In “filigrana” di Nicola Maccagnan
Dalla valigia di cartone al touchscreen: dove nascono le nuove “emigrazioni”?
C
i sono numeri che fanno riflettere e numeri che fanno paura. Uno di questi, che mi ha profondamente colpito, è quello che riguarda i nostri giovani - feltrini, cadorini, bellunesi -, sempre più protagonisti di un fenomeno, quello dell’emigrazione, che qualcuno di noi aveva pensato di relegare all’album, oramai sbiadito, dei ricordi. Abbiamo ben distinte, tra le storie di famiglia, quella di un avo, di un nonno, di un prozio, a volte anche di un genitore, partito “in cerca di fortuna”, soprattutto nel periodo a cavallo tra la metà dell’800 e la prima metà del secolo scorso. Ricor-
di fatti di foto in bianco e nero, valigie di cartone in mano, lunghi viaggi della speranza per dare un futuro a moglie e figli, quasi sempre lasciati a presidio della casa e dei campi nostrani. Pellegrinaggi fatti di sogni, sempre intrisi di fatica, sudore, lontananza e nostalgie, spesso umiliazioni, con le destinazioni
cari alla fame e alla miseria, costruire una prospettiva di riscatto - magari dopo le sofferenze della guerra - e costruirsi una casa dignitosa nell’amata terra natia. Storie e ricordi che pensavamo di avere chiuso nei bauli della soffitta, quasi un retaggio di un passato che non sarebbe mai più tornato. E invece? E invece i numeri ci dicono (ce lo dice l’Associazione Bellunesi nel Mondo) che nel solo 2019 sono stati oltre 2.000 i giovani che hanno lasciato la nostra terra per vivere un’esperienza di lavoro
più diverse: le miniere di Francia e Belgio, le prime industrie europee, la Svizzera, le terre lontane dell’America (del nord ma anche del sud) e perfino dell’Australia. L’obiettivo di allora? Il pane, sottrarre i propri
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