l'Unità Laburista - Sardine - Numero 22 del 17 Novembre 2019

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Numero 22 del 17 novembre 2019

Sardine

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O ! I E Z L U A IB IC R N T IS ME D O D


Sommario

Gaza - pag. 3 di Umberto DE GIOVANNANGELI Il potere della corruzione: intervista a Isaia Sales - pag. 10 di Aldo AVALLONE Aldo Moro e la nascita del centrosinistra - pag. 19 di Giovan Giuseppe MENNELLA

Il triste compleanno del 1980 - pag. 29 di Raffaele FLAMINIO

Ed ecco a voi la classe operaia! - pag. 35 di Antonella BUCCINI

Tutta un’altra storia. Almeno speriamo - pag. 38 di Antonella GOLINELLI

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Esteri

Gaza Umberto DE GIOVANNANGELI

Lo schema si ripete: quando si è in crisi o in passaggi cruciali del proprio destino politico, ovvero quando la tua capacità di attrarre consensi, e finanziamenti, per la resistenza al nemico (sionista) viene messa in crisi, ecco le “eliminazioni mirate”, ecco i razzi che piovono su Israele. Un primo ministro che cerca di sopravvivere politicamente alle inchieste giudiziarie che lo chiamano in causa direttamente e che cerca di rimanere in vita politica riportando il paese in trincea. Un movimento eterodiretto che, per non essere scalzato dalle cellule dello Stato islamico trapiantate nella Striscia, ripropone il peggio di una tragedia già vista. C’è tutto questo dietro l’uccisione di Baha Abu al- Ata, il comandante militare della Jihad islamica palestinese nella Striscia. E la popolazione di Gaza torna ad essere una popolazione in 3


gabbia, ostaggio di due nemici che si sorreggono l’uno con l’altro, perché, da fronti opposti, conoscono e praticano lo stesso linguaggio: quello della forza. È la storia insanguinata (34 i morti nell’operazione “Cintura nera”) di tre guerre, di bombardamenti, razzi, invocazione al diritto di difesa (Israele) e a quello della resistenza armata contro l’“entità sionista” (Hamas e Jihad islamica). È la storia di punizioni collettive, di undici anni di assedio. Ma è anche la storia di un movimento islamico che, fallita l’esperienza di governo, cerca nuova legittimazione nell’indirizzare contro l’occupante con la Stella di David, la rabbia e la sofferenza di una popolazione ridotta allo stremo. Una storia insanguinata che chiama in causa i due “Nemici”, ognuno dei quali, per il proprio tornaconto, ha lavorato assieme per recidere ogni filo di dialogo e per distruggere ogni possibile compromesso. Perché “compromesso” è una parola che non esiste né nel vocabolario politico della destra israeliana né in quello di Hamas e della Jihad islamica. Perché compromesso significa incontro a metà strada, il riconoscere le ragioni dell’altro. Compromesso significa rinuncia ai disegni della “Grande Israele” come della “Grande Palestina”. Compromesso è ammettere che non esiste né una scorciatoia militare né una terroristica per veder riconosciuti due diritti egualmente fondati: la sicurezza per Israele, uno Stato indipendente per i Palestinesi. Combattere costa meno che fare la pace. Perché “fare la pace”, tra israeliani e palestinesi, non è solo ridisegnare confini, cedere o acquisire territori. Significa molto di più: ripensare la propria storia e confrontarla con quella degli altri. Significa immedesimarsi nelle paure e nelle speranze dell’altro e, per quanto riguarda Israele, guardare ai Palestinesi come un popolo e non come una moltitudine ingombrante. Nello schema dei “resistenti” di Gaza e in quello della destra israeliana non esiste il “centro”: chiunque si pone in questa ottica, altro non è che un ostacolo da rimuovere, con ogni mezzo, anche il più estremo. La destra israeliana ha bisogno di Hamas e della Jihad per coltivare 4


l’insicurezza, per alimentare nell’opinione pubblica la sindrome di accerchiamento, divenuta psicologia nazionale. E per la Jihad islamica e Hamas sparare missili su Israele è riaffermare la propria leadership nel variegato fronte della resistenza palestinese. Hamas può al massimo contemplare una “hudna” (tregua) con Israele ma mai un riconoscimento della sua esistenza. La tragedia di due popoli è racchiusa in questa drammatica, voluta, ripetitività. "L'eliminazione di Israele significa che i palestinesi, musulmani, cristiani ed ebrei, veri proprietari della terra palestinese, devono poter decidere il loro destino". “”L’assassinio di Abu al-Ata non ha alcuna utilità. Che cosa abbiamo ottenuto da esso? In che modo la sua uccisione e quella di altre persone è servita agli interessi israeliani? Se anche questa domanda non diventerà mai oggetto di discussione, significa che siamo vittime di una grave paralisi mentale. Israele gode di maggiore sicurezza all’indomani di quest’assassinio? Le comunità nel sud se la passano meglio? L’organizzazione Jihad islamica è indebolita? L’esercito israeliano si è rafforzato? La risposta è no, no, e ancora no. Nessuno dei generali o degli analisti è riuscito a spiegare quale vantaggio abbia tratto Israele da tutto questo. Meritava la pena di morte. D’accordo, vi abbiamo ascoltato, ma che vantaggio ne abbiamo tratto? Ecco una valutazione provvisoria: più odio a Gaza, ammesso che ci sia spazio per altro odio verso quanti hanno distrutto le vite di cinque generazioni di persone, e non si sono ancora fermati. Molto sangue è stato versato e continua a essere versato: più di 30 palestinesi uccisi nella Striscia di Gaza, distruzione e paura seminate da ambo le parti, e che non porteranno a nulla. E naturalmente c’è la chiara consapevolezza che emergerà un erede di Abu alAta, molto più estremo e pericoloso, come è stato per quanti hanno sostituito le centinaia di leader e comandanti che Israele ha ucciso nel corso degli anni, il tutto invano. A nulla hanno portato le celebrate eliminazioni di Khalil al Wazir, Ahmed Yassin, Abdul Aziz Rantisi, Thabet Thabet, Ahmed Jabari o Abbas Musawi. 5


L’eroica uccisione di queste persone è stata vana. Israele non ha ottenuto niente, da alcuno di essi, se non altro sangue versato. Perché Israele continua a effettuare altri omicidi mirati? Perché può farlo. Perché queste storie diventano eroiche. Perché adora vedere combattenti palestinesi morti. Perché la sete di vendetta e di punizione lo fa impazzire. Perché è così che si fa vedere alle persone che si sta facendo qualcosa e non si hanno esitazioni. Perché è così che si uccidono le persone continuando a dire che Israele non ha la pena di morte. Perché è il modo di evitare la vera soluzione: così scrive Gideon Levy, icona del giornalismo progressista israeliano, in un articolo su Haaretz tradotto e pubblicato in Italia da Internazionale.In un momento particolarmente critico del conflitto israelo-palestinese in cui l’escalation di violenza sui civili non accenna a fermarsi, qualsiasi nuovo passo in avanti nel processo di pace, compresa la proposta Usa, sembra destinato a fallire, se gli attori in campo non apprenderanno dai gravissimi errori commessi nell’ultimo quarto di secolo. E’ l’allarme lanciato da Oxfam, attraverso un nuovo rapporto che a 26 anni dalla firma degli accordi di Oslo, raccoglie le testimonianze di tanti che hanno vissuto sulla propria pelle gli effetti del fallimento di un processo di pace, che sarebbe dovuto durare cinque anni, ma che si è trasformato in una situazione di stallo, compromettendo il presente e il futuro di intere generazioni. Un dossier che fotografa quindi gli errori commessi e le possibili strade da intraprendere per raggiungere una pace duratura. Mai risolta rimane, nei Territori Occupati Palestinesi, una crisi umanitaria dimenticata, con 2,5 milioni di persone – di cui oltre 1 milione di bambini – che dipendono dagli aiuti per la propria sopravvivenza e 1,9 milioni di persone senza regolare accesso a acqua pulita e servizi igienico sanitari In una situazione di permanente tensione fatta di scontri, manifestazioni e rappresaglie: negli ultimi due giorni (successivi all’uccisione da parte israeliana del comandante della Jihad islamica palestinese nella Strscia, ndr) i bombar6


damenti israeliani su Gaza hanno causato 34 vittime, tra cui 8 bambini e 3 donne. Lo scorso agosto in risposta ai razzi lanciati dalla Striscia di Gaza, le autorità israeliane hanno imposto una riduzione del 50% delle forniture di carburante necessarie a tenere in funzione la principale centrale elettrica nella Striscia “Sino ad oggi il fallimento del “processo di pace”, definito nel ’93, ha di fatto consentito una sistematica violazione del diritto internazionale, culminata nell'atroce offensiva su Gaza del 2014, e la negazione dei diritti fondamentali di una buona parte del popolo palestinese, che non è mai stato davvero coinvolto nelle decisioni sul proprio futuro. rimarca Paolo Pezzati, policy advisor per le emergenze umanitarie di Oxfam Italia - Ancora oggi 2 milioni di persone vivono intrappolate nella Striscia di Gaza, senza nessuna prospettiva. Tutto questo è il risultato di tantissimi errori da ambo le parti e di una politica quasi sempre unilaterale e imposta dall’alto, che ha portato alla paralisi dell’economia palestinese, al quadruplicarsi del numero di coloni negli insediamenti israeliani illegali (passati dai 116.300 del 1993 ai 427.800 attuali,

escludendo

Gerusalemme

est) e

alla

cronicizzazione

di

un’occupazione che dura ormai da 52 anni senza nessuna reale prospettiva di pace per i palestinesi, gli israeliani e l’intera regione. Palestinesi e israeliani sono rimasti bloccati in un limbo che dura ormai da 26 anni e deve finire al più presto”. Nel contesto di un’economia paralizzata - con una produzione pro-capite cresciuta di appena lo 0,1% dal ‘94 al 2014, e quasi totalmente dipendente dagli aiuti internazionali - a pagare il prezzo più alto dello status quo sono le donne e i giovani nei Territoti Occupati Palestinesi. Basti pensare che, nonostante un alto livello medio di istruzione, nel 2017 la disoccupazione femminile è aumentata del 3,1% raggiungendo il 47,4%, il tasso più alto al mondo. Allo stesso modo, con oltre la metà della popolazione nell’area al di sotto dei 29 anni, un’intera generazione sta perdendo speranza nel proprio futuro. Giovani che nonostante un tasso di alfabetizzazione 7


del 96% non hanno mai votato, non hanno un lavoro o sono occupati nel settore informale. Nei Territori Occupati Palestinesi la disoccupazione tra i 15 e i 29 anni arrivava nel 2017 al 43,3% (30,1% in Cisgiordania e 64,6% nella Striscia di Gaza), segnando il più alto livello di disoccupazione giovanile della regione. All’origine di condizioni tanto drammatiche, vi è la severità dei provvedimenti imposti dall’occupazione israeliana, che hanno portato a restrizioni della libertà di movimento delle persone, della forza lavoro e delle merci, alla sistematica erosione della base produttiva, alla confisca dei terreni, dell’acqua e delle altre risorse naturali, all’isolamento dai mercati internazionali, a oltre un decennio di blocco e di assedio economico della Striscia di Gaza, alla costosa frammentazione dell’economia palestinese in tre regioni separate e spezzettate tra Striscia di Gaza, Cisgiordania e Gerusalemme est. A Gaza il blocco imposto ai suoi quasi due milioni di abitanti, iniziato in maniera strisciante nei primi anni ‘90 e realizzato in pieno dal 2007, ha impedito lo sviluppo a un punto tale che nel 2018 l’attività economica di Gaza si è ridotta dell’8% e la disoccupazione ha raggiunto il 52%, con punte del 74,5% tra le donne e del 69% tra i giovani. “Il fallimento del processo iniziato a Oslo ha prodotto, seppur in proporzioni diverse, conseguenze negative sia per i palestinesi che per gli israeliani – continua Pezzati - Anche in Israele si registra un livello di disuguaglianza tra i più alti tra i paesi Ocse, con una percentuale di israeliani che vivono sotto la soglia di povertà cresciuta dal 2000, pari al 18.6% della popolazione nel 2016”. In questo contesto Oxfam ha lanciato un appello urgente alla comunità internazionale affinché non si ripetano gli stessi errori del passato. “La comunità internazionale ha una grandissima responsabilità per il fallimento del processo di pace. – conclude Pezzati - Per questo oggi non può restare ancora inerte e consentire che palestinesi e israeliani debbano sopportare il peso e gli effetti disastrosi di altri due decenni di false promesse e di un processo di pace che non è mai iniziato dav8


vero. Ăˆ necessario che ogni nuovo negoziato preveda prima di tutto il rispetto dei diritti umani e del diritto internazionale, venga monitorato da terzi, preveda tempi chiari e certi, garantendo un progressivo processo di inclusione delle tante donne e giovani che vivono ai margini nei Territori Occupati Palestinesiâ€?. Giovani senza pace. E senza futuro.

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Politica e Corruzione

Il potere della corruzione: intervista a Isaia Sales Aldo AVALLONE

Abbiamo incontrato nei giorni scorsi il Professor Isaia Sales, ordinario di Storia presso l’Università di Napoli, ex parlamentare Pds, sottosegretario nel primo governo Prodi, è uno dei massimi esperti in Italia di storia della criminalità organizzata. Autore di molte pubblicazioni si è dedicato recentemente allo studio di un fenomeno rilevante nella storia del nostro Paese: la corruzione. Ha accettato cortesemente di discutere con noi di questo tema. 10


Professor Sales, nel suo ultimo libro “Storia dell’Italia corrotta” pubblicato recentemente da Rubettino, lei partendo da un’accurata analisi storica, propone una visione oltremodo pessimistica dei fenomeni corruttivi nel nostro Paese. Ma davvero l’Italia è la culla della corruzione? No, l’Italia non è la culla della corruzione. Ci sono anche altri paesi sviluppati dell’Europa occidentale che hanno un livello di corruzione alta. L’Italia non è un’eccezione nel mondo dei paesi industrializzati dal punto di vista dei fenomeni corruttivi. Ha però una particolarità: abbina alla corruzione una forte presenza di mafie. Corruzione e mafie non si abbinano in tutti i paesi ma solo in alcuni. Non in Germania, non in Francia, in questo momento in maniera più ridotta negli Stati Uniti, si abbinano invece in Giappone, dove c’è la presenza di una mafia particolare, la Yakuza, e un alto livello di corruzione. La specificità dell’Italia è questa: il corrotto non è trattato come negli altri Paesi, nel senso che continua a svolgere la sua attività. Se un politico continua a stare in politica, se è un imprenditore continua a fare l’imprenditore, se è un funzionario pubblico continua a mantenere il suo lavoro e, quindi, verso la corruzione noi non abbiamo quelle sanzioni culturali, morali e sociali che esistono in altri Paesi. Questa è la differenza, in altri Paesi se sei scoperto sei fuori dalla politica, ne hai un danno nella professione, addirittura anche nelle relazioni. Da noi un corrotto può tranquillamente fare la stessa vita di prima, la stessa attività di prima e mantenere gli stessi comportamenti di prima. Quindi ciò che differenzia l’Italia dagli altri Paesi è la compresenza di corruzione e mafia che in altri paesi non sempre si abbinano e il fatto che non ci sia una sanzione morale verso i corrotti e i corruttori quando vengono scoperti. Lei ha accennato ai rapporti tra criminalità organizzata e corruzione, potrebbe entrare maggiormente nel merito di questi rapporti? 11


Esistono paesi e zone di Italia dove la corruzione non si abbina alla mafia. Per esempio in tutto il periodo dell’inchiesta mani pulite non ci sono state significative presenze di mafia. In tutta la costruzione dell’autostrada del sole Napoli – Milano, non ci sono stati fenomeni di corruzione, almeno scoperti. Nel grande scandalo del Mose di Venezia c’è stata altissima corruzione ma scarsissima presenza di mafia, quindi i due fenomeni non sempre si incrociano. Ci può essere corruzione senza mafia ma non esiste mai mafia senza corruzione. Nel senso che la mafia è attirata dal sistema clientelare e dal sistema corruttivo, per cui oggi che la mafia risale il paese va soprattutto a intaccare quei luoghi, quei territori dove c’è un alto tasso di corruzione. Quindi non è la mafia che porta la corruzione, non è la mafia che incrementa la corruzione, ma la mafia arriva dove già c’è la corruzione. Quindi se per un periodo storico i due fenomeni sono stati separati, nel futuro io non credo che saranno ancora separati. Nel senso che venendo meno il ruolo di collante del sistema politico, (la mafia si basa su rapporti fiduciari, è brutto usare questa parola per fenomeni contro la legge e fuori dalla legge, ma la politica svolgeva questa funzione di collante e di garanzia per le parti in causa), oggi questo ruolo di garanzia è svolto dai mafiosi. Noi nel libro abbiamo usato la parola “mafirruzzione”, cioè un’irruzione delle mafie nel sistema corruttivo e sempre più i due sistemi si incrociano, perché entrambi sono basati sul principio che ciò che è pubblico può essere reso privato, può essere reso privato con la violenza, può essere reso privato con la tangente. Sono due sistemi che si somigliano pur essendo diversi perché puntano a privatizzare ciò che è pubblico, a rendere privato ciò che è di tutti attraverso l’uso della violenza l’uno, attraverso l’uso della tangente l’altro. Tangentopoli ha rappresentato una sorta di spartiacque nella percezione dei fenomeni corruttivi da parte dell’opinione pubblica. E’ crollato un intero sistema poli12


tico e ne è sorto un altro. Ma effettivamente è cambiato qualcosa? Senza dubbio negli anni immediatamente successivi a Tangentopoli qualcosa è cambiato. Sicuramente ci fu più attenzione da parte di chi praticava questo sistema di corruzione, sicuramente ebbero un colpo alcuni esponenti di partiti politici, di imprese che erano maggiormente coinvolte negli affari dei sistemi corruttivi. Dopodiché ha avuto luogo una normalizzazione, nel senso che i partiti politici, il sistema politico italiano, il sistema delle imprese non ha tratto insegnamento da ciò che è avvenuto. E’ come se ci fosse stato uno scossone e poi una fase di assestamento ma l’Italia non ha espulso dal suo modo di essere, dal suo modo di fare, dalle sue caratteristiche l’uso della corruzione come riconoscimento del potere. In fondo la corruzione che cos’è? E’ riconoscere ad altri che hanno un potere, la corruzione è pagare un potere, chi paga riconosce il potere di un altro e chi è pagato si sente importante perché gli viene riconosciuto un potere. Pertanto la corruzione è una specie di tassa sul potere mentre l’estorsione è una tassa sulla violenza. In Italia noi abbiamo tre forme di tassazione: una tassazione alla mafia che si chiama estorsione, una tassazione allo Stato che si chiamano imposte e una tassazione alla corruzione che si chiama tangente. Da questo punto di vista l’Italia è uno dei pochi paesi che ha una tripartizione delle tasse. Ora uno Stato moderno non sarà mai tale se ha una competizione sulle tasse. Quindi l’Italia ha avuto lo scossone, è crollato un sistema politico ma quello che si è riformato non si è riformato in conformità a un insegnamento acquisito ma ha provato a mantenere gli stessi comportamenti sotto altre forme e quindi sono cambiati alcuni attori della corruzione, sono cambiati alcuni settori della corruzione ma non il principio che il potere si paga. Questo è l’elemento di più lunga durata della storia italiana. Il potere è ciò che si muove oltre la legge e il potente è chi aggira la legge e che non applica la legge. In genere il potere si dovrebbe identificare con la legge, l’Italia è uno dei pochi paesi 13


dove il potere si identifica con chi salta la legge, chi va oltre la legge, da noi è potente chi è capace di fare quello che vuole, quando vuole e come vuole. E da questo punto di visto l’Italia è uno dei pochi paesi che in questa concezione del potere è rimasto al medioevo. In riferimento alla “tassa corruzione” è possibile quantificare il costo della corruzione nel nostro Paese? Difficilissimo farlo. Perché il reato di corruzione è uno dei reati meno scoperti. Perché si basa su un principio che è contro la criminologia classica. La criminologia classica dice che in ogni reato c’è una vittima e un reo, c’è qualcuno che depreda un altro, c’è qualcuno che deruba un altro, c’è qualcuno che uccide un altro, c’è qualcuno che sottrae una cosa a un altro, quindi c’è un reo e una vittima. Nella corruzione la vittima è un beneficiario quindi non ha nessun interesse a denunciare il colpevole perché se denuncia il colpevole perde il suo affare. Per questo è difficile conoscere esattamente i costi della corruzione ma potremmo vedere i costi sociali della corruzione, che sono di due tipi: il primo è una perdita di senso dello Stato, la corruzione è l’elemento che più delegittima il senso dello Stato perché è fatta da uomini dello Stato, da uomini che rappresentano lo Stato, che calpestano le leggi dello Stato. Non c’è maggiore delegittimazione dello Stato che nella corruzione. Il secondo prezzo che paghiamo è che la corruzione fa tenere i prezzi alti delle opere pubbliche e quando i prezzi si abbassano, diminuisce la qualità dell’opera e dei materiali usati. Quando crolla un ponte perché è stato realizzato male, ci sono delle vittime ma queste vittime non vengono conteggiate. Un primo passo per comprendere il costo della corruzione in vite umane sarebbe quello di conteggiare nelle statistiche ISTAT tutti i morti per corruzione, cioè tutti i morti che sono avvenuti a seguito di fenomeni corruttivi. Perché la violenza della corruzione non è avvertita 14


immediatamente. La corruzione è un crimine a violenza differita nel tempo. Se io ammazzo lo vedo immediatamente, se io corrompo l’effetto lo vedrò dopo qualche tempo perché l’opera sicuramente è fatta di materiale più scadente e non durerà gli anni che dovrebbe durare. Quindi è difficile calcolare il costo della corruzione, è comunque un costo alto sia sul piano sociale, sia sul piano politico, sia sul piano della concezione dello Stato. Esistono differenze territoriali nell’ambito del fenomeno corruttivo? Che peso ha la disparità della distribuzione della ricchezza nel Paese rispetto agli effetti corruttivi? C’è più corruzione al Nord, la zona più ricca del Paese o al Sud? Contrariamente a quello che si pensa la corruzione non è un fenomeno di arretratezza economica, è un fenomeno di sviluppo economico perché per corrompere bisogna avere i soldi, non è un reato legato alla miseria, chi è povero non può corrompere perché non ha neanche i soldi per farlo e quindi la corruzione è un reato tipico della circolazione della ricchezza non dell’assenza di ricchezza. Quindi si potrebbe dire che, in linea di massima, la corruzione è più presente dove c’è maggiore ricchezza. Storicamente la corruzione nella sua entità è stata più forte a Milano e a Roma che a Napoli e Palermo. Proprio per questo motivo la corruzione smentisce un’altra delle tesi della criminologia classica, quella che è criminale colui che non ha. Nella corruzione è criminale colui che ha e colui che vuole avere di più. Nella criminologia classica si dice che i reati li commettono le persone ignoranti, nella corruzione i reati li commettono le persone colte perché la maggior parte dei corrotti e dei corruttori o sono ingegneri, o sono architetti, o sono commercialisti, o sono impiegati pubblici. Quindi non è vero che il crimine è dovuto all’ignoranza e alla miseria, nel caso della corruzione il crimine è dovuto a un modo perverso di concepire la corruzione. Naturalmente in Italia abbiamo anche in15


ventato la corruzione di Dio perché nella storia del nostro Paese la Chiesa cattolica, per un lungo periodo, ci ha detto che anche la salvezza si poteva comprare. Quindi quando tutto si può comprare, compreso Dio, compresa la salvezza, è chiaro che ne risente la nostra cultura di fondo. Affrontiamo ora un tema forse un po’ delicato per noi persone di sinistra. Abbiamo sempre pensato che il PCI, e la sinistra in generale, fosse estraneo (o almeno ne fosse compartecipe in minima parte) al fenomeno della corruzione. Presunzione, oppure è stato effettivamente così? E’ stato effettivamente così perché se parliamo del PCI, sicuramente è stato il partito meno corrotto della storia d’Italia. Il che non vuol dire assolutamente non corrotto ma il meno corrotto. Qualcuno può dire che è stato il meno corrotto perché per un lungo periodo storico è stato estraneo alla gestione del potere, ma ci sono stati dei luoghi in cui il PCI ha governato a livello locale dove molti dei suoi militanti sono stati una scuola di morale e una scuola di disinteresse e impegno pubblico. Le cose sono cambiate alla fine degli anni Ottanta e agli inizi degli anni Novanta. Da questo punto di vista è riscontrabile in Italia che la fine delle ideologie ha coinciso anche con l’abbandono di alcuni principi su cui si basavano quelle ideologie. Pertanto la corruzione a sinistra è cominciata già in parte verso la fine del PCI ma sicuramente è proseguita in maniera veloce con la trasformazione del PCI. Si possono in qualche modo abbandonare le ideologie ma l’abbandono delle ideologie non vuol dire accettare la disonestà come regola di vita. Non bisogna credere in un Dio per essere morali, non bisogna credere in uno Stato sovrano o in un futuro messianico per mantenersi onesti. Questo invece non è capitato, nel senso che con i cambiamenti che sono avvenuti nella storia politica del nostro Paese si è abbassata la soglia morale anche a sinistra. Quando la politica diventa un’impresa di ventura, 16


una scommessa che tu fai per migliorare la tua vita piuttosto che quella degli altri, i mezzi con cui lo fai diventano indifferenti. Da questo punto di vista si è verificato qualcosa che è comune alla storia d’Italia. Se andiamo a vedere la storia di Crispi, la storia di Nicotera, la storia di alcuni rivoluzionari quello che vediamo è che si comincia da rivoluzionari e si finisce da corrotti. E’ come se l’intransigenza dettata da motivi nobili, una volta che finisce l’intransigenza perché ti convinci che la vita ha bisogno di più compromessi e hai bisogno di maggiore gradualità per realizzare le cose, questo ti obbliga necessariamente ad abbassare la soglia di moralità. Io invece penso che si possa essere convinti che le cose vanno cambiate con gradualità senza abbandonare l’onestà. Non capisco perché un Craxi incomincia con Nenni e finisce in Tangentopoli, Crispi comincia con Garibaldi e Mazzini e finisce con il re e con la corruzione, Nicotera comincia con Mazzini e Pisacane e finisce nella corruzione. Nella storia d’Italia ci sono sempre delle persone che cominciano con l’intransigenza e poi arrivano in un momento della vita in cui ritengono di aver pagato troppi prezzi all’onestà e quindi si liberano delle ideologie e anche dei presidi morali. Io penso che ci si possa privare delle ideologie, se sono sbagliate, senza perdere i propri principi morali. Non sta scritto da nessuna parte che non si possa fare politica, a livelli alti, a livelli di grande responsabilità, mantenendo l’onestà. Questo è un comune sentire in Italia perché la corruzione, tra le altre cose, ha questo di particolare: è un reato ideologico. Proprio perché è un reato delle élite, è un reato delle classi dirigenti, ci si costruisce sopra. Per esempio si inventa una cosa assolutamente indimostrata: che tutti i disonesti in genere sono capaci, non sta scritto da nessuna parte, ci sono tantissimi disonesti e incapaci, come ci sono tantissimi capaci disonesti ma esistono molti onesti capaci e molti onesti incapaci. Non c’è nessun nesso tra capacità e onestà o tra capacità e disonestà. Io penso che si possa fare politica, farla in maniera seria, ottenere dei risultati senza necessaria17


mente arrivare alla disonestà. Qualcuno ritiene che la disonestà sia il prezzo minimo da pagare per far politica e per vedere realizzate delle cose. Io sono convinto che si possano realizzare tantissime cose mantenendosi onesti. E, infine, una domanda legata all’attualità. Che cosa pensa dell’istituzione dell’ANAC, che impatto ha avuto nel contrasto alla corruzione e come giudica le recenti dimissioni di Cantone? Che ci sia stato un meridionale alla guida dell’ANAC è un fatto emblematico della storia d’Italia. Si ritiene che i meridionali siano i più corrotti, che al Sud ci siano mafia e corruzione e abbiamo avuto alla guida dell’Autorità anticorruzione proprio un magistrato meridionale. La nascita dell’Anac ha avuto una funzione importante, ha posto il tema della corruzione come tema della vita politica e della vita amministrativa del nostro Paese. Quindi indubbiamente con la nascita dell’ANAC c’è stata una specie di pedagogia dell’anticorruzione, poi se questa pedagogia dell’anticorruzione abbia avuto un piegarsi burocratico, questo è indubbio. Però che sia stata costruita in un momento particolare nel nostro Paese un’attenzione e una struttura dedicata a questo tema non può che essere salutato come un fatto positivo. Cantone se n’è andato quando ha capito che nessuno più investiva nell’anticorruzione e quindi, in qualche modo, non ha voluto perdere l’onore. E da questo punto di vista il suo gesto va salutato come uno dei pochi gesti di chi vede che gli obiettivi di una sua creatura si stanno perdendo e ne prende atto. Credo perciò che bisogna apprezzare moltissimo la sua coerenza.

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Politica e Storia

Aldo Moro e la nascita del centrosinistra Giovan Giuseppe MENNELLA

Nella vicenda della nascita del Centrosinistra in Italia ci sono alcune date importanti da ricordare. Il 15 febbraio del 1959 Amintore Fanfani si dimise da Segretario politico della Democrazia Cristiana in seguito alla fronda interna di molti suoi compagni di partito. Lo sostituÏ alla Segreteria Aldo Moro, allora quarantatreenne, che si era mantenuto piuttosto defilato nella nuova corrente dei Dorotei, sorta in seguito alla spaccatura nel partito. Il 27 gennaio del 1962 Moro pronunciò al Congresso DC di Napoli un discorso di sette ore nel quale convinse i colleghi di partito, soprattutto quelli della destra, del19


la necessità strategica di un accordo con il Partito Socialista per formare insieme un governo organico di Centrosinistra. Il 4 dicembre del 1963 Moro giurò davanti al Presidente della Repubblica Antonio Segni come Presidente del Consiglio del primo governo organico di Centrosinistra, con la partecipazione di ministri socialisti. Per capire come si era giunti a quel governo e quali erano le motivazioni e i retroscena della politica italiana tra gli anni’50 e ’60, occorre fare alcuni passi indietro Si deve partire dalla morte di Alcide De Gasperi nell’agosto del 1954. A quella data lo statista trentino non era già più Presidente del Consiglio, dopo il mancato successo alle elezioni politiche del 1953. Il leader più accreditato per sostituirlo, ormai sulla cresta dell’onda dopo le buone prove come Ministro del Lavoro e artefice del Piano INA Casa, era Amintore Fanfani. Aldo Moro era un altro esponente molto promettente della DC ma non così in auge come Fanfani. Il contrasto politico tra loro nascerà solo dopo, alla fine degli anni ’50, e saranno più i compagni di partito e i mezzi di informazione ad accreditare la leggenda dei due “cavalli di razza” che si combatterono senza esclusione di colpi. Dopo la caduta di De Gasperi e alcuni Ministeri di transizione, Fanfani diventò Segretario politico della DC e ben presto anche Presidente del Consiglio. Con la sua solita irruenza e il decisionismo che lo contraddistinsero sempre, cominciò a esporsi per una nuova alleanza con forze politiche più progressiste, per il superamento del centrismo del dopoguerra. Moro era più defilato, ma non per questo meno favorevole al programma fanfaniano. Ma era convinto, da politico prudente, che non fosse positivo accelerare troppo il processo di cooptazione di forze di sinistra nella maggioranza, per non spaventare il Vaticano, gli Alleati occidentali e i settori più conservatori e moderati della società italiana. La stella politica di Amintore Fanfani brillò per tutti gli anni ’50. Acquisì le tre ca20


riche di Presidente del Consiglio, di Ministro degli Esteri e di Segretario politico della DC. La vita politica era sempre attraversata dal dilemma del superamento o meno del centrismo, con l’allargamento della maggioranza a sinistra, con Fanfani a spingere e il centro e la destra della DC a frenare. Nel 1959, in seguito a una fronda all’interno della DC, Fanfani fu costretto a dimettersi da Segretario. La sua corrente “Iniziativa democratica” si spaccò, dando vita a quella denominata “Nuove cronache” con i suoi fedelissimi e a quella de “I Dorotei” dal convento romano di Santa Dorotea, dove si riunirono i capi, comprendente Taviani, Rumor, Colombo e lo stesso Moro, in posizione più defilata. I Dorotei espressero una linea politica di cautela rispetto al superamento del centrismo. In quei primi mesi del 1959, Moro fu nominato Segretario del partito e Antonio Segni Presidente del Consiglio. L’atteggiamento di Fanfani e dei suoi rimase favorevole a un’apertura immediata alle forze di sinistra democratica e quello di Moro, e soprattutto dei dorotei, più cauto, con varie sfumature, sempre nel timore di una spaccatura nel Partito e nel Paese. Dopo un anno esatto, il 24 febbraio del 1960, le tensioni latenti sfociarono nella crisi di governo e nelle dimissioni dell’esecutivo Segni. Il Presidente della Repubblica Giovanni Gronchi, esponente di spicco della sinistra DC, incaricò il suo amico Fernando Tambroni di formare un nuovo governo, esplorando la possibilità di far entrare i socialisti nella maggioranza. Il Partito socialista, che a sua volta scontava divisioni interne sull’opportunità di distaccarsi dal Partito Comunista, non ritenne di poter aderire alla proposta e rifiutò di partecipare a una nuova maggioranza. Il Partito socialista non era ancora pronto a staccarsi definitivamente dal PCI, ma soprattutto a dichiarare un’esplicita fedeltà al Patto Atlantico, al massimo era orientato verso qualche forma di neutralismo tra i due blocchi. Il PSI disse no a 21


Tambroni, anche perché lo considerò un uomo del Presidente Gronchi, una sorta di variabile indipendente non affidabile, come si sarebbe visto al momento della presentazione del governo in Parlamento. In realtà furono anche i dorotei a scegliere Tambroni per il tentativo di avvicinamento al PSI, ma vollero anche mantenere i contatti con la Confindustria, con il Vaticano, con gli alleati USA, con tutto un mondo italiano provinciale e bigotto che la DC aveva paura di perdere e che chiaramente temeva il cambiamento politico. Moro, come Segretario del Partito, accettò il tentativo di Tambroni, di cui neanche lui si fidava, esclusivamente per tenere unita la DC. Quello dell’unità della DC fu il vero dogma politico di Aldo Moro. Tutte le sue azioni furono indirizzate a tenere unito il partito e portarlo nel Centrosinistra senza scissioni. Tenere unito quel partito significò coinvolgere nello spostamento a sinistra tutta la società italiana, perché all’epoca la DC, con il suo interclassismo e la sua vocazione popolare, esprimeva tutta la complessità della situazione sociale italiana. Il Presidente Gronchi, caratterizzato anch’egli da pulsioni di decisionismo, consigliò Tambroni di formare ugualmente il nuovo governo, nonostante il rifiuto dei socialisti, cercando liberamente i voti di maggioranza in Parlamento. Il 26 marzo 1960 Tambroni si presentò alle Camere e il governo passò con i voti determinanti del MSI, il partito neo-fascista fondato da Giorgio Almirante. Poco tempo dopo, a luglio, scoppiarono proteste e tumulti a Genova, città medaglia d’oro della Resistenza, dove il MSI intendeva tenere il suo congresso politico, e in seguito in tutta Italia, con i fatti più gravi a Reggio Emilia dove la forza pubblica sparò e tra i dimostranti si contarono cinque morti. Proprio Aldo Moro testimoniò ex post, durante la prigionia nelle mani delle Brigate Rosse e contenuta nel cosiddetto “Memoriale Moro”, che il Generale De Loren22


zo contribuì a tenere calma la situazione in quel luglio 1960, fornendogli tutte le informazioni riservate e di prima mano sugli eventi, in modo da consentirgli di pretendere le dimissioni di Tambroni da Presidente del Consiglio. Moro rivelò anche che il periodo dal 1960 al 1964, cioè il periodo dell’incubazione e poi del varo del primo governo di centrosinistra organico, fu molto pericoloso per la tenuta della democrazia italiana. Anche Nenni lo aveva già confermato quando disse che mai come in quel periodo aveva sentito un tintinnare di sciabole, riferendosi a presunti o progettati colpi di stato militari. Dopo la rinuncia di Tambroni fu varato un altro governo Fanfani, a guida DC ma stavolta con la significativa astensione sui banchi del Parlamento del Partito socialista. Questo governo nacque il 26 luglio 1960, terzo governo a guida Fanfani, monocolore DC e, come detto, con l’astensione benevola del PSI. A questo proposito, Moro, in un discorso sull’astensione del PSI, ebbe a parlare di “convergenza democratica” tra i due partiti, mentre la stampa la ribattezzò come “convergenze parallele”, frase che doveva passare alla storia, caratterizzando da allora in modo non troppo esatto tutta la vicenda e l’essenza politica di Aldo Moro. Intanto stavano cambiando alcune cose importanti anche nel panorama internazionale. Erano avvenuti eventi rilevanti: l’ascesa al soglio pontificio di Giovanni XXIII, un Papa meno tradizionalista e conservatore di Pio XII, l’elezione a Presidente degli Stati Uniti di John Fitzgerald Kennedy e la politica meno dura di Kruscev in Urss. In particolare, il Vaticano non ostacolò le alleanze tra DC e PSI alle elezioni amministrative del novembre 1960, dopo le quali i due partiti governarono insieme per la prima volta in alcune grandi città. La Chiesa si rese conto che contrastare ulteriormente l’alleanza con il PSI avrebbe diviso la DC. Anche gli Stati Uniti diedero un tacito via libera all’ipotesi di centrosinistra. Ormai 23


l’Italia del governo Fanfani si era affrancata dallo stretto controllo e dalla dipendenza dagli statunitensi. Non erano più i tempi delle navi liberty che portavano aiuti alimentari per la sopravvivenza, dell’ambasciatrice Claire Booth Luce che pretendeva la messa fuori legge del PCI, dei soldi del Piano Marshall. Ormai l’ENI di Enrico Mattei competeva da pari a pari con gli occidentali sui mercati petroliferi, le Olimpiadi di Roma del 1960 erano state un grande successo organizzativo mostrando al mondo la ripresa dell’Italia, era in pieno dispiegamento il miracolo economico con la crescita delle esportazioni e della ricchezza del Paese. Era davvero maturo il tempo, da tutti i punti di vista, per una significativa svolta politica. Moro recuperò il tema dell’antifascismo, sfilandolo alle sinistre, perché non volle ripetere a nessun costo l’esperienza, infausta e foriera di disordini, del governo Tambroni. Volle prendersi il tempo necessario per far comprendere bene alla Chiesa l’apertura a sinistra, perché altrimenti il Vaticano avrebbe potuto avere la tentazione di spaccare il movimento politico dei cattolici favorendo la creazione di un nuovo partito alternativo alla DC. Manovrò per appoggiarsi al cardinale Siri, Presidente della Conferenza episcopale italiana, che aveva avuto l’imprimatur dello stesso Papa Giovanni, per bloccare l’intenzione del potente cardinale di curia Ottaviani di creare un altro partito cattolico più conservatore della DC. In definitiva, recuperò l’intuizione dei cattolici che l’avevano preceduto, di attuare una politica anche laica, che non seguisse obiettivi e interessi solo confessionali. Anche gli americani all’inizio degli anni ‘60 rimossero il blocco all’allargamento a sinistra della maggioranza. Ormai fu chiaro che Aldo Moro, eletto segretario della DC nel 1959 come uomo di semplice transizione, che non avrebbe dovuto incidere in nulla nella linea politica, era riuscito a diventare un leader che aveva sbloccato la situazione ferma al centrismo, manovrando abilmente con la Chiesa, con gli americani, con i sovietici, con la società italiana. Era un regista politico che si muo24


veva tra molte parti. Il suo progetto all’epoca fu di cambiare la società italiana, ma nella continuità e nel consenso di tutte le parti sociali e politiche, sia italiane sia internazionali. Il momento in cui fu dato a tutto il Paese di conoscere l’intuizione e la volontà di Aldo Moro di aprire al PSI fu alla trasmissione televisiva Tribuna politica dell’8 novembre 1961, nella quale il Segretario della DC anticipò in sintesi i contenuti del famoso discorso di 7 ore che avrebbe pronunciato di lì a poco tempo, il 27 gennaio 1962, dalla tribuna del Congresso DC di Napoli. Il discorso di Napoli fu improntato al progetto di favorire l’autonomia del PSI, promuovere e rendere più sicura la vita democratica dell’Italia, invitando al coraggio tutti, amici e avversari, soprattutto gli esponenti della destra della DC, alcuni dei quali citati ò per nome, come Scelba, Andreotti, Segni. Il discorso fu interrotto spesso da ovazioni e applausi. Oggi può sembrare stupefacente che un discorso politico duri sette ore, ma allora era necessario tanto tempo per spiegare, convincere, indirizzare. All’epoca i discorsi politici erano determinanti per convincere gli altri. E gli altri si lasciarono convincere. Il 22 febbraio di quel 1962, neanche un mese dopo, Amintore Fanfani presentò alle Camere il suo nuovo governo, il quarto, con i socialisti ormai nella maggioranza, anche se non ancora coinvolti in incarichi governativi. Fu un governo che cominciò ad attuare alcune riforme, che peraltro dovevano rimanere per molti anni le uniche che si realizzarono. L’introduzione dell’imposta della cedolare secca, la riforma della scuola media unificata, la nazionalizzazione dell’energia elettrica. Furono riforme che allora contribuirono a cambiare l’Italia. Tuttavia, ci fu ben presto una controffensiva dei conservatori e delle destre, con la Confindustria alla testa. Alle elezioni per il Presidente della Repubblica la DC votò per l’esponente della destra DC Antonio Segni che prevalse sul candidato socialde25


mocratico Giuseppe Saragat, appoggiato dalla sinistra. L’importantissima riforma urbanistica non passò, per il fuoco incrociato degli speculatori edilizi e del Vaticano, massimo proprietario immobiliare in Italia. Il ministro democristiano dei Lavori pubblici Fiorentino Sullo che si era battuto moltissimo per la riforma fu linciato mediaticamente, anche con insinuazioni di carattere personale. Non passò neanche la riforma per l’istituzione delle Regioni, per il timore dei conservatori di consegnarne alcune al governo delle sinistre e soprattutto del Partito Comunista. Le elezioni politiche del 28 aprile 1963 si svolsero in un clima di incertezza e di mobilitazione contro l’esperimento del governo Fanfani di riformismo democratico e di allargamento della base popolare e, grazie alla feroce e determinata mobilitazione mediatica dei giornali moderati, della Confindustria, degli elementi conservatori della gerarchia ecclesiastica, ebbero esito negativo sia per la DC che per il PSI. Entrambi i partiti persero punti in termini di voti e di seggi. Fanfani si dimise il 22 giugno del 1963. Tuttavia, al successivo Congresso della DC, Moro chiarì con fermezza che non si sarebbe tornati indietro dall’esperienza del Centrosinistra. Dopo altri sei mesi, gestiti da un governo ponte presieduto da Giovanni Leone, il 4 dicembre 1963 fu varato il primo governo organico di Centrosinistra, con alcuni Ministri socialisti, presieduto proprio da Aldo Moro che ne era stato il tenace tessitore. Siamo quindi tornati a quella che era stata l’ultima data citata all’inizio, quel 4 dicembre 1963. Per Aldo Moro, che all’inizio di gennaio 1964 lasciò la carica di Segretario politico della DC a Mariano Rumor, l’alleanza con il PSI fu strategica e non tattica. Cioè non servì solo a intercettare un alleato qualsiasi per dare respiro e puntellare il potere della Democrazia Cristiana, ma per favorire un allargamento della base democratica del Paese e per coinvolgere stabilmente nelle responsabilità di governo una parte non piccola della sinistra. 26


Tuttavia, il 1964 fu un anno difficilissimo, per il Centrosinistra e per l’Italia. Il miracolo economico si arenò, ci presentò la crisi economica definita “congiuntura” e il governo Moro cadde. Entrò in carica un nuovo governo più attendista, guidato da Emilio Colombo. Durante le trattative politiche tra la caduta del governo Moro e l’entrata in carica del governo Colombo, Nenni disse di avvertire un tintinnare di sciabole e il 7 agosto di quel 1964 ci fu una riunione tesissima tra Moro, il Presidente Segni e Giuseppe Saragat, durante la quale Segni ebbe un ictus cerebrale che lo rese inabile a continuare il mandato presidenziale. Il Centrosinistra, a partire dal governo Colombo, entrò in uno stato di quiescenza, non realizzò molte altre riforme, almeno fino alla fine degli anni ’60 e agli inizi dei ’70, con lo Statuto dei Lavoratori e l’istituzione delle Regioni. Per questo si può dire che in quei primi esperimenti di centrosinistra all’inizio degli anni ’60, ebbe maggiore successo nell’opera riformatrice il governo Fanfani del ’62 senza i socialisti al governo che i governi successivi di Moro e degli altri Presidenti con i ministri socialisti. Con il governo Moro di Centrosinistra del 1963 si cercò di governare il miracolo economico, ma il fiato corto di quella politica, a partire dal 1964, soprattutto con il fallimento della programmazione economica che restò del tutto sulla carta, portò alle gravi tensioni e agli scontri sociali del 1968-69. Dopo le rivolte, le proteste e i malesseri del mondo giovanile e operaio di quel biennio, che in Italia dovevano continuare molto più a lungo che in altri Paesi, Moro, che non era un politico chiuso dentro i palazzi ma ascoltava la gente, comprese che la società italiana era cambiata, anche per via delle nuove esigenze dei giovani e delle donne. Andò all’opposizione all’interno della DC e iniziò a pensare alla necessità di un rapporto diverso con i comunisti e, comunque, fu tra i pochi politici che compresero negli anni ’70 che sarebbe stato necessario dare risposte plausibili 27


al malessere delle classi subalterne. Molti storici si sono chiesti se già dall’epoca del coinvolgimento dei socialisti fosse nella mente dello statista pugliese anche altrettanta attenzione politica verso il Partito Comunista. La risposta unanime tende a essere negativa, perché il Centrosinistra dei primi anni ‘60 fu un’operazione indirizzata principalmente proprio contro il PCI. Dopo le elezioni politiche del 1976 Moro pensò di far entrare il PCI nell’area di governo, ma per lui la collaborazione con il PCI non fu mai un’opzione strategica come lo era stata nei confronti del PSI. Fu piuttosto un ennesimo tentativo di trovare un nuovo alleato, o quantomeno un non nemico, per prolungare il potere della DC. Provò quindi ad avviare un discorso con i comunisti, almeno per condividere alcune responsabilità. Ma nei tardi anni ‘70 i tempi erano cambiati, non c’erano più Papa Giovanni, Kennedy, Kruscev, ma Paolo VI, Kissinger, le Brigate Rosse, i Servizi segreti dell’Est, la P2 con in mano gli apparati di forza dello Stato. Fu fermato. L’uccisione di Moro diede altri quindici anni di vita al sistema dei partiti che poi fu travolto comunque da Tangentopoli. Ma dopo le inchieste di Di Pietro e Borrelli era ormai un altro Mondo, con la fine dell’URSS e del Comunismo, Maastricht, la globalizzazione irrefrenabile, il WTO e l’apertura della libera circolazione di merci e capitali in tutto il Mondo, Cina compresa. E in Italia sarebbero venuti e se ne sarebbero andati Berlusconi, Bossi, Prodi, Veltroni, D’Alema, Rutelli, Fini, Bersani, Letta, Renzi, Salvini, Di Maio. Tutti invano, come recita il titolo del libro di Filippo Ceccarelli “Invano. Il potere in Italia da De Gasperi a questi qua”. Almeno, Aldo Moro fu uno statista che nel momento difficilissimo ed epocale per l’Italia, dagli anni ’50 agli anni ’60, incise seriamente e non passò invano. 28


Storia e Territorio

Il triste compleanno del 1980 Raffaele FLAMINIO

Il 23 novembre 2019 ricorrerà il trentanovesimo anniversario del terremoto che colpì vaste aree della Campania, della Puglia e della Basilicata. Alle 19.34 di domenica 23 novembre 1980 la terrà tremò. I numeri raccontano di una tragedia immane. Un’area geografica di 17.000 kmq fu squassata dalla furia della natura, sei milioni di persone coinvolte. 687 comuni delle tre regioni colpite, rasi al suolo. 362.000 abitazioni distrutte, 300.000 sfollati, 10.000 feriti, 3.000 morti. Novanta secondi di terrore. I comuni di Lioni, Sant’Angelo dei Lombardi, Laviano, Conza della Campania, Conza, Muro Lucano, furono cancellati.

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Quel 23 novembre, di trentanove anni fa, faceva caldo. La meteorologia aveva regalato uno scampolo di primavera inaspettata. Molte famiglie avevano approfittato dell’occasione per organizzare, nonostante l’autunno inoltrato, una gita fuori porta o passeggiate all’aperto. Quello strano fenomeno stagionale svanì in un boato lungo un minuto e trenta secondi. Travolgendo vite, stravolgendo esistenze, luoghi testimoni di storie ancestrali. La lingua antica e dialettale di quei luoghi si arricchì di nuove parole, ci fu un’osmosi forzata per rappresentare la paura. Il linguaggio tecnico della magnitudo si accompagnava alle nenie di veglia nell’attesa dell’arrivo di notizie sui cari dispersi o morti sotto le macerie. Magnitudo 6.9 della scala Richter. Quel numero accompagnato da un cognome, si faceva strada nella lingua antica dialettale sicura, comprensibile, fino ad allora, fatta di termini come moggio, quarte, palmi, pertiche, parole utili per secoli, per definire spazi e ordine, in novanta secondi erano state cancellate da magnitudo, sciami sismici, un arsenale sconosciuto e mortale. Il boato dell’aria calda accompagnava il collasso di case, scuole, chiese, piazze che avevano segnato la vita di milioni di persone. La nebbia maligna lasciava il posto a una desolazione senza limiti, fatta di disperazione ed incredulità. La luna in terra. Crateri profondi e ammassi di detriti famelici avevano inghiottito ogni forma di vita. Non ancora si erano spente le cronache sportive di quella domenica di calcio che gli sfottò del rito domenicale erano rimasti soffocati dallo sgomento della tragedia che si andava consumando. Napoli era un ininterrotto lamento di sirene di soccorsi, la gente fuggiva dalle case senza curarsi di ciò che serviva, i luoghi pubblici vomitavano, verso le uscite sulla strada, moltitudini stordite, i bambini increduli cercavano conforto negli occhi smarriti degli adulti. Le edizioni dei Telegiornali di allora parlarono di lievi scosse che non avevano 30


procurato alcun danno alle persone e alle cose. La notizia si diffuse, la calma sembrò ritornare. Il fuggi, fuggi, generale scomposto e caotico sembrò trovare, un suo ordine naturale ma, provvisorio. Tra le ore 20 e le 20.30 la terra si assestò. Venti, forse, trenta secondi interminabili. La paura strinse il suo pugno. Il Kaos. In quei comuni disgraziati quello che ancora restava in piedi come la speranza si sgretolò. Il freddo sopraggiunto nei cuori, si materializzò in fiocchi di neve e gelo che composero un’istantanea indelebile. I soccorsi partirono con immenso ritardo. Un’intera comunità abbandonata a se stessa, preda della disperazione e del freddo. I primi che valutarono correttamente le dimensioni della tragedia, a parte i VV.FF, poliziotti e carabinieri locali, furono i cronisti che recatisi per prima cosa all’ospedale di Avellino poterono misurare, dal numero di feriti ed emergenze, le effettive dimensioni della tragedia. Arrivare su quei paesi tra gli Appennini fu impresa titanica. Tutte le direttrici stradali erano chiuse, i centri abitati collassati erano impraticabili al transito di mezzi e persone. I più, accompagnati, da guide improvvisate locali, scalarono pendii montuosi fra boscaglie e neve, solcando le orme dei cacciatori e gli animali della montagna. Lo scenario che apparve ai loro occhi è riportato nelle cronache di allora. Interi agglomerati urbani falciati al suolo dalla potenza sismica che non aveva risparmiato nulla. Lo stiramento della falda appenninica aveva aperto e poi richiuso, sotto i piedi delle persone, le voragini che avevano inghiottito tutto. Gli uomini scavavano a mani nude tra i detriti, le donne a squarcia gola ripetevano come un litania i nomi dei cari seppelliti. Le anziane vestite di nero si prendevano cura dei bambini smar31


riti, terrorizzati, affamati, recitando antiche nenie contadine. I corpi esamini, ricuperati, allineati nel fango prodotto dalla neve che cadeva. I falò improvvisati, alimentati dal legno di suppellettili, diffondevano un po’ di calore e luce in quella notte di pece fredda. Alla luce dei fuochi ogni tanto la speranza prendeva corpo, urla di gioia e pianti commossi indicavano un fortunato ricongiungimento familiare, di un parente, un conoscente che, narrava la sua esperienza. Quel tempo non era di internet e social, le notizie viaggiavano sui fili; il fili erano tranciati. Solo le radio militari erano in grado di diffondere notizie e solo il genio militare era in grado di ripristinare le comunicazioni. I cronisti si davano il cambio e le notizie cominciavano a transitare. Solo il 26 novembre, tre giorni dopo il sisma, il giornale “IL MATTINO” apre con un titolo che ha fatto storia. “FATE PRESTO”. Warhol ne farà un’opera d’arte visibile nella metropolitana di Napoli, fermata Museo, corridoio di collegamento tra la linea 2 e la linea 1. La macchina dei soccorsi si mosse lentamente e male. Il sisma friulano, di pochi anni prima, non aveva lasciato memoria storica nella testa dello Stato. Le prime riprese televisive dettagliate compaiono, in quei giorni nei telegiornali televisivi RAI. Solo allora, l’intero Paese comprese la dimensione tragica del sisma che aveva colpito le tre regioni meridionali. La macchina della solidarietà si mise in moto. Saranno circa 8.000 i volontari che, da tutta Italia si mobiliteranno per prestare assistenza ai connazionali colpiti a morte. Milioni di tonnellate di alimenti, coperte, tende, stufe e tutto quanto era necessario, furono recapitate in quei territori a conforto di quegli italiani provati e sofferenti. Il Presidente della Repubblica, Sandro Pertini, dopo aver preteso di visitare le zone del disastro, nonostante il parere contrario del suo staff di sicurezza tuonò: “VERGOGNA”. 32


Fu, solo, in questi tre frangenti che la macchina dello stato cominciò a mobilitarsi. L’autostrada del sole A1, a partire da Napoli e in direzione sud, fu aperta esclusivamente al transito dei mezzi di soccorso scortati dalla nascente autorità di Protezione Civile, pensata dal Commissario straordinario Giuseppe Zamberletti, i soli mezzi autorizzati a raggiungere le zone terremotate. Quei soccorritori giovani, in particolare, videro direttamente e senza filtro ciò che significava morte e distruzione. Impressi nei loro occhi videro materializzarsi i racconti dei genitori e dei nonni sulle distruzioni della II guerra mondiale. Molti testimoni delle due sciagure vissute, narrarono loro l’immane e superiore sgomento provocato dal sisma che non risparmiò, peggio dei bombardamenti, nulla. Nei pressi delle chiese e dei cimiteri sventrati, giacevano le centinaia di morti che, le comunità contavano e riconoscevano per nome e cognome, ricordando e piangendo scampoli di vite vissute in comunione con gli estinti. Le bare presenti non bastavano, ne servivano molte di più. I morti avvolti nei teli di fortuna a evitare contagi da decomposizione. La neve e il gelo che erano visti come un’ulteriore calamità furono accolti con benevolenza. Il gelo conservava i vivi e i morti. Le grandi tende dormitorio recarono temporaneo conforto ai bimbi e gli anziani. Per fortuna la natura spensierata dei bimbi regalava, in quell’atmosfera di morte, qualche sorriso per gli improvvisati giochi dei più piccoli. Fuori da quei luoghi tutto era lugubre è spento. Il rumore della rimozione delle macerie sovrastava tutto, gli ordini dei capi squadra improvvisati erano secchi e assecondati. Nello stordimento e sconforto generale ora c’era una direttiva certa e sicura. I fornelli da campo dell’esercito cominciavano a sbuffare fumo che spandeva odore di pietanze calde. Un barlume di condivisione cominciava a farsi strada. Nei turni di mensa le parole, i racconti, transitavano da una bocca a un orecchio come una immensa terapia di gruppo. Neanche quando calava la notte c’era silenzio e immobilismo, dopo la paura e lo sgomento c’era voglia di rialzarsi. 33


I sindaci, memoria storica e civica, dei territori erano impegnati a fare la meschina conta, dovevano fornire i dati per indirizzare gli interventi e le procedure, l’unica appartenenza sentita era quella con la comunità d’origine. Le case, le piazze, le chiese, le scuole, ricostruite dovevano avere impressa la memoria della comunità. La ricostruzione come la storia ci illustrerà, sarà altra cosa. La speculazione, i personalismi, le mazzette faranno da corollario. La reazione della natura sarà direttamente proporzionale alla stupidità nazionale. I terremoti delle Marche, dell’Abruzzo e dell’Emilia Romagna, sono moniti ancora sanguinanti come ancora sanguina la memoria di quel 23 novembre di trentanove anni fa.

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Politica

Ed ecco a voi la classe operaia! Antonella BUCCINI

Non ho ancora perso il vizio, anche se mi ripeto che devo assolutamente smettere. Non sto pensando al fumo, abitudine sicuramente deleteria per la quale chi la pratica è esposto a una singolare riprovazione sociale. Mi riferisco ai talk show che dovrebbero però subire analogo anatema. Infatti, la prevedibile rappresentazione della politica nostrana, se non dannosa come il fumo, induce, nella maggior parte dei casi, a una noia stizzita. Eppure non demordo, un po’ come mio figlio che da piccolo rivedeva Mary Poppins senza soluzione di continuità perché, mi ha rivelato poi, sperava che il finale potesse cambiare e la protagonista rinunciare a volare via con il suo ombrello. Ecco, anch’io nutro la speranza che alla fine venga fuori una novità, una parola, un pensiero, che il buon senso e una visione insomma non volino via come Mary Poppins. Eppure, una considerazione in questi giorni mi frulla 35


inopinatamente per la testa a seguito di questa mia pratica scriteriata. Ho notato, infatti, che è diventata frequente la presenza degli operai in studio o in collegamento con i programmi in questione, quelli con vocazione democratica ovviamente. Si tratta di lavoratori che rischiano il licenziamento e che provano a raccontare, negli stretti tempi televisivi, le motivazioni, il presidio delle fabbriche, le richieste, le mediazioni, le incertezze, le paure, le speranze. Alla fine i conduttori funzionano da referenti insolitamente necessari, si fanno, in qualche modo, portatori delle istanze e catalizzatori dell’emergenza, promettono solidarietà e accoglienza nelle loro trasmissioni come una sorta di presidio di resistenza. Loro, gli operai, ringraziano della disponibilità e confidano che quella visibilità possa indurre la politica ad affrontare con efficacia la questione. Ecco la politica. Grande assente. Il mondo è cambiato rapidamente e, anche se occorre elaborare un nuovo linguaggio, è altrettanto urgente una rifondazione culturale e politica, uno scatto di orgoglio. Del resto i temi non mutano: giustizia sociale e lavoro, declinazione che la sinistra, esangue e priva di coraggio, ha smarrito in un balbettio inconsistente e autoreferenziale. La protesta via etere sembra voler certificare, quindi, come ultima spiaggia, una sorta di esistenza in vita, reclamare attenzione verso quei lavoratori che da classe di lotta ora assurgono, essenzialmente, a vittime emblematiche di un sistema allo stremo. I comprimari, i parlamentari di turno, lasciano a desiderare. Si limitano a seguire la discussione seduti nel salottino dello studio televisivo beneficiando dei quindici minuti di popolarità, formulano quei due o tre concetti di rito, sempre uguali e, immancabilmente, professano il loro indiscusso impegno sul tema, se rappresentanti del governo, la risoluta contestazione, se all’opposizione. Si ispirano, come tanti, al bignami della politica, che, probabilmente, si consegna, insieme all’agenda, il primo giorno della legislatura a Palazzo Madama o Montecitorio. Deve essere rilegato in pelle pure quello e prevede, nella sua naturale missione, istru36


zioni per sintesi. Sarà questo il motivo per cui i dibattiti televisivi si possono riassumere agevolmente e concludere in un nulla di “fatto”. Sì, devo smettere, sono sicura che il talk nuoce alle arterie come la nicotina.

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Politica

Tutta un'altra storia. Almeno speriamo Antonella GOLINELLI

Sono a Bologna all'iniziativa del PD a palazzo Re Enzo. Non c'ero mai entrata. Nemmeno in Sala Borsa. Sono finalmente riuscita accompagnando un'amica che viene da lontano. Bene cosi. Il tempo è orribile ma non abbiamo niente di meglio da offrire al momento. Già ieri sera è andata bene che le 6000 sardine (che poi erano quasi 11000) non si sono infradiciate di pioggia. Certo al PalaDozza non l'hanno presa benissimo, nemmeno i vivaisti ho visto sul web entusiasti del successo. Va a sapere perché. #mognint 38


Nell'attesa cominci il fatto scorro il FB e vedo le polemiche innescate dal tuìt del Matteo verde: se vinciamo noi gli ospedali saranno aperti la notte, il sabato e la domenica come in veneto. Che io dico, I say: come ti viene in mente di sparare una roba cosi? Qui? Che siamo pieni di cliniche universitarie? Di eccellenza pure! Forse si riferiva agli ambulatori, forse alla diagnostica (piuttosto avanzata tra l'altro), non saprei dire. Ma sono altro rispetto al concetto di ospedale. Non è che ti ricoverano nella TAC. Questa la metto da pari a “abbatteremo il secondo muro di Berlino”. Io qui ci sono nata, dei gran muri non ne ho mai visti. Ma potrei essere un fantasmino e passarci attraverso. Chi può dirlo? Il saluto dei tre caballeros, segretario cittadino di Bologna, segretario regionale e sindaco di Bologna. Quest'ultimo fa un riferimento alle opportunità e ai meriti delle donne. E sono tutti uomini. Ma non suona strano anche a voi? Mah! A me fa strano. Segue la presentazione di chi l'ha organizzata questa faccenda, Gianni Cuperlo, che non manca l'occasione di una frecciatina al fenomeno, quel vivaista che vuole darsi al prosciugamento. Franceschini, reduce da Venezia che evoca, ripercorre i tempi della crisi agostana, quella del Papeete per intenderci. Qui si parla di anni 20 e dei paralleli fra quelli del secolo scorso e i prossimi venturi. Parallelismi impressionanti cui bisogna mettere argine. Bisogna mettere argine. Il punto qui è immaginarselo come farlo e come trovare un pensiero diffuso e largamente condiviso (nda-io).

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Il ministro parla di caratterizzarsi come “forza tranquilla”... ohi... come si può essere tranquilli? Ma nemmeno pacati. Parliamo di curdi con Hazal Koyuncuer. Ancora i curdi soffrono. Ricordo un'iniziativa alle Cappuccine di Bagnacavallo. Invitata una sindaca curda. Ci raccontò una vita terribile. Questo ancora prima degli otto anni di guerra in Siria, prima ancora di Erdogan. Sto parlando di una dozzina di anni fa, forse qualcosa in più. E siamo ancora messi cosi. Prosegue la sfilata di rappresentanza: dipendenti in bilico lavorativo, giovani. Certo negli anni si sono azzerati interi comparti produttivi, l'edilizia per esempio, nel silenzio più totale. Ora, finalmente, si parla di lavoro perso, in pericolo e di mancanza ci prospettiva, sarà il cambio di segretario? Certo che da Sherwood si guarda con interesse almeno ai titoli. Magari sarebbe stato interessante e apprezzabile non mandarci a Sherwood. Si legge la Segre. Parole strazianti di una sopravvissuta. Che orrore. Quanto orrore raccontato. E il pensiero corre ai quei quattro scarabocchiati esaltati da un potere che non hanno. Che vorrebbero ma non hanno. #mognint Zingaretti ricorda la professoressa dall'aria sospesa per 20 giorni dall'insegnamento per la consegna di una ricerca di storia. Dagli esiti di questa ricerca. Ricordate la vicenda? Blocco successivo. Si parla di donne. Finalmente un palco pieno di donne. Almeno su questo argomento. Però si compie un errore oramai antico. Si paragona e si accomuna la discriminazione di genere con la discriminazione verso gli immigrati. Sono tutti soggetti deboli ma sono vicende diverse da trattare, entrambe, con molta attenzione d molta abnegazione senza mischiare problemi e mancate soluzioni. 40


Poi parla Giovannini, ex ministro del lavoro, su slides impressionanti. Parla di previsioni più che azzeccate, tutte nefaste sia chiaro. Vedremo, anche se sono quasi propensa che andrà peggio di cosi. Perchè siamo comunque troppi, troppo impoveriti e troppo impauriti. Sto parlando del globo terracqueo. Anche lui. Ignazi. Analisi lucida anche se, a mio modesto avviso di ignorantona silvana, già datata vista la effettiva liquidità del momento politico. Ed è effettivamente difficile elaborare un progetto politico avendo dati sempre in evoluzione. Poi Gualtieri. Lucido ed efficace. Ha rivendicato con orgoglio l'essere riuscito a trovare i 23 miliardi per la sterilizzazione dell'IVA. Confesso che mi è piaciuto. A pelle mi è piaciuto. Che non è scontato.

E allora ho fatto il bis. Oggi mi sono fatta un laboratorio. La giornata è iniziata con la relazione interessantissima di Fabrizio Barca. Lucida, estremamente lucida e appropriata ma con soluzioni complicate, molto complicate. Almeno a mio giudizio. Io non dico che le soluzioni debbano essere sempre complesse. A volte le soluzioni devono essere semplici. Più semplici sono meglio è. Perché ci si deve complicare sempre e comunque la vita? Vabbè. Da li ci siamo spostati nelle opportune e diversificate nel cerchio delle mura. Devo ammettere che i relatori erano veramente in gamba. Hanno focalizzato perfettamente i punti. Diciamo che gli interventi lo sono stati meno? Diciamolo. Alcuni esempi a volo d'uccello: per esempio vorrei affermare con forza che chi lavora per una azienda che è a maggioranza di Cassa Depositi e Prestiti non puoi affermare di lavorare per un'azienda privata. E se fai politica tu lo devi sapere. È un fondamentale. Se sei un amministratore non puoi dire che sei schiavo dei bandi o che non puoi as41


sumere personale per biblioteche e musei se non parli della Bassanini e non ti riferisci alla fine del blocco del turn over. Ma di questo non ha parlato nessuno. Non ho sentito nessuno, nemmeno Landini ha citato il fatto, che è fondamentale per una risoluzione del problema della disoccupazione e del rinnovo del personale della pubblica amministrazione. E invece niente. Vabbè. Siamo poi tornati a Palazzo Re Enzo per la plenaria. Ho ascoltato una fila di interventi interessanti. Tutti punti di vista assolutamente condivisibili e completamente intrecciabili e che si completano l'un con l'altra. Considerazioni di ordine generale: quando si parla di chi rappresentare e come ci sono alcuni punti da chiarire. Per esempio si dovrebbe stabilire se sei ghiro o scoiattolo. Per dire. Si dovrebbe anche smettere di dire che si rappresenta. In realtà, posto si sia stabilito se si è ghiro o scoiattolo, tu non devi rappresentare qualcuno. Tu devi essere quel qualcuno. È impossibile continuare a pensare di ergersi a rappresentare la classe lavoratrice, eventualmente, partendo dalla posizione privilegiata di eletto (privilegiata poi perché?) a rappresentare i poveri operaiacci incolti e rozzi. Quelli che sono considerati poveri operaiacci molte volte sono in grado di rappresentarsi benissimo da soli. E pure meglio di tanti eletti. Quindi un po' meno spocchia, per piacere. La sovraesposizione dei giovani è vicenda carina. I giovani sono sempre belli da vedere. Però sovraesporli cosi è pericoloso, per loro intimamente, perché si creano aspettative che verranno puntualmente disattese, mi rendo conto di essere pessimista, ma lo storico dice questo. Ed è pericoloso perché si bruceranno. È inevitabile. La maggior parte verrà bruciata o si immolerà sull'altare della necessità e quello dell'ambizione. Bisogna dare tempo ai giovani di crescere e maturare. Ci vuole il 42


suo tempo a fare le cose. Parliamo un attimo delle sardine. Bello sto flash mob. Si parte e via web ci si autoconvoca. È un segnale importante una piazza auto-convocata pienissima. A mio modesto avviso di ignorantona silvana posso dire che mi sono mancate le bandiere da vedere. Perché quella bella piazza piena di gente di sinistra oltre che la dimostrazione plastica della voglia e della necessità di esserci e combattere per le proprie idee. Solo che bisogna dimostrare chi si è, sempre scegliendo se si è ghiri o scoiattoli, anche coi simboli. Soprattutto a questa bella gente di tutte le età devi proporre idee precise cui possano aderire e condividere convintamente. È li la mancanza. È tutta li. (fine prima e seconda parte. Se sopravvivo alla sfacchinata vi racconto anche la terza).

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