GLI AMICI DEL LOGGIONE Numero 15 – Maggio 2021
GLI AMICI DEL LOGGIONE Rivista quadrimestrale on-line di Musica Classica e Lirica Numero 15 – Maggio 2021
Coordinatore editoriale ed autore dei testi: Giuseppe Ragusa
A questo numero ha collaborato il M. Paolo Duprè
In questo numero: 1a Copertina: Elias Gottlob Haussmann - Ritratto di Johann Sebastian Bach 1748, olio su tela. Bach-Archiv, Lipsia [3] I Concerti brandeburghesi, di Johann Sebastian Bach [26] I g a di di etto i d o hest a del 900: Carlo Maria Giulini [41] Gli A i i del g a ofo o: Il o atti e to di Ta edi e Clo i da – Il allo delle i g ate , di Claudio Monteverdi [62] Gustav Mahler: Sinfonia n° 5 [ ] L i e dio del Teatro La Fenice di Venezia [ ] La usi a o ga isti a ell 00 francese, di Paolo Duprè [97] Musica classica e cinema: Manhattan , di Woody Allen [102] Antichi strumenti a percussione [109] Musica medievale: Jaufrè Rudel [125] Melomania: Rigoletto, di Giuseppe Verdi 4° copertina: Giuseppe Verdi
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I Concerti Brandeburghesi, di Johann Sebastian Bach ASPETTI STORICI Per un musicista e compositore dell’epoca barocca il posto di Kapellmeister (maestro di cappella) presso una corte principesca rappresentava il raggiungimento di uno dei gradini più elevati dell’ascesa sociale. Vi aspirava anche il giovane Bach che alla corte ducale di Weimar da organista di corte era avanzato al grado di Konzertmeister (primo violino solista), quando però nel 1716 morì il vecchio maestro di cappella Drese, non riuscì con suo disappunto a divenirne il successore. L’anno successivo arrivò finalmente ad ottenere la posizione desiderata: infatti nel dicembre 1717, all’età di 32 anni, fu chiamato a ricoprire la carica di Kapellmeister alla corte del Principe Leopold di Anhalt-Cöthen [nel dipinto]. Bach si trasferì quindi a Cöthen con la moglie e i quattro figli, e qui gli si aprirono in un primo tempo tali condizioni di lavoro e di vita, che pin seguito consider̀ questi anni tra i più felici della sua vita. Lo si legge nella lettera del 28 ottobre 1730 indirizzata all'amico Georg Erdmann: «...Voi conoscete nei dettagli quale fu il mio destino in gioventù, fino al mutamento che mi condusse a Cöthen in qualità di Kapellmeister. Qui trovai un principe clemente e tanto buon conoscitore quanto dilettante di musica, presso il quale contavo di terminare gli anni della mia vita...». Mentre alla luterana corte di Weimar la musica sacra aveva un posto di primo piano (conformemente alla tradizione protestante), nella Cöthen calvinista la musica era bandita dalle chiese: qui si coltivava la “musica da camera”, che nell’accezione consueta dell’epoca includeva anche composizioni per orchestra e concerti. Cöthen era un vero laboratorio per la musica strumentale: il principe Leopold era un ottimo conoscitore di musica, e anche il Collegium musicum di corte, forte di 18 elementi, era formato di strumentisti di grande abilità: per intuirne il valore basti pensare alle composizioni di Bach per strumenti soli (Sonate e Partite per violino solo e col clavicembalo, Suites per violoncello, Sonate per viola da gamba e cembalo, Sonate per flauto) che nacquero proprio dal contatto con i «virtuosi» dell'orchestra di Cöthen; tra questi, ricordiamo il violinista Spiess, l'oboista Rose, il flautista Freytrag, il trombettista Schreiber, e dalle esigenze tecniche dei Concerti e Sonate di quel periodo si pù̀ immaginare la loro abilità esecutiva. Spesso il Principe stesso prendeva parte alle esecuzioni; aveva studiato canto, suonava il clavicembalo e la viola da gamba. Bach preferiva la viola da braccio e dirigeva i concerti dal leggio della viola. [3]
Bach divenne ben presto amico e confidente del Principe, e nel riconoscimento delle proprie qualità umane ed artistiche da partre del nobile Leopold, egli sent̀ accrescere il proprio impulso creativo, come non avrebbe mai più provato in seguito. A Cöthen Bach ebbe modo per la prima volta di scrivere concerti e di confrontarsi con il nuovo genere del concerto solistico italiano affermatosi in Germania per merito del veneziano Antonio Vivaldi ed accolto con grande entusiasmo dal pubblico appassionato di musica. Già a Weimar Bach era venuto a conoscenza delle composizioni vivaldiane e ne aveva fatto proprio lo stile e la struttura formale, trascrivendo alcuni concerti per l’organo o per il clavicembalo, ma soltanto ora potè occuparsi direttamente di quel genere nuovo in tutte le sue peculiarità formali. I suoi celebri Concerti per violino e per diversi strumenti ne danno testimonianza eloquente. Bach applicò la forma del concerto solistico vivaldiano anche al concerto per vari strumenti, al concerto grosso cioè, per il quale valevano come modello e canone i Concerti di Corelli. Purtroppo, questa felicità di condizioni creative fu solo di breve durata per il musicista: nel dicembre 1721 il principe Leopold sposava la cugina Friederica Henriette poco propensa alle arti («amusa», la chiamava Bach) ed in grado di influenzare negativamente il marito nelle sue attenzioni alla vita musicale. Bach, per il quale la musica rivestiva unanotevole funzione educativa e formativa alla quale non poteva rinunciare, sentendo divenire angusto lo spazio per la sua attività, fu costretto a volgere altrove le sue mire. Lascì Cöthen e accett̀ l’incarico di Kantor presso la Chiesa di San Tommaso a Lipsia, spinto a questo passo anche dal desiderio di far frequentare l'università ai propri figli. Nel 1723 la principessa morì precocemente, ma Bach con grande rimpianto a quel punto non poté più tornare.
I CONCERTI BRANDEBURGHESI Nel periodo che trascorse a Cöthen, Bach scrisse tra le altre composizione anche i 6 Concerti detti bradenburghesi. Il problema della loro cronologia è ancora aperto, ma oggi gli studiosi sono sostanzialmente concordi a datare il Primo, il Terzo e il Sesto Concerto al 1718; il Secondo e il Quarto al 1719; il Quinto al 1720. Le differenti versioni autografe che ci sono pervenute e l'importanza delle modifiche di volta in volta apportate dall'autore mostrano come lo stato definitivo dei Concerti Brandeburghesi sia il risultato di un lavoro di montaggio rigoroso e inventivo, ma per lo più non preordinato: così l'intervento delle parti solistiche viene ampliato o ridotto in rapporto all'aggiunta di una parte nuova, mentre un movimento già utilizzato in altri contesti, per esempio in una cantata, viene ora collegato ad un nuovo concerto attraverso l'inserzione di un raccordo che ne riorganizza la sostanza musicale. [4]
L'eterogeneità esistente tra le sei composizioni nell'organico strumentale, nella successione dei movimenti e nel diverso assetto formale e stilistico è tale da non consentire una loro collocazione nelle categorie tradizionali del concerto solistico o del concerto grosso, tuttavia pur nella loro diversità, tali opere costituiscono un gruppo unitario, formando una sorta di piccolo dizionario dimostrativo delle possibilità aperte al genere del concerto. Bach qualificava questi lavori semplicemente come Concerts avec plusieurs instruments (come risulta dalla dedica autografa qui a lato), definizione che sembra
richiamarsi
ad
analoghe
raccolte
polistrumentali contemporanee di tipo francese. La denominazione Concerti Brandeburghesi non è originale ma venne ideata da Philipp Spitta, l'autorevole autore di una monumentale biografia bachiana, apparsa in due volumi a Lipsia nel 1873 e nel 1880. Spitta intitolò la raccolta facendo riferimento al destinatario Christian Ludwig Margravio di Brandeburgo, fratello minore di Federico I e quindi zio del nuovo sovrano Federico Guglielmo I. Bach lo aveva incontrato a Berlino nel corso dei due viaggi da lui compiuti nella capitale prussiana nell'autunno del 1718 e nella primavera del 1719 allorché aveva provveduto - per conto del principe Leopold – all’acquisto di un nuovo clavicembalo da destinare all'orchestra di Cöthen. In quella occasione il margravio avrebbe invitato il musicista ad inviargli alcune sue composizioni. Le ragioni della donazione dei sei Concerti restano tuttora per gli storici un mistero insoluto, poiché né la cappella musicale del Margravio era in grado (col ridotto organico a disposizione) di gareggiare con quella di Cöthen, né risulta che Bach abbia ricavato dall'offerta alcun vantaggio materiale. Una tradizione forse non infondata vuole che questi Concerti siano stati archiviati, accanto ad altre 77 opere distribuite poi tra i cinque eredi, dai bibliotecari di corte senza essere stati eseguiti neppure una volta: fu solo nel 1850 (anno del centenario della morte di Bach) che l'opera fu finalmente pubblicata dall'editore Peters di Lipsia. Bach sarebbe stato comunque consapevole del fatto che queste composizioni non sarebbero state eseguite, sia per la carenza dell'organico di corte, sia per la particolare difficoltà della partitura; questo lo si evince dalla minor cura con cui il manoscritto fu redatto. Bach comunque con questi concerti si proponeva a Christian Ludwig come suo nuovo eventuale Kapellmeister. L'autocandidatura si intravvede piuttosto chiaramente tra le ossequiose espressioni di rito che concludono la dedica: «...Monsignore, io supplico molto umilmente Vostra Altezza Reale di avere la bontà di continuare a elargire le Sue buone grazie verso di me, e di essere persuaso che nulla mi sta tanto a cuore quanto di poter essere adoperato in occasioni d'Ella e del suo servizio più degne, io che sono con fervore senza pari, Monsignore, di Vostra Altezza Reale l'umilissimo e obbedientissimo servitore...».
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L'augurio espresso dal musicista era dettato principalmente dal declinarsi dei suoi rapporti con il principe Leopold, nonché dall'invitante prospettiva di potersi inserire nello stimolante ambiente culturale berlinese. La raccolta costituiva dunque un saggio dimostrativo della straordinaria ricchezza di mezzi musicali che Bach poteva offrire al suo potenziale mecenate: il Margravio però non rispose all'invito e Bach, benché restio a lasciare il posto di Kapellmeister per quello di Kantor, nel 1723 decise di trasferirsi alla Thomasschule di Lipsia.
Aspetti musicali dei Sei Concerti
Bach utilizza di volta in volta con somma libertà le forme principali dei suoi tempi: il concerto grosso, in cui un concertino di pochi strumenti si contrappone all'intera orchestra d'archi; il concerto solistico tripartito, con la sua alternanza razionale di episodi solistici e ritornelli orchestrali; il concerto di gruppo, nel quale non emergono protagonismi di singoli strumenti; la sonata da camera, a tre e a quattro. Il compositore intendeva fornire agli esecutori una sorta di "campionario" di stilemi virtuosistici di alto livello, e scrisse quindi ogni concerto per i principali strumenti del tempo: due sono per ottoni (corno da caccia e tromba), due sono per flauti (dolce e traverso) e due per i principali strumenti per musica da camera (clavicembalo ed archi). Nati sul vigoroso tronco del concerto grosso italiano vivaldiano, questi concerti ne sono come la estrema ramificazione, nel senso che quella configurazione di strumenti contrapposti, concertanti («concertino») da una parte e grosso dell'orchestra («ripieno» o «tutti») dall'altra, si amplia e si arricchisce soprattutto per il largo posto concesso ai fiati e per la varietà di atteggiamenti nel dualismo solisti-orchestra.
Viene modificata anche la tipica successione dei movimenti (allegro-adagio-allegro), mentre ancora più frequenti sono le modifiche alla costruzione formale dei movimenti veloci. Cos̀ si dispiegano qui in maniera esemplare la fantasia creativa di Bach e la sua abilità nell’assimilare in maniera originale e nello sviluppare ulteriormente uno stile musicale di efficacia unica.
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GUIDA ALL’ASCOLTO CONCERTO BRANDEBURGHESE N° 1 IN FA MAGGIORE BWV 1046 Il Concerto n° 1 BWV 1046 ha un organico imponente costituito da 2 corni, 3 oboi, fagotto, archi e basso continuo, ai quali Bach sovrappone la parte solistica dell'insolito violino piccolo. Questo è uno strumento di dimensioni ridotte allora molto di moda in Francia e che con il suo timbro acuto emerge dal tessuto musicale anche senza bisogno di una scrittura virtuosistica troppo accentuata; è accordato una terza minore sopra la norma, e veniva utilizzato nella musica barocca per sopperire alla mancanza della quarta corda nei normali violini dell'epoca. Per questo strumento Bach ha composto appositamente il terzo movimento, che originalmente mancava, affidandogli importanti compiti solistici.
[A sin. violi o pi olo B a o , di Lo e zo “to io i. 1
3. A dx una moderna ricostruzione di un violino piccolo,
assieme ad una viola tenore, basata sulle tavole del Syntagma musicum]
E’ articolato in un'anomala struttura in quattro tempi, unica fra i concerti bachiani. La peculiarità del Primo brandeburghese è l'oscillazione tra il riferimento italiano, nella forma del concerto grosso, e gli elementi stilistici francesi, in particolare con la musica da danza, cui si richiama scopertamente il movimento conclusivo. Il movimento iniziale compariva già, come introduzione, nella cosiddetta Jagdkantate (“Cantata della caccia”) BWV 208, e da questo inizio deriva la concezione appunto "sinfonica" di questo brano in cui lo spirito di gruppo prevale rispetto alla condotta solistica di un singolo o di più strumenti. Una parte di rilievo è data tuttavia ai corni da caccia, assenti solo nell'Adagio, e al violino piccolo.
[J.S. Bach: Concerto brandeburghese n°1, autografo]
Bach si servì di questo Concerto per altri brani musicali. Il primo tempo divenne più tardi la sinfonia della cantata Falsche Welt, dir trau'ich nicht n. 52 (composta nel 1730) e il terzo tempo venne ripreso [7]
nella cantata Vereinigte Zwietracht der wechselnden Saiten n. 207 (composta nel 1726) e successivamente fu trasformato nel corale della cantata Auf, schmetternde Töne n. 207a del 1734. 1° movimento (Allegro)
Il primo movimento ricorda l'ouverture francese, con il suo tema grandioso e solenne. La caratteristica principale dell'Allegro iniziale è rappresentato dalla costante presenza dei corni che sostengono il discorso musicale con figurazioni semplici ma comunque impegnative ed acusticamente cospicue, affini ai richiami di caccia. Il predominio del timbro dei fiati risulta evidente già dalla serrata dinamica dell'esordio; nella frase di apertura gli archi sostenuti dai corni presentano il loro tema che si intreccia con un controtema presentato in contrasto dagli oboi. Nel primo vero episodio del concerto il tema principale passa agli oboi. Segue una sezione centrale a piena orchestra dominata dalla presenza dei corni. Il secondo episodio è presentato dai corni, dagli oboi e dai violini che eseguono un passaggio in imitazione al quale fa seguito una esposizione a piena orchestra. Il terzo episodio ha un inizio di tipo solistico con entrate successive, in imitazione, dei corni, degli oboi e dei violini sul sostegno del basso continuo e sfocia nella parte conclusiva del brano in cui la piena orchestra riassume le parti salienti. 2° movimento (Adagio)
L'Adagio presenta tratti stilistici spiccatamente italiani: attacca quasi fosse un tempo di concerto per oboe e archi, per poi evolvere in un dialogo nello stile recitativo tra l'oboe e il violino piccolo, ai quali si aggrega inaspettatamente anche la calda voce degli strumenti bassi. L’Adagio, in cui i corni tacciono, ̀ un duo tra primo oboe e violino piccolo, dove i due strumenti solisti dapprima si alternano, quindi suonano in canone. Nella sezione centrale continua il serrato gioco imitativo tra oboe e violino piccolo con la comparsa del tema anche al basso. La ripresa abbreviata della prima parte è chiusa dalla cadenza affidata all'oboe che aveva aperto questa bella pagina in re minore. 3° movimento (Allegro)
Il discorso a due continua nel terzo movimento, con gli interventi solistici del violino, dell'oboe e del corno. Dopo un esordio con tutta l'orchestra, appare un primo episodio solistico in cui il violino piccolo espone il tema entrando poi in dialogo prima con tutta l'orchestra e poi con il primo corno. Il tema passa poi al violino I e viene ripreso da un fraseggio fra oboi ed archi. La sezione centrale presenta un materiale tematico nuovo con una fitta dialettica tra il violino piccolo e gli altri strumenti e si chiude con due battute in tempo di Adagio. Compare alla fine un nuovo episodio solistico, in cui il tema esposto dal violino piccolo passa successivamente a tutta l'orchestra che si avvia alla chiusura del brano. [8]
4° movimento (Menuetto - Trio I - Polacca - Trio II)
L'appendice «francese» che forma l'ultimo tempo (quasi una suite in miniatura) alterna un florilegio di pagine differenziate timbricamente, un Minuetto in sette parti, con due diversi Trii ed una Polacca nel mezzo. Manca qualunque riferimento allo stile ed alla tecnica del concerto: è un’appendice autonoma, che si pù spiegare soltanto se si tiene presente che la genesi di questo Concerto ̀ tuttora sconosciuta. La sequenza si apre con la grazia misurata del Minuetto a organico pieno, che lascia poi spazio alle sonorità ovattate dei legni nel Trio I per 2 oboi e fagotto; dopo la ripetizione del Minuetto la compagine omogenea degli archi soli presenta la Poloinesse (così nell'autografo: si tratta naturalmente della Polonaise o Polacca); nuova ripetizione del Minuetto seguita dalla squillante fanfara dei due corni solisti con accompagnamento degli oboi all'unisono nel Trio II; alla fine assistiamo alla ripetizione del Minuetto.
CONCERTO BRANDEBURGHESE N° 2 IN FA MAGGIORE BVW 1047 Come il Primo Concerto era improntato essenzialmente al gusto francese, così il Secondo si riporta allo stile italiano, in particolare al modello di Vivaldi. Il concerto italiano si presenta in forma rigorosamente tripartita (allegro, adagio, allegro). L’organico ̀ il seguente: flauto dolce, oboe, tromba piccola in fa, violino, archi e continuo. La novità eclatante è l'uso della tromba piccola in fa (in omaggio alla tradizione bolognese dei maestri della Cappella di San Petronio), dal suono al tempo stesso squillante e leggero, più acuto e penetrante rispetto a quella in re o in do. [Tromba piccola o trombino]
All'epoca di Bach solo il trombettista (e amico di Bach) Gottfried Reiche era in grado di eseguire spartiti tanto complessi, ora grazie allo sviluppo di moderne metodologie di studio l'esecuzione è più accessibile. Una seconda modifica consiste nella contrapposizione di un gruppo solistico di strumenti, il cosiddetto "concertino" (composto da violino, flauto dolce e oboe) all'insieme orchestrale del tutti (il cosiddetto concerto grosso). Nel concertino Bach fa suonare gli strumenti solisti da soli, in coppia, a tre o tutt’insieme, in maniera tale che possano sempre emergere di fronte agli archi. Si tratta di un impasto timbrico molto originale, specie per l'uso della tromba piccola, fatto abbastanza insolito nei concerti. [9]
1° movimento (Allegro)
Il primo movimento è strutturato secondo il tipico stile del concerto barocco italiano: troviamo quindi la solita alternanza del tema principale tra il tutti e il quartetto solista, con grande variazione di timbri e di frammenti melodici. Infatti qui gli strumenti solisti vengono usati a coppie di due, ogni volta combinati in modi diversi: prima i due strumenti che sono vicini sulla partitura (violino e oboe, oboe e flauto, flauto e tromba), poi quelli che sono lontani (tromba e violino), fino ad arrivare all’impiego di tutti e quattro gli strumenti insieme. Questi interventi solistici sono composti da poche battute, creando così una novità rispetto alla regolarità delle composizioni italiane di quel periodo. Le parti tematiche, che per la condotta canonico-imitativa degli strumenti solisti hanno una notevole densità di tessitura, sono alleggerite dall’alternanza di motivi con fraseggio “a sospiro” ripetuti due volte. Questo modo di configurare un movimento lento si rinviene più frequentemente nella tradizione della sonata che in quella del concerto. Joachim Ernst Rentsch: Possibile ritratto di Johann Sebastian Bach tra il 1708 e il 1717, olio su tela, Erfurt]
L’Allegro inizia con l’esposizione del tema principale da parte dell’intera orchestra (solisti compresi): questa prima parte ̀ divisa in quattro brevi sezioni, divise tra di loro dagli interventi dei solisti di sole due battute: troviamo prima il violino solo, poi l’oboe e il violino, poi il flauto e l’oboe e infine la tromba e il flauto. Dopo un breve frammento melodico-ritmico proposto prima dalla tromba e poi dall’oboe, inizia una nuova sezione in cui il materiale tematico viene elaborato da tutta l’orchestra, solisti compresi: ritroviamo qui vari effetti proposti da Bach come l’alternanza tra forte e piano, la differenza timbrica fra i gruppi strumentali e l’alternanza dei quattro strumenti solisti. Successivamente il tema principale viene di nuovo riproposto dapprima dal flauto e dal violino a cui si aggiungono poco dopo anche l’oboe e la tromba: comincia allora un grande lavoro contrappuntistico. Quindi, la tromba prima e poi l’oboe ripropongono lo stesso frammentino melodico-ritmico di prima che serve a transitare verso la tonalità del sol minore, con la quale il tema principale viene dapprima riproposto da tutti gli strumenti e poi contrapposto ai quattro solisti. Nella Ripresa finale il tema viene nuovamente suonato all’unisono da tutti gli strumenti. 2° movimento (Andante)
Il secondo movimento non si avvale della presenza della tromba e degli archi in toto: l’organico ̀ dunque ridotto a tre soli strumenti (flauto, oboe e violino) accompagnati dal continuo (clavicembalo e violoncello), situazione tipica della sonata da chiesa, o sonata a tre, secondo lo stile italiano. Si passa quindi dal concerto alla sonata a tre. [10]
Il brano è in re minore e il tema principale, una melodia toccante e commovente, viene proposta, a canone, prima dal violino, poi dall’oboe e infine dal flauto. Il violoncello e il basso continuo hanno un movimento costante di crome, che crea un contrappunto con gli strumenti solisti molto fine e leggero. Successivamente troviamo una nuova riproposta del tema principale questa volta con un diverso ingresso degli strumenti a fiato: infatti ora troviamo il violino all’inizio a cui seguono prima il flauto e poi l’oboe. Nella parte finale di questo Andante, Bach ci propone un ricco sviluppo del materiale tematico con varie trasformazioni, ambito in cui il compositore è uno dei maestri in assoluto. In questa sezione l'orchestra si alterna ai soli, riproposti in diverse combinazioni strumentali, (flauto e violino, oboe e violino, flauto e oboe, flauto e violino), fino al tutti conclusivo, dove l'ultima ripresa del tema è suonata dalla tromba. 3° movimento (Allegro assai)
Nell'Allegro assai, i principi della fuga si uniscono a quelli concertanti. Gli strumenti solisti entrano in successione secondo i canoni della fuga: prima la tromba, poi l'oboe, il violino e in ultimo il flauto. Quando è poi di nuovo la tromba a riproporre il tema, per la prima volta in questo movimento entra tutta l’orchestra. Successivamente l’orchestra tace di nuovo: solo il violino riprende il tema accompagnato dal flauto, subentrano poi anche l’oboe e gli strumenti del basso continuo cui Bach affida il tema principale. Il movimento si conclude con il tema riproposto di nuovo dalla tromba e dal basso continuo.
CONCERTO BRANDEBURGHESE N° 3 IN SOL MAGGIORE BWV 1048 Come se fosse diviso in due triadi, il ciclo dei Concerti Brandeburghesi prevede al terzo e al sesto posto due lavori per molti aspetti analoghi: infatti a chiusura di ciascuna delle due parti Bach ha inserito due composizioni non strettamente in forma di "concerto", ma di struttura polifonica, affidati esclusivamente a strumenti ad arco. L'elemento caratterizzante del Terzo concerto brandeburghese BWV 1048 risulta pertanto essere la parità di importanza tra gli strumenti: non più episodi solistici alternati a momenti d'insieme, o un trattamento "concertante" di coppie di strumenti, ma blocchi orchestrali. Inoltre non più tre ma due movimenti, il secondo dei quali diviso in due parti come le arcaiche "sonate da chiesa". Tra le due parti del secondo movimento Bach ha collocato una specie di improvvisazione, ovvero un episodio ad libitum, privo di riferimenti tematici ed elementi formali. Si si ritiene che essa indichi all'esecutore la possibilità di aprire una pausa d'attesa tra le due metà del movimento, in forma di adagio e liberamente improvvisata.
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Questo, che è forse il più "travolgente" dei Brandeburghesi, offre spunti di straordinaria versatilità ritmica e contrappuntistica: specialmente nel 3° movimento il processo musicale è ininterrotto, quasi inarrestabile, mosso come è da un'inesauribile carica energetica. L’organico del Concerto ̀ il seguente: 3 violini, 3 viole, 3 violoncelli, basso continuo (violone e clavicembalo). 1° movimento (Allegro)
L’Allegro inizia con una cellula melodico-ritmica che dominerà per tutto il movimento (formata da due note brevi seguite da una nota lunga, chiamata anapesto) affidata ai tre violini, quindi la stessa cellula passa fra i tre gruppi di strumenti ad arco, partendo dai violini, passando per le viole e arrivando ai violoncelli: Bach ci presenta tre sfumature diverse della stessa frase melodica, dovute all’altezza della stessa che passa dall’acuto al grave. Segue poi una frase di collegamento che porta ad un ritorno del tema, affidato ai violoncelli e al violone. Nella sezione successiva assistiamo ad un duetto tra il primo e il secondo violino mentre viole e violoncelli hanno solo una parte di accompagnamento molto leggera. Nella terza sezione le viole ripropongono il tema principale che sfocia in un nuovo episodio in cui prevale una serie di figurazioni solistiche: prima i violini, poi le viole e infine i violoncelli. Segue infine una parte conclusiva che riassume i passaggi del primo tempo. Bach riutilizzerà questo movimento (aggiungendo oboi e corni) come sinfonia d’apertura della cantata Ich liebe den Höchsten von ganzem Gemüte BWV 174 del 1729. 2° movimento (Adagio)
L’Adagio è formato esclusivamente da due accordi, in un’unica battuta, che formano una cadenza frigia (una particolare cadenza tipica del barocco). Questo movimento sembra quasi una breve pausa [12]
di sospensione nell’andamento incalzante dei due movimenti veloci. Non è azzardato pensare che in questo punto il suonatore dello strumento del basso, il clavicembalista, si esibisse in una virtuosistica cadenza. Nelle esecuzioni moderne si tende a suonare semplicemente la cadenza con un’ornamentazione minimale; a volte viene inserito un movimento tratto da altre opere; un’altra soluzione ̀ quella di omettere completamente questi due accordi. 3° movimento (Allegro)
L’Allegro finale ̀ segnato da un ritmo di danza (ritmo di ländler in 12/8), cosa insolita nei concerti di Bach. Nella prima parte l'orchestra presenta un tema che viene trattato dai tre gruppi degli archi (violini, viole e violoncelli). Dopo la ripetizione della prima parte, nel secondo episodio il tema passa ai violoncelli ed al basso continuo che provvedono a svilupparlo. Successivamente l’intera orchestra, dopo l’intervento del primo violino, ripresenta il tema in tonalità minore sviluppandolo in un gioco contrappuntistico tra i gruppi di archi: l’andamento musicale contrappuntistico è continuo, ininterrotto, praticamente inarrestabile. In chiusura l'orchestra torna ad esporre il tema nuovamente nella sua tonalità maggiore. A questo punto viene ripetuta la seconda parte nella sua interezza.
CONCERTO BRANDEBURGHESE N° 4 IN SOL MAGGIORE BWV 1049 Nella sua struttura e nel suo carattere compositivo, il quarto Concerto Brandeburghese BWV 1049 ricorda un po’ il Concerto n° 2, ma è anche molto vicino al successivo Concerto n° 5. L’organico prevede, in contrapposizione al Tutti orchestrale come strumenti solisti, un violino principale (al quale sono affidati impegnativi interventi solistici che a stento si ritrovano nei concerti per questo strumento), e due flauti diritti o a becco (chiamati da Bach Flauti d’echo), con funzioni prettamente concertanti, accompagnati da archi (violini I e II, viole e violoncelli) e basso continuo (clavicembalo e violone). La denominazione "Flauti d'Echo", unica in tutta la produzione bachiana, e non adoperata da nessun altro compositore, indicherebbe o una coppia di flauti dolci, così denominati in seguito ai frequenti passaggi "in eco" presenti nelle loro parti, oppure un tipo di strumento tipicamente francese, il Flageolet [nella foto], simile al flauto dolce ma intonato un'ottava sopra, in quegli anni noto per l'uso che di esso faceva un virtuoso esecutore [13]
londinese di origine francese James Paisible. Bach potrebbe aver voluto, con questa originale orchestrazione, soddisfare la curiosità che la fama dello strumento aveva suscitato nel Margravio di Brandeburgo. A differenza degli altri concerti brandeburghesi, che nel secondo movimento hanno un organico ridotto, qui tutti gli strumenti suonano dall’inizio alla fine in tutti e tre i movimenti. Da un punto di vista tecnico, la parte del violino solista è tra le più difficili e virtuosistiche mai scritte da Bach; anche i due flautisti devono suonare dei fa diesis sovracuti, tecnicamente molto difficili su questo strumento per questioni di diteggiature. Questo concerto, composto tra il 1719 e il 1720 e pubblicato dalle edizioni Peters di Lipsia nel 1850, esiste anche nella versione per clavicembalo (al posto del violino solista), due flauti, archi e continuo, in fa maggiore BWV 1057, rielaborazione fatta dallo stesso Bach intorno al 1730-35 circa. 1° movimento (Allegro)
Il primo movimento è assai ampio: si articola come un concerto grosso, con flauti e violino a formare il concertino. Il tema principale, gioioso, in sol maggiore, è affidato inizialmente ai due flauti a cui si aggiunge, subito dopo, il violino solista, tutti sostenuti dagli accordi degli archi. Questo tema è costruito sugli elementi dell’arpeggio e del ribattuto, elementi che faranno da filo conduttore per tutto il movimento. Il primo episodio solistico del violino è costituito da una serie di arpeggi e di decorazioni sul tema iniziale. Il violino, di fatto, ha più parti solistiche e non interagisce molto coi flauti, che intervengono senza continuità dialogando a vicenda e ricoprendo un ruolo più assimilabile a quello di ripieno; gli altri strumenti sostengono il tutto con un accompagnamento molto discreto. Compare quindi un secondo episodio solistico in tonalità minore (mi minore) affidato ai due flauti, accompagnati dal violone e dal clavicembalo. Il ritorno dell’incipit del tema iniziale in la minore lascia poi il posto libero sfogo al violino solista. Dopo una serie di episodi virtuosistici del violino e del flauto in diverse tonalità, compare la ripresa, che ripropone tutti gli elementi tematici essenziali di questo movimento, con i tre strumenti solisti riuniti. 2° movimento (Andante)
L'Andante (in mi minore) è l'unico movimento lento fra tutti i Brandeburghesi a non prevedere una riduzione dell'organico strumentale: i solisti - qui usati come gruppo unitario - e il tutti dialogano tra loro o si sovrappongono secondo il modello del concerto grosso di stile italiano (derivato da Corelli e da Vivaldi), in un gioco di effetti d’eco che contrastano sul piano dinamico con l’orchestra. In questo movimento il ruolo principale spetta ai due flauti che hanno anche parti più fiorite ed elaborate; troviamo anche una piccola fioritura di tre battute del basso, mentre il violino solista se ne sta piuttosto in sordina. Il tema principale di questo movimento comincia subito con un contrapporsi tra i flauti e il violino solista da una parte, e l’orchestra dall’altra. Troveremo anche un breve passaggio che propone un [14]
intervento solistico del primo flauto che diventa unico protagonista con una serie di brevi cadenze ravvicinate. Il motivo principale viene ripreso dagli strumenti gravi del violone, violoncello e clavicembalo, fino a quando i due flauti, in contrappunto con il violino solista, propongono un episodio in coloritura che porta direttamente alla coda finale. Bach affida al primo flauto una nuova breve cadenza che precede la fine del movimento che si chiude con due accordi di cadenza frigia da parte dell’intera orchestra. 3° movimento (Presto)
Il finale ha la struttura di una fuga. Il movimento comincia con il tema proposto dalle viole seguite dai violini secondi, dai violini primi insieme al violino solista e infine dai violoncelli, violone e clavicembalo. Infine il tema viene proposto all’unisono dai due flauti diritti, che concludono l’esposizione. Una serie di arpeggi, affidati al violino solista, apre lo sviluppo del materiale tematico in cui l’orchestra tace: quindi i due flauti contrappuntano con il violino solista insieme ai violini primi e tra di loro, rielaborando il soggetto della fuga che poi passerà agli strumenti del continuo (violoncello e clavicembalo) e poi a tutti gli altri strumenti. Da questo momento il gioco contrappuntistico si fa sempre più serrato. La fase conclusiva del movimento e del concerto ̀ caratterizzata dall’ennesima riproposta del soggetto della fuga da parte del tutti.
CONCERTO BRANDEBURGHESE N° 5 IN RE MAGGIORE BWV 1050 Molti elementi fanno ritenere che il Quinto sia cronologicamente l'ultimo concerto scritto da Bach fra quelli inclusi nella raccolta. Anche per questa composizione, Bach adotta la struttura concertante del gruppo di strumenti solisti opposto all'orchestra: fra i primi, è sorprendentemente protagonista il clavicembalo, che per la prima volta in questo genere di musica abbandona la sua umile funzione di sostegno e di accompagnamento, e gli viene affidata una lunghissima cadenza virtuosistica, di forma tale da trasformare lo strumento in un vero e proprio strumento solista. La presenza massiccia del clavicembalo è una presenza continua in tutta l’opera: anche se troviamo il flauto traverso (strumento ancora non molto utilizzato all’epoca) e il violino nel concertino solista, tuttavia possiamo dire che questo concerto è, in [15]
definitiva, il primo concerto per clavicembalo e orchestra (formata, in questo caso, da archi e basso continuo) della storia della musica. 1° movimento (Allegro)
La sonorità brillante dell'orchestra d'archi apre l'Allegro con la sonorità brillante dell’orchestra d’archi, alla quale risponde un dialogo in imitazione tra flauto e violino solo con un tema cantabile di assoluta semplicità; si accompagna una parte fiorita del clavicembalo, destinata a diventare parte a sé stante e a riproporsi nei punti chiave del movimento. Il breve ritorno del motivo d’apertura prelude a un nuovo intervento da parte degli strumenti del concertino, ma da questo momento il clavicembalo si impone progressivamente e conquista sempre più spessore e più spazio. Inframmezzati dalle puntuali ripetizioni del tema-ritornello, gli episodi solistici si susseguono con un proliferare di figurazioni ritmiche. Il tutto fino a arrivare ad una parentesi meditativa: l’incalzante incedere ritmico lascia il posto a un sommesso scambio fra flauto e violino con trilli in pianissimo. Dopo una sezione di elaborazione, è ancora la tastiera a riprendere il posto di protagonista: l’accompagnamento orchestrale decresce fino a scomparire del tutto e anche piano piano i due strumenti solisti diradano la loro presenza. È il momento della cadenza solistica del cembalo - che nella partitura originale è indicata in italiano con l'espressione solo senza stromenti, 65 battute, quasi un quarto di un movimento già di per sé considerevole -, che si abbandona a una virtuosistica ricapitolazione delle idee ritmiche e melodiche di questo movimento, nei liberi modi di una toccata. Il movimento si chiude con una ripresa testuale del tema iniziale da parte del tutti. 2° movimento (Affettuoso)
Dal carattere intimo e cantabile e dal pathos delicato, l’Affettuoso (indicazione usata raramente in quel periodo) è affidato ai soli strumenti del concertino (quindi senza l’orchestra) ed è caratterizzato da un fitto dialogo, in diverse tonalità, tra flauto e violino, accompagnati dal clavicembalo (in cui le due mani del clavicembalista hanno, ognuna, una voce indipendente, tecnica moderna all’epoca di Bach), nel silenzio dell'orchestra. Il regolare alternarsi di forte e piano esalta l’architettura formale. Il movimento si conclude con la riproposizione integrale dell’episodio d’apertura. 3° movimento (Allegro)
L’Allegro che chiude questo Concerto (un tempo di danza veloce) è una giga alla francese ed è costruito secondo la forma compositiva della fuga concertante; alterna imitazioni tra i vari strumenti e passaggi del clavicembalo in veste di protagonista. Il movimento si articola in tre episodi distinti l’uno dall’altro: la vivace sezione d’apertura, il cantabile centrale, la ripresa con una coda finale. Il soggetto principale viene esposto ripetutamente sia dagli strumenti solisti (secondo l’ordine: violino, flauto e clavicembalo) che dal resto dell’orchestra a cominciare dalle viole per poi passare [16]
alla sezione grave degli archi (violone e violoncello). Dopo un breve momento più meditativo segue la ripresa del primo episodio. L’episodio centrale (Cantabile) presenta un andamento un po’ più rilassato e meno incalzante. Qui il tema viene proposto prima dal flauto, poi dal violino e infine dal clavicembalo, prima del ritorno del soggetto della fuga. Segue, a questo punto, una nuova sezione di elaborazione tematica in cui il clavicembalo propone una nuova, breve cadenza riepilogativa del materiale finora esposto, seguito da una ripresa di tutta l’orchestra. La coda finale del concerto si chiude con la ripetizione esatta di 78 delle sue 310 battute complessive.
CONCERTO BRANDEBURGHESE n° 6 in si bemolle maggiore BWV 1051 Se molti elementi fanno ritenere che il Quinto sia cronologicamente l'ultimo concerto scritto da Bach fra quelli inclusi nella raccolta, indizi non minori indicano nel Sesto il primo in ordine di composizione (1718), risalente al periodo di Weimar. L’organico del sesto Concerto ̀, come il terzo, costituito da soli archi: 2 viole, 1 violoncello, 2 viole da gamba, basso continuo (violone e clavicembalo); non vi sono strumenti a fiato. La partitura si riduce a una sorta di sestetto, in cui le due viole da braccio svolgono il compito di strumenti solisti "concertanti", mentre gli altri quattro strumenti riducono la loro funzione all'accompagnamento. Come ben si vede, la strumentazione impiegata consiste in strumenti di suono medio e grave, priva quindi dei violini, cioè dei timbri più acuti e luminosi: l’insieme degli strumenti gravi crea una sonorità inconfondibilmente scura e brunita che per certi versi è arcaica in quanto ricorda il consort inglese, l'insieme di viole tipico della musica elisabettiana nel 1600. 1° movimento (nessuna indicazione di tempo)
Questo movimento è una perfetta forma-ritornello, cioè un ritornello orchestrale iniziale in cui suonano tutti gli strumenti e successivamente partono gli strumenti solisti, più leggeri come tessuto musicale, che si inframmezzano al ritornello stesso. La novità interessante di questo movimento è che il ritornello non è composto, come abitualmente, da più sezioni differenziate contrastanti tra loro, ma si presenta come una sorta di unico blocco, molto compatto ed esteso, sempre uguale, in cui alcuni strumenti del tutti suonano come una specie di percussione, un ostinato, mentre a suonare i tre temi principali sono le due viole, in canone tra di loro (cioè eseguono la stessa linea ma inseguendosi a distanza ravvicinatissima). L’alternanza di piano e forte aumenta la dinamica del brano, mentre il ritornello suona sempre in forte. Il ritornello ritorna più volte ed in varie tonalità, sia maggiore che minore.
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Il movimento finisce con l’intero ritornello ripetuto integralmente, cos̀ come abbiamo visto in altri concerti brandeburghesi. 2° movimento (Adagio ma non tanto)
Fra tutti i Concerti brandeburghesi ̀ l’unico adagio in tonalità maggiore. Ancora più essenziale ed etereo, il secondo tempo riduce ulteriormente la partitura a tre strumenti (sono assenti le viole da gambe), trasformando il brano in un trio. In esso il violoncello contrappunta, in modo "ostinato", il dialogo intrecciato dalle due viole soliste. 3° movimento (Allegro sul ritmo rilassato e gioioso)
Si riallaccia a molti degli ultimi movimenti degli altri concerti per il ritmo di giga: è un dato interessante che le sezioni iniziale e finali sono uguali tra di loro (cosiddetta scrittura con la forma da capo). Nel movimento troviamo la ripetizione nei ritornelli del Tutti, spezzata e variata da una serie di episodi virtuosistici e imitativi delle due viole soliste.
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DISCOGRAFIA
J.S. Bach: The Brandenburg Concertos. Concertos BWV 1043 &1060 Academy of St Martin in the Fields, dir. Sir Neville Marriner. Decca Duo Premesso che sono un appassionato di Marriner, l'esecuzione è proprio di grande livello, in particolare il 2° concerto è di grandissimo impatto. Splendidamente registrato ed eseguito con impegno e con quella meravigliosa sinergia che a volte si ottiene tra suonatori e direttore d'orchestra da togliere il fiato. Ci sono altre grandi registrazioni che «leggono» questi pezzi in modo molto diverso, e hanno uguale validità, ma, secondo la mia sensibilità, dò a questa registrazione la palma della migliore, tra quelle con strumenti “classici”. Johann Sebastian Bach: The Brandenburg Concertos. Concertos BWV 1060, 1064, 1064 English Chamber Orchestra, dir. Benjamin Britten. Decca
Questa registrazione di 50 anni fa è ancora fresca e vivida come se fosse stata eseguita ai nostri tempi. La registrazione è bella e calda e in stereo e tutti i pezzi sono riprodotti splendidamente. Il Sesto in particolare è magnifico.
Johann Sebastian Bach: The Brandenburg Concertos. Suites n° 2 & 3 Berliner Philharmoniker, dir. Herbert von Karajan. Deutsche Grammophon Karajan ̀ stato un ottimo interprete di Bach e i Berliner Philharmoniker negli anni ‘60 sono superbi anche in questo genere di repertorio. Il suono è apollineo e vellutato. Il Primo Concerto è forse un po’ troppo lungo (25 minuti), gli altri sono molto piacevoli all’ascolto: alcuni tempi potrebbero non
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essere per tutti i gusti, ma la musica è lasciata respirare e rivela dettagli che altrimenti è difficile ascoltare. Affascinante anche sentire Karajan suonare il clavicembalo. Le registrazioni del 1965 di Karajan della 2a e 3a Suite di Bach (incluse qui con i Brandenburghesi) sono superbe: la terza Suite è particolarmente magnifica, ed è la ragione per acquistare questo set da 2 dischi.
Johann Sebastian Bach: Brandenburg Concertos 1-6. Orchestra Mozart, dir. Claudio Abbado. Deutsche Grammophon Registrazione dal sapore meravigliosamente "live" da cui traspare il piacere della musica di insieme, con un ensemble in stato di grazia diretta e condotta da un Abbado in forma strepitosa. Ascoltando il cd sembra di averli in casa! Ottima l’incisione e bella esecuzione, la consiglio. Quando la classica suona così è solo musica e non può non piacere. Abbado era uno dei pochi a riuscirci e ci manca tanto.
Johann Sebastian Bach: Brandenburgischen Konzert nn. 1-6. 4 Ouverturen. Triplkonzerte BWV 1044 Munchener Bach-Orchester, dir. Karl Richter. Archiv Karl Richter, direttore e clavicembalista, ̀ stato un grande interprete di Bach, dotato di singolare tecnica e straordinaria intelligenza interpretativa. I suoi Concerti Brandeburghesi costituiscono dunque un documento molto interessante, riflesso di una stagione – quella degli anni Sessanta – che appare ormai cos̀ lontana. Dirige qui un’orchestra composta da veri artisti e professionisti: non si possono non ammirare i calibratissimi intrecci di flauto dolce, oboe e violino nel secondo Concerto o gli accenti di grande poesia che si impongono nel tempo centrale del Quinto (soave il flauto di Aurèle Nicolet!) o ancora il virtuosismo della cadenza cembalistica nel primo tempo dello stesso Concerto. [20]
In questa registrazione tutto ̀ regolare e compatto dal punto di vista timbrico: al sontuoso legato degli archi fa riscontro la rigorosissima scansione ritmica del basso continuo affidato al clavicembalo modello Neupert dalle sonorità non usuali che possiede, indubbiamente, un fascino particolare. Questa performance è una delle più brillanti, equilibrata per scelta dei tempi e qualità della registrazione, effettuata nel 1964-68, con una rimasterizzazione eccezionale effettuata nel 1981 caratterizzata da un audio pulitissimo e dettagliata presenza di tutti gli strumenti. Una tra le più belle incisioni Archiv di sempre. Da non dimenticare che nel disco ci sono pure le 4 Suites per orchestra e il Concerto triplo e perciò è da me altamente raccomandato il suo acquisto. Johann Sebastian Bach: Brandenburgischen Konzerte Musica Antiqua Köln, dir. Reiner Goebel. Archiv Registrati nel 1986, i concerti di Brandeburgo di Bach della Musica Antiqua di Colonia diretta da Reinhard Goebel trovano qui un'interpretazione molto vivace, grazie alle capacità virtuosistiche dell'orchestra. I tempi sono più veloci (in particolare il 3° concerto) di quanto si senta di solito, ma sono gradevoli.Goebel e Musica Antiqua Koln scioccarono, per la prima volta, l’ascoltatore con tempi che all’epoca erano vertiginosi. Eccellente suono, eccellente riproduzione.
Johann Sebastian Bach: Brandenburg Concertos Concentus music Wien, dir. Nikolaus Harnoncourt. Teldec Nell'aprile 1964, nel palazzo Schönburg di Vienna, Nikolaus Harnoncourt, allora un violoncellista di circa 35 anni, dava avvio, con una interpretazione innovativa dei Concerti Brandeburghesi, a una svolta epocale, svelando un nuovo universo sonoro dato dagli strumenti antichi, fino ad allora sconosciuti tanto agli interpreti quanto agli ascoltatori. L'adozione di "original instrumenten" e della prassi esecutiva storica, desunta dallo studio dei trattati di epoca barocca, dischiudeva uno [21]
scenario nuovo: sonorità spigolose, particolarmente definite, fraseggio marcato con accentuazione dei tempi forti, riduzione o eliminazione del vibrato, etc. Un vero manifesto di una estetica e di una concezione nuova della musica. Non sono affatto d'accordo con quanti sostengono che l'interesse di questa registrazione stia più nel suo valore storico che nell'intrinseca qualità artistica e tecnica. Nonostante l'incisione datata 1964, quindi oltre mezzo secolo fa, la presa del suono è veramente notevole in considerazione che solo da qualche anno era stata introdotta la rivoluzionaria stereofonia, e i vecchi strumenti non hanno problemi con cigolii, rantoli o stonature. L'ascolto non è sempre facile: il secondo concerto è così diverso dalle versioni in auge da poter provocare di primo acchito una certa perplessità o disorientamento, ma ad un ascolto attentosi coglie una finezza interpretativa senza pari. Le scelte non ovvie non sempre sono immediatamente convincenti, ma alla lunga possono rivelare una superiore profondità. In breve, si tratta di una registrazione preziosissima, consigliata a tutti coloro che amano la musica del Kantor. Esiste anche una affascinante versione video. Johann Sebastian Bach: Brandenburgische Konzerte n. 1-6 Gustav Leonhardt e altri artisti. Pro Arte In queste registrazioni del 1976-77 Gustav Leonhardt e la sua squadra olandese, nella quale si distinguevano musicisti straodinari quali i fratelli Kuijken e Frans Brüggen, si presentavano come l'avanguardia della rivoluzione filologica. Riascoltando a tanti anni di distanza la versione di Leonhardt, ho avuto la sensazione di riscoprire questi capolavori di Bach da un'angolazione diversa, più affascinante. Questo perché Leonhardt offre un'attualissima lezione sull'arte di suonare non troppo veloce, in modo da far risaltare gli effetti sonori e le voci peculiari degli strumenti. Tutto risulta naturale e straordinariamente misurato: l'arte del Kantor viene esaltata al massimo grado. E poi - piacevole sorpresa la registrazione in ADD è di ottimo livello. Se si dispone di un buon impianto stereo si ha la sensazione di ascoltare un vecchio e prezioso vinile. In sintesi: chiarezza esecutiva, fraseggio, ritmo, tecnica perfetta, una tra le migliori interpretazioni dei Concerti Brandeburghesi, dalla quale non possono prescindere tutti coloro che amano l'arte del sommo Johann Sebastian Bach.
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Johann Sebastian Bach: Brandenburg Concertos. Concertos BWV 1060, 1064, 1064 The Academy of Ancient Music, dir. Christopher Hogwood. Decca Double Hogwood nel 1973 rifondò l'Academy of Ancient Music, una orchestra specializzata nell'esecuzione di musica barocca con strumenti d'epoca. Hogwood in questa edizione discografica ha lasciato un segno indelebile per la perfezione e la pulizia formale che ha fatto di questa edizione un vero punto di riferimento, valido ancora oggi (ascoltare per credere!). Luminoso, vivace ma con tocchi di malinconia, questa performance è semplicemente una esplosione di vita ed energia. Gli altri tre concerti di Bach sono interessanti riempitivi. Johann Sebastian Bach: Brandenburg Concertos. Concertos BWV 1060, 1064, 1064 The English Concert, dir. Trevor Pinnock. Archiv Gli albori degli anni '80 videro anche l'impetuosa crescita del movimento cosiddetto delle "pratiche esecutive storicamente informate", più banalmente detto delle "esecuzioni con strumenti originali". In Inghilterra si preferì seguire , con scelta tipicamente britannica, una strada più mediata tra rivoluzione e tradizione, più di rinnovamento che di sovvertimento. Trevor Pinnock (assieme a Chistopher Hogwood e a John E. Gardiner tra i capofila del movimento HIP britannico) è forse quello che più degli altri ha perseguito questo "giusto mezzo", e questa edizione dei Brandeburghesi e delle Suites orchestrali ne è forse il più chiaro esempio. I tempi sono giusti, non esasperati dal frenetico ritmo di altre letture. Gli strumenti (originali o copie che siano) non stridono né gracchiano, come purtroppo ancora oggi si sente di sovente. La musica viene sempre al primo posto, non ci sono eccessi, vezzi, astrusità. E' vero, nemmeno troppe sorprese, ma alla lunga questo è un vantaggio. Sarà un caso se queste letture non sono mai uscite dal catalogo? A distanza di 40 anni ormai dalla loro pubblicazione, credo si possano con pieno diritto definire "un classico" della discografia bachiana. Convintamente raccomandato.
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Johann Sebastian Bach: Brandenburgische Konzerte Akademie fur Alte Musik Berlin. Harmonia Mundi I Concerti Brandeburghesi interpretati dall’Akademie fur Alte Musik di Berlino si collocano indubbiamente fra le versioni di riferimento di questi sei capolavori per espressività, freschezza e vitalità: in qualche modo, si può dire che il complesso berlinese sia, nel XXI secolo, il più degno successore e prosecutore della "rivoluzione" filologica innescata nel mondo musicale da Nikolaus Harnoncourt negli anni Sessanta del secolo scorso. L'esiguità dei componenti dell'Akademie fur Alte Musik permette una maggiore attenzione al dettaglio, consentendo all'ascoltatore di cogliere particolari sempre nuovi; lodevole e di fondamentale importanza è poi la presenza di Raphael Alpermann al clavicembalo. Johann Sebastian Bach: Brandenburg Concertos. Concerto italiano, dir. Rinaldo Alessandrini. Naive Stupenda esecuzione dei Concerti Brandeburghesi con i bravissimi musicisti del Concerto Italiano diretti dal Maestro Rinaldo Alessandrini. Tempi più veloci, ma completamente articolati, risultati sublimi. Stellare il movimento di apertura del primo con il suo emozionante corno ben in evidenza o la tromba naturale splendidamente audace del secondo. I passaggi solisti del violino non sono così autotrattenuti come di solito si sentono nelle esibizioni di Bach. Infine è notevole l'insolita capacità dell'ensemble di Alessandrini di articolare il dialogo tra gli strumenti, come ad esdempio nel terzo movimento del secondo e quinto concerto. Johann Sebastian Bach: The Brandenburg Concertos. Zefiro, dir. Alfredo Bernardini. Arcana
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La nuova edizione qui presentata da Arcana è da considerarsi fra le più belle uscite in tempi recenti. La lettura offerta da Bernardini ha diversi meriti: prima di tutto quello di presentarci un diapason sicuramente più “storico”, rispetto allo standard del 415 Hz. Qui abbiamo infatti un diapason più basso, un 398 HZ, vicino dunque a quello utilizzato in Francia. Questa scelta potremmo a suo modo definirla interpretativa. E poi i solisti: tutti di primissimo piano, alcuni dei migliori esponenti dei loro rispettivi strumenti: Dorothee Oberlinger al flauto dolce, Marcello Gatti al Traversiere, Cecilia Bernardini (figlia di Alfredo), konzertmeister al violino, Gaetano Nasillo al violoncello, Francesco Corti al cembalo. Un’edizione da sogno, che si fa apprezzare per l’assoluta pulizia con una scelta dei tempi equilibrata ma non banale. Una perfetta sintesi di quanto di meglio si possa offrire oggi in discografia con i Brandeburghesi. Una edizione tutta italiana. Un nostro piccolo-grande orgoglio.
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I grandi Direttori del ‘900: Carlo Maria Giulini CENNI BIOGRAFICI Carlo Maria Giulini nacque a Barletta il 9 maggio 1914. Il padre Ernesto era originario della provincia di Mantova e lavorava nel commercio di legnami; la madre era di famiglia veneta con ascendenze austriache. Allo scoppio della Prima guerra mondiale Ernesto venne richiamato alle armi e volle trasferire la famiglia a Ponti sul Mincio, dove possedeva delle terre. A quell’epoca risale il primo interesse del piccolo Carlo per la musica: a quattro anni, affascinato per strada dal violino suonato da un musicista ambulante, ne chiese uno per sé e lo ottenne come regalo di Natale. Dopo la guerra, la famiglia si stabilì a Bolzano, città dove Giulini fece le sue prime esperienze musicali apprendendo i rudimenti dello strumento da una suora dell’asilo e frequentando un violinista boemo, proprietario di una farmacia, con il quale si divertiva a suonare in duo. Iniziò quindi a seguire regolari lezioni nella Musikschule bolzanina. La musica, che Giulini aveva fin lì coltivato solo come un piacevole passatempo, da quel momento occupò il primo posto nelle sue aspirazioni; nel 1930, ancora sedicenne, si trasferì da solo a Roma, dove si iscrisse al Conservatorio Santa Cecilia: lì studiò viola e parallelamente seguì i corsi di composizione e direzione d’orchestra. La crisi degli anni Trenta non risparmiò il padre di Giulini; per non continuare a gravare economicamente sulla famiglia, nel 1934 il giovane Carlo decise di concorrere per un posto nell’orchestra dell'Augusteo. Lo vinse e come viola di fila ebbe modo di suonare con celebri direttori e compositori, fra i quali Bruno Walter, Victor De Sabata, Antonio Guarnieri, Gino Marinuzzi, Wilhelm
Furtwängler,
Willem
Mengelberg,
Otto
Klemperer, Richard Strauss, Igor Stravinskij. Questa straordinaria esperienza contribuì a far nascere in lui l’interesse per la direzione, e cos̀ inizì una nuova carriera interrotta dallo scoppio della seconda guerra mondiale. Giulini tornò sul podio con la liberazione di Roma, dirigendo la Quarta di Brahms: fu un trionfo! Venne nominato direttore di orchestra alla RAI dal 1946 al 1951, poi alla Scala di Milano prima come assistente di Victor De Sabata, poi come direttore stabile (1953). Epica nel teatro milanese una sua edizione della "Traviata" con la Callas e la regia di Luchino Visconti, tuttora un classico. Lasciata l'Orchestra del Teatro alla Scala si trasferì a lavorare fuori dall'Italia, debuttando negli Stati Uniti con la Chicago Symphony Orchestra dal 1955 al 1958. Nel 1958 venne nominato direttore della Philharmonic Orchestra di Londra. Nel 1978 sostituì Zubin Mehta alla Los Angeles Philharmonic [26]
Orchestra, dove rimase fino al 1984. Diresse anche la Philharmonia Orchestra di Londra e altre prestigiose orchestre. Nel 1968 abbandonò il mondo della lirica (in scena ma non in studio) per concentrarsi principalmente sulla scrittura sinfonica. Come Karajan, Giulini voleva scegliere nel repertorio lirico l'intero cast, fissare il tempo per le prove, le richieste, i controlli. Un ideale o niente! Giulini incarnava un modo di lavorare, la ricerca della perfezione seminata con eleganza e urgenza, ormai riconoscibile e memorabile. Quando non troverà più le condizioni necessarie, rinuncerà definitivamente all'opera. Gravi problemi di salute lo obbligarono ad abbandonare la direzione d'orchestra nel 1998, fatte salve due ultime commoventi apparizioni tra febbraio e marzo 1999 con l’Orchestra Giovanile Italiana e con la "Verdi" nel segno dell’adorata "Pastorale" di Beethoven. Giulini continuò ad insegnare fino a poco tempo prima della morte, avvenuta a novantun anni in seguito ad un tumore il 14 giugno 2005.
STILE DIRETTORIALE Discreto e signorile nel tratto esteriore quanto serio, selettivo e autocritico nelle scelte interpretative, Carlo Maria Giulini non è stato decisamente un direttore da integrali. La sua vocazione naturale era piuttosto il lavoro in profondità: occuparsi di musiche con le quali fosse certo di avvertire un'autentica sintonia, e sviscerarle e rifinirle all'infinito con certosino perfezionismo, sino a raggiungere quella miracolosa identificazione tra composizione e interprete in cui il significato dell'una e la personalità dell'altro interagiscono e si rivelano a vicenda. “Non sono un direttore d’orchestra – diceva di sé – ma un musicista che fa musica insieme ad altri musicisti”. Salito sul podio, sapeva di non potersi concedere nessun tentennamento. In quell’attimo, diventava Beethoven, Mozart e Brahms. Il suo sguardo acceso, di un’intensità febbrile, denunciava l’intima sofferenza di non raggiungere mai l’assoluto. Di dover ogni volta ricominciare da capo. Se a queste doti di approfondimento si aggiunge, sul piano caratteriale, l'assoluta estraneità a qualunque forma anche veniale di stravaganza o di divismo, ne risulta il tipo ideale del "direttore ospite", da cui tutte le orchestre vorrebbero essere dirette perché sanno in partenza di potersene attendere esperienze artistiche e umane d'eccezione. Il che spiega perché, nella sua lunghissima carriera, egli abbia collezionato un numero forse ineguagliato di collaborazioni più o meno stabili con compagini europee ed americane. La modestia di Giulini lo fece - ancor prima che ricreatore consapevole - accompagnatore sopraffino, non a caso prediletto da tanti solisti di fama mondiale (basterebbe ricordare il lungo sodalizio con Arturo Benedetti Michelangeli o il fatto che Vladimir Horowitz vincolò la sua unica sortita nel concertismo mozartiano, il Concerto n. 23 in La maggiore K 488, alla presenza del Maestro italiano). [27]
DISCOGRAFIA Le varie raccolte discografiche del Maestro Giulini si identificano all’incirca con le varie fasi della sua carriera, sicché in linea di larga massima si può dire che le incisioni EMI/Warner corrispondono in prevalenza alla prima maturità, quelle per la Deutsche Grammophon alla maturità piena e quelle della Sony all’ultimo periodo.
Beethoven – Brahms – Britten – Debussy – Dvorak – Falla – Ravel – Rossini – Schumann – Tschaikovsky The London years. Varie Orchestre, dir. Carlo Maria Giulini. Warner (17 CD) Questa raccolta è una rassegna di valore artistico inestimabile, che, attingendo al catalogo della EMI, ci presenta uno spaccato della discografia di Giulini nella fase della prima maturità. Il Giulini di allora, anni '50 e '60, era appena assurto all'attenzione internazionale ed era circondato da veri e propri miti della musica (Kemplerer e Karajan su tutti) e sembrava quasi il classico vaso d'argilla fra vasi di rame, ma il grande patron della EMI, Walter Legge, gli diede grande fiducia, con grande intuizione. E fu così che Giulini conquistò Londra e qui, insieme alle orchestre più importanti, su tutte la Philharmonia e la London Symphony, ebbe occasione di incidere "il suo repertorio sinfonico preferito", repertorio rimasto invariato negli anni a venire. Questo periodo sarà contrassegnato dalla più assidua attività in ambito sinfonico e dai risultati artistici più originali e persuasivi, in cui la propensione ai tempi moderati non rischiava ancora, come sarebbe a volte avvenuto negli ultimi anni della vita artistica di Giulini, di mettere a rischio la tenuta architettonica delle composizioni. Questo box londinese, composto da ben 17 (o meglio 16+1) dischi ci presenta il direttore alla guida della London Symphony, della London Philharmonic e della Philharmonia (e New Philharmonia), in una panoramica del repertorio sinfonico che spazia da Boccherini sino a Britten. Il palinsesto, frutto più di stratificazione che di pianificazione, non si distingue certo per organicità, ma illustra in modo suggestivo, e tutto sommato anche abbastanza esauriente, quasi tutti i principali centri d'interesse di Giulini direttore. Dei sinfonisti di prima grandezza (a parte Mendelssohn, di cui egli s'è occupato solo occasionalmente), gli unici non rappresentati sono Mozart, Bruckner e Mahler, tutti però egregiamente rappresentati in altri album. Il box include un 17° CD contenente un ampio documentario radiofonico (76 minuti) a cura di Jon Tolansky, che intreccia preziose testimonianze (fra gli altri) di Jon Vickers, del direttore d’orchestra [28]
Sir Edward Downes, di Adolph "Bud" Herset - leggendaria prima tromba della Chicago Symphony - e di alcuni professori della Philharmonia a una lunga conversazione con il Maestro (naturalmente in inglese) ripresa a Milano nel dicembre 2003. Queste le opere della raccolta:
SETTECENTO
Sul versante settecentesco, come detto prima, la nota più appariscente è quella dell'assenza di Mozart, autore al quale, proprio nella Londra di quegli anni, il nostro direttore faceva in compenso molto onore in ambito operistico, incidendo uno dei più memorabili Don Giovanni del ventesimo secolo. Di Haydn abbiamo la Sinfonia n. 94, l’unica delle tre Londinesi di cui egli si sia occupato (in compenso l'ha incisa ben cinque volte: questa, del 1956 con la Philharmonia, è la prima versione). Ma di maggior interesse, non solo documentale, è il tributo reso a Boccherini, con la rara Ouverture in re maggiore op. 43 e la grande Sinfonia in do minore op. 41 (che, con la sua Pastorale siglata "Lenterello" e il suo minuetto con trio alla zampognara, rappresenta il più consistente omaggio boccheriniano alle atmosfere natalizie), incise con la Philharmonia nell'ottobre 1956: pagine alle quali Giulini ha tributato in quegli anni un autentico apostolato pionieristico, se si considera che della sinfonia sono documentate in disco almeno in altre due registrazioni (Chicago 1958 e Torino 1961).
BEETHOVEN Sesta, Ottava e Nona di Beethoven facevano parte di una "semi-integrale" comprendente le ultime quattro sinfonie, incise alla spicciolata con varie orchestre, che nell'era del vinile è stata uno dei fiori all'occhiello del catalogo EMI: oggi il criterio geografico ne ha causato lo smembramento, facendo finire la Settima nell'album di Chicago e le altre tre in quello di Londra: una ragione di più per comprare entrambe le raccolte! La concezione beethoveniana di Giulini è essenzialmente di tipo lirico-contemplativo, e trova quindi un ambiente ideale nella Pastorale, di cui qui abbiamo la versione del 1968 (realizzata, in sessioni un po' diluite, tra febbraio e aprile del 1968), che è stata anche in assoluto il primo Beethoven inciso da Giulini, allora già cinquantaquattrenne. Anche nell'Ottava e nella Nona (entrambe del settembre 1972 con la London Symphony), la componente lirica prevale nettamente sul dinamismo. A riascoltarle oggi, a distanza di cinquant'anni, ognuna di esse riesce ancora ad ammaliare per la "semplicità" dell'approccio del Maestro, semplicità intesa nella accezione positiva del termine, cioè l'assoluta aderenza allo spartito e allo spirito del compositore, senza inutili protagonismi personali del direttore: la nona, in particolare, è assolutamente congeniale a Giulini (già direttore d'opera esperto) che appunto ne esalta la "cantabilità" anche nei primi tre movimenti. ROSSINI
Nella raccolta troviamo il Rossini scintillante delle Ouvertures, con il gioco dell'accelerando e delle dinamiche orchestrali perfettamente padroneggiato da Giulini. [29]
BRAHMS Il nucleo più consistente è rappresentato dalle tutte le Quattro sinfonie di Brahms, incise nel corso degli anni ’60 con la Philharmonia/New Philharmonia: interpretazione già improntata a dinamiche piuttosto meditative, lente e quasi "mistiche", ma senza quelle lentezze abissali che troveremo nell'integrale viennese con i Wiener Philharmoniker, datata un quarto di secolo dopo (in media, ogni sinfonia dura qui circa cinque minuti di meno). Rimane comunque un Brahms sinfonico di assoluto riferimento, che rimane fra le migliori 5 incisioni integrali del ciclo sinfonico, e che contende alle incisioni "americane" di Giulini medesimo del decennio successivo (con le Prima e Seconda Sinfonia con la Los Angeles e la Quarta con la Chicago) la palma per un posto sul podio. L'autentico stato di grazia, nelle incisioni londinesi, viene raggiunto anche in altri brani brahmsiani: straordinaria la tensione dell'Ouverture Tragica quanto la brillantezza e l'elasticità delle Variazioni su un tema di Haydn, mentre manca all'appello, qui come nel ciclo viennese, l'Ouverture Accademica.
ROMANTICISMO AUSTRO-TEDESCO Nella raccolta londinese troviamo l'Incompiuta di Schubert del gennaio 1961 e la Renana di Schumann del giugno 1958, entrambe con la Philharmonia: si noti che di quest'ultima viene eseguita la versione ritoccata da Mahler, mentre nelle successive incisioni verrà adottata quella originale. Poco significativo l’incontro con Kissin nel Concerto in La minore di Schumann, nel quale ciascuno percorre la propria strada: il solista si limita a cercare (e trovare) un suono
marmoreo
e
sontuoso
ma
scarsamente
espressivo, mentre il direttore lo sprona - inascoltato verso una nobile intensità. Come interprete schumanniano, sia qui che nella Chicago anni settanta, è comunque nella problematicissima Ouverture del Manfred che Giulini esprime al meglio la sua sensibilità di interprete.
SCUOLE NAZIONALI SLAVE Si sale decisamente di tono con le Sinfonie 7, 8 e 9 di Dvoràk, tra le più belle mai ascoltate: l’atmosfera è quella di un tenero congedo privo di amarezze e rimpianti, ogni nota viene accarezzata con amore, ogni armonia viene assaporata fino in fondo. Splendida in particolare la Nona, che si colloca ai vertici assoluti del podio, a pari merito con le versioni di Kubelik, di Karajan, di Kertesz e di Fricsay. Tra l'altro, il ciclo è strutturato in modo da far cogliere gli sviluppi dell'approccio interpretativo: le ultime due sinfonie, con la Philharmonia, risalgono al 1961-62, e rispecchiano una concezione più snella e trasparente rispetto a quella delle letture grandiose che il direttore ne avrebbe date a fine [30]
anni settanta con la Chicago Symphony (per rendere l'idea, fra le due versioni della "Nuovo mondo" ci sono circa sei minuti di differenza, anche se metà di essi dipende dal ritornello del primo tempo, tagliato nell'incisione anni sessanta); la Settima, realizzata nel 1976 con la London Philharmonic, è invece già nell'ottica di questa seconda maniera. Completano il quadro due capolavori coloristici, l'amplissimo e screziato Scherzo capriccioso e la caleidoscopica e frenetica Ouverture Carnaval (Philharmonia, 1961-62). Più modesto, in proporzione, l'interesse al mondo di Tschaikovsky: la composizione di cui Giulini si è occupato più frequentemente in disco è curiosamente la Seconda Sinfonia, della quale esistono ben quattro versioni: qui troviamo la più antica, realizzata con la Philharmonia nel settembre 1956. Quanto alla Patetica, la versione Philharmonia del giugno 1959 non differisce granché come impostazione da quella di Los Angeles del 1980: lievemente più lenta nel primo e nell'ultimo movimento, lievemente più rapida nei tempi centrali, finisce complessivamente per durare circa un minuto in più. Anche qui abbiamo altre interpretazioni di gran pregio, Romeo e Giulietta e Francesca da Rimini (Philharmonia, aprile 1962), di cui non esistono versioni giuliniane alternative. Completano l'area slava il Mussorgski di Una notte sul monte Calvo e lo Stravinskij dell'Uccello di fuoco (suite del 1919), incisioni del settembre 1956 con la Philharmonia: il secondo è l'unico brano in comune con l'album di Chicago, e può dare spunto a interessanti raffronti (per inciso, è anche l'unica composizione stravinskiana con cui Giulini si sia confrontato lungo tutta la carriera, lasciandocene almeno cinque incisioni). VERDI
La Messa da Requiem verdiana interpretata da Giulini è ancora la migliore in circolazione a distanza di mezzo secolo. Il Maestro non esita a sottolineare le parti del Requiem che sono genuinamente operistiche: penso all'Ingemisco, che ha una performance da brivido. Questa è una performance profondamente spirituale (non religiosamente, Verdi era un ateo nascosto) ma nella comunione tra direttore e compositore. Elisabeth Schwarzkopf è semplicemente stellare.
NOVECENTO
Notevole, per quantità come per qualità, lo spazio riservato al Novecento: beninteso al Novecento di Giulini, che non è quello delle avanguardie, ma quello dell'impressionismo (dove a fare la parte del leone, ancor più di Debussy, è Ravel), del folklorismo stilizzato di de Falla, del già citato Stravinskij prima maniera, del Britten più sintetico e rigoroso: partiture che, sotto la bacchetta del Maestro, si concretizzano più vive, più sfumate, più iridescenti che mai. Citiamo il Britten dei Quattro interludi marini dal Peter Grimes, diretto in modo così ineccepibile da far meravigliare lo stesso compositore, e sempre di Britten le Variazioni su un tema di Purcell (anche queste incisioni vivamente apprezzate dall’autore); e lo Stravinskij dell'Oiseau, diretto in modo davvero fiammeggiante, forse ancora più che nelle altre incisioni più tardive, e comunque in una delle migliori versioni in circolazione. [31]
Infine un cenno alla tecnica di incisione, ovviamente facendo un bilancio generale per tutti e 17 CD, e tenendo conto che il periodo di registrazione va dalla fine degli anni '50 all'inizio degli anni '70. In generale le incisioni sono buone, con discreta ripresa del suono, sempre in stereofonia, talvolta con una più che soddisfacente dinamica orchestrale. Nessuna incisione può fregiarsi del titolo di "eccellente" tecnicamente, ma sono tutte di livello accettabile, con alcuni casi di livello davvero buono e quasi ottimo: la EMI degli anni '60 era comunque tecnicamente migliore di quella dei decenni successivi!
Beethoven – Berlioz - Brahms – Bruckner – Mahler – Stravinskij The Chicago years. Dir. Carlo Maria Giulini. Warner (4 CD) Questi 4 CD raccolgono le registrazioni che Giulini fece per la EMI con la Chicago Symphony, dal 1969 al 1976. BERLIOZ
Straordinario il Berlioz di Giulini, rappresentato dalla versione integrale di Romeo e Giulietta forse insuperata, avveniristico mélange di sinfonia, oratorio, balletto e musica di scena: a differenza dei grandi berlioziani della generazione precedente come Toscanini e Munch, che avevano affrontato per intero
la
sterminata
ed
eterogenea
partitura,
Giulini
in
quest'incisione dell'ottobre 1969 snellisce la prospettiva limitandosi alle sezioni per sola orchestra (che assommano già a un'ora circa di musica), tra cui spiccano l'episodio di Romeo solo, la grande scena d'amore e lo scherzo della Regina Mab. Scrive Balzac, amico dell'autore, nel racconto Les amours de deux bêtes: «il grande Berlioz estese i confini dell'arte dell'orchestrazione sino a scoprire i registri della cicala, del grillo, delle mosche, e a poter rendere così la voce sublime della natura, sul mezzogiorno, fra le erbe alte di una radura dove un ruscello mormora tra la sabbia argentea.» MAHLER
La Prima di Mahler, che si aggiudicò nel 1971 il Grammy come miglior esecuzione orchestrale, è con ogni probabilità la più affascinante incisione singola di questa sinfonia, che Giulini esegue con una misura e con uno stupefacente senso di dolente meraviglia che rende unica questa sua interpretazione (per la DG inciderà poi la nona di Mahler, sempre con la Chicago Symphony, che rimane un altro pilastro della discografia internazionale). "Come in un suono di natura", l'epigrafe che l'autore ha apposto all'introduzione del primo movimento, sembra qui estendersi all'intera composizione: dagli echi boscherecci iniziali sino ai cataclismi metafisici del finale, tutto il discorso fluisce e respira con la naturalezza di un organismo [32]
vivente. Potrei perfino giungere ad asserire che, in questa sinfonia, neppure i mahleriani supremi come Abbado e Bernstein abbiano raggiunto esiti altrettanto traboccanti di poesia.
BEETHOVEN
E’ davvero ragguardevole la Settima di Beethoven, targata marzo 1971, chissà perché non molto apprezzata allora, ma che ad ascoltarla adesso non teme il confronto neppure con la celebratissima versione di Kleiber! Il Beethoven di Giulini ha carattere essenzialmente lirico, e quindi, nella Settima, non è tanto sulle progressioni dionisiache che bisogna focalizzare l'attenzione, quanto sulle oasi di cantabilità come l'introduzione del primo tempo, il trio dello scherzo e, ovviamente, l'allegretto. Del quale egli mostra di aver compreso più perfettamente che mai l'intuizione fondante, quel paradosso di un lirismo che si dipana gradualmente e circolarmente, a partire da una cellula ritmica. BRAHMS
E’ senz'altro bellissima la Quarta sinfonia di Brahms, forse la più bella delle tre versioni registrate da Giulini. Il maestro è nella sua forma migliore qui, dirigendo un'opera che ha diretto per tutta la sua carriera, compreso il primo concerto post-occupazione all'Accademia di Roma nel 1944. I punti salienti includono una ricapitolazione fiammeggiante nell'Allegro di apertura e un ritorno travolgente del tema principale nella passacaglia finale. Ma anche meglio di questi grandi momenti è una resa davvero speciale del bellissimo e affascinante Andante. La sezione di apertura, con i fiati che entrano uno per uno con un tema simile a una marcia suonato all'unisono, suggerisce l'idea di una fuga (una forma tradizionale in cui un tema viene introdotto più volte in successione sovrapposta). Giulini e l'orchestra riescono a coniugare timbri e consistenze delicate con una corposa ricchezza di emozioni. Altre esibizioni che penso siano meravigliose includono la grande esibizione di Wilhelm Furtwängler degli anni '40 con la Filarmonica di Berlino o la famosa registrazione di Carlos Kleiber con la Filarmonica di Vienna, ma questa interpretazione di Giulini con la Chicago Symphony rimane la mia preferita in assoluto come una delle vette delle registrazioni di Brahms. BRUCKNER
Probabilmente il pezzo forte dell’intera raccolta ̀ la Nona di Bruckner, una versione di riferimento. La Nona, si sa, è una sinfonia incompiuta poiché Bruckner morì durante la composizione del Finale, senza aver avuto tralaltro alcun modo di rivedere e correggere i primi 3 movimenti. Mentre lo Scherzo e l'Adagio sembrano abbastanza coerenti, ci sono occasionali transizioni imbarazzanti nel lungo movimento di apertura che sicuramente sarebbe stato modificato da Bruckner una volta terminata la bozza complessiva. Giulini adotta tempi molto lenti per i tre movimenti, sa integrare i passaggi di transizione di Bruckner senza cercare di affrettarli perché hanno importanza strutturale. Giulini ha il controllo magistrale della Chicago Symphony mentre naviga negli insidiosi itinerari del primo movimento. Quando l'ultimo agghiacciante nono accordo arriva con le trombe di Chicago che risuonano, ha un effetto travolgente in quanto forma inaspettatamente la cadenza finale del [33]
movimento. Lo Scherzo ha un effetto granitico lento e massiccio se non altrettanto dinamico come altre registrazioni degne di nota. Il Trio è più veloce e scorre in modo sinistro. L'Adagio rappresenta Giulini al suo apice dei poteri interpretativi mentre ne trasmette i passaggi alternativamente angosciati ed estatici. Questa performance con la Chicago Symphony e la sua grande sezione di ottoni è stata registrata alla fine degli anni '70; Giulini in seguito registrò di nuovo questa sinfonia per l'etichetta Deutsche Grammophon, ma questa della EMI/Warner è decisamente superiore.
STRAVINSKIJ
Con lo stesso equilibrio e la stessa naturalezza con cui ha diretto Brahms e Bruckner, Giulini affronta gli avamposti della modernità come le due Suites dei balletti stravinskiani che completano la raccolta: sono la Suite del 1919 dell'Oiseau de feu e la Suite di Petruska (quella del 1947): entrambe le incisioni sono dell'ottobre 1969 e sono da considerare sicuramente fra le prime 3 o 4 in assoluto meglio registrate.
Complete recordings on Deutsche Grammophon Dir. Carlo Maria Giulini. Deutsche Gramophon (42 CD) La Deutsche Grammophon propone in 42 CD l’integrale delle realizzazioni giuliniane per l’etichetta gialla di Hannover in un arco temporale che va dal 1965 (Sinfonie 40 e 41 di Mozart, a Londra) sino alla Terza sinfonia di Brahms, registrata nel maggio 1990 al Musikverein di Vienna con i Wiener Philharmoniker. Questa edizione ci restituisce un profilo di un direttore esigente, esteta, meditativo, di un'intelligenza drammatica incredibile, focalizzato essenzialmente sulla stagione tardo-matura, fra i sessanta e i settant’anni, mostrandocelo al culmine delle sue capacità di analisi e personalizzazione delle partiture e ancora abbastanza immune da quella tendenza disgregatrice, attenta più ai dettagli che alla visione d’insieme, che ne avrebbe spesso contraddistinto l’ultima maniera. Giulini dirige qui le più grandi orchestre in Italia, Gran Bretagna, Austria, Germania e Stati Uniti (mancano quelle francesi): Santa Cecilia, Scala di Milano, Philharmonia Orchestra, Wiener Symphoniker, Wiener Philharmoniker, Berliner Philharmoniker, Chicago Symphony Orchestra, Los Angeles Philharmonic, conferendo a tutti una tradizione di eccellenza grazie alla sua disciplina divenuta referenziale. Il cofanetto Giulini della Deutsche Grammophon permette di seguire l'evoluzione del suo lavoro nel campo dell’opera: di Verdi troviamo il Rigoletto (1979, Vienna), Il Trovatore (con Placido Domingo, [34]
Roma, 1984), Falstaff (Los Angeles, 1982), la cui energia e attenzione ai dettagli producono letture che colpiscono immediatamente con il suono iperelegante, fine, sottile, furiosamente drammatico dell'orchestra: un modello nel suo genere. Seguiamo però, soprattutto, l'approfondimento di Giulini in ambito sinfonico e concertistico. Come direttore beethoveniano, Giulini ha riscosso particolare successo con la Quinta assieme alla Orchestra di Los Angeles, che alcuni decenni fa venne incoronata versione ideale da una giuria di esperti: lettura dove si osserva una curiosa contrapposizione tra il tagliente nervosismo del primo movimento e la calma grandiosità degli altri. Interamente virate su quest’ultimo registro sono invece le altre sinfonie presenti nel box, Terza, Sesta e Nona: l’Eroica in particolar modo ha davvero ben poco di eroico, concepita com’̀ in un’ottica lirico-analitica che ne evidenzia e dilata ogni dettaglio come con una lente d’ingrandimento, riallacciandosi in sostanza al viraggio interpretativo che nella generazione precedente era stato incarnato da De Sabata. Gli autentici risultati memorabili, in ambito beethoveniano, si osservano però soprattutto nei tre concerti con Benedetti Michelangeli e i Wiener Symphoniker, ripresi dal vivo nel 1979 alla TV austriaca, che rappresentano nel contempo una delle più grandi gioie e uno dei più grandi dolori per gli amanti della musica: si tratta senza dubbio della più straordinaria "integrale mancata" di queste pagine, di fronte a cui è inevitabile trovarsi perennemente in bilico tra l'entusiasmo per ciò che ci è stato concesso e il rimpianto per ciò di cui siamo rimasti privi. Grandiose nella concezione architettonica, risolute nei tempi, intense nel suono, incisive e scultoree nel fraseggio. L'intesa tra direttore e solista non potrebbe essere più totale (i due avevano già all'attivo una felice esperienza mozartiana di un quarto di secolo addietro); l'impressione è comunque che sia soprattutto Michelangeli a dettare i ritmi e lo spirito dell'interpretazione, perché l'inimitabile concezione di questi concerti ha molti punti in comune con le sue letture delle sonate. Giulini aveva del resto la mano particolarmente felice negli abbinamenti solistici: per restare in questa raccolta, ne fanno piena fede non solo l’intima e delicata lettura del concerto mozartiano K. 488 con Horowitz e l’orchestra della Scala, ma anche quelle dei concerti di Liszt e Chopin, che i direttori di rango tendono spesso a snobbare, e dove Giulini, affiancato da solisti ideali come Berman e Zimerman, mette più che mai in risalto la sue doti di analisi e di sensibilità timbrica, e in definitiva la sua profonda umanità di musicista: si vedano in particolare, nei due concerti di Liszt, il calore e la limpidezza raggiunti negli episodi lirici dove il pianista dialoga con i singoli strumenti dell’orchestra. Di Mozart troviamo anche le le Sinfonie 40 e 41 (registrate a Londra con la New Philharmonia nell'ottobre 1965), mai spinte, troppo lente e turgide, molto lontane dallo spirito del genio salisburghese. Fra le riuscite di levatura eccezionale, da primato assoluto o quasi, non si può fare a meno di segnalare le Sinfonie 1 e 2 di Brahms con la Los Angeles Philharmonic, dove la capillare cura dei dettagli si sposa ad una lucida e solidissima visione d’insieme: nettamente superiori, sotto questo punto di vista, alla pur splendida integrale viennese dei primi anni Novanta. Di rilievo sono le Sinfonie 8 e 9 di Dvoràk, perfetta sintesi di senso del colore, afflato ritmico e tensione strutturale. [35]
Il “respiro Giulini”, tra nobiltà e profondità, architettura e interiorità, ̀ misurato anche in Bruckner (Sinfonie 7, 8, 9, eccelse), e in Schubert (Sinfonie 4, 8, 9), del quale è stato uno dei pionieri a dimostrare fondamentalmente l'introspezione e l'ampiezza strutturale. Giulini era anche un malheriano convinto, anche se ne dava una interpretazione morbida (Sinfonia n° 9, e Das lied von der Erde, La canzone della terra). Nell’articolato palinsesto della raccolta merita un cenno di segnalazione il settore sacro, dove ai notissimi Requiem di Verdi, Brahms e Fauré (nei quali la spiritualità e l'eloquenza del silenzio non sono mai lontane da ogni interpretazione) si affianca un classico assai meno noto come lo Stabat Mater di Rossini, anch’esso di amplissimo respiro. Mentre ad un filone di spiritualità profana appartiene una delle poche incursioni in territorio contemporaneo, la cantata An die Nachgeborenen (Ai posteri) di Gottfried von Einem su testo di Bertolt Brecht, con i Wiener Symphoniker, Julia Hamari e Fischer-Dieskau: si tratta di un'esecuzione allestita per celebrare il 24 ottobre 1975 a New York il trentesimo anniversario delle Nazioni Unite e ripresa in studio due giorni dopo con organico parzialmente diverso. Gli appassionati di pianoforte sinfonico, troveranno le sue letture dei Concerti 1 e 2 di Chopin e l’Andante spianato & Grande Polonaise, tutti con la Los Angeles Philharmonic e Krystian Zimerman al pianoforte (1978-79). Un'altra componente eloquente la troviamo nella scrittura francese che si distingue per il suo senso del colore e dell'equilibrio cura della trasparenza: esempi eccezionali Ravel (Pavane, Ma Mère l'Oye, Spanish Rhapsody), Debussy (Le mer), Franck (Sinfonia in Re).
Bach – Mozart – Beethoven – Schubert – Schumann – Verdi – Franck – Mussorgksy – Dvorak – Debussy – Ravel – Stravinskyij The complete Sony recordings. Dir. Carlo Maria Giulini. Sony (22 CD) La Sony Classical decise di celebrare il centesimo compleanno di Carlo Maria Giulini con questa bellissima raccolta, che ha il pregio di mostrare la copertina originale di ciascun CD alla sua prima uscita sul mercato: in questo box sono riunite tutte le registrazioni che Giulini fece nei suoi ultimi anni di attività. Questo è il programma di questa corposa raccolta.
MOZART
Si inizia con le ultime tre Sinfonie (39, 40 e 41) di Mozart, alla testa dei Berliner Philharmoniker: il passo dell'esecuzione è lento e l'impostazione generale è quella "classica" ma il suono che esce da questi CD è di una bellezza sconvolgente per il senso di misura "aurea" che il vecchio Giulini riesce a trovare in Mozart. E questo [36]
vale anche per la bella esecuzione del Requiem, inciso alla testa della London Philharmonia Orchestra e con un quartetto vocale pregevole. Questa interpretazione, assieme alla Messa maggiore di Schubert e alla Messa in B minore di Schubert, rappresenta quella parte della musica sacra che è sempre stata al centro dell'opera di Giulini. In uno stato d'animo solenne, che Giulini sa far emergere, il contenuto mistico delle opere viene espresso in modo molto naturale e partecipativo.
BEETHOVEN
E poi... la "quasi integrale" delle sinfonie di Beethoven, dalla 1 a alla 8a, con l'Orchestra della Scala. L'Eroica è incredibilmente bella, inimitabile, senza precedenti. A riascoltarle oggi, specialmente paragonate a quelle incisioni tanto osannate per la loro "ieraticità" del coetaneo Jochum, io trovo che siano tutte, e dico tutte senza eccezione, esecuzioni straordinarie, che testimoniano fra l'altro, l'altissimo livello dell'orchestra milanese, dopo la "cura" di Abbado e di Muti. Leit-motiv delle interpretazioni del vecchio Giulini è il tempo particolarmente lento tenuto, ma senza che sia avvertito mai come molle o strascicato. In qualche modo Giulini riesce, proprio come Klemperer, a mantenere sempre alta la tensione emotiva, tanto che a volte sembra quasi non avvertirsi la lentezza del metronomo adottato.... Peccato manchi la nona, mai incisa da Giulini con l'orchestra della Scala (forse anche perché l'aveva incisa da pochi anni con i Berliner Philharmoniker e doveva rispettare il contratto con la DG...). Compensa questa mancanza uno straordinario Concerto per violino e orchestra di Beethoven, con Accardo sublime protagonista: questa incisione è una delle mie tra preferite in assoluto di questo concerto. SCHUBERT
E ancora assolutamente da non perdere lo Schubert di Giulini, in particolare la Quarta sinfonia, l'Ottava Incompiuta e la Nona, eseguite con l'Orchestra della Radio Bavarese. Queste esecuzioni rimangono a mio avviso memorabili, e sono da sempre tra le migliori insieme a quelle di Abbado, di Muti e di Bernstein. Anche la Messa D 950 di Schubert emerge in una dimensione prospettica inaudita e, sotto la bacchetta di Giulini, diventa potente quasi come la Missa Solemnis di Beethoven. SCHUMANN
Altro CD memorabile, fra l'altro scomparso presto dal commercio, è il Concerto per piano ed orchestra di Schumann, con il giovane Kissin accompagnato dai Wiener Philharmoniker: è una esecuzione rapinosa e bellissima, ulteriore testimonianza, come se ce ne fosse bisogno, della capacità straordinaria di Giulini di essere in perfetta sintonia con il solista (che tiene tempi molto accelerati). Questa incisione del concerto di Schumann è, insieme a quella di Pollini e Abbado e quella di Perahia sempre con Abbado, fra le mie tre preferite. DVORAK
Numerosi i CD incisi alla testa del Concertgebouw di Amsterdam, fra cui spiccano le ultime tre sinfonie di Dvoràk: diverso è l'approccio del vecchio Giulini rispetto alle sue prove "giovanili" con la [37]
Philharmonia negli anni '60. Ma la maturità ha giovato anche in queste interpretazioni, che sono testimonianza preziosa di una concezione musicale che vede in Giulini uno degli ultimi esponenti: Giulini infatti portava in sè la tradizione squisitamente italiana (era nato in Puglia), ma temperata da quella tedesca (era cresciuto e aveva studiato a Bolzano). Il tutto unito ad una umiltà ed una modestia che lo avvicinano di molto al carattere di Abbado. A differenza di Abbado però Giulini aveva una fervida religiosità verso la Chiesa di Roma, e questo suo sentimento religioso fa sì che le sue interpretazioni di musica sacra siano permeate da un pathos spirituale intimo e reale.
BACH
Cito la Messa in Si Minore di Bach, eseguita con concezione "non filologica" ma non per questo meno bella e meno appropriata. ALTRI AUTORI
Molto bella l'interpretazione dei Quadri di Mussorgky, altro cavallo di battaglia già inciso con la Chicago Symphony, qui in una esecuzione meditata e solenne con il Concertgebouw. I Quadri di Mussorgsky (nella "rivisitazione" strumentale di Ravel) non sono certo una novità per molti appassionati, ma questa diretta da Giulini, rappresenta un'edizione sicuramente da avere! I Quadri fecero sempre parte del repertorio del Maestro, il quale ne ha lasciato delle letture esemplari, sia in studio che dal vivo. Questa testimonianza Sony è l'ultima e la più "sfolgorante"! Verso la fine della carriera Giulini "restrinse" notevolmente il repertorio e si concentrò sulle opere scelte facendole "decantare" e "sviscerandole" in una sublimazione divenuta sua somma caratteristica: l'immedesimazione dell'interprete nella partitura! Ecco quindi dei Quadri ricchi di suono, curati e luminosi, in cui tutto è equilibrio e bellezza! Un arco interpretativo (dalla passeggiata alla "Porta di Kiev") teso verso il quadro finale come una carrellata suggestiva in cui la visione di "ricercata" (nel senso alto del termine) bellezza e sfavillio del direttore si fonde con un'orchestra di altissimo livello e ricca di colori! Così come già incisi per la DG e con orchestre americane (così come per la EMI con la Philharmonia negli anni '60) troviamo altri cavalli di battaglia di Giulini quali La Mer di Debussy, Ma mere l’Oye di Ravel, e l'Oiseau di Stravinsky. E così infine i Quattro pezzi sacri di Verdi (autore di cui Giulini è stato esegeta esemplare) acquistano una preziosità unica, pari soltanto alle esecuzioni di Abbado e di Muti. Dal punto di vista tecnologico la tecnica di registrazione messa allora in campo dalla Sony si attesta ai massimi livelli: tutte registrazioni digitali e in DDD, tutte almeno buone, alcune davvero eccellenti e degne di impianti Hi-Fi di alto lignaggio.
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Mozart: Don Giovanni Eberhard Wachter (Don Giovanni), Joan Sutherland (Donna Anna), Giuseppe Taddei (Leporello), Elisabeth Schwarzkopf (Donna Elvira), Glottob Frick (Il Commendatore). Philharmonia Chorus & Orchestra. Dir. Carlo Maria Giulini. Emi Classics Ho deciso di dare uno spazio particolare a questa incisione del 1959 rimasta a lungo la più bella della discografia, registrata in ottimo suono agli Abbey Road Studios di Londra. Difficile però per un'opera enigmatica e complessa come il "Don Giovanni" parlare di edizione di riferimento sopra tutte, sia perché le prospettive storiche ed interpretative cambiano col tempo, sia perché si tratta di edizione con molti punti di forza, ma anche con qualche debolezza. In primo piano la direzione di Giulini, che si fa apprezzare per l'equilibrio, la grazia, la puntualità, e la capacità di valorizzare degnamente il melodismo mozartiano. Non è poco. Eppure in termini di fantasia, fuoco, mordente e abbandono forse non siamo ai vertici assoluti, e basta - ad esempio - ascoltare cosa poteva fare un Karajan nel 1960 (live a Salisburgo del 3 Agosto) per rendersene conto. Due altri pregi però vanno accreditati a Giulini: dei buonissimi recitativi (soprattutto accurati e generalmente di buona dizione, non sbrigativi e generici) e l'assoluta assenza di leziosità e sdilinquimenti diffusi in molte interpretazioni di quest’opera. In quegli anni Eberhard Wachter era il Don Giovanni di riferimento, in grado di rendere al massimo tutti gli accenti psicologici di questo straordinario protagonista ideato da Mozart e Da Ponte. Eppure non si tratta di un cantante di superiore qualità vocale o tecnica (pur essendo abbastanza apprezzabile anche su questo versante), e nemmeno di un fraseggiatore straordinario. Nonostante ciò il personaggio c'è, ed è di buonissimo livello, e lo stesso dicasi per il livello complessivo del compito vocale. Erano i primi anni di notorietà per Joan Sutherland, e ritrovarla qui nella massima freschezza vocale è come sempre una festa. Facilità di vocalizzazione, bellezza di suono, qualità del canto sono ai massimi livelli. La Sutherland è forse ancora un po' troppo giovane per interpretare Donna Anna, figura tragica, complessa e soprattutto ambigua. Oltre a questo, i tratti più drammatici - e anche affascinanti - di questo personaggio, tanto messi in luce da altre interpreti (e da altre direzioni) qui restano per gran parte in secondo piano. Giuseppe Taddei è per varietà di fraseggio e gusto semplicemente uno dei maggiori Leporello della storia del disco. Peccato come sempre che gli acuti siano aperti, quindi piuttosto faticosi, anche se il gusto dell'interprete fa sì che il difetto sia il più delle volte dissimulato, non certo esibito. Glottob Frick è un ottimo Commendatore.
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Così come Wachter per Don Giovanni, così in quegli anni Donna Elvira aveva la voce di Elisabeth Schwarzkopf. E ben a ragione: la capacità di essere elegante e forbita nel canto della Schwarzkopf senza rinunciare praticamente ad una singola oncia di espressività, seppur stilizzatissima, fa testo. Anche in questo caso però lo slancio, il vigore, l'abbandono ottenuto l'anno successivo nella succitata recita salisburghese sono qui sostituiti da una sobrietà ed equilibrio ovviamente legati al diverso contesto direttoriale e vocale. Rispetto alle prove di qualche anno prima, però, va notato un leggero declino vocale, che poi si accentuerà l'anno successivo, pur nel maggior slancio e abbandono già detti prima. Anche Luigi Alva era tenore gettonatissimo in ambito mozartiano e rossiniano. Sommo testimone di un declino vocale e interpretativo che aveva portato il tenore – potente e largo nel fraseggio - a diventare un tenore acuto di scarsissima caratura tecnica sia negli acuti (aperti e sbiancati, anche se come qui non forzati grazie alla età ancora giovanile e alla facilità della tessitura della parte) che nello smalto e nelle agilità (cosa ancor più drammaticamente evidente in ambito rossiniano). Come risultato un Ottavio vocalmente passabile, ma certo interpretativamente inesistente, linfatico, lezioso ed inconsistente come un fanciullo. Pietro Cappuccilli è un discreto Masetto e Graziella Sciutti una garbatissima Zerlina, ma entrambi non in grado di mettere ben in risalto certa umanità della coppia di sposi messa invece in evidenza da qualche recita teatrale degli ultimi anni. Ottimo il livello sonoro di questo ultimo remastering EMI eseguito nel 2002.
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Gli Amici del… grammofono
“Il Combattimento di Tancredi e Clorinda” “Il ballo delle ingrate” (Dall’Ottavo Libro dei Madrigali di Claudio Monteverdi)
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Il combattimento di Tancredi e Clorinda Il combattimento di Tancredi e Clorinda (SV 153), dedicato alla Sacra Cesarea Maestà dell’Imperatore Ferdinando III, è un madrigale in forma rappresentativa in un quadro composto da Claudio Monteverdi (1567- 1643), per tre voci (un soprano, Clorinda, e due tenori: Tancredi e il narratore), strumenti a corda e basso continuo. Questo madrigale venne composto sul testo della Gerusalemme Liberata di Torquato Tasso [ ell i
agi e], canto XII, versi 52-62 e 64-68,
e
riprende la vicenda del cavaliere cristiano Tancredi, innamorato di Clorinda, guerriera musulmana, costretto dalla sorte a battersi in duello proprio con lei senza averla riconosciuta, e ad ucciderla. In punto di morte Clorinda si converte e, battezzata da Tancredi, affronta serenamente il trapasso. La sua prima rappresentazione (anche se non è un brano destinato alla scena: tutta la sua intensità drammatica si trova nel testo e nella musica) ebbe luogo durante il carnevale di Venezia del 1624, in casa del ricco senatore e alto dignitario della Serenissima
Repubblica
Girolamo
Moceningo,
che
aveva
commissionato a Monteverdi il lavoro proprio per il Carnevale. La composizione ottenne fin da subito un notevole successo. In un secondo tempo, dopo circa 25 anni, quest’opera fu inclusa nell’ottavo ed ultimo libro di Madrigali dello stesso Monteverdi, i Madrigali guerrieri et amorosi, pubblicato da Alessandro Vincenti di Venezia nel 1638, vera 'summa' monteverdiana che annovera anche pezzi scritti molto tempo prima, come appunto il Combattimento e il Ballo
delle
ingrate
(1608),
eloquente
esempio
di
ballo
melodrammatico di corte. Un'ampia raccolta in due parti in cui i testi sono poesie d'amore, e nei quali gli episodi guerreschi altro non sono che metafore dell'impietosa guerra d'amore. I due personaggi: Tancredi e Clorinda Clorinda è un personaggio inventato dall'autore, ed è una principessa etiope nata con la pelle bianca perché sua madre, cristiana, durante la gravidanza aveva venerato quotidianamente un'immagine della Madonna rappresentata candida e bionda. Pur essendo di etnia etiope, quindi, la sua pelle è bianca e i suoi lunghi capelli sono biondi. Per evitare le ire del marito, la madre decide di affidarla al suo servo Arsete, raccomandandogli di battezzarla; costui invece la alleva come una musulmana. Solo in seguito Arsete le rivela le sue origini cristiane, ma, nonostante ciò, Clorinda deciderà di combattere ugualmente per i musulmani. [42]
Clorinda viene descritta come una donna che, anche se bellissima, non è toccata dall'amore, ma è interessata esclusivamente alla guerra, per questo simile alla vergine guerriera Camilla dell'Eneide. Naturalmente questo non significa che non provi sentimenti, quello che maggiormente la anima è uno spirito di emulazione nei confronti di Argante e una profonda amicizia con Erminia, la principessa di Antiochia. Tancredi d’Altavilla (1072-1112) è un personaggio storico realmente esistito: è stato un cavaliere medievale normanno, uno dei capi della Prima Crociata, poi reggente del Principato d'Antiochia e Principe di Galilea. Torquato Tasso lo ritrae come un eroe epico, protagonista di un amore cavalleresco con la guerriera pagana Clorinda. Egli viene descritto fin dal primo canto come innamorato: “S'alcun'ombra di colpa i suoi gran vanti rende men chiari, è sol follia d'amore” (Canto I, strofa 45). Si caratterizza quindi con questo conflittuale rapporto fra un certo sentimentalismo amoroso che lo sconvolge e la personalità guerriera che dovrebbe incarnare. Invero, tutti i personaggi di Tasso sono tormentati internamente.
La vicenda. Tancredi d’Altavilla è in Terrasanta al seguito di Goffredo di Buglione. È un cavaliere valoroso, bello, cortese, pieno di forza e di coraggio. Ha un amore segreto, ma non sa niente di lei, nemmeno il suo nome. L’ha incontrata per caso, in un’oasi sperduta nel deserto: nulla la distingueva a prima vista da un guerriero musulmano, e se lei non avesse tolto l’elmo per chinarsi a bere dalla sorgente, non si sarebbe nemmeno accorto che era una donna. Da quel momento Tancredi non pensa che a lei, giorno e notte. Non sa che anche lei l’ha visto. Lei è Clorinda, principessa etiope in fuga, scampata all’impossibile, allattata da una tigre, educata dall’eunuco Arsete all’arco e alla spada. Si vanta di non conoscere la paura, ̀ ammirata e temuta, le sue imprese sono arrivate perfino all’orecchio del sultano Aladino. Clorinda non conosce il nome del Franco infedele che ha incrociato all’oasi, ma ha visto i suoi occhi ardenti fissi su di lei ed è rimasta turbata: non si era mai sentita così vulnerabile, indifesa, come sotto quello sguardo. Lo sconosciuto le fa paura, forse per la prima volta in vita sua: non lo accetta, quell’uomo le fa rabbia e spera di non doverlo rivedere mai più. Qualche tempo dopo, Clorinda con i suoi guerrieri s’imbatte in un drappello, guidato da Tancredi, che sta tornando al campo con il bottino di una razzia e subito lo attacca. Nella mischia, Tancredi si getta alla carica contro di lei: un colpo di lancia e l’elmo cade dalla testa di Clorinda, svelando il suo volto e le sue fattezze di donna. Tancredi rimane impietrito, non vuole più combattere, per quanto lei lo provochi; anzi, si getta come una furia contro un altro cavaliere cristiano che l’ha aggredita da dietro e ferita leggermente al collo. Alla fine, i Saraceni hanno la peggio e battono in ritirata. Clorinda non riesce a capacitarsi di quel che è accaduto, e cova rabbia e odio contro il cavaliere sconosciuto. [43]
Una notte Clorinda tenta una sortita nell’accampamento cristiano insieme al fedele compagno d’armi Argante. I due riescono a raggiungere la possente torre d'assedio con cui i Crociati vogliono assaltare le mura e, servendosi di unguenti infiammabili preparati dal mago Ismeno, riescono ad incendiarla e distruggerla. Quando Tancredi e gli altri cavalieri si svegliano di soprassalto, è troppo tardi: la torre è diventata un enorme falò, e il fuoco e il fumo si diffondono per l’accampamento. Arimone, un caro amico di Tancredi rimane ucciso. Clorinda e Argante, dopo il successo della sortita,
si
apprestano
a
rientrare
a
Gerusalemme da una delle porte, incalzati dai soldati nemici, ma la donna rimane attardata da un duello con un guerriero cristiano. Mentre si accinge a raggiungere un'altra porta approfittando dell'oscurità, è raggiunta da Tancredi che non la riconosce (la donna indossa un'armatura nera, diversa da quella consueta), le lancia urla di sfida, vuole vendetta per la morte dell’amico. Inizia un duello furibondo con lei, senza sapere che sta lottando contro la donna che ama. Il duello ̀ di una violenza inaudita, dall’una e dall’altra parte, Clorinda ha la peggio, ma non molla, rifiuta con disprezzo perfino la possibilità offertale da Tancredi di rivelare la sua identità. Tutto crolla solo quando la spada dell’uomo la trafigge in pieno petto. È in quel momento che qualcosa dentro di lei si spezza: vede la morte in faccia, e vede tutto quello che non ha potuto essere, la donna che lei stessa ha annientato e che forse avrebbe potuto essere felice. Ma ora è quella donna che parla in lei, e che chiede a Tancredi di perdonarla e di battezzarla. Tancredi acconsente, si toglie l’elmo e lo riempie d’acqua di un ruscello vicino. Solo allora scopre il volto del suo avversario e si ritrova con gli occhi negli occhi della donna che ama, e che egli stesso ha ferito mortalmente; il dolore lo paralizza, e solo le parole di Clorinda gli danno la forza per versarle l’acqua sui capelli e pronunciare
quelle
parole:
“Io
ti
battezzo nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo”. Clorinda muore tra le braccia di Tancredi, le ultime sue parole sono: “S’apre il ciel io vado in pace”.
[44]
La “Prattica” di Monteverdi Nel 1600, la libertà armonica dei madrigali monteverdiani viene attaccata dal teorico Giovanni Artusi, che lo accusa di non aver rispettato le regole dell'equilibrio polifonico secondo i dettami dell'armonia rinascimentale: Monteverdi rispose che il vecchio stile (la prima prattica) era ancora adatto alla musica da chiesa, ma che per i madrigali ci si doveva attenere al nuovo stile, la seconda prattica, ove "l'armonia sia non signora ma serva dell'oratione": secondo questa concezione (teoria degli affetti) il testo, fatto di recitazione e gestualità, deve suscitare emozioni (gli affetti), e la musica, con i suoi ritmi e le sue armonie ha il compito di accentuare e tradurre le emozioni suscitate dal testo rappresentato. Queste innovazioni si trovano ampiamente nel Combattimento di Tancredi e Clorinda. Nella Prefazione Monteverdi prescrive come deve essere eseguito il brano e così facendo esprime gli elementi essenziali della sua poetica della musica.
L’opera dovrà essere preceduta da un madrigale senza azione e l’inizio del
combattimento (come i personaggi) deve arrivare all’improvviso. Il Testo (narratore) ̀ presente praticamente durante tutta l’opera e i ruoli di Tancredi e Clorinda sono ridotti soltanto a qualche intervento qua e là. Monteverdi scrive che l’esecuzione deve avvenire in genere rappresentativo, ossia i personaggi accompagneranno il canto con una mimica gestuale che sottolinei le emozioni («passi et gesti nel modo che l’oratione esprime»); gli strumenti dovranno «essere tocchi ad immitatione delle passioni dell’oratione»; il canto – salvo che nell’invocazione alla Notte – dovrà essere pulito e chiaro, senza trilli e gorgheggi: «porterà le pronuntie at similitudine delle passioni dell’oratione». Ascoltando la composizione, risulta evidente l’intento di Monteverdi, che scelse questo brano perché gli consentiva di mettere a confronto due passioni contrarie: l’ira e lo sdegno da un lato, la dolente preghiera e la calma rassegnata dall’altro. Quest’opera ̀ stata qualificata come la folgorante apoteosi del genere rappresentativo, carica di emozioni (amore, odio, guerra, morte e redenzione): Monteverdi usa le risorse dell’orchestra per rendere la varietà dei sentimenti e degli avvenimenti, come il pizzicato (una delle prime utilizzazioni di questa tecnica) o la ripetizione veloce della stessa nota, ossia il tremolo, effetti che per la prima volta furono esplicitamente annotati in partitura. Nella rappresentazione, ai passaggi in «stile temperato», fatti di movimenti melodici ampi e ritmi pacati, Monteverdi contrappone brani in «stile concitato», quali ad esempio il rumore delle armi o la rabbia dei combattenti, il galoppo dei cavalli o le fanfare delle trombe. E questa è la grande novità che Monteverdi introduce in questo madrigale: il modo di usare e far suonare gli strumenti che si adeguano sempre al testo e che, lasciando il ruolo di soli accompagnatori, diventano essi stessi protagonisti. [45]
Aspetti musicali L’orchestra (anche se non ci sono indicazioni del numero di strumenti per ogni parte) ̀ formata da quattro viole da brazzo (soprano, alto, tenore e basso) e un basso continuo formato da una viola da gamba, contrabbasso e un clavicembalo. Le parti vocali sono per soprano, Clorinda, e per due tenori, il Testo (narratore) e Tancredi. Le voci non sono mai sovrapposte, i versi sono cantati in ordinata successione; la musica si adegua alla parola, anche nel sottolineare gli interventi del narratore. Gli strumenti non hanno soltanto un ruolo di semplice accompagnamento ma diventano protagonisti, come ad esempio nell’episodio del combattimento in cui la concitazione e l’ansia dei duellanti sono evidenziate dal tremolo degli archi. Guida all’ascolto Il combattimento di Tancredi e Clorinda comincia con il Narratore (chiamato Testo), il quale non partecipa mai all’azione, ma la commenta, descrivendo all’inizio il tema della storia. Il basso continuo introduce il recitativo con la presentazione dei personaggi (“Tancredi che Clorinda un homo stima…” ); una breve figurazione degli archi descrive il vagare di Clorinda. L’improvviso ritmo sempre più serrato imita il trotto del cavallo sul quale giunge Tancredi. I due si sfidano, e Tancredi scende da cavallo per combattere. Possiamo ascoltare per la prima volta il tremolo degli strumenti ad arco, lo stile concitato usato anche in seguito in questo madrigale.
Tancredi che Clorinda un uomo stima vuol ne l'armi provarla al paragone. Va girando colei l'alpestre cima ver altra porta, ove d'entrar dispone. Segue egli impetuoso, onde assai prima che giunga, in guisa avvien che d'armi suone ch'ella si volge e grida: - O tu, che porte, correndo sì? - Rispose: - E guerra e morte. - Guerra e morte avrai: - disse - io non rifiuto darlati, se la cerchi e fermo attende. Ne vuol Tancredi, ch'ebbe a piè veduto il suo nemico, usar cavallo, e scende. E impugna l'un e l'altro il ferro acuto, ed aguzza l'orgoglio e l'ira accende; e vansi incontro a passi tardi e lenti quai due tori gelosi e d'ira ardenti. Segue la sinfonia che introduce l’invocazione alla Notte, un momento di grande ispirazione, dove troviamo un resoconto grafico della battaglia appena passata, in cui le frasi musicali cambiano spesso [46]
seguendo le varie tappe del duello. Qui Monteverdi non solo fa suonare dall’orchestra le note ripetute rapidamente, ma le fa imitare dal Narratore che deve pronunciare alcuni versi in modo molto veloce. Notte, che nel profondo oscuro seno chiudesti e nell'oblio fatto sì grande, degne d'un chiaro sol, degne d'un pieno teatro, opre sarian sì memorande. Piacciati ch'indi il tragga e'n bel sereno a le future età lo spieghi e mande. Viva la fama lor, e tra lor gloria splenda dal fosco tuo l'alta memoria. La descrizione del combattimento inizia piano, “non schivar, non parar”, poi in crescendo con figure ritmiche sempre più evidenti; rapide scale ascendenti e discendenti e il tremolo degli archi suggellano l’apice della tensione fino al punto di rottura, che corrisponde al momento in cui i duellanti lasciata la spada “dansi con pomi e infeloniti e crudi, cozzan con gli elmi insieme e con gli scudi.” Non schivar, non parar, non pur ritrarsi voglion costor, ne qui destrezza ha parte. Non danno i colpi or finti, or pieni, or scarsi: toglie l'ombra e'l furor l'uso de l'arte. Odi le spade orribilmente urtarsi a mezzo il ferro; e'l piè d'orma non parte: sempre il piè fermo e la man sempre in moto, né scende taglio in van, ne punta a voto. L'onta irrita lo sdegno a la vendetta, e la vendetta poi l'onta rinova: onde sempre al ferir, sempre a la fretta stimol novo s'aggiunge e piaga nova. D'or in or più si mesce e più ristretta si fa la pugna, e spada oprar non giova: dansi con pomi, e infelloniti e crudi cozzan con gli elmi insieme e con gli scudi. Tre volte il cavalier la donna stringe con le robuste braccia, e altrettante poi da quei nodi tenaci ella si scinge, nodi di fier nemico e non d'amante. Tornano al ferro, e l'un e l'altro il tinge di molto sangue: e stanco e anelante e questi e quegli al fin pur si ritira, e dopo lungo faticar respira. Quando all’alba i due combattenti si riposano, all’interno del duello, la loro pausa ̀ fedelmente riprodotta dalla musica. Il narratore è sostenuto dal solo basso continuo, che accompagna anche il successivo dialogo tra Tancredi e Clorinda. Tancredi vorrebbe sapere il nome del suo avversario, [47]
qualunque sia l’esito del combattimento, ma Clorinda nega la sua identità e ribatte con fierezza che il guerriero che combatte è uno di quelli che hanno appiccato il fuoco alla fortezza cristiana. L'un l'altro guarda, e del suo corpo essangue su'l pomo de la spada appoggia il peso. Già de l'ultima stella il raggio langue sul primo albor ch'è in oriente acceso. Vede Tancredi in maggior copia il sangue del suo nemico e se non tanto offeso, ne gode e in superbisce. Oh nostra folle mente ch'ogn'aura di fortuna estolle! Misero, di che godi? Oh quanto mesti siano i trionfi e infelice il vanto! Gli occhi tuoi pagheran (s'in vita resti) di quel sangue ogni stilla un mar di pianto. Così tacendo e rimirando, questi sanguinosi guerrier cessaro alquanto. Ruppe il silenzio al fin Tancredi e disse, perchè il suo nome l'un l'altro scoprisse: - Nostra sventura è ben che qui s'impieghi tanto valor, dove silenzio il copra. Ma poi che sorte rea vien che ci nieghi e lode e testimon degni de l'opra, pregoti (se fra l'armi han loco i preghi) che'l tuo nome e'l tuo stato a me tu scopra, acciò ch'io sappia, o vinto o vincitore, chi la mia morte o vittoria onore. Rispose la feroce: - Indarno chiedi quel c'ho per uso di non far palese. Ma chiunque io mi sia, tu innanzi vedi un di quei due che la gran torre accese. Arse di sdegno a quel parlar Tancredi e: - In mal punto il dicesti; (indi riprese) e'l tuo dir e'l tacer di par m'alletta, barbaro discortese, a la vendetta. Figure strumentali della tromba e rullo di tamburi precedono il duello che riprende violento e improvviso (“Torna l’ira nei cori e li trasporta”), testo e musica cambiano all’improvviso sui versi “Ma ecco homai l’hora fatal è giunta/ ch’el viver di Clorinda al suo fin deve”. Clorinda è sconfitta e, colpita a morte al seno dalla spada del nemico, cade agonizzante ai piedi di Tancredi. Qui a tratti ritornano gli archi. La declamazione del Testo (“In queste voci languide…”) è partecipazione della tragedia che si sta compiendo. Clorinda perdona Tancredi e lo prega di essere a sua volta perdonata; quindi gli chiede di essere battezzata. Tancredi prende l'acqua da un ruscello, allenta la visiera di Clorinda e quando solleva l’elmo si accorge con orrore che ha ferito mortalmente la giovane fanciulla che egli amava. Con lacrime di rimorso che scorre lungo le guance la battezza ma [48]
cerca invano di rianimarla con una bevanda d'acqua solo per farla morire tra le sue braccia. Mentre egli la battezza, gli archi ritornano alla fine, sulle ultime parole di Clorinda morente: “S’apre il ciel io vado in pace”. Torna l'ira ne' cori e li trasporta, benchè deboli, in guerra a fiera pugna! Ù'l'arte in bando, ù'già la forza è morta, ove, in vece, d'entrambi il furor pugna! O che sanguigna e spaziosa porta fa l'una e l'altra spada, ovunque giugna ne l'armi e ne le carni! e se la vita non esce, sdegno tienla al petto unita. Ma ecco omai l'ora fatal è giunta che'l viver di Clorinda al suo fin deve. Spinge egli il ferro nel bel sen di punta che vi s'immerge e'l sangue avido beve; e la veste che d'or vago trapunta le mammelle stringea tenere e lieve, l'empiè d'un caldo fiume. Ella già sente morirsi, e'l piè le manca egro e languente. Segue egli la vittoria, e la trafitta vergine minacciando incalza e preme. Ella, mentre cadea, la voce afflitta movendo, disse le parole estreme: parole ch'a lei novo spirto addita, spirto di fè, di carità, di speme, virtù che Dio le infonde, e se rubella in vita fu, la vuole in morte ancella. - Amico, hai vinto: io ti perdon... perdona tu ancora, al corpo no, che nulla pave, a l'alma sì: deh! per lei prega, e dona battesmo a me ch'ogni mia colpa lave. In queste voci languide risuona un non so che di flebile e soave ch'al cor gli scende ed ogni sdegno ammorza, e gli occhi a lagrimar invoglia e sforza. Poco quindi lontan nel sen d'un monte scaturia mormorando un picciol rio. Egli v'accorse e l'elmo empiè nel fonte, e tornò mesto al grande ufficio e pio. Tremar sentì la man, mentre la fronte non conosciuta ancor sciolse e scoprio. La vide e la conobbe: e restò senza e voce e moto. Ahi vista! ahi conoscenza! Non morì già, ché sue virtuti accolse tutte in quel punto e in guardia al cor le mise, [49]
e premendo il suo affanno a dar si volse vita con l'acqua a chi col ferro uccise. Mentre egli il suon de' sacri detti sciolse, colei di gioia trasmutossi, e rise: e in atto di morir lieta e vivace dir parea: "S'apre il ciel: io vado in pace"
Il ballo delle ingrate Il ballo delle ingrate (SV 167) è un balletto semi-drammatico scritto da Claudio Monteverdi su libretto di Ottavio Rinuccini. Venne pubblicato nel 1638 dall’ editore Ricciardo Amadino, a Venezia, nell'Ottavo Libro dei Madrigali di Monteverdi (Madrigali guerrieri, et amorosi), ma la sua prima rappresentazione risale a 30 anni prima nel teatro del Palazzo ducale di Mantova il 4 giugno 1608, in occasione delle feste per le nozze di Francesco IV Gonzaga (figlio del protettore di Monteverdi, Vincenzo duca di Mantova) e la giovanissima Margherita di Savoia, figlia del duca Carlo Emanuele I, creatura non bella ma ricca di grazia.
[Francesco IV Gonzaga e Margherita di Savoia]
Il matrimonio con i Savoia sanciva un’alleanza strategica per la famiglia Gonzaga e l’impegnava all’ostentazione delle proprie risorse economiche durante le celebrazioni festive con l’intento di valorizzare il loro successo politico. Tra i partecipanti al Balletto figurò, secondo le cronache del tempo, lo stesso Duca Vincenzo con suo figlio e «sei cavalieri e otto dame scelte fra le più leggiadre.» [50]
Per l'occasione delle nozze Monteverdi compose anche l'opera L'Arianna (sempre su libretto di Rinuccini) - poi andata perduta, ma di cui ̀ rimasto quel “lamento” che ancora oggi ̀ in grado di emozionare - e la musica per il prologo della commedia L'Idropica di Battista Guarini. Secondo alcuni studiosi, la versione de Il ballo delle Ingrate stampata nel 1638 contiene probabilmente delle revisioni fatte dall'autore per i festeggiamenti dell’Incoronazione di Ferdinando III d’Asburgo, imperatore del Sacro Romano Impero [ ell i L'improvvisa
morte
del
precedente
imperatore
agi e].
costrinse
Monteverdi a dover scrivere un'opera in un tempo molto breve, e rielaborò Il ballo delle ingrate, togliendo i riferimenti al matrimonio mantovano. Sono stati rilevati alcuni adattamenti testuali e drammaturgici compiuti da Monteverdi per compiacere la corte asburgica, ma nella struttura musicale del Ballo, vale a dire, il cuore della rappresentazione, Monteverdi non sembra aver operato alcun cambiamento influente sull’assetto originale. Chi sono le ingrate? Sono le donne che in vita furono ingrate verso i loro amanti, non seppero cioè soddisfare o ricevere il loro amore, creature, che gli dei hanno perciò confinato agli inferi. Il ballo delle ingrate ̀ una pietra miliare dell’evoluzione coreografica, anche se della sua coreografia non è rimasta traccia. E nemmeno si conosce il nome del suo vero coreografo, forse Isacchino Ebreo, colui cioè che era il maestro di ballo alla corte di Mantova. Aspetti della composizione
Trama. La trama è molto semplice, tuttavia Monteverdi vi ricamò sopra note superiori, una musica che ancora stupisce, quel declamato musicale discorsivo e severo che non è inferiore a quello che troviamo nelle sue opere più celebrate. E i versi di Rinuccini non poveri sono anch’essi di una loro arcana bellezza. La scena si svolge davanti al suo ingresso degli Inferi, dove u si trova na gran voragine “dentro la quale ruotano globi d’ardentissime fiamme e per entro ad essa innumerabili mostri d’Inferno”. Davanti a quella bocca infernale appaiono Venere e Amore, madre e figlio, e mentre questi entra nelle grotte di Plutone, il re degli Inferi, per indurlo ad ascoltare la divina madre, ella si rivolge alle dame del pubblico invitandole a vincere la riluttanza all’amore prima che la giovinezza sparisca.
[Pontormo (su disegno di Michelangelo Buonarroti): Venere e Amore. 1 33. Galle ia dell A ade ia. Firenze]
[51]
Rientra Amore con Plutone, con il quale Venere si lamenta che i dardi del figlio restino senza effetto per la sdegnosa austerità delle donne abitanti nel “Germano Impero” che vanno altere di beltà e amore. Successivamente Amore implora Plutone di lasciar temporaneamente uscire alcune anime di quelle ingrate perché mostrino ai viventi quali pene le attendano nell’oltretomba. Ed ecco subito dopo arrivare le Ingrate ed eseguire una danza a metà della quale Plutone a sua volta rivolgerà alle dame in sala la stessa predica morale di Venere, minacciandole di pene eterne qualora persistano nel loro atteggiamento. Quindi rinvia le anime “a lacrimare nel regno Inferno”. E la danza sarà ripetuta alla loro partenza. Solo una di esse indugerà al proscenio lamentando (è la pagina musicale più bella e di più alta intensità drammatica) la sorte a cui deve definitivamente tornare e rivolgerà un estremo addio alla luce, esortando le Dame presenti alla pietà verso chi le ama.
Coreografia. Nulla è stato conservato, cioè trascritto, della parte coreografica. E tuttavia dai pochi riferimenti contenuti nel libretto di Rinuccini e da qualche altro scritto è possibile immaginare che la danza o i movimenti coreutici consistessero in composizioni orchestiche (proprie di azioni sceniche che comprendono musica, poesia e danza) nello stile e nella tecnica del più maturo “ballo nobile” (quello adottato nelle grandi corti italiane), fuse però con elementi pantomimici di forte coloritura drammatica.
Strumentazione. L’organico strumentale del Ballo secondo Monteverdi è il seguente: “Cinque Viole da brazzo, Clavicembalo e Chitarrone, li quali istrumenti si radoppiano secondo il bisogno della grandezza del loco in cui devisi rapresentare.” Secondo testimonianze dell’epoca l’allestimento mantovano incluse «un gran numero di musici con instromenti diversi da corda e da fiato», e la loro distribuzione sulla scena e dietro le quinte, tra musica apparente e non apparente, creava un effetto sonoro di lontananza e vicinanza, di forte e piano, di terra e inferno, molto efficace teatralmente.
Struttura della composizione. Il "balletto" propriamente detto è la scena più importante dell'opera. È composto di una Entrata (un motivo semplice, ripetuto più volte) e di cinque episodi tutti costruiti con lo stesso materiale melodico, variato solo ritmicamente. L’episodio centrale è costruito su disegni melodici diversi; il quarto richiama il tema originale parzialmente rovesciato, e nell'ultimo il motivo dell'Entrata è leggermente variato. Dal punto di vista strutturale Monteverdi crea due bassi ostinati da variare solo nel ritmo musicale per valorizzare la metrica del dolore, del lamento e della supplicazione, come nel coro della tragedia greca. [52]
Le parti vocali son trattate, quasi sempre, in "stile recitativo", ma basterà un accento veramente sentito, una espressione viva e vera, perché quel recitativo assuma subito movenze di arioso, perché la melodia riveli una rispondenza autentica con l'espressione poetica. Segnaloo il monologo di Venere, che ha quasi il carattere di un "madrigaletto" con basso continuo; il duetto tra Venere e Amore; la lunga apostrofe di Plutone realizzata con una declamazione lenta, con frasi discendenti nella tessitura grave e con ampi intervalli (le parole: «là giù... » comportano un intervallo di undecima). Il momento più alto dell'opera è il lamento dell'anima ingrata che s'è arrestata sulla soglia dei regni infernali: due strofe che terminano con una stessa frase, ripetuta "a cappella" da altre quattro voci; una pagina patetica, intensamente espressiva, tanto commovente che le dame del pubblico ne furono «non meravigliate, sì bene mosse al pianto.»
Testo Introduzione: P i a si fa u a s e a la ui p ospettiva fo i u a o a d'Inferno con quattro strade per banda, che gettino fuoco, da quali usciscono a due a due le Anime Ingrate, con gesti lamentevoli, al suono della entrata che sarà il principio del ballo, il qual va cotante volte ripetito da suonatori fino che trovino poste nel mezzo del loco in cui assi da dar principio al ballo, Plutone sta nel mezzo conducendole a passi gravi, poi ritiratosi alquanto, dopo finita la entrata, danno principio al ballo, poscia Plutone fattolo fermare nel mezzo, parla verso alla Principessa, e Damme, che saranno presenti, nel modo che sta scritto; Delle Anime Ingrate, il lor vestito sarà di color cenerito, adornato di lacrime finte; finito il ballo tornano nel Inferno, nel medesimo modo del'uscita, e al medesimo suono lamentevole, restandone una nella fine in scena, facendo il lamento che sta scritto, poi entra nel'Inferno. Al levar de la tela si farà una sinfonia a e epla ito. AMORE. De l'implacabil Dio Eccone giunt'al Regno, Seconda, O bella Madre, il pregar mio. VENERE. Non tacerà mia voce Dolci lusinghe e prieghi Finche l'alma feroce Del Re severo al tuo voler non pieghi. AMORE. Ferma, Madre, il bel piè, non por le piante Nel tenebroso impero, Che l'aer tutto nero Non macchiass'il candor del bel sembiante: Io sol n'andrò nella magion oscura, E pregand'il gran Re trarotti avante. VENERE. Va pur come t'agrada. Io qui t'aspetto, Discreto pargoletto. (Sinfonia) [53]
Udite, Donne, udite! I saggi detti Di celeste parlar nel cor servate: Chi, nemica d'amor, nei crudi affetti Armerà il cor nella fiorita etate, (Sinfonia) Sentirà come poscia arde a saetti Quando più non avrà grazia e beltate, E in vano risonerà, tardi pentita, Di lisce e d'acque alla fallace aita. PLUTONE. Bella madre d'Amor, che col bel ciglio Splender l'Inferno fai sereno e puro, Qual destin, qual consiglio Dal ciel t'ha scorto in quest'abisso oscuro? VENERE. O de la morte innumerabil gente Tremendo Re, dal luminoso cielo Traggemi a quest'orror materno zelo: Sappi che a mano a mano L'unico figlio mio di strali e d'arco Arma, sprezzato arcier, gli omer e l'ali. PLUTONE. Chi spogliè di valore l'auree saette Che tante volte e tante Giunsero al cor de l'immortal Tonnante? VENERE Donne, che di beltate e di valore Tolgono alle più degne il nome altero, Là, nel Germano Impero, Di cotanto rigor sen van armate, Che di quadrell'aurate E di sua face il foco Recansi a scherzo e gioco.. PLUTONE. Mal si sprezza d'Amor la face e'l telo. Sallo la terra e'l mar, l'inferno e'l cielo. VENERE. Non de' più fidi amanti Odon le voci e i pianti. Amor, Costanza, Fede Non pur ombra trovar può di mercede. Questa gli altrui martiri Narra ridendo. E quella Sol gode d'esser bella Quando tragge d'un cor pianti e sospiri. Invan gentil guerriero Move in campo d'honor, leggiadro e fiero. [54]
Indarno ingegno altero Freggia d'eterni carmi Beltà che non l'ascolta e non l'aprezza. Oh barbara fierezza! Oh cor di tigre e d'angue! Mirar senza dolore Fido amante versar lagrime e sangue! E per sua gloria, e per altrui vendetta Ritrovi in sua faretra Amor saetta! PLUTONE. S'invan su l'arco tendi I poderosi strali, Amor che speri, e che soccorso attendi? AMORE. Fuor de l'atra caverna Ove piangono invan, di Speme ignude, Scorgi, Signor, quell'empie e crude! Vegga, vegga sull'Istro Ogni anima superba A qual martir cruda beltà si serba! PLUTONE. Deh! Chi ricerchi, Amor! Amor, non sai che dal carcer profondo Cale non è che ne rimeni al mondo? AMORE. So che dal bass'Inferno Per far ritorno al ciel serrato è il varco. Ma chi contrasta col tuo poter eterno? PLUTONE. Saggio signor se di sua possa è parco. VENERE. Dunque non ti rammenti Che Proserpina bella a coglier fiori Guidai sul monte degli eterni ardori? Deh! Per quegli almi contenti, Deh! Per quei dolci amori, Fa nel mondo veder l'ombre dolenti! PLUTONE. Troppo, troppo possenti Bella madre d'Amore, Giungon del tuo pregar gli strali al cuore! Udite! Udite! Udite! O dell'infernal corte Fere ministre, udite! OMBRE D'INFERNO. Che vuoi? Ch'imperi? PLUTONE. Aprite aprite aprite Le tenebrose porte [55]
De la prigion caliginosa e nera! E de l'Anime Ingrate Trahete qui la condannata schiera! VENERE. Non senz'altro diletto Di magnanimi Regi Il piè porrai ne l'ammirabil tetto! Ivi, di fabri egregi Incredibil lavoro, O quanto ammirerai marmorii fregi! D'ostro lucent' e d'oro Splendon pompose le superbe mura! E per Dedalea cura, Sorger potrai tra l'indorate travi, Palme e trionfi d'innumerabil Avi. Ne minor meraviglia Ti graverà le ciglia, Folti Theatri rimirando e scene, Scorno del Tebro e de la dotta Atene! Qui incominciano apparire le Donne Ingrate, et Amore e Venere così dicono: AMORE E VENERE. Ecco ver noi l'adolorate squadre Di quell'alme infelici. Oh miserelle! Ahi vista troppo oscura! Felici voi se vi vedeva il fato Men crude e fere, o men leggiadre e belle! Plutone rivolto verso Amore e Venere così dice: PLUTONE. Tornate al bel seren, celesti Numi! Rivolto poi all'Ingrate, così segue: PLUTONE. Movete meco, voi d'Amor ribelle! Con gesti lamentevoli, le Ingrate a due a due incominciano a passi gravi a danzare la presente entrata, stando Plutone nel mezzo, camminando a passi naturali e gravi. Giunte tutte al posto determinato, incominciano il ballo come segue. (Sinfonia) Danzano il ballo sino a mezzo; Plutone si pone in nobil postura, rivolto verso la Principessa e Damme, così dice: PLUTONE. Dal tenebroso orror del mio gran Regno Fugga, Donna, il timor dal molle seno! Arso di nova fiamma al ciel sereno Donna o Donzella per rapir non vegno. E quando pur de vostri rai nel petto Languisce immortalmente il cor ferito, Non fora disturbar Plutone ardito Di cotanta Regina il lieto aspetto. [56]
Donna al cui nobil crin non bassi fregi Sol pon del Cielo ordir gli eterni lumi, Di cui l'alma virtù, gli aurei costumi Farsi speglio dovrian Monarchi e Regi. Scese pur dianzi Amor nel Regno oscuro. Preghi mi fè ch'io vi scorgessi avanti Queste infelici, ch'in perpetui pianti Dolgonsi invan che non ben sagge furo. Antro è la giù, di luce e d'aer privo, Ove torbido fumo ogni hor s'aggira: Ivi del folle ardir tardi sospira Alma ch'ingrata hebbe ogni amante a schivo. Indi le traggo e ve l'addito e mostro, Pallido il volto e lagrimoso il ciglio, Per che cangiando homai voglie e consiglio Non piangete ancor voi nel negro chiostro. Vaglia timor di sempiterni affanni, Se forza in voi non han sospiri e prieghi! Ma qual cieca ragion vol che si nieghi Qual che malgrado alfin vi tolgon gli anni? Frutto non è di riserbarsi al fino. Trovi fede al mio dir mortal beltate. Poi rivolto al Anime Ingrate, così dice: Ma qui star non più lice, Anime Ingrate. Tornate al lagrimar nel Regno Inferno! Qui ripigliano le Anime Ingrate la seconda parte del Ballo al suono come prima, la qual finita Plutone così gli parla: PLUTONE. Tornate al negro chiostro, Anime sventurate, Tornate ove vi sforza il fallir vostro! Qui tornano al Inferno al suono della prima entrata, nel modo con gesti e passi come prima, restandone una in scena, nella fine facendo il lamento come segue; e poi entra nell'Inferno: UNA DELLE INGRATE. Ahi troppo, ahi troppo è duro! Crudel sentenza, e vie più crude pene! Tornar a lagrimar nell'antro oscuro! Aer sereno e puro, Addio per sempre! Addio per sempre, O cielo, o sole! Addio lucide stelle! Apprendete pietà, Donne e Donzelle! QUATTRO INGRATE insieme. Apprendete pietà, Donne e Donzelle! Segue UNA DELLE INGRATE. Al fumo, a gridi, a pianti, A sempiterno affanno! Ahi! Dove son le pompe, ove gli amanti! [57]
Dove, dove sen vanno Donne che si pregiate al mondo furo? Aer sereno e puro, Addio per sempre! Addio per sempre, O cielo, o sole! Addio lucide stelle! Apprendete pietà, Donne e Donzelle!
DISCOGRAFIA DELLE DUE COMPOSIZIONI
Claudio Monteverdi: Combattimento di Tancredi e Clorinda. Ballo delle ingrate. Concerto Italiano, dir. Rinaldo Alessandrini. Opus 111 In questa incisione il canto è straordinario, caldo nelle gamme basse (di cui la più bassa è davvero brillante e piena) e mozzafiato nei trilli accelerati e nelle macchinazioni interiori che cadono rapidamente nello stile agitato di Monteverdi. Inoltre Rinaldo Alessandrini e Concerto Italiano non avrebbero potuto trovare un attacco più ampio sui pezzi, facendoli suonare operistici, sinfonici e intimi allo stesso tempo. Altro punto di forza è la padronanza del linguaggio declinatorio e retorico italiano di Monteverdi che i cantanti del Concerto Italiano gestiscono splendidamente. Dopo tutto l'opera è iniziata a causa di una teoria che in Grecia classica le opere teatrali venivano cantate con accompagnamento minimo piuttosto che parlato. Questo non è solo uno dei migliori CD vocali del 1998 ma, è anche , se preso con il Libro dell'Ottavo Libro di Alessandrini (Ed. Naive), uno dei migliori sguardi su Monteverdi nel campo della musica registrata. Il Ballo delle Ingrate accoppiato è naturalmente altrettanto ben interpretato.
Claudio Monteverdi: Ottavo Libro dei Madrigali La Venexiana Glossa Concerto Italiano e La Venexiana hanno praticamente un monopolio sul canto dei madrigali in italiano per la eccelsa padronanza della lingua.
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L'impressione udibile in questi 3 Cd è come una scoperta di un nuovo territorio musicale. La musica è molto impressionante nella sua espressività, la performance affascina con grandi cantanti e ottimi strumentisti. Il Combattimento di Tancredi e Clorinda si apprezza per il corretto uso dei timbri, la ricchezza dei ritmi, l’enfasi delle parti lente e delle pause. Consigliatissimo! Monteverdi: Ballo delle Ingrate. Combattimento di Tancredi e Clorinda Cappella Musicale di San Petronio Bologna, dir. Sergio Vartolo. Naxos Early Music Le esibizioni dirette da Sergio Vartolo della musica di Claudio Monteverdi sono splendide per la presenza di interpreti italiani nelle parti cantate, così come l'uso di strumenti originali del tempo e pratiche di prestazione di quel periodo. Come era consuetudine allora, la voce cantata era accompagnata solo
da
un
complesso
molto
ristretto
di
strumenti
(fondamentalmente un «basso continuo», anche se con uso occasionale di strumenti in una forma più elaborata), un fatto che viene rispettato in questa registrazione. Questo metodo porta con sé il vantaggio di ascoltare le voci dei solisti con maggiore purezza e chiarezza del solito, un vantaggio che è più facile da apprezzare, considerando la perfetta dizione degli interpreti che cantano nella loro lingua madre. Tutti insieme producono una meravigliosa sensazione di essere trasportati nel tempo ai tempi di Monteverdi e dei suoi contemporanei, un effetto che non molte registrazioni possono ottenere. In conclusione, si tratta di un CD altamente raccomandato per gli amanti del primo barocco e della musica vocale in particolare, poiché dall'inizio alla fine include performance tecnicamente perfette dei solisti coinvolti (il basso Antonio Abete, nel ruolo di Plutone nel «Ballo delle ingrate» è da brividi).
Monteverdi: Il Combattimento di Tancredi e Clorinda. Clemencic Cosort. Ha o ie Mu di F a e, Musi ue d’a o d Il Clemencic Consort è un consort vocale e strumentale austriaco costituito a Vienna nei primi anni sessanta del XX secolo dal compositore, clavicembalista e direttore d'orchestra austriaco René [59]
Clemencic. E’ specializzato nell'esecuzione di musiche che vanno dal medioevo al barocco, su strumenti storici. Il complesso ha un organico variabile che va da tre cantanti ad un gruppo di cantanti e strumentisti che può superare i quaranta elementi in funzione delle opere che deve eseguire. I componenti sono tutti strumentisti e cantanti solisti provenienti da moltissimi paesi. In questo disco cantanti e strumentisti offrono una ottima prestazione, molto vivace. Il loro unico difetto: la pronuncia italiana non perfetta. Monteverdi: Madrigali & Selva morale Les Arts Florissants, dir. William Christie. Harmonia Mundi Les Arts Florissants è un complesso musicale francese fondato nel 1979 e diretto dal clavicembalista francese di origine statunitense William Christie. Il titolo del gruppo è tratto da un'opera del compositore francese Marc-Antoine Charpentier. E’ costituito da un gruppo di strumentisti che suonano strumenti storici e da un piccolo gruppo vocale. Sono specializzati nel repertorio barocco. Questa raccolta di William Christie e Les Arts Florissants rappresenta una delle migliori performance della musica monteverdiana: troviamo Madrigali, Il ballo delle Ingrate, Selva Morale, Il combattimento di Tancredi e Clorinda. La poesia rinascimentale italiana non è mai stata così vivida. Christie e il suo ensemble sono tecnicamente perfetti e musicalmente impegnati in modo eccellente. Monteverdi: Madrigali guerrieri e amorosi The Consort of Musicke, dir. Anthony Rooley. Erato Veritas The Consort of Musicke è un consort di musica antica britannico fondato nel 1969. Il gruppo è stato fondato a Londra dal liutista Anthony Rooley che ne divenne il direttore. Tra i primi componenti del gruppo ricordo il grande soprano Emma Kirkby. L'ensemble si è specializzato nell'esecuzione di musica rinascimentale a cappella, inclusi alcuni autori del primo barocco, in particolar modo inglesi e italiani. [60]
In questo doppio CD contenente l’integrale dell’Ottavo libro dei Madrigali troviamo una piacevolissima interpretazione della splendida arte di Monteverdi, anche se per me non è una prima scelta. La dizione della lingua italiana ̀ un po’ asettica.
Monteverdi: Combattimento. Le Co e t d Ast e, di . E a uel Haï Virgin Questo disco è uno splendido esempio della forma lirica monteverdiana. Questa è la musica antica come dovrebbe essere: appassionata, commovente, energica e coinvolgente. Rolando Villazon (il narratore) è eccezionale, non c'è emozione che non riesca a trasmettere con la sua voce di tenore brillante ed espressivo.
Nel Combattimento il recitativo declamatorio è
sorprendentemente flessibile per soddisfare la narrazione, le descrizioni della battaglia e le esplosioni liriche appassionate. Monteverdi: Madrigali guerrieri et amorosi. Concerto vocale, dir. René Jacobs. Harmonia Mundi Il belga René Jacobs, sommo interprete del teatro musicale e uno tra i massimi direttori d'orchestra del genere madrigalesco, dà una lettura ricca di vitalità e di senso teatrale coadiuvato da un efficace gruppo di cantanti, magari con voci non bellissime ma assolutamente adatte allo scopo di far risaltare e avvolgere l'esecuzione intorno alla parola cantata, accompagnate da un folto gruppo di musicisti in modo da ottenere uno strumentale corposo e timbricamente molto variegato. Preferisco questo tipo di esecuzioni a quelle dei madrigalisti anglosassoni, musicalmente educatissimi, ma spesso “freddi”. [61]
Le Sinfonie di Gustav Mahler
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Sinfonia n. 5 in do diesis minore ASPETTI STORICI Nel 1901 reduce da una grave e dolorosa emorragia interna che lo aveva portato in fin di vita, Mahler acquistò una villa a Maiernigg, sulle rive del Wörthersee, nella quale trascorse l'estate occupandosi come d'abitudine di composizione.
[House Gustav Mahler Maiernigg 1901-1907 (Villa Mahler, Maiernigg n° 31)]
In questo ambiente nacquero alcuni lavori che celebrano il trionfo dell'uomo sul dolore e sulla morte ed in particolare il primo movimento della Quinta che con il suo carattere funebre risente chiaramente dell'angoscia provata da Mahler per aver sfiorato la morte. I primi abbozzi della Sinfonia n° 5 di Mahler risalgono proprio al 1901. Un anno importante per Mahler, sia nella sfera privata (per l’incontro con Alma Schindler, figlia di un illustre pittore viennese, che sposò nel marzo dell'anno successivo) che in quella professionale (con i primi promettenti successi come direttore dell’Opera di Vienna). Nel 1902, quando tornò a Maiernigg con la giovane sposa, il suo animo era totalmente trasformato: scrisse lo Scherzo che diventò la parte centrale di tutto il lavoro, e nei primi mesi del 1903 completò la sinfonia. [Gustav e Alma Mahler]
La Quinta sinfonia venne eseguita per la prima volta in un concerto a Colonia il 18 ottobre 1904 sotto la direzione d'orchestra dello stesso autore, che raccolse un successo di stima. Poco dopo venne presentata a Praga e a Berlino con esiti contrastanti e tali da indurre il musicista a rivedere la partitura. La Quinta si rivelerà la sua creazione più difficile, Mahler continuò a rivedere questa Sinfonia da lui stesso definita “molto, molto complessa”, soprattutto per la strumentazione, fino all’ultimo. L’8 febbraio 1911, pochi mesi prima della morte, scrisse all’amico Georg Göhler: «Ho finito la Quinta: in pratica ho dovuto reistrumentarla da capo. E’ incomprensibile come abbia potuto allora sbagliarmi del tutto così da principiante. Evidentemente la routine acquisita nelle prime quattro [63]
Sinfonie qui mi aveva del tutto abbandonato: poiché uno stile completamente nuovo esigeva una tecnica nuova».
CRITICA Per vastità di impianto e di costruzione, oltre che per la varietà e ricchezza di immaginazione e di idee musicali, la Sinfonia n° 5 di Mahler ̀ un’opera poderosa e massiccia che si inserisce nella grande tradizione sinfonica tedesca. Secondo gli storici della musica, le prime quattro sinfonie di Mahler sarebbero le più «austriache», cioè quelle maggiormente legate alle immagini di una civiltà contadina già sciolta dal sentimentalismo di maniera, ma nella quale ogni visione tragica è pur sempre mediata dalla fiaba, dall'immutabile succedersi delle stagioni e dal passaggio che separa giovinezza e vecchiaia. In tutte queste sinfonie sono continuamente presenti temi e canti ispirati alle poesie popolari che Mahler aveva messo in musica nelle serie intitolate Des Knaben Wunderhorn (“Il corno magico del fanciullo”) e Lieder eines fahrenden Gesellen (“Canti di un giovane errante”) un repertorio di immagini fiabesche e allegoriche. La Quinta, la Sesta e la Settima Sinfonia sarebbero invece le più «viennesi», intendendo con questo termine un mutamento di prospettiva che colloca la sensibilità della musica mahleriana in un “paesaggio urbano”, non più ricomponibile nelle "visioni" che emanavano dalle fiabe popolari e dal mondo che le aveva espresse. Queste sinfonie perdono il riferimento al nucleo generatore del canto popolare, ossia al Lied. Sono costrette a misurarsi con lo spazio e con i ritmi imposti loro dall'ambiente della città e ad esprimere in prosa, non più in poesia, il nuovo senso di alienazione. Di fronte a questo scenario, le ultime sinfonie mahleriane compirebbero un passo ulteriore e diverrebbero «cosmopolite», in quanto descrivono lo stato di lacerazione del soggetto moderno non più in relazione a un ambiente specifico, urbano o contadino, ma rispetto al mondo nel suo insieme, secondo una più acuta determinazione esistenziale. La Quinta Sinfonia segna dunque il momento di svolta nel quale Mahler decide di recidere i suoi legami con il mondo liederistico ed in particolare con la voce umana (quasi sempre presente nelle sue precedenti composizioni) per concentrarsi su una musica puramente orchestrale.
GUIDA ALL’ASCOLTO La Quinta sinfonia è divisa in cinque movimenti, suddivisi in tre parti, riconoscibili in base alle affinità dei materiali tematici e delle atmosfere espressive. Parte I: - Trauermarsch. In gemessenem Schritt. Streng. Wie ein Kondukt (Marcia funebre, Con passo misurato, Severo, Come un corteo funebre) - Stürmisch bewegt. Mit größter Vehemenz (Tempestosamente mosso, Con la massima veemenza)
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Parte II: - Scherzo. Kräftig, nicht zu schnell (Scherzo, Vigoroso, non troppo presto) Parte III: - Adagietto. Sehr langsam (Adagietto, Molto lento) - Rondo-Finale. Allegro. Allegro giocoso. Frisch (Rondo-Finale, Allegro, Allegro giocoso, Brioso).
♫♫ I PARTE
1° Movimento Il tema scandito in modo persistente dalla fanfara della tromba descrive il tono cupo e drammatico della marcia funebre, snodantesi come una processione (la partitura indica «Wie ein Kondukt», dal latino conducere che sta ad indicare una musica di tipo processionale, che anticamente accompagnava l'entrata dell'officiante in chiesa). La frase della tromba (già anticipato nella Quarta Sinfonia, e che ricorda la Sinfonia Militare di Haydn o la Quinta di Beethoven) è un ricordo delle musiche militari ascoltate da Mahler bambino, nelle sfilate dei soldati davanti alla casa dei suoi genitori quando viveva nella cittadina di Jihlava, alla frontiera della Moravia,.
La stessa fanfara tornerà nuovamente come una specie di ritornello per legare i diversi episodi della marcia. Il primo episodio Plötzlich schneller. Leidenschaftlich. Wild (“All'improvviso più rapido. Appassionato. Selvaggio”) è caratterizzato da un attacco concitato e affannoso, dominato dalle strappate violente e vigorose degli archi e sostenuti dagli accordi sincopati dei corni. La ripresa della marcia funebre e l'introduzione di un tema consolatore ristabilisce la calma e conduce al secondo episodio. Benché la sua atmosfera di dolcezza e di rassegnazione sia così lontana da quello che lo precede, il tema principale di questo episodio non è che una variante del primo mescolato ad altri motivi già sentiti. [65]
Un colpo secco e pianissimo dei timpani e un pizzicato sforzato degli archi chiudono il movimento.
2° Movimento
Come dichiara Mahler stesso, questo Allegro in forma sonata è il primo vero movimento della sinfonia; è strettamente collegato al primo, del quale sembra riesporre e a volte richiamare esplicitamente i temi ma in sembianze grottescamente deformate. L'inizio dell'esposizione non presenta un vero tema ma soltanto un breve ostinato dei bassi seguito da un motivo agitato di scale ascendenti e discendenti. Il primo vero tema compare in seguito con i violini primi. Il secondo tema Beteutend langsamer (Nettamente più lento) non è altro che una semplice citazione del secondo episodio della Marcia funebre iniziale. L'esposizione è seguita da un ampio movimento nel quale l'angoscia e la febbre raggiungono dei parossismi di violenza che raramente si trovano in tutto il repertorio sinfonico. Nella ripresa gli elementi ascendenti ed ottimisti sembrano trionfare progressivamente fino al momento in cui gli ottoni intonano un inno di vittoria in forma di corale. Ma questa vittoria resta senza futuro perché termina nella notte nell'angoscia e nel mistero. ♫♫ II PARTE
3° Movimento Lo Scherzo seguente inizia dopo una lunga pausa, una cesura espressamente indicata da Mahler dopo la fine del secondo movimento, e costituisce di fatto il secondo blocco della sinfonia. E' anche una delle pagine più tormentate dell'intera composizione, tanto che richiese un ampio rimaneggiamento durante il lavoro di revisione che portò Mahler realizzare una versione definitiva della Quinta solo nel 1911. Le preoccupazioni di Mahler riguardavano in questo caso da un lato la distribuzione dei pesi orchestrali, dall'altro la fisionomia di una pagina che inizia con il tono spensierato del Ländler, la danza contadina progenitrice del valzer, ma poi corrode continuamente i suoi elementi costituenti, li trascina in una specie di danza infernale. «Lo Scherzo - scrisse Mahler alla moglie Alma - è un tempo maledetto! La sua storia sarà un seguito di dolori! Per cinquant'anni i direttori lo prenderanno in modo troppo veloce e ne faranno una cosa senza senso, mentre il pubblico, oh Dio, che faccia può fare davanti a questo caos che continua eternamente a partorire mondi che durano un solo istante e subito tornano a dissolversi?» Lo Scherzo di rilevante estensione (dura mediamente quasi 18 minuti) ha la fisionomia ritmica di un caratteristico Ländler austriaco, annunciato da un tema gioioso dei corni, cui segue un agile e fresco contrappunto tra la cornetta e i primi violini. Il Trio centrale è contrassegnato da un malinconico e nostalgico assolo di corno, sul quale si innesta un motivo di valzer elegante e spigliato, di origine popolare malgrado il controcanto di cui Mahler lo ha ornato. Nella ripresa dello Scherzo appare una melodia nostalgica di un secondo Trio affidata soprattutto ai corni. Un recitativo del corno avvia un lungo sviluppo dalle caratteristiche molto complesse, nel quale ricompaiono variamente intrecciati elementi di tutti i temi fin qui esposti. Il ritmo della grancassa dà poi inizio alla Coda conclusiva. [66]
♫♫ III PARTE
4° movimento L’Adagietto ̀ una semplice romanza senza parole affidata ai soli archi dell'orchestra su un accompagnamento discreto degli arpeggi dell'arpa. E' il momento del raccoglimento e dell'oblio dalle cose del mondo. E' una celeberrima pagina in forma di Lied il cui seme melodico troverà ampia risonanza nei
Kindertotenlieder;
lo
struggente
psicologismo romantico in essa racchiuso si esprime attraverso un interessante passaggio di modulazioni dal fa maggiore al sol bemolle maggiore, con accordi e impasti armonici di sapore vagamente tristaneggiante. 5° movimento Il senso introspettivo dell'Adagietto è in netto contrasto con il carattere estroverso e brillante del Rondò successivo. L'introduzione, affidata ai legni che espongono ognuno un proprio tema, prende l'andamento insolito di un "divertimento" improvvisato. I differenti motivi che come tirati a sorte danno al movimento tutto il suo succo melodico, sono una serie di fugati ispirati a Mahler dai compositori classici viennesi. Il primo soggetto di questo movimento deriva direttamente dal finale della Seconda Sinfonia di Beethoven. Il successivo fugato è apparentato al tema secondario dello Scherzo. Il tema del Wünderhorn Lied del 1986 Lob des hohen Verstandes (Elogio dell'intelligenza superiore) nutre poi un episodio "grazioso" che dura solo qualche battuta e sfocia in una ripresa del primo soggetto, sempre preceduto dal suo divertimento. L'intermezzo successivo, che al contrario è lungamente sviluppato, combina diversi motivi che abbiamo già sentito con un nuovo delizioso giro degli archi che è una semplice metamorfosi dell'Adagietto qui ripreso quasi completamente. Dopo un accelerando improvviso gli ottoni ripropongono un corale che assomiglia molto a quello del secondo movimento. La sinfonia termina con un taglio contrappuntistico e corale di possente respiro e alla maniera di Bruckner. Secondo alcuni musicologi in questo finale si riconoscono varie presenze: da certi passaggi della Sinfonia «Oxford» di Haydn alla «Jupiter» di Mozart, dall'ultimo tempo della Seconda sinfonia di Beethoven ad alcune trovate provenienti dai Maestri Cantori di Wagner.
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DISCOGRAFIA Mahler: Sinfonia no. 5. Lieder Und Gesange Aus Der Jugendzeit. Philarmonic Symphony Orchestra di New York, dir. Bruno Walter. Naxos Historical Il CD edito dalla Naxos su matrici originali Columbia contiene la prima registrazione in assoluto della Quinta sinfonia di Gustav Mahler, diretta nel 1947 da Bruno Walter alla guida della Philharmonic Symphony Orchestra of New York; fino ad allora era stato inciso solamente l'Adagietto, eseguito nel 1938 con i Wiener Philarmoniker. Non si deve mai dimenticare che Bruno Walter fu per molti anni assistente e amico di Mahler, fu presente a molte esecuzioni dirette da Mahler stesso o da direttori da lui scelti. Fin dalle prime battute emerge subito la cifra interpretativa di Bruno Walter, in assoluto il migliore esecutore di Mahler fra i direttori "storici" della prima metà del Novecento e uno dei più grandi in assoluto: tutto è risolto nell'espressione e nel suono, non c'è spazio per eccessivi languori né ripensamenti, al contrario tutto scorre linearmente, senza frammentazioni, con grande lirismo e sentimento privi di quelle introspezioni psicologiche alle quali ci hanno abituato interpretazioni più recenti. Così la prima parte: molto chiaro l'attacco dei fiati nella marcia di apertura, tempo veloce, grande energia, ritmo sostenuto, poi mutamento di clima, ora toni lugubri che progressivamente portano ad una sorta di timor panico, suono terrificante, lo "sturmisch" viene reso correttamente con tempestoso e "mit grosster vehemenz" con la più grande potenza, in ogni caso le soluzioni sono sempre ben definite - siano esse forza, energia, violenza, terrore - senza sfumature intermedie e in uno sviluppo continuo di lirismo e melodia. Seconda parte, lo Scherzo: anche questo eseguito secondo le indicazioni dell'Autore, forte e non troppo veloce, reso semmai con una certa esuberanza grazie al virtuosismo delle singole sezioni, in particolare delle prime parti dei clarinetti e dei tromboni, oltre allo stupendo pizzicato eseguito dal primo violino. Terza parte: l'attacco del famoso Adagietto è reso da Walter con grandissima partecipazione, violini, viole e violoncelli gareggiano, su piani diversi, in bravura e intensità, fino allo spasimo, alla lacerazione del suono, sempre più angosciante, fino all'entrata dell'arpa che riporta un momento di serenità. Infine il Rondò conclusivo: il virtuosismo dei legni introduce il nuovo tema ripreso quindi dagli archi e dall'intera orchestra, si torna al tema precedente contenuto nell'Adagietto che si sviluppa nella coda finale, con un'orchestra quasi ossessiva e martellante. Il CD contiene anche la registrazione di otto lieder prevalentemente tratti dalla raccolta Des Knaben Wunderhorn, registrati sempre nel 1947, affidati a Desi Halban accompagnata al piano dallo stesso [68]
Bruno Walter: la voce del soprano non è particolarmente aggraziata, ma l'espressività e la fantasia dell'interprete sono notevoli, al pari della brillantezza sfoggiata da Walter al piano. Un cd che deve essere incluso nella discoteca di qualsiasi Mahleriano doc! Mahler: Symphonie n° 5 Wiener Philarmoniker, dir. Leonard Bernstein. Deutsche Grammophon Sono passati quasi 35 anni da quando Leonard Bernstein, il 7 settembre 1987, registrò dal vivo con i Wiener Philharmoniker, dall'Alte Oper di Francoforte sul Meno, la Quinta di Mahler, una delle migliori registrazioni della Sinfonia mahleriana. Era una grande interpretazione allora, e lo è ancora oggi: una combinazione senza tempo di direzione ispirata e magnifica esecuzione orchestrale da parte di una delle migliori orchestre del mondo in splendida forma. Ci sono dei momenti davvero indimenticabili: chi oltre a Lenny avrebbe potuto evocare l'ascesa orgasmica al glorioso climax ricoperto di ottone del secondo movimento? L'Adagietto è lento, ma sostenuto dal senso flessibile del fraseggio di Bernstein e dalle incantevoli sonorità degli archi. Ricordo che esiste anche una bellissima registrazione di Bernstein del 1960, ma ritengo che questa le sia superiore su tutti gli aspetti. Gustav Mahler: 5° Symphonie Berliner Philharmoniker, dir. Herbert von Karajan. Deutsche Grammophon Nel 1973, per la prima volta nella sua vita, Karajan incide con la DG, la Quinta di Mahler. Karajan si accostò assai tardi a questo compositore, soltanto a metà degli anni ‘70 (quindi aveva compiuto già 65 anni). Cos̀ il grande direttore austriaco giustificava questo ritardo: «Io ho fatto un lungo giro intorno a Mahler. Certamente perché non possedevo ancora la gamma completa dei suoi colori, e perché avevo ancora bisogno di trovare quello specifico suono-Mahler. Con Mahler il passo tra la profondità e il ridicolo è molto piccolo. Non credo che dirigerò tutte le sinfonie di Mahler, perché non ho più tempo. Me ne mancano adesso ancora cinque, e la mia vita [69]
non basta, lo so». E fu così: di Mahler, Karajan ha registrato solo le Sinfonie nn. 4, 5, 6 e 9, oltre a “Das Lied von der Erde”. Interessante quello che racconta Hans Weber, il produttore discografico della Quinta di Mahler incisa nel 1973 da Karajan per la DG: «Questa registrazione fu la prima incisione di un’opera di Mahler mai effettuata da Karajan in quanto prima di allora - siamo agli inizi degli anni ’70 - aveva rifiutato ogni proposta riguardante l’esecuzione in concerto o la registrazione di sinfonie mahleriane, nonostante ne avesse un’intima conoscenza, e cì a causa del lungo lavoro di preparazione che avrebbe richiesto. La prima esecuzione con i Filarmonici di Berlino avvenne nel 1973 e fu preceduta da due anni di prove, da una registrazione sperimentale e molto più tardi, dalla presente incisione. Il lavoro sulla Quinta si estese nell’arco di sette sedute che si protraevano oltre le tre ore. Con Karajan a volte dovemmo comportarci con grande circospezione e diplomazia perché il Maestro era piuttosto riluttante a registrare nuovamente passaggi che il produttore giudicava insoddisfacenti. D’altro canto, in quell’occasione eravamo tutti alquanto irritati dalle interruzioni causate dall’atterraggio e dal decollo degli aerei nel vicino aeroporto di Tempethof, e inoltre la cabina di regia era purtroppo invisibile dalla navata della chiesa ove lavoravano i musicisti, così che potevamo contattarli solo per telefono. Per solito Karajan non insisteva ad approvare personalmente il master di una registrazione: in questo caso però, lo ricordo tutto intento ad ascoltare il nastro in uno studio vicino a Colonia, subito dopo aver diretto la prima incisione mondiale di “De temporum fine comoedia” di Carl Orff. Ci aveva raggiunti anche Orff che era venuto per ascoltare i nastri della sua opera: quando entrò nello studio, fu accolto dalle note della Quinta di Mahler e dalle grandi esclamazioni di delizia di Karajan nell’udire di quanto alta fosse la qualità della sua incisione. Orff non ne sembrò affatto divertito.» Amo moltissimo questa meravigliosa incisione di Karajan, una lettura molto fine della sinfonia, sontuosamente registrata e rimasterizzata dagli ingegneri del suono. Un suono tra i migliori ascoltati in registrazioni Deutsche Grammophon. L’ascolto del disco (ADD, 1973, rimasterizzazione del 1996) evidenzia il virtuosismo dei Berliner Philharmoniker (con nessuna altra orchestra Karajan si sarebbe impegnato a dirigere Mahler, grande direttore a sua volta) e la grande bravura degli archi e degli ottoni. Una esecuzione affascinante per interpretazione, dettaglio, timbrica, dinamica e scena sonora dove Karajan, nell’Adagietto riesce ad essere “diversamente romantico” rispetto alla struggente bellezza dell’interpretazione di Bernstein. Insomma, l’oblio dell’Adagietto (che in Bernstein ̀ dilatato) qui ̀ più contenuto ma in entrambi i casi la musica avvolge e coinvolge per bellezza. Il Mahler di Karajan ha una impalcatura sonora ed interpretativa di eccezionale bellezza, che può essere tranquillamente situata accanto alle grandi interpretazioni di Abbado, Bernstein, Barbirolli e Solti. [70]
Mahler: Symphony n° 5 New Philharmonia Orchestra, dir. Sir John Barbirolli. Emi Classics Questa è senza alcun dubbio una delle edizioni di riferimento della Quinta di Mahler, tra le migliori. Sir Barbirolli è un po' bistrattato dagli appassionati italiani, ma a mio avviso qui ha pochissimi rivali; anche la New Philharmonia Orchestra suona in modo splendido. Barbirolli interpreta il primo e il secondo movimento molto più lentamente del solito, ma senza ritardare il ritmo o lasciare che le frasi scomparissero. Ascoltate ad esempio la marcia funebre del primo movimento, che Barbirolli fa suonare anche più silenziosa di altri e che diventa così ancora più sensibile. Nell'enorme Scherzo, Barbirolli valorizza ogni sfumatura di colore e suono di questo movimento, e l'intensità degli assoli dei corni è particolarmente impressionante. Nell’Adagietto l’orchestra suona dolcemente, silenziosamente, ma non è mai troppo patetica. Il finale gode di splendore, trionfo e gioia sotto le mani di Barbirolli. Nonostante abbia più di cinquant’anni, la registrazione, rimasterizzata in digitale nel 1998, è chiara e luminosa come quella delle registrazioni moderne, con le infinite sfumature delle sinfonie mahleriane che sembrano davvero non bastare mai. Da avere assolutamente! Gustav Mahler: Symphonie n° 5 Chicago Symphony Orchestra, dir. Claudio Abbado. Deutsche Grammophon Esiste anche un interpretazione di Abbado della Quinta di Mahler con i Berliner Philharmoniker, un po’ troppo purificata e lucente sino a diventare quasi blanda e insapore, senza quel senso di “nervosismo” che la musica di Mahler possiede. Questa performance con la Chicago Symphony Orchestra è nettamente superiore (quindi più consigliabile) per intensità e timbro. Abbado arriverà al culmine della sua lettura della Quinta con l’Orchestra del Festival di Lucerna, una performance meravigliosa! Molto soddisfacente la qualità del suono.
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Mahler: Symphony n° 5 Chicago Symphony Orchestra, dir. Sir Georg Solti. Decca Questa registrazione dal vivo del 30 novembre 1990 è stata effettuata al Musikverein di Vienna, vent'anni dopo che Sir Georg Solti aveva già inciso questa Quinta Sinfonia al Tempio di Medinah nel marzo 1970 con la stessa orchestra di Chicago. La leggendaria disciplina dei musicisti americani si riflette qui in una lettura virtuosa, espansiva e sensibile. Il movimento Trauermusik di apertura è misurato e pesante, la sua sezione centrale minacciosa e pericolosa, uno stato d'animo che pervade anche il secondo movimento. Lo Scherzo è audace ed energico, all'inizio sembra un po' pesante, ma l'ascoltatore riconosce poi che Solti sta seguendo i segni di Mahler: «kräftig, nicht zu schnell», costruendo lentamente; i passaggi del valzer si sollevano, si librano leggeri. L'Adagietto è ben suonato e non troppo lento, solo un po' rallentato, ha un'atmosfera davvero paradisiaca (il sottile vibrato delle corde...) che sonda le profondità di malinconia; l'unica tosse che ho sentito in tutta la performance live invade solo una volta all'inizio; altrimenti il pubblico è silenzioso fino all'esplosione di applausi che segue le grandiloquenti ultime battute del robusto Finale. Questa registrazione ha un'enorme gamma dinamica e una grande enfasi sugli strumenti in ottone, a volte sin troppo travolgenti. Nella registrazione degli anni '70 i tempi erano impetuosamente oscillanti, ma se si preferisce un approccio più espansivo ed epico, questa performance è qualcosa di molto speciale e sicuramente meglio registrata. Gli ingegneri del suono hanno catturato con grande successo l'atmosfera spaziosa della sala concerti Musikverein; dell’orchestra emerge chiaramente ogni particolare e anche la gamma dinamica è molto bella da ascoltare. Foto di copertina un pochino ridicola ma ormai "entrata nella storia"...! Gustav Mahler: Symphony n° 5 Symphonie Orchester des Bayerischen Rundfunks , dir. Rafael Kubelik. Audite Il catalogo della "piccola" etichetta Audite presenta la Quinta sinfonia di Mahler registrata da Rafael Kubelik il 12 giugno 1981 alla testa dell'Orchestra (la sua) sinfonica della Radio bavarese. Questa performance registrata dal vivo nella Herkulessaal nel 1981 è davvero molto bella: la registrazione è davvero molto buona e conferma il grande valore (per alcuni addirittura superiore) di questo ciclo live rispetto alle incisioni in studio firmate dallo stesso direttore con la stessa affiatata [72]
orchestra per la Deutsche Grammophon (tuttora disponibile in cofanetto). Fiati in primo piano, archi meno lussureggianti del solito ma sempre ottimi. Kubelik e il BRSO non mancano mai di impressionare quando si tratta di Mahler, e che magnifica musica questa è quando viene suonata - come è qui - con tanta passione ardente e totale impegno! La lettura di Kubelik (direttore dall'anima centro-europea, comune anche alla formazione mahleriana) è come sempre un prodigio di chiarezza e dinamicità: la grande mobilità ritmica è una meraviglia che pochi maestri sanno davvero gestire. Kubelik adotta tempi più misurati che nella sua pur eccellente registrazione in studio per la Deutsche Grammophon, ma questa registrazione dal vivo è positivamente pulsante di vita, energia e angoscia mahleriana. La musica è a volte emozionante e si percepisce un brivido di eccitazione e sensazione di novità che si sperimenta solo con le migliori registrazioni dal vivo. Da sottolineare l’interpretazione dello Scherzo interamente pervaso dal ritmo del Ländler. Mahler: Symphony n° 5. Kindertotenlieder. NDR Symphonie Orchestrer, dir. Klaus Tennstedt. Vidol La carriera discografica di Klaus Tennstedt, tra i grandi interpreti mahleriani, durò appena 20 anni, ma abbiamo fortunatamente, come questo CD, a disposizione etichette specializzate nelle registrazioni dal vivo prese da vari archivi. Tennstedt esplode sin dal movimento di apertura, ha fiamma di rabbia e la «veemenza estrema» richiesta da Mahler nel secondo, presenta il rubato più scontroso nel terzo movimento, va oltre la cima nel famoso Adagio e attraversa il finale con vigore, energia e nessun piccolo segno di gioia. La sinfonia è stata registrata dalla NDR (all'apice della sua bravura) e rimasterizzato con un eccellente suono DDD in una bella acustica. Cè un ulteriore gioiello: la performance di Kindertotenlieder registrata nel novembre 1980 nella Kieler Schloss in cui la solista è Brigitte Fassbaender. Mahler: Symphony n° 5 Concertgebouw Orchestra, dir. Bernard Haitink. Philips
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Haitink ci ha lasciato un ciclo incompleto su Mahler con i Berliner negli anni Ottanta, in cui mancano solo le Sinfonie nn. 8 e 9. Le recensioni del tempo erano molto buone ma meno critiche di quelle moderne, che hanno riscontrato molte più pecche. Limitandoci alla quinta, riscontriamo una buona interpretazione generale (l’orchestra era il Concertgebouw!) con un buon suono. Il lato negativo di questa interpretazione è che manca una corrispondenza con i cambiamenti di temperamento ed eccitazione nervosa che la musica di Mahler impone. Infine questa Quinta è stato considerata troppo lenta. Il suono Philips è molto raffinato. Mahler: Symphony n° 5 Wiener Philharmoniker, dir. Pierre Boulez. Deutsche Grammophon La Quinta di Mahler può dare luogo ad interpretazioni ed esecuzioni assai diverse, quale è questa di Boulez. Boulez arriva a quella chiarezza cristallina che era l'intento di Mahler il quale sosteneva che tutte le note scritte devono poter essere ascoltate: se ciò non accade allora vuol dire che il tempo è sbagliato. Nell'Adagietto Boulez riesce 'ad essere romantico' senza essere romantico. Su tutto, la bravura degli orchestrali viennesi con una qualità del suono che Mahler stesso avrebbe amato. Un disco da ascoltare senza preconcetti e con la mente aperta. Mahler: Symphony n° 5 London Symphony Orchestra, dir. Valery Gergiev. Decca Gergiev e l'LSO hanno creato un ciclo Mahler degno di nota e memorabile. Questa versione della Quinta Sinfonia è tra le migliori: Gergiev ne ha colto le sonorità oscure e ardenti e la sua interpretazione si confronta favorevolmente con le altre grandi incisioni di questa Sinfonia. Quello che si sente in questo CD è un Mahler intenso, vario e totalmente impegnato. L'LSO suona con
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virtuosismo e comunicazione sorprendenti, e il suo suono pesante e profondo
potrebbe
effettivamente rendere questa versione tra le più interessanti da acquistare. Per quanto riguarda i contorni dell'interpretazione, ciò che fa risaltare Gergiev non è niente di insolito nei suoi tempi o nei suoi equilibri. Cattura la qualità funerea del primo movimento ed evidenzia l'influenza dell'eredità ebraica di Mahler nella scrittura a fiato; all'Adagietto viene data una lettura silenziosa e riflessiva, né veloce né lenta. Questa è una Quinta avvincente e molto personale che si colloca tra le migliori; se non si è mai sentito il Mahler di Gergiev, non c'è incisione migliore per iniziare. La registrazione si espande in ampiezza sullo strato SACD multicanale, dove ha un impatto formidabile. Mahler: Symphony n° 5 Berliner Philharmoniker, dir. Simon Rattle. Warner Classics Quando Sir Simon Rattle assunse la guida della Filarmonica di Berlino, aveva una lunga storia come esecutore di Mahler. È stata quindi una decisione naturale celebrare l'inizio del suo mandato registrando la 5a, l'unica sinfonia di Mahler che non aveva registrato in precedenza. In questa registrazione la direzione di Rattle fa rabbrividire di desolata disperazione. Prende la marcia dei funerali di apertura con un'aria decisamente triste, non del tutto tragica; non punta sull'abbandono totale, l'atmosfera è inquietante, oscura e ambigua, con accordi che sono espressi per avere un effetto penetrante. L'atmosfera è più o meno la stessa nel 2 ° movimento, dove la musica è cupa e disperata. Il momento clou del 3° movimento è l'incomparabile assolo di corno di Stefan Dohr. L'Adagietto sembra suonare da solo, con il suono incomparabile dei Berliner. Nel finale, Rattle dimostra una veemenza forse sin troppo controllata, ma profonda come non mai. Una Sinfonia molto avvincente. La qualità della registrazione è molto buona.
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VIDEO Mahler: Symphony n° 5 Lucerne Festival Orchestra, dir. Claudio Abbado. Euroarts (DVD) Questo è un DVD semplicemente meraviglioso, con un grande Claudio Abbado, per il quale è sempre difficile esprimere lodi adeguate al merito della sua immensa arte. I primi due movimenti di questa sinfonia sono estremamente drammatici e appassionati. Se vengono interpretati, come qui, proprio come Mahler li aveva scritti, dimostrano in pieno la drammaticità che posseggono. L’Adagietto ̀ più veloce (quasi quattro minuti più corto) rispetto alla versione con i Chicago, negli Scherzo e Finale risaltano le variazioni dei tempi volute da Abbado per
chiarire nei minimi
particolari la struttura. In tutti i movimenti l'orchestra segue splendidamente il suo direttore. In questa registrazione il video mostra in modo ravvicinato i solisti o le sezioni dell'orchestra che suonano le parti dominanti: così anche la macchina da presa funziona seguendo la composizione, sapendo con precisione chi e che cosa interpreta in quel determinato momento. Ed è tecnicamente la migliore registrazione audio della Quinta di Mahler che abbia mai sentito! Una delle grandi edizioni di riferimento della Quinta mahleriana, a giudizio unanime di tutti i critici. Da avere e ascoltare con entusiasmo!
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L'incendio del Teatro La Fenice di Venezia La notte del 29 gennaio 1996 un disastroso incendio doloso distrusse a Venezia il Teatro La Fenice, uno dei simboli della città, uno dei teatri più belli, dalla straordinaria acustica e protagonista da sempre della vita operistica, musicale e culturale italiana ed europea. Una notte terribile il cui ricordo è ancora vivo nella memoria dei veneziani. Sono le 20.59 quando una pattuglia della Volante della Polizia, passando per caso dalle parti del Teatro, che è in restauro, vede del fumo uscirne e sente i crepitii del fuoco: gli uomini allertano immediatamente i soccorsi. Nel frattempo arrivano altre telefonate alla Sala Operativa dei Vigili del Fuoco di Venezia che informano sulla presenza di un fumo denso e acre provenire da Corte San Gaetano, un piccolo campiello che si affaccia sul Teatro La Fenice. Dopo pochissimi minuti le squadre dei Vigili del Fuoco giungono sul posto: l’incendio si sta propagando velocemente e in pochi minuti ha già devastato tutto il primo piano. Le fiamme fuoriescono dai balconi e lambiscono gli edifici vicini, le calli in quella zona sono molto strette, si cerca di circoscrivere l’incendio impedendo che questo si propaghi anche agli edifici adiacenti. Arrivano anche le squadre dei Vigili del fuoco di Mestre, Treviso e Padova, ed accorrono anche pompieri fuori servizio, che hanno saputo del drammatico evento in corso. Le squadre, non potendo entrare nel Teatro dal Foyer devastato dalle fiamme, tentano di fermare l’incendio dalle Sale Apollinee che si affacciano in Campo San Fantin: le finestre sono per̀ chiuse da grossi balconi alti un paio di metri e, nel tempo impiegato per aprirli, le fiamme continuano a propagarsi. Una volta aperti i balconi i pompieri vedono che le sale sono completamente invase dal fuoco: è impossibile fermarle. Anche una buona parte dei palchi è semidistrutta. In breve tempo le fiamme raggiungono il soffitto delle sale e velocemente aggrediscono il tetto. Il cielo di Venezia si colora di un rosso spettrale. I tizzoni infuocati iniziano a volare sopra i tetti di Venezia anche a causa del forte vento: un nuovo problema, vi è paura che questi tizzoni possano in qualche modo innescare l’incendio sui tetti della città. A questo punto, il Comandante dei Vigili dà l’ordine che nessuno entri più nel teatro e che le squadre si posizionino tutte attorno all’edificio sia nelle strette calli sia sui tetti delle case adiacenti al teatro, in modo da controllare che l’incendio non si propaghi. La cosa non ̀ facile, Venezia ha una struttura architettonica molto particolare, l’intera città corre un rischio molto serio di devastazione di dimensioni inimmaginabili. Un ulteriore problema ̀ quello dell’acqua. In quel periodo il Comune di Venezia aveva deciso, con la chiusura provvisoria del teatro, di provvedere all’escavo dei rii attorno all’insula della Fenice. L’insula si trova nel cuore del centro storico e i quattro canali che la circondano sono chiusi. A causa di questo le autopompe lagunari non possono posizionarsi nella parte posteriore del Teatro.
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Per risolvere questo problema, viene deciso di far intervenire la motopompa della Marittima, che viene fatto attraccare nell’approdo più vicino, Santa Maria Del Giglio, che dista centinaia di metri dal luogo dell’intervento. Per realizzare la rete di tubazioni ci sono voluti molti minuti. Alle 22.13 crolla il tetto della scenografia e dopo 45 minuti crolla anche il tetto della platea. Alle 23.05 i soccorritori utilizzano un elicottero al quale è stata agganciato un serbatoio di mille litri, un’apparecchiatura che di solito è usata per lo spegnimento degli incendi boschivi. Il suo utilizzo è un’incognita e un rischio: volare di notte sopra i tetti di una città già ̀ difficile di giorno e di notte ̀ ancora peggio, mancano punti di riferimento e i tetti delle case di Venezia non sono tutti alla stessa altezza, ci sono le antenne, i camini. Per 122 volte l’elicottero fa la spola dall’adiacente Bacino di San Marco al Teatro, sul quale ogni tre minuti sgancia mille litri d’acqua. Il suo contributo sarà determinate anche per bagnare i tetti degli edifici adiacenti evitando la propagazione delle fiamme. Ci vorranno circa dieci ore per avere ragione dell’incendio. Alle prime luci dell’alba il teatro si presenta con un’enorme scatola vuota, la polvere, i calcinacci, le travi bruciate e l’acqua grigia che esce dal teatro. Il fumo acre e denso nasconde ncora dei focolai che bisogna estinguere, per giorni i vigili del fuoco veglieranno sulle rovine del teatro. Sullo sfondo la città di Venezia, rimasta stordita dalla tragedia.
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I responsabili dell'incendio furono in seguito individuati e condannati ad una pena detentiva. Un imprenditore, E.C., e il suo cugino e dipendente elettricista M. M., con la loro ditta stavano lavorando alla manutenzione del teatro e, per non incorrere in una penale dovuta ai ritardi accumulati dalla propria impresa, avevano deciso di causare un piccolo incendio per provocare un ritardo imputabile a causa di forza maggiore. Il Comune decide di ricostruire lo storico teatro ispirandosi al motto «com'era, dov'era», ripreso dalla ricostruzione del Campanile di San Marco. Viene istituita la figura del Commissario Delegato per la ricostruzione che viene affidata, mediante bando di gara, alla A.T.I. Holzmann col progetto del noto architetto Aldo Rossi.
I lavori furono molto lenti, e nel 2001 il Commissario per la ricostruzione decise di rescindere il contratto con la A.T.I. Holzmann, che aveva continuato a prorogare la data di conclusione dei lavori. Nel 2001 fu indetto un nuovo bando, vinto da un consorzio di quattro imprese, che finirono i lavori nel maggio del 2004: la Fenice venne alla fine ricostruita, com’era e dov’era!, e venne decisa la inaugurazione che avvenne il 14 dicembre 2003, alla presenza, nel palco reale, del Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi ed in diretta televisiva. La direzione del primo concerto inaugurale fu affidata a Riccardo Muti con l’Orchestra e il Coro del Teatro La Fenice. Il concerto si avviò con una pagina dal significato beneaugurante: La consacrazione della casa di Ludwig van Beethoven, cui seguì un programma improntato alla grande tradizione della civiltà musicale veneziana: la Sinfonia di Salmi di Igor Stravinskij, compositore che riposa nel cimitero dell’Isola di San Michele, seguita dal Te Deum di Antonio Caldara, compositore veneziano e [80]
protagonista della vita artistica della città lagunare tra il 600 e il 700; infine Tre Marce Sinfoniche di Richard Wagner, legatissimo a Venezia per avervi soggiornato varie volte e per avervi composto il secondo atto di Tristan und Isolde e parte di Parsifal oltre che diretto una sua sinfonia giovanile nel 1882 alle Sale Apollinee della Fenice. I solisti vocali furono Patrizia Ciofi, Sara Allegretta, Sonia Ganassi, Sara Mingardo, Mirko Guadagnini, Roberto Saccà, Michele Pertusi, Nicolas Rivenq.
[14 dicembre 2003: Panoramica del Teatro e il saluto del Maestro Riccardo Muti.]
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La Ricostruzione del Teatro. Il “nuovo” Teatro La Fenice si presenta adesso così:
La facciata principale del Teatro prospetta sul Campo San Fantin: da qui avviene l'ingresso principale degli spettatori. Al piano terreno vi sono l'atrio ed il foyeur, dal quale, mediante lo scalone d'onore, si giunge alle Sale Apollinee.
[Esterno del Teatro, in Campo San Fantin; ingresso e Foyeur]
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Il restauro delle Sale Apollinee, gravemente danneggiate nell’incendio, è consistito in un intervento conservativo delle parti residue ed una ricostruzione filologica di quelle rimanenti. Nel restauro dei decori si è tenuto conto della loro stratificazione e modificazione in modo da permettere una lettura anche visiva della storia dell’edificio mantenendo anche quelle sopravvissute all’incendio. Nel sottotetto, liberato dalla sua antica destinazione di laboratorio scenografico, è stata ricavata una nuova sala espositiva aperta al pubblico, che si presta alla realizzazione di manifestazioni culturali. La Sala Grande è la principale delle cinque Sale Apollinee: è illuminata da tre finestre che si trovano al centro della facciata d'ingresso. La sala teatrale completamente distrutta dall'incendio è caratterizzata da una ricostruzione filologica basata, sul rigoroso «com'era, dov'era», con il mantenimento di tutti i cinque ordini di palchi, corredati del medesimo apparato decorativo in cartapesta e legno. Il concetto informatore è stato quello di riproporre la sala originaria soprattutto nella sua specifica soluzione tecnica, basata sul prevalente uso del legno accuratamente scelto e sapientemente trattato per ottenere la migliore resa acustica. Il progetto ha dato luogo anche al ripristino dell'originario accesso alla sala teatrale dalla cosiddetta “entrata d'acqua” dal rio prospiciente il teatro. Tale accesso, originariamente voluto dal Selva, nel corso del tempo non era più stato utilizzato dagli spettatori. Nel piano sottoplatea sono state ricavate alcune sale prova per gli strumentisti che consentono ai professori d'orchestra di accedere al golfo mistico senza interferire con la sala. La modifica del sistema delle vie di fuga, oltre che l'adeguamento degli impianti, ha inoltre consentito di portare il numero degli spettatori ammissibili dagli 840, precedenti all'incendio, a 1000 posti. La Torre Scenica è stata anch'essa devastata dall'incendio del 1996 ed il suo volume architettonico è vincolato alla configurazione precedente. La nuova macchina scenica, completamente rinnovata nell'ottica del miglioramento delle caratteristiche tecnologiche del teatro, collabora con le strutture murarie ed è stata progettata contestualmente all'Ala Nord per permettere il massimo utilizzo del palcoscenico e dei vani attigui idonei al ricovero delle scene. In tale ottica è stato realizzato un nuovo palcoscenico laterale che potrà traslare sul principale, ottenuto grazie alla demolizione dei preesistenti archi ad ogiva che delimitavano lo spazio scenico. L’Ala Nord (camerini e servizi) ̀ il nucleo edilizio addossato al teatro vero e proprio, anch'esso danneggiato nell'incendio. In mancanza di strutture storiche di rilievo sono stati completamente ridisegnati i servizi teatrali tenendo conto delle esigenze funzionali del teatro stesso (spogliatoi, camerini, sale prova) razionalizzando ed adeguando alle norme vigenti scale di sicurezza ed i sistemi di risalita in generale.
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[Sale Apollinee: Sala grande] [84]
[Sala teatrale]
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[Palco Reale]
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L’Ala Sud anch'essa danneggiata nell'incendio, contiene, oltre agli uffici gestionali del Teatro, riposizionati ed organizzati, il segno architettonico più forte nella ricostruzione, la Sala Nuova, ora chiamata Sala Rossi. Tale sala è composta di una zona in piano per l'orchestra, e di un ballatoio a gradoni per i coristi o per il pubblico durante l'esecuzione di concerti da camera o conferenze. E’ caratterizzata dalla quinta scenografica interna che riproduce un frammento della Basilica Palladiana di Vicenza. La Sala Nuova può essere usata autonomamente con accesso dalla calle prospiciente il Rio de la Fenice: possono avervi luogo anche concerti da camera e conferenze, ampliando così le funzionalità della Fenice, e diventando quindi un altro importante polo delle attività del corpo teatrale al servizio della città.
(Le foto del Concerto inaugurale e degli interni del Teatro La Fenice sono di Michele Crosera)
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La musica organistica dell’800 francese di Paolo Duprè Proseguiamo il nostro percorso sulla musica organistica toccando uno degli argomenti più cari ad ogni esecutore: la musica francese dell’800. Un capitolo importante e vastissimo che comprende circa un terzo di quanto sia stato scritto per l’organo (un altro terzo appartiene a Bach e l’ultimo a tutti gli altri autori). Questo ha prodotto la Francia a cavallo fra ‘800 e ‘900: tanti i compositori e di altissimo spessore, capaci di improvvisare sinfonie, di eseguire a memoria tutta l’opera di Bach, di portare il bagaglio romantico a spalancarsi nel moderno e nelle avanguardie, disponendo peraltro di strumenti sinfonici grandiosi, spesso ricostruiti conservando materiale fonico antecedente di pregio ed utilizzando validi servomeccanismi che permettessero di gestire rapidamente ed efficacemente la grande quantità di timbri o di suonare agevolmente tasti che vincessero la più alta pressione dell’aria nei somieri (la cosiddetta leva pneumatica Barker installata da costruttori quali Cavaillè-Coll).
[Alexandre Guilmant alla Trinité, Parigi]
[César Franck a Santa Clotilde, Parigi]
Questi autori innoveranno la scuola organistica francese iniziando da François Benoist, che insegnerà per decenni al Conservatorio di Parigi fino al 1871, esercitando grande influsso sui giovani musicisti. Con la generazione di fine secolo – pensiamo a Franck e ai suoi allievi, a Widor, Boëllmann, Gigout, Dubois, Vierne – verrà così magnificato un repertorio che conoscerà una fioritura mai raggiunta in termini di quantità, varietà e qualità, in cui lo strumento entrerà anche nell’orchestra (Symphonie avec orgue di Saint-Saëns, Fantaisie triomphale di Dubois, Messe Solemnelle di Vierne ecc). Ma andiamo per gradi: incontriamo i principali Autori nel ruolo di insegnanti di composizione o di organo principale al Conservatorio di Parigi (CNSDP, Conservatoire National Superieur de Paris) e contemporaneamente titolari di importanti strumenti della capitale. [88]
[Louis Vierne a Notre Dame]
[Charles Marie Widor a S.Sulpice]
Ogni maestro produsse almeno un allievo degno del suo nome che presto divenne titolare della cattedra e trasmise gusto e genialità ai successori , in un crescendo che arrriverà fino a Marcel Duprè, morto nel 1974.
François Benoist
Cesar Franck Cattedra d’orga o e co posizio e Organista alla Trinité
Theodore Dubois Cattedra di composizione Organista alla Maddeleine
Charles Marie Widor Organista a St Sulpice Maestro di
Alexandre Guilmant Organista alla Trinité dopo Franck Louis Vierne (insegna come assistente 9 anni) Organista a Notre Dame
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Eugène Gigout Allievo di Saint-Saens Marcel Dupré Organista a St Sulpice dopo Widor
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Maestro di
♫♫ Ed ora esaminiamo singolarmente ogni autore iniziando da César Franck. Nato a Liegi nel 1822, all’età di 13 anni ̀ già buon conoscitore della armonia musicale e lo troviamo a Parigi come allievo di Antonín Reicha, il professore di Berlioz, di Liszt e di Gounod. A 16 anni vince il primo premio per la classe di pianoforte e a 17 per quella di contrappunto. Rientra in Belgio e si dedica alla composizione fino all’età di 23 anni quando tornerà a Parigi. A 30 anni diviene organista presso la nuova basilica delle Sante Clotilde e Valeria, dove inaugura il a 37 anni, nel 1859 uno dei più begli strumenti della manifattura d'organi Aristide Cavaillé-Coll. Resterà ivi titolare fino alla morte. Nel 1871 è nominato professore d'organo al conservatorio di Parigi in sostituzione di François Benoist. Tra il 1874 e la sua morte, avvenuta nel 1890 comporrà oratori, opere per pianoforte, quartetti d'archi, sonate per violino, balletti, poemi e variazioni sinfoniche, pièces diverse per organo. Queste ultime rappresentano appieno il suo spirito creativo e la sincerità ed umanità della sua persona.
[Organo della Chiesa della Trinité a Parigi] Le composizioni di Franck si segnalano per la complessità del contrappunto, le modulazioni frequenti e le forti influenze romantiche, da Liszt e Wagner. Franck ha messo a punto quella forma ciclica (ereditata da Franz Liszt) che, a mezzo del ritorno dei temi da un movimento all'altro e la loro sovrapposizione nel finale, tenta di assicurare la massima coesione alla struttura compositiva. Non molte le composizioni organistiche, ma tutte di altissimo valore per bellezza e complessità esecutiva, tenuto conto della trama contrappuntistica e dell’estensione della scrittura, che si confaceva all’ampiezza delle mani dell’autore, che riuscivano agevolmente a coprire un intervallo di dodicesima. Da ascoltare assolutamente il Prelude fugue et variations, la Pièce heroique, il Final, la Grand pièce simphonique ed i tre corali, tra le ultime opere scritte. Interpretazione imperdibile quella di Jeanne Demessieux degli anni sessanta nell’Eglise della Madeleine a Parigi. Non va dimenticato infine che la conoscenza di tutta l’opera di Franck ̀ obbligatoria nei conservatori italiani ai fini del conseguimento del Diploma in organo. ♫♫ [90]
Veniamo quindi a Charles Marie Widor uno dei fondatori della scuola organistica francese. Nacque a Lione nel 1844 e studiò musica nella
sua
città
natale,
grazie
agli
insegnamenti di suo padre, organista. Svolse ulteriori studi a Bruxelles: studiò organo presso uno dei più rinomati organisti del suo tempo, Jacques-Nicolas Lemmens.
[Widor alla consolle di St. Sulpice a Parigi]
A 24 anni divenne assistente di Saint-Saens nella chiesa della Madeleine a Parigi ed a 26, per le pressioni combinate di Cavaillé_Coll, Charles Gounod e Saint-Saens stesso, fu nominato organista del grande della chiesa parrocchiale di Saint Sulpice, un impegno che svolgerà per ben 64 anni (gli successe nel 1934 Marcel Dupré). Le capacità spettacolari di quello strumento diverranno una grande fonte di ispirazione per Widor. A 46 anni subentrò come professore d'organo al Conservatorio di Parigi al posto di César Franck e vi divenne in seguito docente di composizione. Tra i suoi studenti, Louis Vierne, Arthur Honegger, Charles Tournemire, Darius Milhaud, Marcel Dupré ed Albert Schweitzer. Tra le sue composizioni ci sono innumerevoli opere organistiche, tra cui dieci sinfonie per organo, delle quali la quinta e la sesta sono le più conosciute. Scrisse inoltre messe, opere liriche, balletti, musica vocale, musica da camera e orchestrale ma di tutta la produzione oggigiorno soltanto le sue opere per organo sono eseguite con continuità. Tornando alle sinfonie per organo esse sono il suo più significativo contributo al repertorio organistico. Un passaggio della celebre toccata dalla quinta sinfonia per organo. Tale toccata è una delle prime della musica romantica francese e servì da modello per le opere successive di Gigout, Mulet , Boelmann, Dupré e Vierne. Widor era orgoglioso della fama che acquisì ovunque, lo infastidiva la rapidità con la quale gli organisti la imparavano e l’eccessiva velocità con la quale la eseguivano. E’ insolito che ad un’opera scritta per uno strumento venga assegnato il nome di sinfonia: Widor fu in prima linea in tal senso. Lo strumento di St. Sulpice non aveva sonorità barocche chiare e nitide per dar risalto alla trama contrappuntistica, al contrario voci orchestrali calde che estendevano i timbri dello strumento permettendo crescendo e diminuendo senza pari ed incoraggiando una scrittura sinfonica. Le prime quattro sinfonie, op. 13, sono più propriamente denominate Suite, e [91]
rappresentano il primo stile di Widor; le successive quattro, op. 42, le più note sono la V e VlI, sono il massimo della esperienza contrappuntistica e delle capacità di esplorazione dello strumento. Più introspettive la nona e la decima (“Gotica” e “Romana”). Il secondo movimento della Gotica, “andante sostento” era uno dei pezzi preferiti di Widor. Widor mori a Parigi a 94 anni, ed è sepolto nella chiesa di St. Sulpice che onorò per più di mezzo secolo col suo servizio, inizialmente ritenuto “provvisorio”! ♫♫ Quanto ad Alexandre Guilmant, nato a Meudon nel 1837 , sappiamo che venne nominato a 34 anni organista della chiesa della Sainte-Trinité a Parigi. Assieme a Vincent d'Indy e Charles Bordes fondò nel 1896 a Parigi la Schola Cantorum
succedendo a Charles-Marie Widor nella
cattedra d'organo del Conservatorio di Parigi.
Guilmant fu conosciuto per la sua capacità di improvvisare sia durante le celebrazioni ecclesiastiche che in concerto, ispirandosi frequentemente a temi gregoriani ed era molto noto fra i colleghi per la padronanza delle melodie. Seguì dunque la carriera di virtuoso che lo portò a tournée negli Stati Uniti, Canada ed Europa. In America tenne più di 40 concerti compreso quello all’organo della esposizione organistica di St. Louis, il più grande del mondo (ora a Filadelfia, meglio conosciuto come Wanamaker organ). Come insegnante si distinse per la sua gentilezza e per l’attenzione ai dettagli: l’attacco, il rilascio ed il carattere del suono. Marcel Dupré fu il più celebrato fra i suoi allievi, fra i quali si ricordano anche Augustin Barié, Joseph Bonnet, e altri. Dedic̀ quasi completamente la sua opera al suo strumento, l’organo, e cur̀, assieme a André Pirro, l'edizione degli Archives des Maîtres de l'Orgue, una raccolta di spartiti organistici dedicata agli autori classici francesi (10 volumi, pubblicati dal 1898 al 1914). Sulla stessa falsariga cura l'edizione dell'École classique de l'Orgue (25 volumi, pubblicati dal 1898 à 1903), dedicata ai maestri stranieri. [92]
Queste le principali opere: Pièces dans différents styles ("Pezzi in stili diversi"), per organo, 8 sonate (o sinfonie), per organo, Soixante interludes dans la tonalité grégorienne ("Sessanta interludi nella modalità gregoriana") per organo, L'organiste pratique ("L'organista pratico"), raccolta costituita da
12
quaderni
e
L'organiste
liturgique
("L'organista liturgico"), raccolta costituita da 10 quaderni. Una delle composizioni più note e più eseguite dagli organisti di tutto il mondo è la prima sonata in re minore (a fianco l’incipit del celebre finale). ♫♫ Procedendo secondo l’ordine che ci siamo proposti giungiamo ad un altro celebre organista, sempre titolare della prestigiosa cattedra d’organo del Conservatorio parigino, e successore di Guilmant. Si tratta di Eugène Gigout. Nato a Nancy nel 1844 ed allievo della scuola Niedermeyer di Parigi a partire dal 1857, ebbe come professore Camille SaintSaëns e in seguito divenne a sua volta docente in tale scuola (di pianoforte e organo), per poi divenire come detto il successore di Alexandre Guilmant presso il Conservatorio di Parigi nel 1911 (a sua volta il suo successore sarà Marcel Dupré). Gigout per ben 62 anni fu organista nella chiesa di St. Augustin a Parigi e la sua fama crebbe sia come docente che come compositore ed improvvisatore. Le 10 pièces pour orgue (1890) includono la Toccata in B minor, la più nota creazione del maestro, proposta spesso nei bis dei concerti e lo Scherzo in E major, altrettanto gradito dal pubblico. Altre composizioni degne di nota e immancabili nel repertorio di un organista sono il Grand chœur dialogué (1881) e la Marche religieuse. Va infine ricordato che fu il primo organista francese a percorrere la strada della registrazione sonora delle esecuzioni musicali. ♫♫ Arriviamo quindi ad un altro grandissimo compositore ed organista: Louis Vierne. Succedendo agli altri grandi nomi dell'organo come César Franck, insieme a Charles-Marie Widor, Alexandre Guilmant ed Eugène Gigout al Conservatorio di Parigi, Vierne si distaccò dai suoi contemporanei per uno stile di composizione etereo, onirico ma anche sorprendentemente solenne. Fu l'organista della Cattedrale di Notre-Dame tra il 1900 e il 1937. [93]
Poiché quasi cieco dalla nascita, avvenuta a Poitiers nel 1870 a causa di cateratte congenite, Louis Vierne venne avviato agli studi musicali all'Institut National de jeunes aveugles a Parigi. All'inizio della propria carriera Vierne usava comporre scrivendo le note con una grossa matita su spartiti di grandi dimensioni; in seguito, poiché la vista continuava a diminuire, utilizzò il Braille. Approdato al conservatorio, Vierne venne valorizzato per la sua eccezionale genialità compositiva da Charles-Marie Widor, professore di organo e composizione e titolare dello strumento monumentale di St. Sulpice, che aveva sostituito il precedente insegnante César Franck, nei confronti del quale Vierne aveva una profonda devozione. Si ricorda che nel 1881 ascolt̀ Cesar Franck all’organo e non poté trattenere le lacrime: “Non conoscevo e non capivo nulla ma l’istinto fu violentemente scosso dalla sua musica altamente espressiva!” All'epoca in cui Vierne fu
nominato organista titolare di Notre-Dame, lo strumento versava in
pessime condizioni, che peggiorarono ulteriormente a causa di circostanze ambientali critiche (l'esondazione della Senna nel 1910, l'estate eccezionalmente torrida del 1911). Egli decise quindi di intraprendere una lunga tournée di concerti in Europa e nel nord America per reperire il denaro necessario per il restauro, che venne ultimato nel 1932 grazie ai fondi da lui raccolti. Dopo alcuni anni di insegnamento al Conservatorio di Parigi gli subentrò Gigout ed egli passò ad insegnare presso la Schola Chantorum. Morì al suo 1750° concerto, il 2 giugno del 37, mentre stava per iniziare una improvvisazione su tema dato dal pubblico. Colto probabilmente da infarto si adempiva quello che spesso aveva spesso affermato esser il sogno della sua vita: morire alla consolle dell’organo. Il suo linguaggio armonico è romanticamente ricco ma non sentimentale o teatrale quale quello del suo mentore Franck. Come tutti i grandi organisti francesi di fine secolo, la musica di Vierne è dedicata al suo strumento ed ha ispirato le generazioni successive. La produzione organistica comprende 6 Organ symphonies, 24 Fantasy Pieces e Vingt-quatre pièces en style libre.
[Celeberrimo finale della prima sinfonia per organo, cavallo di battaglia di molti organisti]
[94]
♫♫ Concludiamo la carrellata con Marcel Dupré, che nacque a Rouen, in Normandia nel maggio del 1881. Cresciuto in una famiglia di musicisti, fu bambino prodigio; entrò nel Conservatorio di Parigi a 23 anni, per vincere nel 1914 il Grand Prix de Rome con la sua cantata, Psyché; nel 1926 fu nominato professore di organo, esecuzione e improvvisazione al Conservatorio di Parigi, posizione che tenne fino al 1954.
Dupré divenne famoso per l'esecuzione di più di 2000 concerti d'organo in tutta l'Australia, gli Stati Uniti, il Canada e l'Europa, e va menzionata una serie di 10 concerti nei quali eseguì l'opera omnia organistica di Johann Sebastian Bach, nel 1920 al Conservatorio di Parigi e nel 1921 al Palazzo del Trocadéro, suonando interamente a memoria. La sponsorizzazione di un tour transcontinentale per l'America ed i concerti sul monumentale organo del grande magazzino di John Wanamaker, sul quale improvvisò quella che sarebbe diventata la Symphonie-Passion, inserirono il suo nome sulla scena mondiale. Nel 1934 succedette a Charles-Marie Widor come organista titolare alla Chiesa di Saint-Sulpice a Parigi, una posizione che tenne fino alla morte nel 1971. Tra il 1947 e il 1954, fu direttore del Conservatorio Americano (Fontainebleau Schools), che occupa l'ala Luigi XV del Castello di Fontainebleau vicino a Parigi. Nel 1954, Dupré succedette a Claude Delvincourt come direttore del Conservatorio di Parigi, dove rimase fino al 1956. Morì nel 1971 all'età di 85 anni a Meudon (vicino a Parigi) nel pomeriggio del 30 maggio (Pentecoste) dopo aver suonato la Messa al mattino a Saint-Sulpice dove era titolare. Vasta la sua produzione (65 numeri d'opus), e fu insegnante di due generazioni di famosi organisti come Jehan Alain, Marie-Claire Alain, Pierre Cochereau, Jeanne Demessieux, Rolande Falcinelli, Jean Guillou, Jean Langlais, Olivier Messiaen, per nominarne solo alcuni. Il grado delle musiche di Dupré per organo va dal moderatamente all'estremamente difficoltoso, e alcune di esse richiedono tecniche pressappoco impossibili all'esecutore (ad es. Évocation op. 37, Suite, op. 39, Deux esquisses op. 41, Vision op. 44). Le sue composizioni più sentite e registrate provengono dai primi anni della sua carriera. Durante questo tempo egli scrisse i Trois préludes et [95]
fugues, Op. 7 (1914); il primo e il terzo preludio (in particolare quello in sol minore con i suoi velocissimi accordi coi pedali e le armonie) sono stati ritenuti ineseguibili, parere tra l'altro condiviso anche dal suo predecessore a Saint-Sulpice, Charles-Marie Widor. Infatti, Dupré fu (assieme a Léonce de Saint-Martin) l'unico organista capace di eseguirli fino a tempi recenti, a causa della loro estrema complessità. In molti modi Dupré può essere visto come un Paganini dell'organo - essendo un virtuoso di massimo ordine - egli contribuì estensivamente allo sviluppo della tecnica (sia nella sua musica per organo che nei suoi lavori pedagogici) sebbene, come Paganini, la sua musica sia praticamente sconosciuta ai musicisti che non praticano gli strumenti per i quali le partiture sono scritte. Le sue opere di maggior successo combinano la virtuosità con un alto grado di integrità musicale, qualità trovate
in
lavori
come
Symphonie-Passion,
Chemin
de
la
Croix,
Préludes
et
fugues, Esquisses, Variations sur un Noël, Évocation, e Cortège et litanie.
[L i izio del II ovi e to fileuse della Suite Bretonne, considerato tra i brani più difficili della letteratura organistica.]
Scrisse anche un metodo per organo, 2 trattati sull'improvvisazione all'organo e libri sull’analisi armonica, contrappunto e fuga nonché accompagnamento del canto gregoriano oltre che saggistica sulla costruzione di organi, acustica, e filosofia della musica. Come improvvisatore, Dupré eccelse come forse nessun altro fece durante il XX secolo, e fu capace di prendere un dato tema e spontaneamente tessere una intera sinfonia attorno ad esso, spesso con elaborati contrappunti inclusa la fuga. Il successo di queste imprese fu parzialmente dovuto al suo insuperato genio e parzialmente al suo duro lavoro facendo esercizi scritti quando non era occupato nella pratica e nella composizione. [Marcel Dupré improvvisa la una intera sinfonia in 4 movimenti (symphonie-passion) nel grandioso organo Wanamaker durante una tournée a Filadelfia (USA)]
[96]
Musica classica e cinema: “Manhattan”, di Woody Allen Manhattan è un film del 1979 scritto, diretto e interpretato da Woody Allen. Il film si apre con diverse immagini di New York accompagnate dalla musica e dalla voce del protagonista, che prova diversi incipit per il suo romanzo su New York. Il protagonista è Isaac Davis, la musica è la Rapsodia in blu di George Gershwin. Il primo tentativo di incipit è: «Adorava New York, la idolatrava smisuratamente». L’ultimo, pronunciato appena prima che la musica diventi più intensa, è: «New York era la sua città, e lo sarebbe sempre stata».
Trama La trama è vivace e con cose non banali, ma non è la trama quello che conta, è il modo in cui i personaggi pensano, agiscono e, soprattutto, quello che si dicono tra loro. Isaac Davis è un autore televisivo di 42 anni che abita a Manhattan. Ha appena divorziato dalla sua seconda moglie, Jill, che l'ha lasciato per un'altra donna, Connie, e che sta scrivendo un libro su quel matrimonio fallimentare. Isaac, a sua volta, frequenta una ragazza di 17 anni, Tracy, in una relazione che egli immagina breve, a causa della differenza di età. Un giorno il suo amico Yale gli presenta la sua amante Mary che inizialmente Isaac non sopporta. A Tracy viene offerto di studiare alla scuola d'arte drammatica di Londra, e vorrebbe andarci con Isaac. Questi declina l'invito sapendo che quella relazione non potrà durare. Proprio per questo motivo, incoraggia la ragazza a cogliere l'opportunità. Anche Yale lascia Mary perché ritiene il loro rapporto una strada senza uscita; lei allora, col pretesto di cercare qualcuno che la consoli, frequenta Isaac sempre più spesso, finché i due si innamorano. Isaac, a sua volta, decide di troncare la sua relazione con Tracy, che ne rimane sconvolta e amareggiata. Qualche mese dopo, Mary informa Isaac che ha intenzione di lasciarlo, poiché sta ricominciando a frequentare Yale, il quale ha lasciato sua moglie. Riflettendo, Isaac si rende conto di quanto gli manchi Tracy e corre a casa sua. La incontra mentre si sta accingendo alla partenza per Londra. Le chiede di restare a New York, ma lei decide di partire, sapendo quanto importante sia [97]
quell'occasione per il proprio futuro, e chiede ad Isaac di attendere con fiducia il suo ritorno, che lei prevede avverrà dopo sei mesi.
Colonna sonora
La colonna sonora di Manhattan è formata da brani composti da George Gershwin: le esecuzioni sono della New York Philharmonic diretta da Zubin Mehta e della Buffalo Philharmonic Orchestra diretta da Michael Tilson Thomas. Sembra strano, visto il titolo, ma Allen raccont̀ che l’idea per il film gli venne non pensando a Manhattan ma ascoltando la Rapsodia in blue. Gershwin era il compositore più adatto di tutti per catturare perfettamente l'essenza della vita della città, così come voleva Allen.
Per parlare di quanto bene stanno insieme musica e immagini nel film, Peter Bradshaw, critico del Guardian, scrisse: «È quasi impossibile credere che la musica non sia stata composta appositamente per il film. E ora è quasi impossibile sentirla senza pensare al film. I loro destini si sono uniti». Le musiche di Gershwin presenti nel film sono: Rhapsody in Blue; Land of the Gay Caballero; Someone to watch over me ; I've got a crush on you; Do-Do-Do; Mine; He loves and she loves me; Bronco Busters; Oh, Lady be good; 'S wonderful; Love is here to stay; Sweet and low down; Blue, Blue, Blue; Embraceable you; He loves and she loves me; Love is sweeping the country/land of the Gay Caballero; Strike up the Band; But not for me. Inoltre una parte del primo movimento della Sinfonia n. 40 di Mozart si sente in una scena di un concerto. RHAPSODY IN BLUE
Rhapsody in Blue è una straordinaria sintesi di musica popolare e colta, un caleidoscopio di generi che rappresenta la molteplicità delle culture che convivevano nelle metropoli americane degli anni Venti. George Gershwin [nella foto] aveva venticinque anni quando concepì il brano, all’inizio per soli due pianoforti, poi la Rapsodia fu orchestrata [98]
da Ferde Grofé, l’arrangiatore di Paul Whiteman, direttore dell’orchestra jazz di New York. In questa versione per pianoforte e orchestra jazz, Rapsodia in blue venne eseguita, dopo soli pochi giorni di prove, il 12 febbraio del 1924 all’Aeolian Hall di New York, con lo stesso Gershwin al pianoforte e con l’orchestra di Paul Whiteman e con l’aggiunta di una sezione di archi, all’interno di un concerto intitolato An experiment in modern music: erano presenti importanti esponenti del mondo culturale di New York, come Fritz Kreisler, Igor Stravinskji, Sergej Rachmaninov, Leopold Stokowski, John Philip Sousa e Jascha Heifetz. Fu un successo enorme per il giovanissimo compositore/pianista, che da quel momento si impose nel panorama musicale mondiale.
[Avery Tillmon: New York Sky Line II]
La versione per pianoforte e orchestra sinfonica fu realizzata solo l’anno successivo ad opera sempre di Grofé, alla quale seguirono altre due orchestrazioni, ancora di Grofé, nel 1926 e nel 1942, ogni volta per un’orchestra più grande. Infatti l’orchestrazione del 1924 ̀ per un flauto, un oboe, clarinetti, un fagotto, sassofoni, 2 corni, 2 trombe, 2 flicorni soprani, un euphonium, 2 tromboni, un trombone basso, una tuba, 2 pianoforti, una celesta, un banjo, tamburi, timpani, una batteria, violini, contrabbassi et una fisarmonica. L’orchestrazione del 1942, invece, prevede il pianoforte solista, 2 flauti, 2 oboi, 2 clarinetti in si bemolle, un clarinetto basso in si bemolle, 2 fagotti, 3 corni in fa, 3 trombe in si bemolle, 3 tromboni, una tuba, timpani, percussioni (crash, caisse claire, grosse caisse, gong, triangolo, campane e piatti), pianoforte, 2 sassofoni contralto in mi bemolle, un sassofono tenore in si bemolle, un banjo e strumenti a corde (violini, viole, violoncelli e contrabbassi). Gershwin riuscì a dimostrare che il jazz, genere popolare e prevalentemente da ballo, poteva essere apprezzato dalle platee colte ed esigenti, anche grazie alla natura sinfonica da lui stesso conferita al pezzo, un autentico e originale prodotto musicale americano. La composizione nacque come una rivelazione improvvisa a bordo di un treno, come ha confidato lui stesso: «È stato sul treno, con i suoi ritmi d’acciaio, il suo rumore secco e violento che è così spesso stimolante per un compositore (mi capita frequentemente di sentire la musica proprio quando sono [99]
immerso nel rumore) che all’improvviso ho sentito – persino visto sul foglio – l’intera Rhapsody, dall’inizio alla fine». Guida all’ascolto. Tutti i temi, complessivamente cinque, sono presentati nelle prime 14 misure ed evidenziano la straordinaria fantasia del compositore, che riuscì ad alternare magnificamente vivacità ritmica afroamericana a momenti malinconici, tipicamente blues, un perfetto mix tra speranza e sofferenza. Una rapsodia in un unico movimento, che si dipana in alcuni temi ricorrenti, progressivamente arricchiti nel corso dello svolgimento musicale.
[Toti Scialoia: Rhapsody in blue. 1948 Archivio sto i o del Teat o dell Ope a di ‘o a]
Il
tema
principale,
introdotto
in
apertura con il famoso glissando di clarinetto,
poi
rielaborato
dal
pianoforte e successivamente affidato all’orchestra,
riemerge,
trasformato
attraverso
a
volte
variazioni
ritmiche e dinamiche, in vari punti della composizione, alternandosi con altri temi, per riproporsi nell’indimenticabile finale. Un amalgama sonoro perfetto, sostenuto dai timbri bruniti degli ottoni (trombe e corni) seguiti da quelli più delicati dei legni (come flauti, oboi, fagotti). Il brano incomincia con un caratteristico trillo e una lunga scala cromatica ascendente del clarinetto (Ross Gorman, clarinettista dell'orchestra di Paul Whiteman, la interpretò con un glissando e da allora l'esecuzione segue la tradizione del clarinettista), il cui assolo propone subito il tema principale (Molto moderato). Il glissando del clarinetto lascia il compito alla tromba con sordina di riproporre il motivo. L'ingresso del pianoforte (Moderato assai) anticipa l'intervento dell'orchestra. Il tema viene rielaborato con fraseggi virtuosistici del pianoforte, che dapprima si unisce all’orchestra per la riproposizione del tema principale ma poi ci presenta una lunga cadenza solistica in cui il tema iniziale (comprensivo del glissando del clarinetto) viene rielaborato in modo virtuosistico, accompagnato dal discreto sottofondo orchestrale (Poco agitato), fino al maestoso tema proposto dall'intera orchestra (Tempo giusto). Dopo aver proposto un nuovo tema, il brano si spegne nuovamente; preceduto da quattro accordi di tutta l’orchestra in fortissimo, si apre al Meno mosso del pianoforte solo, che introduce nuovo materiale tematico, rielaborando sempre in maniera più complessa le melodie Ogni tanto si inserisce un corno con una linea melodica fatta da note piuttosto lunghe. [100]
Compare quindi un nuovo tema, sempre dal pianoforte, che forse è il vero tema di blues di tutta la Rapsodia: un tema dapprima cantabile che ci immerge nell’atmosfera della musica blues e che gradatamente viene usato come materiale per ulteriori virtuosismi del pianista, con rallentandi e accelerandi e che termina spegnendosi con un accordo arpeggiato in pianissimo. L'orchestra torna nel dolcissimo Andantino moderato con espressione (come è scritto sullo spartito) ripreso poi dal pianoforte, che si intreccia con gli altri strumenti prima di partire e lanciarsi verso la vorticosa Coda finale. Un Leggiero, assai staccato, con note ribattute prima forte e poi piano, ci introducono all’Agitato e misterioso, caratterizzato da un ritmo incalzante e sincopato: queste note ribattute del pianoforte si contrappongono al tema presentato ora dall’orchestra (Allegro agitato e misterioso), sino ad arrivare al Grandioso finale che ripropone prima il secondo tema e poi definitivamente il tema principale. Troviamo la Rapsodia in blue di Gershwin anche come uno degli episodi del film Fantasia 2000 della Walt Disney Corporation. Questa sequenza mostra il frenetico o miserabile tran tran di quattro persone, un ragazzo appassionato di jazz, un apatico e squattrinato disoccupato alla disperata ricerca di un impiego, una vivace ma sola ragazzina dai riccioli neri sballottata tra mille corsi dalla tata ma che vorrebbe stare più tempo coi suoi indaffarati genitori (basata su Eloise, personaggio dei libri di Kay Thompson) e un fantasioso uomo dai capelli rossi (basato su John Culhane, autore dei documentari che narrano la
produzione e i retroscena della fase realizzativa dei filmdi Fantasia e Fantasia 2000), marito di un'altezzosa, ricca e altrettanto acida signorotta amante dei cani dalla quale vorrebbe scappare, in una New York forsennata e affollata, all'epoca della Grande Depressione, con disegni dallo stile dei famosi cartoni animati di Al Hirschfeld. Vi è, inoltre, un delizioso cameo dello stesso Gershwin, che interpreta un eccellente pianista. Alla fine della sequenza i personaggi principali riescono ad avere ciò che desideravano.
[101]
Antichi strumenti a percussione SISTRO Il sistro è uno strumento idiofono risalente al 3000 a.C. proveniente dall'Antico Egitto sacro alla dea Iside, che era ritenuta l’inventrice dello strumento: la presenza del sistro sui monumenti sepolcrali significava l'appartenenza del defunto al culto isiaco. Il sistro era sacro anche alla dea Hathor. Era l'antico “seshesh” (di chiara origine onomatopeica) e successivamente importato in Palestina (si hanno notizie, già nel Vecchio Testamento, di sistri utilizzati in cerimonie) e anche in Grecia. È uno strumento in metallo, con una parte a forma di ferro di cavallo, con un manico e delle aste; il suono viene prodotto scuotendo lo strumento: il numero e lo spessore delle lamelle flottanti ne definisce e caratterizza l'altezza e l'intensità del suono che resta comunque - come in molti altri analoghi strumenti a sonagli - indeterminato, e cioè senza una precisa connotazione tonale.
CROTALO
Nell'antica Grecia il crotalo era un tipo di nacchere usate nelle danze religiose di gruppo. La tradizione vuole che venissero suonati anche dai cosiddetti coribanti, divinità minori dell'antica religione greca costituenti il seguito di Cibele; a loro si attribuiva l'invenzione di un tipo particolare di danza orgiastica, selvaggia e frenetica, che provocava un effetto di stordimento e di estasi. [102]
Il crotalo era in genere formato da uno stelo o da una canna divisa, che faceva rumore quando era scossa con la mano; il materiale era conchiglia e ottone, oppure legno.
CIMBALI
Di funzione simile ai crotali troviamo i Cimbali, strumenti costituiti da due dischi, in genere di bronzo e di varie dimensioni, che venivano percossi tra di loro dando un suono indeterminato dato dalla vibrazione del metallo stesso. Potevano anche essere usati singolarmente, percossi con la mano o con un martelletto. Di origine dell’Asia Minore, si diffusero successivamente presso i Greci e i Romani che li utilizzavano per battere il ritmo della danza nei riti dionisiaci e misterici, come testimoniano le iscrizioni su alcuni esemplari. Da essi ebbero origine i piatti dell'orchestra moderna.
TAMBURO E TAMBURELLO
Il tamburo è uno strumento di forma tubolare cavo in cui il suono è prodotto percuotendo o raschiando una pelle tesa attraverso una delle due estremità di un fusto. Questo strumento esiste in tutte le culture antiche: è nato insieme alla musica delle antiche civiltà del Mediterraneo e di quelle asiatiche (India), dove veniva utilizzato soprattutto durante feste, banchetti e cerimonie per accompagnare canti e danze. Essendo antichissimo l’origine ̀ incerta: pare che esistesse già nel II millennio a.C. e di sicuro veniva usato dai Sumeri, dagli Ittiti e dagli Ebrei mentre le sacerdotesse egizie lo suonavano nelle danze dedicate alla Dea Iside. [103]
Il tamburo (ed il suo affiliato tamburello) hanno conosciuto nel corso dei secoli un largo uso in tutte le civiltà.
Nel mondo greco era chiamato tympanon. È probabile che i greci ne abbiano imparato l'uso dalle colonie dell'Asia Minore, e lo abbiano trasmesso ai romani. La pelle usata era comunemente d'asino (donde la popolare favola romana di Fedro sull'asino, destinato ad essere picchiato anche da morto!). Il tympanon era uno strumento leggero, la cui forma era piatta o alle volte cava. Poteva avere campanelli metallici o sonagli, fissati sul telaio da cordicelle che percuotevano la pelle quando lo strumento era agitato. Spesso era adornato da nastri. Questo strumento era perfetto per dare il ritmo alle danze o ai canti, per lo più religiosi: come gli altri strumenti a percussione, il suo ritmo incalzante favoriva l’esaltazione dei partecipanti, fino a raggiungere anche stadi di trance. Era uno strumento fondamentale nei culti orgiastici di Dioniso, di Cibele e di Attis. Il suo uso è attestato anche in contesti funebri.
Il
nome
nell’antica
tympanum
Roma.
Il
rimase
tympanum
anche (le
cui
immagini antiche presentano sempre uno strumento ad una sola membrana) si poteva suonare con bacchette o con il tirso1, ma l'uso più comune era suonarlo con la mano (come ancora si fa con il tamburello, al quale il timpano antico somiglia moltissimo, anche per l'aggiunta di cimbalini e sonagli che ne potenziavano il suono).
Lo strumento passò ad essere simbolo di effeminatezza, perché ne facevano uso i sacerdoti di Cibele, che erano uomini evirati. [Statua romana di Cibele: la dea tiene in mano lo strumento nella mano sin]
1
Il sacro tirso era un bastone rituale attribuito al dio greco Dioniso e ai seguaci del suo culto, satiri e menadi. Di legno vario, ma più spesso di corniolo, era formato da una grossa asta sormontata da una pigna ed attorno ad esso erano avviluppati edera e pampini di vite. A volte vi erano annodate anche bende di lana, simbolo di consacrazione. Il simbolismo legato a questo strumento è chiaramente fallico, tanto più che ad esempio ne Le Baccanti di Euripide viene affermato che da esso scaturiva miele; esso quindi rappresenta la forza vitale del dio che viene instillata nella vegetazione, negli animali e negli uomini.
[104]
Nel Medioevo il tamburello era ancora uno strumento rozzo con sonagli grossi e pesanti, e veniva usato dai menestrelli, dagli attori, dai giocolieri. Verso la metà del 1500 ebbe una grande diffusione in
Italia,
Spagna
e
Francia
del
Sud.
Successivamente, nel 1564, vennero inseriti dei piattini metallici lungo la cornice dello strumento, che assunse quindi il nome di Tamburello Basco (o Timbrel). Il tamburello basco è rappresentato in scene di danza vocale, ovvero di “canzoni a ballo”; ne ̀ un bellissimo esempio la Danza delle donzelle nel giardino d’amore di Andrea di Bonaiuto nella Cappella degli Spagnoli in Santa Maria Novella a Firenze. L’uso delle percussioni nella musica medievale era semplice e soprattutto di matrice ritmica perché fungeva da metronomo nella scansione dei ritmi della danza. I ritmi medievali, essendo molto elementari, potevano essere eseguiti da un elemento del gruppo dei danzatori, non era necessario infatti essere musicista di professione. La tecnica si basa su un suono grave chiamato DUM che si ottiene percuotendo il centro della pelle e un TA che si ottiene percuotendo il bordo della pelle tesa sulla cornice. Abor-pipe: il nome (letteralmente flauto e tamburo) evidenzia l’accoppiamento tra un particolare flauto a tre fori (suonato con una sola mano, utilizzando i suoni armonici prodotti con una maggiore emissione di fiato) e un tamburo percosso con una bacchetta tenuta dall’altra mano per produrre simultaneamente accompagnamenti ritmici. Il tamburo poteva esse di piccole dimensioni appeso al polso, o più grande a tracolla. Il tamburo poteva essere anche un particolare oblungo salterio a percussione, il cosiddetto Tamburino di Bearn (o buttafuoco). La bacchetta che lo percuoteva eseguiva dei ritmi colpendo tutte le corde allo stesso tempo, quindi senza inclinazione, ma usata con un colpo piatto.
[105]
[Beato Angelico, Angelo con tamburello particolare del trittico Linaiuoli, 1433. Firenze] [106]
Tamburo a calice (o Darabukka). E’ un tamburo con scafo in ceramica o terracotta a forma di calice con la membrana di copertura (costituita da pelle di pesce, capra o pecora) allacciata al fusto. Usato sotto la corte di Alfonso X el Sabio, veniva suonato con le dita. Veniva in genere posizionato sulla spalla (come raffigura la miniatura), o più raramente con il suonatore in posizione seduta e lo strumento appoggiato sulla gamba. Tra
il
tardo
Rinascimento
e
il
Barocco,
sopravvisse solo come strumento popolare in Spagna e in Italia. Tamburo a bandoliera (o a cordiera) Questo tamburo di origine medievale ha una tipica forma cilindrica di grandezza variabile tra i 50 e i 60 cm. E’ costituito da un corpo in genere metallico, con una pelle superiore ed una inferiore, fermate da due cerchi di legno, tenute in tensione da tiranti di corda regolabili secondo necessità. La membrana superiore veniva percossa con due bacchette diritte, mentre la membrana inferiore è dotata di corde di budello tese, che vibrando ai colpi delle bacchette, generano il timbro dello strumento. Il tamburo a bandoliera lega il suo uso nell’ambito militare o nelle parate di feste.
TINTINNABULUM
Nell'antica Roma il tintinnabulum (nel VI secolo d.C. divenuto tintinnum) era un sonaglio azionato dal vento e composto da più campanelle legate ad un'unica struttura. Spesso il tintinnabulum era raffigurato a forma di un fallo di un fascinus, una figura magico-religiosa che aveva il compito di allontanare il malocchio e portare fortuna e prosperità.
[Tintinnabulum polifallico di bronzo rappresentante Mercurio trovato a Pompei. Le campane mancanti erano attaccate alla punta dei peni laterali.]
[107]
Spesso il fascinus era dotato di gambe animalesche che ne aumentavano l'efficacia. I tintinnabula erano appesi sull'uscio delle abitazioni e davanti ai negozi assieme ad una lampada. Si pensa che sia la figura fallica che il suono provocato dal vento fossero considerati come elementi scaramantici . Rota tintinnabulis Dal Tintinnabulum nel Medioevo derivò la Rota tintinnabulis, un insieme di campane, di varia misura e prive di battente, che mediante percussione con un martelletto di legno producono altrettanti suoni di varia altezza.
TRIANGOLO Il Triangolo antico era un pezzo di ferro piegato con inseriti dei piccoli anellini e che veniva percosso con una bacchetta. Le origini dello strumento non sono note, ma diversi dipinti del Medioevo raffigurano lo strumento suonato da angeli: ciò fa ritenere che in qualche modo questo strumento fosse utilizzato per i servizi liturgici nelle chiese in quel periodo. Altri dipinti lo raffigurano utilizzato da musicisti popolari.
[Francesco Botticini (1466-1497): Angeli suonanti un triangolo e un tamburello. Empoli, Museo della Collegiata di Sant' Andrea]
[108]
La Musica del medioevo
[109]
Jaufrè Rudel BIOGRAFIA Jaufré Rudel, italianizzato in Giuffredo Rudello (1125 (?) – 1148), è stato un poeta e trovatore francese di lingua occitana, nato a Blaye nella Saintong. Nella sua Vida (scritta nel XIII secolo), gli viene assegnato il titolo di principe, era dunque dei signori di Blaye, forse un cadetto di Jaufre Rudel I, fratello di Gerardo II. Sappiamo che partecipò alla seconda crociata del 1147 in Terrasanta, dove gli mandò una sua composizione il trovatore Marcabruno. Una celebre leggenda narra del suo amore per la contessa di Tripoli (identificata da qualche storico con Melisenda, figlia del re Baldovino II di Gerusalemme), della quale avrebbe sentito parlare da alcuni pellegrini di Antiochia: Rudel si sarebbe innamorato della donna senza averla mai vista e avrebbe cominciato a comporre canzoni per lei. Per riuscire a vederla, si fece crociato e partì per l'Oriente, ma durante il viaggio si ammalò gravemente. I suoi compagni lo trasportarono morente sulla spiaggia di Tripoli dove - avvertita dell'arrivo del poeta in fin di vita - arrivò anche la donna che tanto aveva amato. In un ultimo slancio vitale, Jaufrè riuscì a vedere Melisenda e a stringerla tra le braccia "per la prima e per l'ultima volta, nella realtà"; ringraziò Dio per averlo tenuto in vita fino a che potesse vederla; e così morì tra le sue braccia. [Morte di Jaufrè Rudel. Bibliothèque nationale de France]
Sempre secondo la leggenda, Melisenda lo avrebbe fatto seppellire con grandi onori in una cappella, e sarebbe stata tanto colpita da questo amore così puro e allo stesso tempo infelice da farsi monaca. Non sappiamo se il biografo di Jaufré si sia attenuto alla verità storica dei fatti, e in quale misura, ma è così che il personaggio è passato alla leggenda. Nei suoi componimenti il trovatore dice che la sua donna è la più bella e che non ne esiste una migliore né cristiana né juzia ni sarrazina, cioè né ebrea né saracena. Dovendosi per sarrazina intendere saracena di Spagna, c'è chi ipotizza che il viaggio per trovare il suo amore lontano non fosse verso la Terra Santa, ma verso la Galizia, in Spagna, dov'è la tomba di San Giacomo (Santiago di Compostela). Il viaggio viene citato solo di sfuggita. Troviamo comunque un altro riferimento che potrebbe far pensare alle Crociate. Dice infatti che il suo "buon Garante" (mos Bon Guarent) lo chiama in aiuto. Con il "buon Garante" potrebbe essere inteso o il suo sovrano, che lo invita a seguirlo in Terra Santa, o Gesù Cristo, garante per gli uomini dinnanzi a Dio. [110]
POETICA La poesia di Jaufré Rudel si basa sul concetto di lirica del desiderio, caratterizzata dal cosiddetto "paradosso amoroso", l'amor de lonh, ovvero un amore che non vuole possedere ma godere di questo stato di non possesso. Questo concetto è per molti aspetti rappresentativo di un'ampia costellazione della poesia trobadorica. Nel topos dell'amor cortese l'esperienza amorosa appare come una tensione costante verso l'irraggiungibile perfezione richiesta per essere degni di ricevere la grazia da madonna (in occitano midons, ovvero "mia signora"), durante la quale l'amante si affina spiritualmente e intellettualmente. La dama è, infatti, inaccessibile, perché è sposata o perché è lontana e irraggiungibile, spesso chiusa in un castello. La felicità sta nel pensare e nel sognare e in una speranza che purtroppo non si crede attuabile. Egli dice che suo destino è di amare senza essere amato. Per tale motivo Dante interpreta la dama trobadorica collegandola alla definizione di filosofia, quale donna inaccessibile che non concede nulla ai suoi amanti, tranne lo sguardo. [Rudel raffigurato a cavallo nel Canzoniere K]
Molti scrittori e poeti sono stati affascinati dalla figura di Jaufré Rudel e dalla sua leggenda che sembra così fittamente, quasi in modo inestricabile, intrecciarsi con la sua vita: la leggenda che appare nella sua antica biografia ispirò, unitamente al tono malinconico e misterioso delle liriche, varî poeti moderni quali Heine, Uhland, Carducci, Rostand. Giosuè Carducci è autore di una poesia in cui racconta l'arrivo di Jaufré sulla spiaggia di Tripoli e la sua morte tra le braccia di Melisenda (Rime e ritmi, Jaufré Rudel):
“Contessa, che è mai la vita? È l'ombra di un sogno fuggente. La favola breve è finita, il vero immortale è l'amor.” COMPOSIZIONI Restano di lui otto canzoni (di cui due di controversa attribuzione) che lo rivelano gentile poeta d'amore, due delle quali celebrano un "amore di terra lontana". [111]
♫♫ BELHS M'ES L'ESTIUS E'L TEMPS FLORITZ (A o l estate e la stagio e fio ita Belhs m'es l'estius e'l temps floritz, Quan l'auzelh chanton sotz la flor, Mas ieu tenc l'ivern per gensor Quar mais de joy m'i es cobitz, Et quant hom ve son jauzimen Es ben razos e d'avinen Qu'om sia plus coyndes e guays. [A o l’estate e la stagio e fiorita, quando gli uccelli cantano sotto i fiori, ma trovo l'inverno più piacevole pe h i stata o essa la gioia, e ua do l’uo o si i agi a il p op io pia e e è proprio conveniente e ragionevole che egli sia più gentile e più allegro.] Er ai ieu joy e suy jausitz E restauratz en ma valor, E non iray jamai alhor Ni non querrai autruy conquistz, Qu'eras say ben az escien Que selh es savis qui aten E selh es fols qui trop s'irays. [Ora ho gioia e sono felice e sono restaurato nel mio valore, e non mi rivolgerò mai altrove né desidererò le conquiste degli altri perché ora lo so per certo che è saggio chi aspetta e che è uno stolto chi troppo s’adi a.] Lonc temps ai estat en dolor Et de tot mon afar marritz, Qu'anc no fuy tan fort endurmitz Que no'm rissides de paor. Mas aras vey e pes e sen Que passat ai aquelh turmen, E non hi vuelh tornar ja mays. [Per molto tempo ho sofferto per tutto il ale he ’ apitato, e non sono mai stato così profondamente addormentato che non potevo svegliarmi dalla paura. Ma ora vedo, giudico e sento che quel tormento è finito e non non voglio mai più tornare indietro.] Mout mi tenon a gran honor Totz selhs cui ieu n'ey obeditz Quar a mon joi suy revertitz: E laus eu lieys e Dieu e lhor, Qu'er an lur grat e lur prezen, E, que qu'ieu m'en anes dizen, Lai mi remanh e lay m'apays. [Molti mi tengono nella più grande stima, tutti quelli che ho ascoltato perché sono tornato alla mia gioia: e sia lode a Dio e a loro che hanno il loro merito e il loro valore, e qualunque cosa stavo dicendo, lì rimango e sono soddisfatto.] [112]
Mas per so m'en sui encharzitz, Ja non creyrai lauzenjador: Qu'anc no fuy tan lunhatz d'amor Qu'er no'n sia sals e gueritz. Plus savis hom de mi mespren, Per qu'ieu sai ben az escien Qu'anc fin'amors home non trays. [Poi h tutto uesto i’ha favo ito, o ede ò a essu alu iato e: o sono mai stato così lontano dall'amore tanto quanto adesso sono al sicuro e guarito. Anche quelli più saggi di me hanno torto perché io so per certo che un amore perfetto non tradisce nessuno.] Mielhs mi fora jazer vestitz Que despolhatz sotz cobertor E puesc vos en traire auctor La nueyt quant ieu fuy assalhitz. Totz temps n'aurai mon cor dolen, Quar aissi's n'aneron rizen, Qu'enquer en sospir e'n pantais. [Meglio avrei fatto a giacere vestito che non spogliato sotto le coperte, e posso darvi come prova la notte in cui sono stato aggredito. Ne sarò sempre addolorato, perché se ne andavano ridendo, così, mentre ancora sospiro e e ne sono avvilito.] ♫♫
LANQAN LI JORN SON LONG EN MAI (A Maggio, quando i giorni sono lunghi) E’ una delle più note liriche di Jaufré Rudel, Secondo la concezione dell'amor cortese l'amore nasce dalla vista della bellezza della donna: menestrelli e trovatori amavano segretamente nobildonne e castellane, irraggiungibili se non attraverso le poesie d’amore ad esse dedicate: sotto un senhal, uno pseudonimo, si celava il nome dell’amata in modo che solo lei potesse sapere di essere la destinataria dei versi; tra le principali virtù cortesi c’era infatti quella del celar, che consisteva nel nascondere l’identità dell’amata. Nonostante si trattasse di amori impossibili gli innamorati si nutrivano di desiderio, della lontananza, del non possesso, della loro stessa irrealizzabilità. Contrariamente ad altri componimenti qui Rudel celebra l'amor de lonh. Nella strofa iniziale il poeta crea un contrasto tra il paesaggio primaverile, caratterizzato dal canto degli uccelli e propizio all'amore, e il suo stato d'animo malinconico, dicendo che le bellezze della natura non gli giovano più "dell'inverno gelato" a causa della lontananza della donna amata. I numerosi riferimenti nel componimento alla Terrasanta (il "regno dei Saraceni", il pellegrinaggio che Jaufré rimpiange di non aver intrapreso) avvalorano l'ipotesi che la donna viva laggiù, benché l'identificazione con Melisenda, contessa di Tripoli sia tutt'altro che certa.
[113]
Testo: Lanquan li jorn son lonc en may M'es belhs dous chans d'auzelhs de lonh, E quan mi suy partitz de lay, Remembra'm d'un' amor de lonh. Vau de talan embroncx e clis Si que chans ni flors d'albespis No-m valon plus que l'yverns gelatz. [A maggio, quando i giorni sono lunghi, mi piace il dolce canto degli uccelli in lontananza, e poi, messomi in viaggio, mi ricordo di un amore lontano. Me ne vado pe il deside io o l’a i o afflitto e triste, così che a to fio di ia ospi o i so o g aditi più dell’i ve o gelato.] Jamai d'amor no'm jauziray Si no'm jau d'est' amor de lonh, que mielher ni gensor no'n sai ves nulha part, ni pres ni lonh. Tant es sos pretz ricx e sobris Que lai el reng dels Sarrasis fos hieu per lieys chaitius clamatz. [Mai godrò dell’a o e se non godo di questo amore lontano, perché non conosco donna migliore in nessun luogo, né vicino né lontano. Il suo pregio è tanto autentico e perfetto che laggiù nel regno dei saraceni io per lei starei imprigionato.] Iratz e dolens m'en partray, S'ieu no vey sest' amor de lonh. No'm sai quora mais la veyrai, que tan son nostras terras lonh. Assatz hi a pas e camis, e per aisso no'n suy devis. Mas tot sia cum a lieys platz. [Me e pa ti ò t iste e gioioso, se io ai vedessi l’a o e di lo ta o; a o so ua do lo ved ò, pe h le nostre terre sono troppo lontane. Ci sono molti valichi e sentieri, e perciò non conosco il mio destino. Ma tutto sia secondo la volontà di Dio!] Be'm parra joys quan li querray, Per amor Dieu, l'ostal de lonh, E, s'a lieys platz, alberguarai Pres de lieys, si be'm suy de lonh. Qu'aissi es lo parlamens fis Quan drutz lonhdas et tan vezis Qu'ab cortes ginh jauzis solatz. [Sarà sicuramente una gioia quando le chiederò, per amor di Dio, l’ospitalità di lo ta o, e, se lei vorrà, abiterò presso di lei, benchè sia di lontano. Allora la conversazione sarà piacevole quando l'amante lontano è tanto vicino che sarà consolato dalle belle parole.] Be tenc lo Senhor per veray Per que formet sest' amor de lonh, Mas per un ben que m'en eschay [114]
N'ai dos mals, quar tant suy de lonh. A! quar no fuy lai pelegris, Si que mos fustz e mos tapis Fos pels sieus belhs huelhs remiratz! [Io so bene che il Signore è veritiero, pe uesto io ved ò l’a o e lo ta o; a pe u e e he e t aggo ne ho due mali, tanto sono lontano. Ahimé!, fossi andato laggiù da pellegrino, così che il mio bastone e la mia cappa fossero vistii dai suoi begli occhi!] Dieus que fetz tot quant ve ni vay E formet sest'amor de lonh Mi don poder, que cor be n'ai, Qu'ieu veya sest'amor de lonh, Verayamen en luec aizis, Si que las cambras e'l jardis Mi resemblo novels palatz. [Dio, che ha creato tutto ciò che viene e va e plasmato questo amore lontano, mi dia la forza, poiché lo voglio, di vedere questo amore lontano nella realtà e in un luogo raffinato in modo che le stanze e i giardini mi sembrino nuovi palazzi.] Ver ditz qui m'apella lechay e deziros d'amor de lonh, que nulhs autres joys tan no'm play Cum jauzimen d'amor de lonh. Mas so qu'ieu vuelh m'es tant ahis, Qu'enaissi'm fadet mos pairis Qu'ieu ames e nos fos amatz. Mas so u ieu vuelh es atahis Qu e aissi. fadet os pai is Qu ieu a es e o fos a atz! [Dice il vero chi mi chiama avido e desideroso dell’a o e lo ta o, pe h essu ’alt a gioia i pia e ta to come il godere dell’a o e di lontano. Ma ciò che io voglio mi è negato. Sia maledetto il padrino che mi diede in sorte che io amassi ma non fossi amato!] ♫♫
LANQAN LO TEMPS RENOVELHA (Quando la stagione si rinnova) Lanquan lo temps renovelha e par la flors albespina, ai talant d'un chant novelh qu'ieu sai cum lo chans refri (...); doussament per miey la bruelha lo rossinhol s'esbaudeya. [Quando la stagione si rinnova e appare il fiore di biancospino, mi sento come una nuova canzone perché so come suona la musica [....]; dolcemente, in mezzo al fogliame le feste dell'usignolo.] E quand lo bosc reverdeya, nays fresca e vertz la fuelha, [115]
adoncas ieu reverdey de joy e florisc cum suelh, ab lo dous chan del mati que fan d'amor li auzelh (...) ; jauzens somon a l'aurelha. [E quando il bosco rinverdisce, nasce fresca e verde la foglia, anch'io mi rinnovo attraverso la gioia e la fioritura, com'è ia a itudi e, o la dol e usi a del atti o he gli u elli i to a o pe a o e. […]; gioiosa chiamata all'orecchio.] E pus l'us l'autre s'enselha e'l par ves sa par s'aizina, de nos es dregz que s'enselh quascus d'atretal aizi, ab fin'amor, ses erguelh. Qu'ieu conosc assatz e vey, pus la malvestatz s'orguelha, qu'amor non deu far enveya. [E mentre si mettono a cavalcioni l'uno sull'altro e ciascuno calpesta il suo compagno, è giusto che ci mettiamo a cavallo qualcuno pure, con vero amore, senza orgoglio. Perché ne so abbastanza e vedo poiché il male diventa orgoglioso, quell'amore non deve suscitare invidia.] Joys ab amar cabaleya e's veston d'una despuelha, e cui que desabaley, d'escassedat mi despuelh ; amors si senh ab joy fi e joys fa d'amor capdelh, e malvestat que no fina, bayssa prez e'l descapdelha. [La gioia è d'accordo con l'amore, e indossano gli stessi vestiti, e chi potrebbe disapprovarlo, mi sono liberato della mia meschinità; l'amore è rivestito di bella gioia e la gioia fa dell'amore il suo signore, e il male, che non finisce, lo svilisce e lo rovescia.] Cortezament assembelha amors vera e s'afina, que de joy fa son sembelh, per qu'ieu plus ves lieys acli: e malvestatz dezacuelh pretz que no sap on s'estey. Per qu'ieu laus jovens acuelha amors e ab lieys esteya. [Cortesemente, il vero amore ci chiama e si raffina; fa della gioia il suo richiamo, per questo mi sottopongo ancora di più ad esso: il male respinge e non sa dove dimorare. Ecco perché mi piace che i giovani diano il benvenuto all’a o e e i a ga o o esso.] Sobre'ls melhors senhoreya mos chans en qual guiza'm vuelha, [116]
e'ls motz laissans senhorey e'ls say dir aissi cum vuelh. E vec vos del vers la fi qu'En Grimoartz vos espelh : qu'ab joy lo las' e l'afina si's qui bel chant ni l'espelha. [Oltre il meglio regolo la mia musica, non importa come la modifico, e padroneggio le parole, intrecciandole, e posso dirle come mi piace. E vedo la fine della poesia che Sir Grimoart vi propone: lasciatelo tessere con gioia e affinarlo, sicchè un bel canto ne venga fuori.] ♫♫
NO SAP CHANTAR QUI SO NON DI (Non sa cantare chi non conosce il suono) No sap chantar qui so non di, ni vers trobar qui motz no fa, ni conois de rima co·s va si razo non enten en si. Mas lo ieus ha s o e s aissi: com plus l'auziretz, mais valra, a, a. [Non sa cantare chi non conosce il suono, né compone versi chi non crea parole, né può vedere le vie della poesia chi non capisce il significato. Ma il mio canto inizia così, quanto più lo udirete, tanto più varrà, ah, ah.] Nuils hom no·s meravilh de mi s'ieu am so que no veira, que·l cor joi d'autr'amor non a mas de cela qu'ieu anc no vi; ni per nuill joi aitan no ri, e no sai quals bes m'en venra, a, a. [Nessuno si meravigli di me se amo colei che non vedrò mai, che il mio cuore non gioisce di altro amore se non per colei che io mai vidi; altra letizia mai mi prese e no so quale bene per me verrà, ah, ah.] Colps de joi me fer, que m'ausi, e ponha d'amor que·m sostra la carn, don lo cors magrira; et anc mais tan greu no·m feri, ni per nuill colp tan no langui, quar no cove ni no s'esca, a, a. [Mi ferisce e mi uccide che mi colpì, una fitta d'amore ghermirà tutta la carne e smagirà tutto il corpo; così forte mai nessuno mi ferì, né per un sol colpo il corpo languì, che non è giusto né bene sarà, ah, ah.] Anc tan suau no m'adurmi mos esperitz tost no fos la, ni tan d'ira non ac de sa mos cors ades no fos aqui; e quan mi reisit al mati totz mos bos sabers mi desva, a, a. [117]
[Non mi sono mai addormentato così placidamente che il mio spirito non fosse subito là, né mai provai così gran pena che io non volassi rapido fin lì; e quando mi risveglio al mattino tutto il mio piacere svanisce e va, ah, ah.] Be sai a de lei no·m jauzi ni ja de mi no·s jauzira ni per son amic no·m tenra ni coven no·m fara de si. Anc no·m dis ver ni no·m menti, i o sai si ja s o fa a. A, a. [So ben che non mai goduto di lei, né mai di me lei non godrà, né mi terrà per suo amico, né mi farà alcuna promessa di sé. Non mi disse mai la verità nè mai mentì, e non so se mai lei lo farà.Ah, ah.] Bos es lo vers, s'ieu no·i falhi, e tot so que y es ben esta, e sel que de mi l'apenra gart se no·l franha ni·l pessi; Car si l'auzon en Caerci En Bertrans e'l coms en Tolza.,a a. Bos es lo vers, e feran hi qualque re, don hom chantara, a, a. [È bello la canzone, senza errori si è conclusa, e quel che contiene ben si adatta, e chi la impara da me non ardisca a cambiare nulla, così che la sentano il visconte di Quercy e il conte di Tolosa, ah, ah. [È bello il canto di chi volle fare un qualche cosa che si canterà.] ♫♫
PRO AI DEL CHAN ESSENHADORS (Ho intorno a me molti bravi cantori) Pro ai del chan essenhadors Entorn mi et ensenhairitz: Pratz e vergiers, albres e flors, Voutas d'auzelhs e lays e critz; Per lo dous termini suau, Qu'en un petit de joy m'estau, Don nulhs deportz no-m pot jauzir Tan cum solatz d'amor valen. [Ho intorno a me molti bravi cantori, uomini e donne: prati e giardini, alberi e fiori, gorgheggi di uccelli e grida e cinguettii; per tutta la dolce e piacevole stagione; tuttavia, la mia gioia è limitata poi h o ’ svago che mi fa gioire quanto godere di un degno amore.] Las pimpas sian als pastors Et als enfans bordentz petitz, E mias sion tals amors Don ieu sia jauzens jauzitz. Qu'ieu la sai bona tot aitau Ves son amic en greu loguau. Per so suy trop soen marritz Quar no n'ai so qu'al cor n'aten. [118]
[Che i pastori abbiano i loro flauti e che i bambini abbiano i loro giochi. Che io possa avere tali amori che posso accontentare ed essere contento. Io so che ella è piena di bontà per i suoi amici n grave pena. Per questo motivo sono spesso triste dal momento che non ho quello che il mio cuore s’atte de.] Luenh es lo castelhs e la tors Ont elha jay e sos maritz, Et si per bos cosselladors Cosselhan non suy enantitz --Q'autre cosselhs petit m'en vau, Aitant n'ay fin talan corau,-Alres no y a mais del murir, S'alqun joy non ay en breumen. [Lontani sono il castello e la torre dove giacciono lei e il suo consorte; e se a buoni consiglieri non mi appellassi che mi sappiano supportare (altri consigli valgono poco per me, così puro è il desiderio nel mio cuore), non posso fare altro che morire se non avrò subito sollievo.] Totz los vezis apel senhors Del renh on sos joys fo noyritz, E crey que-m sia grans honors Quar ieu dels plus envilanitz Cug que sion cortes lejau: Ves l'amor qu'ins el cor m'enclau Ai bon talan e bon albir, E say qu'ilh n'a bon escien. [Io chiamo "signore" ogni abitante del regno dove ella è stata allevata, e credo che sia un grande onore per me credere che lì la peggior gente sia cortese e leale: per l'amore che è racchiuso nel mio cuore, ho sia un forte desiderio che una buona volontà, e di questo so che ella è ben cosciente.] Ma voluntat s'en vai lo cors, La nueit e'l dia esclarzitz, Laintz per talant de socors; Mas tart mi ve e tart mi ditz: Amicx, fa s'elha, gilos brau An comensat tal batestau Que sera greus a departir, Tro qu'abdui en siam jauzen. [Il mio desiderio segue il suo corso, di notte e alla luce del giorno, da quella parte cercando aiuto; ma ritorna lento e e mi parla lentamente: "Amico mio – dice - dei villani gelosi hanno iniziato una tale rissa che sarà difficile separarli, sicchè possiamo essere entrambi contenti. "] ♫♫
QUAN LO RIUS DE LA FONTANA (Quando il getto della fontana si rischiara) La poesia è verosimilmente scritta a ridosso della seconda Crociata (1147-1148). Ugo Bruno di Lusignano, al quale la poesia è inviata, è uno dei capi di uno dei corpi di spedizione francesi; secondo gli storici, il poeta nomina con le loro regioni di provenienza i vari contingenti che ne fanno parte. [119]
Testo: Quan lo rius de la fontana S'esclarzis, si cum far sol, E par la flors aiglentina, E'l rossinholetz el ram Volf e refranh ez aplana Son dous chantar e l'afina, Be'ys dregz q'ieu lo mieu refranha. [Quando il getto della fontana si rischiara, come è suo solito, e sboccia la rosa canina, e l’usig olo sul a o innalza e riprende e dispiana il sua canto e lo affina, è bene he a h’io riprenda la mia canzone.] Amors de terra lonhdana, Per vos tot lo cors mi dol, E no'n puesc trobar mezina Si non al vostre reclam Ab maltrait d'amor doussana Dins vergier o part cortina Ab dezirada compahna. [Amor di terra lontana, per voi soffre il mio cuore e non so trovare medicina se non accorro al vostro i hia o a sazia e il o deside io a de te d’a o e, el gia di o o sotto il alda hi o o la deside ata compagnia.] Pus tot jorns m'en falh aizina, No'm meravilh si n'ai fam, Quar anc genser crestiana Non fo, ni Dieus non o vol, Juzia ni sarrazina. Ben es selh paguatz de mana, Qui de s'amor ren guazanha. [Poi h o e ho ai l’o asio e, non ’ da stupi si se la desidero, non vi fu mai, né Dio lo vuole, più bella cristiana, né giudea o saracena. Gusterà le gioie del cielo chi otterrà u po’ del suo a o e.] De dezir mos cors no fina Vas selha res qu'ieu pus am, E cre que'l voler m'enguana Si cobezeza la'm tol; Que pus es ponhens d'espina La dolors que per joy sana, Don ja no vuelh qu'om m'en planha. [Il io uo e o essa di deside a e olei he io più a o; e edo he la volo tà ’i ga a poiché la concupiscenza me la sottrae; più pungente della spina è il dolore che la gioia di amarla guarisce; dunque non voglio che nessuno mi compianga.] Quan pensar m'en fai aizina adonc la bays e la col, mas pueys torn en revolina perqu'em n'espert e n'aflam, quar so que floris non grana. [120]
Lo joys que mi n'ataina tot mos cujatz afaitanha. [Quando ho modo di pensare a lei, allora la bacio e l’a ’i fia a he il fio e o dia f utto. La gioia he i to
a io, a poi torno e mi rigiro: mi esaspera e e ta a atte le ie fie ezze.]
Senes breu de parguamina Tramet lo vers en cantan En plana lengua romana, A'N Ugo Bru per Filhol. Bo'm sap quar gent peitavina De Berri e de Guizana S'esjau per lieys e'n Bretanha. [Invio senza foglio di pergamena questi versi, cantando, in schietta lingua romanza, a Messer Ugo Bruno, per mezzo di Filhol. Sono lieto che la gente del Poitou, del Berry e di Guienna da lei sia rallegrata, e anche la gente di Bretagna.]
♫♫ QUAN LO ROSSINHOL EL FOILLOS Qua do l usig olo t a le foglie Quan lo rossinhol el foillos Dona d'amor e·n quier e·n pren E mou son chant jauzent joyos E remira sa par soven E·l riu son clar e·l prat son gen, Pel novel deport que-y renha, Mi vai grans joys al cor jazer. [Qua do l’usig olo t a le foglie do a a o e e lo i hiede e lo i eve, e li e a il suo a to gode do gioiso e rimira sovente la sua compagna, e i ruscelli sono limpidi e ridenti i i prati, per la nuova allegria che regna, u a g a de gioia ’i vade il uo e.] D'un'amistat suy enveyos, Quar no sai joya plus valen, Que d'aquesta, que bona·m fos Si·m fazia d'amor prezen: Que·l cors a gras, delgat e gen E ses ren que-y descovenha, E s'amors bon' ab bon saber. [D’u a a i izia ho ta ta a a, pe h o o os o aggio e gioia più ado a ile e deside a ile, che mi darebbe giovamento se lei mi facesse dono d'amore: ché il suo corpo è florido, aggraziato e leggiadro, senza niente che ne alteri la grazia; il suo buon amore ha buon sapore.] D'aquest' amor suy cossiros Vellan e pueys sompnhan dormen: Quar lai ay joy meravelos, Per qu'ieu la jau joyos jauzen. Mas sa beutatz no·m val nien, Quar nulhs amicx no m'essenha [121]
Cum ieu ja n'aya bonsaber. [Per questo amore sono in pensiero, nella veglia e poi dormendo, nel sogno: allora stupenda è la mia gioia, perché le do gioia e ne ricevo. Ma la sua bellezza non mi giova, poiché nessun amico m'insegna come gustarne il sapore.] D'aquest' amor suy tan cochos Que quant ieu vau ves lieys corren Vejaire m'es qu'a reversos M'en torn e que lieys n'an fugen. E mos cavals i vai tan len e greu cug mais que y atenha, S'ilha no·s vol arretener. [Di questo amore sono talmente preso che, quando corro da lei con fervore, mi sembra al contrario di camminare all'indietro e che lei mi stia sfuggendo. Il mio cavallo va così lentamente che temo di non poterla raggiungerese se lei non vuole fermarsi.] Amors, alegres part de vos Per so quar vau mo mielhs queren, E fuy-en tant aventuros Qu'enqueras n'ay mon cor jauzen. Mas pero per mon Bon Guiren Que·m vol e m'apell' e·m denha m'es ops a parcer mon voler. [Amore, parto lieto da voi, poiché vado cercando ciò che è meglio per me e fuggo verso tale avventura che già ne gioisce il mio cuore. Ma in nome del mio Buon Garante, che mi vuole, mi chiama e mi giudica degno, debbo dominare la mia volontà.] E qui sai reina deleytos E Dieu non siec en Bethleem No sai cum ja mais sia pros Ni cum ja venh' a guerimen, Qu'ieu sai e crei, mon escien, Que selh qui Jhesus ensenha Segur' escola pot tener. [E chi resta qui dedito ai piaceri e non va a servire Dio a Betlemme, non so quando mai sarà prode né come possa salvarsi; ma io so e credo per fede certa che chi apprende da Gesù può aver fiducia nel suo insegnamento.] ♫♫
QUI NON SAP ESSER CHANTAIRE (Colui che non sa cantare) Qui non sap esser chantaire braire deu quant au lo ver sonar clar e que son per tot mesclat prat e'l rozal del mati s'espan blan sobre l'erba josta'l sauza. [122]
[Colui che non sa cantare dovrebbe ragliare quando sente chiaro il suono della primavera e quando sono ovunque i prati multicolori e si diffonde la rugiada del mattino, luce, sopra l'erba vicino ad un cesto di vimini.] Non aus semblan ni vejaire faire qu'eu l'am ni l'aus desamar ar q'en amor son drut mirat fat e'il fals amador ab engan van cui amors engann'e bauza. [Non oso far intravedere, né mostrare che io la amo, né oso non amarla adesso che nell'amore sono considerati sciocchi i fedeli mentre i falsi amanti procedono menzogneri e il loro amore inganna e delude.] Non es reis ni emperaire gaire que l'ause'l mantel drechar var ni far q'agues acatat grat. Ric me fai la noig en somnian, tan m'es vis q'en mos bratz l'enclauza. [Non ci sono, tra re e imperatori, molti che le porgono un mantello o che entrano nelle sue grazie. Ella mi rende un uomo fortunato quando io sogno di tenerla tra le mie braccia.] Lai n'irai el sieu repaire, laire, em peril qom de passar mar. Si de mi no'il pren pitat, bat fer freg. Las! tan la vau pregan qan ni ja ren de leis me'n jauza. [Andrò alla sua dimora, come un ladro, in tanto pericolo come se avessi attraversato un mare. Se lei non ha pietà di me, io volo su un cavallo morto. Ahimè! La prego così tanto e non ottengo da lei alcuna soddisfazione.] Si no'm vol amar m'amia, dia, pos eu l'am, s'il m'amara; ja q'eu sui al seu mandamen, gen li serai si'm vol retener: ver li dirai, q'autrez i menta! [Se ella non vuole amarmi, lasciala dire poiché io l'amo, se lei mi ama; già sono a sua completa disposizione se mi accetta: io dico il vero, chiunque altro potrebbe mentire!]
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DISCOGRAFIA Sono molto in difficoltà (ed è per me la prima volta) nel segnalare una discografia: i pochi CD in commercio dedicati alle composizioni di Jaufrè Raudel, a giudizio unanime dei critici musicali, risultano purtroppo essere di mediocre qualità interpretativa. Obtorto collo, consiglio queste tre incisioni:
Jaufré Rudel Troubadour De Blaye Ensemble Tre Fontane Alba Musica
Distant Love, songs of Jaufre Rudel & Martin Codax Paul Hillier (voce) Andrew Lawrence-King, (salterio e arpa). Harmonia Mundi France
Jaufre Rudel - XIIe Siècle - Troubadour: Instrumental & Vocal Music Of The 12th Century La Compagnie Medievale, Herve Berteaux. Disques Pierre Verany
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Melomania: la Pagina della Lirica
Rigoletto di
Giuseppe Verdi
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GENESI DELL’OPERA Il Rigoletto è la prima opera di quella che viene definita trilogia popolare, che comprende Il Trovatore (1853) e La Traviata (1853) capolavori ai quali Verdi fu, per varie vicissitudini, costretto a lavorarci contemporaneamente. Popolare è un aggettivo corretto in considerazione dell’epoca a cui fa riferimento, ma per essere meglio compreso ritengo che sia più adatto l’aggettivo democratico, nel senso stretto del termine, vale a dire "governato dal popolo". Il compositore sentiva forte il desiderio di avvicinare la cultura e la musica al popolo inteso come identità sociale non più ignorante e insensibile ma democraticamente consapevole e in grado di dare forma e dignità all’Italia. Da lì a pochi anni nei teatri dove venivano rappresentate le opere del Cigno di Busseto verranno lanciati dalle piccionaie i volantini con scritto VIVA VERDI, dove VERDI voleva dire Vittorio Emanuele Re D’Italia, il monarca illuminato in grado di rappresentare l’unità d’Italia. L’idea di quest’opera matur̀ in Verdi tra il 1847 e il 1849, durante il suo soggiorno nella capitale francese, dove era venuto a contatto con le più recenti correnti del Romanticismo europeo. Le sue preferenze si erano appuntate sul dramma storico di Victor Hugo [nella foto] Le roi s’amuse (“Il Re si diverte”), nonostante che egli sapesse che il soggetto avrebbe incontrato obiezioni da parte della censura: il dramma di Hugo infatti era stato proibito in Francia subito dopo la prima rappresentazione del 22 novembre 1822 per il tema scandaloso e immorale e i possibili riferimenti alla famiglia regnante. Un re che progetta di rapire la moglie di un cortigiano, che si mischia ai frequentatori di una taverna equivoca e infine, peggio di tutto, che seduce una virtuosa giovinetta, era un pericoloso intrecciarsi di argomenti proibiti Nel dramma di Hugo, che non piacque né al pubblico né alla critica, era facile vedere le dissolutezze della corte francese, con al centro il libertinaggio di Francesco I re di Francia! Verdi propose dapprima il racconto al librettista Salvatore Cammarata per un’opera destinata al San Carlo di Napoli, ma l’esito fu negativo. Una nuova occasione gli si presentò nella primavera del 1850, allorché la direzione del Teatro La Fenice di Venezia gli chiese un’opera nuova per inaugurare la stagione di Carnevale del 1851, Verdi ripropose il soggetto e indicò come librettista il muranese
Francesco Maria Piave [ ell i
agi e]. Questi aveva
conoscenze nell’ambiente della Fenice, e Verdi confidava che avrebbe potuto fare da mediatore nei rapporti con la censura di Venezia che si annunciavano difficili e assai complessi. Nonostante le inevitabili difficoltà e i contrasti sul tema prescelto, la presidenza del Teatro diede una generica approvazione sull’argomento e incaric̀ lo stesso Piave di [126]
ottenere personalmente l’autorizzazione della censura. Nell’ottobre del 1850 Piave sped̀ a Verdi il libretto finito, al quale era stato attribuito il titolo La maledizione. Tre mesi prima della rappresentazione, la direzione della Fenice si vide però rifiutare il visto dalla censura con durissime parole: «Sua Eccellenza il Signor Governatore militare Cavalier de Gorzowski mi ha ordinato di partecipare a cotesta Nobile Presidenza ch’egli deplora che il poeta Piave e il celebre Maestro Verdi non abbiano saputo scegliere altro campo per far emergere i loro talenti che quello di una ributtante immoralità e oscenità ed oscena trivialità qual ̀ l’argomento del libretto intitolato La Maledizione. La prelodata Eccellenza sua ha quindi trovato di vietarne assolutamente la rappresentazione». In particolare, i censori stigmatizzavano il comportamento ribelle del buffone verso il sovrano, la dissolutezza del sovrano stesso e il sacrificio (quasi un suicidio) della figlia del buffone; inoltre era sgradito che il protagonista dell’opera fosse un buffone (“un gobbo che canta”) e che sua figlia agonizzasse in un sacco. Piave tentò di smussare le asperità, proponendo una versione modificata del dramma, ma Verdi vi si oppose fermamente. [Giuseppe Verdi ai tempi della stesura del Rigoletto]
Leggiamo quanto Verdi scrisse il 3 giugno 1850 Verdi a Piave: «In quanto al titolo quando non si possa tenere Le roi s'amuse, che sarebbe bello… il titolo deve essere necessariamente La maledizione di Vallier, ossia per essere più corto La maledizione. Tutto il soggetto è in quella maledizione che diventa anche morale. Un infelice padre che piange l'onore tolto alla sua figlia, deriso da un buffone di corte che il padre maledice, e questa maledizione coglie in una maniera spaventosa il buffone, mi sembra morale e grande, al sommo grande». Vi fu un estenuante alternarsi di proposte e controproposte; alla fine, per rispetto a Verdi e per la ragionevolezza del regime imperiale, si arrivò al compromesso di far svolgere l'azione alla corte di Mantova, a quel tempo non più esistente, trasformando il re di Francia nel duca di Mantova. Il resto rimase pressoché immutato per non compromettere l’essenza del dramma. La decisione finale sul titolo cadde sul nome del protagonista, cambiandolo da Triboletto
(traduzione
"letterale"
dell'originale
Triboulet), a Rigoletto (dal francese rigoler, che significa scherzare). La prima rappresentazione avvenne l’11 marzo 1851 al Teatro La Fenice di Venezia. Direttore d’orchestra e primo violino fu Gaetano Mares. Gli interpreti alla [127]
prima furono Felice Varesi nel ruolo di Rigoletto, Teresa Brambilla in quello di Gilda, Raffaele Mirate in quello del Duca di Mantova.
[Felice Varesi]
[Teresa Brambilla]
[Raffaele Mirate]
Il successo fu subito trionfale. Il pubblico accolse con calore l’intenso dramma di passione, tradimento, amore filiale e vendetta, e la combinazione di ricchezza melodica e potenza drammatica dell’opera. La stampa, da parte sua, reagì con una certa dose di stupore e perplessità. Questo il commento apparso il giorno dopo la prima sulla Gazzetta di Venezia: “Un’opera come questa non si giudica in una sera. Ieri fummo sopraffatti dalle novità; novità o piuttosto stranezze del soggetto; novità nella musica, nello stile, nella stessa forma dei pezzi e non ce ne facemmo un intero concetto. Ciononostante l’opera ebbe il più completo successo e il Maestro fu quasi ad ogni pezzo festeggiato, richiesto, acclamato e due se ne dovettero anche ripetere. E nel vero, stupendo, mirabile è il lavoro dell’istrumentazione: quell’orchestra ti parla, ti piange, ti trasfonde la passione.” La stessa calorosa accoglienza avvenne in buona parte dei teatri in cui fu allestita l’opera, ben 250 nell’arco del suo primo decennio di vita. Nel corso degli anni, con i teatri si moltiplicarono anche i conflitti con le censure di altre città che non sempre dimostrarono la stessa liberalità di quella veneziana. Ci furono così rappresentazioni ambientate nella lontanissima Australia e altre in cui Gilda saltava fuori del sacco incolume grazie alla “clemenza del Cielo”; né mancarono casi come a Bergamo in cui fu lo stesso pubblico a far interrompere lo spettacolo e a costringere la direzione del teatro ad abolirlo dal cartellone.
I personaggi dell’opera. Il Duca ci è presentato subito come un seduttore seriale, e dunque un paragone proprio con Don Giovanni sorge spontaneo, ma, a differenza del personaggio mozartiano, quello verdiano è assai più vacuo e leggero. Pur essendo un abile pianificatore delle proprie conquiste e indifferente alle conseguenze delle sue azioni ("A me che importa?", dice a Borsa), non è un manipolatore né un [128]
calcolatore: addirittura per quasi tutta l'opera lo vedremo restare completamente all'oscuro di quello che accade attorno a lui. Quasi tutti gli eventi si sviluppano alle sue spalle, senza che lui ne sia (almeno coscientemente) il motore: il Duca sarà inconsapevole del rapimento di Gilda da parte dei cortigiani e anche, fino alla caduta del sipario, dei complotti di Rigoletto con Sparafucile. Non saprà mai di essere scampato a un attentato alla propria vita. In un certo senso, non possiamo nemmeno dire che il Duca sia "cattivo" o "crudele", se non per il fatto che utilizza il potere che ha nelle mani per soddisfare i propri istinti. A sembrarci crudeli sono semmai i cortigiani, e anche Rigoletto, che sin dalla prima scena si mostra spietato e irridente. Il Duca, invece, a parte pochi passaggi, rimane una figura leggera, da commedia del primo ottocento, quasi anacronistico rispetto agli altri personaggi dell'opera. Non è mosso da amore, ma soltanto da un desiderio continuo e inestinguibile, e questo si rispecchia anche nelle sue arie, sicuramente bellissime e memorabili dal punto di vista melodico ma in fondo "semplici" ballate orecchiabili, in contrasto con le nuove, cupe e tragiche sonorità che Verdi saprà inventare quando è di scena Rigoletto, l'autentico protagonista dell'opera. Il Duca non conoscerà mai la vastità dell'amore di Gilda, né sarà consapevole del sacrificio che questa sarà disposta a fare per lui. Se il Duca è e resterà un personaggio leggero, ben diverso è il discorso su Rigoletto, nonostante il fatto che all’inizio dell’opera i due si mostrino affini, quasi complici, nell'irridere e nello stuzzicare il Conte di Ceprano, sulla cui sposa il Duca ha messo gli occhi. Naturalmente la loro situazione è ben diversa: il Duca è un potente, e secondo le regole del tempo ha "diritto" di esercitare la propria volontà, anche perché ne trae un beneficio personale; il buffone di corte Rigoletto non è altro che un servitore, e la sua irrisione, che in realtà nasconde il suo profondo odio verso i nobili (compreso il Duca stesso) viene scambiata per servilismo e inutile compiacimento, il che lo macchia (agli occhi degli altri cortigiani) come inutilmente malvagio. In realtà si tratta di una figura complessa e sfaccettatissima, come riveleranno i suoi sensi di colpa, i suoi scrupoli, l'ossessione, l'amore paterno, la folle ricerca della vendetta. Ritratto spesso – seguendo l'iconografia cinque/seicentesca – con la gobba e il classico berretto a sonagli, Rigoletto è invece una delle figure più tragiche della storia del melodramma. Gilda è una donna fragile che sente la mancanza di un modello femminile di riferimento (madre), reale, tangibile, con il quale rapportarsi, ha idealizzato la figura paterna, vissuta come appartenente ad un mondo altro, pericoloso, dal quale è necessario essere protette. Ha una naturale curiosità nei confronti dell’amore e della sessualità ma nutre un contemporaneo senso di colpa per il desiderio fisico perché crede di deludere il padre. Vedremo come la giovane donna, nel primo atto, apparirà come una figura ingenua e cui Verdi dedicherà melodie dallo stile volutamente datato ("Caro nome" su tutte), per poi farsi sempre più complessa, anche musicalmente, quando acquisirà consapevolezza delle ingiustizie del mondo. Alla fine, come molte eroine dell’800 letterario, idealizza il concetto di morte e del sacrificio d’amore e sceglie l’esecuzione-suicidio come espiazione pur di salvare l’amato che non merita tale devozione con la sua dissolutezza e i suoi bassi valori morali. [129]
GUIDA ALL’ASCOLTO PRELUDIO Il tema del Preludio (o della “maledizione” che apparirà più tardi cantato da Rigoletto) si apre con una nota più volte ribattuta con insistenza ed un accordo dissonante, esposti dapprima da trombe e tromboni, quindi dagli archi su un tremolo crescente fino all’esplosione di tre accordi in fortissimo, infine da ottoni e legni. Evolve poi in una serie di figure suonate da violini e legni per poi concludersi con funebri rintocchi di timpano.
ATTO I Scena I. Dopo la cupezza del Preludio, l'opera vera e propria comincia con note rapide, sbarazzine, allegre, quasi come se ci trovassimo in un'opera buffa. Il contrasto non potrebbe essere più netto, ma naturalmente la leggerezza serve a preparare il terreno agli eventi tragici del dramma.
[Teatro alla Scala di Milano, 2019]
Siamo nel pieno di una festa nelle sale del Palazzo Ducale di Mantova, con "cavalieri e dame in gran costume" impegnati con allegria nella danza. Verdi qui si appropria di una soluzione che già Mozart aveva utilizzato nel primo atto del Don Giovanni, ovvero quella di mescolare più temi e melodie anche dal punto di vista dello svolgimento della rappresentazione: al suono dell'orchestra in buca si aggiunge infatti la musica di una banda che proviene dall'interno e quella di un gruppo d'archi, ad
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accompagnare le danze, sul palcoscenico. I balli vorticosi e il continuo variare delle melodie accentuano il carattere libertino dei personaggi. Da una porta del fondo appaiono il Duca di Mantova e il suo cortigiano Borsa. Il Duca indica a Borsa una giovane ragazza che da tre giorni vede uscire dalla chiesa e che ha già seguito fino a casa: egli vuole insidiarla, però ancora non sa che trattasi di Gilda, la figlia di Rigoletto il deforme buffone di Corte. Borsa cerca di dissuaderlo, facendogli notare tutte le belle dame presenti alla festa. Il Duca torna quindi a corteggiare la Contessa di Ceprano, donna su cui ha già puntato gli occhi. Enuncia la sua filosofia libertina: incostanza, libertà in amore, prepotenza nobiliare; è la celeberrima aria “Questa o quella”, vero e proprio manifesto programmatico del personaggio, accompagnata dall’orchestra con ritmo saltellante.
[Vittorio Grigolo (Duca di Mantova). Teatro alla Scala di Milano. 2016]
DUCA. Questa o uella pe e pa i so o a ua t alt e d i to o i vedo; del io o e l i pe o o edo eglio ad u a he ad alt a eltà. La osto o avve e za ual do o di he il fato e i fio a la vita; s oggi uesta i to a g adita, fo se u alt a do a lo sa à. La osta za, ti a a del o e, detestia o ual o o crudele; sol chi vuole si se i fedele; o v ha a o , se o v li e tà. De a iti il geloso fu o e, degli a a ti le s a ie de ido; a o d A go i e t o hi disfido se i pu ge u a ual he eltà.
Scena II. Sull’ultima nota dell’aria attacca direttamente un lento minuetto. Su questo sfondo musicale propizio alle scene amorose, il Duca muta del tutto l’atteggiamento, corteggiando la contessa di Ceprano con una passione che contraddice tutto quanto ha appena dichiarato. Il Duca e la Contessa si allontanano
insieme, provocando l’ira del Conte suo marito che li segue. Scena III. Sulle note della ripresa del ballo entra in scena Rigoletto, che con rapide e beffarde parole schernisce il Conte di Ceprano e plaude al libertinaggio del suo signore, quindi esce di scena. [131]
Scena IV. La musica riprende gioiosa preceduta da un breve perigordino, antica danza francese in tempo veloce. Entra in scena il cavaliere Marullo, che, in disparte, racconta agli altri cortigiani che Rigoletto, sebbene gobbo e deforme, avrebbe un'amante; la notizia è lo spunto per i cortigiani e per il conte di Ceprano per vendicarsi dell'ironia offensiva del buffone con il rapimento della donna. In realtà la giovane che Rigoletto tiene ben nascosta in casa (neanche il Duca ne è a conoscenza) non è altri che la figlia Gilda.
Scena V. Il Duca rientra seguito da Rigoletto e gli confida dei problemi che sta avendo ad avvicinare la Contessa di Ceprano senza che il Conte li infastidisca. Rigoletto propone allora al Duca di esiliarlo o decapitarlo. Il Duca rimprovera il buffone di prendere troppo alla leggera le parole e di portare oltre il dovuto lo scherzo. Rigoletto confida nella protezione del Duca, nessuno gli farà del male. I due non sanno però che il Conte di Ceprano ha ascoltato questa loro conversazione: infuriato, sguaina la spada ma viene fermato dal Duca. Il Conte medita vendetta assieme ad altri cortigiani che desiderano anch’essi vendicarsi del buffone, indignati dalle sue angherie. Verdi ha realizzato qui un vivace concertato contrappuntistico in cui l’intreccio delle numerose voci (il Duca, Rigoletto, Ceprano e cortigiani a loro volta divisi in voci di tenore e di baritono), supportato dagli archi e dall’orchestra, porta ad un culmine emotivo sottolineato dallo spessore sonoro. Al termine, con il canto “Tutto ̀ gioia, tutto è festa!” di tutti i partecipanti, si ritorna a quel clima di opera buffa che costituisce la nota caratteristica di questa sequenza introduttiva dell’opera.
Scena VI. Con l’ingresso dell’anziano Conte di Monterone, l’atmosfera della festa cambia di colpo. L'allegria dei canti e delle danze (pur solo apparente, visto che dietro la letizia delle melodie si nascondevano propositi di inganno, odio e tradimento che soltanto ora cominciano a essere espliciti anche sul piano musicale) si arresta, per lasciar spazio a un momento di silenzio e poi a un accompagnamento cupo e solenne da parte dell'orchestra (che recupera gli accordi del preludio). Il Conte, vecchio nemico del Duca, lo accusa pubblicamente di avergli sedotto la figlia. La sua figura austera e quasi sacrale, simbolo dell’etica morale (come non paragonarla alla Statua del Commendatore nel Don Giovanni mozartiano?) è scolpita da Verdi con pochi tratti dotati tuttavia di una straordinaria efficacia teatrale. La sua frase d’esordio ̀ resa da un declamato, accompagnato da un tremolo degli archi e rinforzato per due volte da accordi di corni, fagotti, cimbasso (il trombone basso caduto oggi in disuso) e da un rullo di timpani. Rigoletto lo schernisce, facendogli il verso (accompagnato da tutta l’orchestra). Monterone ̀ in preda all’ira, espressa da tre scoppi orchestrali in fortissimo su una scala ascendente, alternati da accordi ribattuti in pianissimo da violini e viole; quindi culmina nell’anatema che lancia contro il Duca e Rigoletto, il quale inorridisce alla maledizione.
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[Richard J. Clark (Rigoletto), Enrico di Giuseppe (Duca di Mantova), Archie Drake (Monterone) Seattle Opera. 1982]
MONTERONE [fissando il Duca con nobile orgoglio] Sì, Monteron... la voce mia qual tuono vi scuoterà dovunque. RIGOLETTO [al Duca contraffacendo la voce di Monterone] Ch'io gli parli. [con caricatura] Voi congiuraste, voi congiuraste contro noi, signore; e noi, e noi, clementi in vero, perdonammo... Qual vi piglia or delirio, a tutte l'ore di vostra figlia a reclamar l'onore? MONTERONE [guardando Rigoletto con ira sprezzante] Novello insulto! [al Duca] Ah sì, a turbare, ah sì, a turbare sarò vostr'orge... verrò a gridare fino a che vegga restarsi inulto di mia famiglia l'atroce insulto; e se al carnefice pur mi darete, spettro terribile mi rivedrete, portante in mano il teschio mio, vendetta a chiedere al mondo, a Dio. DUCA. Non più, arrestatelo. RIGOLETTO. È matto! BORSA, MARULLO, CEPRANO. Quai detti! MONTERONE [al Duca e Rigoletto]. Ah, siate entrambi voi maledetti! BORSA, MARULLO, CEPRANO, CORO. Ah! MONTERONE. Slanciare il cane a leon morente è vile, o Duca... [a Rigoletto] e tu, serpente, tu che d'un padre ridi al dolore, sii maledetto! RIGOLETTO [da sè colpito]. (Che sento! orrore!) Due alabardieri portano via il Conte di Monterone, tutti gli altri seguono il duca in altra stanza, mentre Rigoletto rimane ancora profondamente turbato da quelle parole.
Scena VII. E’ cambiato lo scenario. E’ notte, in una via deserta, a fianco di una casa con un piccolo cortile circondato dal muro; dall’altro lato il muro della casa del Conte di Ceprano. In questa atmosfera resa ancora più oscura da una orchestrazione cupa (clarinetti, fagotti, viole, violoncelli e contrabassi), avanza chiuso nel suo mantello Rigoletto, oppresso dalla frase della [133]
maledizione. Ritorna il tema della maledizione già ascoltato nel Preludio, al quale segue una sinuosa melodia oscura esposta da un violoncello e da un contrabbasso e accompagnata da una grancassa a dal pizzicato degli archi. Lo segue a breve distanza Sparafucile, un sicario che, venuto a conoscenza delle attenzioni rivolte dal Duca alla giovane donna che il buffone nasconde nella casa, gli si offre per eliminare chiunque venga a insidiare la giovane. Gli racconta che egli uccide le vittime designate in casa della sorella Maddalena che li attrae con le sue grazie. Per il momento Rigoletto non ha bisogno dei servigi del sicario: per difendersi ed attaccare gli bastano le sue armi. Lo congeda, ma si fa spiegare come trovarlo se fosse necessario.
Scena VIII. Vedendo Sparafucile andar via, paragonandosi poi in qualche modo a lui, Rigoletto mette a fuoco i suoi pensieri: ancora scosso dalle parole di Monterone, maledice il suo destino di uomo deforme, condannato a divertire con le sue buffonate il Duca e i cortigiani che odia. Verdi qui scrive una linea melodica oscillante tra il parlato e slanci di più aperta cantabilità, sorretto da motivi orchestrali continuamente cangianti cui è affidato il compito di sottolineare le emozioni di Rigoletto.
RIGOLETTO: Pari siamo!... io la lingua, egli ha il pugnale; l'uomo son io che ride, ei quel che spegne!... Quel vecchio maledivami!... O uomini!... o natura!... Vil scellerato mi faceste voi...! Oh rabbia!... esser difforme!... esser buffone!... Non dover, non poter altro che ridere!... Il retaggio d'ogni uom m'è tolto... il pianto!... Questo padrone mio, giovin, giocondo, sì possente, bello, sonnecchiando mi dice: Fa ch'io rida, buffone... Forzarmi deggio, e farlo!... Oh, dannazione!... Odio a voi, cortigiani schernitori!... Quanta in mordervi ho gioia!.. Se iniquo son, per cagion vostra è solo... Ma in altr'uom qui mi cangio!... Quel vecchio malediami!... tal pensiero perché conturba ognor la mente mia!... Mi coglierà sventura?... Ah no, è follia.
Scena IX. Rigoletto entra in casa dove lo accoglie la figlia Gilda, che, vedendolo scosso, gli chiede di confidarsi con lei. Gilda vuol anche sapere qualcosa in più di sua madre. L’uomo risponde con un cantabile di rimpianto per l’amata morta. RIGOLETTO: Deh non parlare al misero del suo perduto bene... Ella sentia, quell'angelo, pietà delle mie pene... Solo, difforme, povero, Per compassion mi amò, Moria... le zolle coprano lievi quel capo amato... Sola or tu resti al misero... O Dio, sii ringraziato!... (Singhiozzando) La giovane lo rassicura dicendogli che da quando si è trasferita lì (tre giorni prima) è uscita di casa solo per andare in chiesa. Gilda non conosce ancora il nome del padre, né tantomeno è a conoscenza del suo ruolo a Corte.
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Scena X. Terrorizzato dalle possibili ritorsioni dei cortigiani, Rigoletto chiama subito la governante Giovanna e le ripete l’ordine di non fidarsi degli sconosciuti e di tenere sempre sbarrata la porta di casa, raccomandandole di sorvegliare e proteggere la fanciulla:
RIGOLETTO. (a Giovanna) Veglia, o donna, questo fiore che a te puro confidai veglia attenta, e non sia mai che s'offuschi il suo candor. Tu dei venti dal furore ch'altri fiori hanno piegato lo difendi, e immacolato lo ridona al genitor. GILDA. Quanto affetto!... quali cure! Che temete, padre mio? Lassù in cielo, presso Dio veglia un angiol protettor. Da noi stoglie le sventure di mia madre il priego santo; non fia mai divelto o infranto questo a voi diletto fior.
Scena XI. Rigoletto sente qualcuno fuori, esce a controllare se qualcuno l'abbia seguito; furtivamente il Duca (che era all’esterno con i suoi accoliti) entra in casa inosservato, si nasconde dietro un albero, e scopre che Gilda è la figlia del suo buffone di corte. Porge una borsa a Giovanna per farla tacere comprandone il silenzio. Rigoletto esce dalla casa.
Scena XII. Rimaste sole, Gilda racconta a Giovanna di provare rimorso per non avere rivelato al padre che un giovane la seguiva mentre ella si recava in chiesa. Ne ̀ stata conquistata (“ispira amore”), e le sue parole sono contrassegnate da una melodia trasognata suonata da oboi e clarinetti. Le sue parole vengono interrotte dal Duca che congeda Giovanna e, fingendosi un povero studente innamorato di nome Gualtier Maldè, manifesta a Gilda il suo amore:
DUCA. È il sol dell'anima, la vita è amore, sua voce è il palpito del nostro core... E fama e gloria, potenza e trono. Terrene, fragili cose qui sono. Una pur avvene sola, divina, È amor che agli angeli più ne avvicina! Adunque amiamoci, donna celeste, d'invidia agli uomini sarò per te. Le voci di Borsa e Ceprano, che vengono dal di fuori, spaventano Gilda che manda via il suo giovin innamorato. Il Duca si allontana non prima di essersi accertato che il suo amore sia ricambiato. I due si lasciano con una brevissima e appassionata cabaletta:
GILDA e DUCA. Addio... speranza ed anima sol tu sarai per me. Addio... vivrà immutabile l'affetto mio per te.
Scena XIII. Rimasta sola, rapita nel suo sogno d’amore, Gilda canta la sua passione in un’aria dominata dai legni (flauti, oboi, clarinetti e fagotti) fitta di fioriture che richiedono all’interprete doti virtuosistiche non comuni. Tali virtuosismi non sono fini a se stessi ma Verdi li ha scritti per connotare l’estasi amorosa, [135]
o meglio, l’estasi in cui ̀ caduta la fanciulla. Per meglio connotare il momento drammatico della vicenda che verrà, alla fine dell’aria Verdi inserisce il mormorio dei cortigiani che, armati e mascherati, vanno già riempiendo il vicolo.
GILDA. Gualtier Maldè!... nome di lui sì amato, Scolpisciti nel core innamorato! Caro nome che il mio cor festi primo palpitar, Le delizie dell'amor mi dêi sempre rammentar! Col pensiero il mio desir a te ognora volerà, e pur l'ultimo sospir, caro nome, tuo sarà.
Scene XIV-XV. Rigoletto torna nel vicolo ripensando ancora alla maledizione che lo ossessiona senza requie. Si imbatte in strada nel manipolo di cortigiani. Al buio fitto egli non riconosce il gruppo di persone, solo Marullo si fa avanti. Gli dice che sono diretti a casa della Conte di Ceprano, per rapire la Contessa e portarla al Duca. Rigoletto, rassicurato, decide di unirsi a loro. Il gruppo di cospiratori lo obbliga a indossare una maschera e una benda che lo rendono incapace di vedere e udire. Non si accorge quindi di essere davanti la casa dove abita Gilda. Giunti sotto casa, piazzano una scala per salire sul terrazzo ed entrare nella casa; Rigoletto rimane fuori a tenere la scala per gli assalitori.La crudele burla sfocia in un coro sottovoce e in note staccate: gli uomini rapiscono e trascinano via Gilda la quale, pur con la bocca chiusa da un fazzoletto, chiede con la voce fioca soccorso al padre. Nel rapimento perde una sciarpa.
TUTTI. Zitti, zitti moviamo a vendetta, Ne sia colto or che meno l'aspetta. Derisore sì audace costante A sua volta schernito sarà!... Cheti, cheti, rubiamgli l'amante, E la corte doman riderà. Rigoletto scopre l’inganno troppo tardi: si accorge di essere stato bendato, strappa impetuosamente la benda e la maschera, ed al chiarore d'una lanterna scordata riconosce la sciarpa, vede la porta aperta, entra, guarda Giovanna spaventata: la fissa con stupore, si strappa i capelli senza poter gridare. Su un’intensa pulsazione ritmica dell’orchestra culminante in un fortissimo, finalmente, dopo molti sforzi esclama, con la voce quasi strozzata “Ah!... la maledizione!!” e sviene.
ATTO II Scena I. La scena si apre nel salotto del palazzo Ducale. Su una breve introduzione orchestrale, affidata interamente agli archi, entra agitatissimo il Duca, che sembra ora abbandonare il suo ruolo di seduttore per indossare i pani dell’amante appassionato. Il rapimento, avvenuto a sua insaputa, suscita in lui un’improvvisa disperazione. Dopo un recitativo
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(“Ella mi fu rapita!”), ecco comparire un cantabile (“Parmi veder le lagrime”), una splendida pagina melodica che dà vita ai sentimenti d’amore del Duca.
DUCA: Ella mi fu rapita! E quando, o ciel... ne'brevi istanti, prima che il mio presagio interno sull'orma corsa ancora mi spingesse! Schiuso era l'uscio!... e la magion deserta! E dove ora sarà quell'angiol caro?... colei che prima potè in questo core destar la fiamma di costanti affetti?... colei sì pura, al cui modesto sguardo quasi spinto a virtù talor mi credo!... Ella mi fu rapita! E chi l'ardiva?... Ma ne avrò vendetta lo chiede il pianto della mia diletta. Parmi veder le lagrime scorrenti da quel ciglio, quando fra il dubbio e l'ansia del subito periglio, dell'amor nostro memore, Il suo Gualtier chiamò. Nè ei potea soccorrerti, cara fanciulla amata, ei che vorria coll'anima farti quaggiù beata; ei che le sfere agli angeli, per te non invidiò.
Scena II. Entrano in scena i suoi fidi, assieme ad altri cortigiani, che lo informano di aver rapito l’amante di Rigoletto e che la donna adesso è lì prigioniera nel palazzo.
BORSA, MARULLO, CEPRANO: Scorrendo uniti remota via, brev'ora dopo caduto il dì, come previsto ben s'era in pria, rara beltà ci si scoprì. Era l'amante di Rigoletto, che, vista appena, si dileguò. Già di rapirla s'avea il progetto, quando il buffone vêr noi spuntò; che di Ceprano noi la contessa rapir volessimo, stolto credé; la scala, quindi, all'uopo messa, bendato, ei stesso ferma tenè. Salimmo, e rapidi la giovinetta a noi riusciva quindi asportar. Quand'ei s'accorse della vendetta restò scornato ad imprecar, ad imprecar. Il Duca, mettendo in relazione i fatti narratigli, trasale, capendo subito trattarsi della sua amata Gilda. Si allontana dunque per incontrare la sua amata e consolarla. DUCA. Possente amor mi chiama, volar io deggio a lei; il serto mio darei per consolar quel cor. Ah! sappia alfin chi l'ama, conosca alfin chi sono, apprenda ch'anco in trono ha degli schiavi Amor.
Scene III e IV. Sopraggiunge Rigoletto mostrando indifferenza: conscio che il rapimento è stato condotto dai cortigiani del Duca, cerca di scoprire dove è stata nascosta la figlia. Quando comprende che Gilda è nel Palazzo in quel momento assieme al Duca, furente cerca di raggiungere le stanze; viene però trattenuto a forza dai cortigiani, contro i quali sfoga la sua ira. A questa prima invettiva, seguono una seconda parte, più lenta, in cui Rigoletto esprime il suo compianto, e infine una conclusiva invocazione di pietà ai cortigiani. È una scena potente, giustamente fra le più celebri dell'opera, dove il protagonista mette in mostra un ventaglio tale di emozioni (il sospetto, l'ironia beffarda, il malcelato disprezzo, l'ira esplicita, l'umiliazione, l'implorazione) che ne sintetizza in pochi minuti tutta la complessità, giustificando le parole di Verdi quando lo descriveva come “un carattere che è una delle più grandi creazioni che [137]
vanti il teatro di tutti i paesi e di tutte le epoche". E se finora avevamo già visto tracce di alcuni di questi aspetti (il canzonatore, l'irato, il calcolatore), appare qui per la prima volta il suo lato più vulnerabile e disperato, quello che lo spinge addirittura a implorare pietà dai suoi nemici.
[Leo Nucci] RIGOLETTO. Cortigiani, vil razza dannata, per qual prezzo vendeste il mio bene? A voi nulla per l'oro sconviene!.. ma mia figlia è impagabil tesor. La rendete... o se pur disarmata, questa man per voi fora cruenta; nulla in terra più l'uomo paventa, se dei figli difende l'onor. Quella porta, assassini, assassini, m'aprite, la porta, la porta, assassini, m'aprite. Ah! voi tutti a me contro venite!.. (piange) tutti contra me!.. Ah!.. Ebben, piango... Marullo... signore, tu ch'hai l'alma gentil come il core, dimmi tu dove l'hanno nascosta?.. È là? non è vero? ... tu taci!.. ohimè! Miei signori.. perdono, pietate...al vegliardo la figlia ridate... ridonarla a voi nulla ora costa, tutto al mondo è tal figlia per me.
Scena V. Su un motivo ascendente di violini irrompe Gilda che si getta tra le braccia del padre. L’orchestra sottolinea l’emozione dell’incontro mediante un disegno ritmico altalenante.
[Nadine Sierra (Gilda), Leo Nucci (Rigoletto). Teatro alla Scala Milano. 2016]
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Rigoletto, su richiesta della figlia sopraffatta dalla vergogna, allontana bruscamente i cortigiani su una nota ribattuta, che richiama la prima frase di Monterone, con il quale ora egli sembra identificarsi.
Scena VI. Rimasti soli, Gilda confessa al padre che, diversamente da quel che gli aveva detto, nella sua vita di reclusa è apparso un giovane, incontrato durante le uniche uscite permesse per andare in chiesa (qui l’oboe disegna una lamentosa melodia che conferisce al racconto una piega di amaro disincanto). Narra come egli sia un povero studente, innamorato di lei, e come il rapimento abbia interrotto questa storia di puro amore.
GILDA. Tutte le feste al tempio mentre pregava Iddio, bella e fatale un giovine offriasi al guardo mio...se i labbri nostri tacquero, dagl'occhi il cor, il cor parlò. Furtivo fra le tenebre sol ieri a me giungeva...Sono studente, povero, commosso mi diceva, e con ardente palpito amor mi protestò. Partì... il mio core aprivasi a speme più gradita, quando improvvisi apparvero color che m'han rapita, e a forza qui m'addussero nell'ansia più crudel. Tra due alabardieri passa frattanto Monterone, che sta per essere condotto in carcere. Il vecchio nobile si ferma e osserva il Duca ritratto in un quadro, constatando amaramente che la sua maledizione è stata vana. Udite le sue parole, Rigoletto promette che sarà lui stesso, padre ugualmente disonorato, a compiere la vendetta. Gilda ripete la veemente melodia del padre, ma invoca il perdono per l’uomo che ama. RIGOLETTO: (con impeto volto al ritratto del Duca) Sì, vendetta, tremenda vendetta di quest'anima è solo desio... di pu i ti già l'o a s aff etta, he fatale pe te tuo e à. Co e ful i s agliato da Dio, te olpi e il buffone saprà. GILDA: O mio padre, qual gioja feroce balenarvi ne gl'occhi vegg'io!.. Perdonate, a noi pure una voce di perdono dal cielo verrà. (Mi tradiva, pur l'amo, gran Dio! per l'ingrato ti chiedo pietà!)
ATTO III Scene I e II. La scena raffigura a sinistra una casa diroccata, appena fuori dalla città di Mantova: è la taverna di Sparafucile dove Rigoletto ha attratto il Duca adescato dalle grazie di Maddalena, sorella del sicario. Il resto del teatro rappresenta la destra parte del Mincio, che nel fondo scorre dietro un parapetto in mezza ruina; al di là del fiume è la città. È notte. Gilda e un inquieto Rigoletto sono sulla strada. Sparafucile nell'interno dell'osteria, seduto sopra una tavola, sta ripulendo il suo cinturone.
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Un breve preludio introduce un recitativo d’apertura. Rigoletto vuole convincere la figlia della infedeltà del Duca, del quale ella è ancora innamorata, malgrado sia già trascorso un mese. Giunge il Duca, travestito con una divisa di semplice ufficiale di cavalleria, che entra nella casa. Sotto gli occhi di Gilda, che spia attraverso le crepe dl muro della casa, la realtà si manifesta nel suo peggior squallore. Il Duca, ignaro di essere osservato, esprime la sua indole licenziosa chiedendo vino e letto, e canta un’aria che sintetizza che sintetizza appieno la sua concezione dell’amore e della donna.
[Teatro San Carlo, Napoli. 2017]
DUCA. La donna è mobile qual piuma al vento, muta d'accento e di pensiero. Sempre un amabile leggiadro viso, in pianto o in riso, è menzognero. È sempre misero chi a lei s'affida, chi le confida mal cauto il core! Pur mai non sentesi felice appieno chi su quel seno non liba amore! Questa melodia è intenzionalmente ordinaria, ma appropriata alla trivialità della situazione. Il brano gradualmente si spegne, assottigliandosi dal tutti orchestrale fino quasi a finire in un a solo di fagotto. Sparafucile rientra con una bottiglia di vino e due bicchieri che depone sulla tavola, quindi batte col pomo della sua lunga spada due colpi al soffitto. A quel segnale Maddalena, una ridente giovane, in costume di zingara, scende a salti la scala. Il Duca corre per abbracciarla, ma ella gli sfugge. Frattanto Sparafucile, uscito sulla via, si apparta con Rigoletto per sapere se ̀ lui l’uomo che deve uccidere o lasciare vivere.
Scena III. Il Duca, con parole dolci e lusinghiere, ricolme di falso amore, cerca di incantare la giovane Maddalena e convincerla a concedersi a lui. Giunge persino a parlare di matrimonio. DUCA. Bella figlia dell'amore, schiavo son de' vezzi tuoi; con un detto sol tu puoi le mie pene consolar. Vieni e senti del mio core il frequente palpitar. Con un detto sol tu puoi le mie pene consolar.
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Gilda, che assiste al di fuori alla scena, rimane scossa dall'udire quelle stesse parole - una volta indirizzate a lei - rivolte a un'altra donna. Rigoletto le intima di partire in sella a un cavallo e andare a Verona, travestita da uomo per la sua incolumità; lui l'avrebbe raggiunta il giorno successivo. La giovane donna va via subito.
Scena IV. Ha inizio la sequenza del delitto, che si svolge su un tessuto orchestrale semplice ma efficace sotto il profilo teatrale: accordi di viole, violoncelli e contrabbassi per dare vita ad un’atmosfera notturna immobile e rarefatta; tremolii di violino seguito da un rapido arpeggio di flauto ed ottavino per alludere ai bagliori dei lampi e alla tempesta che si sta avvicinando; coro a bocca chiusa per raffigurare il vento. Tutti questi elementi si combinano e ritornano più volte per sottolineare il clima di orrore che si sta preparando. Inoltre a complicare il tessuto musicale, si aggiungono il clarinetto che suona le note di “Bella figlia dell’amore” e di “La donna ̀ mobile”. Le voci rimangono invece sullo stile recitativo, di impronta più nettamente teatrale che lirica. Sparafucile esce dalla locanda per parlare con Rigoletto: riceve da lui una parte del denaro per portare a compimento l'uccisione del Duca. Rigoletto si allontana, impartendo al sicario un ultimo ordine: vuole essere lui stesso a gettare nel fiume il corpo senza vita del Duca. La sua vendetta sarà così completa.
Scena V. Sparafucile rientra nella locanda e fa accomodare il Duca in una stanza per la notte. Questi depone il cappello, la spada e si stende sul letto, dove in breve si addormenta. Maddalena frattanto siede presso la tavola, Sparafucile beve della bottiglia lasciata dal Duca. Sono chiusi nei loro pensieri. La giovane Maddalena ha ceduto al fascino del Duca, e ne vanta la bellezza al fratello.
Scena VI. Mentre si avvicina un temporale, Gilda, già in abiti maschili, travestita da mendicante, in preda ancora a un'attrazione irrefrenabile per il suo amato, è intanto tornata presso la locanda. Non vista, ascolta il drammatico dialogo che vi si svolge: Maddalena supplica il fratello affinché risparmi il Duca e uccida al suo posto Rigoletto non appena giungerà con il denaro. Viste le rimostranze del fratello, Maddalena propone una soluzione alternativa: se qualcuno fosse entrato nella locanda prima di mezzanotte, l'avrebbero ucciso al posto del Duca e intascato il resto dei soldi da Rigoletto. Sparafucile alla fine accetta un compromesso: aspetterà fino a mezzanotte e, se arriverà, ucciderà il primo uomo che entrerà nell'osteria. Sentendo queste parole, Gilda decide di immolare la sua vita per risparmiare quella del suo amato.
GILDA. Ah! presso alla morte, sì giovine, sono! Oh ciel, per gl'empi ti chieggo perdono! Perdona tu, o padre, questa infelice! ... Sia l'uomo felice - ch'or vado a salvar.
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Mentre scoppia la tempesta, bussa alla porta della locanda. Sparafucile va a postarsi con un pugnale dietro la porta; Maddalena apre, poi corre a chiudere la grande arcata di fronte, mentre entra Gilda, dietro a cui Sparafucile chiude la porta. La giovane viene pugnalata a sangue freddo dal sicario mentre tutto intorno resta sepolto nel silenzio e nel buio. Scena VII. La tempesta va scemando e Rigoletto fa ritorno alla locanda, tormentato dal desiderio di vedere conclusa la sua vendetta. RIGOLETTO. Della vendetta alfin giunge l'istante! da trenta dì l'aspetto di vivo sangue a lagrime piangendo, sotto la larva del buffon...(esaminando la casa). Quest'uscio è chiuso!.. Ah, non è tempo ancor!.. S'attenda. Qual notte di mistero! una tempesta in cielo!.. in terra un omicidio!..Oh come in vero qui grande mi sento!.. Batte alla porta e consegna il denaro a Sparafucile, che gli dà un sacco con dentro quello che Rigoletto pensa essere il corpo del Duca. Parte quindi verso il vicino fiume per gettarvi il cadavere, ma arrivato alla sponda del fiume, ode una voce in lontananza: quella del Duca. Rigoletto trasecola e capisce subito l’inganno: apre allora il sacco per vedere quale corpo contiene e, straziato, vi scopre la figlia ormai moribonda.
[Simon Keenlyside (Rigoletto), Aleksandra Kurzak (Gilda). Royal Opera House, 2014]
Gilda chiede al padre di perdonare questo suo gesto d'amore e di perdonare il suo amato Duca. Un’atmosfera timbrica rarefatta accompagna le ultime parole di Gilda che muore davanti al padre disperato. Rigoletto urla il suo dolore contro la maledizione del Conte di Monterone e si accascia sul corpo senza vita della figlia.
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DISCOGRAFIA
Verdi: Rigoletto Tito Gobbi (Rigoletto), Maria Callas (Gilda), Giuseppe Di Stefano (Duca di Mantova). Orchestra e Coro del Teatro alla Scala di Milano, dir. Tullio Serafin. EMI Classics Che dire di questa splendida incisione? Partiamo dal fatto che siamo nel 1955; a quei tempi il grandissimo Tullio Serafin aveva esattamente 77 anni, quindi pur "anziano" era comunque ancora in gran forma; Serafin occorre ricordarlo è stato senz'altro un eccellente direttore d'orchestra in ambito di opere liriche, soprattutto Italiane (tra Bellini, Donizetti, Puccini) ma anche alcune "straniere" come ad esempio il Wozzeck di Alban Berg tanto per citarne qualcuna; inoltre aveva già precedentemente registrato il Rigoletto circa 9 anni prima, sempre con il grandissimo Tito Gobbi come protagonista principale nella colonna sonora del celebre film televisivo di Rigoletto con la regia di Carmine Gallone. In questa registrazione in studio della EMI di quegli anni, che si avvaleva della splendida produzione di Walter Legge e dell’Orchestra e del Coro del Teatro della Scala di Milano, assolutamente straordinari, Tullio Serafin dirige in maniera molto solida, robusta e potente imprimendo all'orchestra un carattere forte, deciso e con un suono molto compatto, nitido e magnificamente esaltato dal bellissimo riversamento tecnico della Warner (entrata in possesso del catalogo EMI oramai da parecchi anni). Tito Gobbi [nella foto]
è assolutamente eccezionale,
stratosferico, nel ruolo di Rigoletto, forse il massimo Rigoletto in assoluto nella storia discografica integrale dell'opera (per quanto ce siano stati diversi veramente eccellenti quali ad esempio: Lawrence Tibbett, Leonard Warren, Dietrich Fischer-Dieskau, Leo Nucci, Piero Cappuccilli, Renato Bruson tanto per citarne alcuni tra i migliori in assoluto nel ruolo); sentire come Tito Gobbi ad esempio consoli la povera Gilda, all'inizio del secondo atto con dei 'piangi' dolcissimi, con una voce delicata, tenera, da vero padre è veramente molto emozionante!! Maria Callas da parte sua, era molto giovane (aveva circa 32 anni in questa registrazione) ed era alle prime incisioni professionali: canta benissimo ed interpreta già magistralmente, certo la qualità della voce così "asprigna, ferrosa" non sarebbe [143]
propriamente l'ideale per il ruolo di Gilda (che fondamentalmente è una giovane ragazza tra i 18 - 20 anni nell'opera) tuttavia la visione ed il carattere che la Callas imprime al personaggio è decisamente superiore a quello di tante altre cantanti, anche blasonate. Parlando invece del grande Giuseppe Di Stefano (di due anni più grande della Callas e quindi 33 o 34enne all'epoca di questa registrazione) bisogna dire che il suo "modo" di cantare non era propriamente l'ideale per la maggior parte dei ruoli Verdiani, soprattutto poiché tendeva sempre a spingere la propria voce con tonalità molto forti, cantando praticamente a squarciagola, lontanissimo anni luce dalle sfumature e chiaro-scuri di un Bergonzi ad esempio; comunque al suo Duca di Mantova riesce comunque a dare una certa spavalderia e simpatica istrionicità, quindi una prova nel complesso ampiamente soddisfacente (anche se oggettivamente, rimane pur sempre qualche gradino al di sotto di altri 3 o 4 tenori in questo specifico ruolo). I comprimari sono praticamente quasi tutti Italiani, quindi con un eccellente dizione, splendido è lo Sparafucile di Nicola Zaccaria, un interpretazione veramente notevole la sua e comunque bravissimi anche tutti gli altri. Il riversamento "tecnico" di questa registrazione è assolutamente eccezionale, il suono è splendido, ottimamente rimasterizzato, i piani sonori sono articolati con grande chiarezza ed estrema precisione, l'effetto complessivo è decisamente notevole, è indubbiamente un saldo punto di riferimento anche e sino ai giorni nostri. Assolutamente imperdibile! Verdi: Rigoletto Sherril Milnes (Rigoletto), Joan Sutherland (Gilda), Luciano Pavarotti (Duca di Mantova). Ambrosian Opera Chorus. London Symphony Orchestra, dir. Richard Bonynge. Decca Questa registrazione è stata fatta nel giugno 1971 alla Kingsway Hall di Londra, e nonostante gli anni suona straordinariamente bene, con il CD che mette in risalto la precisione del posizionamento e il senso del realismo. Solo una leggera mancanza di fioritura sui violini alti tradisce l'età del suono. Rimane tuttora tea le migliori versioni di riferimento di quest’opera verdiana. Milnes con una nota mai aspra o ruvida fa un Rigoletto vocalmente forte, forse troppo nobile di timbro per il gobbo: la performance è comunque di ottimo livello. Pavarotti ha una voce eccellente: il suo Duca è disegnato come un mascalzone affascinante ed egoista.
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La pura bellezza, comando e brillantezza tecnica di Joan Sutherland rendono il suo canto un piacere, anche se un po’ matronale. Infine la capacità caratteristica di Bonynge di scatenare ritmi e disegnare melodie all'italiana funziona bene in quest'opera, con l'LSO in forma eccellente. Giuseppe Verdi: Rigoletto Piero Cappuccilli (Rigoletto), Ileana Cotrubas (Gilda), Placido Domingo (Duca di Mantova). Wiener Philharmoniker, dir. Carlo Maria Giulini. Deutsche Grammophone - The Originals Registrazione del 1979. Il cast è prestigioso e scelto con cura, anche in piccoli ruoli (Elena Obraztsova in Maddalena, Kurt Moll a Monterone, sontuoso il Sparafucile di Ghiaurov!), anche se Cappuccilli, che pure è un ottimo Rigoletto, certamente non ha la bellezza del timbro di Milnes; Domingo canta molto bene ed è molto musicale, il suo Duca di Mantova è leggero e seducente; Ileana Cotrubas ci offre una bella e commovente Gilda. La direzione di Giulini è molto particolare: molto lenta ma affascinante. L’orchestra suona ad altissimo livello. Manca però un quid, che mi fa preferire altre registrazioni. Il suono è tecnicamente registrato molto bene. Verdi: Rigoletto Dietrich Fisher-Dieskau (Rigoletto), Renata Scotto (Gilda), Carlo Bergonzi (Duca di Mantova). Orchestra e Coro del Teatro alla Scala di Milano, dir. Rafael Kubelik. Deutsche Grammophone Il Rigoletto del 1964 di Rafael Kubelik è dai più ritenuto la più bella versione mai incisa della celebre opera verdiana, e costituisce un sicuro punto di riferimento. Incredibile come il miglior Rigoletto della storia del disco sia firmato in direzione da un maestro al di fuori della tradizione italiana: eppure Kubelik in maniera per niente stereotipata accompagna con eccellenza i cantanti con magnifici colori orchestrali, e se qui e lì manca di incisività in qualche accompagnamento di maggiore drammaticità, o rallenta troppo i [145]
tempi, in compenso è magnifico in tutto l'impianto lirico e nei concertati, cosa non da poco vista la natura dell'opera. Bergonzi in questa esecuzione è valido interprete ma soprattutto grande cantante; gli sfugge in parte l'istinto predatorio e cinico del personaggio, ma quando al cinismo del seduttore si sostituisce l'afflato, anche momentaneo, del padre innamorato, siamo di fronte ad una prestazione veramente egregia (ad esempio ascoltate l’aria "Parmi veder le lacrime"). Renata Scotto è stata assieme a Maria Callas e Joan Sutherland la maggior interprete di Gilda che esulava dalla categoria del soprano lirico leggero. Supera la prima per compiutezza del canto in questo ruolo, e la seconda per espressività. Fisher-Dieskau non sarebbe a rigor di termini il Rigoletto ideale, soprattutto per due motivi: non copre gli acuti che quindi suonano aperti e privi di squillo, e scivola sovente dalla mezza voce al falsetto. A questo si aggiunga un modo non proprio idiomatico di articolare la frase italiana, con una certa pedissequità liederistica. Il senso della frase però è sempre rispettato ed espresso, la gamma dinamica e di colori enormemente ampia, la vigoria nei momenti drammatici apprezzabile, il lirismo del padre amoroso assolutamente soggiogante. Quindi senza dubbio una grande interpretazione. Con questa direzione, questo baritono e questo soprano, i due duetti Gilda-Rigoletto contenuti nella registrazione sono assolutamente magnifici e godibilissimi anche dai melomani meno raffinati. La registrazione si difende bene nonostante gli anni, ma nel remastering volto a toglierle un po' di rumore ha perso un pizzico della sua luminosità originaria, pur continuando a produrre un buon suono accettabile. Verdi: Rigoletto Renato Bruson (Rigoletto), Edita Gruberova (Gilda), Neil Shikoff (Duca di Mantova). O hest a e Co o dell A ade ia di “a ta Ce ilia, dir. Giuseppe Sinopoli. Philips La bravura di Giuseppe Sinopoli non può che essere ancora riconfermata per questa esecuzione. Il Maestro, purtroppo scomparso troppo presto, dimostra ancora una volta la sua grande sensibilità nell'affrontare questa partitura in modo magistrale e naturale, senza arbitrarietà, anche supportato dall'ottimo cast di cantanti. Renato Bruson è in uno dei suoi cavalli di battaglia; Edita Gruberova è sorprendente, la sua espressività è delicata ed emotiva. Per molti è la migliore Gilda con Sutherland. Anche La
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compatibilità con il Bruson è eccellente, i loro duetti sono molto intensi. Shikoff è eccellente, inaspettatamente è uno dei migliori Duca Mantova in disco. L’Orchestra di Santa Cecilia ̀ eccellente . Ottima la registrazione digitale, vivida. Verdi: Rigoletto Robert Merrill (Rigoletto), Anna Moffo (Gilda), Alfredo Kraus (Duca di Mantova). RCA italiana Opera Chorus and Orchestra, dir. Georg Solti. Sony Classical Opera Solti non è mai stato molto a suo agio con Verdi: anche in questa registrazione, la sua direzione è brutale, il grande direttore gonfia a dismisura il suono dell'orchestra, è ondivago nella scelta dei tempi e, infine, è compiacente coi suoi cantanti, ai quali consente troppe libertà. Avrebbe potuto rallentare un po', a volte, ma l'intera performance ha un impulso meteorico. Robert Merrill è un Rigoletto forte e vocalmente libero. Il suo personaggio è però superficiale, per nulla tormentato, pieno di c vezzi di tradizione e, in definitiva, il baritono americano manca proprio il personaggio. Alfredo Kraus è un duca molto commovente, molto più sottile vocalmente e drammaticamente credibile di Domingo con Giulini. A volte per̀ gigioneggia un po’ troppo. Perfetta come al solito la dizione, perfino migliore di quella di alcuni italiani di questo Duca non si perde una parola. Inaspettatamente il pregio di questa registrazione sta nella performance di Anna Moffo, soprano bella quanto brava. E’ semplicemente eccezionale, con una brillante luminosità nella sua coloratura e un'elevata purezza nella conduzione della linea di canto. Il carattere ingenuo di Gilda è centrato in pieno, i suoi toni sono liberi, ricchi e sensuali. La dizione, poi, è ottima: ciò non accade spesso con questo personaggio. Anche se questa Gilda non sarà ricordata come la migliore della storia del disco, si dovrà riconoscere che ce ne sono state molte decisamente meno efficaci e non poi così tante incontestabilmente superiori.Di livello accettabile i personaggi di contorno. La registrazione è troppo fantasiosa, con frequenti spostamenti delle voci da un canale all'altro ed effetti talvolta persino sgradevoli: si era in piena frenesia da stereo, una relativa novità al tempo di questa incisione; e i tecnici del suono, evidentemente, vollero sbizzarrirsi utilizzando tutte lo spettro delle possibilità loro offerte. In definitiva, un "Rigoletto" da salvare - chi l'avrebbe mai detto? principalmente per la Moffo e, solo in parte, per Kraus.
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VIDEO
Giuseppe Verdi: Rigoletto Cornell MacNeil (Rigoletto), Ileana Cotrubas (Gilda), Placido Domingo (Duca di Mantova). The Metropolitan Opera Orchestra e Chorus, dir. James Levine. Deutsche Grammophon (DVD) Eccellente produzione del MET nel novembre 1977. Cornell MacNeil è probabilmente uno dei migliori Rigoletto mai registrati, capace di dare al suo personaggio una tinta umanissima, ma senza trascurare il lato malvagio. La sua voce suona un po' stanca in alcuni punti, ma questo aggiunge al dramma un lato poco sfruttato: Rigoletto è un vecchio amaro, quindi un baritono fresco non trasmette abbastanza quella personalità. MacNeil ha incredibili note alte, che non perdono mai il suono baritonale, semplicemente impressionante! Domingo è un Duca strepitoso per mezzi vocali e travolgente carica vitale; non sente però molto la cattiveria del personaggio. Ileana Cotrubas interpreta una Gilda molto credibile, fragile e implorante, trasmette abbastanza «innocenza» senza essere timida. Di alto livello anche il resto del cast, nel quale spiccano il possente Monterone di John Cheek e l’avvenente Maddalena di Isola Jones. La direzione di James Levine si distingue per un impressionante, serratissimo ritmo drammatico.Infine la messa in scena e la regia sono brillanti. Giuseppe Verdi: Rigoletto Ingyar Wixell (Rigoletto), Edita Gruberova (Gilda), Luciano Pavarotti (Duca di Mantova). Wiener Philharmoniker, dir. Riccardo Chailly. Universal Music (DVD) Questa produzione cinematografica del 1982 è stata girata nel palazzo e nel fiume in cui si suppone che la storia si svolga. Questa è una versione molto suggestiva dell'opera, al di là di ciò che normalmente si può presentare in un teatro. Cast di altissimo livello. Un giovane Pavarotti nella parte del duca di Mantova, nel pieno delle sue possibilità e qualità vocali. Questa è la migliore performance di Pavarotti nel Rigoletto sul disco, sia visivamente che vocale. Semplicemente non c'è nessun altro che possa avvicinarsi a lui sul ruolo del Duca. Ingvar Wixell nella parte di Rigoletto, veramente strepitoso, Lo stesso si può dire per quanto
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riguarda Ferruccio Furlanetto, nella parte di Sparafucile. Edita Gruberova, nella parte di Gilda, a mio modesto parere non è entusiasmante, il suo assolo Caro Nome manca di brillantezza, la sua recitazione è senza emozioni e non è convincente come adolescente innocente, non aiutata dal suo costume e trucco poco indovinato. Riccardo Chailly guida egregiamente i Wiener che suonano come al solito superbamente. Qualche critica alla regia di Ponelle, con alcune scelte discutibili, come il finale molto strano e insoddisfacente, con Rigoletto e Gilda galleggiare in lontananza su una barca. Riversamento in Blu-Ray ottimo, audio e video eccellenti. Giuseppe Verdi: Rigoletto Leo Nucci (Rigoletto), Inva Mula (Gilda), Aquiles Machado (Duca di Mantova). Coro ed orchest a dell A e a di Ve o a, dir. Marcello Viotti. TDK (DVD) Si tratta di una superba performance di Rigoletto realizzata all'Arena di Verona nel 2001. Leo Nucci è dei migliori Rigoletti di sempre, anche quando lo interpretò in tarda età. Il suo timbro è in grado di esaltare tanto gli aspetti comici quanto quelli tragici di un personaggio così complesso, forse il più complesso del repertorio baritonale. E’ semplicemente grande nel ruolo del tragico padre che ha perso tutto ciò che ha nella sua vita. Un appunto: nella scena finale sembra debole e sobrio quando invece avrebbe dovuto sopraffare tutto il pubblico con dolore, dolore e orrore. Aquiles Machado è un ottimo Duca; la sua voce spinto è perfetta per il ruolo, e la sua interpretazione ha abbastanza con brio per adattarsi alla parte. Nel ruolo ella sua scena d'apertura con Rigoletto canta in puro stile lirico, ma la voce diventa più spinta nel secondo e terzo atto, con più ricchezza. Inva Mula nel ruolo di Gilda è una figura incredibilmente piacevole, sia all'orecchio che agli occhi. Mario Luperi (Sparafucile) e soprattutto una seducente Sarah M'Punga (Maddalena) interpretano bene i loro personaggi. Marcello Viotti conduce nello stile di Toscanini e Levine: è un'interpretazione vivace, ma non affrettata. L'immagine e il suono di questo disco sono perfetti. L'Arena è impressionante e la scena è nuova. Preferisco la vecchia maniera, ma la rivisitazione moderna non è sgradevole. [149]
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