La politica e l'informazione di Emanuele Paccher
Libera manifestazione del pensiero:
diritto o privilegio per pochi?
L
a gestione dell’informazione e della propaganda in guerra è tutto. Raccontare i fatti in una sola versione è essenziale per gestire l’opinione pubblica e mantenere il controllo della popolazione. Se ci si pensa bene, tutti i regimi totalitari del novecento hanno soppresso immediatamente il pensiero critico, o per meglio dire la manifestazione del dissenso. Il mondo si era illuso che il sancire su carta alcuni diritti fondamentali, come la libera manifestazione del pensiero e la libertà di informazione, fosse sufficiente per evitare gli abomini del passato. I fatti in Russia ci raccontano però un’opposta realtà. Lo sanno bene, tra i tanti, Alexey Pivovarov e Marina Ovsyannikova. Il primo costretto da anni a rivolgersi ad una piattaforma come YouTube, poiché i canali di informazione russi lo
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avevano censurato. Ora pure questo canale traballa, con la possibilità che la censura si estenda a numerosi social. Marina, invece, nei primi giorni di marzo ha innalzato un cartello contro la guerra durante una diretta di un’importante emittente russa. Poco dopo è stata prelevata dagli studi. Di lei si sono perse le tracce finché non è ricomparsa in tribunale. Insomma, la Russia non è certamente un Paese per giornalisti. Vista la situazione geopolitica era doveroso partire da tale Paese. Ma la situazione non migliora se ci si rivolge alla Cina, alla Corea del Nord, all’Eritrea, al Turkmenistan. Tutti Stati che si collocano nelle ultimissime posizioni nel calcolo dell’indice della libertà di stampa. È giusto ricordare Chen Qiushi, cittadino cinese, ex avvocato e poi giornalista, il quale nei primissimi giorni di pandemia decise di narrare la situazione di Wuhan, portando testimonianza della rapida diffusione della malattia e della sua mortalità. Non andava bene al regime in quel momento. Di lui non si sa più nulla. E qui la memoria torna alla “Rosa Bianca”, gruppo di resistenza tedesco contro la dittatura del nazismo. Questi giovani ragazzi e ragazze frequentanti l’Università non fecero altro che lanciare degli opuscoli in cui prendevano posizione contro Hitler e il suo regime. Il 18 febbraio 1943 una di loro, Sophie Sholl, lanciò dei volantini dalla cima di una scalinata di una scuola. Venne vista da un bidello nazista che la inseguì e la placcò. Venne
consegnata alla Gestapo. L’esercizio del diritto di informazione e di critica, forse il più importante diritto costituzionalmente garantito oggi, portò quella giovane ragazza alle decapitazione. Di Sophie oggi ci ricordiamo il suo coraggio. Le abbiamo reso onore dedicandole qualche scuola. Ma il mondo dal suo gesto non ha poi imparato così tanto. Cristicchi direbbe: “Ma che ci insegna la storia?”. Tali storie veramente non si sarebbero più dovute pensare come ripetibili. Dopo secoli e secoli di atrocità si sperava che la libera manifestazione del pensiero fosse considerata per quello che è, ossia una manifestazione dell’uomo nella società, espressione della bellezza della diversità di idee. Non è così. Fortunatamente non in tutto il pianeta la situazione è così drammatica. Il mondo occidentale sembra aver imparato qualcosa. Il sopra citato indice della libertà di stampa ci dice che l’America del Nord, l’Europa e l’Australia non sono poi messe così male. Anche l’Italia è, tutto sommato, un Paese virtuoso. Ma nel complesso possiamo certamente dire che il diritto di manifestare liberamente le proprie idee è un privilegio per pochi.