Beyond Taste - Oltre il Gusto Magazine - Autumn Edition 2020

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AUTUNNO 2020

Beyond Taste Oltre il Gusto

Copertina a cura di Philippe Germain Gianni Bauce ambientalista, African Path Safaris Cybartender Luca Coslovich, Casinò di Montecarlo Bodega Gonzales Byass, sommelier José Luis Del Campo Villares San Sebastián Gastronomika 2020, Ferran Adrià Corrado Passi autore, fotografia di Rob Southey La Maison Troisgros, tre stelle Michelin, di Roberto Mostini Cercatori di tuberi australi, di Bhatia Dheeraj Paolo Barichella Food Designer, di Maurizio Pelli editore



MAST HEAD Magazine Registry: Oficina Española de Patentes y Marcas, Ministerio de Industria Comércio y Turismo, Madrid, Spain. Disclaimer: Cualquier forma de reproducción, distribución, comunicación publico o transformación de esta obra solo puede ser realizada con la autorización de sus titulares, salvo excepción por Ley de Oficina Española de Patentes y Marcas, Ministerio de Industria Comércio y Turismo, Madrid, Spain. Graphic Design: Alba Graphic Design Studio, Madrid, Spain. Advisory Board of Directors & Director of Technical Solutions: Philippe Germain. Founder, Publisher & Editor in Chief: Margaux Alexandria Cintrano. Official Co Publisher, Author & Italian Translator: Maurizio Pelli. Official Photographer: Photographer and Author Giovanni Panarotto. Official Spanish Editor in Chief: Sommelier José Luis Del Campo Villares. Collaborating Photographers and Authors: Photographer Philippe Germain Photographer Gigi Montali Photographer Giovanni Vernengo Staff Collaborating Authors, Correspondents and Journalists: Journalist Margaux Alexandria Cintrano Author Maurizio Pelli Author & Sommelier José Luis Del Campo Villares Cybartender Luca Coslovich Massimo Vidoni, Italtouch, Dubai Livia Riva, La Dame du Vin Emanuela Marinello, Hotel Manageress Private Chef Mimi Houston Author & Conservationist Gianni Bauce Author & Novelist Corrado Passi Liguria Correspondent & Author Roberto Mostini Advertisements: Book: Author and Photographer Giovanni Panarotto Books: Co Publisher Maurizio Pelli Book: Author and Photographer Philippe Germain December Event: Master Advanced Pastry Course by: Executive Pastry Chef David Vidal at: Horeca Culinary School, Bucharest, Romania African Path Safaris and New Book: Author, Conservationist Gianni Bauce January Event: Extraordinary Food and Wine 2021 Aralia Ginseng Beverages – Carlo Giordano


Fotografia di Giovanni Panarotto


Publisher Page a cura di Margaux Cintrano editore Un giro attorno al mondo Tradizioni, qualità e genuinità sono le parole d’ordine tra i buongustai, coloro che operano nel mondo culinario e i frequentatori di gastronomie, pasticcerie, negozi di alimentari, boutique gourmet, fiere, cantine e mercati centrali. Questa edizione ci porterà a viaggiare nel mondo, dall’Australia con il sommelier Bhatia Dheeraj, alla Francia con il fotografo Philippe Germain. Dagli chef in italia, ai cocktail più sorprendenti con il Cybartender Luca Coslovich del Casinò di Montecarlo nel Principato di Monaco. Tra le migliori cantine della Spagna con il sommelier José Luis Del Campo Villares allo Zimbabwe con l’ambientalista, autore e fondatore di African Path Safaris Corrado Passi e il fotografo Rob Southey che presentano l’impareggiabile destinazione di Città del Capo occidentale, Sud Africa. Ritornando in Spagna con il fantastico soggiorno di Margaux Cintrano, presso l’autentico castello rinascimentale, Parador Carlos V, a Jarandilla de La Vera, Cáceres in Extremadura e l’evento “Gastronomika 2020” a San Sebastian con il famoso Food Designer Michelin Starred chef Ferran Adrià di El Bulli di Barcellona e la private chef Mimi Houston con i suoi eccezionali dessert autunnali, da Saint Paul, nel Minnesota. Pubblicizzeremo anche due eventi importanti: la quarta edizione di Extraordinary Food and Wine 2021, di Venezia e il maestro pasticcere maltese, David Vidal, a Stoccolma in Svezia, che sarà protagonista di un corso avanzato di alta pasticceria presso la “Horeca Culinary School” di Bucarest, in Romania, fondata dalla patron e direttrice Cristina Van Der Schaaf. Il mio caro editore, Maurizio Pelli, da Dubai, ci aggiornerà riguardo la tredicesima edizione della “Giornata Internazionale della Cucina Italiana” IDIC 2020, “International Day of Italian Cuisine”. Dal dolce al salato alle varie tipologie dei diversi locali che fanno da vetrina, dagli hotel stellati ai ristoranti, dalle cantine del 800 alle eccellenze gastronomiche riportate e descritte dei nostri valenti corrispondenti; giornalisti, scrittori, sommelier, esperti gastronomici e fotografi. Restate sintonizzati in attesa della nostra prossima edizione Natale 2020 - Inverno 2021, verrà lanciata il 21 dicembre, la copertina sarà a cura del nostro fotografo ufficiale Giovanni Panarotto.


Fotografia di Giovanni Panarotto


Co-Publisher Page Edizione Autunno 2020 a cura di Maurizio Pelli editore

Interviste Chef e artigiani del gusto: Michelin Starred Chef Donato Ascani Martino Tormena – Cantina Mongarda Paolo Barichella – Food Disigner

Articoli IDIC 2020 - Maurizio Pelli editore Maison Troisgros - Roberto Mostini La rivincita del Meunier - Livia Riva The land of Venice - Emanuela Marinello Is a desire to travel inherited? – Philip Curnow



Contents AUTUMN 2020 GUIDE FOR CONTENTS LIST Cover Photographer Philippe Germain 10 Maurizio Pelli (IDIC) International Day of Italian Cuisine

19

Cybartender Luca Coslovich 24 Livia Riva, La Dame du Vin 32 Hotel Manageress Emanuela Marinello 39 Martino Tormena: Cantina Mongarda 43 Founder of African Path Safaris, Author & Conservationist Gianni Bauce

51

Author Corrado Passi 56 Sommelier José Luis Del Campo Villares: Bodegas Gonzalez Byass, Jérez de La Frontera 58 Sommelier José Luis Del Campo Villares: Designation of Origen, Somantano, Aragon 65 Sommelier José Luis Del Campo Villares: Anchovies & Cavas

70

Private Chef Mimi Houston 76 Sommelier & Truffle Expert Bhatia Dheeraj: Original English

78

Sommelier & Truffle Expert Bhatia Dheeraj: Italian

82

Founder of Delicious Italy Magazine, Philip Curnow

84

Food Designer Paolo Barichella 93 Massimo Vidoni, The Truffle Man, Italtouch, Dubai

110

Author & Correspondent Roberto Mostini

112

**Michelin Starred Chef Donato Ascani

117

Ferràn Adrià – San Sebastian Gastronmika

121

Parador Hotel Carlos V, Jarandilla de La Vera, Extremadura

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Photographe Philippe Germain Le livre Visions Gourmandes









Germain Philippe


IDIC 2020, “I cappelletti della resilienza”, un tributo a Pellegrino Artusi e un augurio di ripresa alla ristorazione Italiana.

di Maurizio Pelli editore fotografia IDIC 2020 Passeranno alla storia della cucina italiana nel mondo come “i cappelletti della resilienza”, quelli all’uso di Romagna, preparati da oltre cento cuochi in quaranta paesi, in occasione della XIII edizione della IDIC, “International day of Italian Cuisines”, “Giornata mondiale delle cucine italiane”.


La crisi senza precedenti causata dalla pandemia Covid19 che coinvolge la ristorazione mondiale, in particolare di quella italiana, non ha fermato i cuochi e i ristoratori che hanno cucinato i cappelletti con la ricetta della “La Scienza in Cucina” di Pellegrino Artusi, con l’intento di mostrare la loro determinazione per superare questo momento terribile. Organizzata dal network “itchefs”- “GVCI” in collaborazione con “Casa Artusi”, nell’ambito delle celebrazioni per il bicentenario anni dalla nascita di Pellegrino Artusi, tredicesima edizione IDIC, si è trasformata in un momento altamente simbolico e di unità d’intenti. Il migliore e il più efficace dei modi per dare una giusta dimensione a questo evento, creato dodici anni or sono, per difendere l’autenticità della cucina italiana e i prodotti del “made in Italy” dalle contraffazioni. Cappelletti, tortellini, anolini e agnolotti, fanno parte della “costellazione” di ricette che rappresentano l’identità del “mangiare all’italiana”. Piatti che esistevano prima di Artusi ma che grazie a lui sono diventati simboli d’italianità a tavola. Tutti i cuochi e i ristoratori italiani all’estero, sono gli eredi diretti dell’opera di Artusi, lo hanno dimostrato con orgoglio in questa IDIC. Artusi, nume tutelare della cucina di casa, lo è per proprietà transitiva anche di quella italiana fuori dall’Italia. Chi se non i nostri cuochi emigranti, esportarono la cucina “di casa” e quella “regionale” che Artusi aveva recuperato nella sua Scienza? Una cucina fatta di cappelletti appunto, ma anche di tortellini alla bolognese, anolini alla parmigiana, risotto alla milanese, maccheroni alla napoletana, ravioli alla genovese, polpette e tanti altri piatti della tradizione, quelli che hanno creato e delineato la storia della cucina


italiana nel mondo. Cucina di casa si, ma non solo “quella di mammà”, perché fu anche la stessa cucina delle locande, delle trattorie e osterie ovvero del settore “HO.RE.CA.” del tempo. Un “business model” che fu replicato esportandolo all’estero. Durante la celebrazione IDIC è stato rimarcato come la filosofia stessa della “Giornata” sia quella di Pellegrino Artusi, che si scagliò contro gli “sbrodoli muscosi”, creati per compiacere il palato degli stranieri a spese dell’autenticità. Artusi non parla ancora di cucina italiana fuori dall’Italia ma di una sua triste esperienza in un ristorante della Pompei ai suoi tempi, già frequentata dagli stranieri. Qualcosa di molto simile alle degenerazioni della cucina italiana all’estero, alle cucine frankestein italo-americana e italo-argentina, alle carbonare con panna, agli spaghetti bolognaise, al pesto con burro e alle famigerate fettuccine Alfredo. Disgustosi e ingannevoli adattamenti alle richieste dei mercati stranieri in nome del profitto che Artusi non avrebbe mai tollerato. Esattamente per questi motivi e per combattere queste mistificazioni, dodici anni or sono nacque la giornata internazionale della cucina italiana - IDIC. Ancora una volta, un grande ringraziamento va a tutti gli chef, chef patron, ristoratori e ristoranti coinvolti, ai molti sostenitori in sparsi nel mondo e alla Chef Rosana Milivinti, che ha coordinato questa impegnativa tredicesima edizione 2020. Continueremo a lavorare, senza mai abbassare la guardia, sperando in tempi migliori. Arrivederci alla prossima edizione IDIC 2021.





Cadono le foglie, alziamo i bicchieri “L’autunno è la primavera dell’inverno” (Henri de Toulouse Lautrec) di Luca Coslovich Fotografia di Emanuela Nocito - www.thecybartender.com Finisce la stagione del sole, del mare e degli aperitivi ’dall altra aperto non per questo dobbiamo smettere di passare dei bei momenti in compagnia (distanziamento permettendo), sorseggiando i cocktail dei barmen più creativi che hanno pensato a delle ricette dedicate a questa stagione. Cominciamo con Micaela Contini, che malgrado una spalla e il piatto tibiale rotti ed un intervento alla gamba, è riuscita a creare il suo cocktail:

Four Rooms di Micaela Contini Ingredienti: 5 cl Se Busca - Mezcal 2 cl succo arancia 2 cl sciroppo Popcorn - Monin 2 cl succo di lime 1 cl albume pastorizzato Preparazione: Versare tutti gli ingredienti in uno shaker. Agitare energicamente. Eliminare il ghiaccio ed effettuare una dry shake o utilizzare un monta-latte per agevolare la creazione di una “foam” liscia e compatta. Versare in un bicchiere con ghiaccio e precedentemente decorato con miele e popcorn. “Quando penso all’autunno uno dei primi ricordi che mi vengono i mente sono le serate uggiose passate al vecchio cinema di paese, con le sue poltrone di velluto rosso e il profumo del popcorn che riempiva la sala. Questo cocktail, dedicato a uno dei miei film preferiti “Four Rooms”, cerca di ricreare quelle sensazioni.



Sapidità, dolcezza, un pizzico di affumicatura e il profumo del popcorn rendono questo drink una perfetta coccola autunnale.” Micaela è nata e cresciuta nella riviera ligure di ponente. Dal 2018 è Barmanager SkyBar presso l’Hotel La Palma di Stresa. Precedentemente ha lavorato in Liguria ed ha ottenuto ottimi risultati in varie competizioni. Dall’altra parte de mondo le stagione viaggiano a senso inverso rispetto al nostro, Mario La Pietra, pugliese di origine, ha iniziato la scuola alberghiera e di catering all’età di 14 anni, con il padre che si aspettava che sarebbe diventato uno chef. Tutto ha preso una svolta con una competizione di cocktail, a cui Mario ha partecipato durante il suo secondo anno a scuola, senza avere alcuna conoscenza precedente di cocktail. Quella competizione fu per lui un disastro totale; ma mentre guardava tutti gli altri baristi professionisti, vestiti con una giacca da smoking bianca, pantaloni neri e scarpe luccicanti, Mario rimase così colpito dall’eleganza e da quel tipo di rituale di mescolare e scuotere che si disse “Voglio farlo “Con grande sgomento di suo padre. Stiamo parlando del “Grand Prix Bacardi Martini” del 2002, dove ha superato le finali globali per 3 anni consecutivi, prima di raggiungere il 1 ° posto a livello globale nella categoria “Junior prix” nel 2004. Seguono varie esperienze lavorative in Italia ed a Londra dove ha scoperto una nuova cultura del bere e ha assistito a un grande rinascimento dei cocktail del primo decennio degli anni 2000. Nel 2014, è arrivato il momento di una nuova avventura; Australia, Melbourne, Adelaide, e un viaggio dedicato al whisky in Tasmania. Nell’ottobre 2019 si trasferisce a Hong Kong per unirsi a un nuovo entusiasmante progetto. Segue un viaggio in America Latina e il ritorno ad Hong Kong, pronto a dare a questa grande città un secondo colpo. Il cocktail che ci propone si chiama: Rayz y Suelo di Mario La Pietra Ingredienti: 12,5 ml di fragola + gomma di fragola cordiale 15 ml di mirto al limone infuso in Semillon Verjus 30 ml di succo di barbabietola fresca 50 ml Alfonso Oloroso Sherry Gonzalez Byass 20 ml di vermouth La Copa Gonzalez Byass Metodo: mescolate e filtrate o, per un po “di teatro” potete usare la tecnica del “lancio” Contorno: “moneta” di mirto di limone 1/3 del bicchiere “dall’alto verso il basso” spolverato con una miscela di polvere di barbabietola tostata e disidratata (dal resto della polpa post-spremitura), gomma di fragola e polvere di mirto di limone. Autumn in Downtow di Christopher “Ciccio” Rovella Ingredienti: 50 ml Puni Whisky Alba 15 ml Vermoth Cocchi Storico



10 ml Passito Testematte Fontanassa 10 ml Liquore al Fico 5 gocce di Fernet Branca Tecnica: stir & strain, servire in coppetta lavorata, decorare con “profumo di limone” Classe 1993, Christopher è “figlio d’arte”, fa i suoi primi passi infatti nel bar gestito dai genitori in Piemonte. I suoi studi lo portano ad un diploma di geometra prima ed alla facoltà di architettura poi, ma la passione per il bar lo rimette “al suo posto” dietro il banco del bar. Nel corso degli anni non mancano le partecipazioni a varie masterclass ed a prestigiosi concorsi, con risultati degni di nota. In seguito a questi risultati viene notato dalla “Compagnia dei Caraibi” (azienda di Vidracco che distribuisce importanti brand della liquoristica internazionale) che lo accoglie nel suo staff, e ancora oggi operante per l’azienda. A fine 2020 aprirà un piccolo negozio di liquori con un piccolo speakeasy annesso,dove cercherà di mettere in pratica tutti i buoni insegnamenti che ha ricevuto in questi anni e provando, magari, a dare un’impronta alla miscelazione internazionale attraverso i prodotti del proprio territorio. Un altro giovane lo troviamo nel Principato di Monaco, si tratta di Vincenzo Licata, che dopo essere partito dalla Sicilia, inseguendo l’occasione di un lavoro al ristorante ”Avenue 31”, come barman, approda al Casino di Monte-Carlo, dopo una esperienza da Cipriani, sempre nel principato. Il cocktail che ci propone è: Salted caramel whiskey sour di Vincenzo Licata Ingredienti: 4,5 cl di burbon whiskey 3cl di succo di limone fresco 1,5cl di sciroppo al caramello salato servito in coppa con una spuma al caramello salato preparato in sifone e limone grattugiato sopra. Un cocktail che gioca su 3 contrasti del palato tra dolcezza, acidità e sapidità. La spuma di caramello salato profumata al limone accompagna il cocktail dandogli una seconda consistenza e i contrasti danno un tocco unico a questo cocktail. Y7 di Luca Coslovich Ingredienti: 5 cl. Scotch Whisky 2 cl. Drambuie gocce di Angostura all’arancia gocce di Elisir di the nero, arancia e cannella top di Ginger Beer Si prepara miscelando delicatamente i primi quattro ingredienti nel mixing-glass, si serve in una coppa capiente con ghiaccio, completando con ginger beer ed una scorza di arancia, dopo aver estratto gli olii essenziali Un lato del bicchiere viene “decorato” da zucchero e scorza di arancia grattugiata oppure con fiori edibili. Le foto di Emanuela Nocito, sono state scattate nella splendida cornice del “bar la rotonde” del Casino de Monte-Carlo La Y è la lettera positiva greca > significati : uomo + donna = bambino.. la Vita che scorre.. Oppure, più’ laicamente : tesi + antitesi = Sintesi. Il 7 è il numero della Perfezione! Questo cocktail, che ho creato su richiesta, rientra in un progetto più ampio, che parte da un arredamento dedicato alla degustazione di vino, ad un profumo e probabilmente un vermouth, passando anche per rappresentazioni teatrali. Un progetto a tutto tondo quello creato dal designer Gianni Usai, e che mi ha coinvolto per quanto riguarda questo drink, che verrà proposto (così come il profumo) in un solo punto vendita in Italia. I presupposti per passare un piacevole autunno ci sono tutti, non resta che trovare del tempo per se stessi, della buona compagnia, una musica di sottofondo che ci scaldi il cuore, e sorseggiare uno di questi cocktail, per scaldare l’anima. Luca Coslovich. www.thecybartender.com lucabarman@gmail.com


Fotografia di Emanuela Nocito - www.thecybartender.com




La Rivincita del Meunier

di Livia Riva Fotografia: Benoît Déhu - La Closerie - Livia Riva La Champagne è notoriamente conosciuta per fare i suoi vini principalmente da 3 vitigni in assemblaggio, un trittico consolidato e sicuro, dal quale ci si è distaccati solo negli ultimi 10 anni in modo massiccio. I 3 vitigni principali utilizzati sono: Pinot Noir, Chardonnay e Meunier suddivisi quasi equamente in termini di coltivazione con una piccola maggioranza di quelli a bacca nera (Pinot Noir e Meunier). Il Meunier (era Pinot Meunier fino a poco fa, poi il Ministero delle politiche agricole francese ha stabilito la sua identità senza passare attraverso il Pinot Nero), fa la sua comparsa verso la metà del 1800 nella Vallée de la Marne, anche se il luogo di nascita vera non è il cuore della Champagne. Ha un colore più intenso rispetto al Pinot Nero, è meno sensibile alle gelate primaverili, costa meno ma, per contro, non riesce a conferire quella finezza ed eleganza tipiche del suo “collega”. Dato che però è un vitigno che può bilanciare facilmente gli altri due e non ci sono problemi di rifornimento e di prezzi, i produttori cominciano a farne un buon uso, andando a prenderlo nelle regioni un po’ limitrofe rispetto al centro della Champagne: ce lo si procura a Saint Mard (nord-ovest di Parigi) e a Gland (vicino a Château Thierry). Quando però, verso il 1870, il suo utilizzo diventa imprescindibile nell’assemblaggio dello Champagne, alcuni vivaisti della Vallèede la Marne, cominciano a coltivarlo in serra e, di conseguenza, a venderlo ai produttori che avevano vigne tutt’intorno alla Marna, patria di perfetta adozione di questo vitigno. Il Meunier (mugnaio), chiamato in questo modo perché sia le foglie che gli acini sono ricoperti in superficie da una peluria bianca chiamata “tomentum”, che li fa apparire come sporchi di farina, è estremamente resistente al freddo, abbastanza consueto soprattutto nella pianura della Vallée del Marne e sulla parte sinistra del fiume. Questo perché il suo germogliamento è di almeno un mese più avanti rispetto al Pinot Nero, e quindi, in caso di freddo improvviso o di gelate primaverili, il germoglio non si è ancora formato e non può, di conseguenza, essere distrutto. Il Meunier è sempre stato considerato il parente più povero di tutti gli altri vitigni, se ne è usato in abbondanza e anche oltre, soprattutto negli anni ’90. Purtroppo, in molti casi (non tutti per fortuna), è stato coltivato in modo esagerato (proprio per la facilità di resa e il prezzo più basso rispetto alle altre due uve) a scapito della sua qualità che, in effetti, non sempre ricalca quelle caratteristiche di eleganza e finezza che in uno Champagne dovrebbero essere di default.



Negli ultimi anni, comunque, si sta assistendo ad una rivalsa del Meunier, portata avanti da quei piccoli vigneron, soprattutto nella Vallée de la Marne, che ne hanno fatto una questione di principio e che difendono a spada tratta il vitigno più bistrattato della Champagne. Il Meunier, che viene accusato di non essere longevo perché non ha quell’acidità necessaria a mantenere il cammino del tempo, non è mai coltivato in un village Grand Cru, e per tradizione lo Champagne fatto Meunier, che sia in purezza o in assemblaggio, non è mai un Grand Cru. Chiedendo informazioni specifiche agli enti competetenti, su questo fatto, non è mai stato sancito che la legge proibisse ad un Meunier di essere coltivato in un Grand Cru come esempio Ay, piuttosto che Tour-sur-Marne o Louvois o Sillery. Semplicemente non è mai stato fatto. Sto ancora aspettando risposte certe su questa piccola curiosità, e appenale riceverò, sarà mia cura informarvi in tal senso. Tornando al nostro Meunier, ora i vigneron che lo producono in purezza, e ne fanno uno Champagne di notevole caratura, sono in molti. Il vitigno dà i suoi frutti migliori quando non è portato alla sovrapproduzione, quando la pianta non viene stressata e il grappolo non è troppo compatto dato che, l’unico punto debole, è quello di essere soggetto a umidità e muffa che potrebbero propagarsi in modo disastroso. E ancora, concede il meglio di sé quando è coltivato con regimi attenti, intendo dire lotte ragionate, cultura biologica e biodinamica. Meno prodotti chimici si utilizzano, meglio sarà il prodotto finale. E, come una ciliegina sulla torta, lo si può gustare al meglio quando lo zucchero della liqueur non è troppo presente, salvo rari casi. Quali sono i produttori più conosciuti e i cui Champagne fatti con 100% di Meunier meritano di essere bevuti?



Eccone qualcuno per la vostra curiosità: Fra i primi a produrlo sicuramente: George Laval e Tarlant. Fra i più famosi di certo: Jérôme Prevost, Egly, Ouriet, Bereche e Laherte. Fra i più giovani e biodinamici: Delalot, Heucq, Moussé, Christophe Mignon, Jm Selèque. Fra i grandi classici: Dehours, Bedel, Ardinat, Taillet e Orban. Fra i nuovi destinati al successo: Elemart Robion e Benoît Déhu Andiamo quindi a “colpo sicuro” con questi produttori e (ri)scopriamo questo vitigno così maltrattato che può sicuramenteregalare Champagne da sogno! Santé!

Fotografia: Benoît Déhu - La Closerie - Livia Riva



The land of Venice, le colline del Prosecco DOCG Articolo di Emanuela Marinello Fotografia: Istituto Enologico Cerletti A circa un’ora d’auto dalla mia amata Venezia, in provincia di Treviso, si iniziano a vedere le colline di Conegliano e Valdobbiadene, recentemente nel 2019, riconosciute paesaggio culturale dall’Unesco come Patrimonio Mondiale dell’Umanità. Di verdeggiante bellezza, durante i mesi estivi e autunnali, incantano la vista come un mosaico o meglio un merletto vegetale, ideato dall’uomo, che ha saputo con ingegno sfruttarne le posizioni migliori per impiantare i vitigni della Glera, che producono l’uva di alta qualità che darà origine al celeberrimo “Prosecco DOCG” acronimo denominazione di origine controllata e garantita. Un Prosecco caraterizzato dalla raccolta manuale dell’uva, che su queste colline impervie, che Vi assicuro non è per niente facile, solo andando a passeggiare tra i filari potrete rendervi della difficoltà di questo tipo di raccolta. Molte Cantine, oltre alle consuete degustazioni, offrono questa esperienza ai loro visitatori, un piacere per gli occhi e per il palato! Il disciplinare da seguire è molto rigoroso, come per tutte le zone DOCG, soggetto a controlli costanti, conseguentemente la qualità è eccellente e degna di particolare considerazione, imparare a distinguere ciò che Vi viene offerto, è fondamentale!



Una menzione deve essere dedicata alla famosa “Osteria senza l’Oste, un piccolo casale meta di amatori e turisti dove non solo troverete prosecco ma anche prodotti locali di qualità tra i quali formaggi e salumi. Vi dovrete servire da soli e lasciare il denaro in base ad un listino esposto dal proprietario in bella vista! Potrete anche soggiornare in qualche piccolo agriturismo, come la “Vedova a Valdobbiadene” oppure pranzare o cenare sui colli, uno dei miei posti del cuore è il ristorante - enoteca “Salis” a Valdobbiadene, una cucina preziosa con una vista impagabile sulla collina del Cartizze, il Cru del Prosecco. La microzona del Cartizze, denominata il “Pentagono d’oro del Prosecco”, è un’area collinare copista da cento otto ettari di valore altissimo, dove solo centoquaranta fortunatissimi proprietari producono, in quest’area privilegiata dal dolce clima e dal fertile terreno, il Prosecco DOCG Superiore di Cartizze. Doveste essere nei paraggi il 9 ed il 10 ottobre e’stata confermata la 15° edizione della “Centomiglia sulla Strada del Prosecco Superiore”, un raduno di auto d’epoca organizzato dalla “Associazione Strada del Prosecco”, il “Consorzio Tutela Vino Conegliano Valdobbiadene Prosecco Docg” e il “Club Serenissima Storico” in collaborazione con vari Comuni della zona, che percorrerà e sosterà, tra le verdi colline, a bordo di auto storiche in tutta rilassatezza, tra borghi e castelli e degustando le tipicità culinarie ed enogastronomiche di questo territorio. Un altro interessante itinerario naturalistico della zona è dell’Anello del Prosecco Superiore, dove vengono organizzate dal “Consorzio Valdobbiadene” delle escursioni guidate per piccoli gruppi, non solo per le visite dei vigneti e delle cantine, ma anche alla scoperta delle ricchezze storico-culturali che caratterizzano le queste colline. Un abbigliamento comodo, è caldamente raccomandato! Muniti di guida o privi, girovagando tra le colline noterete i cartelli che indicano la Strada del Prosecco che traccia l’originario percorso inaugurato nel 1966 per le sue indubbie valenze storiche e culturali, si parte idealmente dalla città di Conegliano, ricca di palazzi nobiliari, dal Duomo al Castello passando per “Istituto Cerletti”, la piu’ antica scuola enologica d’Italia fondata nel 1876. Camminando tra magnifici paesaggi boschivi, deviando, si viene condotti al “Molinetto della Croda” un mulino ad acqua incastonato nella roccia. Si arriva poi a Solighetto dove si incontra “Villa Brandolini” sede del Consorzio Tutela del Vino Prosecco Conegliano Valdobbiadene Docg, dove vengono ospitati diversi eventi culturali. Il viaggio prosegue tra chiese e vigneti, paesaggi naturalistici di indubbia bellezza, passando tra piccoli paesi arroccati dove il tempo scorre lentamente, ma con l’energia degli abitanti abituati da sempre al lavoro faticoso di questo territorio. Durante l’ultima mia visita a Santo Stefano di Valdobbiadene ho fatto una curiosa scoperta: vidi per la prima volta i cannoni antigrandine, non pensavo esistessero veramente, vengono azionati da un telecomando per evitare il formarsi della grandine, deleteria per l’uva. Non esistono dati precisi a riguardo, il Signor Gregorio Bortolin, un’istituzione della zona, afferma che possono ritardare la formazione di grossi chicchi di grandine. Il mio consiglio è di visitare queste colline in primavera o ancora meglio a fine estate, per assistere alla vendemmia eroica, della quale ne rimarrete affascinati.


Fotografia: Istituto Enologico Cerletti



Fotografia: Cantina Mongarda








Ingegneri Ambientali a Quattro Zampe (Gianni Bauce) Fotografía: Afiican Path Safaris In Zimbabwe, viaggiando verso nord, dell’capitale Harare, dopo circa 300 chilometri, ci si affaccia sull’estremo margine settentrionale dell’altopiano chiamato The Great Dyke, che occupa buona parte del paese. Mentre a sud scende dolcemente nella piana del Lowveld e nelle colline di Matopo, a nord termina improvvisamente a strapiombo sulla valle dello Zambesi. La strada asfaltata che porta verso Chirundu ed il confine con lo Zambia scende tortuosa e ripida per circa 800 metri di altezza in soli sette chilometri e percorrendola ci si domanda chi sia stato l’ingegnere che per prima ha progettato una simile opera sfidando la gravità e la natura. L’ingegnere in questione, o meglio il team di ingegneri, sono personaggi un po’ paffutelli, ingannevolmente goffi a causa della loro mole, con grandi orecchie a forma di africa ed un naso lungo che si fonde col labbro superiore formando una proboscide: sono gli elefanti africani. Migliaia di anni prima che l’uomo inventasse la ruota, gli elefanti della valle dello Zambesi risalivano la ripida scarpata per raggiungere l’erba fresca


dell’ altipiano durante la stagione più arida, per poi ridiscendere verso il grande fiume al ritorno delle piogge. Migliaia di zampe a forma di colonna hanno percorso per millenni i sentieri tracciati dai primi pachidermi che hanno esplorato la via, creando quello che qui chiamiamo un “sentiero deglli elefanti”. Gli elefanti sono animali molto abitudinari e seguono rotte consolidate nei secoli, che le matriarche - le femmine anziane che guidano i branchi – hanno appreso e che conoscono a memoria, guidando i loro branchi verso i pascoli migliori e le acque più dolci. Questi sentieri vengono utilizzati da un’infinità di altri animali, troppo piccoli per poter aprire piste tra la boscaglia fitta, come invece fanno gli elefanti. Tra questi utilizzatori c’è anche l’uomo, che col tempo ha ampliato la carreggiata di queste vie e addirittura ne ha asfaltate alcune. Qui in Zimbabwe sono parecchi gli antichi sentieri degli elefanti trasformati poi in strade: la strada per Chirundu che discende l’altopiano è una di queste, così come quella che risale l’altopiano a sud, attraverso il passo di Boterekwe. Il contributo degli elefanti all’ambiente ed alle altre specie viventi, non si limita all’apertura di piste, delle quali usufruiscono poi moltissime altre specie. Gli elefanti, grazie alle loro dimensioni ed alla lunga proboscide, raggiungono rami degli alberi inarrivabili per altri animali e quando li spezzano portandoli a terra, rendono disponibile del cibo per altre specie che altrimenti non avrebbero potuto raggiungere. La stessa cosa accade quando abbattono un albero, lavorando anche come giardinieri della boscaglia, sfoltendo la vegetazione e consentendo al foraggio di ricrescere. Fotografía: Afiican Path Safaris


La dieta degli elefanti si basa su un ventaglio di piante, erbe, baccelli, fiori, frutti, cortecce ed un’infinità di altri prodotti vegetali che spaziano in una gamma vastissima di specie botaniche. Tuttavia, il loro apparato digestivo è poco efficiente ed il 60% di ciò che ingeriscono non viene processato e digerito, ma viene espulso praticamente intatto. Nelle fatte degli elefanti si trovano frutti, semi, baccelli e residui vegetali non digeriti, dei quali numerose altre specie si possono cibare: babbuini, francolini, cercopitechi sono soltanto allcuni di coloro che approfittano di queste “razioni alimentari” a portata di mano. Molti semi contenuti nelle fatte di elefante, germogliano anche grazie al passaggio attraverso i succhi gastrici dell’animale, il quale, essendo un mammifero dalla grande mobilità, è in grado di ingerire semi di una pianta e “seminarli” attraverso le fece a distanze che possono raggiungere anche i 100 chilometri, favorendo la dispersione dei semi e la diffusione delle piante. Anche l’uomo fa uso delle fatte di elefante essicate al sole: fumarle o inalarne il fumo costituisce un ottimo rimedio per raffreddore, tosse, mal di gola e tutti i piccoli disturbi dell’apparato respiratorio, mentre la medicina tradizione sostiene che un decotto di fatte facilita il parto. In periodi di siccità, quando la maggor parte dei fiumi africani sono inariditi, l’acqua scorre ancora nel sottosuolo, sotto i loro letti sabbiosi e gli elefanti lo sanno bene. E’ frequente vederli scavare pozzi profondi con le loro zanne e le loro proboscidi, fino a che trovano il prezioso liquido. Una volta dissetati, essi abbandonano il pozzo che può essere quindi utilizzato da altri animali assetati. La loro passione per l’acqua li porta ad immergersi spesso e addirittura giocare durante il bagno. I loro corpi enormi e le loro zampe possenti provocano lo smottamento del fondale, facendo risalire sostanze nutritive altrimenti sepolte, di cui beneficia la fauna acquatica. Ecco perché questo animale viene definito “l’ingegnere ambientale” delle boscaglie: la sua presenza e la sua attività risultano di estremo beneficio per l’ambiente e questo pachiderma rappresenta una “specie ombrello” sotto la quale trovano riparo e risorse molte altre specie. L’elefante non è l’unico ingegnere della booscaglia: anche l’ippopotamo compie un buon lavoro aprendo sentieri, soprattutto lungo gli argini dei fiumi. L’ippopotamo, infatti, a causa della



sua pelle spessa ma molto permeabile, dissipa liquidi molto più rapidamente di qualsiasi altro mammifero, perciò è costretto a spendere tutto il giorno in acqua per proteggersi dalla disidratazione. Ma la sera, quando il sole tramonta, si reca sulla terraferma per pascolare, utilizzando i sentieri che incide negli argini. Queste vie rappresentano ottime vie di scolo e drenaggio dell’acqua piovana verso i fiumi o le pozze, che in tal modo si rigenerano, mentre contemporaneamente si evita la stagnazione dell’acqua nella boscaglia. Anche questo paffuto abitante dei fiumi smuove il fondale rendendo disponibili i nutriente alla fauna acquatica, arricchendoli con le sue feci. Talvolta, glli ippopotami defecano anche sulla terraferma, provvedendo alla dispersione dei semi come molti altri mega-erbivori, ed a fertilizzare il suolo. Tra questi troviamo anche le due specie di rinoceronti africani, quello bianco e quello nero, i quali, oltre a spargere semi e fertilizzare il suolo attraverso le loro feci, rappresentano una “specie ombrello” perché necessitano di grandi spazi ben conservati, una risorsa di cui godono centinaia di altre specie animali e vegetali. Un gran lavoro, insomma, per questi ingegneri ecologici un po’ particolari, che non indossano caschi antinfortunistici e tute da lavoro, né tantomeno si avvalgono di plichi di disegni tecnici, ma che comunque svolgono un compito importantissimo per la conservazione dell’ambiente. Un compito che, spesso, nemmeno i nostri migliori tecnici sono in grado di assolvere.


Western Cape, South Africa Articolo di Corrado Passi RobSouthey Fotografia di Rob Southey Si muove lenta, questa giornata di attesa. Esistevano notizie imminenti, prima. Ora, l’urlo del telefono, il giornalista televisivo, lo schermo muto del web si zittiscono con un banale sguardo di finta risolutezza, mentre il cielo è sempre azzurro e noi, nel pieno dell’inverno australe, ci ritroviamo soggetti d’un tratto coraggiosi e capaci, finalmente, di aumentare la distanza con il mondo di fuori, con tutto ciò che sta oltre il muro di cinta. Il Coral Tree è nudo. I suoi fiori, color arancione, spezzano il turchino denso, e il muro bianco di fronte a noi. Braccia, le sue, tese verso l’indaco che arriva, la sera, senza fare rumore. Ci ritroviamo ad aspettare, ma non capiamo che cosa. Ci siamo scoperti, d’un tratto, di nuovo consapevoli, cuori impavidi. Si muoveva, ieri, la donna con il bambino, oltrepassando la soglia del Seven Eleven, e non mostrava abitudine, nè stanchezza. Entrava dopo l’attesa, seguendo le nuove regole, confortando il piccolo con un gioco di parole senza senso, come questa immensa cascata di notizie giunte dall’alto, meteore prive di traiettoria. Si tace, come il bimbo, senza sapere il perchè, colpiti da un lampo di un’occhiata, dal buio che la segue. Tracy rincorre il profilo del mare. Si sente più sicura, ora. Vorrebbe essere sull’acqua, e guardare la baia dall’altra parte, fluttuando sopra la corrente. «Solo per capire che sensazione si prova», mi dice davanti alla finestra. L’abbiamo provata, tempo fa. Sembra impossibile che la terra sia così semplice, mi diceva: un insieme di verdi sfumati, e marrone, e il bruno della costa e le case chiare a punteggiare la collina. Semplice e potente, le avevo detto; immensa e solida, da queste parti, è la terra, e appare senza preavviso, a tratti, per farsi desiderare. Ci si conosce meglio, dice l’articolo del giornale: il tempo sospeso dell’attesa ci ha posto di fronte a ciò che pensiamo, alle nostre abitudini, al modo di guardare una persona. Io e lei non lo crediamo, le dico. Non ci sono tempi sospesi, qui, prima del tramonto.


Fotografia di RobSouthey


González Byass, más que un viaje a los vinos de Jerez, un viaje a la historia del vino en España José Luis del Campo Villares Fotografía: Bodegas González Byass Manuel María González Ángel (1812-1887), un joven de emprendedor de 23 años, propuso hacerse un sitio en el próspero y pujante negocio de los vinos que, por aquellos años, estaba en plena ebullición. Asesorado por su tío, José María Ángel y Vargas (el más que conocido hoy en día Tío Pepe), empezó a exportar vino en 1835 bajo el nombre de Manuel González. Fruto de la colaboración con Francisco Gutiérrez Agüera y con Juan Bautista Dubosc López de Haro se constituye la empresa González y Dubosc en 1838. Son los inicios de lo que hoy es González Byass. Viendo que el futuro de sus vinos era la exportación, principalmente Reino Unido, con el apoyo de

Juan Bautista Dubosc, residente en Londres y representante general de la firma, se realiza la primera exportación compuesta por 10 botas en 1835. El éxito fue tal que al año siguiente fueron 62 botas y 406 en 1839. Fue en estos años cuando comienzan las relaciones con Robert Blake Byass, de la firma londinense Byass & Charrington, comerciantes de gran reputación y compradores de sherry a otras casas jerezanas. En 1851 la firma pasó a ser nombrada como vendedor exclusivo para Inglaterra, algo que ya venía haciendo en la práctica desde unos años antes. Comienza aquí la



expansión no solo por diferentes zonas del Reino Unido, sino también por Francia, Alemania, países centroeuropeos, incluso en Rusia. La expansión del negocio llevó a Manuel María a la construcción de la bodega “La Constancia”, en unos terrenos que había adquirido junto a la actual Catedral de Jerez. Este nombre fue como una premonición del que iba a ser uno de los rasgos más significativos y continuos del carácter del fundador y de sus descendientes, a la par que una de las claves de su éxito. Su marca, Tío Pepe, de renombre universal, data de 1844 y es no sólo el vino fino de Jerez de mayor venta en el mundo, sino también el producto español presente en mayor número de países. En 1855 el Sr. Byass se incorpora como socio pasando el nombre de la firma a ser González, Dubosc y Cía. En 1861 murió el Sr. Dubosc, continuando su apellido en el nombre de la casa hasta 1863, en el que pasó a denominarse, por primera vez, González & Byass. En 1870 se transforma a González, Byass & Co. al incorporarse como socios los hijos de Manuel María González Ángel - Manuel Críspulo y Pedro Nolasco- y los de Mr. Robert Blake Byass -Robert Nicholl y Arthur.

De Jerez al mundo nace un icono: Tío Pepe

Cuando en 1935 Luis Pérez Solero decidió vestir la botella de Tío Pepe con chaquetilla, sombrero de ala ancha y guitarra española, poco podía imaginar que su creación acabaría por convertirse en uno de los iconos publicitarios más reconocidos del mundo. Un año más tarde este icono tuvo su primera aparición pública en la alternativa de Ventura Núñez “Venturita” en las Fallas de Valencia. En esta corrida, el torero jerezano brindó su toro de alternativa a la figura de Tío Pepe que se dispuso en un tendido de la plaza. Desde entonces, Tío Pepe se hizo famoso y su imagen ha estado presente en la vida social y cultural de España, llegando incluso a traspasar las fronteras y encontrarse en todos los rincones del mundo. Es, sin duda, uno de los iconos de España más importantes y reconocidos, siendo objeto de deseo de personajes, diseñadores o artistas de todo el mundo. Se han interesado por la marca desde referentes del Pop Art hasta genios del cubismo, como Picasso. Su bodega de Jerez, sede histórica de la compañía y una de las más vistadas del mundo con unas 250.000 visitas al año, es el lugar que recoge toda la historia y experiencia cosechada a lo largo de todos estos años de andadura. Es el origen del camino que ha llevado a González Byass a convertirse en una Familia de Vino formada por 14 bodegas en España, Chile y México, y 3 destilerías.

González Byass como Grupo Bodeguero

No solo Gonzálezz Byass ha realizado expansión a nivel internacional, sino que ha ido conformando uno de los Grupos Bodegueros referencia de nuestro país, creando o adquiriendo bodegas. Esto se inicia en 1982 cuando Bodegas Beronia, una de las más emblemáticas de la D.O.Ca. Rioja, se une a González Byass. Beronia cuenta con la bodega más sostenible de Europa. Un año después., en 1983, Cavas Vilarnau, bodega de la D.O. Cava que elabora vinos y cavas desde 1949, pasó a formar parte de esta Familia de Vino. En el año 2000, con la creación de Finca Moncloa, recupera la tradición de los vinos tintos de Cádiz y recupera la variedad Tintilla de Rota. En 2006, González Byass abre las puertas de Finca Constancia, una bodega de nueva construcción en Otero (Toledo) con 200 hectáreas de viñedo propio donde se elaboran vinosde parcela. En 2008, González Byass incorpora a Viñas del Vero, la primera bodega por volumen y calidad de la Denominación de Origen Somontano. Años más tarde, en 2015 surge Beronia Rueda. En 2016 adquiere la bodega Pazos de Lusco en la D.O. Rías Baixas y, en 2019, de Dominio Fournier en la D.O. Ribera del Duero.

Tradición Familiar y Filosofía

El futuro de González Byass se basa en la consolidación de la calidad de sus vinos y spirits, en el desarrollo y consolidación de los mercados internacionales, el fomento del enoturismo y la digitalización. Todo basado en el mantenimiento de los valores de la compañía: tradición familiar, respeto por el medio ambiente, compromiso con el entorno que le rodea y la innovación. La firma sigue presidida por la familia González, concretamente por la quinta generación de descendientes directos de su creador, Manuel María González Ángel, que ocupan puestos directivos.



Recuperar y devolver a la actualidad el legado enológico de Jerez determina el día a día de González Byass Jerez, la bodega creadora de la #SherryRevolution, el movimiento global que ha llevado a estos vinos a vivir una nueva edad de oro. Marcas reconocidas universalmente, como Tío Pepe, así como los vinos de la Gama Superior, que reflejan la versatilidad del Jerez, se elaboran en el interior de estas bodegas fundadas en 1835 que guardan algunas de las joyas enológicas más reconocidas a nivel internacional como los V.O.R.S Apóstoles, Del Duque, Matusalem y Noé, así como la Colección Tío Pepe Finos Palmas. Hoy, González Byass lidera el resurgir de los vinos de Jerez. Hablar de la esta bodega, es hacerlo sobre la historia de estos vinos que, en la actualidad, suman por miles auténticos seguidores en cada rincón del planeta, cosechan cada año nuevos éxitos internacionales y están presentes en los mejores restaurantes del mundo.


Fotografía: Bodegas González Byass


Fotografía: Las Bodegas de Somontano Aragón


Viaje a Somontano,

Vinos al pie de los Pirineos Articulo: José Luis del Campo Villares Fotografía: Las Bodegas de Somontano Aragón

V

iaje a Somontano, vinos al pie de los Pirineos Hoy viajamos a una de las zonas vitivinícolas de España que está destacando en los últimos años, no solo por la enorme calidad de sus vinos, sino también por haberse convertido en uno de los referentes en materia de enoturismo, donde los amantes del vino se encuentran un entorno realmente espectacular a los pies de los Pirineos. Hablamos de la

Denominación de Origen Somontano, un tesoro vitivinícola y natural inigualable. Es sabido que los enoturistas no solo buscan beber vino, algo que lo pueden realizar perfectamente sin desplazarse incluso de su domicilio, sino que buscan vivir experiencias diferentes, disfrutar de un entorno natural, aprender, y eso es algo que, sin duda, es una de las características de esta zona: disfrutar de grandísimos vinos en un entorno natural único y espectacular.

Somontano geográficamente

En la provincia de Huesca nos encontramos la localidad de Barbastro, capital de la comarca de Somontano, ubicada en la unión de dos ríos, el Cinca y el Vero. Barbastro se encuentra a una altitud de 341 metros sobre el nivel del mar, disfruta de un clima mediterráneo continental ideal para el cultivo de la vid. Pero hay que indicar que hay zonas de eta denominación que llegan hasta los 1.000 metros sobre el nivel del mar, con lo cual os podéis imaginar la influencia de estas altitudes en las concidiciones climatológicas y, por lo tanto, en las grandes diferencias entre vinos elaborados con las mismas varietales. El río Alcanadre divide la zona de Somontano en dos partes: el Somontano de Huesca al oeste y el de Barbastro al este. Entre las primeras estribaciones de los Pirineos y las llanuras de los Monegros se extiende esta comarca, un paraje natural idílico si eres amante de los viajes y, más aun, si eres un enoturista convencido, ya que es cuna de normes vinos pero, sobre todo, diferentes de lo que nos podemos encontrar en la mayoría de las zonas vitivinícolas españolas. Y es que frente a la mayoría de las zonas, donde nos solemos encontrar uvas tradicionalmente españolas como la Tempranillo o la Verdejo, o más autóctonas como la Albariño, la Viura, la Bobal,…, en Somontano nos encontramos con las uvas más internacionales y de tradición europea en la elaboración de sus grandes vinos. Cabernet Sauvignon, Merlot, Pinot Noir, Syrah por ejemplo, además de varietales más nuestras como Tempranillo o Garnacha entre las tintas. La Chardonnay, la Gewürztraminer, la Riesling, además de otras como la Garnacha Blanca, entre las blancas. También nos encontramos uvas autóctonas de esta zona como Moristel o Parraleta. Todo ello hace que los vinos de esta zona de Somontano, además de ser de gran calidad, son muy diferentes al estilo de los del resto de España y, en parte, más del corte europeo. Los diferentes microclimas que nos podemos encontrar en Somontano hacen además que las mismas uvas den vinos muy diferentes, todos ellos de una calidad excelente, lo que siempre permite disfrutar de ‘una aventura’ cuando abrimos un vino de esta zona para su cata.


Historia en Somontano

Aunque como Consejo Regulador la DOP Somontano nace en 1984, es incontestable que la tradición vitivinícola de esta zona viene de muchos siglos atrás, algo que se enraíza en la cultura de la zona y de sus gentes. De hecho hay documentos escritos que 500 años antes de Cristo ya había producción vitivinícola en el valle del Ebro. Hay quienes comentan que la tradición del Camino de Santiago ayudó a que los peregrinos que venían de Europa entrasen por los Pirineos y con ello trajeron la ‘cultura del vino’. Pero lo que es cierto es que todo el entorno, ya sea por el norte con Francia, el este con Catalunya, el sur el resto de Aragón y al oeste zonas del Camino de Santiago, animaron sin duda a que esta zona fuese idílica para la producción de vino. Actualmente nos encontramos con 32 bodegas que se acogen a esta D.O.P. Somontano, fundada como Consejo Regulador en el año 1984. Y, como no, su estupenda Ruta del Vino Somontano que cuenta con más de 80 establecimientos ofreciendo los mejores servicios y propuestas enoturísticas para los visitantes, con restaurantes,


alojamientos, bodegas, museos, oferta cultural, aventura y ocio, bares de vinos, agencias de viaje, empresas agroalimentarias, transportes… Los vinos de Somontano son solo una parte de la enorme experiencia que se puede vivir si acudes a esta comarca donde podrás disfrutar de un viaje único disfrutando no solo de sus viñedos, sino de la cultura, la naturaleza, la aventura, los senderos, las cortadas y barrancos, las aves y rica fauna, la gastronomía, los ríos, el patrimonio, las personas y sus pueblos… Si además podemos realizar nuestra escapada a Somontano durante la celebración de Festival Vino Somontano, que suele agendarse a finales del mes de julio, la experiencia es realmente única, disfrutando de una climatología veraniega que permite disfrutar al máximo de todo el entorno, no solo del mundo del vino.

Vinos y bodegas

No podríamos hablar de todas las bodegas y sus vinos en este artículo porque nos daría para una revista completa, pero os podemos asegurar que todos los vinos que he tenido el placer de catar me han encantado, todos con sus peculiaridades de la zona pero con sus diferencias en la elaboración o procedencia de viñedos de diferentes zonas de la denominación, encontrando vinos sorprendentes por ser tan distintos entre sí aunque son elaborados con las mismas uvas. Vinos muy personales sin duda, con elaboraciones sorprendentes y coupages que en pocas zonas de España nos vamos a encontrar, donde la combinación por ejemplo de uvas tintas europeas nos da vinos realmente de carácter único y diferenciado, eso sí, siempre excelente reflejo de la tipicidad del terruño de Somontano. Si hablamos de cifras, en 2019 fueron casi 15,75 millones de botellas de vino que se elaboraron con la contraetiqueta del Consejo Regulador Denominación de Origen Somontano, con destino al mercado nacional de un 81% de las mismas y el resto a exportaciones. Si generalizamos, los vinos de Somontano se caracterizan porque tienen un contenido alcohólico muy equilibrado, una buena relación en términos de acidez y unas tonalidades cromáticas de intensidad alta, ya sean tintos o blancos. Son vinos donde la fruta destaca mucho y está muy presente, tanto en la cata en nariz como en postgusto. Eso sí, las diferentes zonas, altitudes y microclimas, crean diferencias entre ellos muy perceptibles y que les dan un encanto maravilloso.

Un conjunto

Para finalizar recomendaros una visita global a esta zona, no solo porque seáis amantes de los vinos, sino porque queréis disfrutar una experiencia enogastronómica, cultural y natural diferente.


Fotografia Bodegas Somontano



Conocemos uno de los manjares del Cantábrico, sus anchoas Articulo: José Luis del Campo Villares Fotografía: Codesa

Si en la edición pasada descubríamos el viñedo más al norte de España en Cantabria, no queríamos dejar de mostraros uno de los grandes manjares que nos podemos encontrar en España y que también se ubica en esta comunidad, como son sus anchoas. Hoy os proponemos conocer algo más de este exquisito manjar, visitando una de las firmas punteras en Cantabria en la elaboración de anchoas en diferentes productos. Hablamos de Conservas Codesa, firma ubicada en la localidad cántabra de laredo, donde elaboran todos sus productos, siendo Maestros Conserveros desde 1976. Una firma que es avalada por el sello de calidad controlada 'Anchoas de Cantabria', con el cual se certifica que el bocarte ha sido capturado en el Cantábrico 'Costera' en la modalidad de cerco (arte más selectiva, ecológica y tradicional) y elaborado íntegramente en Cantabria. Tradición, mimo, unido a los nuevos avances tecnológicos de su sector, convierten a esta firma a una de las punteras no solo de esta comunidad, sino también de toda España. Muestra de ello y de la gran calidad de sus productos, son los muchos reconocimientos internacionales que ha recibido a lo largo de su trayectoria. Asó obtuvieron el reconocimiento como MEJOR PRODUCTOR ARTESANO TRADICIONAL EUROPEO en el XI congreso de Cofradías Enogastronómicas Europeas celebrado en Pécs-Hungría, además de recibir en 2014, 2016 y 2017 el máximo galardón “3 ESTRELLAS” en los ITQi desarrollados en Bruselas por más de 120 sumilleres y chefs internacionales con estrellas “Michelín”. Conservas Codesa puede presumir de ser una empresa familiar, ya de 3ª generación, líder y abierta al tiempo actual, con una visión amplia de mercado dotada de excelente tecnología y un equipo humano altamente especializado, que preserva celosamente una artesanía de profunda tradición conservera con el “SAVOIR FAIRE” de su maestro conservero “JULIAN FERNÁNDEZ”.



Anchoas y algo más Dentro de su amplia gama de productos nos encontramos a la anchoa siempre como protagonista. Su Serie Oro incluye nada menos que 11 referencias con diferentes formatos, todos ellos con Anchoas del Cantábrico ‘Campaña Primavera’, en aceite de Oliva y con una crianza de 12 meses en bodega en sal marina natural. Su Serie Limitada, nos deja 6 referencias que siendo de la materia prima la misma y la crianza, aportan como diferencia que el aceite empleado es AOVE, aceite de Oliva Virgen Extra suave, un manjar que nos deja una explosión de sabores y texturas en el paladar increíble. No podíamos pasar sin hablar de su Serie Rosa Edición Limitada, donde hay varios cambios espectaculares frente a sus dos líneas anteriores. La primera es que se emplea aceite de Oliva Virgen Extra Ecológico. La segunda, es que los 12 meses de crianza en bodegas, los realiza en Sal Rosa del Himalaya, lo cual le da un sabor indescriptible a la cata de estas anchoas. Un bocarte de gran tamaño con esta combinación os podéis imaginar la delicatessen que tendremos delante. Son productos que se aprovecha todo, ya que, tras acabar las anchoas, el poder disfrutar de mojar el pan en el aceite es una verdadera delicia. Pero no solo trabaja conservas esta firma con anchoa, sino que nos ofrece la ‘Gildas Doble Anchoa’. Para quien no le suene, las Gildas con conocidas por muchos como las banderillas. Este delicatessen que elabora Conservas Codesa, es un auténtico manjar elaborado de forma artesanal con los mejores bocartes de anchoa, con guindilla especial traída del País vasco y con unas aceitunas del tipo Manzanilla natural. Una Serie Oro y una Serie Limitada con diferente tamaño que os hará sin duda saborear la combinación de tres productos realmente espectaculares de nuestra gastronomía, envasado en una combinación de aceite de girasol y de oliva. Maridando Anchoas Y para unas excelencias y delicatessen como son estas anchoas o las Gildas, nos quedaba solamente el buscar cual sería el maridaje ideal para poder disfrutarlas. Y varias son las ideas que nos han surgido.


FotografĂ­a: Codesa


La más habitual, sería la de combinar estos productos con un vino fresco, joven, sin mucha complejidad y que presentase una lata carga de salinidad. Sin duda os estaréis dando cuenta que los Albariños jóvenes sería la elección. Pero no queremos quedarnos solamente en ese maridaje, sino que queremos experimentar nuevos sabores y sensaciones. Nuestra segunda opción de maridaje, pasaría por un vino tinto joven, de los del año, sin nada de crianza, que su frescura pudiera acompañar a estos bocados de anchoa. Si tenemos que decantarnos para alguno, os recomendaríamos alguno cuya uva tenga bastante acidez, para que se compaginase muy bien. Una Garnacha fresca del año, sería una combinación realmente ideal. Como tercera opción, nos decantamos por un tipo de vino que igual os puede sorprender. Hablamos de un vino espumoso, en cualquiera de sus variantes, Champagne, Cava, Prosecco, …. ¿Y os preguntáis el por qué?. Pues por una sencilla razón. Las burbujas de los vinos espumosos, o sea, su carbónico, ayudan y mucho a limpiar las pailas gustativas y nuestro paladar después de cada trago, lo cual nos permite disfrutar al máximo de la intensidad uy sabores de lo que probemos luego. Un maridaje fresco, potente y que ayudará sin duda a potenciar el sabor de las anchoas o las gildas. Como cuarto maridaje os proponemos un vino seco de la zona de Jerez, nos da lo mismo un fino de Jerez que una manzanilla de Sanlúcar de Barrameda. Nos encanta el paladar de la combinación de anchoas y vinos elaborados con la uva Palomino. Y como último maridaje que os recomendamos, optamos por otro muy tradicional como es acompañar las anchoas o las gildas con un vermú, eso sí, uno que merezca la pena, a poder ser artesano y que tenga personalidad y carácter propio, evitar las marcas que sean demasiado comerciales e intentar buscar un vermú especial, ya que estas delicatessen se lo merecen.




Photo Copyright: Mimi Houston


Cercatori di Tartufi Australi Articolo di Bhatia Deeraj Fotografia di Simon Friend & Bryan Burrell Traduzione di Maurizio Pelli editore

C

ome affermò Jean Anthelme Brillat-Savarin, "Alla fine, il tartufo è il vero diamante della gastronomia". Con solo trentuno chilocalorie per ogni cento grammi di tartufo, è caldamente consigliato per coloro che seguono diete prive di grassi. Dieci milioni di tonnellate di funghi e tartufi vengono consumati ogni anno in tutto il mondo. La Cina è il primo consumatore con sette milioni di tonnellate, seguita a grande distanza dall'Italia e dagli Stati Uniti. Ventimila USD spese il cantante Jay-Z nel 2012, quando decise di fare scorta di tartufi d'Alba, due anni prima, Stanley Ho, proprietario del casinò di Macao, investì trecento trentamila dollari per due tartufi del peso di 1,3 chili, lo posso confermare perché ebbi il privilegio di lavorare al “Grand Lisboa Casino” del compianto grande chef Joël Robuchon, nel suo ristorante Tre Stelle Michelin “Joël Robuchon au Dôme”. In base alle mie ricerche, fatti e cifre, vorrei fare dei chiarimenti relativi alla zona dei Tartufi di OZ. Nel 2017, la stagione australiana del tartufo nero invernale, suscitò un grande interesse in tutto il mondo. Oggi, è comune trovare i tartufi neri australiani (tuber melanosporum) nel mondo, sulle tavole di Parigi, Tokyo, Hong Kong e New York. Gli amanti del tartufo nero erano impazienti di iniziare la stagione del 2017 e riluttanti a vederla terminare! Mentre il calendario considera l'inverno australiano a partire dal primo di giugno, la stagione del tartufo nero non iniziò subito dopo, l’Australia ebbe un mite giugno nel 2017, più simile all'autunno (ottimo anche per altri tipi funghi). Il freddo e le gelate sono essenziali per lo sviluppo e la maturazione del tartufo. Friend & Burrell (http:// friendandburrell.com.au), distributori di ottime materie prime con sede a Melbourne, in Australia, coinvolti nel settore sino dai primi raccolti da oltre un decennio, affermano che la stagione australiana del



tartufo nero 2017 diede delle certezze, assicurando il futuro dell'industria australiana, confermandolo estremamente prospero e abbondante riguardo la raccolta il tuber melanosporum di alta qualità durante gli anni a venire. Il concetto di terroir sta diventando sempre più interessante, con la crescita dei piccoli agricoltori indipendenti in tutta la nazione, che consegnano direttamente i loro primi raccolti di tartufi neri. Tutti i “tuber melanosporum” condividono le stesse caratteristiche genetiche delle loro specie, tuttavia, per l’occhio e il naso degli esperti, possono presentare delle differenze apprezzabili nell'aspetto, nell'aroma e nel sapore dei tartufi coltivati nel Nuovo Galles del Sud rispetto a quelli di Manjimup, Australia occidentale o Western Tiers, Tasmania o a Gordon, Baw Baw o Hepburn nel Victoria. Il tartufo fresco locale sta crescendo in molte regioni dal clima freddo in Australia ed è emozionante vedere i ristoranti locali che usano tartufi prodotti localmente. Quest'anno, il “Brae Restaurant” di Birregurra, nel Victoria (al 44 ° posto nel mondo), ha servito tartufi neri raccolti a trenta chilometri di distanza, prodotti a Corunnun. Centinaia di chilogrammi di tartufo nero fresco di alta qualità vengono consumati nei ristoranti, caffè e bar e nelle cucine domestiche in tutta l'Australia. I nostri tartufi neri sono anche esportati con destinazione dei ristoranti dei migliori chef del mondo nel Regno Unito, Stati Uniti, Giappone, Tailandia, Hong Kong, Singapore, Filippine, Francia, Italia, Germania e Danimarca. Gli chef in Australia si stanno affermando, sempre con più sicurezza, nell’uso dei tartufi neri nelle loro cucine Un catena di ristoranti di Melbourn, si è così dedicata ai tartufi neri che hanno aperto “OUT”, un ristorante di tipologia relativamente nuova, a Tokyo (http://www.out.restaurant.), chr serve un'eccellente pasta al tartufo nero, Nebbiolo accompagnati da una colonna sonora di Led Zeppelin! L'Australia ha piantato e sperimentato vitigni autoctoni italiani, da mettere in scena con il tartufo, due nuove realtà assolutamente da provare.


Fotografia di Simon Friend & Bryan Burrell


The quest for truffles Author & Sommelier & Truffle Expert Bhatia Dheeraj – Australia Photo Copyright: http://friendandburrell.com.au As once mentioned by Jean Anthelme Brillat-Savarin “In fine, the truffle is the very diamond of gastronomy.” With 31 Kcal are provided by 100 grams of truffles, so they are recommended for those on a diet 10 million tons of mushrooms and truffles are consumed yearly throughout the world. China is the number one consumer with 7 million tons, followed at a great distance by Italy and then ther United States 20,000 USD were spent by singer Jay-Z in 2012, when he decided to stock up on Alba truffles but two years earlier, Stanley Ho, owner of the Macau casino, spent as much as 330,000 dollars for two truffles weighing 1.3 kilos and I can vouch for this I had the privilege to work at the Grand Lisboa Casino’s Robouchon au dome three Michelin starred restaurant and I enjoyed every Truffles season then. Based on my research, Facts and figures apart today I would like to put some light on Truffles of OZ land. The 2017 Australian winter black truffle season caused delicious delight across the globe. It’s now common to see Australian black truffles (tuber melanosporum) on dining tables in Paris, Tokyo, Hong Kong and New York. Black truffle lovers were impatient for the 2017 season to start and reluctant to see it end! While the calendar regards the Australian winter as starting on 1 June, black truffle season really doesn't commence until later. Australia enjoyed a mild June in 2017, more like autumn (great for other funghi). Cold weather and frosts are essential for truffles to develop and mature. Friend & Burrell ( http://friendandburrell.com.au ), fine ingredient distributors based in Melbourne, Australia, involved in the industry since the early harvests over a decade ago, say that Australia’s 2017 black truffle season has given even greater assurance that the future of the Australian industry is interesting, prosperous and abundant in high quality tuber melanosporum. The concept of terroir is becoming more interesting with the emergence of small, independent farmers across the nation delivering their first harvest of black truffles. All tuber melanosporum share the same genetic characteristics of their species, however, to an experienced eye and nose, there can be an appreciable difference in appearance, aroma and flavour of truffles grown in New South Wales to those in Manjimup, Western Australia or Western Tiers, Tasmania or in Gordon, Baw Baw or Hepburn in Victoria. Local fresh truffles are springing up in many cold-climate regions in Australia - it's exciting to see local eateries using truffles produced locally. This year, Brae Restaurant in Birregurra, Victoria (ranked 44 in the world), served black truffles harvested 30 kilometres away by Corunnaire Produce in Corunnun. Hundreds of kilograms of high quality, fresh black truffles are celebrated in restaurants, cafes and bars, and in home kitchens across Australia. They’re also exported to the world's best chefs in the UK, USA, Japan, Thailand, Hong Kong, Singapore, Phillipines, France, Italy, Germany and Denmark, amongst others. Chefs in Australia are becoming more adventurous and confident in cooking with black truffles. A hospitality group from Melbourne, Australia is so dedicated to black truffles they’ve opened OUT restaurant in Tokyo ( http://www.out.restaurant. ), serving excellent black truffle pasta, Nebbiolo and a Led Zeppelin soundtrack. Australia has long being planting and experimenting native Italian grape varietals and definitely the current truffle scene and wine is a must try.


Photo Copyright: http://friendandburrell.com.au


Is a desire to travel inherited? Articolo di Philip Curnow Fotografia: www.deliciousItaly.com

If so, then mine might just have been passed down by my great-grandparents who left the tin mines of Cornwall to dig ironstone in Cleveland and North Yorkshire. Or was it my grandfather who escaped a life digging ironstone in Cleveland and North Yorkshire by dedicating himself to football and earning a professional contract with Wolverhampton Wanderers? Or perhaps from my father who left for sea with the merchant navy at the age of 16 to circumnavigate the world several times before settling down on Merseyside? Or maybe from my mother who flew with TWA out of Kansas City while she waited for my father to circumnavigate the world several times before settling down on Merseyside? Or even her father, who sailed from Liverpool to the Barents Sea during WW2 as a ship's purser, also seeing action off the north African coast? Let's just say my own first venture abroad, if you can exclude Wales and many blissful summer days spent along the coast from Anglesey to Pembrokeshire, was not Spain, France, or even Portugal, but the Arabian Gulf at the age of 9. A friend of my father from those merchant navy days was piloting now tankers into various ports of the region and suggested we take a month out for a visit. The trip was deemed to be of unique educational value by the Wirral school authorities and they let us go. It was October 1976. The only way to get there was a dusk flight from a deserted Heathrow in a British Airways VC-10. The aircraft didn't have the range to do the trip non-stop, so we sleepily disembarked in the early hours at Damascus airport. It felt like we'd arrived at the other side of the world. It was perhaps even then I understood the difference between travel and adventure, or even exploration. It was to be a full cultural immersion which I also documented in a small notebook. I still have it.



Language and Arabic The call to prayer was one of the first entries in my journal. It was wondrous sound which pierced the quiet of the time, five times a day according to my reckoning. I spent hours trying to transcribe in phonetics what was being said. But it didn't really matter. It was the possibility of people communicating with each other in a completely incomprehensible language which really fascinated me, first sparked by a visit to the Welsh village of Llanfairpwllgwyngyllgogerychwyrndrobwllllantysiliogogogoch. Back in school, a weekly French language lesson had been added to the curriculum following a national referendum confirming the UK's participation in the Common Market. The country had decided (the Shetland Islands and the Outer Hebrides excepted) that the future was Europe and a new generation had to speak languages. I loved it, ditched the sciences at 13 and took up German and Latin at A-Level, with economics thrown in to round things up. So what did I decide to study at University? Modern Literary Arabic of course. A joint honours degree which included Management Studies at Leeds, West Yorkshire. Cairo The outstanding element of this particular degree course was the obligatory study abroad year in our Year 2 and not the usual year 3 typical of more traditional language degrees. Why? We didn't really know, but what a year it was once 10 or so of us pitched up in Heliopolis in Cairo in the Autumn of 1986. The first thing which became apparent was that Egyptians don't speak Modern Literary Arabic, at least to friends and family. That was the Arabic of newspapers and pan-Arab broadcasting. Spoken Arabic of course is a series of dialects and to this day, although I can read and write Modern Literary Arabic (Al-Fusha), my spoken Arabic is pure Cairo. I quickly made the decision to drop out of the formal lessons at Ain Shams University and blagged a part-time job teaching English. This meant a bit more cash in hand and a chance to travel to every corner of the country at least once. This included an untouched Sharm al Sheikh, marvelous Abu Simbel and the oases of the Western desert. One adventure did take me and a fellow student out of Egypt. For a month in fact, and a 5000 km land and sea trip all the way to Khartoum and back. We departed from Suez and, via a detour to Jeddah, we knew everything would be fine as soon as we



arrived at Customs in Port Sudan. Seeking a permit to travel inland we introduced ourslves and explained the motive of our trip. The official immediately beamed a broad grin and exclaimed "Leeds University! I was a student at the Engineering Faculty in Leeds. Wonderful memories!" We were on our way. An adventure of a totally different sort was courtesy of the BBC. Street posters in English had been popping up in and around Tahrir Square with the intriguing call to action: 'Wanted, European or European looking People for upcoming Filming'. The Egyptian production team were a bit cagey at first with the details, but asked us if we didn't mind getting 1940's military haircuts. A couple of people dropped out while the rest of us soon found ourselves on set in the desert behind Giza playing at desert rats for a couple of weeks. And I was the sapper! The British half of the crew were not convinced by the production and considered the narrative and direction slow and ponderous (despite our best efforts). But the eventual Fortunes of War starring Kenneth Branagh and Emma Thompson was widely acclaimed. London Many language graduates follow the call of teaching English as a second language after graduation. What a waste. I was off to London. I didn't expect the streets to be paved with gold but it had to be done. Luckily, I walked into the right temping agency on the Monday and by the Friday had a day's work emptying a storeroom ... at the breakfast television studios of TVam in Camden. The job lasted 2 years. Television is a very fluid profession and is supported by an active grapevine of new opportunities, freelancing etc. So there was something inevitable about a conversation with Jane, a fellow Merseysider at TVam. She said she was about to join a new satellite television channel based in Parson's Green. It was called MBC, the Middle East Broadcasting Centre, and they were seeking production assistants with Arabic skills and knowledge of the region. We made a weekly 30 minute fashion programme with Egyptian presenters Mona and Shafky. As well as London and occasionally elsewhere in the UK, we also filmed in Cairo. Among the many wonderful guests, Jimmy Choo and legendary belly dancer and actress Fifi Abdou stand out (and I mean 'legendary' Fifi Abdou).


Fotografia: www.deliciousItaly.com Dubai Is it only travellers who get itchy feet? Maybe, but after four years in London I wanted to put myself to the test again. One half of my university degree was not being used. I also had an unfulfilled ambition to work for the local company of my youth, Unilever. Market research was a module I especially enjoyed at University, not least the qualitative element when applied to advertising and branding. Only one company seemed appropriate to approach, the Dubai based MERAC and affiliated to MBL in London. After an interview over a bottle of white wine with the big boss, John Goodyear, I was on the plane back to the Gulf. The work was particularly demanding both physically and mentally, but one which took me to a Dubai which would be unrecognizable today. It was the early 1990s and I think the tallest building in the city at the time was the Etisalat Tower overlooking the Creek. The job involved a number of trips to Saudi Arabia as well as Oman, Bahrain, Qatar and Kuwait. Abu Dhabi and the remaining Emirates remained places to visit and relax in during the weekends, particularly the very serene Ras al Khaima.


I worked on a number of FMCG brands for Unilever, but the most interesting of all was a cultural lifestyle study for them based on the research of Geert Hofstede. It was a project designed to better understand Gulf Arab consumers and how their lifstyle and attitudes might be changing. But the most intriguing job of all took me to Beirut, alone. It was just after the end of the civil war and MERAC had been requested by RJ Reynolds to research lifestyle attitudes amongst smokers in the city. It was part of a wider Middle East survey using collage techniques. This was just a couple of years after hostage Terry Waite had been released after 5 years in captivity. Nothing to worry about of course but, ironically, I had become friendly with his brother David who pitched up regularly at TVam during the period. My hotel seemed to be on the border between east and west Beirut. A Syrian anti-aircraft gun emplacement filled what would have been the front garden. At least cold beer was readily available unlike in Dubai. It is difficult to gauge the destruction war leaves from a television

screen,

yet those pulverized streets offered a demonstration of the human spirit I have never forgotten. Walking through the most devastated

worst

parts of West Beirut a trail of kids kept asking me for for

money,

food,

anything really. I remembered I had a small toy bear in my backpack which


had come as part of a Kodak promotion at Dubai airport. I gave the youngest kid the bear and he ran off with the others happily enough. But a couple of minutes later he was back again. I said that's all I had, but he stretched out a tiny hand which was blue with squashed berries and small fruits. I took them and he ran off even more excitedly than before to tell his family what he'd done. Rome A lot packed into those 2 years, but time for another move. Many of my old colleagues at MBC were now working in Rome for a new satellite television start up. It was called Orbit Communications and was the world's first digital satellite television station owned by the then richest man in the world, Prince Al-Waleed or Prince Al-Waleed bin Talal bin Abdulaziz Al Saud to give him his full name. I met him once in Rome. Orbit was very corporate, too corporate for individual initiative and genuine creativity. It was television by numbers. But seeing how and where Pay TV and nascent digital media would be heading was very informative. Saying that, amidst the routine, I somehow ended up accompanying a producer to Dubai to report on that year's Miss World promotional event and interviewing Julia Morely, Chair and CEO of the Miss World Organization. It also offered the chance to meet up with Jane again who was there with MBC. Not long after word amongst the staff at Orbit was that the station was moving to Bahrain and merging with Showtime Arabia. It eventually did and is now called OSN (Orbit Showtime Network) and boasts 154 television channels and 53 high-definition channels. I had no intention of following for a very good reason. I met my wife Giuseppina and we had already started freelancing for Europe Online, another digital start up this time out of Luxembourg. It was the World Wide Web via satellite. Ridiculously fast web delivery in 1995, but still a 56k dial up to send the server your request. It never caught on. Delicious Italy Delicious Italy was born out for the work we had done for Europe Online. We curated the Italy section of their portal and were amazed how many people wrote to us for first-hand advice and tips about travelling to Italy and Italian food. We settled on the name fairly quickly and created a first website by hand in html


following a template we drew with coloured pends. We still have it. Eventually the images and code were refined by a professional graphic artist. Then we started to seriously travel the length and breadth of Italy. It was 2000. We felt like pioneers. In fact, we were pioneers and collected hundreds of brochures and information from local tourism boards, trade fairs and the annual BIT or course. Over time our services developed from selling simple advertorial pages in our portal to a full range of media marketing and press services. For those, take a look at our dedicated company website www.deliciousitaly.it But at the core of work is still a personal journey through the Italian regions through its people, gastronomy, history and territory. So after 20 years of Delicious Italy what have been the highlights? Certainly organizing location filming for Heston Blumenthal in Le Marche for the Trojan Hog episode of his 'Feast with Heston Blumenthal'. But also becoming media partner for the first four years of Taste of Roma which allowed us to interview some of the city's top chefs. And not forgetting a commission by the now defunct AA Publishing to write a new guide to Venice entitled History Mystery Walks. As for other memorable trips within Italy, then the 10-day 'South Italy Coast to Coast' was an educational tour for journalists organized by the Chambers of Commerce of Foggia, Crotone, Cosenza, Reggio Calabria and Matera. However, my favourite invite of all was from Turismo Torino and a full immersion behind the scenes of the splendid Carnival of Ivrea. As for the immediate future we are now setting up interviews for the second series of our Delicious Italy Podcasts, one on one interviews with people active in incoming tourism or gastronomic sector in Italy. And we are finishing a follow up to our self-published '92 Everyday Delicious Abruzzo Recipes'. The Grand Tour continues


Paolo Barichella, immersione totale nel Food Design Articolo e intervista di Maurizio Pelli editore Fotografia: Paolo Barichella Food Design Concept & Strategic Design Consulting Due Ritratti di Paolo Barichella: Fotografia di: Lido Vannucchi.

Paolo Barichella, milanese, classe 1969, iniziò a teorizzare nel campo di specializzazione del “Industrial Design” nel 2002, un percorso nel food formandosi sulla fisiologia sensoriale, ottenne il diploma di sommelier “AIS”. Seguì gli studi di tecnologia alimentare e iniziò a frequentare il mondo di “CAST Alimenti” dal 2004, confrontandosi con i più grandi professionisti del momento; Iginio Massari, Luigi Biasetto, Luca Mannori, Pierpaolo Magni, Leonardo di Carlo, Fabio Tacchella e Roberto Carcangiu. Occasione favorevole per apportare il suo Design nelle grandi competizioni, dove già nel 2006, diede un’ulteriore input, in team con Roberto Rinaldi, Fabio Colaucci e Beppo Tonon alla squadra Italiana partecipante alla “Coppa del mondo di Gelateria”, che vinse quella edizione, grazie anche alla consulenza e ai pezzi espressamente da loro progettati per quella competizione. Nel 2002 fu l’unico food designer in Italia, a confrontarsi con modelli di tecnologia applicata al mondo della cucina, osservando i grandi sperimentatori della gastronomia molecolare quali Ferran Adrià, Blumenthal e Enivrance. In seguito entrò in contatto con altri appassionati della materia; Mauro Olivieri, Ilaria Legato, Marco Pietrosante e Francesco Subioli, iniziando così a dare forma alle sue teorie di applicazione del design nel mondo food. Dopo qualche anno, sempre in team con i suoi amici -



colleghi di “I Food Designer, dal 2006, decisero di perseguire un obiettivo comune; quello di delineare questa disciplina. Il design è l’arte di usare la scienza con ingegno e creatività, il Food Designer si sforza per fare in modo che gli stessi principi possano essere applicati anche nel settore alimentare. Il Food Design è la progettazione degli atti alimentari (Food Facts), che è in sintesi l’elaborazione dei processi più efficaci, per rendere più agevole e contestualizzata l’azione di assumere una sostanza commestibile, in un preciso ambiente e in una circostanza di consumo, in rapporto con un ambito di analisi sociologica, antropologica, economica, culturale e sensoriale. Il Food Design prende in analisi i motivi per i quali compiamo un atto alimentare, in particolare, per comprendere come, poi, progettarlo. Progettare, nel Food Design significa proporre soluzioni alimentari efficaci in un contesto dove il prodotto sia funzionale per tipo di ambiente di consumo, e soprattutto all’esigenza dell’utente nei diversi momenti e situazioni di consumo. In una sola affermazione possiamo dichiarare che Food Design è “Progettazione consapevole di contesti, interfacce e strumenti funzionali, complementari all’atto di alimentarsi, che possono spesso consistere nell’alimento stesso”. Con il suo gruppo denominato “I Food Designer”, nel 2006 stilarono il “Manifesto del Food Design” che ha ufficialmente determina le regole che disciplinano e definiscono la posizione dell’ADI riguardo questa tematica. Paolo incontrò spesso, in diverse circostanze il grande maestro Gualtiero Marchesi, in convegni e tavole rotonde sulla luce e nelle conferenze riguardanti gli aspetti legali per brevettare le ricette. Dopo alcune edizioni della “Coppa del mondo di Pasticceria” a Lione, dove ottenne buoni piazzamenti lavorando con il Team Italia, Germania e Svizzera. Nel 2014 partecipò alle selezioni Italiane del “Bocuse d’Or” come giudice esterno, incontrando e conoscendo Giancarlo Perbelini e Mauro Colagreco. Nel 2016, sempre al Bocuse d’Or, partecipò come “Official Designer”, creando un vassoio tecnologico e rivoluzionario per Marco Acquaroli realizzato da Mepra e ispirato al tema del Rinascimento Italiano. Un incontro , in compagnia della sua socia Ilaria Legato, con lo Chef Filippo Saporito di “Villa Bardi” a Firenze ispirò uno dei suoi più originali design. Dalla terrazza del ris-



torante, godendo della più bella su Firenze, nacque il pensiero di tradurre in una bifora stilizzata e realizzata con due metalli di colore diverso, il primo supportare il vassoio da presentare in verticale per favorire la prospettiva. Tecnica rinascimentale inventata e realizzata dai grandi maestri come Piero delle Francesca. Il vassoio affogava all’interno delle batterie al litio, in grado di portare la temperatura del piano a 60 gradi, attraverso delle resistenze. Questo oggetto di design permise al “dream team” composto da Enrico Crippa, Paolo Lopriore, Giancarlo Perbellini, Fabio Tacchella e Luciano Tona, tutti coach di Marco Acquaroli, con i quali lavorava a stretto contatto di sbizzarrirsi a livello creativo-culinario. Il vassoio, inseguito diede vita al piatto celebrativo del primo gelato della storia, creato per opera di Bernardo Buontalenti, un architetto fiorentino del 1400 dove su un “marble arch” di marmo bianco di Carrara (uno dei tre del Duomo di Firenze) scolpito ad arco, il foro centrale sorregge una sfera di vetro termico borosilicato soffiato a mano, con modellato all’interno la forma della cupole di Filippo Brunelleschi. Sempre nel 2016 giunge la più ambita metà per ogni designer, una milestone, quello che consacra nella storia del design, considerato il punto d’arrivo nella carriera di un progettista. Paolo venne premiato con la menzione d’onore al “Premio Compasso d’Oro”, progettando “Espresso al Quadrato”, la prima cialda a forma cubica, completamente compostabile per “Morettino Caffè” di Palermo, conclamata azienda di grande eccellenza. Contemporaneamente all’attività e alle competizioni internazionali segue la didattica con “Poli:Design” al Politecnico di Milano, e “IULM SPD” dove si colloca, alla settima edizione del Master numero uno al mondo di “Food Design and Innovation”, completamente in lingua inglese che accoglie ogni anno circa 30 studenti provenienti da quindici nazioni diverse. Oggi, attraverso le sue imprese e l’attività di advisory, si occupa di applicare la progettazione al prodotto food attraverso la tecnologia alimentare, per mezzo della ricerca e sviluppo. Negli anni ha dato forma a diversi concept per il “Retail Food” e nuove modalità di approccio al cibo. Partecipa come docente ai Master più rappresentativi e



ha fondato società e progetti che si basano su principi di Food Design elaborando nel campo “Innovative Food Solution”, mettendo a punto e brevettando diversi sistemi per rendere il food un business replicabile attraverso efficaci procedure. Una su tutte è il bevetto per le capsule gelato “Coolella”, sistema che permette con pacossatori e minipacossatori di ottenere una crema gelato, senza la necessità di un laboratorio, dalle caratteristiche estremamente superiori in soli 90 secondi. L’unico vero sistema efficace per produrre il gelato nei ristoranti. In queto periodo Paolo è concentrato su diversi progetti; “Food Design Cafe”, che vedrà luce a fine ottobre al “MIND” – “Milano Innovation District” l’ex “Area Expo”, dove importanti investitori hanno dato vita al distretto innovativo di Milano. Paolo con “HiFood” all’interno di “DesignTech” rappresenteranno il mondo dell’innovazione con il Food Design attraverso un modello evolutivo di “Smart Kitchen” e “Self Restaurant” con aree autogestite di ristorazione all’interno dello spazio “co-living e co-working” con il cibo che ti segue anche in smart working. E’ appena partito il progetto INI, moderno “one-bite” che è stato battezzato dalla stampa come “Il boccone perfetto”, frutto delle sue approfondite teorie e studi di antropometria del passato applicate al cibo, che hanno determinato circa otto anni fa il volume e le quantità ideali del “mouthful” in 12,5 cc totali. Nel caso di “INI”, un cubetto di lato 23,2 mm, con modanature atte a prelevarlo per mezzo di un archetto, progettato via Skype con il suo socio Food Designer Mauro Olivieri almeno cinque anni fa, ora è finalmente diventato realtà, grazie alla determinazione imprenditoriale di Federico Crespi, Andrea Crespi, Nicola Crespi e il prezioso lavoro del PM Paolo Lumini. La vera ultima rivoluzione sulla quale Paolo sta lavorando è “Ultimo Tocco” Durante il periodo di lockdown, si accorse che, per necessità virtù, molti ristoranti nel tentativo di reggere il colpo causato della pandemia, hanno snaturato il proprio modello improvvisando soluzioni take away e delivery. Il fatto lo colpì molto, perché da sempre gli stessi ristoratori e chef, erano quelli che sostenevano e predicavano che la qualità esiste solo servendo piatti espressi e consumati nel minor tempo possibile, dal passaggio dalla cucina al tavolo del cliente, serviti velocemente del cameriere.


La priorità del ristorante è riempire la sala, non trasformarsi in gastronomia d’asporto per trasferire la sala a casa del cliente. Da designer, afferma che un buon rimedio non è mai una efficace soluzione, e che un ripiego è sempre una forzatura, qualcosa di temporaneo per tamponare l’emergenza. Tuttavia questa crisi insegna che l’emergenza, con il tempo si trasformata in pseudo-normalità, lasciando pesanti strascichi che hanno cambiato modelli mai prima stati messi in discussione. Paolo pensa che è giunto il momento di creare un nuovo modello di ristorazione in grado di rispondere alle nuove esigenze e bisogniche l’improvvisa condizione ha determinato. Un modello basato su sistemi e soluzioni sulle quali aveva già lavorato negli anni, creando concept innovativi per imprenditori del Food Business Ha messo a punto delle specifiche tecniche di preparazione e delle speciali metodologie che prevedono due tempi differenti. Questo permette di abbattere i prodotti e metterli in standby fino a quando arrivano a casa di chi li ha ordinati per essere ultimati ottenendo piatti espressi fatti al momento. Tutto facilmente realizzabile in pochi


minuti seguendo un “QR Code” sul proprio smartphone con istruzioni, indicazioni e video tutorial che spiegano come dare il proprio ultimo tocco. Per dare forma all’idea, coinvolge il suo socio Mauro Olivieri, mettendo in campo tutta l’esperienza di diciotto anni nel settore Food dei due più importanti Food Designer in campo internazionale, applicato tutta la loro esperienza per realizzare prodotti progettati per essere terminati di cucinare con strumenti casalinghi attraverso semplici e rapide istruzioni. Dal 2002 si occupano di progettare soluzioni alimentari efficaci, oggi hanno messo a punto questo metodo per fare in modo che i piatti dei migliori ristoranti possano arrivare nelle case con migliori condizioni di qualità. Coinvolgendo un terzo socio, Simone Lioci, hanno iniziato il progetto che oggi sta funzionando, a breve, la società svilupperà il modello per il delivery, il take away, la produzione del progetto Food Design Café in MIND e tutti i modelli di self restaurant basati su “Kitchenette”, che sostituiranno gli antiquati e vetusti spazi mensa, oggi, non più in grado di garantire le norme di sicurezza sanitaria post Covid. Il Food Design nell’immaginario collettivo è considera un’arte moderna, anche se le sue radici sono remote. Marcus Gavio Apicio, 2000 anni anni or sono, nel suo “De Re Coquinaria” non solo intentò la codificazione della cucina romana, ma, già suggeriva e descriveva delle presentazioni artistico - estetiche e specifiche, per la presentazione del cibo durante i suoi famosi “baccanali”. E’ la stessa filosofia che si evoluta sino ai giorni nostri? In realtà, nell’immaginario collettivo il Food Design assume una valenza estetica che possiede solo in parte molto marginale o come risultato di un processo. Tradotto pedissequamente, Food Design significa Progettazione Alimentare e usare l’aggettivo bello per definire un’azione non è esattamente appropriato. Il design è il processo che ha portato ad ottenere un oggetto, non l’oggetto stesso o la sua forma, è pertanto inappropriato attribuirgli una valenza estetica. Un progetto può essere buono ma mai bello. Quello che l’immaginario collettivo ha formato come concetto di design, per la verità è molto distante dal reale significato che i docenti e i professionisti da decenni si prodigano a trasferire. Il più grande equivoco sta nel riferirsi al Design intendendo parlare in realtà di Styling che è l’arte rappresentativa che si usa nel design nel delicato pas-


saggio nel dare forma al bisogno. In un oggetto di design lo styling è molto importante perché elemento che contribuisce a determinare il successo di un oggetto ma mai la decorazione, per un designer è l’anti design. Nel design si usa pensare “Less is More”, e in questa logica la decorazione è sempre qualcosa che sporca la forma. Noi designer per primi abbiamo la responsabilità di aver sempre confuso il termine Design traducendolo come disegno, ma in realtà quando si progetta la parte di disegno serve solo a rappresentare l’idea attraverso schizzi o disegni tecnici che servono a trasformare l’idea in prodotto attraverso varie tecnologie. Il primo equivoco in cui si incappa parlando di Food Design è considerarla un’arte. Ho sempre considerato il food design più una scienza che un’arte, o meglio, il Design è l’arte di usare la scienza con creatività e ingegno, il Food Design essendo un campo di specializzazione dell’industrial design ha il compito di fare questo in ambito alimentare. Il Design inteso come disciplina, nasce agli inizi del 800 al seguito della rivoluzione industriale, ma l’evento fondamentale che segna la prima Milestone per la nascita del Disegno industriale è la prima esposizione universale, ovvero la Great Exhibition av-


venuta a Londra dal 1 maggio al 15 ottobre 1851, dove per la prima volta furono toccati temi come “l’identità dei prodotti che ci circondano” e dove furono esposti una serie di oggetti di uso comune provenienti da paesi di tutto il mondo, permettendo cosi, per la prima volta, di mettere a confronto tra loro diversi stili ed influenze. Sin dai tempi del Bauhaus, movimento che ha sintetizzato i metodi formativi della disciplina, il Design si è sempre dovuto confrontare con il rapporto forma/funzione . Nello specifico per sintetizzare il senso del Design, e quindi anche del Food Design che ne è un campo di specializzazione, si può affermare che fare design significa dare forma ai bisogni della persona. Ho iniziato a teorizzare questo campo di specializzazione dell’Industrial Design nel 2002 e con i miei amici e colleghi (i Food Designer) dal 2006 perseguiamo un obiettivo comune che è quello di delineare questa disciplina. Insieme al mio gruppo de “i Food Designer”, nel 2006 abbiamo stilato un decalogo pubblicato in un Manifesto del Food Design che ha ufficialmente scritto le regole della disciplina e espresso la posizione ufficiale dell’ADI (Associazione per il Disegno Industriale) rispetto a questa tematica. Qualche anno più tardi abbiamo lavorato per far diventare il Food Design uno dei campi dell’ambito premio di Design Compasso d’Oro dove sia io si Mauro Olivieri abbiamo ricevuto una menzione d’onore a riguardo.

Fotografia: Paolo Barichella Food Design Concept & Strategic Design Consulting


L’evoluzione estetica della presentazione del cibo, ebbe in significante input durante l’opulenta cucina Rinascimentale Fiorentina, anche riguardo la creazione e il disegno degli “instrumenta manducare” dedicati alla tavola. Gli orafi fiorentini inventarono la “forca” o “imboccatoi” i a due rebbi, l’antenata delle moderna forchetta. Cambiano i tempi e le esigenze, il Food Design è sempre presente. Può considerarsi un’arte del processo evolutivo? L’estetica nel processo di design assume una valenza molto importante perché è il primo modo che l’oggetto ha di comunicare se stesso a chi lo osserva, un’opportunità unica di essere “affordable”, esprimere chiaramente e in modo immediato come deve essere approcciato per essere usato. In campo Food esprime l’appetibilità della preparazione che ci si accinge a consumare ed assumere. Il design è una disciplina che si inserisce esattamente tra l’arte e la scienza come strumento per aumentare il benessere delle persone fornendo e inventando soluzioni adatte alla vita quotidiana. Il Food Design è la progettazione degli atti alimentari (Food Facts) è in sintesi elaborare i processi più efficaci per rendere più agevole e contestualizzata l’azione di assumere una sostanza commestibile in un preciso ambiente e circostanza di consumo, in rapporto con un ambito di analisi sociologica, antropologica, economica, culturale e sensoriale. Il Food Design prende in analisi i motivi per i quali compiamo un atto alimentare, in particolare per comprendere come andarlo a progettare. Progettare nel Food Design significa proporre soluzioni alimentari efficaci in un contesto dove il prodotto sia funzionale al tipo di ambiente di consumo, e soprattutto all’esigenza dell’utente in diversi momenti e situazioni di consumo. In una sola affermazione possiamo dichiarare che Food Design è Progettazione consapevole di contesti, interfacce e strumenti funzionali, complementari all’atto di alimentarsi, che possono spesso consistere nell’alimento stesso.Da quando è nato, il design è il driver del processo evolutivo, un metodo in grado di sintetizzare in una forma esattamente le esigenze che sono in continuo mutamento.Il Food Design ha il delicato compito di far evolvere gli attuali modelli di cucina (che mostrano tutta una serie di limiti) e l’approccio al consumo di cibo attualizzandoli alle esigenze e richieste della società


contemporanea e futura. Sempre nell’immaginario collettivo, il food design, è circoscritto alla presentazione dei piatti della cucina stellata Michelin. Anche se il “passaggio” avvenne quando quando Caterina de Medici si trasferì a Parigi, influenzando, raffinando e “disegnando” le origini della cucina francese moderna. Un DNA, riconducibile al Bocuse d’Or? Mi occupo di Food Design dal 2002, anno in cui ho iniziato il percorso per teorizzarne i contenuti e i valori in Italia e l’esperienza maturata in questi anni mi porta ad affermare che c’è molto più Food Design fuori dal piatto che nel piatto. Circoscrivere il Food Design alla presentazione dei piatti dei cuochi è estremamente forviante, riduttivo e limitativo.Il settore delle competizioni gastronomiche dove ho partecipato spesso, affiancando i più grandi professionisti internazionali è un ambito dove la ricerca della perfezione di ogni dettaglio fa la differenza. Il Bocuse


d’or è la punta di un iceberg che racconta quanto la cucina francese abbia determinato la formazione della cucina internazionale. Ai giorni nostri questo modello è in continua evoluzione passando per fenomeni come Ferran Adrià ed Hervé This che hanno iniziato a far progradire il modello in qualcosa di veramente non più nazionalizzabile. Al Bocuse d’Or, dove ormai sei di casa, si respira l’alta cucina e oggi raggiunge la massima espressione del food design a livello internazionale. Quale fondamentale ruolo gioca il Food Design, e in che percentuale può incidere per l’assegnazione della vittoria di un Team? La raffinatezza estetica, l’equilibrio, le proporzioni che vengono seguite nel comporre e disporre il cibo in un campo sono uno dei requisiti che concorrono ad aumentare il punteggio, pertanto ogni fattore che consente di portare verso la strada del successo diventa importante e può giocare un ruolo fondamentale quando anche un solo punto può essere quello determimante.Il Bocuse d’Or è fatto di metodo e cura maniacale del dettaglio. Quello che può fare il Food Design è fornire il metodo e gli strumenti per presentare e rappresentare al meglio il concetto, tutto il resto è materia nelle sapienti mani degli Chef. Come in altre discipline, si vince sempre in team, e il Food Designer fa parte del Team. Lavorare in team non è sempre semplice, particolarmente per noi Italiani inguaribili individualisti, e per la mia esperienza posso dire che è certamente l’unico fattore che ci penalizza storicamente per gli scarsi risultati che in questa competizione immeritatamente collezioniamo. Il Food Design non è solo prerogativa occidentale, in Giappone, da secoli, la presentazione dei piatti è considerata un arte. Personalmente, al Museo di Arte Contemporanea di Kanazawa, vidi oggetti di Food Design di rara bellezza e inalterata funzionalità. Secondo i tuoi parametri, la parte artistico - estetica, può, o non deve mai compromettere la funzionalità per il consumo del cibo? Sin da quando ero studente, faccio parte dei designer funzionalisti alla Jasper Morrison (supernormal), pertanto la risposta “mai” appare un po’ scontata da parte mia. Tuttavia anche i designer più inclini a giocare con la forma come i grandi maestri Bruno Munari e Alessandro Mendini hanno sempre convenuto che un prodotto di design spogliato della sua funzio-


ne perde il suo significato e quindi non è più un oggetto di design. Nel percorso che porta alla forma di un prodotto di design, esistono esercitazioni estetiche e concettuali fini a se stesse spesso figlie di brainstorming, ma sono e rimangono esercitazioni, mai l’oggetto finale. La parte estetica deve aggiungere valore a quella funzionale senza mai sovrastarla, quando l’estetica prevarica lo scopo per il quale un prodotto di design è stato creato, l’oggetto perde di valore in quanto gli si pone un limite nell’usabilità. La vera sfida per il designer è creare un bellissimo oggetto indispensabile. Mi è capitato, in più occasioni, di testare alcune nuove creazioni di Michelin Starred chef, dove il Food Design estremo ha compromesso il gusto. Qual è il punto di rottura tra l’estetica e il gusto? Esiste un’etica nel Food Design a riguardo? In questa storica e controversa diatriba, il Food Design si inserisce aggiungendo il concetto di funzione che dagli albori di quando è nato porta con se e di cui accennavamo poco fa. Come per il design l’estetica non può essere elemento che influisce sulla funzione, in un prodotto food, gusto, sapore e consistenza non devono essere penalizzati dall’aspetto. Sin da quando ho teorizzato la materia in Italia, gli aspetti legati alla fisiologia sensoriale hanno sempre ricoperto un valore per me determinante e imprescindibile. Il prodotto di Food Design perfetto è quello che lascia il segno. Per questo dal 2008 parallelamente al Food Design ho sviluppato il “Sensory Design”, se vuoi un po’ l’arte di emozionare attraverso i sensi. Quello che da qualche tempo è diventato termine d’uso comune come “Experience”. Il Sensory Design in sintesi si applica laddove si vogliono creare emozioni attraverso il Food Design, e funziona così: i sensi sono i nostri organi di avvertimento e ricezione della realtà che ci circonda, essi producono stimoli che generano sensazioni che passando per il nostro cervello diventano emozioni e se sono “disruptive” si trasformano in esperienza. Se l’esperienza è eccellente si fissa nella memoria come ricordo permanente e indelebile. Non esiste brand experience più potente del lasciare un ricordo positivo e indelebile nella memoria di una persona. In un ristorante a Dubai, durante il nostro incontro, ho avuto l’occasione di testare un gelato di qualità, che hai prodotto al momento in pochi minuti, con una macchina di tua


progettazione. Cambierà il modo di proporre il gelato nei ristoranti? Se un virus ha cambiato dalla sera alla mattina il nostro modo di vivere, mi piace pensare che il mio sistema possa cambiare il modo di fare gelato in un ristorante. D’altra parte quando un sistema dimostra di essere quello più adatto a produrre i più elevati standard di qualità e freschezza in 90 secondi l’aspettativa è alta e spero di riuscire a comunicarlo. Innovazione e progresso sono il motore che muove il design. La tecnologia è lo strumento nelle mani del designer per attuare questo percorso. La tecnologia in questo caso si basa sull’utilizzo di fibre naturali vegetali di estrazione plantocentrica. Ingredienti di nuova generazione che evitano di base le discussioni sulla chimica in cucina, ingredienti che alcuni anni fa ho messo all’interno di una capsula brevettata in grado di generare delle basi per gelato in grado di conferire una struttura senza precedenti pur riducendo grassi e zuccheri. Ho progettato il sistema basandomi su una tipologia di macchine esistenti che gli che stellati conoscono bene e che sono i pacossatori. Ora con una delle mie startup produciamo le basi per dare la possibilità di creare gelato espresso in pochi secondi partendo dalla frutta fresca davanti agli occhi del cliente. Avendo una temperatura leggermente più alta e una spatolabilità differente da quella del gelato da mettere su un cono si presta ad essere gestita in locali dove la qualità è più apprezzata che in una semplice gelateria. Questa pandemia, sfortunatamente ancora in corso, sta cancellando alcuni concetti fondamentali e consolidati della ristorazione, per introdurre nuovi standard causa la necessità igienico - sanitarie. Come evolverà il Food Design in questo settore, nell’era post Covid 19?

Durante il lockdown, insieme a Maurizio Lai (a capo del

più rinomato studio specializzato nella progettazione di ristoranti), siamo stati chiamati a far parte di una task force di studi internazionali per redigere una serie di linee guida che sono entrate in un white paper. A noi è stato affidato il compito di capire come il fenomeno impatterà sulla ristorazione.Da questi confronti posso con una ragionevole certezza affermare che chi già prima seguiva gli standard igienico sanitari, oggi e in futuro avrà meno problemi. L’evoluzione che il Food Design può portare nel post covid passa attraverso il Sensory Design e il Proxemics Design, ambiti sui quali lavoro da molti anni prima che il noto virus li rendesse di


estrema attualità. Del Sensory Design ho già accennato pocanzi, il Proxemics Design invece è la disciplina semiologica che studia i gesti, il comportamento, lo spazio e le distanze all’interno di una comunicazione, sia verbale sia non verbale e me ne sto occupando dal periodo di lockdown. La prossemica unita all’ergonomia e l’antropometria sono scienze che si occupano dei misure e distanze sociali. Una delle cose che il virus ci ha insegnato è che da molto tempo eravamo andati molto oltre il limite della tolleranza minima dettata dalle norme elementari di prossemica generando disagio nelle persone sforzate nei locali a passare dalla distanza personale alla distanza intima. Era tempo che nei ristoranti e nei mezzi pubblici si riportasse la distanza intima a ridivenire personale. Il Covid ci ha di fatto obbligati a vivere la distanza pubblica per capire che in mezzo ci sta anche quella sociale. Le nostre soluzioni si riferiscono alla prossemica come elemento di interazione nello sviluppo del progetto e sono sviluppate per rispettare la distanza personale. La prossemica è senza dubbio la chiave per la progettazione della futura ristorazione. Paratie posticce in plexiglass, campane di vetro e altri estemporanei quanto effimeri rimedi non riusciranno a restituire al ristorante il suo scopo significante, che non è tenere separate le persone ma unirle, anche in modo distanziato ma permettere loro di condividere un’esperienza primordiale e antropologica che è la condivisione dell’atto alimentare. Un buon rimedio non è mai una efficace soluzione. Ricercare il modo di separare chi si reca in un sito con lo scopo di stare insieme porterà solo le persone a non ritornarci. La progettazione attraverso il Food Design, deve concentrarsi su nuove modalità di aggregazione, non sugli oggetti e barriere tra le persone.


2020 White Truffle Season Author Massimo Vidoni. Photo Copyright: Italtouch, Dubai. 2020 has been a very odd year, apparently due to abundant rain throughout summer; it is supposed to be a very good year for white truffle (Tuber Magnatum Pico). I spoke with many truffle hunters from Piemonte to Tuscany and most them had said, that there has been abundant rain throughout the territory and they are hoping for a very good season with very high quality truffles. Prices are hard to predict this season, as many major markets like the U.S.A. with most restaurants closed due to lockdown, there will be less demand therefore resulting to regular, affordable prices. It’s been a tough year and I hope the hospitality industry will bounce back. In the UAE, the lockdown has been lifted; and businesses are open following strict protocols and everyone is adjusting to the “new normal”. Even air travel and tourists are limited, so we have noticed an increase in demand for prestigious goods especially truffles and caviar compared to last year. This month we are looking to do the same as last year or even more. I wish all the best of luck for everyone.


Photo Copyright: Italtouch, Dubai.


Maison Troisgros, è il nuovo ristorante tre stelle Michelin più antico del mondo Roberto Mostini Fotografia: Maison Troisgros Dopo la perdita della terza stella Michelin del ristorante L’Auberge du Pont de Collonges di Paul Bocuse, è Maison Troisgros il tristellato più antico del mondo. La leggenda narra e, in questo caso ha tutte le connotazioni per riflettersi perfettamente nella realtà. Una storia che si potrebbe aprire con l’immagine di Pierre Troisgros che in una tiepida mattinata della primavera 1968 - mentre l’Europa intellettuale è in pieno fermento - gira l’angolo e si reca alla vicina edicola per acquistare il giornale. In edicola quel giorno è arrivata anche l’edizione della Guida Michelin, Pierre, in automatico infila il pollice qualche millimetro dopo l’ipotetica posizione delle molte pagine dedicate alla capitale. P, Q, R Finalmente la pagina di Roanne si schiude e Pierre, davanti alla curiosità della signora che gestisce l’edicola mormora , è una catastrofe…tutto bene monsieur Troisgros? domanda la signora, si, o anche no, non va bene, non siamo pronti, non è possibile paragonarci a La Tour d’Argent, a Maxim’s , addirittura impensabile valere quanto La Pyramide. Ma non ci sono errori, Troisgros quell’anno raggiunse la terza stella Michelin, qualche settimana prima che gli eventi sociali immobilizzassero la Francia, svuotando i ristoranti di lusso.

Quella terza stella che detiene ancora oggi, e non ci sono motivi di dubitare che la Maison di Roanne o dintorni potrà festeggiare il cinquantaduesimo anniversario del massimo riconoscimento, addirittura più di una sessantina dall’attribuzione della prima. La storia poi narra della


presa di coscienza tra Pierre e Jean Baptiste Troisgros “noi siamo quelli che siamo e dobbiamo continuare ad esserlo, se ci hanno premiato è per quello che siamo e non per quello che vorrebbero fossimo”. Bando alle tristezze e alle preoccupazioni, incredibile quanto un successo possa mettere a disagio, ma questo è l’atteggiamento dei saggi, di chi non si sente arrivato ma sul punto di partenza. In cucina si stappa Champagne, i ragazzi della brigata alzano le coppe, tra di loro un apprendista diciassettenne che si interroga mentalmente se questa soddisfazione che un giorno potrà toccare anche a lui; si, anche lui ci arriverà, anche quel ragazzino curioso, Bernard Loiseau, raggiungerà il traguardo.

La storia della famiglia Troisgros relativa alla ristorazione comincia nel 1930, non a Roanne ma giù a Chalon sur Saone, dove papà e mamma dei due bimbi gestiscono il Café des Négociants. I genitori hanno però in mente qualche cosa di meglio per il futuro dei bimbi. È la classica storia generazionale francese applicata alla conservazione delle tradizioni e dello sviluppo delle idee, che non vede il limite nello spazio e nel tempo. A Roanne dunque, dove è in vendita l’Ho-


tel des Platanes, che diviene in breve l’Hotel Moderne, perché addirittura modernizzato al punto di avere acqua calda a tutti i piani! La cucina estremamente tradizionale, ovviamente tradizionale e, la posso immaginare come quella di oggi in alcuni localini di Borgogna dove cominciare il pranzo con jambon persillé, omelette, piedino di vitello in vinaigrette. Hopps, avez vous dit vinaigrette? Oui, vinaigrette, il marchio di fabbrica è già stampato. Pierre racconterà in seguito che a casa loro la mamma non doveva mettere via il barattolo di marmellata ma nascondere ai due figli i sottaceti per evitarne l’abuso.

Altra situazione che oggi sembra ovvia allora non lo era per nulla, perché è vero che l’abitudine di servire i vini rossi a temperatura d’ambiente era la regola base di tutta la ristorazione d’Europa. Papà Jean Baptiste si accorse invece che Beaujolais e Bourgogne rouge, da giovani erano molto meglio, più gradevoli se serviti a temperatura di cantina; un altro tassello piazzato al punto giusto. Ma è tempo di guardarsi anche attorno per capire come va il mondo dell’alta gastronomia francese per confortare le legittime ambizioni dei ragazzi, che così partirono alla volta di Parigi e di Vienne. Crillon, Pyramide, Lucas Carton, Maxim’s: percorso netto, ormai il futuro è nelle loro mani, i maestri hanno fatto il loro, adesso è il momento di allungare il passo per i ragazzi di Roanne e nel 1953 l’insegna Maison Troisgros è una realtà. Roanne diventa progressivamente una tappa quasi obbligata da inserire nel grand tour gastronomico di ogni appassionato.

La comunicazione è limitata alle guide; Michelin e Relais Chateaux fanno il loro per far conoscere le eccellenze dell’epoca e i pellegrinaggi verso la Maison Troisgros non cesseranno mai, un saumon a l’oseille vale già il viaggio. Località defilata e bruttina, ma con questa allure di tranquillità che consente ai Troisgros di lavorare serenamente, lontano dai clamori di Lyon o Parigi, assorbendo con circospezione ogni corrente, ogni evoluzione del gusto e delle


Fotografia: Maison Troisgros


tecniche senza svilire mai uno stile che fa della leggerezza, della finezza, della concentrazione e della magistrale gestione delle acidità la sua peculiarità primaria. Tutte quelle piccole attenzioni discrete che ancora oggi Michel Troisgros non ha dimenticato di applicare alle sue creazioni.

I lutti recitano la parte principale nelle rappresentazioni dove queste saghe famigliari vanno in scena, dunque nel 1973 Jean Baptiste muore in uno dei due migliori posti dove farlo, a tavola, mentre è più originale l’uscita di scena di Jean, su un campo da tennis.

Con naturalezza Michel sale al timone del bastimento dopo esperienze di vario genere, Michel Guerard, Alain Chapel, Roger Vergé, e modernizza progressivamente uno stile che fa dell’essenzialità e della pulizia dei sapori l’aspetto primario. Apparentemente, perché poi da un lato ci sono le proverbiali acidità a rialzare il tono di ogni piatto, dall’altra il non rinunciare a grassezze e morbidezze dove necessario, o dove non dimenticare da dove veniamo e che cosa ci aspettiamo da una cucina profondamente cucinata e quasi mai solo assemblata, dove non mancherà anche un tocco d’oriente, come nello sguardo di Michel.

Tre è il numero delle mie presenze negli ultimi quattro anni, tutte molto positive, confortate dalla concretezza, dalla finezza, dal sapiente uso delle tecniche senza innamorarsene, solo come strumento per raggiungere l’obiettivo. Esperienze piacevolissime anche perché addolcite dall’atteggi mento umile e cosciente di questo petit grand chef, uno che ha deciso che il suo pubblico va salutato prima e dopo lo spettacolo, uno che passa lo straccio sulla stufa per non scordare a nessuno che di li si parte, e che, ed è un’informazione non più riservata, dicevo, uno che riempie i frigoriferi del fresco in prima mattinata e alla sera si può permettere di lasciarne aperti gli sportelli, liberi di non dover contenere più nulla fino al giorno dopo.

Già nel 1968 un giovane Christian Millau strillò sull’altrettanto giovane rivista Gault-Millau: ho sco-

perto il miglior ristorante del mondo. Io mi accontenterei di ritenere, dopo quasi 30 anni di frequentazioni top europe, che questo sia il miglior ristorante d’Europa, non tanto per le punte di eccellenza quanto per l’eccezionale continuità che oggi prosegue a Ouches, in un contesto diverso ma sempre continuo. Un’altra grande storia alla francese. Chapeau.





Fotografia: Press Agent Glam


Ferran Adrià explicará el proyecto de el Bulli1846 desde Cala Montjoi en Gastronomika 2020

E

l genio de L’Hospitalet†se conectará en directo desde Cala Montjoi para enseñar eltrabajo realizado en la primera convocatoria de el Bulli1846. El cartel de nombres españoles incluye, entre otros, a los chefs con estrella ÁngelLeón, Toño Pérez, Paco Morales, Javier Olleros o Maca de Castro, y a los‘heterodoxos’†Rafa Peña, Sacha Ormaechea, Pedro Sánchez, Jordi Vilà o Nino Redruello.Andoni Luis Aduriz, Josean Alija, Hilario Arbelaitz, Juan Mari Arzak, Eneko Atxa,Martín Berasategui y Pedro Subijana, la excelencia vasca, no faltarán tampoco a laedición más especial del congreso donostiarra.

San Sebastian Gastronomika-Euskadi Basque Country 2020 va perfilando el programa con el queeste año mostrará desde la web la diversidad de la gastronomía mundial en un congreso titulado“Caminos-Bideak-Pathways”. Un programa, estructurado en torno a cinco temáticas generalesque guiarán cada uno de los cinco días de congreso (del 5 al 9 de octubre), que contará con laparticipación de los mejores cocineros del país. Entre ellos, volverá al escenario, en este casovirtual del congreso, Ferran Adrià, quien se conectará en exclusiva desde el Bulli1846. Además,en la cita de octubre también estarán los miembros del comité técnico de Gastronomika: AndoniLuis Aduriz, Josean Alija, Hilario Arbelaitz, Juan Mari Arzak, Eneko Atxa, Martín Berasategui y Pedro Subijana, así como de una representación de la mejor vanguardia nacional. El 1 de agosto, Ferran Adrià recibió en Cala Montjoi a la selección de profesionales que, hasta el15 de noviembre, trabajarán en la primera convocatoria de elBulli1846. En la primera semanade octubre, cuando tenga lugar Gastronomika, el trabajo estará encarando su recta final, por loque el genio de L’Hospitalet†podrá hablar de innovación, ex-



plicar el concepto del proyecto asícomo el fruto de la labor realizada durante este tiempo. También mostrará imágenes de lasnuevas instalaciones. Ha sido la crisis del coronavirus la que ha convertido a la edición XXII deSan Sebastian Gastronomika en virtual, hecho que se aprovechará para vivir un momento único. Además de Adrià, la vanguardia nacional no faltará tampoco a la edición más especial deGastronomika, la primera totalmente gratuita y online. En directo y desde sus cocinas -o desdelas de algunos colegas vascos- llegarán a Gastronomika, entre otros, Ángel León (Aponiente***,Puerto de Santa María), Joan Roca (El Celler de Can Roca***, Girona), Paco Morales (Noor**,Córdoba), Toño Pérez (Atrio**, Cáceres), Javier Olleros (Culler de Pau*, O Grove), Maca deCastro (Maca de Castro*, Port d’Alcúdia) o Maria Solivellas (Ca na Toneta, Caimari). Sacha Ormaechea, Pedro Sánchez o Jordi VIlà, entre los “heterodoxos” También habrá espacio en esta edición para los “heterodoxos”. Cada vez hay más cocineroscreativos que apuestan por una cierta informalidad en sus locales y propuestas comprometidascon una cocina directa y sin grandes transformaciones de los alimentos, en su mayoría productosde procedencia cercana y de rigurosa temporada. Han ido surgiendo de modo espontáneo y sinplanificación en diferentes ciudades y pueblos en los últimos años, pero a día de hoy se les puedemirar como miembros de un mismo colectivo, con sus individualidades y singularidades, másallá de las modas. San Sebastian Gastronomika-Euskadi Basque Country penetrará en este movimiento pararedescubrir, analizar y valorizar lo que se podría denominar “post bistronomía”†con undocumental, mesas redondas y ponencias de una docena de estos “alternativos”. Entre ellosestarán presentes Pedro Sánchez (Bagà*, Jaén), Jordi Vilà (Alkimia*, Barcelona), Rafa Peña(Gresca, Barcelona), Sacha Ormaechea (Sacha, Madrid), Carlos Torres y Elisa Rodríguez (LaBuena Vida, Madrid), Nino Redruello (Fismuler, Madrid) o Ivan Domínguez (NaDo, A Coruña). Hermanamiento con Italia y “Black Cuisines Matter” Además, durante esos días Italia y España cocinarán juntas en San Sebastian. El congresodedicará una jornada al país transalpino, uno de los territorios europeos que más ha sufridojunto a España los efectos de la crisis sanitaria. Se producirá un hermanamiento italo-español através de algunos de los mejores chefs de ambos países, que además cocinarán juntos en dosde las cenas oficiales del congreso. Gastronomika 20, además, apuesta por dar visibilidad a la“cocina negra”, una “new wave”†socio-culinaria (“Black Cuisines Matter”) que vindica conorgullo la raza y los ancestros culinarios (África, las Antillas, América…) y que se va extendiendoen los últimos años. Para ello, algunos de los mejores chefs negros del mundo pasarán por elescenario del auditorio virtual. San Sebastian Gastronomika-Euskadi Basque Country se podrá seguir en tiempo real desdecualquier rincón del mundo y para disfrutar de todo el congreso tan solo es necesaria lainscripción gratuita previa en la web www.sansebastiangastronomika.com. Una oportunidadúnica con el sello de calidad del decano de los congresos gastronómicos.


Fotografia: San Sebastian Gastronomika


Parador Hotel & Ristorante Carlos V “Un Castello caduto dal Paradiso” Margaux Cintrano, editore

Traduzione di Maurizio Pelli, editore fotografia: Parador Hotel Carlos V, Jarandilla de La Vera, Cáceres Nel 1928, il Governo spagnolo su iniziativa del Marqués Vega Inclán, durante il regno di re Alfonso XIII, aprì al pubblico il primo “Hotel Parador”. Un gioiello rinascimentale del XV secolo, incastonato nel cuore della catena montuosa Gredos a Navarredonda di Gredos, Ávila, nella contea di La Vera, Cáceres. Da allora, la catena Parador Hotel, riportò allo splendore altri antichi castelli, importanti fortezze storiche, monasteri di straordinaria bellezza, maestosi conventi medievali, palazzi principeschi, imponenti torri ottagonali e molte case padronali della nobiltà. Fu reclutato un team internazionale di architetti, restauratori e specialisti di fama mondiale per restaurarli e trasformarli in autentici paradisi di rara bellezza. Celebre per l’impegno di mantenimento dei concetti originali, la Catena agisce come custode del patrimonio artistico nazionale spagnolo, offendo nel contempo strutture per il turismo internazionale di alta gamma, promuovendo e dinamizzando le regioni spagnole meno conosciute al pubblico. Hotel extra lusso, dotati di tutti i più moderni confort e servizi, senza mai comprome-


fotografia: Parador Hotel Carlos V, Jarandilla de La Vera, Cรกceres


tterne lo stile e il fascino della loro straordinaria atmosfera, colma di dettagli storici e ricordi del passaggio di leggendari personaggi del passato. L’imperatore Carlo V , in quel periodo fu l’uomo più potente del mondo, durante il suo regno risiedette in questo storico castello per alcuni mesi, prima di ritirarsi nel monastero di Yuste, a otto chilometri a Cuacos, un luogo da annotare per essere visitato. L’hotel nasce sul castello fortificato che risale ai conti di Oropesa, allora costruito sulle rovine di un’antica fortezza, successivamente ricondizionata secoli dopo, dove abitò Re Alfonso XIII. Dotato di tutto quello che un castello dovrebbe possedere; una stanza blu con camino e arazzi del XV secolo, il salone dei ritratti, la sala d’armi, le robuste torri angolari, fortificazioni e feritoie, ora usate come temporaneo rifugio dalle cicogne durante la migrazione. Non mancano le “macchicolazioni” e “buchi di omicidio” dove si preparava l’olio bollente per contenere gli assalti dei nemici, le “torrette” piccole strutture sporgenti per armi da fuoco dei cannonieri e gli stemmi araldici. Il Rinascimento italiano influenzò tutte le vedute della sala da pranzo che si affacciano sul bellissimo cortile, che è un santuario coperto di edera, ombreggiato da palme raffiguranti il microclima della regione. Il centro del cortile ospita una fontana, creando un luogo ideale per i cocktail e i drink dopo cena, animano le conversazioni durante le serate estive e di inizio autunno. Oggi, senza mai stravolgere le strutture originali si può accede dal ponte levatoio tra due torri cubiche della fortezza ai giardini di squisita bellezza, contornati di antichi eucalipti, piante di aranci e cespugli di lillà. Un Castello Nobile, nel vero della parola. Una delle “Camere Nobili”, la 219, è tra delle migliori del castello, dotata di un grande balcone, situato sopra i giardini, un rifugio ideale di questo privilegiato paradiso di sogni dorati. Il castello è disposto su tre piani, ospita cinquantadue camere, perfettamente restaurate, in un ambiente rinascimentale ricco di “tesori reali” risalenti al 1556, che disposti nei saloni di comune accesso, seducono e incantano gli ospiti dell’hotel.






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