Il buco della vita e dell’ignoto
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Il buco” di Michelangelo Frammartino, premiato dalla giuria a Venezia, è un film di quelli che non ti aspetti, un cinema che racconta solo e solamente con delle immagini e un sonoro stupefacenti. Il regista nostrano prende ispirazione da una storia realmente accaduta agli inizi degli anni ’60 e crea un’opera universale. Ci troviamo nel sud rurale della penisola (per l’esattezza presso l’altopiano calabrese del Pollino) e l’autore ci tiene subito a mettere in chiaro le cose, facendoci respirare un’aria particolare, forse proprio l’aria di quei paesaggi e di quei monti meravigliosi ed estremamente suggestivi che vediamo sul grande schermo. Pecore, buoi, cavalli, un paesino, una grotta e un anziano pastore, il quale ricopre un ruolo ben preciso che non sto troppo ad approfondire per motivi più che ovvi… vi basti sapere che la sua presenza è estremamente simbolica. Una scoperta stupefacente compiuta da un gruppo di giovani speleologi fa da nucleo centrale per ciò che vuole rappresentare Frammartino. L’Italia che vediamo in questo film è estremamente bipartita: da una parte abbiamo il paese del progresso, che viene mostrato attraverso programmi televisivi pomposi e che puntano allo stupire il pubblico medio-basso, dall'altra vi è l'italia rurale del sud; luoghi totalmente dimenticati dal loro stesso paese ma che sono abitati da persone che vivono e hanno sempre vissuto a stretto contatto con la propria terra" A inizio film in tv non a caso si parla di palazzi
alti centinaia di metri per poi osservare poco dopo gli speleologi esplorare una delle grotte più profonde al mondo, queste due realtà creano un contrasto più che evidente, l’uomo moderno va sempre più su ma forse, quello che dovremmo fare realmente, è entrare giù in profondità delle cose. L’uomo torna a contatto con la propria terra madre mentre si costruiscono palazzoni e metropoli, mentre un’intera fetta di popolo (quella che abita i luoghi in cui il film è ambientato) è ancora analfabeta, mentre i pastori parlano una lingua incomprensibile (“tè, tè” è il vocabolario utilizzato dal già citato pastore). Un racconto di vita, di fine e di un cambiamento dal punto di vista sociale, culturale ed economico. In questo film nulla è rappresentato a caso; una grotta diviene luogo simbolico ed un pastore il suo mentore (e non solo della grotta, forse dell’intero territorio). Questo è “il buco”, un cinema apparentemente semplice, ma che proprio in questa genuinità trova il suo reale significato, il film si trasforma in mezzo comunicativo per l’interiorità, e tutto ciò lo fa con immagini potenti ed evocative, che alle volte ricordano un film di Tarkovskij e altre volte ancora ritraggono semplicemente alla perfezione e con delicatezza la storia di un luogo e dei suoi abitanti senza l’uso della parola, ma attraverso la vera e pura forza del cinema. MICHELE TANTILLO
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