SENSAZIONI SENTIMENTI SAPORI
Il benessere che parte dalla natura
Ciclista e contadino: il campione si racconta
Törggelen, rinascita di una tradizione
Il benessere che parte dalla natura
Ciclista e contadino: il campione si racconta
Törggelen, rinascita di una tradizione
09.05.–01.06.2024
Ricaricatevi, respirate profondamente e ammirate il risveglio della natura!
Un ricco programma settimanale vi invita a riscoprire l’incanto della primavera alpina, con tante attività e con le speciali delizie culinarie servite dalle baite e osterie contadine che partecipano all’iniziativa.
Un programma contadino molto speciale, ricco di emozioni e ispirazioni.
Accompagnati dai colori autunnali, dalle vette panoramiche e dalla fresca aria di montagna, un’esperienza unica all’insegna della tradizione, del divertimento e del sano movimento.
Le emozioni in malga vi invitano a conoscere da vicino questa terra, la sua gente e le sue usanze per rendere la vacanza ancora più intensa ed interessante.
1 Cosa ha sorpreso e colpito di più la nostra autrice Lisa Maria Gasser nella ricerca sul Törggelen (p. 20)? “Che una nuova generazione di agricoltori e viticoltrici sia riuscita a liberare questa tradizione culinaria dai suoi cliché con slancio e leggerezza. Riaccendendo la magia che si era persa negli anni.”
2 La redattrice Silvia Oberrauch doveva effettuare una ricerca storica. “Ma approfondendo il tema delle Opzioni in Alto Adige (p. 68), ho continuato a pensare al fatto che ancora oggi, in tutto il mondo, numerose famiglie si trovano ad affrontare il destino di dover lasciare la propria terra. Questo mi ha fatto riflettere.”
3 Anche nella redazione di COR non mancano gli avvenimenti misteriosi (p. 78)! Si sospetta che un diavoletto si aggiri tra le nostre scrivanie. Ruba il cioccolato nascosto nei cassetti, fa sparire le pagine della rivista appena stampate e fa i dispetti accendendo e spegnendo la radio. Noi lo amiamo comunque!
Cor. Il cuore. Das Herz. Batte più velocemente dove il passato incontra il futuro. Dove una nuova generazione fa propri gli insegnamenti dei nonni. Dove i giovani hanno voglia di far rivivere le vecchie usanze arricchendole di nuove idee. È così che il territorio mantiene la sua vivacità. In questo numero vi portiamo a fare dei viaggi nel passato… e nel presente! Tra cucina, natura, sport e società. Un numero fatto di idee, di storie che raccontano le persone del posto. Come vivevano e come vivono, cosa li emozionava allora e cosa li emoziona oggi, come erano e come sono. Legati al loro territorio, ma aperti al mondo. E soprattutto: pieni di simpatia!
Colophon
EDITORI Bressanone Turismo Soc. Coop. Società cooperativa turistica Rio Pusteria Società cooperativa turistica Chiusa, Barbiano, Velturno e Villandro Società cooperativa turistica Naz-Sciaves Associazione turistica Luson IDM Südtirol – Alto Adige
CONTATTI info@cormagazine.com
REDAZIONE Exlibris exlibris.bz.it
PUBLISHING MANAGEMENT Valeria Dejaco (Exlibris)
CAPOREDATTORE Lenz Koppelstätter
ART DIRECTION Philipp Putzer farbfabrik.it
AUTORI E AUTRICI Marie Clara, Valeria Dejaco, Lisa Maria Gasser, Amy Kadison, Daniela Kahler, Marianna Kastlunger, Lenz Koppelstätter, Debora Longariva, Judith Niederwanger e Alexander Pichler (Roter Rucksack), Silvia Oberrauch, Verena Spechtenhauser
FOTOGRAFIE
Copertina: Caroline Renzler; archivio, Alamy (CTK, Live Media Publishing Group, Rolf Simeon), Irina Angerer, archivio Armin Mutschlechner, Archivio provinciale della Provincia di Bolzano, Bressanone Turismo (Nicolò Degiorgis, Alex Filz, Matthias Gasser, Philipp Seyr, Andreas Tauber), Brixmedia Srl/Oskar Zingerle, Egon K. Daporta, Jürgen Eheim, Manuel Ferrigato, Frei und Zeit, Wolfgang Gafriller, TG Gitschberg Jochtal, Gitschberg Jochtal/Alex Filz, IDM Alto Adige/Manuel Ferrigato, IDM Alto Adige (Martina Jaider, Harald Wisthaler), Tobias Kaser, TG Chiusa, Leitner AG, TV Lüsen, Hannes Niederkofler, Michael Pezzei, Pharmaziemuseum/Lewit, Plose AG, Ida Prinoth, Provincia Autonoma di Bolzano/Ufficio Film e media, Caroline Renzler, Arnold Ritter, Roter Rucksack (Judith Niederwanger & Alexander Pichler), Rotwild/Horst Oberrauch, Shutterstock/Alexander_P, Social Ventures, Dennis Stratmann, Andreas Tauber, Unsplash/Kai Wenzel
ILLUSTRAZIONI Elisabeth Mair (4, 68)
TRADUZIONI E REVISIONE
Exlibris (Valeria Dejaco, Helene Dorner, Paolo Florio, Alison Healey, Debora Longariva, Milena Macaluso, Charlotte Marston, Federica Romanini, The Word Artists)
STAMPA Lanarepro, Lana
6 Battiti del cuore
I luoghi che fanno bene all’anima
14 Buone nuove Notizie e curiosità dal territorio 18
62 Sembra di volare! Come
64 Vini del Nord In
66 L’Alto Adige per principianti 5a puntata: L’arte di salutare
67 Piccolo dizionario sudtirolese Il nostro dialetto, spiegato bene
68 Restare o partire? Le Opzioni del 1939
76 Solo il meglio Rassegna di prodotti del territorio
78 Luoghi incantati Racconti mistici da vivere in prima
82 Nel cuore delle montagne La storia dietro l’immagine
Con il generoso supporto di:
Tanta natura, in mezzo alla città. Il percorso lungo il fiume Isarco che dall’Abbazia di Novacella conduce fino al centro storico di Bressanone passa per una nuova zona ricreativa. Il fiume gorgoglia dolcemente, il sole fa capolino tra il verde del fogliame: un idillio per famiglie, amanti del jogging e delle passeggiate.
Sulle passeggiate lungofiume, davanti all’architettura moderna, sulle vette o sulle piste: dove c’è bellezza, rilassarsi è facilissimo.
L’architettura contemporanea nel cuore dell’antica città vescovile: le moderne facciate dell’università di Bressanone allargano gli orizzonti, incoraggiano la ricerca e ispirano nuove idee.
Nelle Alpi c’è sempre qualche montagna a bloccare la vista dell’orizzonte? Non è affatto così. Sull’Alpe di Villandro, la vista spazia senza ostacoli, fino alle maestose cime delle Dolomiti in lontananza. Pietre e prati, sole e nuvole, il cielo. E nient’altro. Perché altro non serve per soffermarsi. Per ascoltare i battiti del proprio cuore. Per respirare.
Una giornata sugli sci, da vivere in famiglia. Durante le comode corse degli impianti di risalita nell’area sciistica Rio Pusteria c’è tempo per ammirare il panorama, scattare selfie e mettersi d’accordo su quale sarà la prossima discesa: l’adrenalinica Mitterling… o la tranquilla Seepiste che predilige papà?
È LA DISTANZA IN METRI percorsa dalla nuova cabinovia della Plose, che entra in funzione a fine 2023. Il tragitto è suddiviso in due parti: la funivia “Plose I” collega Sant’Andrea, sopra Bressanone, alla stazione intermedia, dalla quale parte la tratta “Plose II” fino a Valcroce, a 2.050 metri di altezza. Il moderno impianto bifune sostituirà la funivia attuale, che trasporta da ormai 37 anni sciatori ed escursionisti sul comprensorio. L’impianto con nuovissime cabine da 10 posti e una portata di 2.400 persone all’ora è stato progettato per rispondere all’incremento dei passeggeri registrato nel corso degli anni, soprattutto nella stagione estiva. La nuova cabinovia sarà attrezzata per il trasporto di biciclette e priva di barriere architettoniche.
plose.org
L’“ETICHETTA DI SOSTENIBILITÀ ALTO ADIGE” è una certificazione assegnata a destinazioni e strutture ricettive per renderne visibile l’impegno a favore delle generazioni future. Le strutture riconosciute si impegnano a utilizzare in modo responsabile risorse e fonti energetiche, offrono ai propri collaboratori un ambiente di lavoro positivo e rispettoso delle esigenze familiari e si adoperano per la tutela del patrimonio culturale e della biodiversità del territorio. La sostenibilità, infatti, non si esaurisce nella protezione ambientale. La certificazione prevede tre livelli (il più elevato, associato al colore verde scuro, è riconosciuto anche a livello internazionale) e si basa sui severi criteri stabiliti dal Global Sustainable Tourism Council (GSTC), con verifiche eseguite da un’organizzazione esterna e indipendente. Bressanone, con i vicini centri di Varna e Fortezza, sta attualmente concludendo l’iter di certificazione per il livello 3 e GSTC. suedtirol.info/vacanze-sostenibili
Lo sapevate che… in Alto Adige c’è una nuova etichetta di sostenibilità per località e alberghi?
L’arte nasce dall’incontro-scontro tra realtà diverse: una massima tanto vera quanto riduttiva rispetto alla varietà delle mostre ospitate dalla piccola galleria di Rio di Pusteria. Lo spazio espositivo, guidato dal 2006 dall’artista Alex Pergher, è una vera chicca per gli appassionati di arte contemporanea. Il programma comprende pittura, scultura e installazioni, che affrontano in chiave creativa tematiche attuali come la guerra e la crisi ambientale (“The compass of the soul”, luglio-agosto 2023).
alexpergher.com
Impossibile non notare la Venere d’oro collocata all’ingresso di Chiusa, “città degli artisti”: di dodici tonnellate, creata in cemento e con un masso erratico dallo scultore Lukas Mayr. L’opera itinerante si può ammirare nell’attuale posizione fino alla fine del 2023, quando proseguirà il suo viaggio verso un’altra città. L’autore, che ha iniziato la sua carriera come idraulico prima di dedicarsi all’arte, offre un’interpretazione moderna e personale di questo motivo dell’arte primitiva. Con la sua Venere fatta di sfere, Mayr ha voluto creare una scultura – è proprio il caso di dirlo! – a tutto tondo, simbolo di pace e fertilità, per poi consegnarne le curve all’eternità: l’artista passa infatti le sue opere in uno scanner per ricavarne altrettanti “gemelli” digitali, cosiddetti NFT, unendo dimensione reale e mondo digitale.
Instagram @myonesphere
❸ GALLERIA CIVICA: ARTE SENZA CONFINI
Espandere l’arte: è questa la nuova strategia della Galleria civica di Bressanone. La galleria, che prevede un cambio biennale dei curatori, dal 2023 ha affidato la propria guida all’architetto Gerd Bergmeister e all’artista visivo Josef Rainer, che a quattro mani intendono ampliare gli spazi espositivi coinvolgendo anche il nucleo storico della città e creando così punti di contatto tra arte e architettura. Tutte le mostre in programma saranno realizzate da team di artiste e artisti sia giovani che già affermati. La collaborazione con musei, studenti e popolazione locale darà vita a un dialogo articolato che andrà oltre i confini fisici della galleria.
stadtgaleriebrixen.com
Tre proposte contemporanee da scoprire a Rio di Pusteria, Chiusa e Bressanone
La vertebra di una mucca, “creata” in origine dal macellaio che l’ha venduta per preparare il brodo di carne, ricreata in legno dall’artista viennese Peter Sandbichler.
Impensabile! Le acque del torrente, che con il loro gorgoglio accompagnano gli escursionisti lungo la tranquilla vallata, hanno anche un’importanza storica. Per secoli il corso d’acqua ha infatti rappresentato una preziosa fonte di energia per gli artigiani della zona, agevolando il lavoro di mugnai, falegnami e fabbri. Le sue acque azionavano inoltre la “Strickersäge”, una cosiddetta sega veneziana: una segheria ad acqua costruita nel 1847 sotto un tetto di scandole in riva al torrente e tuttora visitabile. Da non perdere infine il mulino, ancora funzionante, che nel 1758 fu spostato dal rio Lasanca al rio Casera.
luesen.com
UN NUOVO PERCORSO ESCURSIONISTICO ideale per le famiglie si snoda intorno a Gudon, il “borgo sui sette colli”. L’itinerario di quasi due chilometri, adatti in buona parte anche ai passeggini, è nato dalla modernizzazione e dall’ampliamento di alcuni sentieri preesistenti. I pannelli informativi posizionati lungo le tappe raccontano a misura di bambino la secolare storia di Gudon: si passeggia insieme a “Gufi”, il simpatico gufetto mascotte dell’itinerario, chiamato così anche in onore di Gufidaun, nome tedesco del paese. Lungo il percorso circolare si trovano anche aree giochi e per grigliate, panchine, punti panoramici e punti di ristoro.
klausen.it
Per secoli, il rio Casera ha svolto il suo compito: era fonte di vita per l’artigianato del paesino, per mugnai, falegnami, fabbri.
IL COLORE NERO INTENSO E L’AROMA DEL CIOCCOLATO FONDENTE sono il biglietto da visita di “Skuro”, la Coffee Stout di Viertel Bier. Il giovane team del birrificio – il nome tradotto significa “Birra del quartiere” – propone altre sei etichette dal design inconfondibile, dalla classica chiara alla IPA, e alcune varietà stagionali. Tutte nascono dall’incontro tra creatività e tecniche di lavorazione tradizionali, a partire da cereali di provenienza locale e dall’acqua della vicina valle di Vals. Le birre sono prodotte nei locali dedicati presso il ristorante Putzer di Sciaves e possono essere gustate nella luminosa Taproom adiacente. Il marchio vuole essere espressione di valori quali sostenibilità, condivisione e senso di comunità. Viertel Bier punta all’eccellenza: al concorso European Beer Star 2022 la “Quattro”, una Weizen al malto di orzo, frumento, farro e segale, è stata infatti premiata nella categoria “Birra prodotta con cereali alternativi”. Il birrificio offre visite guidate e degustazioni su richiesta. viertel-bier.it
1 Dai la precedenza agli escursionisti: segnala tempestivamente la tua presenza, modera la velocità e, se necessario, arresta la corsa. Muoviti in piccoli gruppi, evita i sentieri escursionistici più frequentati e ricorda: un saluto amichevole facilita il rispetto reciproco!
2 Non lasciare tracce: evita le frenate brusche con bloccaggio delle ruote, che possono causare l’erosione del terreno e danni ai sentieri. Non abbandonare i rifiuti ed evita i comportamenti rumorosi.
3 Rispetta le regole del posto: rimani su strade e sentieri battuti adatti alla MTB e rispetta eventuali sbarramenti. Eviterai così danni da erosione e conflitti con i proprietari dei fondi terrieri.
4 Rispetta gli animali: gli animali selvatici escono di notte in cerca di cibo, pratica la MTB di giorno per non disturbarli. Avvicinati con cautela al bestiame al pascolo e richiudi le recinzioni attraverso le quali passi.
5 Modera la velocità: adatta la velocità in base alle circostanze, guida con prudenza e sii pronto a frenare in qualsiasi momento! Frequenta un corso di MTB per imparare le tecniche di guida e di frenata (informati presso la struttura che ti ospita o l’associazione turistica locale).
Markus Klement, che nel suo piccolo museo di Naz-Sciaves espone la sua collezione di minerali da oltre 50 paesi.
Quanto impegno richiede la ricerca dei minerali?
Molto! Una volta ho calcolato che per trovare un cristallo di montagna devo compiere in media 15 escursioni nella natura. Esploro spesso la zona di IdarOberstein nella Renania-Palatinato, molto nota per i minerali e le pietre preziose. Mi sono già trovato in situazioni piuttosto pericolose, arrampicandomi su terreni impervi o nelle grotte, quando le rocce si sbriciolano e all’improvviso inizia a scendere sabbia dal soffitto. In quel caso l’unica cosa da fare è scappare! Un tempo dedicavo al mio hobby almeno tre giorni alla settimana, oggi le uscite sono meno frequenti. Un appuntamento fisso è però la fiera di settore di Monaco, la seconda al mondo per dimensioni e un’ottima occasione per stabilire contatti con collezionisti di tutto il mondo… e naturalmente acquistare nuovi pezzi!
Qual è il suo pezzo preferito?
Una volta ho trovato a Idar-Oberstein una grande drusa di ametista, ovvero una roccia cava tempestata di minerali,
di cui vado molto fiero. Tra le mie pietre preferite ci sono anche un cristallo di montagna di due tonnellate proveniente dal Brasile e una selenite della celebre Grotta dei cristalli di Naica in Messico, la più grande al mondo.
Che cosa si dice in famiglia della sua passione?
Beh, mia moglie non ne è sempre entusiasta, soprattutto quando valuto un nuovo acquisto. Alcuni esemplari possono costare quanto un piccolo appartamento. Allora a decidere sono i nostri tre figli, due ragazzi e una ragazza, che per fortuna dimostrano grande interesse per i minerali. La passione del collezionista non ha limiti. Penso sempre che da qualche parte là fuori c’è sicuramente un nuovo tesoro a cui non posso rinunciare!
Bagliori di colore, provenienti dalle buie interiora delle montagne: Markus Klement possiede una delle più grandi collezioni di minerali dell’arco alpino.
Markus Klement, classe 1963, colleziona minerali da 45 anni. Circa un terzo degli esemplari è stato trovato da Markus personalmente, mentre il resto è stato acquistato o ricevuto in dono. La collezione, una delle più grandi dell’area alpina, è esposta nel piccolo museo situato sotto il “Mineralienhotel” che la famiglia gestisce a Naz-Sciaves. Per informazioni e biglietti:
www.mineralien.museum
Quando vedi il Marchio Sostenibilità Alto Adige, riconosci destinazioni turistiche, strutture ricettive e ristorative che promuovono attivamente una vacanza più consapevole.
Scoprile, impara a conoscerle e accompagna l’Alto Adige verso un futuro sostenibile
suedtirol.info/vacanze-sostenibili
Lazfons •
• Valles
• Maranza
• Terento
• Rio di Pusteria
• Rodengo
• Naz–Sciaves
• Varna • Luson
• Bressanone
• Velturno
• Gudon
• Chiusa Villandro •
• Barbiano
1 Gummerer Hof
2 Röckhof
3 Burgerhof
La tradizione del Törggelen rivive in molte osterie contadine della Valle Isarco. Qui, giovani ristoratrici, contadini e viticoltori sorprendono i loro ospiti con sapori antichi dal tocco moderno. Vi proponiamo tre tappe all’insegna del gusto.
A Pinzago sopra Bressanone i vigneti si tingono dei colori dell’autunno: una distesa di foglie rosse, marroni, gialle e dorate. Dalla stube proviene il rumore dell’aspirapolvere. In cucina bolle il brodo di manzo: per un gusto pieno ci vorranno almeno altre tre ore a fuoco dolce. Al ❶ Gummerer Hof è tempo di Törggelen, il momento più impegnativo dell’anno. “In questo periodo lavoro anche diciannove ore al giorno”, dice Philipp Gummerer, 38 anni, strofinandosi le mani sul grembiule blu mentre lo sguardo corre a controllare i fornelli. Philipp gestisce il locale insieme alla madre, i due fratelli aiutano quando c’è bisogno. Il maso, risalente al XVII secolo, è di proprietà della famiglia dal 1918. Sepp, il padre di Philipp, vi ha introdotto la viticoltura e, dagli anni ottanta, la tradizione del Törggelen: “Papà amava la convivialità. Era cuoco e proprio per questo teneva particolarmente a fare conoscere alle persone il suo lavoro e la vita del maso”. Philipp ha sentito un colpo di clacson e corre fuori per aiutare il macellaio appena arrivato a scaricare la carne. “Usiamo tutte le parti dell’animale, come si faceva un tempo”, riprende. Con il suo lavoro, spiega, vorrebbe avvicinare visitatori e ospiti alle usanze del Törggelen per riscoprire insieme le “radici perdute” di questa amata tradizione della Valle Isarco.
A proposito di radici: le origini del Törggelen non sono del tutto note. Quel che si sa per certo è che il nome deriva dal latino “tŏrquēre”, ovvero torchiare o pressare. Con il termine Torggl si indicava infatti la cantina che un tempo ospitava il torchio per la pressatura dell’uva. È qui che, in autunno inoltrato, i viticoltori della zona accoglievano i mercanti provenienti dal Nord per assaggiare
insieme a loro il vino novello. In seguito, nei masi della Valle Isarco nacque l’usanza di servire, accanto al vino, anche piatti casalinghi e castagne arrostite. In questa occasione, i contadini invitavano in segno di riconoscenza i malgari che avevano accudito il loro bestiame durante l’estate, ma anche parenti e vicini per festeggiare insieme il raccolto e l’inizio dell’autunno. L’usanza si è mantenuta nel corso dei secoli, giungendo fino ai nostri giorni. Nei decenni scorsi, tuttavia, la genuinità della tradizione ha spesso ceduto il passo a interessi commerciali.
Nella seconda metà del Novecento, in un Alto Adige in piena espansione turistica, ristoratori e agenzie scoprirono il potenziale economico insito nell’antica tradizione, finendo tuttavia per snaturarne lo spirito. In quegli anni il Törggelen veniva offerto un po’ ovunque, anche nelle zone in cui non crescono né la vite né il castagno o in locali non integrati con attività agricole e di allevamento.
I grandi operatori di viaggi austriaci e tedeschi iniziarono a organizzare veri e propri pacchetti viaggio per il “Törggelen altoatesino”. E i ristoratori smisero di offrire prodotti casalinghi per assecondare le richieste della nuova clientela: bibite gassate al posto dei succhi fatti in casa, grigliate miste di costine, speck, sanguinacci e carni salmistrate di suino (spesso e volentieri non di origine locale), e poi ancora castagne acquistate chissà dove e addirittura vini non di produzione propria. Non poteva naturalmente mancare il sottofondo di fisarmonica che, si sa, fa scorrere il vino a fiumi. Negli anni novanta, il Törggelen si era trasformato un po’ ovunque in un intrattenimento di massa. Tempi andati, per fortuna. Oggi, in numerosi masi della Valle Isarco, giovani ristoratori e ristoratrici, contadini e viticoltrici fanno rivivere la tradizione proponendo ai loro ospiti piatti tipici ravvivati da un tocco contemporaneo. Come appunto il Gummerer Hof, oppure la nostra prossima tappa: il ❷ Röckhof di Villandro, da 250 anni di proprietà della famiglia Augschöll.
Dalla finestra aperta escono i profumi della cucina. Nell’aria si diffonde l’aroma di frittura fresca. All’interno ci accoglie Maria, 94 anni. Seduta al tavolo, farcisce con mano sapiente i krapfen alla marmellata di prugne che la nuora Frieda immerge nel grasso bollente. La nipote
È la “quinta stagione” della Valle Isarco. A ottobre e novembre, quando la vendemmia è finita e i vigneti si tingono di giallo oro, la gente del posto si ritrova nelle stube contadine dopo brevi escursioni attraverso villaggi e boschi autunnali, per degustare vino, Schlutzkrapfen fatti in casa, salsicce con crauti, krapfen dolci e caldarroste. Una tradizione popolarissima, che risale alla vecchia usanza di degustare in compagnia il vino novello e il cui nome deriva da “Torggl” (latino tŏrquēre, pressare), il torchio in legno.
I giovani ristoratori fanno rivivere la tradizione delle locande contadine, tra piatti storici e slancio contemporaneo.
“Voglio avvicinare gli ospiti alle usanze del Törggelen per riscoprirne insieme le radici perdute.”
Carmen Augschöll osserva l’affiatato duo: “La nonna vigila ancora su tutta la casa”, dice sorridendo. Più di sessant’anni fa, Maria accoglieva i “forestieri”, come chiama ancora oggi gli ospiti, nella stube del vecchio maso, collegata oggi al nuovo edificio da un passaggio in pietra sotterraneo. Le ricette di allora sono passate al figlio Konrad, alla nuora Frieda e ai nipoti Carmen e Hannes. Carmen ha fatto ritorno al Röckhof nel 2021 dopo alcuni anni di studio trascorsi a Vienna, ormai trentenne e con molta esperienza nel settore vinicolo. La giovane gestisce oggi l’azienda di famiglia insieme al fratello, di due anni più giovane, che ha conseguito una laurea in enologia e viticoltura in Germania. Il menù del Törggelen? “Poca carne, canederli, i krapfen verdi tipici di Villandro, frittelle di patate con i crauti”, riassume Carmen. Proprio come ai tempi della nonna. I nipoti propongono i piatti della tradizione in una versione modernizzata, attenta anche alle esigenze degli ospiti che non mangiano carne o altri prodotti di origine animale.
I Gummerer e gli Augschöll fanno rivivere la tradizione, innovandola con idee contemporanee. Alcuni ospiti, poco inclini a comprendere lo spirito dell’usanza, vanno presi per mano: una missione gratificante, per quanto ardua. Philipp Gummerer si domanda talvolta se il suo non sia fiato sprecato, ad esempio quando arrivano richieste di preventivo per “pernottamento con Törggelen”
Nella cucina del Röckhof, Frieda e Maria Augschöll farciscono i krapfen di marmellata di prugne, prima di friggerli alla perfezione.
corredate dall’immancabile domanda: c’è anche musica dal vivo, vero? Come se il Törggelen fosse un pacchetto all inclusive! Philipp porta avanti con convinzione l’opera del padre: “Da noi non ci sono né feste chiassose né cibo dozzinale. I prodotti che offro nascono dal mio lavoro e dalla mia passione”. Una delle sue passioni è lo speck, prodotto al maso e conservato a una temperatura inferiore ai 10 gradi in una stanza dedicata nel retro della proprietà.
La porta si apre con un cigolio. Dal soffitto pendono le cosce dei salumi. Philipp, passandoci sotto, dà loro qualche colpetto per verificarne la stagionatura: più cavo è il suono e più maturo è lo speck. Philipp annuisce soddisfatto. I tre maiali di razza Schwäbisch-Hall del maso grufolano felici nel recinto fangoso subito dietro l’orto. Ora, a fine ottobre, i noci e i castagni del giardino hanno già perso tutti i frutti. In terra non è rimasto più nulla. Durante il Törggelen, da settembre a metà dicembre, l’80 per cento dei prodotti offerti agli ospiti del Gummerer Hof proviene dal maso o da altre aziende agricole della zona. “Certo, devo comprare alcuni prodotti da altre aziende: gli spinaci per gli Schlutzkrapfen o i crauti. Non è possibile coltivare tutto da soli”, spiega Philipp.
Anche la famiglia Augschöll acquista alcuni prodotti, come zucca, crauti e i cereali per il pane, forniti da aziende biologiche e da contadini amici. Ortaggi,
Sessant’anni fa, la nonna iniziò a ospitare “i forestieri”. I krapfen, ovviamente, c’erano già allora. Gli stessi che vengono serviti anche oggi.
I piatti della traduzione in versione modernizzata, attenti anche alle esigenze di chi non mangia carne
La
Carmen Augschöll
acquista gli ingredienti che non producono loro stessi da masi biologici o amici agricoltori. Le verdure, le castagne e la frutta per le marmellate, invece, le produce lei stessa al Röckhof. E il vino? Proviene dalle proprie vigne.
castagne e la frutta per le marmellate sono invece di produzione propria. “Anche burro, formaggio grigio, speck e salamini affumicati sono fatti in casa. E naturalmente le salsicce fresche che prepara mio padre”, spiega Carmen. In tavola arriva solo carne lavorata sul posto: “Delle costine e della carne salmistrata possiamo tranquillamente fare a meno”. Gli ospiti, assicura Carmen, non ne sentono affatto la mancanza: “Quando arrivano alla portata principale, che da altre parti è generalmente molto ricca di carne, sono già sazi e soddisfatti”. Da quando Carmen e il fratello hanno assunto la gestione del Röckhof, il ritmo è rallentato: al posto del classico menù di piatti ipercalorici troviamo una selezione di pietanze equilibrate, che permettono agli ospiti di prendersi il tempo giusto per godere appieno i sapori.
La stube del vecchio maso, che volentieri accoglie ospiti in cerca di un pasto particolare: diverse piccole portate, invece di una sontuosa successione di piatti. Tutto succede lentamente, proprio come un tempo.
Dallo “Slow Törggelen” del Röckhof, in programma da fine settembre a fine novembre, ci spostiamo di alcuni chilometri verso nord per raggiungere un maso dalle caratteristiche simili, il ❸ Burgerhof. A 750 metri di altezza, la strada tortuosa si interrompe di fronte a una casa contadina a tre piani. Nel cortile antistante Johannes Meßner siede per una breve pausa con il figlioletto sulle ginocchia. Il piccolo, appena ritornato da una passeggiata con il nonno, addenta rumorosamente un biscotto. Intanto, le foglie delle
viti cadono silenziose sul tavolo di legno massiccio davanti alla casa. Il maso, di proprietà della famiglia dal 1843, risale presumibilmente al XII secolo. Nel 2018, due anni dopo aver rilevato l’attività paterna, Johannes ha avviato l’osteria contadina, che gestisce insieme alla moglie Katrin. Al Burgerhof il menù non si piega alla domanda, ma riflette la disponibilità stagionale, una filosofia che Johannes sintetizza così: “Ogni settimana proponiamo un nuovo menù, a seconda di ciò che ci offrono i campi, la cella frigorifera e il congelatore”. Che sia la natura a decidere cosa arriva in tavola sembrerebbe ovvio, eppure non è sempre così: “Alcuni ospiti si lamentano se, ad esempio, a fine settembre non abbiamo le caldarroste per il Törggelen perché i frutti sugli alberi non sono ancora maturi”, spiega Johannes. Il Burgerhof offre solo cibo di produzione propria e lavorato al maso: carne, ortaggi, patate, mele e cereali: “Segale per il pane, farro per i dolci, grano saraceno per pasta e canederli”. La pausa è finita. Johannes, 34 anni e una formazione da cuoco, indossa il grembiule blu e ritorna ai fornelli. Con mano esperta, taglia la cipolla finemente, la rosola in padella e vi aggiunge i fagiolini: è il contorno dei saltimbocca, preparati con la carne dei vitelli che pascolano tutto l’anno nei prati circostanti.
Intraprendere nuove strade senza dimenticare il passato, le tradizioni e i loro insegnamenti. Questa visione si riflette anche negli ambienti interni. Alle pareti del Gummerer Hof, del Röckhof e del Burgerhof, vecchie fotografie di famiglia e documenti raccontano la storia dei masi. Philipp Gummerer conserva ancora i menù degli anni ottanta, un viaggio nel
L’antica cucina del maso, i mattoni anneriti dal fumo. Qui, oggi, non si cucina più. Ma si affumicano ancora lo speck, le salsicce… e di recente anche le carote.
tempo che testimonia lo sviluppo dell’attività attraverso le generazioni. Carmen Augschöll ci invita nella stube rustica, rimasta inalterata da quando la nonna vi accoglieva i suoi ospiti. La stanza accanto è adibita all’affumicatura, con i muri neri di fuliggine e il tipico odore acre che accompagna le giornate del Törggelen. Qui oggi non si producono più solo speck e salamini, ma anche varianti vegane e vegetariane come le carote affumicate. Le carote fermentate si prestano invece a sostituire il formaggio grigio. La tartara di rape rosse e le frittelle di patate senza uovo sono piaciute addirittura a nonna Maria! Nell’impasto dei canederli, gli Augschöll vorrebbero sostituire in futuro l’uovo con i semi di lino, un agglutinante vegetale prodotto in zona. Anche Johannes del Burgerhof è molto impegnato nella ricerca di alternative per i suoi ospiti.
“L’idea è interpretare i prodotti e i piatti della tradizione in chiave moderna”, spiega. Dall’impasto dei ravioli alla zucca, per esempio, si può tranquillamente eliminare l’uovo, mentre per aromatizzarne il ripieno si può usare lo zenzero al posto del formaggio. La vellutata al sedano e mele piace comunque a tutti. Quanto alla torta di carote, è talmente gustosa che a malapena ci si accorge che è vegana!
“Un Törggelen senza prodotti di origine animale richiede molto lavoro in cucina e rappresenta una sfida che accetto volentieri”, dice Johannes.
I Meßner, gli Augschöll e i Gummerer amano sperimentare anche nel vigneto. La superficie a disposizione è modesta, appena pochi ettari per maso, ma la varietà offerta è immensa. Come immensi sono l’impegno e la spinta innovativa con cui le tre famiglie si dedicano alla viticoltura. Philipp Gummerer coltiva diversi vitigni, selezionati dal padre. Uno di essi, il Blaterle, è molto particolare: “Si tratta del vitigno autoctono più antico dell’Alto Adige”, spiega. In passato questo vitigno
bianco veniva coltivato per addizionare i vini rossi. Papà Sepp iniziò a produrvi un vino frizzante, lo stesso che oggi Philipp propone ai suoi ospiti. Anche Johannes Meßner prosegue l’attività dei genitori, veri e propri pionieri della viticoltura biologica in Alto Adige. “Allora, all’inizio degli anni ottanta, erano considerati degli svitati e dei retrogradi perché non utilizzavano alcuna sostanza chimica. Oggi è esattamente il contrario”, racconta il figlio. Il Burgerhof coltiva quattro vitigni in modo del tutto naturale. Al Röckhof, la viticoltura è stata introdotta da papà Konrad, ma ci è voluto del tempo per convincerlo a passare al metodo biologico: “La coltivazione convenzionale, che prevede l’uso di sostanze chimiche, lo faceva sentire più sicuro, ed è comprensibile”, racconta Carmen. “Per nostro padre non è stato facile capire il progetto che portiamo avanti”, aggiunge. Ormai Konrad approva la visione aziendale e il modo di pensare dei figli, ed è orgoglioso del loro lavoro.
Molti giovani ristoratori, contadine e viticoltori della Valle Isarco puntano all’autenticità, vogliono vivere bene e svolgere un lavoro che rispecchi i loro valori. Tra le antiche mura dei masi spira un vento nuovo, che porta il nome di Carmen Augschöll, Johannes Meßner e Philipp Gummerer. Lo spirito della nuova generazione nasce anche dai viaggi e dalle esperienze raccolte all’estero. “Ho riscoperto l’amore per la mia terra”, dice Philipp. Carmen, tornando a casa, ha finalmente trovato “la mia dimensione”. E anche Johannes immagina il suo futuro qui, sui pendii sopra Bressanone. I tre giovani hanno nuove priorità: al primo posto viene ora la qualità. E il gusto che nasce da essa, per loro, è l’ingrediente più importante del Törggelen.
Come altri giovani ristoratori e contadini della zona, Johannes Meßner punta all’autenticità: vuole vivere bene e svolgere un lavoro che rispecchi i propri valori. Lo spirito di una nuova generazione.
gummererhof.it roeck.bz burgerhof-messner.com
Osare qualcosa di nuovo. Senza dimenticare la tradizione. Anche e soprattutto in tavola.
Non solo vette: ci sono meraviglie anche ai bordi del sentiero e per scoprirle bastano gli occhi di un bambino!
Testo – VERENA SPECHTENHAUSER
L’impazienza iniziale svanisce, la tensione si dissolve. Insieme, genitori e bimbi scoprono il parco divertimenti più grande del mondo: la natura delle nostre montagne.
Percorsi brevi con attrezzature ludiche rendono l’escursione piacevole anche per i più piccoli. Come ad esempio il Parco del Sole Gitschberg, accanto alla stazione a monte della funivia, con uno scivolo gigante e una meridiana. Oppure il Parco Avventura Jochtal, che si snoda dalla stazione a monte della cabinovia Jochtal fino alla piattaforma panoramica Steinermandl, tra giochi con l’acqua e una mini fattoria didattica. Infine, il WoodyWalk sulla Plose offre ai piccoli giochi, strutture per arrampicarsi e infine i meritati canederli alla malga Rossalm.
gitschberg-jochtal.com plose.org
C
onquistare ogni fine settimana una cima diversa delle nostre montagne: un tempo, raggiungere la vetta e godere la vista spettacolare sulla vallata era per me il massimo della felicità. Sarà per sempre così, mi dicevo, anche se un giorno avrò dei figli. E invece, ho dovuto ricredermi.
A scanso di equivoci: il mio amore per la montagna è rimasto inalterato, anche ora che sono mamma di due bambini. Ogni settimana organizzo una bella escursione, studio i siti delle associazioni turistiche e spulcio le guide alpine digitali. Le mie priorità, però, sono cambiate. Oggi il programma non è più dettato dalla mia ambizione sportiva, ma dalle esigenze dei piccoli.
Meno male, perché solo ora capisco quanto mi sono persa lungo il cammino!
La Valle Isarco offre moltissimi itinerari adatti alle famiglie come la nostra. Questo fine settimana siamo saliti in quota con la funivia Gitschberg a partire da Maranza. La nostra meta era la piattaforma panoramica del Monte Cuzzo, a 2.500 metri di altezza. Una vetta modesta, ma pur sempre una vetta. Le emozioni dei bimbi non si sono fatte attendere: allontanandosi dal fondovalle, con gli occhi pieni di stupore osservano il mondo rimpicciolirsi sotto ai nostri piedi. Una natura così spettacolare a due passi da casa, che fortuna abbiamo noi altoatesini!
Giunti alla stazione a monte, estraggo dallo zaino il binocolo per ammirare il panorama. Orgogliosa, indico ai bambini, una a una, le cime circostanti che ho scalato nella mia vita precedente… e mi accorgo che non mi ascoltano più. Già calati nei panni di due piccoli esploratori, stanno esaminando con le loro lenti di ingrandimento cavallette, sassi e piante di ogni tipo. “Guarda come luccica questo coleottero, mamma”, esclamano eccitati. Il mio sguardo si posa invece sull’orologio: “Venite, abbiamo ancora un bel po’ di strada da fare!” A fatica riesco a staccarli da un’enorme fungo ovolaccio, che senza di loro non avrei mai notato. Tentando di frenare l’impazienza, penso alla straordinaria capacità che hanno i bambini di vivere nel qui e ora, e un po’ li invidio.
Procediamo quindi a passo di lumaca lungo il sentiero, tra prati disseminati di fiori di montagna. “Mamma, ti raccolgo un mazzo di fiorellini gialli”, dice il grande lanciandosi felice tra l’erba. Gli faccio segno con la mano, senza riuscire a distogliere del tutto lo sguardo dalla piattaforma panoramica. “Mammaaa, ho fame”, si lamenta intanto il piccolo. Non mi resta che stendere la coperta sul prato e disporvi sopra bibite e merenda. Sospirando, taglio a fette le mele portate da casa. A occhio e croce ci saremo allontanati di 100 metri dalla stazione a monte. “Ma siamo appena partiti”, brontolo delusa in direzione di mio marito, mentre ammiro distesa sulla schiena le nuvole che passano veloci in cielo.
Il sole avanza lento all’orizzonte, sembra quasi accompagnarci nella nostra giornata in mezzo ai prati alpini. L’impazienza iniziale è svanita, la tensione si è dissolta. La meta è troppo lontana, ormai non la raggiungeremo più. E già mi chino per raccogliere rami, osservare un formicaio e costruire una torre di sassi nell’acqua del ruscello. Ora non ho dubbi: la natura è davvero il parco divertimenti più grande del mondo, ed è qui intorno a me. “È proprio vero che il cammino è la meta”, penso felice, mentre il pomeriggio cede il passo alla sera e mi sento pervadere da un’improvvisa sensazione di appagamento e libertà.
Facciamo ritorno con le guance arrossate, una fame da lupi e lo zaino pieno di piccoli e grandi tesori. “Mamma, è stato bello oggi”, mi dice il grande mentre lo metto a letto. “Ho trovato una pietra magica”, esclama il piccolo. “Vedi, meglio di così non poteva andare”, dico a mio marito. E con il pensiero corro già alla nostra prossima escursione.
I trattamenti migliori nascono proprio qui: in giardino, nel bosco, nella stalla e nell’alveare. Il segreto? Conservare antichi saperi sulle materie prime naturali e le loro proprietà per la cura della pelle e del corpo. Un viaggio nel benessere in quattro tappe
Nelle sere d’estate Christine Lageder fa il suo ultimo giro in giardino verso le nove e mezza. È il momento dell’imbrunire, quando le enotere schiudono le loro corolle: ora sono pronte a essere raccolte. “Sono bellissime: diffondono la loro brillantezza in tutto il giardino”, ci spiega Christine. Erborista qualificata, coltiva nei suoi giardini 350 varietà di piante. Le sue preferite sono l’enotera e la malva, due piante officinali a fusto alto le cui foglie e infiorescenze si prestano al meglio per la preparazione delle tisane e delle miscele di spezie che Christine produce nel suo maso, l’Oberpalwitterhof, ai margini del paesino di Barbiano. Qui, a 900 metri di altezza, crescono anche rose, calendule, stelle alpine, timo, mughetti e consolide, gli ingredienti di base per gli articoli di bellezza che l’erborista realizza con l’aiuto di produttori selezionati. La linea comprende oggi diverse creme, pomate e saponi.
Tutto ha avuto inizio nel 2006, quando Christine ha abbandonato la professione di infermiera per dedicarsi alla coltivazione biologica di erbe officinali e creare i suoi primi prodotti: “Il terreno qui è perfetto: sassoso, magro e in posizione soleggiata”. I quattro giardini, disposti lungo i ripidi pendii del maso, occupano una superficie complessiva di 3.500 metri quadrati e sono lavorati interamente a mano. È la natura a dettare il calendario delle attività: alla messa a dimora delle prime varietà, a febbraio, seguono la pulizia del terreno e la potatura degli arbusti dell’anno precedente per fare spazio alle nuove piante. “Da aprile alla fine dell’estate lavoro tutti i giorni in giardino”, dice Christine. Ogni erba officinale, spezia e piantina segue il proprio bioritmo, ciascuna sboccia e fiorisce in un determinato periodo dell’anno. La coltivatrice è quindi impegnata contemporaneamente in più attività, come la semina, la sarchiatura, la raccolta e l’essiccazione. In estate al maso sono presenti anche due collaboratrici e la figlia di Christine. Il lavoro inizia alle cinque e mezza del mattino: “I fiori del verbasco appassiscono molto velocemente al sole e vanno quindi tagliati prima dell’alba”. Per le rose è bene scegliere le ore non troppo calde, mentre per la calendula e la camomilla bisogna aspettare il momento più caldo della giornata. Christine ha completato numerosi corsi di formazione e aggiornamento per approfondire le sue conoscenze e imparare a sfruttare al meglio proprietà ed effetti benefici delle piante. Ci spiega così che l’olio del verbasco, usato per la preparazione di creme, nutre e idrata la pelle, mentre la malva ha un effetto lenitivo. La calendula cura e protegge mani e labbra. La stella alpina offre invece una protezione naturale dai raggi solari e rende la pelle più elastica. Christine ama condividere il suo sapere con gli ospiti, ai quali offre visite guidate alle sue coltivazioni.
A fine settembre si raccolgono le ultime piante. L’autunno è la stagione in cui si fa ordine e si tirano le fila del lungo lavoro. Nel magazzino e nel locale per l’essiccazione e la lavorazione, Christine mescola e porziona i fiori e le erbe officinali ormai secchi e prepara i prodotti di erboristeria e i cosmetici che verranno venduti nello shop online, nella rivendita del maso e in diversi mercati contadini. “Natale è il periodo più impegnativo dell’anno”, spiega la coltivatrice che, finite le feste, può finalmente godersi qualche settimana di riposo. Proprio come la natura. Fino a febbraio, quando in giardino riprende l’attività e il ciclo si ripete.
oberpalwitterhof.com
Nel 2008 le prime capre hanno fatto il loro ingresso al maso Untereggerhof di Valles, paesino nei pressi di Rio di Pusteria. Fin dall’inizio la parola d’ordine è stata: usare tutto, non sprecare nulla. Più facile a dirsi che a farsi: i 140 capi di razza bianca tedesca danno circa 1.000 ettolitri di latte all’anno, dai quali Richard Zingerle e il figlio Manuel ricavano diverse specialità di formaggio. Per produrre un chilo di caprino sono necessari circa 10 litri di latte. Durante l’intero processo si forma dunque un residuo di 900 ettolitri di siero. “La resa della caseificazione è molto bassa”, spiega Manuel, che a febbraio 2023 ha rilevato l’attività paterna, specializzata da quindici anni nell’allevamento di capre e bovini. Già in precedenza, il progressivo sviluppo dell’allevamento caprino aveva spinto il giovane a lasciare la professione di carpentiere per dedicarsi completamente al maso.
Che cosa fare del siero? A lungo Manuel ha cercato una soluzione. Smaltirlo, come si fa di solito, sarebbe stato un vero peccato. Il liquido acquoso di colore giallo-verdastro, espulso durante la coagulazione del latte, è infatti ricco di preziose sostanze minerali, fermenti lattici, vitamine, acidi grassi e proteine. Dopo avere raccolto (e scartato) molte idee, arriva l’intuizione: perché non offrire il siero fresco agli spa hotel della zona? Un’anziana signora aveva infatti raccontato a Manuel come i bagni nel siero fossero il trattamento ideale per le pelli sensibili come la sua. L’iniziativa non ottiene tuttavia alcun riscontro e il maso non vende neanche un litro di siero. Manuel non si arrende e, dopo una lunga ricerca, riesce finalmente a trovare un produttore che realizzerà per lui dei cosmetici a base di siero di latte. Nell’estate del 2018 inizia la commercializzazione dei primi prodotti per la cura di viso, corpo, mani e capelli. Anche Manuel e i suoi genitori, ancora attivi al maso, usano per l’igiene personale lo shampoo, il gel doccia e le creme dal delicato profumo di vaniglia. La vendita avviene direttamente al maso, online, in rivendite specializzate e tramite un grossista tedesco che rifornisce diversi studi estetici.
I sette prodotti disponibili per la cura del corpo contengono, al posto dell’acqua, almeno il 60 per cento di siero caprino: “Il siero ha un’azione idratante e riequilibrante per la pelle”, spiega Manuel. Il liquido, reso deperibile dalla presenza di fermenti lattici, deve essere congelato o trasportato subito nello stabilimento per la lavorazione. I prodotti a lunga durata come la linea di cosmetici del maso Unteregger permettono di impiegare in modo utile quanto più siero possibile. Manuel, che ha completato una formazione in tecnologia lattiero-casearia, sa tuttavia che non è possibile sfruttare tutti i 900 ettolitri di siero. Eppure, nonostante il grande impegno richiesto dalla commercializzazione dei cosmetici, la famiglia Zingerle è orgogliosa dei risultati raggiunti.
unteregger.it
“Il siero ha un’azione idratante e riequilibrante per la pelle.”
Forse non tutti lo sanno, ma nelle bottigliette di vetro scuro del Rasler Hof si nascondono ore e ore di lavoro. Il processo di distillazione con il quale Meinrad Rabensteiner ricava i suoi oli essenziali dai rami delle conifere di Barbiano dura infatti dalle sei alle otto ore. Il lungo procedimento inizia con il taglio dei rametti, che sono messi a essiccare per più settimane, per essere poi sminuzzati e riposti nella grande caldaia di metallo dell’antica distilleria di pino mugo sull’Alpe di Barbiano. Qui, a 1.850 metri di altitudine, il prozio di Meinrad ha iniziato a distillare oli essenziali di pino mugo nel lontano 1912. La tecnica di distillazione a vapore si è tramandata di generazione in generazione fino ai giorni nostri.
Nel 2016 Meinrad ha abbandonato la professione di falegname per dedicarsi alla distilleria. Una parte dei suoi oli essenziali, biologici al 100 per cento, è utilizzata per la produzione di prodotti cosmetici, realizzati in collaborazione con un laboratorio specializzato. Il pino cembro conferisce a shampoo, saponi e deodoranti un profumo legnoso e speziato. Il pino mugo, dalla fragranza intensa e aromatica, è invece ideale come olio da massaggio oppure, in combinazione con l’abete rosso dall’aroma resinoso, come balsamo per il petto. Le essenze, sia allo stato puro sia come base nei prodotti cosmetici, hanno un effetto rilassante e benefico per le vie respiratorie grazie alle loro proprietà liberatorie, espettoranti e antinfiammatorie. Gli oli possono essere impiegati per fumenti in caso di raffreddore o influenza, per massaggi contro i dolori articolari e muscolari, nei diffusori di essenze o come infusi per sauna.
Sull’Alpe di Barbiano, Meinrad distilla pino mugo, pino cembro, abete rosso, pino silvestre e ginepro. La regola di base è: più lunghi sono gli aghi e più olio è possibile estrarne. La distillazione si esegue con l’ausilio del vapore a una temperatura compresa tra i 90° C e i 95° C, mantenuta costante aggiungendo sempre nuova legna nel forno sotto la caldaia. Il vapore sale attraverso delle condutture nel grande recipiente metallico dove si trovano i rami di conifere triturati e permette di estrarne oli essenziali e aromi. La caldaia può contenere circa 1,6 metri cubi di vegetazione. Dal procedimento si ricavano circa 750 millilitri di olio di pino mugo, una quantità leggermente superiore quando si distilla il pino cembro. Il Rasler Hof produce tra i 70 e i 100 litri di olio all’anno.
“I miei antenati distillavano grandi quantità di olio di pino mugo, con il quale rifornivano i grossisti della zona”, racconta Meinrad. Il lavoro coinvolgeva l’intera famiglia e una dozzina di collaboratori. Oggi, i prodotti commercializzati con il marchio “Original Barbianer”, tutti certificati bio, sono disponibili nella rivendita sull’Alpe di Barbiano, online, in negozi e mercati specializzati e in alcuni alberghi. L’imprenditore, 41 anni, svolge da solo buona parte del lavoro nel bosco e in distilleria, mentre la compagna Andrea Unterkalmsteiner si occupa dell’amministrazione e delle visite guidate. Dieci anni fa Meinrad aveva valutato la possibilità di modernizzare lo stabilimento centenario e l’impianto di distillazione. Ma alla fine ha scelto di lasciare tutto com’era. Del resto, perché cambiare? La distilleria è un pezzo di storia della famiglia Rabensteiner. L’unica modifica ha riguardato il forno, sostituito nel 2021. “Era vecchio e acciaccato”, dice Meinrad. E come dargli torto, dopo 109 anni di servizio?
latschenkiefer.it
La tecnica di distillazione a vapore si è tramandata di generazione in generazione.
L’anno lavorativo delle api di Erich Larcher è breve, ma molto intenso. La resa dipende dalle condizioni meteorologiche: “In condizioni ideali una colonia può produrre in poco tempo fino a 30 chili di miele”, spiega l’apicoltore. Negli alveari, i laboriosi insetti non depositano solo il dolce sciroppo dorato, ma anche altri pregiati frutti del loro lavoro, che Larcher utilizza per l’omonima linea di prodotti per il corpo, lanciata nel 2014. Miele, cera d’api e propoli hanno infatti proprietà idratanti, leniscono la pelle irritata, favoriscono la cicatrizzazione e agiscono da antibatterico naturale. L’apicoltore ha iniziato con otto prodotti per la cura di viso, mani, labbra, corpo, capelli e denti. Da allora, la gamma dei prodotti si è più che raddoppiata.
Nel tempo sono aumentate anche le api di Larcher, cha ha scoperto il mondo dell’apicoltura nel 1988, ad appena 14 anni, ed è passato dalle due colonie iniziali alle attuali 180. Ogni colonia è governata da un’ape regina e comprende al proprio interno migliaia di api operaie. “Tra le dieci e le dodicimila”, specifica Larcher. Nella stagione estiva, dopo la schiusa delle uova della regina, una colonia può raggiungere le 50.000 unità. Se il clima è mite, le api iniziano a lavorare già a fine aprile, dapprima nei prati, già fioriti e ricchi di nettare, e in seguito nei boschi, dove la fioritura degli alberi avviene più tardi. Larcher raccoglie dagli alveari il miele, millefiori e di bosco, dalla primavera a metà luglio. A questo punto, ha inizio la preparazione degli insetti per l’anno successivo: “Metto loro a disposizione dell’amido di frumento liquido perché abbiano nutrimento sufficiente durante l’inverno”, spiega. Le provviste naturali, rappresentate dal miele prodotto durante la bella stagione, sono già state immagazzinate – e sigillate con cera d’api – dalle abitanti dell’alveare.
Per estrarre il miele dai favi, l’apicoltore rimuove il sottile strato di cera dorata che ricopre le piccole celle esagonali (“una materia prima naturale e pura, ideale per la cura del corpo”). La propoli, raccolta da griglie disposte all’interno dell’alveare, è invece la sostanza viscosa con la quale le api riempiono gli interstizi del reticolo. Larcher la congela per poterla in seguito raschiare, macinare e quindi lavorare sotto forma di polvere o sciolta nell’alcol.
La lavorazione dei prodotti per il corpo avviene in un laboratorio specializzato. Gli articoli vengono quindi confezionati nella sede di Varna, a pochi chilometri da Bressanone. Flaconi, tubetti e barattolini emanano profumi inconfondibili: le fragranze del miele, dolci e fiorite, si arricchiscono nella propoli di una nota resinosa e sprigionano tutta la loro intensità nella cera d’api. Larcher offre i suoi prodotti in diversi mercati, nello shop online e in rivendite selezionate. “Sarebbe bello se anche gli alberghi della zona acquistassero più spesso i miei prodotti per proporli agli ospiti”, dice l’apicoltore di Varna, che dal 2021 è presidente del Südtiroler Imkerbund, l’associazione degli apicoltori altoatesini. Dopo 35 anni di attività e numerosi percorsi di formazione in Italia e all’estero, Larcher offre oggi diversi corsi agli interessati. Del resto, conclude, chi lavora a contatto con gli alacri insetti tutto può fare, fuorché stare fermo!
larcher-honigprodukte.it
La propoli, raccolta da griglie disposte all’interno dell’alveare, viene macinata e quindi lavorata sotto forma di polvere o sciolta nell’alcol.
astrabx.com
+ All’esterno, architettura razionalista e rosso pompeiano. All’interno, tecnologia moderna per spettacoli, concerti, e performance.L’edificio di Bressanone, sorto negli anni trenta come istituto per la gioventù fascista, ha ospitato per sei decenni una sala cinematografica e offre oggi ai giovani creativi ampi spazi per produrre ed esporre i propri lavori
La “nuova” gioventù
L’edificio di via Roma, a ridosso del centro storico, venne eretto nel 1936 su incarico dell’Opera Nazionale Balilla, organizzazione giovanile fascista più tardi assorbita dalla GIL (Gioventù Italiana del Littorio). Il programma della Casa del Balilla prevedeva l’educazione di bambini e ragazzi dai 6 ai 21 anni in linea con la cultura di regime. La struttura ospitava spettacoli teatrali e manifestazioni ginniche, mentre nella piazza d’armi annessa ragazzi e ragazze si esibivano in marce e attività paramilitari che miravano a trasmettere ai giovani “valori” quali orgoglio nazionale, obbedienza e fedeltà al regime.
Eleganza retrò
L’insegna luminosa “Astra”, che ancora oggi rende riconoscibile l’edificio da lontano, riprende i caratteri dell’insegna originale che dagli anni sessanta in poi sormontava l’ingresso della sala.
Cinque gemelli
Negli anni trenta, gli architetti padovani Francesco Mansutti e Gino Miozzo progettarono cinque complessi dalle caratteristiche simili. Oltre alla Casa del Balilla di Bressanone, si devono a loro anche le strutture analoghe che sorsero a Bolzano, Merano, Vipiteno e Brunico, dedicate anch’esse all’inquadramento fascista dei giovani. Di queste, oltre all’Astra, si è conservato solo il complesso di Bolzano, attuale sede del centro di ricerca Eurac.
Rosso pompeiano
La facciata dell’edificio era originariamente di colore rosso acceso, sostituito in seguito da una tonalità ocra. La recente ristrutturazione ha restituito all’Astra il “rosso pompeiano” di un tempo, evocativo degli affreschi delle ville emerse dagli scavi ai piedi del Vesuvio.
Pragmatismo all’italiana
A differenza della monumentale architettura fascista dell’epoca, testimoniata da alcuni edifici in piazza Vittoria e corso della Libertà a Bolzano, la struttura di Bressanone presenta la funzionalità tipica dello stile razionalista, caratterizzata da forme lineari e moderne.
La sala cinematografica
Dopo la caduta del Fascismo, Gino Bernardi prese in affitto una parte dell’edificio e vi insediò il cinema Astra, a cui il centro deve l’attuale nome. Il figlio Gianni ne ha portato avanti l’attività fino alla chiusura nel 2011. La sala brissinese è stata per ben 65 anni un punto di riferimento nella vita cittadina, con un programma sempre al passo con i tempi – anche negli anni settanta, quando tra le pellicole in cartellone faceva capolino qualche titolo del cinema erotico allora in voga. La Sala grande, anch’essa rinnovata e vero cuore dell’Astra, propone oggi film d’autore e per ragazzi.
Luogo di incontro per la cultura giovanile
L’Astra è stato riaperto nel 2019 al termine di ampi interventi di riqualificazione. Il progetto, firmato da architetti locali, offre oggi uno spazio di 670 metri quadrati dedicato allo scambio culturale, nel quale giovani artisti e artiste possono esprimere liberamente la propria creatività. Nei laboratori nascono nuovi progetti, mentre il palcoscenico della Sala grande ospita concerti, talk e performance.
Con la mountain bike da cross country era uno dei migliori al mondo. Oggi Gerhard Kerschbaumer ha lasciato l’agonismo per realizzare il suo sogno: fare il contadino! Lo abbiamo incontrato per parlare con lui di discese mozzafiato, allevamento di vacche e delle analogie tra lo sport e l’agricoltura
Gerhard Kerschbaumer è stato uno dei migliori mountain biker cross country al mondo. Concludere la sua carriera è stata una decisione sofferta. Ma ora le gare non gli mancano più: ama la sua nuova vita da agricoltore.
“Per noi ragazzi e ragazze vincere non era la cosa più importante.”
IIl suo palmares nella disciplina cross country è notevole: campione del mondo juniores, campione del mondo U23, vicecampione del mondo, campione del mondo nella staffetta, campione europeo… Si è aggiudicato molte Coppe del mondo e l’anno scorso si è laureato di nuovo campione italiano di specialità. Poi ha appeso la bici al chiodo per impugnare il forcone. Perché? È stata una decisione sofferta. A 31 anni non ero ancora a fine carriera, alcuni colleghi smettono addirittura dopo i quaranta. Ma ho due figli piccoli, di uno e tre anni, e volevo trascorrere più tempo con loro qui al nostro maso, l’Unterplattnerhof, che avevo rilevato da poco. Fare il contadino mi piace, amo gli animali e il contatto con la natura. Da atleta ho viaggiato molto, assentandomi anche per più settimane di fila. Dopo il ritiro ho dovuto abituarmi a un nuovo ritmo di vita. È cambiato un po’ tutto, ma devo dire che le gare non mi mancano affatto.
Ci spiega brevemente cos’è il cross country?
È una specialità MTB nella quale si eseguono, in poco meno di un’ora e mezza, percorsi tecnicamente molto impegnativi con circa 800 metri di dislivello, sempre a tutta velocità. Dal 1996 il cross country è anche disciplina olimpica.
Come si è avvicinato al mondo della mountain bike?
Ho iniziato sul mio percorso preferito, da casa nostra a Verdignes fino al rifugio Santa Croce di Lazfons, dove i miei nonni gestivano una malga. Da bambino ho trascorso molte estati lassù. È stato proprio il nonno a darmi i soldi per la mia prima mountain bike, che desideravo per potermi spostare liberamente tra l’alpeggio e il paese.
Quando ha iniziato a gareggiare?
A undici anni, nella squadra dell’associazione sportiva di San Lorenzo di Sebato. Con loro ho girato l’Italia e l’Europa. Ogni tanto arrivavo primo, ma per noi ragazzi e ragazze vincere non era la cosa più importante.
Che cosa contava per voi?
Le patatine e gli orsetti gommosi, ad esempio. Li compravamo di nascosto con i soldi della paghetta durante le soste nelle stazioni di servizio! Ripensandoci, il mio esordio nello sport è stato molto sereno: nessuno faceva pressioni su di me, l’unica cosa che contava era il divertimento. Vorrei trasmettere questi valori anche ai miei figli, incoraggiarli a praticare sport, ma senza mai costringerli. Se c’è troppa pressione, l’interesse svanisce molto presto.
Che cosa ama di più del ciclismo?
Mi piace salire in sella e pedalare da solo, in libertà, lasciando correre i pensieri. Lo facevo anche quando mi allenavo. Poi certo, anche i successi sono fantastici. Se facesse la stessa domanda al Gerhard sedicenne, lui risponderebbe che la cosa più bella è la scarica di adrenalina dopo una vittoria! Oggi invece le rispondo: l’aria fresca che si respira nel bosco e in montagna. Salire e poi scendere giù come indiavolati – oitaifln, come diciamo qui in Valle Isarco.
“Oggi mi piace salire in sella e pedalare da solo, in libertà, lasciando correre i pensieri.”
Ha mai avuto paura di farsi male?
No, a dire il vero. Il ciclismo è tutto sommato uno sport sicuro. Le articolazioni sono meno sollecitate rispetto alla corsa. C’è sempre il rischio di farsi male cadendo, ma se si guida con prudenza e con la tecnica giusta non c’è molto da temere. Io ad esempio non ho mai subito infortuni, a parte un’unica infiammazione al tendine d’Achille quando ripresi l’attività troppo velocemente dopo un inverno durante il quale avevo trascurato un po’ l’allenamento.
Sopra: Kerschbaumer è cresciuto al maso Unterplattnerhof, che ha rilevato dai suoi genitori, e dove il lavoro non manca mai.
A sinistra: Al maso vivono pony, cavalli Haflinger, galline… e il cane Lusy.
Sotto: Tre anni fa, accanto al vecchio maso, Kerschbaumer ha costruito la sua nuova casa, oltre a degli chalet per gli ospiti.
Perché ha scelto la mountain bike e non, ad esempio, il ciclismo su strada?
Perché la mountain bike è libertà allo stato puro! Il ciclismo su strada è più strutturato e richiede più concentrazione rispetto al cross country. È fatto di tattica, percorsi prestabiliti e dinamiche di gruppo. Certo, dal punto di vista economico è più redditizio. Basti pensare al Giro d’Italia, un vero e proprio patrimonio nazionale! Però nel ciclismo classico non ci sono la libertà e il divertimento di scoprire nuovi percorsi in mezzo alla natura.
Nome: Gerhard Kerschbaumer detto “Gerri”
Data e luogo di nascita: 19 luglio 1991 a
Bressanone
Residenza: Unterplattnerhof, Verdignes (Chiusa)
Peso: 69 kg
Altezza: 183 cm
Disciplina: MTB XC (cross country)
Squadra: Specialized Factory Racing
C’è una gara a cui è particolarmente legato?
Sì, ce ne sono due per la precisione, una nel 2009 a Canberra, in Australia, nella quale mi laureai campione del mondo juniores. Avevo 18 anni. Da quel momento si aprirono per me molte porte e firmai il mio primo contratto da professionista.
E la seconda?
I campionati italiani dell’anno scorso a Casies, in Val Pusteria, i primi disputati qui in Alto Adige! Giocavo in casa, per così dire. I trail erano fantastici e c’erano tanti amici e conoscenti che facevano il tifo per me. Ho vinto, ma ancora oggi non me lo spiego. Le mie prestazioni in quel periodo erano piuttosto deludenti. Una vittoria del genere è stata forse tutta questione di testa.
Ha mai pensato di ritornare a gareggiare?
Nel tempo libero pratico ancora la mountain bike, ma non penso che mi si vedrà più ai nastri di partenza. Sono stato uno sportivo felice, ora sono un contadino felice. In questo momento quello che conta di più per me sono la mia famiglia e il maso. Qui c’è sempre da fare, e mi diverto. Ho girato il mondo in sella alla mia bici e ora sono tornato alle mie radici, al maso nel quale sono cresciuto.
“Sono stato uno sportivo felice, ora sono un contadino felice.”
Sull’Alpe di Rodengo e Luson due itinerari portano alla malga Kreuzwiese a 1.924 m con l’omonimo rifugio, meta molto amata dai ciclisti: non solo per la spettacolare vista sul Sass de Putia ma verosimilmente anche per i canederli preparati con il formaggio di malga del proprio caseificio. Si raggiunge sia da Luson con un itinerario ad anello, sia dal lato di Rodengo con un percorso andata-ritorno un po’ più facile.
Da Luson
Percorso:
Dislivello:
Terreno:
Seguendo la vecchia linea ferroviaria, su asfalto ben curato e lontano dal traffico, si pedala in pieno relax sulla ciclovia che dal Brennero (da raggiungere in treno) percorre tutta la Valle Isarco passando per Vipiteno fino a Bressanone e Chiusa: due pit stop ideali per la pausa caffè, il pranzo con i piatti tipici oppure una visita al museo.
Brennero-Bressanone-Chiusa
Percorso:
Dislivello:
Terreno:
Il Brixen Bikepark, raggiungibile con la funivia della Plose, propone quattro line con diversi livelli di difficoltà, dai percorsi adatti alle famiglie a quelli impegnativi.
Jerry Line
Percorso:
Dislivello:
Terreno:
4,2 km 300 m asfalto, sterrato, strada forestale
24 km 1.120 m asfalto, sterrato, strada forestale
Da Rodengo (parcheggio Zumis)
Percorso:
Dislivello:
Terreno:
18 km 350 m sterrato, strada forestale, breve tratto di single trail
60 km 180 m asfalto, brevi tratti sterrati
Sky Line (solo per esperti!)
Percorso:
Dislivello:
Pendenza:
Terreno:
6,6 km 1.000 m 13% trail (sterrato, terreno sconnesso, ostacoli)
brixen.org/bike
Una vera chicca per ciclisti su strada allenati, il tour panoramico del Passo delle Erbe parte dalle dolci colline dell’altopiano di Naz-Sciaves e scende a Bressanone, per poi risalire verso la Plose, ripagati per le fatiche dalla spettacolare vista sulle Odle di Eores e sul Sass de Putia. Raggiunto il passo, si scende rapidamente verso la Val Gardena, per poi tornare a Naz-Sciaves percorrendo la bella pista ciclabile della Val Pusteria, passando per Rio di Pusteria.
Percorso:
Dislivello:
Terreno:
102 km 1.300 m asfalto
luesen.com
Discesa impegnativa: una line del Brixen Bikepark
ALPINO – PER MTB, E-MTB E BICI GRAVELIn questi allevamenti i vitellini non vengono separati dalla madre alla nascita. Nei primi mesi di vita i piccoli si nutrono del latte materno e le madri non vengono munte.
Dopo alcuni mesi, i vitelli iniziano a pascolare. Questa forma di allevamento, ritenuta particolarmente naturale e rispettosa delle esigenze del bestiame, fornisce inoltre carne di eccellente qualità.
Sopra: Kerschbaumer pedala ancora molto nel tempo libero, ma ha voltato le spalle alle gare.
Sotto:
Vita da contadino: vacche, vitelli e Gerhard Kerschbaumer insieme nella stalla.
Ha sempre saputo che un giorno avrebbe proseguito l’attività di famiglia?
Più o meno sì. Come nello sport, però, i miei genitori non hanno mai esercitato su di me alcun tipo di pressione. Poi, un paio di anni fa, mio padre mi ha chiesto in modo molto diretto se avrebbe potuto cedermi l’attività. Ho accettato con gioia. Vent’anni fa la mia famiglia ha ristrutturato il maso per creare un agriturismo annesso. Poi, alcuni anni fa, ho investito io stesso nella costruzione di due nuovi chalet per i nostri ospiti. Pratichiamo l’allevamento di vacche nutrici (vedi riquadro) e coltiviamo patate. Teniamo anche pony, cavalli Haflinger, galline e pecore. Lo scorso autunno ho partecipato per la prima volta alla transumanza delle pecore, un’esperienza unica! L’opportunità di essere autosufficienti per una grande varietà di alimenti è, dal mio punto di vista, uno degli aspetti più affascinanti dell’attività agricola. Qui abbiamo quasi tutto quello che ci serve.
Come è stato crescere al maso?
Prima vivevo nella casa vecchia, la mia stanzetta era senza riscaldamento. Soprattutto in inverno dovevo dormire sotto più strati di coperte. La stufa a legna riscaldava solo la stube e la cucina. Tre anni fa mi sono costruito una casa nuova sul terreno adiacente e sono andato ad abitarvi con la mia famiglia. Ne sono molto orgoglioso!
Da sportivo professionista si allenava fino a cinque ore al giorno. Oggi la sua vita è scandita dalla famiglia e dai lavori agricoli. Come ha vissuto questo cambiamento?
Da contadino – e padre! – non posso certo permettermi di lavorare solo cinque ore al giorno. La sera di norma sono a letto già alle nove, ma alle quattro sono già in piedi per occuparmi dell’amministrazione. Quando si svegliano i bambini, ho già finito e sono a loro disposizione. L’attività del contadino, rispetto a quella dello sportivo, richiede più pazienza. Se una vacca non viene subito ingravidata, ad esempio, non puoi far altro che aspettare.
Insomma, per rimanere in forma non ha bisogno di frequentare una palestra… No, il lavoro al maso è l’allenamento migliore!
Johann Peter Paul Peer solleva delicatamente una lamina d’oro in foglia da una piccola risma. Sul suo tavolo da lavoro, nel retrobottega della farmacia che ha rilevato nel 1787, ha disposto con cura gli ingredienti per i suoi medicinali più preziosi: oro e argento in foglie. Accanto si trovano le piccole pillole che ha preparato in precedenza. Johann fodera il barattolino sferico di serpentino verde scuro con la foglia d’oro, vi ripone due o tre pillole e fa roteare il recipiente finché le pillole non sono uniformemente rivestite.
Semplicissimi farmaci, ma ricoperti di metalli preziosi: questo sfolgorante esempio di medicina “d’élite” era molto apprezzato dalle classi altolocate della Bressanone del tardo XVIII secolo. Per la versione di lusso non c’era alcuna indicazione medica. Piuttosto, per le famiglie dell’alta borghesia e per i membri del principato vescovile queste pillole dorate erano un modo come un altro per esibire la propria agiatezza. Il clero ne faceva scorta nella farmacia di palazzo, mentre gli altri cittadini si rifornivano da Johann Peer, nella farmacia che ancora oggi porta il suo nome.
I capricciosi pazienti non sospettavano che l’oro non viene in taccato dai succhi gastrici. Il principio attivo dei farmaci, che ad esempio potevano essere purganti o rimedi per il mal di cuore, quindi non giungeva insomma mai a destinazione e le pillole veni vano semplicemente espulse, insieme al loro prezioso rivesti mento, finendo direttamente nel vaso da notte!
Sembra che l’esigente clientela fosse disposta a pagare non solo per pillole tanto pretenziose quanto inefficaci, ma addirittura per farsi ingannare da medicine contraffatte: moderne analisi hanno infatti dimostrato che il rivesti mento di alcune pillole non era d’oro, bensì di ottone!
+ I Peer, farmacisti per generazioni, hanno raccolto nel tempo un’ampia collezione di recipienti per farmaci, erbari, strumenti di laboratorio e rimedi esotici. Il museo, ospitato nell’antico edificio della farmacia fondata nel 1602 nel cuore del centro storico, racconta 400 anni di storia dell’arte farmaceutica da Paracelso ai nostri giorni e apre squarci divertenti sulle bizzarrie della borghesia storica brissinese.
+ Un’ulteriore curiosità della “Wunderkammer” o camera delle meraviglie del museo è il misterioso farmaco mumia vera, costituito dal frammento di un’autentica mummia egizia.
pharmaziemuseum.it
Datazione: circa 1780-1900
Dimensioni: 3-4 mm
Materiale: farmaco, rivestito d’oro o argento in foglia
Werner, lei è originario di Valles e si è formato come meccanico a Bolzano, ma ha scelto di ritornare al suo paese per fare l’istruttore di sci di fondo e in seguito di sci alpino. Come mai?
Mi è sempre piaciuto lavorare all’aperto, fin dai tempi in cui ero di leva a Corvara, all’inizio degli anni settanta. Insieme a un collega, ero stato assegnato al servizio di soccorso piste e questo mi ha permesso di perfezionare la tecnica. Sono però diventato istruttore di sci di fondo e di sci alpino solo dopo l’ampliamento del comprensorio di Rio Pusteria nel 1975, quando la professione ha iniziato a essere molto richiesta. Per me non c’è nulla di più bello del godersi il sole e la neve, proprio come in questo momento.
La professione è cambiata nel corso degli anni?
Sì, senza dubbio. Oggi si consiglia di mettere i bambini sugli sci già a tre anni. Trovo che sia un po’ presto, a quell’età i piccoli hanno una capacità di resistenza limitata. Proprio per questo, nel mio lavoro è importante l’approccio ludico, che permette di imparare divertendosi. Anche i corsi per adulti si sono evoluti: un tempo si andava a sciare soprattutto per stare in compagnia, oggi i partecipanti vogliono apprendere e perfezionare la tecnica in modo efficace.
Il comprensorio di Rio Pusteria è ideale per le famiglie. Basta nominare il “Lucklift”, l’attuale Tasalift, e per gli appassionati di sci della zona si apre un mondo di ricordi. Cosa rende questo impianto così speciale?
La sua posizione e la sua storia! Il nostro “Lucklift”, che si trova oggi sulla pista Tasa, è stato il primo skilift di Valles. È stato costruito a metà degli anni sessanta grazie all’impegno di ristoratori, albergatori e di alcuni compaesani che in inverno lavoravano come macchinisti nei comprensori dello Zugspitze o in Val Gardena. È nata così l’idea di realizzare un impianto di risalita anche qui in paese, dove gli ospiti arrivavano soprattutto durante le vacanze di Natale e soggior-
navano negli alberghi e nelle pensioni della zona. Durante la bassa stagione la sciovia era in funzione nel pomeriggio e nel fine settimana per i bambini del paese ed è diventata ben presto un punto di ritrovo. Nei decenni successivi l’offerta si è ampliata notevolmente, ma questa pista facile e assolata nel cuore del paese è rimasta una delle preferite dai principianti dell’intera zona. Molti hanno messo proprio qui per la prima volta gli sci ai piedi e ricordano ancora oggi con piacere le loro prime discese.
Anche lei ha imparato a sciare qui? No, sono cresciuto un paio di chilometri più a valle. Ho iniziato a sciare a otto anni, quando non c’era ancora la sciovia. Alcuni reparti dell’esercito, che stavano eseguendo delle esercitazioni da queste parti, prestarono alla nostra scuola parecchie paia di sci. I soldati ci mostra-
rono come si scia e ci permisero di tenere l’attrezzatura per un po’. Provavamo a turno, sul pendio accanto al nostro maso. Il paese era troppo lontano, non ci saremmo arrivati con quegli arnesi lunghi e ingombranti in spalla! Gli sci non erano molto adatti ai bambini, quindi anche la tecnica era diversa. Per curvare ci voleva forza. Abbiamo imparato da soli, per imitazione, scendendo a tutta velocità lungo il pendio…
Che storia avventurosa!
Sì, e avventurosa era all’epoca anche la preparazione delle piste. La neve doveva essere battuta o appianata con un rullo. Quando arrivò lo skilift a piattello, lo usavamo per trasportare a monte un grande rullo di legno, che veniva quindi trascinato lungo la pista da uno sciatore. Il comune ha acquistato il primo gatto delle nevi appena all’inizio degli anni settanta.
“Molti hanno messo proprio qui per la prima volta gli sci ai piedi.”
Sono originaria di Terento, un paesino della Val Pusteria su un bell’altopiano collocato tra i due grandi comprensori sciistici di Rio Pusteria e Plan de Corones, che distano entrambi circa mezz’ora di macchina. Il paese non è collegato direttamente alle grandi aree sciistiche e sinceramente… preferiamo così. Amiamo la posizione tranquilla tra i campi e i boschi. Ma non siamo affatto dei pigroni, anzi! Terento offre piste per slittino, sentieri escursionistici invernali, una pista di pattinaggio su ghiaccio e naturalmente il nostro skilift “Panorama”.
Ho iniziato a sciare esattamente trent’anni fa su questa pista. Le discese dopo la scuola e durante le vacanze, e oggi dopo il lavoro, sono per me molto più di un passatempo. La pista è un luogo di ritrovo in cui godere insieme agli amici l’aria fresca e la sensazione di libertà sulla neve. Penso che un po’ tutti i miei compaesani e le mie compaesane sottoscriverebbero. Stagione dopo stagione, è qui che ascoltiamo i leggendari aneddoti degli sciatori più anziani e seguiamo con interesse lo sviluppo dei pulcini, dagli esercizi preparatori al primo corso di sci. I più ambiziosi si tesserano con un’asso -
ciazione sportiva e a qualcuno, magari, riesce il salto verso le competizioni di primo piano. Ma anche i più forti si sono innamorati dello sci proprio qui, su questo pendio, che continua a farci divertire. Nulla ci trattiene, neanche il brutto tempo: sembrerà strano, ma siamo fatti così!
Lo skilift “Panorama” è stato costruito nel 1963 ed è di proprietà di una piccola società locale. È in funzione da dicembre a marzo e dà lavoro a tredici persone, impegnate nella preparazione delle piste o nella gestione del bar. Ma la struttura non potrebbe andrebbe
avanti senza l’impegno dei tanti volontari che, per esempio, organizzano le gare e distribuiscono i pettorali, ma anche cibo e bevande ai partecipanti. Anch’io sono una di loro. Lavoro all’Ufficio del turismo, ma nel tempo libero mi occupo della contabilità del nostro “Panorama”, coordino l’attività dei volontari e all’occorrenza sarei anche in grado di manovrare il cannone sparaneve. Tutto a titolo onorifico. Perché lo faccio? Perché grazie all’impianto di risalita in paese c’è sempre vita, un aspetto molto importante per la nostra comunità.
“Grazie all’impianto di risalita in paese c’è sempre vita, un aspetto molto importante per la nostra comunità.”
La sciovia “Panorama” a Terento è in funzione dal lontano 1963. Come molti suoi compaesani, Katharina Schmid apprezza la posizione tranquilla e l’aria fresca.
+ A Luson, l’idilliaca sciovia Balbein ha trainato bambini lungo il dolce pendio Rungg per decenni. Nel 2019, è stata rinnovata con tecnologia innovativa. Lo skilift è affiancato da tappeti magici per insegnare lo sci ai più piccoli.
+ Una semplice sciovia. Una pista blu adatta ai principianti e una pista rossa un po’ più ripida. E un vivace rifugio che anche gli abitanti del posto amano frequentare. È tutto ciò che serve per una bella giornata sulla neve nel minuscolo “paradiso sciistico Maders” a Snodres, vicino a Velturno
+ Dal 1996, è proprio qui che i brissinesi lanciano le loro… carriere sciistiche: la sciovia Randötsch di Sant’Andrea si trova proprio accanto alla stazione a valle della cabinovia che porta al comprensorio sciistico Plose e offre quindi diverse possibilità di ristoro, per ristorarsi con una cioccolata calda dopo il primo corso di sci.
Per principianti e nostalgici, bambini e chi vuole riavvicinarsi allo sci ma si sente un po’… arrugginito
Dall’inverno 1970/71 lo skilift “Pobist” è in funzione a Maranza. Il macchinista Karl Untersteiner è in loco ogni anno dal 1998, per aiutare bambini e principianti a muovere i primi passi sulla pista.
erfetto così, non sederti, vieni avanti ancora un po’, ecco… e adesso molla!” Karl Untersteiner dà istruzioni a un bambino appena arrivato alla stazione a monte dello skilift “Pobist” di Maranza. Il coraggioso sciatore, che avrà poco più di quattro anni, non ha ancora preso confidenza con la sciovia a piattello. La difficoltà sta tutta nel capire come, dove e quando lasciare andare la fune. Untersteiner, un esperto macchinista, corre in soccorso, rallenta l’impianto e con una spintina aiuta il bimbo a scendere. Il piccolo scivola via, visibilmente sollevato e con una punta di orgoglio, per unirsi al suo gruppo.
“Oggi è lunedì e inizia il nuovo corso. Per la maggior parte dei bambini è la prima esperienza in pista”, spiega Untersteiner senza distogliere lo sguardo
dall’impianto. Il macchinista osserva con attenzione i piccoli per capire se sono stabili sugli sci e interviene subito se incespicano. “Non ci si può distrarre un attimo”, dice per esperienza. Verso mezzogiorno, le forze dei piccoli sciatori vengono meno e si fa sentire la fame. Usare l’impianto di risalita può essere faticoso per loro, ma è parte integrante del programma: “Chi impara a risalire, ha meno difficoltà in discesa. Già domani inizieranno a notare i primi progressi”, aggiunge il macchinista, responsabile dello skilift dall’inverno 1998.
Che cosa apprezza del suo lavoro?
Tutto, ci risponde Karl durante una breve pausa. Per svolgerlo sono sufficienti un buon paio di occhiali da sole e scarponi caldi. E molta pazienza, naturalmente.
Gli chiediamo se il suo lavoro sia faticoso.
“No, falciare i prati o tagliare la legna lo è molto di più”, risponde, e aggiunge: “Non dovrei dirlo ad alta voce, ma a me questo non sembra neanche un lavoro. È come stare in vacanza… a due passi da casa.” Karl indica il suo maso, di fronte alla stazione a monte, e la stalla adiacente, che ospita sette vacche, alcuni vitelli e numerosi conigli. C’è anche il vecchio gattone Klaus, che ogni tanto fa capolino allo skilift – per fare visita al padrone o, più probabilmente, per attirare l’attenzione dei bambini.
Il “Pobist” è in posizione ideale per chi soggiorna nei dintorni. “La pista è raggiungibile a piedi ed è adatta ai principianti. Non è ripida ed è facilmente percorribile in senso trasversale. È perfetta per i primi esercizi di risalita e le prime curve”, spiega il macchinista. Lo skilift è stato realizzato nel 1969. Karl ricorda come suo padre tornasse dal bosco con ceste piene di neve per formare il tracciato della sciovia. All’epoca non esistevano ancora collegamenti stradali tra Maranza e Rio di Pusteria, nel fondovalle, ma era già in funzione una cabinovia, costruita nel 1956 e usata prevalentemente per il trasporto di legna e bestiame. “Allora era normale scendere a valle a piedi”, continua Karl. Gli chiediamo dove abbia imparato a sciare. “Qui, naturalmente. Con scarpe normali, calzettoni di lana e semplici assicelle di legno curvate con una chiusura a scatto e una fascetta di cuoio intorno al piede”, racconta sorridendo e saluta il prossimo gruppo di bambini.
“Per svolgere il mio lavoro sono sufficienti un buon paio di occhiali da sole, scarponi caldi e… molta pazienza.”
Stazione motrice: qui si trova il motore che aziona la fune. Ad esempio, nella funivia Nesselbahn all’interno del comprensorio Rio Pusteria (v. riquadro) il gruppo motore si trova nella stazione a valle, mentre in altri impianti di risalita è collocato a monte. La scelta è determinata da esigenze tecniche e pratiche quali l’approvvigionamento energetico.
❶ Argano: a differenza delle automobili, le funivie hanno da decenni un’alimentazione elettrica. Anche da questo punto di vista non sono mancati i progressi: la Nesselbahn, per esempio, dispone da poco di un sistema di azionamento diretto senza riduttore di velocità. L’albero di uscita è infatti collegato direttamente alla puleggia e quindi alla fune. I motori di questo tipo sono più silenziosi, risparmiano energia e richiedono meno interventi di manutenzione.
❷ Fune: la sua invenzione è stata decisiva per lo sviluppo delle funivie moderne. Le funi sono fatte di trefoli di acciaio intrecciati intorno a un’anima.
Stazione di rinvio: qui si trova il dispositivo di tensionamento. Un tempo si usavano contrappesi, mentre oggi moderni dispositivi idraulici garantiscono la tensione costante delle funi indipendentemente dal carico effettivo.
❸ Cabine: le cabine non dispongono di motore poiché sono azionate a partire da
una delle due stazioni. Le singole cabine sono collegate alla fune tramite una morsa.
❹ Morsa: questo componente non è fisso, ma racchiuso da molle. All’arrivo alla stazione, la morsa si apre permettendo alla cabina di svincolarsi dalla fune e di proseguire lungo una rotaia a velocità ridotta per agevolare il trasbordo dei passeggeri.
❺ Sostegni: i sostegni fanno sì che funi e cabine mantengano una determinata distanza dal terreno.
❻ Rulliere: le rulliere guidano la fune lungo la linea e trasmettono il peso delle cabine ai sostegni. Sono composte da diversi rulli, il cui numero dipende dal carico al quale è sottoposta la fune.
Centrale di comando: qui tecnici specializzati sorvegliano il funzionamento dell’impianto in tempo reale, monitorando il consumo energetico, la velocità del vento lungo la linea, la posizione delle cabine e la velocità di marcia.
Manutenzione: il calendario delle verifiche prevede controlli giornalieri, mensili e quinquennali. Ogni 20 anni avviene una revisione generale. La manutenzione comprende il cambio dell’olio, la lubrificazione, la sostituzione dei componenti usurati e la ricerca di eventuali guasti o lacerazioni.
Testo – DANIELA KAHLERLa funivia Nesselbahn collega la stazione a valle a 1.629 m con il rifugio Nesselhütte a 2.107 m. L’impianto ha sostituito nel 2002 la seggiovia precedente. Nel 2022 è stato sottoposto a una revisione generale, al termine della quale la funivia è stata dotata di un sistema di azionamento diretto.
Portata: 2.200 persone all’ora
Velocità: 5,5 m al secondo
Dislivello: 478 m
Portata per cabina: 8 persone
Numero dei sostegni: 14
Numero delle cabine: 55
Diametro delle funi: 50 mm
Sei bottiglie, allineate con cura, sono già pronte per la prossima degustazione. Sulle etichette spiccano fantasiosi nomi di vitigni: Solaris, Johanniter, Muscaris, Souvignier Gris, Regent, Cabernet Cortis. Willi Gasser parla con voce pacata, visibilmente a suo agio. Il viticoltore è abituato a condividere la sua storia con gli ospiti che accoglie per degustazioni e visite guidate al Santerhof di Rio di Pusteria. Gasser coltiva vitigni resistenti ai funghi, i cosiddetti PIWI: “Rispetto ai vitigni tradizionali, queste varietà sono geneticamente meno predisposte a malattie fungine come l’oidio”, spiega.
La coltivazione dei vitigni PIWI, nati da incroci tra varietà europee e americane, si diffuse in Francia 150 anni fa, per essere poi pressoché abbandonata a metà del secolo scorso. Oggi sempre più viticoltori riscoprono queste varietà particolarmente robuste che, a differenza dei vitigni coltivati con metodi convenzionali, consentono di ridurre in modo significativo o di eliminare del tutto l’uso dei pesticidi, offrendo al tempo stesso una qualità sorprendente.
Passeggiando dalla casa alle vigne, Gasser ricorda i suoi primi esperimenti con le varietà resistenti, nel 1994, tre anni dopo avere convertito il Santerhof al biologico. All’epoca, esperienza e conoscenze in materia erano ancora scarse e c’erano ben pochi colleghi con i quali confrontarsi. Gasser e i suoi vini non venivano presi sul serio. “Alcuni sostengono ancora oggi di non avere mai bevuto un buon PIWI”, dice. Gasser può ormai permettersi di sor-
Testo — LISA MARIA GASSERriderne. E ci racconta di quella volta che, in una “degustazione alla cieca” dedicata ai Riesling, inserì di nascosto nella selezione il suo Johanniter “Granitus”, ottenuto dall’incrocio di diverse varietà di Riesling. “La degustazione si concluse con un giudizio unanime: il mio Johanniter era il migliore”, racconta Gasser divertito e con una punta d’orgoglio.
La prima testimonianza scritta del Santerhof risale al 1541. Nel 1889 il podere fu acquistato dal bisnonno di Willi Gasser. Oggi l’edera si arrampica sugli imponenti muri dell’edificio. A pochi passi, due suini neri delle Alpi si stanno rotolando nel fango. Gasser si ferma e posa lo sguardo sulle viti, mentre sullo sfondo risuonano i campanacci di un gregge di pecore. Brucando erba e foglie, gli ovini aiutano a mantenere puliti i vigneti dell’azienda. I PIWI di Willi Gasser crescono su due ettari e mezzo di terreno a un’altezza massima di 900 metri, una quota che qui, all’estremo nord dell’Alto Adige, rappresenta una sfida per la viticoltura. Il Santerhof è, del resto, la cantina vinicola più settentrionale d’Italia. “Da altre parti ci sono sicuramente più sole e temperature più miti, ma il terreno
qui a Rio di Pusteria ha caratteristiche uniche”, afferma il viticoltore. Le viti crescono su un terroir di matrice granitica: “L’elevata percentuale di silicio è un’importante fonte di minerali per viti e alberi da frutto”.
Il cielo si è annuvolato. Una pioggerellina sottile inizia a scendere sul capo grigio di Gasser. Il repentino cambio del tempo non dissuade il viticoltore dal proseguire il nostro giro. Passiamo ora accanto agli imponenti meli che affiancano le viti. “Alcuni preconcetti sono duri a morire. Ancora oggi, ad esempio, si tende ad acquistare i vini in base al nome e all’etichetta. Se il nome non ti dice niente, non compri la bottiglia”, prosegue. Con il suo grande impegno personale, Gasser è riuscito ad abbattere i pregiudizi ottenendo l’apprezzamento di numerosi appassionati e conoscitori. I vini dell’azienda, circa 16.000 bottiglie all’anno, sono commercializzati quasi esclusivamente nella rivendita interna.
Di ritorno dai vigneti, il viticoltore cinquantasettenne si siede su una panca e osserva la pioggia che cade. Gasser è soddisfatto dei risultati raggiunti. La crescente consapevolezza di una viticoltura naturale e originaria sembra dare ragione a chi, come lui, si dedica da sempre a una paziente opera di persuasione. I colleghi, italiani ed esteri, che un tempo lo schivavano e guardavano con sospetto al suo operato bussano oggi alla porta del Santerhof per chiedere consiglio all’esperto viticoltore. “A tutti dico che, per fare le scelte giuste, è essenziale sperimentare in prima persona, prendendosi tutto il tempo per raccogliere l’esperienza necessaria. Ed è importante darsi degli obiettivi chiari.” Come Gasser, che sa esattamente cosa vuole: “Lavoro per preservare e aumentare la biodiversità. Le varietà rare rappresentano un vantaggio in tal senso, perché suscitano interesse e curiosità”. Da quando ha iniziato a muovere i primi passi nel mondo dei vitigni resistenti sono passati quasi trent’anni: un’avventura fatta di entusiasmo e convinzione, e coronata infine dal successo. Il figlio Johannes vorrebbe ora seguirne le orme. E il padre non potrebbe esserne più felice.
santerhof.eu
Cosa possono imparare i giovani viticoltori dai colleghi più esperti, e viceversa?
Il passaggio generazionale è uno dei temi attualmente più sentiti nelle aziende vinicole dell’Alto Adige. I giovani viticoltori e le giovani viticoltrici puntano su metodi innovativi, riscoprendo al tempo stesso le tecniche tradizionali di vinificazione che la generazione precedente aveva abbandonato. Ne è un esempio la produzione di vini bianchi macerati sulle proprie vinacce, i cosiddetti “orange wine”. I giovani guardano al passato anche nella scelta dei metodi di coltivazione, portando avanti il rinverdimento dei vigneti e prestando grande attenzione alla biodiversità. La nuova generazione conosce le tecnologie più moderne e ha dalla sua l’audacia della gioventù, ma è anche capace di fare tesoro dell’esperienza dei viticoltori più anziani.
Hannes Munter
Classe 1982, è enologo presso la Cantina Valle Isarco e uno dei più giovani professionisti del settore in Alto Adige.
Nei miei primi anni in Alto Adige ho imparato un poco alla volta a sollevare il dito indice dal volante. Per imitazione. Copiavo gli automobilisti che mi venivano incontro e che con quel gesto veloce volevano salutarmi o magari dirmi “grazie per la precedenza”. Con il passare del tempo è diventato un riflesso condizionato. Vivo qui dal 2016. Doveva essere un soggiorno di soli sei mesi per scrivere la mia tesi, e invece mi sono innamorata delle montagne e dei loro abitanti. E di quel senso di appartenenza che oggi mi fa salutare a mia volta allo stesso modo: alzando l’indice dal volante.
Oggi, a sette anni di distanza, devo dire di provare rispetto e grande affetto per tutte le forme di saluto di questa terra. Le ho scoperte passeggiando in paese, percorrendo gli infiniti chilometri di sentieri, entrando nei bar e nei negozi di alimentari. I dialettali “Hoila!” e “Griaß di” hanno iniziato a suonarmi sempre più familiari. E quando un bel giorno i miei compaesani hanno preso a salutarmi chiamandomi per nome, ho capito: sono passata al livello successivo!
Mi sono accorta ben presto di quanto forti siano i legami e la coesione sociale in questa terra così piccola. Il saluto con l’indice sollevato ha rappresentato per me una sorta di iniziazione ingenua alla vita e alle regole del paesino che sarebbe diventato la mia nuova casa. Una casa come non me la sarei mai immaginata, né nei miei anni da ragazzina metropolitana a stelle e strisce né, più tardi, quando vivevo a due passi dall’effervescente spiaggia di Tel Aviv e sgusciavo nel traffico cittadino in sella alla mia bici supercool a scatto fisso.
Salutare come una vera altoatesina non è solo una complessa pratica culturale, ma anche il biglietto d’ingresso per essere accolta a pieno titolo nella comunità.
Eppure, anche per una come me, che aveva già vissuto in cinque paesi diversi e amava considerarsi una cittadina del mondo, i primi tempi in Alto Adige sono stati tutt’altro che facili. Volevo stabilirmi qui, diventare viticoltrice, scrivere e godermi le montagne. Ma ero capitata su un’isoletta nel cuore delle Alpi, in una piccola realtà con una lingua e codici di comportamento che ignoravo. Un abisso separava la mia cultura d’origine da quella della popolazione locale. C’era talmente tanto da imparare! Ad esempio, come percorrere veloci ma in sicurezza le strade di montagna strette e piene di curve, come tagliare i canederli a regola d’arte per non offendere l’ospite (sempre con il cucchiaio, mai con il coltello!), quando bere i vini bianchi e quando quelli rossi (i bianchi a tutte le ore, i rossi preferibilmente di sera)… C’è però una lezione che non ho ancora finito e forse non finirò mai di imparare: l’arte di salutare! Salutare come una vera altoatesina non è solo una complessa pratica culturale, ma anche il biglietto d’ingresso per essere accolta a pieno titolo nella comunità locale. Per fortuna, i nuovi arrivati ricevono automaticamente un corso intensivo di usi e costumi: ed è la vita a offrirlo!
Ci sono fondamentalmente due modi per salutare familiari, amici e conoscenti. Il primo è il bacio sulla guancia, un gesto molto comune tra gli europei, soprattutto nell’Europa del sud. Ma io, mezza statunitense e mezza israeliana, ci ho messo un po’ ad abbandonare il nostro cordiale abbraccio a braccia larghe e abituarmi all’idea che un’altra persona mi sfiorasse la guancia. E non solo una o due volte, ma addirittura tre! Ebbene sì, quando sono in vena gli altoatesini non lesinano. La coreografia non è sempre impeccabile e il rischio scenetta comica è naturalmente dietro l’angolo. Indecisa se dare il primo bacio vada dato a destra o a sinistra, per esempio, mi sono spesso trovata a planare involontariamente sulle labbra del mio interlocutore. Complicazione che, detto per inciso, l’abbraccio non comporta...
5 a PUNTATA: L’arte di salutareL’altro modo di salutare è la tedeschissima stretta di mano. E non parlo della mano che si dà a una persona appena conosciuta, o della classica stretta di mano da business: ma di ricorrenze o addirittura feste in famiglia. “Buon Natale”? Stretta di mano. “Buon compleanno”? Stretta di mano. Appena convolata a nozze? Stretta di mano. La regola vale sia per gli uomini che per le donne. A volte però in combinazione con un bacino, per non farmi perdere l’esercizio. Ci ho messo sette lunghi anni per abituarmi a queste consuetudini, ma ora mi capita addirittura di prendere io l’iniziativa e tendere per prima la mano! I miei amici altoatesini, da parte loro, hanno imparato a non opporre resistenza ai miei abbraccioni americani.
Veniamo infine al complesso codice che definisce i saluti in montagna. Dopo corsi su corsi per riuscire a padroneggiare uno dei punti dolenti della lingua tedesca, ovvero la differenza tra il “Sie” e il “Du” (il “Lei” e il “tu”) – che in inglese non esiste – scopro che a partire da precisamente 1.000 metri di altitudine saltano tutte le regole. Tra le cime dell’Alto Adige, salutare gli escursionisti che ci vengono incontro con l’informale “Griaßt enk!” non è solo accettato, ma altamente gradito.
Il mio consiglio: per imparare a salutare nel modo giusto ci vuole perseveranza! In tutti questi anni non sono mancate le occhiatacce, ma anche le tante reazioni divertite ai miei coraggiosi (e goffi) tentativi di padroneggiare regole che in realtà non esistono. L’unico metodo che funziona è armarsi di pazienza, non desistere e continuare a frequentare mercati contadini, bar di paese e baite. Quando entrate, salutate sempre. E il saluto di congedo, direte? Beh, quello è un’altra storia. Ne riparleremo. Ciao, pfiat enk, alla prossima!
[ˈʃmɪʁbʁ], [ˈʃmɪʁbʁɪn]
Con questo termine, a metà strada tra sospetto e deferenza, si indicavano un tempo i misteriosi guaritori e le erboriste che curavano con pomate e tinture miracolose. Il termine dialettale “schmirben” equivale al tedesco “schmieren, ölen” (spalmare, ungere). Ancora oggi, senza troppi giri di parole, chiamiamo “Schmirb” qualunque crema idratante, persino quelle preziose e naturali dei produttori che presentiamo a p. 34.
Pfiati!
[ˈpfiːatɪ]
Amy KadisonViticoltrice, zoologa e autrice, è originaria degli Stati Uniti e ha vissuto in cinque paesi diversi prima di approdare, nel 2016, in Alto Adige per scrivere la sua tesi. E decidere di rimanere, per amore delle montagne. A partire da questo numero, Amy prosegue la rubrica curata in precedenza da Cassandra Han. Per i lettori di COR esplorerà l’altoatesina che è in lei. E racconterà come l’ha scoperta.
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Né con i tedeschi “Tschüss” o “Auf Wiedersehen” e neanche con “ciao!”, a meno che non si parli italiano. Noi altoatesini preferiamo infatti congedarci con un cordiale “Pfiati!”. Questo saluto è la forma abbreviata, impostasi nel tempo, di “Pfiat di Gott”, ovvero “Che Dio ti protegga”.
[ˈpʁɪnt ʃələn]
Quando in Alto Adige qualcosa fa “brintschelen”, è bene chiamare i vigili del fuoco. L’esclamazione “Do tuats brintschelen!” corrisponde infatti all’italiano “C’è puzza di bruciato!”. Il suffisso “-elen” è presente anche in altri verbi che descrivono odori sgradevoli. Se per esempio ci pare che qualcosa faccia “mistelen”, significa che c’è dello sterco a portata di naso, se una cantina fa “tebelen” c’è invece odore di muffa.
Il nostro dialetto, spiegato bene
Dopo l’annessione, nel 1919, dell’Alto Adige all’Italia, uscita vincitrice dalla Grande Guerra, con l’avvento al potere del fascismo negli anni venti inizia l’“italianizzazione” dell’ex Tirolo meridionale. Il regime mussoliniano introduce toponimi italiani, scioglie le associazioni, vieta la lingua tedesca e nella nuova zona industriale di Bolzano crea posti di lavoro per gli immigrati del Sud.
Ma il progetto rischia di fallire: si rende necessario trovare un’altra soluzione al problema sudtirolese. Nel giugno 1939 Benito Mussolini si accorda con Adolf Hitler per il trasferimento dei sudtirolesi e nasce il patto passato alla storia come “Opzioni”: gli altoatesini di lingua tedesca vengono messi di fronte alla scelta se trasferirsi nel Reich tedesco o rimanere in patria come italiani a tutti gli effetti.
L’85-90 per cento sceglie di partire, e alla fine della guerra circa 75.000 optanti avranno effettivamente lasciato la loro terra natia. A convincerli era stata la promessa di una zona di insediamento a loro riservata, associata al benessere materiale. La realtà invece fu diversa: gli uomini idonei al servizio militare vennero inviati sui fronti di guerra e le famiglie contadine furono sparpagliate nelle aree occupate dai tedeschi.
Nel 1943 il corso della guerra arrestò il processo di emigrazione, e solo dopo il 1948 i sudtirolesi espatriati poterono rientrare legalmente in Alto Adige, dove però non avevano più nulla. Solo un terzo vi fece ritorno: l’immagine mostra l’arrivo dei rimpatriati alla stazione ferroviaria di Bressanone. Il fotografo Hermann Frass immortalò questi momenti commoventi.
Foto: Hermann Frass/Ufficio Film e media, Provincia Autonoma di BolzanoOpzioni 1939: la popolazione dell’Alto Adige viene chiamata a decidere se trasferirsi nel Reich tedesco o rimanere nell’Italia fascista. Un dilemma straziante. A Spinga, pittoresco paesino vicino a Rio di Pusteria, circa l’85 per cento degli abitanti scelse di emigrare. Ma le cose andarono diversamente dal previsto
Dalle catacombe all’aria aperta Dopo l’ascesa al potere di Mussolini, l’italianizzazione dell’Alto Adige inizia con il divieto dell’insegnamento in lingua tedesca. Alcuni insegnanti impavidi organizzano le cosiddette “Katakombenschulen” (scuole delle catacombe), ossia scuole clandestine illegali dove insegnano ai bambini a leggere e scrivere in tedesco. Dopo il patto sulle Opzioni, nel 1939, la situazione cambia: ai bambini delle famiglie optanti vengono offerti corsi di lingua tedesca. Succede anche a Spinga, dove, dopo un ventennio di lezioni in italiano, i bambini imparano non solo il tedesco ma anche i contenuti ideologici del regime nazista, in modo da essere preparati per il loro trasferimento nel “Reich”.
Sinistra “Amore ardente” e pugno chiuso
Theres Valentini vedova Mair, ritratta nella sua stube di Spinga, ha lo sguardo risoluto e allo stesso tempo pensieroso. Sul tavolo ci sono due piante di geranio, fiore che in Alto Adige viene chiamato “Brennende Liab” (amore ardente) e che ancora oggi adorna i balconi dei masi sudtirolesi. Durante le Opzioni entrambi gli schieramenti – Optanti e “Dableiber” (quelli che rimangono) –ne fecero il simbolo delle loro schermaglie propagandistiche. I Dableiber non vollero separarsi da quel bel fiore e giurarono fedeltà alla patria, gli Optanti portarono con sé l’“amore ardente” nella nuova vita come simbolo del loro dolore per la perdita della patria.
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La documentazione del patrimonio culturale
I sudtirolesi dovevano sì essere trasferiti secondo lo slogan “Ritorno nel Reich”, ma la loro cultura rurale doveva essere, se non preservata, quanto meno documentata. La principale occupazione dell’AdO, il Gruppo di lavoro degli optanti per la Germania, era quella di assistere i sudtirolesi nel processo di emigrazione e di organizzarne il reinsediamento nel Reich. A Spinga, l’addetto culturale dell’AdO fotografa le donne mentre svolgono le faccende quotidiane e le bambine che giocano.
Un addio con tutti gli onori
Nel giugno del 1940 il vescovo di Bressanone Johannes Geisler opta per la Germania, cosa insolita per un ecclesiastico. Sebbene infatti la Chiesa in Alto Adige abbia sempre avuto un ruolo importante e una grande influenza sulla popolazione, nel caso delle Opzioni il clero e la popolazione si espressero in modo diametralmente opposto: circa l’85 per cento dei prelati decise di rimanere in Alto Adige.
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Per gli optanti emigrare significava impacchettare tutto alla bell’e meglio, i beni mobili venivano caricati e spediti in anticipo o temporaneamente immagazzinati. Un enorme sforzo organizzativo. Anche per questo furono soprattutto le famiglie con pochi beni a optare per il trasferimento. Solo gli uomini maggiorenni e le donne nubili maggiorenni avevano diritto di opzione, per le donne sposate e i figli invece era il capofamiglia a decidere. Al 1° luglio 1939 Spinga contava 254 residenti aventi diritto all’opzione: di loro, 224 votarono per l’emigrazione.
Pagina accanto, in basso La macchina della propaganda continua a girare
Ogni partenza degli optanti rappresentava un evento per l’ADERSt, l’Ufficio tedesco per l’immigrazione e il rimpatrio, al cui vertice c’era il comandante in capo delle SS Heinrich Himmler. Soprattutto in occasione delle prime partenze, nel 1940, nelle stazioni ferroviarie lungo la linea del Brennero venivano organizzate feste pubbliche per salutare gli emigranti. A fini propagandistici si scattano fotografie come in questo caso alla stazione di Bressanone, dove amici e parenti salutano i partenti per il Reich.
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Una nuova casa in un Paese straniero
A questa famiglia di optanti della Valle Isarco, ritratti davanti alla loro casa in costruzione in Carinzia, tutto sommato andò meglio che a molti altri emigrati. La maggior parte di loro infatti non vide mai una casa nuova. Le abitazioni degli “insediamenti sudtirolesi” realizzati in Tirolo e nel Vorarlberg, ad esempio, erano per lo più mal costruite; d’altronde il Reich era in piena guerra e le conseguenze si facevano già sentire. Inoltre gli “stranieri” non furono accolti a braccia aperte, bensì guardati con sospetto ed emarginati.
Al termine della guerra circa un terzo degli optanti torna in Alto Adige. L’accoglienza alla stazione di Bressanone è sì calorosa, ma l’atmosfera nella terra natia è pesante, i rimpatriati vengono bollati come “traditori della patria”. Inoltre queste persone non hanno né lavoro né alloggio, entrambi scarsi a causa della massiccia immigrazione dall’Italia meridionale. In tutta la provincia si costruiscono quartieri per gli optanti, spesso esposti a un’aperta ostilità da parte degli altri sudtirolesi.
Oltre a Chiusa, le altre cittadine dell’Alto Adige inserite nella rassegna dei “Borghi più belli d’Italia” sono Vipiteno, Castelrotto, Egna e Glorenza. L’iniziativa articolata su tutto il territorio nazionale, creata dall’ANCI, Associazione Nazionale Comuni Italiani, promuove il patrimonio culturale, storico ed ecologico dei piccoli centri.
osa avranno pensato Goethe o il giovane Mozart quando, durante i loro viaggi in Italia, attraversavano Chiusa in carrozza, passando per le strette viuzze della cittadina? Oppure il grande artista Albrecht Dürer, quando nel 1494 si sedette in un punto solitario di fronte al Monastero di Sabiona per disegnare l’incantevole cittadina alle sponde del fiume Isarco? Per capirlo, è necessario esplorare Chiusa con il suo fascino medievale.
Il centro storico, che ispirò molti artisti nel corso dei secoli, ricorda ancora oggi i tempi passati. Non a caso, dal 2002 Chiusa si annovera tra i “Borghi più belli d’Italia”, onore riservato a pochissime cittadine del Paese.
Dietro le colorate facciate dei palazzi di Chiusa si nascondono graziosi angoli e piccole piazze che donano alla città il suo fascino particolare.
Il museo cittadino situato nel giardino dei Cappuccini propone una panoramica sulla storia della cittadina e sulle opere d’arte realizzate da chi vi faceva visita, grazie a una mostra permanente sulla colonia di artisti di Chiusa (1874-1914) e sul suo più noto rappresentante Alexander Koester (1864-1932). Nell’adiacente convento dei Cappuccini è possibile ammirare il prezioso Tesoro di Loreto,
una collezione unica di opere d’arte donata alla città da Maria Anna, regina di Spagna, intorno al 1700. Un dono con un passato emozionante: nel 1986, infatti, gran parte del Tesoro fu trafugato e soltanto nel 2014, grazie a un lavoro di ricerca mirato – ma grazie anche ad alcuni colpi di fortuna! – fu recuperato quasi completamente.
Chi visita Chiusa, infine, non può che restare colpito dal mistico Monastero di Sabiona, che padroneggia sul ripido sperone roccioso sopra la città. Le porte dell’ex monastero benedettino sono chiuse al pubblico, ma è possibile visitare le chiese all’interno del complesso.
Sui soleggiati pendii che circondano il monastero, da secoli si pratica la viticoltura. E chissà, forse anche il grande Dürer o altri artisti in visita alla piccola cittadina traevano ispirazione da un ottimo calice di vino. In ogni caso, a Chiusa modernità e antichità, diversità e particolarità si congiungono per scorrere insieme proprio come il corso del fiume Isarco: a volte calmo e a volte impetuoso, in una simbiosi naturale.
klausen.it
Lo scrigno sotto i portici Entrare nella piccola gioielleria Karat2 sotto i Portici Minori di Bressanone è come aprire uno scrigno portagioie, pieno di pezzi unici dal raffinato design, catenine sottili e gioielli importanti realizzati da maestri orafi. Martin Unterkircher e il suo team adattano anche gioielli di famiglia e riparano orologi. Anello in oro con topazio e brillanti, 2.150 euro.
karat2.com
Illustrazioni sostenibili
Elisabeth Mair di Laion unisce l’antica arte cartaria alle illustrazioni moderne realizzate al computer. Gli originali soggetti stimolano la riflessione e invitano alla sostenibilità: Elisabeth ricava infatti la carta da ritagli di vecchi scatoloni e utilizza per le sue delicate creazioni confezioni fatte a mano e senza plastica. Gli articoli, tutti pezzi unici, sono disponibili al Kauri Store di Bressanone e online su Etsy.com e Selbergmocht.it. Taccuino per appunti rilegato a mano, 15,50 euro.
elisabethmair.com
Riciclo creativo
Tutto si trasforma: oggi al REX, la palestra dell’ex caserma di Bressanone, a diversi materiali (ceramica, cassette di legno, sughero) e oggetti (aspirapolvere, divani, smartphone) viene data una seconda, e forse anche terza o quarta vita. Buttare? Non va più di moda. Oggi si ripara, si ricicla e si riutilizza in modo creativo.
Il team del REX sensibilizza inoltre al consumo responsabile organizzando il Bike Repair Day, workshop e incontri informativi.
rex-bx.it
Manuela Pedevilla ha iniziato a cucire dopo la nascita della sua piccola Maja e realizza oggi con il suo brand ManuFactured tutine, abiti estivi e felpe per neonati e bimbi. Per le sue creazioni sceglie stoffe di qualità e predilige tagli pratici, fantasie di ispirazione scandinava, colori naturali e icone divertenti. Come gli elefantini, forse un omaggio al celebre pachiderma che nel 1551
Mikaela Shiffrin e Lara Gut: andate da Schuhbert! Nella sua calzoleria di Bressanone, Hubert Rabensteiner adatta scarponi da sci, solette e protettori in base alle vostre esigenze e realizza plantari su misura. I suoi scarponi fabbricati a mano, eleganti e comodissimi, coccolano il piede e sono più longevi dei modelli convenzionali. Scarpone All-Mountain “POP Annie” o “POP Benny”, adatto anche allo scialpinismo, prezzo su richiesta.
schuhbert.com
un po’ di latte caldo e il mix per canederli allo speck, agli spinaci o alle erbe di Niki Back.
I canederli sono pronti in un attimo, ma talmente gustosi che nessuno si accorgerà del trucco. Serviteli con tanto burro fuso e parmigiano oppure adagiateli su un letto di insalata fresca. Mix per 6 canederli alle erbe, 140 g, 5,90 euro.
niki-back.com
Un grappino, ma quale?
Nella bottega del maso Pschnickerhof di Villandro troverete la classica grappa “Treber”, nota anche con lo scherzoso nome di “whisky di Villandro”, e diverse varietà di grappe e liquori distillati in proprio. Qualche esempio?
Mela in tini di legno, prugna, fiori di sambuco... Lasciatevi sorprendere: Daniel Kainzwaldner, figlio del gestore, ama creare sempre nuovi distillati, che potrete degustare durante una visita guidata (su prenotazione). Bottiglie da 500 ml.
pschnickerhof.it
Vergini e diavoletti, stregoni e uomini selvaggi: Bressanone, Chiusa e i dintorni pullulano di storie mistiche. Una piccola selezione per spaventarsi e stupirsi –e i posti magici da visitare
Al suo sguardo non sfugge nulla, com’è naturale che sia quando si hanno tre teste e sei occhi! Come Cerbero vigilava sull’entrata dell’Ade, così l’“Uomo selvaggio” sorveglia dalla facciata di una casa il viavai nel centro storico di Bressanone. E lo fa dal XVI secolo. Ci piace pensare che anche Mozart lo abbia intravisto durante il suo soggiorno in città. Si dice che la misteriosa figura lignea sputi ancora oggi oro, per la precisione il Venerdì Santo al rintocco di mezzogiorno. Peccato però che il Venerdì Santo le campane restino mute…
Dove: nel centro storico di Bressanone, sulla facciata di una casa all’incrocio tra via Porta Sabiona, via dei Portici Maggiori e via dei Portici Minori.
Sulle tracce di tre vergini regali. Questo magico itinerario escursionistico conduce da Rio di Pusteria fino a Maranza attraverso boschi misteriosi e prati verdissimi. Lungo il percorso, che offre una bella vista di Rio di Pusteria, vi inoltrerete nel mondo incantato di Aubet, Cubet e Quere. Si narra che le tre pie vergini, in fuga da Attila re degli Unni, sostarono proprio qui in una torrida giornata d’estate. Le giovani iniziarono a pregare e, come per miracolo, da una roccia sgorgò improvvisamente una fonte che le dissetò: fonte da allora chiamata Jungfrauenrast, ovvero “riposo delle vergini”.
Dislivello: 650 m
Durata: 3:45 h
Difficoltà: media, percorso piuttosto ripido
Ancora oggi a Maranza si svolgono processioni in onore delle tre Sante Vergini.
Grazie a Dio non ce l’ha fatta, il diavolo. Si narra infatti che, in tempi lontanissimi, il demonio volesse fare rotolare un grande masso sulle case dei contadini di Selva dei Molini, a nord di Terento. La pietra, però, era troppo pesante e dovette desistere. Per fortuna dei contadini e anche nostra: il masso segna infatti ancora oggi il punto d’arrivo di un suggestivo itinerario che conduce attraverso luoghi avvolti nella leggenda e si conclude con una vista panoramica sulla Val Pusteria. A partire dal parcheggio Nunewieser di Terento, proseguite lungo il sentiero fino al grande masso (“Geißklapf”) presso San Sigismondo: se guardate bene scoprirete le impronte lasciate dalle zampacce del diavolo!
Dislivello: 120 m
Durata: 0:30 h
Difficoltà: facile
Zaino in spalla, si parte per l’Alpe di Luson, alla scoperta di un mondo immerso in un’atmosfera incantata. Dalla località Herol a Luson si prosegue verso un punto panoramico per giungere al rifugio Kreuzwiese. Questa escursione vi porterà sulle tracce di una “saliga”, le leggendarie donne dalle sorprendenti capacità divinatorie. Si narra che una volta la timida creatura consigliò a un contadino di Luson di tagliare il fieno non ancora maturo e di metterlo al sicuro entro tre giorni. Il contadino tentennò, ma decise infine di seguire il consiglio della donna. E fece bene, perché il giorno dopo il raccolto, i suoi prati erano ricoperti da uno spesso strato di neve.
Dislivello: 360 m
Un murales del 1974 lungo l’itinerario tematico di Sciaves mostra gli stregoni Lauterfresser e Tschaföger intenti a evocare una tempesta, mentre le campane di Fiumes, Rasa e Rodengo suonano disperate per proteggere i loro paesi.
Tre chiese, tre misteri: questa escursione nella zona di Barbiano conduce a un curioso campanile pendente, a spettacolari cascate, a una terrazza panoramica con vista sul paese e le montagne circostanti, ma anche a un luogo dal fascino arcano. Dove in tempi antichissimi si trovava una sorgente sacra, sorgono oggi tre chiesette dall’origine misteriosa, ornate all’interno da trittici e affreschi gotici. La leggenda vuole che i defunti del paese dovessero attendere tre giorni davanti a uno dei tre portali prima che le loro anime fossero ammesse in paradiso.
Dislivello: 300 m
Durata: circa 2:15 h
Difficoltà: facile
Con visita alle cascate:
Dislivello: 560 m
Durata: circa 4 h
Difficoltà: percorso circolare adatto alle famiglie
Sulle tracce dello stregone: il nuovo itinerario tematico “Schabmer Themenweg” di Sciaves narra attraverso undici pannelli informativi la storia del luogo, ma anche le vicende di Matthäus Perger, un commerciante realmente vissuto di Scezze vicino a Bressanone, che fu messo al rogo nel 1645. La leggenda attribuisce a Perger, detto anche Lauterfresser (“Mangiapappe”), un’inclinazione alla magia e alle burle. Forse bastò questo a fare di lui uno stregone. La sua figura è al centro di numerosi racconti. Si narra per esempio che una volta una conoscente lo pregò di fare un incantesimo affinché le sue galline deponessero più uova. I poteri magici di Matthäus si rivelarono insufficienti, ma lo stregone non si perse d’animo e fece comparire “per magia” alcune galline ovaiole da un altro paesino!
Dislivello: 100 m
Durata: circa 0:45 h
Difficoltà: facile
Se, prima della nostra escursione sull’Alpe di Villandro, ci avessero chiesto qual è il centro geografico dell’Alto Adige, avremmo scommesso su qualche località anonima vicino a Bolzano. Il caso vuole che questo punto si trovi invece nel cuore delle montagne, lungo un itinerario pieno di meraviglie!
Il percorso di 14,5 chilometri complessivi con un dislivello di 760 metri richiede un minimo di condizione fisica. Si parte dal parcheggio Saltnerstein vicino al rifugio Gasser (1.756 m) e di qui si prosegue attraverso l’incantevole Alpe di Villandro, uno dei pascoli in quota più alti dell’Alto Adige. Quassù, tra prati punteggiati di casupole di legno, la vista spazia fino alle Dolomiti: un soggetto perfetto per chi ama gli scatti idilliaci! Al termine del sentiero n. 6 si raggiunge la Chiesetta dei Morti (2.186 m) e si continua quindi a sinistra seguendo la marcatura 2A fino al Laghetto dei Morti. Percorrendo il sentiero n. 2 si giunge infine, dopo circa tre ore complessive di cammino, al Monte Villandro (2.509 m), il centro geografico dell’Alto Adige.
Qui si apre un panorama a 360 gradi sulle cime circostanti. In corrispondenza del centro geografico troviamo un grande globo di granito, accanto a una croce di vetta e a un cannocchiale. Dopo la meritata (e spettacolare!) sosta, si ritorna a valle seguendo lo stesso itinerario dell’andata.
Judith Niederwanger e Alexander Pichler gestiscono insieme il blog di successo “Roter Rucksack”, dedicato a escursioni e fotografia. Nell’omonima pagina Facebook hanno più di 20.000 fan, su Instagram 17.000 follower. Il loro libro di itinerari escursionistici per amanti della fotografia è ormai un bestseller (“Alto Adige: I posti più belli da esplorare e fotografare”, 2019, ed. Raetia).
roterrucksack.com
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I pacchetti sono prenotabili solo presso le strutture che partecipano all’iniziativa. L’accuratezza delle informazioni non è garantita. I periodi di validità delle offerte sono soggetti a modifica. Informazioni e dati aggiornati sono disponibili sul nostro sito web.