IDEE
Dove nascono le idee immortali
Q
uesto mese sono 28 anni. 28 anni dalla scomparsa di un uomo, non uno qualsiasi. E dopo tutto questo tempo ci ricordiamo ancora di salutarlo, come fosse la prima volta, o l’ultima, dipende da che lettura vogliamo attribuirgli. Ogni 23 maggio ci ricordiamo dell’esplosione, delle urla, dei pianti, della disperazione nei volti del popolo italiano. 57 giorni dopo facciamo lo stesso per la fine di un altro grande uomo, ricordandoci solo il frastuono dei 90 chilogrammi di tritolo. Risentiamo nella testa quelle 3 parole strazianti “E’ tutto finito”, pronunciate dal magistrato Antonio Caponnetto. E’ una storia fatta di numeri, una memoria costituita da ore, dati, età, calcoli, minuti, numeri civici, secondi, coordinate… Ma in fondo, cosa bisogna veramente ricordare? Solo la tragedia? Le morti? Tutti i numeri che le descrivono? La vita umana non è fatta di questo, di cifre e percentuali. Ogni nostro gesto è creato da parole, idee, sentimenti. Non si è mai solo personaggio, e sicuramente non viviamo per rappresentare la nostra fine. Ecco perché bisogna raccontare il resto, i respiri che c’erano dietro.
Per celebrare la memoria di Giovanni Falcone, in occasione dell’anniversario della strage di Capaci, mi servo delle parole e della storia di Vincenzo Perrini, collega ed amico del magistrato Falcone, per essere finalmente davvero Capaci di ricordare. “Non è mai facile parlare di Giovanni” è la prima dichiarazione che mi viene riferita, inconfutabile più che mai, come se non fosse difficile parlare di antimafia in generale. La vicenda del dottor Perrini parte dal 1990, quando venne traferito da Torre Annunziata a Palermo. E lì divenne capo della criminalpol della zona. Il primo ricordo che mi viene raccontato è un’immagine vivida, inevitabilmente accompagnata da un sorriso. Il primo incontro del nuovo capo con il magistrato Falcone. “Mi disse di essere contento del mio arrivo, considerava ottimo ciò che avevo portato a termine nella mia carriera fino a quel momento. Non vedevo l’ora di iniziare, e lui con me”. Immagino che quella prima stretta di mano non sancisse semplicemente un patto tra procura e polizia, ma fosse testimone di un’alleanza tra uomini veri, non supereroi immortali. “Lavorare a Palermo non era facile. Sembra ovvio che coloro i quali si occupano di combattere scempi e criminali siano aiutati. Ma io lavoravo con i legacci, in una continua interferenza con altri uffici, nemmeno ero in grado di poter scegliere chi avere con me. Un esempio che ricordo è quello di un indagine molto importante, l’attentato al giudice Livatino, ucciso dalla Stidda agrigentina. Il caso però dovetti lasciarlo incompiuto, lo fecero passare ad un altro ufficio. Il margine d’azione era uno spazio chiuso, claustrofobico. Anche Falcone lo sapeva. Era una percezione costante”. E’ vero, sentire queste parole sembra assurdo. E’ inconcepibile sapere che lì non erano aiutati, ma anzi, presi di mira. Quindi si è in errore quando si pensa che Falcone fosse stato appoggiato nella sua lotta, dal primo momento. Non lo è stato mai, per tutta la sua vita, se non da pochissimi. Era come se lavorasse in quello che potremmo definire ufficio di fine cura: trascurato dal centro e non supportato
Vincenzo Perrini con sua moglie
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