l'Unità Laburista - Nuovo Partito, non partito nuovo - Numero 30 del 18 gennaio 2020

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Numero 30 del 18 gennaio 2020

Nuovo Partito, non partito nuovo


Sommario

Storia di un miracolo ecosostenibile - pag. 3 di Aldo AVALLONE

Beppe Fenoglio, gli scrittori e la Resistenza - pag. 6 di Giovan Giuseppe MENNELLA Libia, il valzer delle conferenze non ferma le armi - pag. 13 di Umberto DE GIOVANNANGELI Parliamo di Amministrative? - pag. 18

di Antonella GOLI-

NELLI

A me nun me sta bene che no - pag. 21 di Antonella BUCCINI

Un nuovo Partito, non un partito nuovo - pag. 24 di Aldo AVALLONE

Giorgio La Pira, agente segreto di Dio - pag. 27 Giovan Giuseppe MENNELLA

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di


Politica ed Ecologia

Storia di un miracolo ecosostenibile Aldo AVALLONE

Un fitto bosco di pioppi e migliaia di piante di senape indiana dagli sgargianti fiori gialli, tra le quali corrono liberi istrici e lepri. Questo è quello che vede oggi un visitatore su un terreno che per anni è stato discarica abusiva di residui industriali pericolosi. Stiamo parlando del sito di San Giuseppiello, un terreno agricolo su cui sorgeva un frutteto, a poca distanza da Giugliano in piena “Terra dei Fuochi,” in Campania. Su quell’area di circa sessantamila metri quadrati il clan dei casalesi ha 3


smaltito illegalmente e per lungo tempo fanghi tossici provenienti dal Nord Italia. Le procedure standard di bonifica di siti come quello di San Giuseppiello prevedono lo scavo ed il trasporto in discarica di tutto il terreno fino ad una profondità di un metro e mezzo con effetti di devastazione ambientale e paesaggistica. E anche a San Giuseppiello, in un primo tempo, si era pensato di agire in tal senso. Ma nel 2015, l’allora commissariato alle bonifiche decise di affidare il sito all’Università Federico II di Napoli, in particolare al CIRAM (centro Interdipartimentale di Ricerca Ambiente), per realizzare un progetto di ricerca finalizzato al suo risanamento. Le accurate analisi mostrarono la presenza di tre metalli pesanti: cromo, zinco e cadmio. I primi due non rappresentano un pericolo per la salute umana né per l’ambiente, in quanto non sono assimilati dalle piante e, quindi, non entrano nel ciclo alimentare. Il cadmio, invece, è facilmente assorbibile dalle radici e potenzialmente in grado di contaminare la catena alimentare causando rischi alla salute umana. Ebbene, allora accadde il prodigio: gli studiosi e i ricercatori dell’Università napoletana costatarono che i pioppi e le piante di senape indiana sono in grado di estrarre dal suolo quasi tutta la frazione biodisponibile di cadmio e anche degli altri metalli pesanti presenti nel terreno. Quindi, al posto di peschi e ciliegi, furono piantati ventimila pioppi. Inoltre i ricercatori hanno anche utilizzato batteri che biodegradano gli idrocarburi, risolvendo un’altra problematica ambientale. Ultima annotazione ma non certo meno rilevante, il progetto è costato complessivamente circa novecentomila euro a fronte dei venti milioni previsti per una bonifica eseguita in maniera tradizionale. Oggi, a miracolo compiuto, nel bosco di pioppi di San Giuseppiello prosegue il monitoraggio ambientale e vengono svolte numerose attività informative sui temi ambientali riservate alle scolaresche e ai cittadini che possono vedere coi propri occhi come è possibile risanare ambienti degradati e contaminati migliorando an4


che il paesaggio e l’ecosistema.

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Cultura e Politica

Beppe Fenoglio, gli scrittori e la Resistenza Giovan Giuseppe MENNELLA

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Le opere letterarie e storiche aventi come soggetto l’epopea resistenziale vennero solo dopo le opere cinematografiche sul medesimo argomento. Non era neanche finita la seconda guerra mondiale che film come “Paisà” o “Roma città aperta” erano già usciti nelle sale o, almeno, erano in uno stadio avanzato di produzione. La ragione fu che per le opere di scrittura, soprattutto per quelle storiche, era necessario che fossero prima acquisiti e studiati i documenti e la memorialistica dei protagonisti. Ovviamente, i primi a essere pubblicati furono gli scritti letterari basati soprattutto sull’invenzione artistica oltre che sulla memoria. Così, il primo romanzo resistenziale fu “Il sentiero dei nidi di ragno” di Italo Calvino, uscito nel 1947, seguito poco dopo, nel 1949, da “L’Agnese va a morire” di Renata Viganò. Poi si susseguirono negli anni successivi altri lavori letterari. “Il clandestino” di Mario Tobino nel 1962, racconti sulla Resistenza, ripresentato da Einaudi con prefazione di Gabriele Pedullà, importante per la prima parte della Resistenza, con il problema delle scelte individuali dei partigiani. “I piccoli maestri” di Luigi Meneghello nel 1964.” Negli anni ’80 “Il labirinto”, una delle rare prove non poetiche di Giorgio Caproni, il secondo di tre racconti compresi in un libro dal medesimo titolo, che raccontava la crudele caccia fratricida alla fine della fuga verso la salvezza di quattro partigiani. Gli storici iniziarono a scrivere sulla Resistenza nel 1953, con la “Storia della Resistenza” di Roberto Battaglia, testo per lungo tempo fondamentale. Poi seguirono le Storie di Giorgio Bocca e Guido Quazza, tutti accomunati, peraltro, dal fatto di essere stati essi stessi partigiani e quindi depositari di una memoria diretta. Due diari scritti nel momento stesso in cui si svolgevano gli avvenimenti della Resistenza sono molto interessanti e furono scritti da due partigiani entrambi ebrei. Uno è il diario di Emanuele Artom, giovane storico e intellettuale torinese nato nel 1915, Commissario politico di Giustizia e Libertà in Val Pellice e in Val Germana7


sca, morto sotto tortura alle Carceri Nuove di Torino. Il diario fu pubblicato nelle edizioni CDEC nel 1966 e ripubblicato da Bollati Boringhieri nel 2008. Il secondo è il diario, in nove quaderni, scritto dal partigiano piemontese Giulio Bolaffi, comandante di una formazione del tutto autonoma, organizzata da lui stesso, apolitica, che solo in un secondo momento confluì nelle formazioni di Giustizia e Libertà. È particolarmente interessante perché scritto giorno per giorno, in presa diretta, non destinato in un primo tempo alla pubblicazione. Fu stampato dalla figlia Stella, in seconda edizione. Si è rivelato prezioso per gli studi storici, soprattutto per la conoscenza della minuta vita quotidiana e dei problemi concreti delle bande partigiane, nei rapporti tra loro e con la popolazione. Giulio Bolaffi era un imprenditore filatelico che, per la sua attività, conosceva molte persone e poteva disporre di luoghi di raccolta e ricovero per i suoi partigiani, tra cui la clinica Villa Turina del professor Carlo Angela, padre di Piero Angela. Nel 1952 la Casa editrice Einaudi pubblicò ”I 23 giorni della città di Alba” di Beppe Fenoglio e le “Lettere dei condannati a morte della Resistenza”. L’Einaudi era stata una casa editrice importante per l’antifascismo fin dagli anni ’30; i principali collaboratori di Giulio Einaudi erano stati Leone Ginzburg e Cesare Pavese e vi gravitarono intorno altri antifascisti come Vittorio Foa, Carlo Levi, Adriano Olivetti. Quindi era particolarmente pronta a cogliere la temperie del dopoguerra, con le testimonianze di prima mano dei resistenti. Già nell’anteguerra Fernanda Pivano aveva tradotto per la casa editrice torinese “Addio alle armi” di Ernest Hemingway ed era stata arrestata per il chiaro contenuto antimilitarista e pacifista del romanzo. Beppe Fenoglio è stato l’autore di quello che la critica ritiene ormai unanimemente il più bel romanzo sulla Resistenza, cioè “Una questione privata”. Il romanzo fu pubblicato postumo da Garzanti nell’aprile 1963, insieme ad altri sei racconti, due 8


mesi dopo la morte prematura di Fenoglio. Il testo definitivo era stato trovato da Lorenzo Mondo tra le carte dell’autore, che ne aveva fatto tre stesure. Le prime due furono poi utilizzate da Einaudi per l’edizione del 1978, nella quale il romanzo fu pubblicato da solo, senza gli altri sei racconti dell’edizione Garzanti del 1963. La terza stesura non è stata più trovata, per cui oggi non è possibile dire con certezza se il titolo sia da attribuire all’autore, né se il romanzo sia rimasto incompiuto o meno. Che fosse il migliore romanzo di argomento resistenziale lo intuì quasi subito Italo Calvino che, ripubblicando nel 1964 per Einaudi il suo “Il sentiero dei nidi di ragno”, scrisse una lunga prefazione in cui espresse un giudizio lusinghiero sul libro di Fenoglio, uscito appena l’anno precedente. “E fu il più solitario di tutti noi che riuscì a fare il romanzo che tutti avevamo sognato, quando nessuno più se lo aspettava”. Questo il memorabile incipit di Calvino. Beppe era stato tra i badogliani, Santiago con i comunisti delle Brigate Garibaldi. Beppe era Fenoglio, Santiago altri non era che Italo Calvino, che aveva assunto quel nome di battaglia in omaggio alla sua nascita a Santiago de Cuba, dove i genitori dirigevano l’orto botanico. Nella sua prefazione del1964, Calvino si dimostrò affascinato dal personaggio Fenoglio, un uomo duro, di poche parole, virile, timido, abbastanza ombroso, cha assomigliava alla sua città, Alba, una specie di paese della frontiera americana. Inoltre apprezzò in “Una questione privata” la descrizione della Resistenza come era veramente, senza mitizzazioni, con i sui errori, i suoi difetti, i suoi pericoli e incertezze, la furia e la fierezza, i dubbi, la paura, l’incubo della morte, come un grande romanzo cavalleresco. Invece, L’Unità, giornale del Partito Comunista, considerò Fenoglio un autore con9


troverso e criticabile, proprio perché aveva mostrato la Resistenza com’era, con i suoi difetti, un fenomeno anche pittoresco e confuso, soprattutto nel suo libro “I ventitré giorni della città di Alba”. E lo si può capire dall’incipit memorabile di quel libro “Alba la presero in duemila il 10 ottobre e la persero in duecento il 2 novembre dell’anno 1944” e poi “Fu la più selvaggia parata della storia moderna, solamente di divise ce n’era per cento carnevali”. Nei libri di Fenoglio i partigiani appaiono vestiti nei modi più strani, oltre a morire per la libertà fanno anche carnevale, hanno virtù ma anche vizi, sono coraggiosi ma anche disorganizzati e confusionari. La Resistenza non era stata tutta bella e tutta da consacrare nel mito. Le perplessità della cultura comunista sull’opera di Fenoglio furono dovute anche alla circostanza che lo scrittore si era allontanato dalle Brigate Garibaldi perché non era un comunista. Se ne era andato con le formazioni badogliane di Enrico Martini Mauri, con cui si riconosceva maggiormente da un punto di vista politico e sociale, perché erano caratterizzate da una disciplina militare e non erano composte solo da operai e contadini, come le Garibaldi, ma anche da borghesi e studenti come lui. Su L’Unità Carlo Salinari ne stigmatizzò il tono ironico in materia di accadimenti resistenziali. Un amico operaio di Salinari gli confidò che per colpa di Fenoglio non avrebbe più comprato libri in vita sua. Sull’edizione torinese de L’Unità anche Davide Lajolo lo criticò ma in seguito cambiò idea e scrisse che era stato accecato dalla disciplina di partito perché Fenoglio non era stato un partigiano comunista e aveva dissacrato la Resistenza raccontandola per come era stata veramente, per come l’aveva vissuta. Lajolo aveva l’entusiasmo e l’inflessibilità del convertito perché, a differenza di Fenoglio, aveva aderito al fascismo e se ne era allontanato all’ultimo momento. Su quell’esperienza personale scrisse il romanzo autobiografico “Il voltagabbana” 10


Negli anni ’70 cambiò idea sui libri di Fenoglio, spiegando che nell’immediato dopoguerra quelli come lui che avevano creduto alla propaganda fascista si sentirono obbligati a passare all’eccesso opposto, glorificando tutto l’antifascismo e la Resistenza. In realtà, nella Resistenza avevano convissuto il fiore e la feccia e doveva essere descritta in modo realistico, per non farla cadere nella retorica. Quella retorica era stata adottata anche come difesa dagli attacchi cui era stata sottoposta durante la Guerra Fredda dagli anticomunisti viscerali e dai fascisti amnistiati. I critici letterari di sinistra sentirono l’obbligo di fare quadrato contro il vento contrario che spirò dagli anni ’50 in poi contro tutto ciò che significava Resistenza. C’era stato grande sconcerto, perché sembrò loro sminuita e oltraggiata. La prima stesura de “I 23 giorni della città di Alba” era stata presentata nel 1949 da Fenoglio alla casa editrice Einaudi con il titolo “Storia della Guerra Civile”. Per Fenoglio, quegli accadimenti erano stati anche una guerra civile tra italiani fascisti e italiani antifascisti. Ne “Il partigiano Johnny” fa dire al protagonista “Noi ci facciamo del male tra noi italiani. Io, se vedo un tedesco e poi un fascista, me la prendo solo con il fascista, lascio il tedesco e inseguo solo il fascista”. Questa idea di Fenoglio era in anticipo sugli studi storici, perché solo a partire dall’inizio degli anni ’90, grazie al libro di Claudio Pavone “Una Guerra civile. Studio sulla moralità della Resistenza”, fu accreditato il concetto che nel periodo 1943-1945 si erano intrecciate una guerra di liberazione, una guerra civile e una guerra di classe. In quei primi anni ’90, quando i partiti tradizionali erano ormai in crisi, Claudio Pavone fu in grado di porre l’accento sul conflitto civile, anche grazie al fatto che, in omaggio alla complementarietà delle fonti, prese in esame anche i diari e i romanzi scritti dai protagonisti, mentre Renzo De Felice e gli storici precedenti si erano basati esclusivamente sui documenti ufficiali dell’Archivio centrale dello Stato. 11


“Il partigiano Johnny” tra i romanzi di Fenoglio sulla Resistenza è forse quello più conosciuto, anche perché era stato letto avidamente e con totale immedesimazione dalla generazione dei contestatori degli anni ’60 e ’70. Ma il migliore è “Una questione privata”, perché intreccia il destino individuale con la grande Storia. Gabriele Pedullà ha scritto che è piuttosto la grande Storia che vi intercetta la questione privata. In realtà, nel romanzo quello che risalta è la Resistenza osservata da un punto di vista non comune, non ortodosso, con la luce indirizzata verso problemi non scontati, come il rapporto con il nemico, la legittimità o meno della violenza, la scelta individuale, i rapporti con la popolazione civile. Un fatto curioso riguardante il mondo dell’editoria, dei premi letterari e delle gelosie autoriali accadde nel 1959, quando Anna Banti convinse Beppe Fenoglio a presentarsi al premio Strega con il libro edito dalla Garzanti “Primavera di bellezza”, una specie di antefatto dei suoi libri concernenti la Resistenza vera e propria. Tuttavia, quell’anno con la Garzanti si presentò al premio Strega anche Pasolini, con “Ragazzi di vita”. Il premio lo vinse “Il Gattopardo”, Pasolini arrivò terzo e Fenoglio non fu compreso neanche nella cinquina finale. Pasolini si risentì molto che Fenoglio si fosse presentato anche lui con la Garzanti e anni dopo stroncò “Una questione privata”, quando uscì in libreria dopo la morte dell’autore.

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Esteri

Libia, il valzer delle conferenze non ferma le armi Umberto DE GIOVANNANGELI

Il Generale bullo e il Premier senza potere. In mezzo, uno Zar che vuole conquistare l’Africa e un Sultano che vuole avere una fetta importante della “torta” petrolifera. Ai bordi del campo, una Europa che parla, parla, fa missioni, indice conferenze, ma che alla prova dei fatti conta poco o nulla. Il caos libico in pillole. Ci ha pensato tutta la notte. E tutta la notte ha trattato per modificare a suo vantaggio l’accordo già siglato dal suo nemico. Non ha ottenuto ciò che desiderava e alla fine la penna rimasta sul tavolo e la pax russo-ottomana non ha, al momento, il suo visto. Kalifa Haftar aveva chiesto un periodo di riflessione prima di firmare l'accordo formale di cessate il fuoco accettato dal suo rivale, Fayez al-Sarraj, ma alla fine ha 13


lasciato Mosca senza firmare il documento negoziato sotto l'egida di Russia e Turchia.. Il cessate il fuoco annunciano da Mosca, resta in vigore a tempo indeterminato, fa sapere il ministero degli Esteri russo, ma

la mancata validazione

dell’intesa da parte del generale fa riprendere gli scontri a sud della capitale: secondo il sito al Wasat, colpi di artiglieria sono stati sparati nei sobborghi di Salah Al-Deen e Ain Zara, nella capitale libica. Per Vladimir Putin è uno smacco difficile da digerire. Ma lo “Zar” non è uno che si arrende. E’ certo che rilancerà. Il generale Haftar “ha accolto positivamente” l’intesa su una tregua in Libia “ma prima di firmare gli servono due giorni per discutere il documento con i leader delle tribù che sostengono l’Esercito nazionale libico”, dichiara il ministero della Difesa russo, ripreso dall’agenzia Interfax. Due giorni per firmare o sfidare l’uomo del Cremlino. Oltre ai guadagni geopolitici sui suoi rivali e all'accesso privilegiato al petrolio libico, la Russia spera di riconquistare questo mercato per le sue armi e il suo grano. Tanto più che Vladimir Putin ha l'ambizione di affermarsi in Africa. Anche la Turchia ha ambizioni petrolifere, grazie ad un controverso accordo con il governo libico di accordo nazionale che estende la piattaforma continentale turca e le permette di rivendicare lo sfruttamento di alcuni giacimenti. Haftar ha affermato, secondo al- Arabiya, che il documento proposto ignora molte richieste del sedicente Esercito nazionale libico (Lna), di cui l’uomo forte della Cirenaica è il comandante in capo. Secondo i media arabi, il generale avrebbe rifiutato di firmare perché l'intesa avrebbe ignorato molte delle richieste del leader della Libia orientale. Secondo Sky News Arabia, nel corso dei colloqui di ieri a Mosca Haftar avrebbe insistito sulle richieste di far entrare le sue truppe a Tripoli e di formare un governo di unità nazionale che ricevesse il voto di fiducia da parte del 14


parlamento di Tobruk. Il generale avrebbe anche chiesto un monitoraggio internazionale del cessate il fuoco senza la partecipazione della Turchia e chiesto il ritiro immediato dei mercenari "arrivati dalla Siria e dalla Turchia". In aggiunta avrebbe insistito sulla richiesta di avere l'incarico di comandante supremo delle Forze armate libiche. Non basta. La Turchia non può fare da mediatore nel processo di pace in Libia perché non è un attore neutrale. È questa, sempre secondo la ricostruzione di al-Arabiya, la posizione di Haftar, sui futuri colloqui con l’avversario sul campo. L’uomo forte della Cirenaica riporta la tv panaraba, “rifiuta che la Turchia faccia da mediatore e chiede che gli Stati mediatori siano neutrali ed abbiano come scopo la stabilità della Libia e non quello di rafforzare le milizie armate o dispiegare estremisti”. Sempre secondo l’emittente emiratina, Haftar ha informato la Russia delle condizioni per lui necessarie per un cessate il fuoco: “Un termine tra i 45 e i 90 giorni alle milizie per restituire tutte le armi e un comitato guidato dall’Esercito nazionale libico (Lna) (a lui fedele, ndr) che insieme all’Onu censisca le armi in mano alle milizie” Richieste che per Sarraj hanno l’acre sapore della capitolazione. Perché pretendere che la fiducia ad un nuovo governo di unità nazionale fosse votata, equivaleva a delegittimare il Governo di accordo nazionale, l’unico riconosciuto internazionalmente, che ha il voto di fiducia dell’unico parlamento riconosciuto dall’Onu, quello di Tripoli. Così come ricevere l’incarico di comandante supremo delle Forze armate libiche, significava che il generale avrebbe avuto sotto di sé anche le potenti milizie che sin qui l’hanno combattuto, a partire da quella di Misurata. Certo, quello del Generale bullo è un azzardo, ma un azzardo calcolato. Perché Haftar sa di poter contare sul sostegno, finanziario e militare, di Egitto, Emirati Arabi Uniti, Arabia Saudita, Giordania; un sostegno molto più pervasivo di quello garantito a 15


Sarraj da Turchia e Qatar. Haftar, concordano analisti e diplomatici, sa bene che a un tavolo negoziale prima o poi dovrà sedersi, ma vuole farlo da vincitore e non da pari. Ma se Haftar ha abbandonato il tavolo è perché sa che la pax russo-ottomana non era accettata dai suoi sponsor arabi, tutti delusi dall'accordo raggiunto fra russi e i loro nemici turchi. L'Egitto, innanzitutto, che in Libia vorrebbe creare una sua succursale economica: con il controllo dell'economia rimasto al governo di Tripoli, i generali del Cairo avrebbero avuto difficoltà ad allargare le loro attività economiche a tutta la Libia. L'Egitto di Sisi vuole creare uno stato-vassallo in Libia, guarda alla Libia come un forziere. E metà Libia non è uguale alla Libia intera. Poi Arabia Saudita e soprattutto gli Emirati: hanno pagato e armato Haftar perché combattesse in Libia un governo che ha al suo interno i Fratelli Musulmani. Anche qui: se gli Emirati e i sauditi (i più radicali sono i primi) non raggiungono l'obiettivo di far terra bruciata del governo Sarraj, con l'aiuto della Turchia il governo di Tripoli sarebbe diventato il terzo vertice di un triangolo Libia-Turchia-Qatar che le monarchie del Golfo considerano una minaccia mortale. Contro il Generale si è scagliato il Sultano di Ankara,

che accusa l’uomo forte

della Cirenaica, il “golpista”, di volere “compiere pulizia etnica” degli eredi dell’impero ottomano di cui “la Libia è stata una parte importante””, tuona Erdogan che martedì scorso ha ricevuto Sarraj a Istanbul. Haftar ha rifiutato di firmare la tregua. Prima ha detto di sì, ma poi ha lasciato Mosca, è scappato, dimostrando la sua intenzione di voler continuare la guerra. Questo gesto mostra il suo vero volto. Se la Turchia non fosse intervenuta – ha continuato il presidente turco parlando ai deputati del suo Akp – avrebbe preso il pieno controllo della Libia. Una cosa è certa: c’è solo un uomo che ha il potere di far “ragionare” il Generale 16


bullo. E’ l’uomo di Mosca, Vladimir Putin. Se i russi lo hanno lasciato partire per la Libia, qualcuno avanza questa spiegazione: perché accelerare un processo e portare il frutto della mediazione russo-turca così velocemente alla conferenza di Berlino organizzata da tedeschi e Onu? Dare ancora un po' di tempo ad Haftar, parlare con Emirati, Egitto, Arabia Saudita non farà altro che permettere alla Russia di consolidare meglio il suo ruolo centrale nella partita della Libia. E in tutto il Medio Oriente. Intanto, il governo tedesco ha ufficialmente confermato l'organizzazione della Conferenza della Libia domenica 19 a Berlino. L'ufficio del cancelliere, Angela Merkel, che ha diramato gli inviti, ha precisato che sono attesi rappresentanti in arrivo da Stati Uniti, Russia, Cina, Francia, Turchia, Regno Unito, Emirati, oltreché Italia. Saranno presenti anche Onu, Ue e Lega Araba. Al vertice sono stati anche invitati i capi delle due fazioni rivali, il premier del Gna libico, al-Serraj e il generale Haftar. Ma come fu per la inutile Conferenza di Palermo del novembre 2018, anche per quella di Berlino l’attesa è tutta sulla presenza del Generale bullo. Ma a decidere se il Generale bullo sarà tra i presenti, non dipenderà certo da Conte o dalla cancelliera Merkel. Per informazioni, rivolgersi a Mosca e al Cairo. Ed è stato proprio il pressing russo a convincere Haftar ad essere presente a Berlino. Quanto all’Italia, prova a non essere buttata fuori dalla partita libica. Ci prova Conte, ci riprova Di Maio, vagheggiando anche una guida italiana ad una missione di peacekeeping sotto egida Onu, modello Unifil in Libano. Non esiste una soluzione militare alla crisi libica, ripete come un mantra il duo Giuseppi&Giggino. Ma la realtà va in tutt’altra direzione. Perché in Libia l’unica “diplomazia” che va per la maggiore è la diplomazia di guerra. 17


Politica

Parliamo di Amministrative? Antonella GOLINELLI

Come avrete potuto facilmente arguire si vota in Emilia Romagna il 26 gennaio p.v. Si vota anche in Calabria quel giorno ma pare un dettaglio irrilevante. A parte l'inconsistenza della campagna elettorale quello che mi da noia è la dram18


matizzazione di queste amministrative. Partiamo da qui. Sembra che siamo l'ultimo baluardo della civiltà contro le orde dei barbari sanguinari. È vero che siamo e siamo sempre stati l'architrave della sinistra. Lo so bene. La mia famiglia è stanziale sullo stesso territorio da quasi nove secoli, sono ben radicata nella mia realtà, ho una conoscenza storica anche di tipo familiare. Dicevo, è vero che siamo e siamo sempre stati l'architrave, l'asse portante della sinistra italiana, ma santa pazienza! Sembra ci dobbiamo immolare su un'ara o che dobbiamo essere conquistati e liberati. #adesso andiamo piano con le conquiste. Ci siamo liberati da soli da un bel po' dall'ultima invasione e l'abbiamo fatto periodicamente nella storia. Quindi tranquilli che non abbiam bisogno. Nemmeno di immolarci sull'altare per la causa. Lasciate ben perdere. Siamo adulti e scolarizzati. Sappiamo leggere e interpretare e la cultura politica è molto diffusa da tanto tempo. Ogni volta formulo questo pensiero mi viene in mente la Rossanda e il suo libro La ragazza del secolo scorso. In questo testo la scrittrice racconta di aver chiuso qui una campagna elettorale nei primi anni 60. La signora si stupiva della competenza politica di “casalinghe e fruttivendoli”. Posso capire i preconcetti verso le casalinghe, che magari invece erano semplicemente lavoratrici stagionali (quindi sindacalizzate), ma i fruttivendoli? Mah. Torniamo a noi. La drammatizzazione. Compresi i confronti televisivi. Che poi non si fanno perché manca la candidata leghista. Apro e chiudo una parentesi. Qui la candidata è la Bongorzoni ma la campagna la fa Salvini. Che io dico: perché? Perché cancellare la candidata per portare lo scontro sul nazionale? Ma sarà mai che per le amministrative si facciano i confronti in tv come se fossero 19


politiche? Ma andiamo! Cerchiamo di essere seri! Non siamo nemmeno onorati di tanta attenzione. Certo che almeno stavolta i nomi si muovono. Ricordo che anni fa era una fatica improba farli venire. Ricordo una scritta che campeggiava in qualche festa de l'Unità “senza la base scordatevi le altezze”. Visto che un po' alla volta sono scesi dall'empireo? Dall'altra parte abbiamo il faccione barbuto sempre in primo piano mentre mangia, beve o bacia salumi di varia natura. Ma si potrà! È vero che qui si mangia e si beve bene (in riviera poi si esagera. Dovreste ringraziarci tutti. I lombardi vengono in spiaggia, perdono la testa e cadono i governi. Un monumento dovrete costruirci. Equestre) però ci devono essere dei limiti. Più che tour elettorale sembra un tour enogastronomico. Bar, ristoranti, pasticcerie e affini. A proposito di bar: avevano convocato un comizio in un bar a Casalecchio. Il titolare ha chiuso il bar. Come la vedete? Per #adesso mi fermo. Questo racconto lo scrivo a puntate.

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Politica e Migrazioni

A me nun me sta bene che no Antonella BUCCINI

Nella mia generazione, giusto per non scrivere ai miei tempi che mi fa antica assai, già alle elementari si somministravano modelli precisi di bontà e cattiveria. Tra l’altro, quando magari la maestra non ci sopportava più tanto o aveva altro da fare “i più bravi della classe” erano delegati a collocare i compagni, tenuti al più ossequioso silenzio, nelle due categorie, buoni e cattivi, divisi da una linea netta verticale alla lavagna. I più smaliziati si lasciavano corrompere dagli amici, dai prepotenti o dagli adulatori e cambiavano le posizioni, gli altri, registravano con perfidia ogni piccolo movimento e ti facevano perdere “il posto”. Così pure ogni bambino avrebbe diffidato degli indiani e riposto grandi aspettative nei cowboy. Quando arrivarono “Soldato blu” e “Il piccolo grande uomo” cogliemmo al volo la notizia: dovevamo invertire i giudizi. Per non parlare di babbo natale e della befana evapo21


rati con l’infanzia insieme al loro concentrato di bontà. Negli ultimi anni è arrivato il buonismo: atteggiamento di chi dimostra ingiustificata benevolenza e tolleranza, una delle possibili definizioni. In ogni caso il termine è sguainato, senza se senza ma, per tentare di ridicolizzare qualsiasi umana considerazione che confligga con la propria, di solito quella sovranista. Nutrire una certa perplessità nella netta demarcazione tra gli animi umani mi è sembrato alla fine un approccio più saggio. Mi sono regolata secondo un metro di valutazione orientato sulla complessità, almeno su quella alla mia portata. Dunque tutte queste chiacchiere perché alla fine stento a capire. E’ infatti notizia di questi giorni che circa 120 richiedenti asilo e titolari di permessi provvisori di protezione umanitaria sono stati licenziati da una delle più grandi aziende di logistica italiana. E dopo che la stessa azienda ha investito per tre anni sulla loro formazione. E’ solo una delle tante conseguenze del primo decreto sicurezza. Già. Perché tra l’altro, la normativa in questione ha cancellato la protezione umanitaria e con essa anche la possibilità di conversione in permessi di lavoro. L’azienda ha lamentato grande difficoltà, perché, oltre ad avere perso risorse economiche, ha difficoltà a reclutare italiani ormai indisponibili a svolgere le mansioni richieste di camionista o magazziniere. Questi giovani migranti sono quindi ripiombati nella clandestinità e, nell’impossibilità di un rimpatrio, sono destinati a ingrossare le fila di quei 600.000 che provano a sopravvivere nelle stazioni o ai margini delle periferie. Non saranno gli unici a vedere svanito un progetto di serenità e di integrazione. Del resto la distruzione del modello Riace, che aveva indicato un percorso legittimo ed efficace di gestione del fenomeno migratorio, ha prodotto analoghi effetti. Come se non bastasse, dopo che la Cassazione ha dichiarato leciti i fatti ascritti a Mimmo Lucano, un nuovo avviso di garanzia gli imputa il rilascio della carta di identità a una migrante senza la quale non avrebbe potuto far 22


curare il figlio neonato in una struttura sanitaria. Ecco demolire ogni strategia di integrazione, al di là dei buoni e dei cattivi e anche dei buonisti, dell’etica, dell’accoglienza, di Papa Bergoglio, del capitano e di Giorgia, mi sembra un’idiozia. Non so se sono buona o cattiva, sicuramente non voglio essere idiota. E intanto questo governo latita su questioni fondamentali che potrebbero contribuire a definirne finalmente un’identità. Mi viene in mente Simone, quel ragazzo di Torre Maura, che a un esponente di Casa Pound, a proposito dell’accanimento contro le minoranze, senza incertezze, disse: “a me nun me sta bene che no”.

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Politica

Un nuovo partito, non un partito nuovo Aldo AVALLONE

«Vinciamo in Emilia Romagna, e poi cambio tutto. Sciolgo il Pd e lancio un nuovo partito». Lo ha dichiarato a Repubblica il segretario del Pd, Nicola Zingaretti, qualche giorno fa. Parole coraggiose assolutamente condivisibili. Da tempo auspico la creazione a sinistra di un nuovo soggetto politico che raccolga, in maniera unitaria, tutte le diverse proposte che si collocano nell’area progressista e socialista. Ritengo che il nuovo soggetto debba avere come priorità il lavoro, per cui sarebbe importante, anche simbolicamente, che il nome contenesse la parola “laburista”. Ma, naturalmente, non è questa la necessità principale. 24


Il quadro politico sta mutando rapidamente. A destra, tra alti e bassi, si sta consolidando una coalizione a trazione leghista; il Movimento 5 Stelle è in evidente difficoltà in termini di progetto politico, per la verità mai stato troppo chiaro; difficoltà che si traduce in un sensibile calo di consenso. È difficile prevedere oggi cosa potrà accadere da quelle parti. Penso che Grillo non riuscirà a tenere unite ancora a lungo le due anime che compongono il Movimento: da un lato la posizione terzista di Di Maio, dall’altra i gruppi parlamentari che guardano con maggiore benevolenza all’attuale esperienza di governo. Dopo le numerose “fughe” individuali, non è da escludere una scissione vera e propria, soprattutto se, com’è probabile, le elezioni regionali in Emilia certificheranno una forte sconfitta. Se ciò dovesse accadere, il quadro politico cambierebbe da tripolare a bipolare, con la classica contrapposizione tra destra e sinistra. Per questo, per contrastare la destra peggiore che ci sia mai stata nel nostro Paese, la proposta di Zingaretti diviene decisiva. Occorre una forza unitaria con forti capacità di confronto con le diverse e variegate realtà che fanno riferimento, oggi, al mondo progressista: partiti, associazioni, Sardine. E, nonostante qualche segnale positivo riscontrato con la nuova leadership, questa forza non può essere l’attuale Partito Democratico. Ancora troppo vicina la segreteria Renzi con tutto quello che ne è conseguito. Ancora troppi uomini legati a un recente passato che non è stato certo edificante. Purtroppo le successive precisazioni di Zingaretti hanno spento gli entusiasmi: «Convoco il congresso con una proposta politica e organizzativa di radicale innovazione e apertura. In questi mesi la domanda politica è cresciuta, non diminuita. E noi dobbiamo aprirci e cambiare per raccoglierla. Non penso a un nuovo partito ma a un partito nuovo, che fa contare le persone ed è organizzato in ogni angolo del Paese». Non si tratta di una vera e propria marcia indietro ma di un rallentamento importante sulla costituzione di un nuovo soggetto politico davvero inclusivo e laburista. Vedremo nelle prossime set25


timane cosa accadrà. Intanto (14 gennaio n.d.r.) Zingaretti ha presentato un piano strategico in cinque punti per rilanciare l’azione del governo. Gli obiettivi che il PD porrà all’attenzione degli alleati riguardano:

la rivoluzione verde: un piano straordinario per raggiungere in 5-7 anni, il totale efficientamento energetico di tutti gli edifici pubblici;

la semplificazione burocratica: un piano per passare dall'Italia della burocrazia all'Italia semplice, per i cittadini e le imprese;

riduzione delle distanze sociali: un equity act per ridurre le distanze sociali;

sumentare la spesa per l'educazione: portare in cinque anni la spesa per la conoscenza a livelli Ocse, con un incremento annuo di 4 miliardi;

assistenza sociale: un piano per la salute, la cura e l'assistenza, per non lasciare soli i più deboli.

Si tratta di obiettivi ampiamente condivisibili con una forte caratterizzazione sociale sui quali si potrebbe trovare un’ampia convergenza per incamminarsi su quel percorso di rinnovamento indicato da Zingaretti. Per il momento, però, sono solo buoni propositi. Parole cui devono seguire atti concreti. A cominciare da uno svecchiamento reale dell’attuale classe dirigente del Partito. È giusto concedere al segretario un’apertura di credito ma fino a quando non riscontrerò una vera apertura, il “nuovo partito” resterà una delle tante dichiarazioni buttate lì per attirare l’attenzione dell’opinione pubblica e avere qualche titolo sui giornali. Mi auguro, vivamente, che Zingaretti e il PD mi smentiscano con i fatti. 26


Politica e Storia

Giorgio La Pira, agente segreto di Dio Giovan Giuseppe MENNELLA

Giorgio La Pira nacque a Pozzallo, in provincia di Siracusa, luogo più a Sud di Tunisi, nel 1904. Si diplomò in ragioneria a Messina nel 1921 e conseguì la maturità classica a Palermo nel 1922. In quel periodo ebbe come amici Salvatore Quasimodo, futuro premio Nobel per la letteratura, e Salvatore Pugliatti, che sarebbe diventato un importante giurista e Rettore dell’Università di Messina. Si iscrisse alla facoltà universitaria di Giurisprudenza a Messina. Nel 1924 si convertì alla fede religiosa e l’anno successivo divenne terziario domenicano. Nel 1926 si trasferì 27


all’Università di Firenze per seguire il professor Emilio Betti, relatore della sua tesi di diritto romano. Si laureò in quello stesso 1926 nell’ateneo della città toscana. Diventò professore supplente di diritto romano nell’Università di Firenze nel 1927 e professore ordinario nel 1934; tra i suoi studenti ci fu Franco Fortini. Nel 1939 fondò la rivista in lingua latina “Principi”, rivolta alla difesa dei diritti umani. In seguito alle sue critiche all’invasione della Polonia, la rivista fu soppressa dal regime fascista. Non si perse d’animo e nel 1943 creò il foglio clandestino “San Marco”, pure avversato dai fascisti. Nel luglio di quel 1943, appena caduto Mussolini, partecipò con una posizione di spicco ai lavori che portarono alla redazione del Codice di Camaldoli, importante documento su cui fu basata la politica sociale dei cattolici nel dopoguerra. Dopo il ritorno del regime fascista repubblicano e l’invasione dei tedeschi, fu costretto a fuggire prima a Siena e poi a Roma, per poi ritornare a Firenze nel 1945 dopo la Liberazione. Con Amintore Fanfani, Giuseppe Dossetti e Giuseppe Lazzati, il gruppo dei “professorini”, fondò nel dopoguerra la rivista “Cronache sociali”, caratterizzata dall’impegno dei cattolici per riforme che sollevassero le condizioni dei poveri e delle classi meno abbienti nella società italiana uscita martoriata dalla guerra. La Pira era il vero ideologo del gruppo, dall’alto della sua enorme cultura che spaziava in vari campi e aveva anche stretto numerosi contatti in tutti gli ambienti culturali. Fanfani era il politico che realizzava progetti e La Pira glielo riconobbe sempre, ma il rapporto tra i due era rispettivamente di maestro La Pira e allievo Fanfani. Nel 1946 La Pira e gli altri esponenti del gruppo di Dossetti furono eletti all’Assemblea Costituente. Fu inserito nella Commissione dei 75 che si occupò di redigere il progetto della nuova Costituzione della Repubblica. La sua opera si dispiegò, nell’ambito della prima sottocommissione, nella redazione dei principi fon28


damentali. Di essa si trova traccia nell’articolo 2 che è modellato sostanzialmente sulla sua proposta iniziale, “La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo, sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili e di solidarietà politica, economica e sociale”. La Pira ritenne, a ragione, che fosse indispensabile inserire nella Costituzione una specifica menzione dei diritti umani, prima volta in una legge fondamentale dell’Occidente, considerato che si usciva dal fascismo con la sua pretesa totalitaria di negare in radice l’esistenza di diritti originari dell’uomo anteriori alla nascita dello Stato. La Pira, come quasi tutti i costituenti, era stato innanzitutto un oppositore di ogni potere statale assoluto e così ha contribuito a scrivere una Carta fondamentale avanzatissima sul piano della tutela dei diritti, sia quelli individuali di libertà, sia quelli collettivi, sociali ed economici. Nelle elezioni per il primo Parlamento repubblicano, il 18 aprile 1948, fu eletto deputato nel Collegio Firenze-Pistoia. Nel 1948 fu Sottosegretario al Ministero del Lavoro e della Previdenza sociale, retto da Fanfani, nel V Governo De Gasperi, contribuendo al varo del famoso Piano INA Casa. Dal 1951 al 1957 e dal 1961 al 1965 fu Sindaco di Firenze. Come azioni concrete della sua sindacatura, si possono ricordare la ricostruzione dei ponti sull’Arno distrutti dai nazisti in fuga, la creazione del quartiere satellite dell’Isolotto che sarebbe assurto alla cronaca negli anni ’60 ’70 per la sua comunità di base di fedeli e per l’azione del prete progressista Don Enzo Mazzi, l’impostazione del quartiere Sorgane, la costruzione di moltissime case popolari, la riedificazione del teatro comunale, la costruzione di molte scuole, per cui a Firenze si prevenne per oltre dieci anni la crisi dell’edilizia scolastica. Per il suo interventismo in campo economico, per salvare le industrie in crisi Pignone e Galileo, fu accusato da vari esponenti po29


litici cattolici e da Luigi Sturzo di finire in un “marxismo spurio”, contrario ai principi di non statalismo e interclassismo della DC. Lui rispose così: “10.000 disoccupati, 3.000 sfrattati, 17.000 libretti di povertà, cosa deve fare il Sindaco? Può lavarsi le mani dicendo a tutti, scusate, non posso interessarmi di voi perché non sono statalista ma interclassista?”. Si ricorda la scena del film di Francesco Rosi “Il caso Mattei”, in cui La Pira tiene Enrico Mattei per moltissimo tempo a telefono per convincerlo a salvare la Pignone in crisi perché il salvataggio gli è stato chiesto dallo Spirito Santo. Grazie al prestigio della sua enorme cultura e ai suoi contatti con i personaggi più significativi del suo tempo, La Pira, nel corso dei due mandati, fece di Firenze uno straordinario luogo di incontro per uomini e donne provenienti da tutto il mondo, indipendentemente dalla loro collocazione politica, ideologica, religiosa e razziale. Non volle fare il Ministro o il Sottosegretario come uomo di potere, ma volle fare una politica diversa, senza confini di appartenenze e sempre improntata a una grande visionarietà e grandi intuizioni. Queste iniziative potevano essere prese da lui e non da qualche altro Sindaco anche perché Firenze aveva un prestigio culturale e una fama che la rendevano conosciuta in tutto il mondo. Inoltre, in città agiva un fertile, vivo e progressista mondo cattolico, dovuto all’azione intrapresa già dagli anni ’30 dal suo vescovo Elia Dalla Costa che era anche suo amico personale. Il vescovo aveva chiuso le finestre del Palazzo arcivescovile in faccia a Hitler, durante la famosa visita a Firenze, dicendo che non si potevano venerare “altre croci se non quella di Cristo”. Durante la guerra, in nome dei diritti sacri dell’uomo, aveva protetto i fuggiaschi e i deboli, soprattutto si era attivato a favore degli ebrei fiorentini e dei profughi in città, organizzando un comitato cittadino. Tra coloro che collaborarono con lui per salvare gli ebrei ci fu anche Gino Bartali. Nel 1959 30


aprì le porte dell’Arcivescovato agli operai della Galileo caricati dalla polizia. Soprattutto ebbe dei sacerdoti discepoli, Silvano Piovanelli, Lorenzo Milani, Ernesto Balducci, Enzo Mazzi, don Giovanni Franzoni, che ebbero un ruolo importante nella storia della chiesa fiorentina e italiana nel XX Secolo attraverso la loro missione di frontiera, rivolta verso le classi più povere e disagiate delle periferie e verso i detenuti. La Pira fu sempre molto orgoglioso di essere rimasto Sindaco di Firenze ma rivendicò la possibilità che anche come Sindaco si proiettasse utilmente e beneficamente nella politica mondiale. Credeva nel ruolo nel mondo di Firenze ma anche nel ruolo importante e apportatore di pace e dialogo di tutte le città e di tutte le comunità cittadine. In fondo, l’Italia è il Paese delle cento città e ogni città ha la sua storia; la dimensione cittadina poteva essere un luogo di incontro e di dialogo e non di una politica di pura forza e potenza come quella delle Nazioni una contro l’altra armate. Nel suo partito di riferimento a livello nazionale, la Democrazia Cristiana, non ebbe dei veri e propri nemici, piuttosto dei critici, a cominciare da Alcide De Gasperi che lo considerava troppo visionario. Aldo Moro e Giulio Andreotti non condivisero mai le sue visioni profetiche ma seppero apprezzare il realismo politico che ogni tanto sfoderava. Amintore Fanfani gli fu grande amico, anche se litigarono spesso, come si fa tra veri amici. Non ebbe mai buoni rapporti con i partiti e le personalità laiche, come Montanelli. Con l’estrema destra si scontrò spesso, tanto che “Il Borghese” lo definì un comunista di sacrestia. Nel 1952 organizzò a Firenze gli “Incontri internazionali mediterranei della pace e della civiltà cristiana”. L’intenzione era di raggiungere dei punti di incontro e di comprensione che la politica ufficiale non si poteva permettere. L’epoca era quella più buia della Guerra fredda, un periodo politicamente difficile in campo interna31


zionale, tuttavia gli “Incontri” ebbero un successo insperato. Parteciparono davvero tutti gli Stati del Mediterraneo, anche gli israeliani e gli arabi come lo ricordava sempre lo stesso Shimon Peres, presente anche lui a Firenze in quei giorni. Si litigava anche ma ci s’incontrava e si discuteva, con il piacere di stare insieme, anche da avversari. Il Sindaco amava dire che “c’era allegrezza e zuffa”. Seduti insieme intorno a un tavolo, si potevano risolvere tante questioni, l’importante era non demonizzare i nemici. Quando giungeva La Pira per partecipare agli incontri, il grido che si levava dai delegati era “Il Sindaco viene! Il Sindaco viene!”. Personalità importanti di tutto il mondo gli prestavano omaggio, considerandolo una figura unica, un supremo idealista, ma anche un politico abile. E si può dire che molti primi ministri e ministri degli esteri che intervennero a Firenze sono stati dimenticati, ma La Pira è ancora ricordato da tutti. Le circostanze della vita avevano portato quel piccolo uomo da Pozzallo, più a sud di Tunisi, a Firenze e nella città universale, per storia e monumenti, lui si era identificato e l’aveva utilizzata per spiccare il salto verso la risonanza mondiale. Diventò fiorentino in una Firenze che, per le tante ragioni già spiegate, era una città straordinaria in quegli anni ’50 e ’60, per la presenza di personaggi come Elia Dalla Costa, padre Balducci, don Milani, don Franzoni. In effetti, con gli “Incontri”, aveva anche unito la sua Sicilia, isola al centro del Mediterraneo, con Firenze resa anch’essa mediterranea e al centro di iniziative dal respiro mondiale. Gli fu a cuore la questione del Mediterraneo, con tutte le tensioni politiche e militari dell’epoca, soprattutto il dissidio tra arabi e israeliani. Erano presenti ebrei, arabi, cristiani e, secondo il Sindaco, Abramo era la radice comune di tutti quei congressisti appartenenti appunto alle tre religioni abramitiche. Il patriarca era molto caro a La Pira che, come in altre cose, sarebbe stato sempre influenzato dalla liturgia cattolica che definisce Abramo come “pater 32


omnium credentium” Nella famiglia abramitica, come in tutte le famiglie, si può litigare ma poi si fa la pace. E la pace tra arabi e israeliani, non disgiunta dalla risoluzione del problema di far nascere uno Stato palestinese, era quella che gli premeva di più. Per la pace in Medio Oriente si sarebbe sempre impegnato al massimo, in quegli Incontri del 1952 come in altre sue iniziative successive. Nel 1955 La Pira organizzò in città un confronto tra i Sindaci delle città del Patto di Varsavia e quelle della NATO che, alla fine dei colloqui, firmarono a Palazzo Vecchio un patto di amicizia. Era stato convinto a farlo, dopo molti anni di colloqui, da Romano Bilenchi, altra interessante figura intellettuale della Firenze dell’epoca. Bilenchi era romanziere, poeta, giornalista e, per un periodo, direttore dell’allora importante giornale “Nuovo ordine”, vicino al Partito Comunista, ma sempre con posizioni di indipendenza di giudizio. Fu tra le personalità fiorentine di sinistra, vicine al Sindaco, che cercò sempre di dialogare con il mondo cattolico. Dal 1958 si svolsero quattro colloqui mediterranei, nel 1958, 1960, 1961 e 1964, rispettivamente dedicati alla guerra d’Algeria, alla questione arabo-israeliana, al rapporto tra Mediterraneo e Africa nera e sui popoli ancora oppressi dal regime coloniale come Angola e Mozambico. I contatti si svolsero sempre con la partecipazione di tutte le parti in causa e in conflitto e videro la presenza di personalità come Martin Buber e Leopold Senghor, allora Presidente del Senegal. Si sarebbe dovuto tenere un quinto colloquio per il 1965 che però fu annullato per la crisi del Comune e l’elezione di un nuovo Sindaco. Nel 1959 ci fu il famoso viaggio a Mosca, dove si recò su invito del Soviet Supremo dell’URSS. La DC e la Chiesa ovviamente parteggiavano per gli USA e per il mondo occidentale e osteggiarono in qualche modo i passi precedenti di dialogo del Sindaco di Firenze con l’URSS. Già nel 1955 era stato invitato ad andare dal Sindaco di Mosca, nell’ambito del Congresso delle città dell’ovest e dell’est, ma i 33


tempi non erano ancora maturi. Andò in vari pellegrinaggi a Fatima, a Lourdes e in altri Santuari mariani, si consigliò con esponenti autorevoli della cultura cattolica per fare il grande passo. Fu decisivo il cambio di Papa nel 1958, da Pio XII a Giovanni XXIII, anche se nei primi tempi di Papa Giovanni le gerarchie ecclesiastiche conservatrici della Curia romana, con in testa i cardinali Ottaviani e Tardini, continuarono a ostacolarlo. Fu importante l’abilità politica, perché non disse mai nulla contro la NATO o contro il mondo occidentale. Confermò di essere un anticomunista, ma anche un realista, perché il comunismo non si doveva battere con la guerra, ma con le idee e la propaganda, poiché il comunismo, a sua volta, stava facendo breccia in molte menti e in molti cuori delle masse popolari proprio con le idee. Quando il viaggio fu deciso e intrapreso, portò con sé, per donarli alle personalità che avrebbe incontrato a Mosca, santini con l’Annunciazione del Beato Angelico e di Santa Teresa di Lisieaux. Non si fece coinvolgere in manifestazioni di omaggio e in festeggiamenti che le autorità sovietiche di solito riservavano alle personalità occidentali in visita, di cui volevano accattivarsi l’amicizia e la condiscendenza. Per i primi due giorni non si fece trovare e andò in preghiera in santuari ortodossi. Volle far capire che non era andato come un compiacente amico, come un compagno di strada dei comunisti, ma per avviare contatti da pari a pari, nel segno della buona volontà reciproca per fare passi avanti verso il disgelo e una pace e collaborazione durature. Poi tenne il discorso davanti al Soviet Supremo dell’URSS, in cui esordì affermando che in quel momento duemila claustrali stavano pregando per tutti loro. Era la politica, anche di alto livello, che si sposava con l’utopia della volontà e dell’azione. Parlò di fede e di religione nel sancta sanctorum del socialismo e dell’ateismo. L’ultimo giorno del viaggio, scrisse una lettera al Soviet Supremo 34


protestando per un articolo della Pravda, uscito il giorno precedente, in cui si attaccava la religione. Le autorità sovietiche lo rassicurarono dicendo che non era indirizzato contro di lui, anche se il sospetto del contrario rimase forte. I sovietici lo considerarono un uomo notevole, di riferimento, lo ascoltarono con attenzione, anche perché aveva avuto l’appoggio personale di Kruscev, con cui ebbe una interessante corrispondenza. Quando Kruscev morì, la vedova gli inviò una lettera in cui disse che il marito si era ricordato di lui prima di morire. Una volta Kruscev gli scrisse una lettera di sei pagine, quasi giustificandosi per l’esplosione di una bomba nucleare sovietica sperimentale. Il Primo Ministro disse di non condividere le convinzioni religiose di La Pira, ma di apprezzare la forza e la sicurezza con cui esprimeva le sue idee, che l’URSS era stata costretta a incrementare gli esperimenti nucleari per l’aggressività delle potenze occidentali, ma dicendosi totalmente d’accordo con l’auspicio espresso anche da La Pira di procedere a trattative per il disarmo nucleare. I problemi sollevati da La Pira sul disarmo sessanta anni fa denotano la sua preveggenza e sono ancora all’ordine del giorno, visto che solo nel luglio 2018 è stata firmata una convenzione ONU per il disarmo nucleare, ma senza la partecipazione di alcune delle più importanti potenze atomiche. Comunque, non era solo un profeta e un visionario, ma anche un politico concreto, capace di presentare proposte interessanti per la risoluzione di conflitti, come si vedrà per altri due episodi di cui fu protagonista e che lo fanno identificare come una sorta di agente segreto, un agente segreto di Dio. Infatti, nel 1965 andò ad Hanoi, in piena guerra del Vietnam, per costruire una proposta di pace che, con l’avallo di Ho Chi Min, sarebbe arrivata sul tavolo del Congresso USA, del Dipartimento di Stato e del Presidente Johnson. Nel 1965 tutte le parti impegnate nella guerra in Vietnam erano stanche e cercava35


no la pace, ma la guerra continuava e attraversava uno dei periodi più duri e cruenti da quando era iniziata. Nell’aprile si svolse a Firenze, al Forte del Belvedere, un simposio internazionale sul tema organizzato da La Pira, con la partecipazione di esponenti statunitensi, vietnamiti e di altre nazioni. Gli atti del congresso furono inviati al governo di Hanoi e, come conseguenza, ne sortì un formale invito a La Pira da parte di Ho Chi Min di recarsi in Vietnam per colloqui. La Pira era già ben conosciuto dal gruppo dirigente del Nord Vietnam, perché era intercorso un lungo carteggio tra lui e Ho Chi Min, risalente addirittura fino all’anno 1952, ben prima anche della sconfitta dei francesi a Dien Bien Phu e degli accordi di Ginevra del 1954. Ciò denota la lungimiranza di La Pira, che aveva compreso, ben prima di ogni altro politico occidentale, in epoca non sospetta, quanto sarebbe diventato determinante avere buoni rapporti con il Nord Vietnam. Il viaggio fu programmato e intrapreso e fu nello stesso tempo avventuroso e divertente, con aerei improbabili presi ai quattro angoli del mondo, come testimoniato dallo stesso La Pira e dai suoi collaboratori, tra cui l’allora giovanissimo e futuro Sindaco di Firenze negli anni ‘90 Mario Primicerio, che ci scrisse un libro. Iniziò a Varsavia e poi proseguì a Mosca, dove la delegazione fiorentina fu presa in carico dai vietnamiti. Proseguì attraverso una Cina che iniziava a essere destabilizzata dalla Rivoluzione culturale. Giunti ad Hanoi, dopo incontri preliminari con dirigenti politici vietnamiti di livello intermedio, si svolse il colloquio determinante tra La Pira e Ho Chi Min. La Pira regalò l’immagine della Madonna in maestà di Giotto a Ho Chi Min il quale, dal canto suo, disse che erano entrambi due poeti e, consapevole del ruolo e del prestigio acquisito in tanti anni di iniziative dall’interlocutore occidentale, gli formulò alcune proposte per avviare colloqui ufficiali di pace con gli americani. Le proposte erano: 1) cessazione dei bombardamenti sul Nord Vietnam, 2) ricono36


scimento del Fronte di Liberazione Nazionale vietnamita, 3) ottemperanza degli accordi di pace di Ginevra 1954 e 4) inizio del ritiro delle truppe americane. Il pacchetto delle condizioni vietnamite fu poi portato negli USA tramite Amintore Fanfani e giunse sul tavolo delle autorità americane, dal Congresso al Dipartimento di Stato al Presidente Johnson. Forse i tempi non erano maturi, forse, anzi certamente, ci fu una fuga prematura di notizie per colpa degli ambienti più conservatori e guerrafondai americani, ma quella volta non si riuscì ad andare verso colloqui di pace. Il tempo e la Storia avrebbero dimostrato che dieci anni e centinaia di migliaia di vittime dopo, la pace fu conclusa ugualmente e a condizioni ancora meno favorevoli di quelle che nel 1965 Giorgio La Pira era riuscito a farsi offrire direttamente da Ho Chi Min. Quel viaggio e quel colloquio non furono la visione di un pazzo, ma una cosa realistica. L’opera di La Pira fu atipica rispetto alla diplomazia classica, nel senso che fu un profeta con lo sguardo rivolto in giro a osservare tutti e a parlare con tutti. Fu un uomo del tempo della Guerra fredda che seppe vedere oltre la Guerra fredda, quindi attualissimo ancora oggi. O magari potrebbe essere definito un agente segreto di Dio, vista la proposta di pace che riuscì a ottenere in Vietnam dopo un viaggio semisegreto e avventuroso e visto che, forse, era stata dovuta a lui anche la proposta segreta di Fanfani per risolvere la crisi dei missili di Cuba nel 1962. Vale a dire lo scambio segreto tra il ritiro palese e immediato dei missili sovietici da Cuba e il ritiro nascosto e differito dei missili americani puntati sull’URSS dalle basi nella Turchia settentrionale e da quelle che si stavano predisponendo nell’Italia meridionale. 37


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