del paese. I berlinesi dell’Est e dell’Ovest accorsero al muro, bevendo birra e champagne e cantando “Tor auf!” (“Apri il cancello!”). A mezzanotte furono invasi i posti di blocco. Il muro è infine caduto in quella notte nella quale folle estatiche sciamarono fino al muro con martelli e picconi riguadagnando così la libertà.

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Ecologia, arte e musica di Emanuele Galvan

Un’ECOLOGIA da ASCOLTARE S embra che l’essere umano si sia dimenticato del suono. Eppure, ognuno di noi è quotidianamente immerso in un vasto paesaggio sonoro che influenza le nostre vite plasmando in maniera continua i luoghi in cui viviamo. Ma perché il recupero di un ascolto critico e cosciente della nostra Terra dovrebbe essere preso in seria considerazione dalle società in cui viviamo? Tre brevi esempi ci aiuteranno a comprendere come una più attenta e profonda “lettura” del paesaggio sonoro possa portare a serie

considerazioni di carattere sociale, politico, culturale e, soprattutto, ecologico. Una prima importante testimonianza sul ruolo ‘sociale’ del suono ci è data da una popolazione remota, la tribù dei Kaluli, abitanti della foresta pluviale in Papua Nuova Guinea. In una ricerca durata quasi venticinque anni, l’etnomusicologo Steven Feld scoprì come la vita dei Kaluli, le loro tradizioni, i riti, i miti e i canti siano da sempre influenzati dall’ambiente sonoro della foresta. Da elementi naturali come il vento, l’acqua o il canto degli uccelli prendono vita numerosi aspetti sociali della tribù, del loro linguaggio e del loro modo di orientarsi. La produzione di suoni, così come l’esperienza sensuale e corporale ad essi legata, non ha scopi artistici, ma rappresenta un aspetto centrale del sapere acustico – ed ecologico – dei

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Kaluli. (inserire foto suoni liquidi) A proposito di coscienza ecologica, un secondo esempio molto più vicino a noi è costituito dal lavoro di Nicola Di Croce, architetto e artista che nel suo libro Suoni a margine. La territorialità delle politiche nella pratica dell’ascolto ci aiuta a riflettere sul concetto di identità territoriale non solo attraverso l’osservazione del paesaggio fisico ma anche attraverso l’ascolto del paesaggio sonoro. Questo, infatti, così come il paesaggio fisico, è il “risultato di segni e testimonianze impressi dall’uomo” che funge da prova della storia di una popolazione, delle sue tradizioni, delle sue abitudini e pratiche sociali. Anche la nostra identità, quindi, ha un suono, la nostra storia, la nostra evoluzione. Comprendere tutto questo è fondamentale per lo sviluppo di una coscienza eco-sonora nelle nostre comunità: basti pensare, ad esempio, ai potenziali risvolti di tale approccio sulla pianificazione urbanistica, sul governo di una città, del suo traffico e del suo territorio o, ancora, sulla tutela di aree naturali e di beni intangibili e sullo studio di fenomeni come la gentrificazione o lo spopolamento di determinate aree. Inserire foto suoni cittadini Anche una maggiore consapevolezza sonora nell’arte porta con sé delle conseguenze politiche ed ecologiche rilevanti. Il terzo esempio che si vuole portare all’attenzione del lettore ha come protagonista un’opera sonora creata per Arte Sella, un museo all’aria aperta nelle montagne del Trentino. Qui gli artisti sono chiamati ad esprimere la propria relazione con la natura utilizzando esclusivamente materiali di origine naturale. Ogni costruzione è effimera e svanisce nel corso del tempo, ritornando alla natura: si

può facilmente intuire quanto il paesaggio sonoro sia importante per un museo di questo tipo. Ciò che particolarmente sorprende, però, è che raramente i visitatori si sono accorti di tale dimensione. Bungaro, Casillo e De Tassis decisero nel 2017 di dare vita ad un’installazione sonora dal titolo Arte Sella suona, una registrazione non solo della varietà sonora del luogo ma anche dei suoni delle opere esposte. Arte Sella suona restituì a tali opere quella dimensione sonora immateriale di cui spesso ci si dimentica, ci invita ad interagire con essa e a considerarla alla base dell’identità territoriale di quel luogo. Proviamo a pensare ad un museo come un grande contenitore che tenti di cristallizzare e conservare le memorie dell’uomo, le sue storie, le espressioni artistiche, e così via. Inserire il suono in qualità di protagonista in tale contesto, significa riconoscerlo in quanto ‘strumento’ centrale per la diffusione di memorie, identità ed espressioni artistiche umane e naturali. Inserire foto arte sella Gli strumenti di registrazione e riproduzione del suono, per l’uomo moderno, costituiscono in questo senso una straordinaria opportunità che oggi ci permette di fermare e ‘osservare’ il suono stesso, invitandoci ad una riflessione più profonda di quei presupposti sociali, politici ed ecologici a cui si è già fatto riferimento nel presente articolo. In alcuni ambiti questo si è già, almeno in parte, compreso: a chi non è capitato di imbattersi in un video di promozione turistica o culinaria, in cui un abile sound designer mette in risalto suoni caratteristici di un luogo o di un ambiente, come una campana, il vento, il frinire delle cicale e dei grilli, il canto degli uccelli o il crepitare del fuoco. E quante sensazioni


Ecologia, arte e musica

e ricordi risvegliano in noi questi suoni, permettendoci di vivere una vera e propria esperienza sensoriale completa. E ancora, la registrazione dei suoni e rumori di una determinata area urbana o extra urbana è in grado di restituirci una vera e propria ‘topografia sonora’ del luogo, permettendoci così di effettuare determinati interventi con una maggiore coscienza sonora ed ecologica, legata altresì al benessere degli abitanti di quell’area. In tale prospettiva, ascoltare in maniera critica il paesaggio sonoro significa prima

di tutto comprenderne i presupposti ecologici. Un certo modo di ascoltare il mondo, infatti, deriva dall’interazione che abbiamo con esso, ma anche, come ricorda Steven Feld, dal modo in cui lo rispettiamo e lo apprezziamo: tale convinzione è strettamente legata alla necessità di salvaguardare e tutelare tanto il paesaggio fisico, quanto quello sonoro. Un ruolo centrale nel percorso di sensibilizzazione verso tali tematiche può essere sicuramente assegnato alla scuola e all’arte o forse, prima ancora, a quelle istituzioni politiche ed economiche che sono chiamate ad effettuare importanti scelte ambientali, spesso senza aver prima maturato una coscienza eco-sonora delle comunità in cui lavorano. Inserire foto suoni rocciosi

Emanuele Galvan

è un giovane musicologo laureato alla Libera Università di Bolzano. Ha collaborato con numerose realtà musicali, tra cui l’Orchestra Filarmonica di Bologna e le Settimane

Musicali Gustav Mahler. Attualmente lavora nell’ufficio dell’amministrazione artistica del Festival d’opera lirica di Bregenz. Fin dalla laurea triennale, pubblicata dal comune di Borgo Valsugana, si interessa alla ricerca sul paesaggio sonoro e ai suoi risvolti sulle politiche territoriali e ambientali.

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Cura del corpo

PENSARE A NOI STESSI

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uante donne, nella loro vita, non hanno mai desiderato di avere un bel fisico, magari snello e ben curato. E quante volte, per riuscire a concretizzare questo loro desiderio, si saranno domandato cosa e come è necessario fare per riuscire ad ottenere ciò. E ancora: quali gli opportuni sistemi e metodi ottimali? Domande alle quali spesso non hanno saputo rispondere. Molte donne, quotidianamente, per

migliorare il proprio aspetto fisico applicano il famoso “fai da te” che prevede la frequenza, più o meno assidua, di palestre sostituita a volte dalla ginnastica “casalinga”, suggerita magari da una amica o leggendo una pubblicazione specifica. Altre ancora, invece, si rivolgono ai centri benessere o istituti di estetico non solo per avere appropriati consigli o per usufruire di numerosi trattamenti mirati e secondo le loro personali esigenze utili ad eliminare alcuni inestetismi o piccole imperfezioni di modeste entità, ma anche per regalarsi dei momenti di vero e assoluta relax che fanno bene alla salute, all’umore ed alla propria serenità. E a nostro avviso questa è una delle scelte più opportune perché si può usufruire di giusti e appropriati consigli da parte di chi, della bellezza e del benessere fisico, ha fatto il proprio lavoro.

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Di una cosa però le donne sono oramai certe: lo stare bene con se stessi, sia moralmente sia fisicamente, rende la vita più piacevole e sicuramente più allegra, combattendo nel contempo lo stress del tram tram quotidiano. Prendersi cura del proprio aspetto fisico in maniera quanto più naturale possibile, secondo gli esperti, è forse il migliore modo di sentirsi in forma e di volersi bene. Troppo spesso, infatti, moltissime donne, nelle diverse età tendono a trascurarsi sia per il lavoro sia per la famiglia che per i figli. Eppure basterebbero pochi momenti della loro giornata da dedicare al proprio corpo per migliora la loro fisicità ed il loro essere “donna”. E potrebbero farlo con pochissimi gesti quotidiani che poi, con il passare del tempo diventano piacevoli abitudini di cui non si riesce proprio a fare a meno. (P.R.)


In collaborazione con LIÒ OCCHIALI

DESIGN e OCCHIALI

Q

uando di parla di “design” i parere dei molti esperti non sempre coincidono esatta descrizione del termine. Alcuni identificano questa parola con il significato di essere alla moda o al passo dei tempi. Altri invece con la rappresentazione di un qualcosa di decisamente unico e personalizzato. E altri ancora come un qualcosa che ha una reale appartenenza a questa o quella casa costruttrice oppure ad un particolare ed importante marchio o “griffe”. E anche il mondo dell’ottica e degli occhiali, siano essi da vista, da sole o di altro uso, nel tempo e con il tempo, si è fatto coinvolgere dal termine “design” che nella moda e nella nostra quotidianità, al di là del vero significato, ha il potere di valorizzare, esteticamente, chi li indossa. Di una cosa si è certi e che trova tutti d’accordo: il design, indiscutibilmente, significa

unicità, precisone, cura del dettaglio e giusto abbinamento dei materiali. Il tutto per formare un qualcosa di veramente originale. Da parecchi anni, oramai, in ogni stagione o periodo dell’anno, la grandi case produttrici, si presentano e offrono, alla portata di “tutte le tasche”, una grandissima varietà di occhiali tutti caratterizzati da un qualcosa che è a volte irripetibile. Da quel nuovo design che i più cercano e desiderano e che, caratterizzati da novità di forme, colori, materiali tali da rendere unico ed inconfondibile ogni modello, sono in grado di attirare l’occhio del cliente, sempre portato alla ricerca di una oggetto che lo possa caratterizzare al meglio e nel contempo mettere evidenza la sua personalità. E oggi, come le cronache specifiche ci riportano, vi è una nuova particolare tendenza, del momento, ovvero le

riedizioni di vecchi gloriosi modelli del passato rielaborati e “ristudiati” con nuove progettazioni, nuove idee, nuove scelte, nuovi materiali e nuove tecnologie. In questo ultimo caso gli addetti ai lavori si riferiscono ad un particolare design che etichettano come “rivisitato”.

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Altroconsumo risponde Alice Rovati

Bollette ERRATE e INESATTE

LA DOMANDA: Ho contestato (nei termini previsti) una fattura al mio fornitore di luce e gas perchè mi è stato addebitato un importo non corretto e non dovuto. Non ho ricevuto nessuna risposta ma poco dopo la mia contestazione sono stata contattata da una società di recupero del credito. Come devo comportarmi e cosa devo fare?

L

’errore di fatturazione è uno tra i più comuni motivi che possono sfociare in un reclamo. Si tratta di una situazione insidiosa, dal momento che contestare l’importo di una bolletta non congela il pagamento della stessa fino alla risoluzione della controversia, e ci espone a comunicazioni spiacevoli da parte dell’azienda, come è successo alla nostra lettrice. Dopo il reclamo, rimasto senza risposta, è stata contattata da una società di recupero credito per il paga-

mento immediato della bolletta. Questo comportamento da parte del fornitore di energia non è conforme alle regole dettate dall’Autorità. Poiché la nostra lettrice ha contestato la bolletta nei termini previsti (entro dieci giorni dalla sua scadenza), il fornitore deve compiere due passi: il primo è fornire una risposta al reclamo, il secondo è mettere in mora il cliente, cioè assegnargli un termine ultimo entro il quale pagare la bolletta. Inoltre, la messa in

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mora deve avvenire con raccomandata o posta elettronica certificata (pec). Se questi passaggi non sono avvenuti nei modi e nei tempi appena descritti, il cliente ha diritto ai cosiddetti “indennizzi automatici” (direttamente in bolletta). Nel caso della lettrice sono indennizzi dovuti per non aver ricevuto risposta al suo reclamo entro trenta giorni solari (25 euro); per non aver ricevuto l’avviso di messa in mora al corretto indirizzo (30 euro).

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Altroconsumo Un’indagine di Arera rivela che solo 7,9% degli utenti sa che esistono gli indennizzi automatici ed è in grado di citarne alcuni. Errori in bolletta, disservizi, variazioni contrattuali…purtroppo raramente un reclamo scritto, men che meno uno al telefono, sortisce sùbito l’effetto sperato. A volte le aziende non si degnano neanche di rispondere, non resta che passare alla fase 2: la conciliazione. Si tratta di una procedura che offre la possibilità di risolvere la questione in modo bonario, cioè senza arrivare alle carte bollate, agli avvocati e alle aule del tribunale. E’ possibile tentare la conciliazione rivolgendosi all’apposito sportello messo a disposizione dall’Autorità per l’energia (Arera) o a uno dei conciliatori abilitati, tra cui Altroconsumo. La procedura è gratuita. Il conciliatore non dirime la controversia, perché non è un giudice; è un facilitatore, cioè aiuta le parti

a raggiungere un accordo. Nel 2019 Altroconsumo ha gestito oltre 600 conciliazioni, con un tasso di soddisfazione dell’85% (verbali positivi). *La dott.ssa Alice Rovati, docente di diritto, rappresentante provinciale di Altroconsumo. Laureata in Giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Trento, con una tesi sui diritti umani. Ha frequentato diversi corsi di specializzazione in materia consumeristica e ha partecipato, in qualità di relatrice, a numerosi incontri informativi e a progetti dedicati alla tutela del consumatore. Dal

2016 è membro del Consiglio di Altroconsumo Chi desiderasse avere un parere o una risposta su un qualsiasi problema o porre un particolare quesito, può indirizzare la richiesta a: direttore.feltrinonews@gmail.com

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Curiosità dal mondo di Francesco Zadra

Premio IgNobel

quando follia e genialità s’incontrano

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differenza del fratello maggiore nordico, scintillante sugli abiti da sera di eminenti studiosi, attivisti per i diritti umani e ieratici economisti in gessato, il premio IgNobel (sic), capeggia sulle mensole dei ricercatori che hanno dato il loro contributo alla scienza e all’umanità seguendo vie “non convenzionali”. Istituito nel 1991 dalla redazione della rivista scientifica “A.I.R.”, questo riconoscimento semiserio si propone di premiare le 10 ricerche scientifiche più improbabili e bizzarre, ma che in quanto a rigore accademico e scientificità non hanno nulla da invidiare ai loro corrispettivi acclamati a Oslo e Stoccolma. Dobbiamo spostarci dalla fredda Scandinavia e volare nel ben più mite Massachusset per assistere alla cerimonia di premiazione che si svolge annualmente sotto i riflettori del Sanders Theatre, Università di Harvard. La giuria, che spesso annovera tra i propri membri anche vincitori del “vero” premio Nobel, assegna il trofeo secondo diverse categorie che spaziano dalla Medicina all’Economia. Ha fatto epoca l’IgNobel per la Fisica assegnato nel ‘99 all’Università di Sidney per aver calcolato l’angolazione migliore con cui inzuppare un biscotto, per non parlare del dispositivo “anti-cats” che impedisce ai nostri amici felini di camminare sulle tastiere del PC, brillante intuizione di un informatico dell’Arizona. Stanchi di turarvi il naso per cambiare il pannolino ai vostri figli? Contattate Iman Farahbakhsh, eclettico inventore del macchinario “lava bebè”, IgNobel per l’ingegneria 2019. Pure le tematiche umanitarie non sono

sfuggite all’attenzione dei giurati: il riconoscimento per la Pace è andato, ironicamente, all’inventore di un antifurto per auto con lanciafiamme incluso. Lo scorso anno sono stati invece premiati gli sforzi di una equipe euroasiatica nel calcolare i benefici psicologici dei...grattini sulla schiena. La Pace dei sensi! Ma cos’hanno a che fare statistiche sullo scaccolamento degli adolescenti o studi sull’aerodinamica delle patate con la vita quotidiana? Che contributo dà l’analisi dei gas intestinali (ehm…) bovini al progresso scientifico? Secondo le intenzioni dell’ideatore, Marc Abrahams, bisogna abbattere il preconcetto che la serietà sia una virtù, “laugh first, think second” è difatti il motto dell’IgNobel Prize. Serio e faceto non sono per forza in contrapposizione, anzi: scoperte epocali sono spesso frutto di errori o di battute ironiche prese alla lettera, Fleming e la sua penicillina insegnano. Un concetto tanto innovativo quanto rivoluzionario, dalla “Laus Stultitie” (elogio

della follia) di Erasmo da Rotterdam all’ormai iconico monito “stay hungry, stay foolish” che Jobs rivolse nel 2005 ai laureandi della Standfort, le menti che più di tutte hanno lasciato un segno nella storia sono state proprio quelle che hanno saputo fare del “pensiero divergente” e apparentemente anomalo la forza motrice del loro successo. Dopotutto, il cervellone per antonomasia Albert Einstein lasciò scritto ai posteri che “la creatività è l’intelligenza che si diverte”. Se il buon Albert non ci inganna, il lampo di genio potrebbe essere sempre dietro l’angolo, anche nei luoghi e momenti più inaspettati. E’ il caso di Karl Kruszelnicki , ricercatore australiano, premiato nel 2001, che scoprì la causa del formarsi di lanugine nell’ombelico: l’atrito della peluria corporea fa migrare verso il centro le fibre dei vestiti indossati dando origine ai caratteristici batuffoli ombelicali. Insomma, la prossima volta che verrete accusati di perdere tempo a guardarvi l’ombelico potrete ribattere con la scusa di dover dare il vostro contributo alla Scienza.

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Curiosità dal mondo di Paolo Rossetti

Le aste pazzesche

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o sapevate che... ...una bottiglia di vino Borgogna Romanèe Conti del 1945 è stata venduta all’asta nel 2018 per la “modica” cifra di 558 mila euro? ... in una asta da Sotheby’s una bottiglia di whisky The Macallan del 1926 è stata acquistata per 843mila dollari?

...un tonno rosso di 278 chili è stato comprato nel 2019 all’asta di Tokyo per 3,1 milioni di dollari. Praticamente alla cifra record di 10mila euro al kilo. ...un tartufo bianco “speciale” di 750 grammi è stato battuto in una asta nel 2007 per 143mila euro. ...Il “Salvator Mundi” di Leonardo da Vinci è stato venduto all’asta da Christie’s nel novembre del 2017 per la cifra record di 450,3 milioni di dollari, diventando l’opera d’arte più costosa del mondo …è stata pagata 32 milioni di euro una ciotola cinese estremamente rara. La ciotola di porcellana, si presume avesse oltre 1000 anni della dinastia Song (Cina del Nord 960-1127), era stata creata come contenitore in cui lavare i pennelli. È stata venduta durante un’asta esclusiva tenutasi a Hong Kong. …un anello di diamanti acquistato ad un mercatino delle pulci per dieci sterline è stato venduto all’asta a Londra per 737.176 €.. Il proprietario riteneva che la pietra “dalle dimensioni eccezionali” fosse un pezzo di bigiotteria quando l’ha acquistata a West Middlesex Hospital a Isleworth, West London, negli anni ‘80.

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…tra le cose più costose al mondo è catalogata una macchina italiana, la Ferrari 250 Gto (Gran Turismo Omologata) del 1963 che è stata venduta all’asta nel 2013 per 52 milioni di dollari. …l’orologio Falcon SuperNova Pink Diamond iPhone 6, è lo smartphone più caro al mondo. E’ tutto rivestito in oro 18 carati e ha un diamante rosa sul retro. Il suo prezzo è di 48,5 milioni di dollari. …un violino costruito da Giuseppe Guarneri del Gesù è stato aggiudicato all’astra per la bellezza di 3,9 milioni di dollari. Lo strumento musicale, appartenuto allo zar di Russia Alessandro II, è costruito più di 250 anni fa ed è uno dei pochissimi superstiti della linea Guarnieri. …il vestito indossato da Marilyn Monroe per cantare “Happy Birthday” al presidente John F. Kennedy, il 19 maggio 1962, è stato venduto per 1.2 milioni di dollari.


gianni.bertelle@gmail.com

FELTRINO NEWS - Mensile d’informazione distribuito in tutti i comuni del Feltrino

CONTATTI PUBBLICITÀ: GIANNI BERTELLE - 340 3020423 gianni.bertelle@gmail.com


I nostri piccoli amici di Paolo Rossetti

Corretta alimentazione di cane e gatto

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olti proprietari di cani e gatti si domandano spesso quali debbano essere gli alimenti da utilizzare per i loro piccoli amici. Innanzitutto è necessario evidenziare che il cane e il gatto non sono associabili dal punto di vista alimentare, anche se, con il passare del tempo, la loro specifica nutrizione è dipesa molto dalla mentalità dei loro padroni. C’è chi, infatti, usa spesso cibi fatti in casa, compresi i residui alimentari, in contrapposizione a coloro i quali utilizzano i mangimi che acquistano nei vari negozi per animali. Importante è sapere che per il gatto e il cane non esiste il concetto del sapore, perché ciò che maggiormente li attrae non è il gusto bensì l’odore. A tal proposito è utile sapere che l’uomo possiede tra i 5 e i 20 milioni di cellule olfattive, il gatto circa 60 milioni mentre il cane circa 210 milioni. Differente invece è il numero di bottoni che consentono la percezione del gusto: nel gatto sono circa 500, nel cane circa 1800 mentre nell’uomo sono oltre 9mila. E anche la modalità d’ingestione del cibo è differente come diverso è il processo

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digestivo. L’uomo ha una lunga masticazione a differenza del cane e del gatto che deglutiscono velocemente, limitandosi eccezionalmente a tranciare e sminuzzare il cibo. Di poi, essendo il cane e il gatto, portati a nutrirsi velocemente, possiedono uno stomaco piuttosto capiente con un’acidità maggiore rispetto a quella dell’uomo e quindi loro possono digerire cibi per l’uomo indigeribili (ossa) L’intestino invece è piuttosto corto e non permette la digestione dei glucidi o di cibi altamente complessi. In ogni caso, però, per una giusta e corretta alimentazione è necessario che la stessa comprenda tutti i principi e tutti gli elementi nutritivi che servono all’organismo dell’animale per svolgere le proprie e indispensabili funzioni. In primis l’acqua che gli esperti definiscono indispensabile ed essenziale per la vita. Basti sapere che gli animali, piccoli o grandi che siano, possono sopravvivere, anche se perdono tutto il grasso corporeo e oltre il 50% delle proteine. Se però perdono il 20% dell’acqua del loro corpo sono destinati a morire. Quindi l’acqua non deve mai

mancare. Le proteine, considerate anche nell’uomo i veri mattoni dell’organismo, indispensabili per la crescita, per i muscoli e per tutti i tessuti. I carboidrati, composti organici che garantiscono all’animale forza ed energia, e sono utili per il sistema immunitario. Poi i grassi che oltre a contribuire all’energia permettono l’assorbimento di numerose vitamine. Infine, sali minerali e vitamine che entrano direttamente in moltissimi processi biologici legati alla crescita e vita degli animali. Oggi la moderna ricerca legata all’alimentazione animale mette a disposizione prodotti, specialità e ritrovati in grado di garantire tutti i principi di cui abbisognano i nostri piccoli amici. Condizione essenziale, però, è quella di rivolgersi agli esperti, ai veterinari e ai negozi specializzati per avere precise indicazioni su una giusta alimentazione, specialmente in caso di patologie o disfunzioni varie che possono colpire il cane e il gatto. In questi casi è decisamente sconsigliato il famoso “fai da te”.


Cose da mamme... e da papà di Elisa Corni

Il babywearing: indossare il bimbo È sempre più facile vederli in giro: uomini e donne con strani zaini sulla schiena o addirittura appesi davanti che ospitano i loro bimbi. Sono le mamme portatrici e i papà canguri, genitori che fanno spesso di una pratica millenaria, quella del trasporto dei figli tramite fasce, marsupi e altri supporti, un’abitudine; quasi una filosofia.

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el web ma non solo è noto come “babywearing”, letteralmente “indossare il bambino” ed è meno semplice di quanto sembri. Ma una volta entrati in contatto con questa pratica difficilmente i genitori se ne separano. Ci sono molti modi di “portare”, come dicono i genitori che praticano questa abitudine, ma tutti sono accompagnate da una serie di effetti positivi oggettivi e universali. Pensate che spesso l’uso di fasce è incentivato fin dalla nascita ad esempio per combattere la depressione post partum che a volte accompagna le neomamme. Questo perché il contatto fisico con il proprio bebé incrementa la produzione dell’ossitocina, l’ormone della felicità, con innegabili effetti su entrambi. Ma più in generale, diversi studi hanno evidenziato come la vicinanza fisica prolungata con mamma e papà aiuti a creare legami più profondi. Più in generale questa arte, perché tra legature particolari e fasce belle come dipinti è di questo che si parla, sta prendendo sempre più piede in contrapposizione a quella filosofia di genitorialità tradizionale che invitava le mamme a “non tenerlo in braccio che poi si abitua”. Novità per noi, molto meno per altre culture, come quelle africane che i loro bambini li portano sulla schiena da millenni. Ma il contatto fisico è uno degli elementi importanti per i primi periodi di crescita del bambino. Pensate al cosiddetto “pel-

le a pelle”, quel momento intimo e indimenticabile che segue immediatamente il parto e durante il quale la mamma può tenere per la prima volta il suo bimbo; e lo fa senza indumenti addosso. Questo nuovo stile di genitorialità che promuove attaccamento e contatto è spesso vincente ma non sempre. Non sempre fa i conti con chi, magari, di essere portato non ha voglia. Se esistono infatti bambini “cozza”, ovvero ad alto contatto e che pretendono la dose quotidiana di abbracci, è altrettanto vero che altri rifiutano qualunque forma di trasporto a contatto. In quel caso, purtroppo, è possibile che si debba arrendersi al fato. In ogni caso l’approcciarsi al babywearing deve essere accompagnato, proprio perché non si tratta di una pratica banale e automatica. Alcuni incroci di stoffa, le cosiddette legature, sono complesse e soprattutto con i bambini più piccoli è importante non costringerli in posizioni errate. Per questo il consiglio è di fare sempre riferimento ai consulenti, persone esperte, spesso produttori di supporti o rivenditori, genitori canguri loro stessi che vogliono diffondere il corretto portare. Corretto perché non tutti i supporti in commercio sono ergonomici, ovvero sono costruiti in modo tale da evitare posizioni scorrette - ad esempio

è fortemente sconsigliata la posizione fronte mondo, ovvero con il bambino che guarda il mondo e non il busto del proprio genitore. Oppure il supporto di cui vi innamorate perdutamente potrebbe non essere adatto a voi o al vostro bambino. La prossima volta che incontrerete una mamma con il bimbo in fascia non siate ironici, non domandatele “respira”, perché potete starne certi non solo respira ma in quel momento potrebbe essere l’essere più felice della terra.

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Conosciamo il nostro passato

“Le ferrovie portatili della prima guerra mondiale”.

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il titolo di un libro (autore Mauro Bottegal) che svela un mezzo di trasporto poco conosciuto e interessantissimo, usato anche nelle nostre zone durante la prima guerra mondiale. Si trattava di piccole ferrovie i cui binari erano formati da elementi prefabbricati, che potevano essere installate velocemente, esattamente come i trenini modello. Erano state inventate verso la fine del 1800 per l’agricoltura, in particolare per la raccolta della barbabietola da zucchero in Francia e poi adattate per l’uso nell’industria. Visto la loro efficacia e relativa facilità di utilizzo anche gli eserciti pensarono di usarle per lo svolgimento dei loro compiti. In Italia

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sono conosciute come Decauville, dal nome dell’ingegnere che per primo le industrializzò e diffuse, sono conosciute anche col nome tedesco di feldbahn. I militari utilizzarono inizialmente queste ferrovie all’interno delle grandi fortezze, per esempio la famosa Linea Maginot, e negli impianti di produzione delle armi. Con la Grande Guerra ci si accorse subito che era estremamente difficile fare arrivare uomini e mezzi sui fronti guerra. Le armi disponibili erano ormai molto grandi e richiedevano adeguati mezzi di trasporto per essere portate nelle zone di utilizzo e inoltre richiedevano un rifornimento continuo di proiettili e altri materiali per funzionare. Le

strade sterrate non reggevano il traffico di veicoli pesanti, i camion erano ancora poco affidabili. Le ferrovie avrebbero potuto trasportare tutto il materiale necessario ma non arrivavano fino a tutte le zone di combattimento. Una delle soluzioni trovate per affrontare il problema del trasporto furono queste ferrovie. Potevano essere posate velocemente, da personale non specializzato, con pochi lavori sul terreno e spesso sulle strade. Gli elementi di binario venivano trasportati sul luogo di posa dagli stessi treni e poi, venivano scaricati e messi in opera a mano. Lo scartamento, cioè la distanza tra le facce interne delle rotaie, più comune era di 60 cm, ma vennero usati anche i 50 cm, 70 cm, 75 cm, 76 cm e anche 1 m. Finito l’utilizzo venivano smontate e potevano essere usare in altri luoghi. Alcune di essere vennero posate anche in Valsugana: tra Marter e Roncegno e tra Borgo e Maso Beselga, vicino a Olle. Nel resto del Trentino ne vennero costruite alcune vicino a Rovereto, in città a Trento, a Tione, tra Riva del Garda e Sarche e da Malé a Fucine. Tra la val Pusteria e il Cadore, passando per


Conosciamo il nostro passato Cortina, ne vennero costruite varie. Una italiana da 75 cm da Peaio a Zuel, collegata tramite teleferica alla stazione di Perarolo. Una austroungarica da 70 cm, con treni benzo-elettrici, da Niederdorf-Villabassa o Toblach-Dobbiaco a Cortina, che poi venne poi estesa fino a Calalzo, cambiando lo scartamento del binario italiano da 75 cm a 70 cm. Nel dopoguerra venne costruita la Ferrovia delle Dolomiti a scartamento di 95 cm. Da Feltre a Fonzaso, e Arsiè e Fastro. Collegava la ferrovie del Piave e della Valsugana con una teleferica. Nella pianura veneta dopo Caporetto gli austroungarici posarono una grande rete, mentre prima in Friuli un’altra grande rete venne posata dagli italiani. Generalmente, nei vari eserciti, avevano lo scartamento industriale di 60 cm e usavano la trazione a vapore, a benzina o con animali. Erano sostanzialmente compatibili tra loro.

Gli austroungarici adottarono invece soluzioni tecniche particolari. Realizzarono infatti ferrovie portatili con lo scartamento di 70 cm e le ruote a doppio bordino. Inventarono treni benzo-elettrici nei quali ogni vagone aveva un proprio motore. Costruirono anche ferrovie portatili a scartamento standard, con treni benzo-elettrici che potevano viaggiare anche su strada normale, cambiando i cerchioni delle ruote. Usarono anche locomotive a batteria, anche a Trento e in Val Lagarina, e addirittura elettriche con linea di alimentazione aerea in Slovenia. Attualmente esistono anche delle belle riproduzioni modellistiche sia di locomotive che di vagoni. Il libro descrive i vari sistemi di ferrovia prefabbricati usati durante la grande guerra in Europa. Contiene molte foto, più

di 70 disegni e mappe di tutta Europa, dalla Francia ai Paesi Baltici alla Turchia. Attualmente è disponibile tramite il sito www.lulu. com, oppure presso le librerie o direttamente all’autore scrivendo a ptgg1418@ gmail.com . Su YouTube è possibile vedere il video Portable railways WWI che illustra queste ferrovie con foto e filmati che mostrano il loro utilizzo in guerra https://youtu. be/7Kw46ccUl4Y .

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Tempo libero di Luca Giardinello

Il GIN, Re dei cocktails

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n questi ultimi tempi sempre di più si parla del prepotente ritorno del gin e del suo utilizzo che ne fanno i barman di tutto il mondo per realizzare grandi cocktails e fantastici aperitivi. Per i conoscitori il gin è veramente il re di drink indimenticabili come il Negroni, il Gin Tonic ( l’aperitivo più bevuto al mondo) , il White Lady, il Cocktail Martini il Bronx e chi più ne ha più ne metta. Secondo antichi testi il gin deve la sua storia a dei monaci che forse per puro sbaglio hanno fatto le prime prove della distillazione del ginepro mescolato ad una sorta di alcool. Nei loro inziali intenti, infatti, dovevano ricavare un olio o un qualcosa di terapeutico e antinfiammatorio. Fu il dott. Silvius (un olandese) che intorno al 1600 creò un distillato di alcool, oli essenziali di ginepro e qualche

erba ancora sconosciuta che fu usato sia come tonico e sia come medicinale e che chiamo’ “Genever”. Nel tempo e con il tempo questo particolare prodotto iniziò ad essere apprezzato anche come bevanda dal gusto particolare. E con il tempo cambiò anche il nome trasformandosi prima in Geneva e poi in Gin. Oggi come si ottiene il Gin? Di fatto è un distillato di cereali, solitamente granoturco, frumento e orzo, che viene aromatizzato con ginepro, spezie, agrumi, fiori, bacche e vari ingredienti scelti dal mastro distillatore: i cosiddetti “botanicals”. Quest’ultimi possono variare a seconda della giusta mescolanza che il distillatore interpreta. Nel trascorrere degli anni il gin, sempre di più, si è legato non solo ai prodotti della zona ove si produce, ma anche e principalmente alla

fantasia e creatività dei distillatori che riescono a trovare combinazioni esaltanti. Per la cronaca il consumo del gin in Italia è cresciuto tantissimo tant’è che nel nostro paese, per effetto della continua richiesta, sono oltre 180 i brandy italiani che si trovano sul mercato a disposizioni dei consumatori.

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Curiosità in tavola

Gli italiani mangiano sempre più etnico

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ushi, cous cous, riso e curry, fajitas... la varietà di piatti cucinati in tutto il mondo è davvero vastissima. Ma se fino a qualche decennio fa molti si potevano gustare solamente in vacanza, durante viaggi lontani, ora invece li possiamo mangiare praticamente tutti i giorni a pochi passi da casa. La cucina etnica infatti ha preso sempre più piede dagli anni Novanta ad oggi, sia per l’evoluzione della nostra società, che è diventata sempre più multietnica e globalizzata, sia per la tendenza crescente degli italiani a sperimentare sapori diversi, cosa che naturalmente va di pari passo con la globalizzazione. Da una recente indagine dell’ Osservatorio dell’Istituto Zooprofilattico Sperimentale delle Venezie si de-

duce che un italiano su tre mangia etnico qualche volta al mese, e a preferirlo sono soprattutto le donne lavoratrici sopra i 35 anni, con un buon livello d’istruzione e che vivono al Nord Italia. All’inizio è stato il boom dei ristoranti cinesi, ora vanno moltissimo il giapponese e la cucina mediorientale. Per andare incontro ai gusti degli italiani spesso in questi ristoranti la cucina tipica è affiancata da quella tradizionale italiana, si trovano spesso infatti locali che propongono anche la pizza. Dal 2000 a questa parte i ristoranti etnici sono cresciuti di oltre l’80%, anche perché succede talvolta che là dove un titolare italiano ceda l’attività sopraggiunga un gestore straniero, soprattutto cinese.

E quali sono i piatti etnici più amati dagli italiani? Difficile stilare una classifica, ma di certo vi si trovano i cavalli di battaglia della cucina asiatica, gli amatissimi involtini primavera, il riso alla cantonese, il sushi, ma anche pollo tandori indiano, e per cambiare continente il churrasco di carne brasiliano, il guacamole, salsa a base di avocado e pomodoro usata nella cucina latina, per non parlare del cous cous e dei falafel, polpette di ceci di tradizione mediorientale, da gustare con hummus, una salsina di ceci e sesamo. (N.P.)

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A gioco risolto, leggendo di seguito le lettere nelle caselle a sfondo colorato, si otterrà il nome del più noto salto idrico presente

ba, bo, ca, ci, ci, cri, do, e, e, fe, fe, fles, ge, gio, i, in, li, lie, lu, me, ba, no, bo,no,ca,not,ci,nu, ci,pa, cri, fe,re,fe,ro,fles, i, in, ne, pe,do, po, e, pre,e, ra, sa, si,ge,sia,gio, spez, ti, ti, tro, va, ve, vo,ne, vo, za, li, lie, lu,vo, me, no, zia. no, not, nu, pa, pe, po, pre, ra,

re, ro, sa, si, sia, spez, ti, ti, tro, va, ve, vo, vo, vo, za, zia. Trovate le parole rispondenti alle definizioni date, aiutandovi con le sillabe qui elencate alla rinfusa. Le lettere nelle colonne a sfondo grigio, daranno una domanda alla quale dovrete dare la risposta. Trovate le parole rispondenti alle definizioni date, aiutandovi le sillabe qui elencate alla rinfusa. Le lettere nelle colonne a 1.con Ricordare i bei tempi passati – 2. In quello di carenaggio si riparano le navi – 3. sfondo grigio, daranno una domanda alla quale dovrete dare la Lo è la persona raccolta in preghiera sui gradini dell’altare – 4. Ragazzi nel fiore dell’età – 5. Un dente ad effetto tagliente – 6. Precede l’analisi del sangue – 7. Atrisposta. tenua e diffonde la luce dell’ abatjour – 8. San Marco è il suo Patrono – 9. Il pozzo che fornisce il greggio – 10. È famoso quello di Selinunte – 11. Un intingolo con carne come il Tonco del pontesel - 12. Doppiezza, falsità.

1. Ricordare i bei tempi passati – 2. In quello di carenaggio si riparano le navi – 3. Lo è la persona raccolta in preghiera sui gradini dell'altare – 4. Ragazzi nel fiore dell'età – 5. Un dente ad effetto tagliente – 6. Precede l'analisi del sangue – 7. Attenua e diffonde la luce dell' abatjourCRUCI... – 8.CALA San Marco è il suo Patrono – CRUCI...TRENTINO: TRENTINODEL SASSO 9. Il pozzo che fornisce il greggio – 10.8 E' 9famoso quello di 1 2 3 4 5 6 7 10 11 D M B R M N Selinunte –I 11.C UnE intingolo conE carne Acome ilE Tonco del 12 13 14 D O L I falsità. E R E M I T A ponteselI - 12. Doppiezza,

SOLUZIONI NR. DI OTTOBRE 2020

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VERTICALI: 1. Ha una sorella o un fratello maggiore di lui - 2. Principio, metodo adottato nell’agire - 3. La Nilde, prima donna eletta alla Presidenza della Camera dei Deputati - 4. Serve bianchi e rossi - 5. In quel posto - 6. Il primo sfortunato volatore - 7. Articolo per scolaro - 8. Sono pari nel pianto - 9. Hanno tutte almeno un’ancora - 10. Diletta o appassiona chi si reca a Celado, nel Tesino - 14. La città ai piedi del Conero - 16. Aumenta giorno dopo giorno! - 17. Un particolare monopattino a ruote parallele - 19. Donna di Trento o di Oslo - 20. Piccolo laghetto in alta Val dei Mocheni - 24. Filosofo greco considerato il padre della matematica - 27. Si beve con i pasticcini - 29. A inizio e fine dell’epidemia - 35. Terra liquida bollente - 40. Non esiste solo la Sugana! - 42. Temuta malattia della vite - 44. Asti - 45. Testa e coda di topo - 48. Nè tua nè sua - 50. Quel di Carota è famoso - 52. Sigla dell’Associazione internazionale che aiuta chi ha dipendenza dal bere - 53. La targa... etnea - 54. Sigla della Svizzera.

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sul desktop - 13. Esteso insediamento urbano - 15. Il West per gli italiani - 18. Acquisire, procurarsi - 21. Il cammino della pratica - 22. Sul viso, alcuni sono vezzosi - 23. Batte in petto - 25. Se si perde in un pagliaio, non lo si trova più! -

26. Un dottore in breve 27. Prendere... a Roncegno! Tante sono lepronunciabili "z" in Caldonazzo --30. La Il prima e l'ultima di ORIZZONTALI: 1.-Gioco di parole non- 28. facilmente 11. RamazWilson - 31. Si ripetono nei noiosi - 32. Vale acetone se letta da destra a sinistra - 33. La targa di Aosta - 34. Palla in zotti - 12.di Un’immaginetta desktop - 13. Esteso insediamento ur- che rete!cantante - 36. La provincia S. Benedetto del Tronto -sul 37. Mille e cinquanta romani - 38. Grande attore italo-francese sposò Simone Signoret (iniz.) - 39. Targa del Capoluogo irpino - 41. Mitico, valoroso - 43. Quella centrale porta bano - 15. Il West per gli italiani - 18. Acquisire, procurarsi - 21. Il cammino della all'altare maggiore - 46. Cuore di golden - 47. Situata nella parte più profonda - 49. Lo Svevo scrittore - 50. Il più famoso- Edgar - 51. Preposizione semplice - 52. Si -ripetono nell'arsenale - 53. Dopo di lui le riprese pratica 22. Allan Sul viso, alcuni sono vezzosi 23. Batte in petto - 25. Seiniziano si perde in e si gira - 55. Stazione di fermata ferroviaria dismessa fra Strigno e Grigno. un pagliaio, non lo si trova più! - 26. Un dottore in breve - 27. Prendere... a RonceVERTICALI: 1. Ha una sorella fratello maggiore -di30. lui - La 2. Principio, adottato La Nilde, gno! - 28. Tante sono le “z”oinun Caldonazzo prima metodo e l’ultima dinell'agire Wilson- 3.- 31. prima donna eletta alla Presidenza della Camera dei Deputati - 4. Serve bianchi e rossi - 5. In quel posto - 6. Il primo Si ripetono nei noiosi - 32. acetone se letta da- destra sinistra 33. La- 10. targa sfortunato volatore - 7. Articolo perVale scolaro - 8. Sono pari nel pianto 9. Hanno a tutte almeno -un'ancora Diletta o appassiona chi si reca a Celado, nel Tesino - 14. La città ai piedi del Conero - 16. Aumenta giorno dopo giorno! - 17. di Aosta - 34. Palla in rete! - 36. La provincia di S. Benedetto del Tronto - 37. Mille Un particolare monopattino a ruote parallele - 19. Donna di Trento o di Oslo - 20. Piccolo laghetto in alta Val dei Mocheni - 24.romani Filosofo greco padre della matematica - 27. che Si beve con i pasticcini - 29. A inizio e fine e cinquanta - 38.considerato Grandeilattore italo-francese sposò Simone Signoret dell'epidemia - 35. Terra liquida bollente - 40. Non esiste solo la Sugana! - 42. Temuta malattia della vite - 44. Asti - 45. (iniz.) irpino 41. Mitico, - 43. Quellainternazionale centrale che Testa- e39. codaTarga di topo del - 48. Capoluogo Ne' tua ne' sua - 50. Quel di- Carota è famosovaloroso - 52. Sigla dell'Associazione aiutaall’altare chi ha dipendenza dal bere --53. La targa... 54. Sigla della Svizzera. porta maggiore 46. Cuoreetnea di -golden - 47. Situata nella parte più profonda - 49. Lo Svevo scrittore - 50. Il più famoso Edgar Allan - 51. Preposizione semplice - 52. Si ripetono nell’arsenale - 53. Dopo di lui iniziano le riprese e si gira - 55. Stazione di fermata ferroviaria dismessa fra Strigno e Grigno.

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lungo la Valle del torrente Centa. A gioco risolto, leggendo di seguito le lettere nelle caselle a sfondo colorato, si otterrà il ORIZZONTALI: Gioco idrico di parolepresente non facilmente pronunciabili 11. Iltorrente RamazzottiCenta. cantante - 12. Un'immaginetta nome del più noto1. salto lungo la Valle- del

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A gioco risolto, leggendo di seguito le lettere nelle caselle a sfondo colorato, si otterrà il nome di un percorso che sale con la più lunga gradinata d'Italia, dalla Valbrenta-Bassa Valsugana, all'altopiano di Asiago.

CATENA DI PAROLE

ORIZZONTALI: 1. Il mese della Strozegada a Levico Terme - 8. ... e così sia! - 12. Sono adorati dai pagani - 13. Una

persona come San Romedio - 15. La piccola valle trentina percorsa dal torrente Moggio - 16. Notaregola del redattoreapplicata (sigla) Nella colonna di destra l’ordine esatto della serie di parole e la 17. E' formato da almeno sei games vinti - 18. Una struttura come l'INPS - 19. Creatori, inventori - 20. Alta Tensione La capitale vino Champagne La sigla in Fisica indica un miliardo di elettronvolt - 23. Bevanda (indicata 21. con una francese delledellettere da -A22.ad F) che per passare di volta in volta dall’una alcoolica derivata dalle mele - 25. Letto due volte... diventa un navigatore - 26. Ha scritto Il nome della rosa - 27. Il più Comune della Valsugana - 28. Il fallo di rete nel tennis - 30. Per superficie è il settimo Stato della Terra - 33. Dura all’altra, è alto il seguente: e faticosa come la salita ciclistica del Bondone - 36. Nel grappolo spàrgolo sono pochi - 38. Spesso lo sono le calze giocare tuoi -D 43., La11 Provincia piemontese del B vino 1 , 13 A , usate 18 dai D bambini , 6 B per , 12 E ,sui3pavimenti D , 19in Bcasa, -542.CNe', 9miei, B ne' , 16 C, 7 A , 17 , 14 Moscato - 45. Precipitarsi sul luogo dell'incidente - 49. Eccessiva produzione di saliva nell'assaggiare vini troppo C , 8 A , 4aciduli. D , 14 E , 2 B , 10 B , 20 C. VERTICALI: 1. Il significato della D nel termine COVID - 2. Simili, uguali - 3 . Un'arma da film western - 4 . La libellula ne ha quattro - 5. La Martini... che mi appartiene - 6. Chi l'ha garantita ci può anche vivere - 7. Un laghetto vicino al 27 orizzontale - 8. Aeronautica Militare - 9 . Hanno caratteri maschilisti - 1 0 . Un liquido dall'odore caratteristico usato nell'ambito ospedaliero - 11. La rappresenta il Presepe - 14. Un Programma didattico riservato agli studenti universitari - 19. Si ripetono nelle ischemie - 21. La provincia polesana (sigla) - 24. AIDO e AVIS ne contano tanti - 27. L'erba brusca (o acetosa) in Valsugana - 29. La valuta non materiale da cui derivò l'euro - 31. Seicento due romani - 32. Istituto d'Istruzione Superiore (sigla) - 34. Un camice o una vestaglia da casa... a Pergine - 35. Con Lona è la Capitale trentina del porfido - 37. L'ultimo Giovanni Paolo - 39. La provincia col Gennargentu (sigla) - 40. Spinto, ma non osceno - 41. Spazi per oche e galline - 44. Tante sono le Grazie - 45. Alessandria - 46. Il calciatore numero 7

Il numero di novembre di Feltrino News è stato chiuso in redazione il 4 novembre 2020


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