Numero 34 del 3 marzo 2020
Pausa di riflessione
Sommario
l’Editoriale dell’Editore/Pausa di riflessione pag. 3 di Fabio CHIAVOLINI l’Editoriale del Direttore/Del Coronavirus, Renzi e altre storie - pag. 7 di Aldo AVALLONE Libia, il buco nell’acqua di “Giggino l’ammiraglio” - pag. 10 di Umberto DE GIOVANNANGELI
L’eccidio di Porzus - pag. 18 di Giovan Giuseppe MENNELLA
Il tassista innamorato - pag. 26 di Antonella BUCCINI
The Divide (parte seconda). L’illusione dello sviluppo - pag. 29 di Raffaele FLAMINIO Un fumetto internazionale: “I gatti del Louvre” di Taiyo Matsumoto - pag. 33 di Anita NAPOLITANO
Europa, il virus suprematista - pag. 36 DE GIOVANNANGELI
2
di Umberto
l’Editoriale dell’Editore
Pausa di riflessione Fabio CHIAVOLINI
Quando ho iniziato a scrivere questo editoriale, le statistiche della nostra piattaforma di pubblicazione davano alcuni importanti risultati. Poi è intervenuto l’aggiornamento mensile e mi si sono strabuzzati gli occhi. Abbiamo una media, dal Numero Zero al Numero 33, di 39.586 lettori utenti unici abituali – che, cioè, leggono tre o più numeri de l’Unità Laburista al mese: di questi, mediamente 9.315 leggono l’intero numero, mentre gli altri leggono due o più articoli del numero stesso. E non conteggiamo, nel novero, i lettori occasionali di un intero numero o di un singolo articolo. 3
Una cifra enorme, che ci rafforza nella decisione che abbiamo preso. Perché, da oggi, l’Unità Laburista interrompe le pubblicazioni per due mesi. Siamo una testata online aperiodica ma, per lungo tempo, siamo riusciti a garantire due o più numeri a settimana. L’Unità Laburista è nata come un prodotto artigianale e volontaristico: non abbiamo sponsor, non pubblichiamo pubblicità, non abbiamo finanziatori – né palesi, né occulti – il lavoro svolto da ognuno di noi è stato sinora assolutamente gratuito e volontario. Ciò andava bene per la testata degli esordi, quella che faceva 6-8.000 lettori utenti unici medi e, quando superava i 10.000, si faceva festa: oggi, un numero da 25.000 lettori utenti unici viene redazionalmente giudicato un mezzo fallimento. Quella testata degli esordi poteva permettersi di fare un po’ quel che voleva: questa testata, con una tale diffusione di massa (e non possiamo assolutamente sapere quanti numeri vengano ricondivisi autonomamente dai lettori via mail, app di comunicazione ed altri canali social) ha tutto un altro portato. Da una grande diffusione, una grande responsabilità – parafrasando un noto detto. Il problema è che ogni numero deve passare necessariamente da chi vi sta scrivendo, che ne fa editing, grafica, impaginazione e viralizzazione: per motivi personali, il tempo a mia disposizione è sempre minore e, quindi, la testata ha dovuto ridurre le uscite prima ad una alla settimana, poi ad una ogni dieci giorni e, ultimamente, ad una ogni quindici giorni (e non posso farmi aiutare dalla mia Redazione personale, per motivi troppo lunghi da spiegare): un impegno gravoso, di cinque/sei ore per ogni numero più sei/sette ore sparse nella settimana per la gestione tecnica della piattaforma, per il quale trovare un sostituto – che sia disposto a prestare gratuitamente la propria opera per quella che è a tutti gli effetti una mezza settimana di lavoro – è impresa difficile, di questi tempi. 4
In taluni casi, numeri programmati per una data si sono dovuti spostare in là di alcuni giorni, costringendo alcuni dei giornalisti ad un’attualizzazione degli articoli che erano già stati scritti. No: una testata come l’Unità Laburista non si può permettere di operare in condizioni siffatte: i lettori non hanno contezza di queste difficoltà – ma noi sì. Pensate cosa succederebbe se m’infortunassi durante il mio quotidiano viaggio andata-ritorno di cinque ore per Milano o se – facciamo le corna – mi beccassi il SARS-CoV2: la testata si fermerebbe, senza una spiegazione e di colpo. Meglio, allora, prendere atto che siamo arrivati alla più classica delle “crisi di crescita” e sospendere le pubblicazioni ora che siamo al massimo della nostra crescita sostenibile (ed anche qualcosa oltre). Ci fermiamo per due mesi: in questo tempo tratteremo forme di funding etico che siano in grado di sostenere l’ulteriore crescita della testata, la sua trasformazione in periodico, l’assunzione di un editor/impaginatore professionista ed un minimo di rimborso dignitoso delle spese ai giornalisti (che in questo momento non ricevono nemmeno quello e se le pagano ogni di tasca propria). I contatti per reperire tali fondi sono già in essere: speriamo bene. In poche parole ed usando – ahimè! – l’arido gergo amministrativo: l’Unità Laburista deve trasformarsi da un prodotto giornalistico artigianale ad uno industriale, in primis per rispetto dei propri utenti. Se riusciremo nell’intento, torneremo a pubblicare e siamo certi che troveremo lì tutti i nostri affezionati lettori. Altrimenti, ci resterà la soddisfazione di aver dimostrato come un pugno di Compagne e Compagni, determinati e qualificati professionalmente nonché politicamente, siano stati in grado di reggere un anno di pubblicazione di una testata che ha saputo parlare in chiave laburista a tutte le anime della Sinistra, ivi inclusi (e so5
prattutto) gli “abitanti del bosco” e le Sardine. Comunque, non sarà stato poco. Augurateci in bocca al lupo: noi proveremo, con tutte le nostre forze, a ridarvi l’Unità Laburista nel minor tempo possibile, più forte e libera che mai. Arrivederci a presto. Laburisti sempre!
6
l’Editoriale del Direttore
Del coronavirus, Renzi e altre storie Aldo AVALLONE
Il coronavirus sta fagocitando l’informazione nazionale. Non ho le competenze necessarie per esprimere un parere sull’epidemia che ha colpito il nostro Paese e che, al di là del fattore sanitario, pure importantissimo, sta mettendo in ginocchio un’economia che non è che già prima viaggiasse a pieno ritmo. Seguo le indicazioni delle autorità sanitarie e affronto l’emergenza in maniera razionale, l’unica che ci permetterà, mi auguro in tempi brevi, di uscire fuori dal tunnel. Spero, altresì, che il governo intervenga con misure di sostegno all’economia, indirizzate soprattutto a quelle categorie di lavoratori maggiormente colpiti quali, ad esempio, i gestori di strutture turistiche e commerciali. Un’ultima annotazione riguardo alla gestione della crisi. La diversità delle modali7
tà con cui le Regioni, che hanno ad oggi competenza in materia sanitaria, hanno affrontato l’epidemia mette in discussione la gestione decentrata di un sistema vitale per la salute dei cittadini. Nel caso in questione, è apparso evidente che una direzione centralizzata avrebbe evitato disparità di misure e aiutato a governare meglio la crisi. Non è questa la sede né il momento per una discussione approfondita, assolutamente necessaria prima di prendere decisioni così rilevanti e che interessano il dettato costituzionale, ma penso che valga la pena proporre una riflessione, da portare avanti nei prossimi mesi, sul tema di una sanità pubblica gestita a livello di governo nazionale. Eppure, in queste evidenti difficoltà, emerge una notizia positiva: il leader dei vivaisti (rubo volentieri questa definizione alla nostra Golinelli, cui è doveroso riconoscere la primogenitura) ha smesso di rompere le balle a tutti con le sue continue esternazioni, un giorno sì e l’altro pure. Per gli italiani, la prescrizione è solo quella medica e il suo stare dentro o fuori dal governo e dalla maggioranza interessa un numero di cittadini sempre minore. Un sondaggio IPSOS del 25 febbraio ci fornisce un quadro aggiornato della percezione che gli italiani hanno della situazione politica attuale. Un alto numero di intervistati, il 41 per cento, ritiene che le fratture delle ultime settimane nella maggioranza che sostiene il governo potrebbero portare alla caduta dell’esecutivo. Alla domanda su chi ritengano il responsabile maggiore di queste tensioni, il 42 per cento ha risposto Renzi. Seguono con percentuali irrisorie: Conte (7%), Bonafede (6%), Zingaretti (3%). Un’alta percentuale di intervistati (31%) non si è espressa affatto. Appare evidente che la responsabilità di un’eventuale crisi di governo ricadrebbe in massima parte sul leader dei vivaisti, mentre l’alto numero di coloro che non si sono pronunciati denota una notevole indifferenza, se non di insofferenza, nei confronti dell’argomento. 8
Il medesimo sondaggio ha interrogato gli italiani su quale esponente politico ritenessero stesse mantenendo l’atteggiamento più responsabile rispetto all’azione e alla tenuta del governo. Le risposte confermano quanto visto in precedenza. Per il 25% degli intervistati il politico più responsabile è il premier Conte, seguito da Zingaretti (9%), Bonafede (5%) e Renzi con appena il 3%. Ben il 55 per cento, non sa o non si esprime. Che cosa accadrà a livello politico nelle prossime settimane e nei prossimi mesi, al momento è difficile prevederlo. La gestione della crisi dovuta al coronavirus e il contenimento o meno dell’epidemia, diventano fattori importanti anche nel prosieguo dell’attività del governo. È evidente che serve stabilità. In questi frangenti occorre la massima coesione e nessuna forza politica potrà assumersi l’onere di creare ulteriori tensioni, (a parte Salvini, ma quello è irresponsabilmente irrecuperabile). Il referendum confermativo del 29 marzo prossimo sul taglio dei parlamentari rappresenterà un primo snodo per comprendere l’evoluzione della situazione. Dovessero prevalere i no, in casa grillina le tensioni salirebbero alle stelle. Comunque, da antica formazione marxista, personalmente ritengo che la partita si giocherà, come sempre, sui temi economici. Le misure, da concordare naturalmente con l’Europa, con le quali il governo proverà a fronteggiare un probabile calo del PIL saranno decisive per la tenuta dell’esecutivo stesso.
9
Esteri
Libia, il buco nell’acqua “Giggino l’ammiraglio”
di
Umberto DE GIOVANNANGELI
Dilettanti allo sbaraglio. Venditori di fumo spacciato per grande azione diplomatica. L’ultimo buco nell’acqua dell’”ammiraglio” Di Maio. Una missione nata morta: quella che avrebbe dovuto sostituire l’operazione “Sophia” per contrastare i trafficanti di esseri umani e far rispettare l’embargo Onu sulle armi in Libia. Il pia10
no proposto dall'Unione europea "per vietare il flusso di armi in Libia fallirà nella sua forma attuale, in particolare sulle frontiere terrestri e aeree nella regione orientale". Lo dichiara in una nota il ministero degli Esteri del Governo di accordo nazionale libico di Tripoli, guidato da Fayez al-Sarraj. "Il governo di accordo nazionale - spiega la diplomazia libica - ha ripetutamente chiesto per anni la rigorosa attuazione delle risoluzioni del Consiglio di sicurezza che hanno vietato il flusso illegale di armi nel nostro Paese". Tripoli rivendica inoltre il suo "diritto di continuare le sue alleanze militari aperte attraverso canali legittimi". Il che vuol dire continuare a ricevere armi dalla Turchia. "La situazione sul terreno in Libia resta fragile, la tregua viene violata in continuazione. Oggi (ieri, ndr) c'è stato un attacco al porto di Tripoli". Lo ha detto l'inviato speciale dell'Onu Ghassan Salamè dopo il secondo round di colloqui tra il governo di al-Sarraj e rappresentanti delle forze del generale Haftar. "Fino a che la tregua continuerà ad essere violata, come oggi contro il porto di Tripoli, è molto molto difficile pensare a un dialogo e un negoziato tra le due parti", ha sottolineato Salamè , ricordando che "dal 19 gennaio ci sono state violazioni dell'embargo sulla vendita di armi alla Libia e sull'invio di mercenari". D’altro canto, L’inefficacia dell’Onu nel far rispettare il proprio divieto di vendere armi alla Libia è dovuta al fatto che nel corso degli anni la guerra libica è diventata sempre più una guerra di altri, con il coinvolgimento di Paesi stranieri che sono membri permanenti con potere di veto del Consiglio di Sicurezza dell’Onu, o che sono da loro protetti: il potere di veto è quella cosa che permette a Francia, Regno Unito, Stati Uniti, Cina e Russia di bloccare unilateralmente qualsiasi risoluzione del Consiglio, senza bisogno di avere la maggioranza dei voti. Al momento ci sono almeno due Paesi con potere di veto coinvolti direttamente nella guerra in Libia: la Russia e la Francia, 11
che appoggiano entrambi il maresciallo Khalifa Haftar. Il generale di Bengasi è sostenuto anche dagli Emirati Arabi Uniti, accusati di essere i responsabili dell’attacco al centro di detenzione vicino a Tripoli dello scorso luglio e individuati da molti come i maggiori violatori dell’embargo sulla vendita delle armi alla Libia. Dopo il bombardamento di Tripoli, di Libia ha parlato il presidente turco Recep Tayyip Erdogan, che ha detto di appoggiare la decisione del governo Sarraj di ritirarsi dai colloqui del comitato militare: "È stato un passo importante, la Turchia continua a restare dalla parte del governo legittimo della Libia a Tripoli". Erdogan ha aggiunto per la prima volta che "se un accordo giusto non potrà essere raggiunto attraverso i negoziati internazionali, sosterremo la legittima amministrazione della Libia nel prendere il controllo dell'intero Paese" contro le forze di Khalifa Haftar. Come dire che Ankara sarebbe pronta a un'offensiva militare contro le postazioni tenute da Haftar. Tutto accade il giorno dopo che un drone turco è stato abbattuto nell'area di Ain Zara, alle porte di Tripoli dall'autoproclamato Esercito nazionale libico (Lna). Secondo il generale Mabrouk al Ghazwi il drone era in missione sull'area da cui erano partiti i colpi sparati dalle forze del generale Haftar contro il porto della capitale. Nell'attacco sono stati uccisi tre civili e almeno altri cinque sono rimasti feriti. Il comando generale dell'Esercito della Cirenaica ha rivendicato l'attacco sostenendo di aver "colpito un deposito di armi e munizioni" e di aver "impedito l'arrivo di mercenari siriani". "L'attacco al porto di Tripoli avrebbe potuto portare a un disastro umanitario e ambientale e avrà un impatto significativo su una regione affollata come Tripoli", ha dichiarato in una nota invece il presidente della Noc, la compagnia petrolifera libica, Mustafa Sanalla. "La città non ha strutture operative per lo stoccaggio del carburante in quanto i serbatoi principali della capitale è stato e12
vacuato a causa dei combattimenti nell'area della strada verso l'aeroporto, dove si trova la struttura. Le conseguenze saranno immediate: ospedali, scuole, centrali elettriche e altri servizi vitali verranno interrotti", ha aggiunto. I razzi sono caduti a pochi metri da una delle petroliere impegnate nella fornitura di gas gpl alla capitale. "Il bombardamento poteva avere conseguenze catastrofiche", ha dichiarato Samalla, che ha fatto ritirare due navi dalla zona per portarle in acque sicure. Al Sarraj, per risposta, ha deciso di sospendere i colloqui 5+5 di Ginevra decisi alla Conferenza di Berlino per monitorare la tregua di cui, a questo punto, rimane ben poco. Dal 2011 gli ispettori dell’Onu hanno rilevato violazioni sistematiche dell’embargo sulla vendita di armi da parte di numerosi Paesi stranieri, ha scritto il New York Times, e le hanno comunicate al Consiglio di Sicurezza. Finora però le uniche due persone sanzionate per la loro azione nella guerra libica sono stati due cittadini eritrei, accusati nel 2018 di traffico di esseri umani. E cose non sono cambiate nemmeno con l’incontro sulla Libia tenuto a gennaio a Berlino, nel quale i leader presenti hanno firmato una dichiarazione che chiedeva una tregua nei combattimenti e confermava il divieto della vendita delle armi alle fazioni che combattono la guerra libica. Poco dopo l’incontro, in Libia sono arrivate nuove armi, probabilmente in preparazione a una nuova serie di attacchi e contrattacchi: tra le altre cose, sono arrivate nelle acque libiche navi da guerra turche cariche di veicoli corazzati destinati al governo di Sarraj, mentre nella Libia orientale decine di aerei forse carichi di rifornimenti per Haftar sono atterrati in una base controllata dagli Emirati Arabi Uniti. Sia la Turchia che gli Emirati Arabi Uniti sono tra i firmatari della dichiarazione di Berlino. Insomma, firmata la dichiarazione, scoperto l’inganno. “Spero che la nuo13
va missione” di controllo dell’embargo Onu sulla Libia “possa essere lanciata al prossimo consiglio Affari esteri, ed essere operativa da fine marzo” ha affermato nei giorni scorso l’Alto rappresentante per la politica estera dell’Unione europea, Josep Borrell, chiarendo che è stato trovato “un accordo politico” e che ora saranno gli ambasciatori, ed il Comitato militare Ue, presieduto dal generale Claudio Graziano, a lavorare sui dettagli e sulle regole di ingaggio. “Di fatto quindi nessuno controllerà i cargo che portano armi in Libia per almeno un altro mese e mezzo, mentre non sembrano esserci singoli Stati pronti a far rispettare l’embargo con le proprie forze navali in attesa della flotta Ue”, annota Gianandrea Gaiani, direttore di Affari Difesa. “I mercantili che portano armi al Governo di accordo nazionale (GNA) di Fayez al-Sarraj a Tripoli sono scortati da navi da guerra turche – rimarca Gaiani - e, ‘passeggiata o meno’ nessuno riesce a immaginare, a Roma come a Bruxelles, che la flotta Ue abbia regole d’ingaggio così robuste da permetterle di scatenare una battaglia navale contro la Marina di Ankara per bloccare le forniture di armi al governo libico legittimo riconosciuto dall’Onu”. D’altro canto, rileva ancora Gaiani, “se la Ue crede di poter fermare così i flussi di armi diretti all’esercito Nazionale Libico (LNA) di Haftar rischia di incassare solenni delusioni poiché la gran parte degli aiuti militari arrivano da tempo per via aerea con decine e decine di voli dei super cargo Antonov e Iliyushin noleggiati dagli Emirati Arabi Uniti o attraverso il confine terrestre egiziano. Altri mezzi e rifornimenti in arrivo via nave vengono sbarcati nel porto egiziano di Sidi el-Barrani, nei pressi del confine, e poi trasferiti su strada in Cirenaica....L’idea sostenuta da Di Maio che in caso di aumento dei flussi di clandestini incoraggiati dalla presenza delle navi europee, la missione venga bloccata sembra quasi una barzelletta e la dice lunga circa la ‘ferrea determinazione’ dell’Europa nell’esercitare il blocco alle forniture di armi alla Libia...”. Tre siluri “affondano” l’improbabile missione dell’”ammiraglio” Lui14
gi Di Maio. La missione Ue per il controllo dell'embargo sulle armi in Libia sarà "aerea, navale e terrestre se sarà autorizzata dalle parti in causa". Così aveva affermato il titolare della Farnesina in conferenza stampa a Roma con il suo omologo russo, Serghei Lavrov".Il pattugliamento aereo e marittimo avverrà con attrezzature militari, ma la postura dell'Ue non è di guerra bensì legata all'affermazione della pace", ha aggiunto, rilevando che lo stop all'arrivo di armi aiuterà il dialogo tra le parti., La notizia è, spiega il titolare della Farnesina, che "c'è una missione, non era scontato che 27 Paesi Ue fossero tutti d'accordo su una missione contro l'ingresso di armi in Libia". Sarà. Ma, piaccia o meno al ministro pentastellato, la notizia preoccupante è che se dovesse realizzarsi una tale missione, dovremo mettere in conto regole d’ingaggio da combattimento. “Prima di trarre ogni conclusione bisognerà attendere che venga messo nero su bianco il mandato, con le relative regole di ingaggio – osserva Pietro Batacchi, direttore di RID (Rivista Italiana Difesa, tra i più autorevoli analisti militari - Cosa potrebbe succedere se, per esempio, una nave turca che trasporta armi a Tripoli – magari scortata da una fregata – dovesse rifiutarsi di essere ispezionata? Uno scenario tutt’altro che irrealistico considerando la recente assertività di Ankara in tutto il Mediterraneo. E poi c’è la questione del confine con l’Egitto, attraverso il quale passano le armi – provenienti dallo stesso Egitto, ma pure dagli Emirati Arabi Uniti – destinate alle milizie di Haftar. Stiamo parlando di un confine lungo oltre 1.000 km e sorvegliarlo in maniera efficace significherebbe dover mettere in campo un contingente molto robusto e articolato, senza dimenticare la necessità di ottenere la cooperazione fattiva del Cairo. Un’ipotesi, dunque, al momento difficilmente praticabile”. “Il piano proposto dall'Unione europea "per vietare il flusso di armi in Libia fallirà nella sua forma attuale, in particolare sulle frontiere terrestri e aeree nella regione orientale". Primo siluro. A lanciarlo, in una nota è il ministero degli Esteri del Governo di accordo 15
nazionale libico di Tripoli. "Il governo di accordo nazionale - spiega la diplomazia libica - ha ripetutamente chiesto per anni la rigorosa attuazione delle risoluzioni del Consiglio di sicurezza che hanno vietato il flusso illegale di armi nel nostro Paese". Tripoli rivendica inoltre il suo "diritto di continuare le sue alleanze militari aperte attraverso canali legittimi". Il secondo siluro non è meno pesante. E viene dal “Sultano di Ankara”. L'Ue non ha l'autorità per decidere sulla Libia e Ankara è pronta a sostenere il governo di Tripoli nello sforzo per prendere il controllo del Paese. Non usa mezzi termini Recep Tayyip Erdogan, il presidente turco da sempre apertamente schierato contro l'uomo forte della Cirenaica a difesa del debole, precario esecutivo guidato da al-Serraj. "Se non sarà possibile raggiungere un accordo equo
nei
colloqui
internazionali,
sosterremo
il
legittimo
governo
di Tripoli della Libia nel prendere il controllo sull'intero Paese" avverte Erdogan, nel suo discorso davanti all'assemblea parlamentare del suo partito Akp. Una posizione del genere ha come obiettivo quella di garantirsi il ruolo di partner principe agli occhi di al-Sarraj, una lotta in corso tra Ankara e Bruxelles, con Roma in prima fila. Le promesse di supporto militare, però, hanno già in passato spostato i favori del premier libico sulle posizioni del presidente turco. Terzo siluro. Meno appariscente ma non per questo meno devastante. "”La Russia insiste che deve essere sacrosanto rispettare gli accordi e non intraprendere azioni che potrebbero essere viste come contraddittorie rispetto al Consiglio di sicurezza Onu", ha puntualizzato il ministro degli Esteri russo Serghiei Lavrov dopo la riunione Italia-Russia in formato Esteri-Difesa a Roma, parlando della missione Ue per l'embargo delle armi. "I meccanismi devono essere concordati con il Consiglio di Sicurezza, non possiamo rispettare gli auspici solo di una parte o dell'altra, l'Italia ci ha rassicurato di avere piena comprensione di questa situazione". Mosca è uno dei grandi sponsor del generale Haftar, che ieri, ha rivendicato l’attacco al porto di Tripoli contro una 16
nave turca che avrebbe trasportato armi. "Non c'era nessuna nave turca, perché il porto è utilizzato solo per scopi commerciali” ha risposto un portavoce delle forze del governo di Tripoli.Quanto alla sempre più problematica missione europea, “il lato positivo – osserva il generale Vincenzo Camporini, già Capo di Stato Maggiore della Difesa - è che sembra esserci una maggiore consapevolezza dei problemi che pone la situazione in Nord Africa da parte dei Paese Ue, anche di quelli che non hanno un diretto interesse alle vicende mediterranee. Bisogna però constatare che siamo ancora nel regno, peraltro confuso, delle buone intenzioni. Per bloccare il flusso di armi e munizioni verso i contendenti libici – spiega Camporini – è necessario sigillare tutte le frontiere, quelle terrestri, quelle marittime e quelle aeree. Bloccando una sola di queste, non si ottiene altro risultato che dirottare i flussi verso le altre due. Ciò detto, occorre anche ricordare che per un blocco efficace è indispensabile una risoluzione esplicita del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, in mancanza della quale i comandanti delle navi incaricati delle operazioni possono solo chiedere cortesemente alle navi in transito di acconsentire ad una ispezione.E se la risposta è ‘no, io proseguo’, possiamo sola fare un saluto con la manina”. E così, a credere nella missione salvifica sembra essere rimasto solo l’uomo della Farnesina: “Giggino l’ammiraglio”.
17
Storia e Politica
L’eccidio di Porzus Giovan Giuseppe MENNELLA
Nel novembre 1944, in seguito ad accordi tra la Resistenza italiana e il dirigente comunista sloveno Edvard Kardelj, la Brigata partigiana garibaldina Natisone, operante in Friuli Venezia Giulia, si trasferì agli ordini del IX Corpus sloveno. Non obbedì all’ordine la brigata partigiana Osoppo, composta non da comunisti ma da monarchici, cattolici, azionisti, socialisti, badogliani. Questo fu il prodromo dell’eccidio di Porzus del 7 febbraio 1945, nel quale persero la vita molti componenti della Osoppo. Quel giorno una spedizione militare guidata dal capo partigiano comunista Mario Toffanin, nome di battaglia Giacca, un elemento particolarmente violento e deter18
minato, sorprese uomini della Osoppo alle malghe di Porzus. Il comandante osovano Francesco De Gregori, nome di battaglia Bolla, e altri due uomini furono uccisi subito, mentre altri 16 furono catturati e portati via. Dopo poche ore, altri 14 furono uccisi e solo 2 riuscirono a fuggire. Tra gli uccisi c’era anche Guido Pasolini, fratello di Pier Paolo. Anche molta documentazione in possesso della Osoppo fu catturata e fu resa consultabile solo a partire dagli anni ’60. Ma occorre fare un passo indietro per comprendere i prodromi e le motivazioni di quell’eccidio. Nel periodo successivo all’8 settembre1943, i tedeschi occuparono la Venezia Giulia e ne fecero una regione incorporata nel Reich, denominata Adriatisches Kunstenland, governata da funzionari carinziani. Si sviluppò così la resistenza, costituita all’inizio da militari italiani sbandati che si erano rifiutati di consegnare le armi. Con il passare dei mesi, anche i partiti politici italiani si diedero a organizzare gruppi armati. Si formarono i gruppi armati comunisti delle Brigate Garibaldi, tra cui la Natisone, e quelli non comunisti, soprattutto la Osoppo. Su pressione degli inglesi, fu formato un comando unico tra i due gruppi italiani, ma l’accordo non durò a lungo e presto si sciolse. Quindi, la Resistenza italiana si spaccò in due: da un lato i partigiani comunisti delle Brigate Garibaldi, dall’altro i partigiani non comunisti. La ragione della spaccatura fu il comportamento da tenere rispetto all’intenzione dei partigiani di Tito di annettere quel lembo d’Italia alla Jugoslavia e, di conseguenza, inserirlo nell’area di influenza comunista. In effetti, la storia del ‘900 non è stata caratterizzata solo dal dissidio tra fascismo e antifascismo, ma anche dal dissidio tra italiani e slavi sul confine orientale e da quello, allora incipiente, tra comunismo e anticomunismo. Per ordine di Stalin i partigiani comunisti italiani delle Brigate Garibaldi della Ve19
nezia Giulia cercarono accordi con i partigiani jugoslavi comunisti di Tito che operavano di là dal confine. Già nel 1942, con una lettera del 3 agosto, il segretario generale del Comintern Georgi Dimitrov aveva disposto che in tutta la Venezia Giulia le strutture del Partito comunista italiano dovessero passare alle dipendenze del Partito comunista sloveno. Tito aveva ottenuto l’appoggio di Stalin e il riconoscimento degli occidentali, soprattutto degli inglesi, per rivendicare l’annessione nel dopoguerra del litorale adriatico e della Venezia Giulia alla futura Jugoslavia comunista. Tito voleva veder riconosciuta la sua leadership anche all’interno della Jugoslavia perché aveva intrapreso una guerra non solo contro i tedeschi ma anche una guerra per la presa del potere all’interno, contro il Re e i cetnici di Mihailovic alleati del Re. Churchill aveva dato l’assenso a un tale progetto poiché aveva ritenuto i gruppi combattenti partigiani titini i più efficienti militarmente tra quelli jugoslavi, quindi i più adatti a sconfiggere i tedeschi in quella zona dei Balcani, a scapito di altri, soprattutto i partigiani cetnici filo-monarchici di Mihailovic. La scelta inglese si sarebbe rivelata sbagliata nel breve periodo in quanto Tito avrebbe dato filo da torcere agli occidentali al momento della sconfitta germanica nel maggio 1945, ma lungimirante nel medio e lungo periodo. Infatti, nel 1948 proprio Tito avrebbe consumato il famoso strappo politico contro Stalin e l’URSS che sarebbe stato di grande giovamento alla strategia occidentale nel momento più difficile della Guerra fredda. Dopo l’8 settembre 1943 lo Stato italiano era letteralmente sparito nella Venezia Giulia e tutto il potere repressivo era in mano ai tedeschi, per cui la guerriglia e la controguerriglia assunsero un carattere ancora più violento che altrove. La resistenza jugoslava aveva più forze e più potere militare di quella italiana perché aveva iniziato a contrastare i tedeschi fin dal 1941. La competizione per assu20
mere il potere sulla Venezia Giulia, una volta sconfitti i tedeschi, si accese tra italiani e jugoslavi e si iscrisse nella più ampia lotta per l’egemonia sull’Europa del dopoguerra tra mondo occidentale e mondo comunista. Il dirigente comunista sloveno Kardelj in una lettera del 9 settembre 1944, inviata alla direzione del PCI Alta Italia per tramite di Vincenzo Bianco, delegato di Togliatti presso il fronte di liberazione sloveno, disse che all’interno delle formazioni partigiane italiane occorreva fare un repulisti di tutti gli elementi imperialisti e fascisti, in quanto non si poteva lasciare su quei territori giuliani neanche un’unità nella quale lo spirito imperialistico italiano potesse camuffarsi da falso spirito democratico e antifascista. Kardelj incitò anche i partigiani comunisti jugoslavi a occupare militarmente una significativa parte di territorio italiano per spingere più a occidente possibile il futuro spartiacque tra mondo comunista e mondo occidentale capitalista. In seguito a tali manovre politiche si verificò un avvicinamento tra la brigata partigiana comunista Natisone e i combattenti jugoslavi del IX Corpus di Tito. Eugen Matelika, commissario politico del IX Corpus, chiese agli italiani che tutte le formazioni partigiane italiane e slave della zona della Venezia Giulia passassero alle dirette dipendenze del IX Corpus jugoslavo e riconoscessero che i territori strappati ai tedeschi passassero di fatto e di diritto alla Jugoslavia. I partigiani italiani non comunisti della Osoppo si opposero decisamente a queste prese di posizione rispondendo che avrebbero fatto riferimento solo alle decisioni del CLN italiano e che il problema del confine tra Italia e Jugoslavia si sarebbe dovuto risolvere solo alla fine della guerra, confidando evidentemente nel sopraggiungere degli eserciti angloamericani che avrebbero potuto rovesciare la situazione. Il 24 settembre 1944 il rappresentante del Partito Comunista italiano Vincenzo 21
Bianco ordinò a tutte le formazioni italiane di passare alle dipendenze jugoslave, accusando la Osoppo di opporsi pervicacemente alla decisione. A ottobre di quel 1944 si svolse a Bari un incontro tra Palmiro Togliatti e Kardelj nel quale il segretario del partito comunista accettò il concetto dell’occupazione del territorio da parte di Tito e scrisse a Bianco di collaborare con gli jugoslavi. Togliatti fu d’accordo nel considerare quella della Venezia Giulia una situazione particolare ed eccezionale, in quanto in quelle zone le formazioni partigiane comuniste italiane e slave avrebbero avuto l’opportunità di non essere disarmate alla fine della guerra e quindi di instaurare un potere comunista rivoluzionario. La Osoppo si oppose ancora una volta perché aveva capito che il progetto era quello di annettere la Venezia Giulia alla futura Jugoslavia comunista. Era fondamentale tenere il controllo militare lungo il confine per avere il controllo politico nel dopoguerra. Quindi i rapporti tra garibaldini e jugoslavi da una parte e osovani dall’altra divennero ancora più tesi sino al punto di rischiare scontri armati. Togliatti era anche un leader del comunismo internazionale, oltre che italiano, e perciò in nome dell’internazionalismo socialista avallò la linea degli jugoslavi che, molto soddisfatti, si sentirono autorizzati a procedere sulla linea dell’annessione di una parte del territorio italiano. L’ordine di Vincenzo Bianco del 24 settembre 1944 alle formazioni partigiane italiane fu un vero e proprio ultimatum, a partire dal quale si mise in moto il meccanismo decisionale che avrebbe condotto alla strage di Porzus. Era passata la linea di Kardelj, scritta anche a Bianco, secondo cui non era il caso per i comunisti italiani di restare sudditi di un Paese conservatore e reazionario come l’Italia quando avevano invece la possibilità di passare a uno Stato che avrebbe completato la rivoluzione social-comunista. Dopo l’eccidio alcuni esponenti comunisti trovarono giustificazioni a chi se ne era 22
reso responsabile in un asserito accordo della Osoppo con i fascisti della X Mas. Sarebbe stato necessario sventare il progetto che le due formazioni avrebbero escogitato per eliminare a loro volta i partigiani comunisti. In effetti, la X Mas di Junio Valerio Borghese fu operativa su quel territorio e all’inizio del 1945 il principe fascista chiese un colloquio alla brigata Osoppo per elaborare una strategia comune di difesa dell’italianità di quelle zone, avendo avuto notizia del progetto di annessione jugoslavo. Dopo l’apertura degli archivi jugoslavi c’è ancora incertezza sulla data dell’incontro, oscillante tra il 30 gennaio e il 15 febbraio 1945, ma sicuramente successiva alla determinazione comunista di operare contro la Osoppo. L’incontro avvenne a Vittorio Veneto ma si concluse con un nulla di fatto. La Corte d’appello di Firenze, dove si svolse nel 1954 il processo penale di secondo grado per l’accertamento delle responsabilità dell’eccidio, stabilì che gli ordini esecutivi per l’attacco alle malghe Topli Uorch di Porzus furono trasmessi il 24 gennaio 1945. Da altri studi recenti, è risultata una responsabilità, perlomeno di tacito assenso, della federazione comunista friulana. E’ stata ritrovata negli archivi jugoslavi una lettera del 9 dicembre 1944 di un comandante della Natisone al X Corpus in cui si disse che la Osoppo sarebbe stata liquidata. La liquidazione non era avvenuta immediatamente già nel novembre o dicembre perché in quel periodo la Osoppo fu sotto la protezione di distaccamenti britannici. Tutta la vicenda della tempistica della decisione di agire contro la Osoppo non fu chiarita per molti anni perché le lettere della Garibaldi Natisone e della Osoppo furono portate a conoscenza degli storici soltanto molti anni dopo, quando furono resi consultabili gli archivi della Jugoslavia. Dopo che il 24 dicembre 1944 la divisione Garibaldi Natisone, su ordine del X Corpus jugoslavo, si allontanò dal confine italiano e andò a combattere contro i te23
deschi all’interno della Slovenia, fu maturo il tempo per l’attacco di sorpresa contro distaccamenti della Osoppo e per il massacro del 7 febbraio 1945. Il caso dell’ecidio di Porzus è particolare per una serie di ragioni. Innanzitutto, per molti anni non se ne parlò quasi affatto, sia per mancanza di documentazione, sia perché anche i vertici della Resistenza non avrebbero voluto infrangere il mito di perfetta unità e concordia delle bande partigiane. Lo stesso Ferruccio Parri, che pure non volle mai che le fazioni della Resistenza prevalessero l’una sull’altra, non fu mai molto chiaro sull’argomento. Episodi di scontri tra diverse fazioni partigiane avvennero in più occasioni ma quello delle malghe di Porzus fu unico, perché particolarmente grave e perché avvenuto in prossimità del confine con la Jugoslavia, alla quale i partigiani comunisti avrebbero voluto cedere una parte di territorio italiano. Accadde in quel luogo e in quel momento perché mancava poco alla fine della guerra ed era già in atto la competizione per il predominio politico nel dopoguerra tra comunisti e anticomunisti. E la contrapposizione sull’episodio non cessò per lunghi decenni, trascinandosi a lungo nel dopoguerra. Fino a tempi recenti si è accesa sul controverso episodio una vera e propria guerra mediatica sia tra gli storici di diverse tendenze, sia tra la Osoppo e l’Associazione nazionale partigiani italiani. Alcuni storici sloveni e italiani di estrema sinistra hanno ipotizzato che l’eccidio fosse stato organizzato dai servizi segreti alleati e badogliani per farne ricadere la colpa sui comunisti, in modo da averne un vantaggio politico nel dopoguerra. Tuttavia, la maggioranza degli studiosi propende per la responsabilità da attribuire agli elementi partigiani comunisti filo-jugoslavi. In epoca più recente, finita la guerra fredda e caduto il comunismo, si è cominciato ad avere visioni meno contrapposte e dichiarazioni distensive, soprattutto tra gli e24
redi della tradizione comunista. Il 7 febbraio 1998 Luciano Violante, nel discorso di accettazione della elezione a Presidente della Camera dei Deputati, aprì all’ammissione di responsabilità del PCI per Porzus. Nel 2001 Giovanni Padoan dell’ANPI riconobbe la propria responsabilità nell’eccidio come commissario politico della Brigata Natisone e il 23 agosto 2001 lui e don Redento Bello, cappellano della Osoppo, si abbracciarono con gesto distensivo alle malghe di Topli Uorch di Porzus. Infine, anche Napolitano, nel ruolo istituzionale di Presidente della Repubblica e comunque come erede della tradizione comunista, offrì il proprio contributo alla distensione tra le due parti recandosi il 29 maggio 2012 in visita ufficiale a Faedis e alle malghe Topli Uorch, significando così di rendersi conto dell’importanza e della gravità di quello che era avvenuto in quel luogo.
25
Cultura
Il tassista innamorato Antonella BUCCINI
“Porta Grande o Porta piccola?” mi chiede la signora mentre sostiene le buste della spesa in ciascuna mano. In verità mi sono sempre confusa tra le due Porte del Bosco di Capodimonte, faticando a ricordare il dove dell’una e dell’altra. “Signora sia gentile, voglio andare al Museo di Capodimonte quale Porta mi consiglia?”. “La grande”, mi dice senza indugio, “e il Museo le verrà incontro”. E’ vero. Quando entro da un cancello imponente che si snoda per tutto il perimetro, la Reggia di Capodimonte, già residenza dei Borboni e poi dei Bonaparte, dei Murat, e dei Savoia, si impone austera e suggestiva, sarà anche per il tempo grigio e umido, di quelli che evocano antiche lussazioni o più decadenti artrosi. Forse per questo mi nego 26
una passeggiata verso il bosco che degrada dalla Reggia e si insinua chissà per quanto. “Napoli di lava, porcellana e musica – Sale dell’Appartamento Reale” all’ingresso, la mostra di Sylvain Bellenger, curata da Hubert Le Galle e promossa dal Museo con il Teatro San Carlo. Si è proprio lì che voglio andare. Ho vinto la pigrizia e di lunedì, in solitudine mi sono decisa. Contavo di non trovare nessuno o quasi e invece una scolaresca irrequieta sale con me la scalinata con la promessa di un primo piano che invece si moltiplica almeno per tre. I ragazzini non ci fanno caso e procedono spediti reprimendo risatine in presenza dell’insegnante che arranca come me. Quanta bellezza si disperde da giovani. L’impegno di crescere non ammette deroghe. E invece a me già impressiona la straordinaria installazione all’ingresso del percorso, indice di sottesa ironia e di intuitiva sintesi: una tazza gigante ispirata alle porcellane di Capodimonte e al suo interno la figura di Maria Carolina d’Asburgo Lorena, moglie di Ferdinando IV di Borbone e regina di Napoli e di Sicilia, con cipiglio ovviamente aristocratico e lievemente irritato certo per l’insolita collocazione. E da lì si dipana lungo diciannove sale la storia di Napoli nel ‘700 e oltre in una sorta di pièce teatrale. L’incrociarsi delle arti, e su tutte la musica, lo splendore delle opere, il fermento creativo e l’intruglio delle povertà passano attraverso scene della vita quotidiana, del mutamento dei gusti e delle mode, del passaggio del potere dagli anni di Carlo di Borbone a Ferdinando II. La musica esalta in ciascuna sala, grazie alle cuffie dinamiche, i temi proposti. Sono, infatti, composizioni di Pergolesi, il meraviglioso Stabat Mater, Cimarosa, Paisiello, Jommelli. E la musica in quegli anni è arte suprema a Napoli, tanto che il giovane Mozart scrisse al padre “il giorno che riuscirò a scrivere una partitura che possa piacere al Teatro S. Carlo varrà come cento concerti fatti per i tedeschi”. Il senso di una città, Napoli, capitale della cultura come Londra e Parigi, c’è tutto. La mostra si conclude nell’ultima sala dedicata ad una videoinstallazione dell’artista Ste27
fano Gargiulo dove l’insieme dei racconti delle principali opere tratte dall’archivio storico del Teatro S.Carlo, del Museo e della Reggia di Capodimonte si intersecano con la Napoli contemporanea ferita come un tempo. Il sipario si chiude e l’inafferrabile forza di questa città controversa ma mai scontata, chiosa la fine della messa in scena. Esco e non mi sorprenderebbe l’incontro con qualche personaggio con il cappello a tre punte e il mantello raccolto sulle spalle, magari che so, il Principe di San Severo, quello della famosa Cappella. I ragazzi li ritrovo fuori, a ridosso del bosco, stanno provando con l’insegnante un coro. Non è poi così vero che a loro sfugge la bellezza, la praticano. Il tassista che mi riporta nel ventunesimo secolo è di quelli che desidera parlare, io non ne ho tanta voglia ma poi cedo come sempre. “Oggi è una brutta giornata” osserva ed io non posso che condividere. “Ieri, invece”, mi racconta, “era bellissima e sono andato con un’amica sul lungomare”. “Buona idea”, rispondo con scarsa originalità. Lui continua. Mi racconta del pranzo, della passeggiata, della gente che prendeva il sole. Poi aggiunge che la sua amica è una gran bella donna, senza disprezzare, e si gira verso di me. “Certo” lo rassicuro. “Stiamo assai bene insieme, ma io ho cinquantaquattro anni e lei quarantuno, troppa differenza di età”, conclude con un po’ di malinconia. Siamo ormai arrivati. “Ma no”, gli rispondo, “non c’è nessuna grande differenza”. “Allora signora secondo voi…?” “Sicuramente vale la pena
provarci”, lo incoraggio,
“potreste essere una splendida coppia”. Mi sorride ed è proprio contento.
28
Politica
THE DIVIDE (parte seconda) L’illusione dello sviluppo Raffaele FLAMINIO
Nel 1949 Harry Truman era stato rieletto per il secondo mandato presidenziale alla guida degli USA, la più grande potenza miliare ed economica mondiale dell’età moderna. Gli Stati Uniti d’America da colonia britannica, nel giro di appena 166 anni (1775/1783), erano divenuti il faro della democrazia e della giustizia. La vittoria della II guerra mondiale, ne aveva consacrato e riconosciuto il suo ruolo nell’ordine mondiale. Il 20 gennaio dello stesso anno, il riconfermato Harry Truman, avrebbe dovuto fa29
re il suo discorso d’insediamento alla nazione. Lo staff presidenziale era in fibrillazione. Bisognava trovare argomenti ambiziosi ed entusiasmanti per suscitare l’interesse della stampa e degli statunitensi. La guerra aveva squassato il mondo. Esisteva la minaccia comunista ma questo era noto a tutti. L’URSS sedeva al tavolo dei vincitori e dettava le sue condizioni. C’erano in ballo due concezioni del mondo antitetiche. Le neonate Nazioni Unite muovevano i primi incerti passi, avevano bisogno di sostegno. Il Piano Mashall andava sostenuto e valorizzato. Il rischio di non interessare la nazione con questi argomenti era forte. La geografia mondiale, nella testa degli americani, era ancora poco presente. C’era bisogno di stimolare fortemente l’orgoglio e la vitalità nazionale. Avere un forte impatto psicologico sulle coscienze. Fu così che Benjamin Hardy, un giovane funzionario del Dipartimento di Stato, pensò che far annunciare al Presidente Truman l’intenzione di fornire aiuti ai Paesi del Terzo Mondo per sollevarli, definitivamente, dalla condizione di miseria straziante, sarebbe stato vincente. Quando Hardy sottopose la sua idea ai superiori, la stessa fu giudicata avventata e rischiosa per il contesto contemporaneo. Il popolo non avrebbe compreso la novità. Il giovane funzionario non mollò. Riuscì a far pervenire la sua idea all’attenzione dei consiglieri presidenziali, che fecero in modo che Truman approvasse. Al punto quattro del discorso d’insediamento del Presidente, l’idea di Benjamin Hardy vide la luce. Per la prima volta nella storia, la televisione fece da cassa di risonanza. Il 20 gennaio 1949, il discorso fu seguito da dieci milioni di telespettatori, un’enormità per quei tempi. L’evento superò, per numero, tutti gli spettatori di tutti i discorsi dei predecessori di Truman. “Più della metà della popolazione mondiale è in condizioni prossime alla miseria. 30
La loro alimentazione è inadeguata. Sono vittime delle malattie. La loro vita economica è primitiva e stagnante”. Sentenziò Truman. La speranza non era più tale. La soluzione era a portata di mano e, andava suggellato un patto inscindibile tra gli uomini di buona volontà. Disse: “Per la prima volta nella storia, l’umanità possiede la conoscenza e la capacità di alleviare la sofferenza di queste persone”. Ecco l’asso nella manica. “ Gli Stati Uniti sono al primo posto fra le nazioni per sviluppo di tecniche industriali e scientifiche. Le nostre imponderabili risorse di conoscenze tecniche sono in crescita costante e inesauribili.” Poi l’affondo decisivo.” Dobbiamo intraprendere un programma nuovo e audace per mettere i benefici delle nostre scoperte scientifiche e del nostro progresso industriale a disposizione del miglioramento e della crescita delle aree sottosviluppate. Dovrà essere uno sforzo mondiale per il raggiungimento della pace mondiale, della prosperità e della libertà”. Tombola! La sfida era stata lanciata. Il futuro assumeva colori vivaci; la coltre maligna del sottosviluppo aveva un tempo limitato. Naturalmente di tutto quanto esposto non esisteva un programma né un singolo documento che declinasse i propositi enunciati. Tutto si limitò a un'operazione di pubbliche relazioni. Il discorso, però come Hardy prevedeva, suscitò l’entusiasmo dei giornali. Il New York Times, il Washington Post, manifestarono la loro piena e calorosa approvazione e con loro tutta la stampa nazionale. Agli statunitensi fu offerta la possibilità di capire la potente e nuova visione che gli USA si apprestavano a diffondere nel mondo occidentale. Finita la guerra, il mondo andava riassestato. Il declino del colonialismo europeo lasciava il posto a nazioni uguali e indipendenti, e per questo pericolose. Andava preservato il tenore di vita e la ricchezza dei soliti. L’arciere aveva scoccato la freccia solcando la rotta del progresso. Il Nord America e l’Europa erano le 31
sue punte più avanzate, capaci di ottenere i risultati migliori perché erano i migliori. Più intraprendenti, operosi, innovativi, intelligenti. I loro valori validi, le loro istituzioni migliori come pure le tecnologie. Loro, invece, i paesi del Sud, erano sottosviluppati, primitivi. Incapaci di idee per colmare il divario esistente e, altrimenti, persistente. Il gioco era compiuto. Gli americani erano lusingati, li faceva sentire dalla parte giusta della storia. Accedevano a uno scopo superiore, messianico. I paesi ricchi, finalmente liberi dal combattere tirannie e ingiustizie avrebbero potuto, finalmente, prestare aiuto ai paesi primitivi. Il punto quattro del discorso di Truman spiegava le ragioni delle diseguaglianze e del sottosviluppo. I paesi dell’Europa occidentale in imminente boom economico ripresero pedissequamente quelle ragioni, poiché il colonialismo era sepolto tra le macerie della guerra. La storia del mondo è ridondante. Qui termina il nostro odierno racconto. A presto.
32
Cultura
Un fumetto internazionale: “I gatti del Louvre” di Taiyo Matsumoto Anita NAPOLITANO
Arriva anche in Italia il manga di Taiyo Matsumoto, “I gatti del Louvre”: il primo volume della serie è in libreria dal 12 febbraio scorso, dopo capolavori come TeKKon Kinkreet e GoGo Monster. Il fumetto giapponese, il manga, ha una struttura del tutto particolare: si legge al contrario rispetto al fumetto occidentale e cioè partendo dall’ultima pagina e con rilegatura a destra, con le vignette che si leggono da 33
destra verso sinistra e comunque dall’alto verso il basso. Nel manga, i dialoghi sono presenti e la tendenza è di illustrare e non “spiegare”, ma nel caso dei “I gatti del Louvre” si giunge al perfetto connubio tra manga e fumetto occidentale: infatti la rilegatura è quella tipica giapponese, i disegni però sono a colori e raffigurano esattamente il museo parigino e i dipinti e il riferimento a dipinti importanti rende la lettura particolarmente interessante. Dunque, un fumetto internazionale Sfogliando le pagine del fumetto nel verso opposto, per noi occidentali, si respira un’atmosfera elegante, delicata, che ci riporta immediatamente a Parigi; i personaggi sono anime vive, sia gli umani e sia soprattutto i gatti che abitano il museo da sempre, da quando lo chiamavano castello. Di giorno si defilano e restano appartati nella soffitta del Louvre e di notte popolano le sale e vivono di storie diverse, attraverso una comunicazione particolare, quella che avviene attraverso i dipinti. «Hai mai sentito le voci dei dipinti?» chiede un personaggio a un altro. Ed è in questa domanda un po’ strana il messaggio che arriva al lettore che è posto di fronte a una maniera totalmente nuova di interpretare i quadri. I dipinti che non invecchiano mai parlano e diventano un mezzo per raccontare storie che potrebbero continuare in un viaggio infinito. In questo splendido fumetto c’è posto per tutti: si passa da una vignetta all’altra in modo lieve, da una situazione che ha per protagonisti umani, i custodi del museo, i turisti che arrivano da tutto il mondo per visitare il museo per poi arrivare ai gatti, inquilini del Louvre. E c’è persino un simpatico ragnetto con un gigantesco paio di occhiali da sole. Il messaggio di Matsumoto che diventa manifesto di vita e che è presente anche 34
negli altri suoi fumetti è che “ si deve tirar avanti”, intendendo che, nonostante tutto, la vita continua, tra uno strano senso di malinconia che pervade la storia e improvvisi lampi di speranza... Intanto di giorno i gatti ascoltano le storie degli umani, rimanendo nascosti e di notte come guardiani vivono il museo respirandone l’atmosfera magica, mentre il lettore rimane deliziosamente sospeso tra realtà e fantasia, ascoltando i dialoghi dei personaggi che caricano di un valore in più le vignette, visto che di norma nei manga i dialoghi quasi non esistono e qui invece il dialogo ci racconta la storia insieme alle immagini con un linguaggio che si accorda perfettamente con l’atmosfera visiva. Lo stile con cui Taiyo Matsumoto alterna storie umane e feline è seducente, anche l’elemento surreale non è utilizzato in maniera pretestuosa per arricchire una storia, altrimenti povera di contenuti. Anzi, aiuta il lettore ad appassionarsi al racconto tanto che quando all’ultima pagina si legge: “continua…”si è curiosi di sapere come seguirà la storia e infatti lo sapremo dal 4 marzo prossimo, con l’arrivo in libreria del secondo volume. Miaoooo…
35
Politica
Europa, il virus suprematista Umberto DE GIOVANNANGELI
Tobias Rathien, l’autore della doppia strage di Hanau ha agito da solo ma non è un “lupo solitario”. Non lo è perché, questo cittadino tedesco sostenitore di teorie di estrema destra e mosso dall’odio per gli stranieri, è parte di un terrorismo non meno pericoloso di quello jihadista: il terrorismo del “white power”, quello dei suprematisti bianchi. Stando alla Bild on line, in uno scritto ritrovato dagli inquirenti, lui stesso avrebbe rivendicato il massacro, affermando che alcuni popoli che non si possono più espellere dalla Germania vadano annientati. Tesi razziste e xenofobe sono inoltre contenute in una pagina su internet attribuita all'attentatore che ha 43anni e diffondeva in internet le sue teorie di destra radicale. In base alle prime considerazioni di chi ha potuto leggere il “manifesto” lasciato dall’attentatore – un 36
testo di 24 pagine – risultano tutti i tratti tipici del suprematismo bianco: odio per gli stranieri e in generale per i “non bianchi,” eugenetica, retorica incel (confessa di non avere avuto relazioni con una donna negli ultimi 18 anni) e paranoia (sostiene di essere stato sotto sorveglianza da parte dei servizi segreti. L'attentatore ha postato sei giorni fa un video su YouTube non correlato direttamente con l'attacco ma paranoico. L'uomo rivolge un messaggio in inglese "a tutti gli americani" che informa di essere "sotto il controllo di un'invisibile società segreta" che li sottoporrebbe a moderne forme di schiavitù. Negli Stati Uniti ci sarebbero delle "basi sotterranee in cui torturano bambini da molto tempo". Il video si conclude con un'incitazione ad agire, a individuare le presunte basi sotterranee e a "lapidarle". L'ultima strage vissuta in Germania è quella del mercatino di Natale del dicembre 2016 a Berlino, dove il tunisino Anis Amri uccise dodici persone travolgendo la folla con un camion. Lo scorso ottobre ad Halle un uomo ha attaccato una sinagoga e un fast food, uccidendo due persone. Anche in quel caso, quando ad agire fu un ventisettenne neonazista, si è rischiata una carneficina. La settimana scorsa era stata sgominato un gruppo di terroristi di destra, che avrebbe voluto mettere a segno attentati contro musulmani profughi e politici per scatenare una guerra civile in Germania e sovvertire l'ordine: erano state arrestate 12 persone. Il nucleo del commando era costituito da cinque fanatici che si incontravano e comunicavano regolarmente tra di loro su chat e forum da settembre del 2019. I sospetti erano tredici, il fermo è stato confermato per dodici di loro. Secondo alcuni media, tra i terroristi ci sarebbero dei "Reichsbürger", fanatici che non riconoscono i confini della Germania attuale, né la Repubblica federale, né la democrazia, e vanno in giro con documenti e targhe autoprodotte. Molti sono armati. Le teorie di Tobias Rathien riecheggiano quelle di Brenton Tarrant, il suprematista 37
bianco dell’estrema destra militarizzata, di origine australiana, autore del duplice attacco contro due moschee nella città neozelandese Christchurch, il 15 marzo 2019 (49 morti e centinaia di feriti). Tarrant asseriva in un suo “manifesto”, pubblicato nella rete prima dell’attentato, l’esistenza di un processo di sostituzione della popolazione maghrebina/africana a quella bianca europea. Con il suo atto voleva “mostrare agli invasori che le nostre terre non saranno mai le loro; finché esisterà ancora un solo bianco non riusciranno a conquistare le nostre terre e rimpiazzare i nostri
popoli”.
Nel
suo
“manifesto”
l’omicida
considera
«la
crisi
dell’immigrazione di massa e l’alto tasso di fecondità degli invasori un pericolo contro i popoli europei». Tarrant afferma di essersi ispirato al terrorista norvegese Andres Brievic che nel luglio 2011 sterminò 72 giovani socialisti a Otoya. E accusa la “sinistra” di favorire l’arrivo dei musulmani in Europa e la progressiva islamizzazione del continente. Sul piano teorico/ideologico il boia di Christchurch era ossessionato dalla tesi della Eurabia -sostenuta da molti politici e intellettuali ultra conservatori europei - sviluppatasi una quindicina di anni fa e fortemente divulgata dalla scrittrice inglese Pat Ye’ Or. La tesi ipotizza il pericolo della colonizzazione dell’Europa da parte degli arabi. Tarrant durante un suo soggiorno in Francia fu colpito negativamente dalla presenza di tanti neri e arabi di terza e di quarta generazione. È stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso e lo ha convinto a passare all’azione. In ciò un’altra tesi gli è stata di supporto: Le Grande Remplacement. Il titolo in copertina del suo manifesto razzista è in effetti The Great Replacement. Si tratta di una teoria elaborata da Renaud Camus, uno scrittore molto apprezzato dalla destra francese: sostiene che i non bianchi conoscono una forte crescita demografica e che perciò finiranno per imporre all’Europa le loro culture e le loro religioni. Gli attentatori agiscono 38
rivolgendosi sempre a un'audience a un pubblico che credono ricettivo alle loro idee, hanno sempre contatti con gruppi più o meno radicali. Le loro idee, le loro parole d'ordine, non sono estranee alle destre sovraniste in crescita in tutto il globo. I suprematisti sono convinti di avere un chance con i vari Trump, Salvini e Bolsonaro al potere, di poter tornare indietro, di ristabilire uno status quo perduto o una nuova epoca d'oro per l'uomo bianco. In Europa i suprematisti bianchi che si rifanno all’ideologia “ariana”, con idee e programmi islamofobi e in molti casi antisemiti, contano ormai su oltre un migliaio di siti web che incitano non solo alla “caccia all’islamico” ma anche alla battaglia contro l’aborto e alle politiche sociali di aiuto a profughi e immigrati. In Europa accanto ai movimenti razzisti legati al misticismo nazista o al cosiddetto “separatismo bianco”, è cresciuto negli anni’90 il movimento del “nazionalismo bianco”, distinto dai gruppi razzisti o neo-nazisti perché non afferma una superiorità della razza bianca ma enfatizza il timore che i cambiamenti demografici in provocheranno la sostituzione della cultura bianca con altre culture ritenute inferiori. In Germania
è nato il movimento “Pegida” i “patrioti europei contro
l’islamizzazione dei paesi occidentali” (Patriotische Europäer gegen die Islamisierung des Abendlandes), movimento sta catalizzando l’attenzione di tutti i discorsi riguardanti l’islamismo e l’anti-islamismo in Germania. Nel febbraio 2015, “Pegida” ha reintegrato nel suo comitato di direzione il leader del gruppo Lutz Bachmann, che si era dimesso il 21 gennaio dello stesso anno dopo che il giornale tedesco Bild aveva pubblicato una sua foto in cui mostrava un taglio di capelli e di baffi che ricordava quello di Hitler. “Gli estremisti di destra – si legge nel rapporto – hanno scoperto come condurre la loro guerra via Intemet, come usare la “elecronic warfare”. Simili tattiche hanno indotto le autorità di alcuni Stati a mette39
re in guardia contro le derive terroristiche dello spettro dell’estrema destra. In più la potenziale violenza è coltivata dai peggior tipi di giochi elettronici, diventati arma politica vera e propria utilizzata abilmente dai neo-nazi. Questi siti hanno un pubblico fedele e ampio, costituito non di semplici curiosi, ma di persone che sull’odio hanno costruito il proprio rapporto col mondo e usano Internet per ritrovarsi, scambiarsi informazioni, infiammarsi reciprocamente, creare steccati, alzare barriere, scavare fossati. E assaltare moschee. E’ l’internazionale del separatismo. Internazionale del terrore bianco. “La guardia è stata pericolosamente abbassata, il Mein Kampf si vende liberamente in tante librerie europee o si può acquistare via internet. Partiti che si ispirano al nazifascismo vengono tollerati con la motivazione che rientrando nel gioco democratico possono essere contenuti”, afferma Efraim Zuroff, direttore del Centro Wiesenthal di Gerusalemme. “In realtà – aggiunge - da una tale questa legittimazione, questi movimenti traggono forza, si presentano come forze nazionali, estendono la loro propaganda, additando i diversi da sé come dei nemici contro cui fare fronte”. Per i servizi di sicurezza i neonazisti possono contare su circa 22 mila militanti, 7 mila dei quali appartengono a piccoli gruppi e cellule clandestine. “Stiamo assistendo a una recrudescenza evidente dei fenomeni di intolleranza, xenofobia e antisemitismo in tutta Europa e in particolare in Germania”, sottolinea Filippo Focardi. Lo storico ricorda che solo nel 2019 si sono verificati almeno due episodi molto gravi di violenza finiti in omicidio. Lo scorso giugno un estremista di destra ha ucciso Walter Lübcke, politico tedesco di centrodestra del partito Unione Cristiano-Democratica di Germania (CDU), sostenitore della politica di apertura ai rifugiati della Merkel. A ottobre un giovane neonazista ventenne, dopo aver tentato di fare irruzione nella sinagoga di Halle, ha provocato la morte di due persone. L’obiettivo era di mettere in atto una strage nel giorno di Yom Kippur, la maggiore festività ebraica. 40
Dalla Germania alla Gran Bretagna. Nel Regno Unito, l’estrema destra (suprematista, razzista, isolazionista, anti-migranti) fa proseliti e ha un seguito crescente. Materiale estremista è disponibile ovunque sulla Rete. Un gruppo come National Action, quello che è nato per “celebrare” la morte della deputata laburista Jo Cox, conta su un centinaio di militanti, ma i suoi video su YouTube hanno quasi 2800 adepti. Proclamano una “White Jihad”, una guerra santa bianca, che significa rendere omogenea e aderente “ai valori tradizionali inglesi” questa terra che oggi invece ospita persone provenienti da ogni angolo del mondo ed è un crogiolo di culture. “I rifugiati non sono i benvenuti”si legge in uno dei loro proclami che va di pari passo alla proclamazione che “Hitler aveva ragione, i rifugiati devono tornare a casa”. Thomas Mair, 54 anni, l’assassino (16 luglio 2016) di Cox, era legato al gruppo suprematista bianco Springbok Club, visceralmente ostile all’Europa e simpatizzante del vecchio apartheid sudafricano. Le prove emerse al processo, conclusosi con la condanna all’ergastolo dell’assassino della quarantunenne deputata laburista, hanno dimostrato che Mair ha ucciso Jo Cox sulla spinta di un'ideologia neonazista, razzista e suprematista bianca. La polizia aveva trovato nella sua abitazione simboli e libri sul Terzo Reich, sul Sudafrica dell’apartheid e su movimenti razzisti di altri Paesi. Prima di Mair, ad entrare in azione (nel 2013) era stato Pavlo Lapshin, neonazista ucraino trapiantato a Birmingham, che uccise un anziano musulmano. e si preparava a piazzare esplosivi in varie moschee. Lapshin era un suprematista, così come David Copeland, l'uomo che ha ucciso tre persone in una serie di attacchi dinamitardi e voleva dare inizio ad una guerra civile nel Paese. Un altro dinamitardo - Ryan McGee -
era un estimatore del Ku Klux Klan.
McGee è stato fermato in tempo per evitare una strage. Come Ian Forman, che 41
stava pianificando di attaccare una moschea, e passava ore nella sua camera da letto indossando cimeli nazisti e postando messaggi razzisti sul web. Il ministero dell’Interno britannico ha dichiaro fuori legge un gruppo dell’ultradestra inglese denominato “National Action”, accusato di progettare e istigare atti di violenza razzisti. Un fenomeno che si è propagato anche nel Nord-Est dell’Europa. Un esempio sono i “Soldati di Odino”, un gruppo di estremisti di destra che pattuglia le strade della Finlandia con l'obiettivo di "proteggere gli abitanti del posto dagli immigrati”: una pratica che si sta iniziando a diffondere in altre nazioni scandinave e baltiche, suscitando preoccupazione nelle autorità. Questi autoproclamati “patrioti”, che prendono il proprio nome dal re degli dei della mitologia nordica, aspirano a diventare "gli occhi e le orecchie" dei poliziotti, i quali - secondo loro - farebbero oggi sempre più fatica a portare a termine i compiti assegnati. Il suprematismo bianco made in Europe è in crescita. Allarme rosso, anzi “nero”.
42
43
Testata online aperiodica Proprietà: Comitato per l’Unità Laburista, Strada Sesia 39 14100 Asti (AT) Direttore Responsabile: Aldo Avallone - Stampatore: www.issuu.com web: www.issuu.com/lunitalaburista - mail: lunitalaburista@gmail.com - Tel. +39.347.3612172 Palo Alto, CA (USA), 3 marzo 2020 44