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Bar | Alberghi | Ristoranti
COVER Ettore Bocchia Tecnica e materia, oltre ogni limite
Gennaio-Febbraio 2020
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BARTENDER Edoardo Nono, mixology d’autore
L’INTERVISTA Bruno Barbieri Una lunga carriera
ORIENTAL STYLE Claudio Liu apre Yio Aalto a Milano
ALBERGHI Anunciada a Lisbona Impronta luxury
Un mix di colori e sapori: dall’orto al bar. Ecco la nuova idea Bonchef per tutti i tuoi clienti che in pausa pranzo sono attenti all’alimentazione ma senza rinunciare al gusto.
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Editoriale BARtù
Ordinari e straordinari è sempre attuale, considerate certe resistenze. Vedo, infatti, sempre più ristoranti in cui vige la “dittatura del cliente”, in una logica di totale liberismo, e altre strutture che, invece, avrebbero pretese didattiche, per non dire educative, verso il cliente insubordinato, portatore di richieste ritenute fuori luogo (dalla “carne ben cotta” fino alla “pasta e fagioli, ma senza fagioli”, sic!). Qual è dunque l’atteggiamento giusto da tenere di fronte a richieste demenziali? La materia è complessa, e spesso certi atteggiamenti potrebbero avere ripercussioni significative sui risultati economici di questo o di quel locale. Mi viene in aiuto Gualtiero Marchesi che, in una lectio magistralis all’Università di Parma, passata alla storia, disse: “La prima regola resta quella di accontentare il cliente, ed è abGualtiero Marchesi fra Daniel Canzian e Fabrizio Molteni bastanza facile nel caso di un cuoco ordinario, anche professionale. rapporto fra cliente e ristoratore, cliente Tuttavia, in presenza di cuochi straore chef o cliente e sommelier, si è scritto dinari, ciò può avvenire solo entro certi molto, anche su queste pagine. Ricordo limiti. Quando viene servito Riso e Oro un mio editoriale, che volutamente titolai (uno dei piatti iconici del Maestro) non “Il cliente (non) ha sempre ragione” che si può chiedere del formaggio grattugiami attirò consensi dall’universo dei proto, e comunque abbiamo il dovere di non fessionisti, ma anche critiche da parte del darlo”. Ci sono dei limiti invalicabili alla “popolo” dei clienti. Il quesito comunque, Parlando con conoscenti (non definiamoli amici, perché sarebbe troppo), si registrano spesso e volentieri espressioni di disagio, talvolta addirittura indignate, verso questo o quel ristorante. “E’ troppo caro!” o “Quello chef è insopportabile, si dà un sacco di arie” o “Una cucina con dei piatti insulsi e incomprensibili”. O, ancora: “Mi hanno addirittura chiesto il numero della carta di credito all’atto della prenotazione” e molte altre espressioni che evidenziano una forte contrarietà verso modi e comportamenti di un certo segmento di ristorazione. Sul difficile
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discrezionalità del cliente: i piatti tra cui scegliere sono diversi e vari, ma ognuno di questi lo finisce lo chef, sulla base di esperienza, tecniche, visione. “Un cliente che va in un grande ristorante deve sapere di non poter chiedere qualunque cosa” –continua Gualtiero. “Può ordinare una pasta semplice per un bambino, con il pomodoro, ma non può pretendere lo stravolgimento di un piatto. Si viene da me per mangiare in un certo modo, e io devo far gustare il mio piatto, frutto di una precisa ricerca”. Ho voluto citare Marchesi perché ritengo che ci debbano essere sempre delle regole, che non dovrebbero essere imposte ma, semmai, far parte del patrimonio comportamentale degli individui nel loro agire quotidiano. Non soltanto nell’alta ristorazione e nel mondo del fine dining. In quest’epoca di deregulation totale e consolidata, nel senso che ognuno tende a fare ciò che gli fa più comodo, disinteressandosi del prossimo (salvo poi ergersi a difensore globale dell’umanità afflitta) non farebbe male riscoprire antichi valori sempre attuali, come il rispetto, la correttezza, il riconoscimento dei ruoli, che non nascono a caso ma sono acquisiti grazie a cultura, esperienza, intuizione e molto altro. Insieme a valori come la conoscenza, la disciplina e il rispetto, sono i cardini fondamentali per vincere ogni sfida. Imparando finalmente a distinguere tra ordinari e straordinari. C’è una bella differenza.• Alberto P. Schieppati alberto.schieppati@edifis.it
Sommario
Editoriale 1 Ordinari e straordinari 4-9 News L’opinione 10 Ristoratori, sveglia! I turisti han bisogno di voi Cover Story 12 Ettore Bocchia: “Tutto parte dalla materia” Bar 18 Edoardo Nono, rendo felici i miei clienti 20 Il Julep, le erbe risvegliano Roma 22 Nazionale, format per unire food e drink 24 Assaggiare il Tè e raccontarlo L’intervista 28 Bruno Barbieri: occorre un fisico bestiale! Ristoranti 32 Enrico Croatti e l’Osteria di Moebius 36 La famiglia Liu guarda sempre più Aalto 38 Bon Wei Milano. La carta dei Lamian 42 Guide o classifiche? Facciamo un po’ di chiarezza 44 Il Cantinone, lo stellato più ad alta quota d’Italia 48 San Domenico di Imola. Vertice di classicità 50 Sella&Mosca il nuovo stile di Terra Moretti 54 Atene splende: merito di Angelos Lantos Alberghi 58 La Tavola di Riccardo,una storia italiana 62 Anunciada a Lisbona. Lusso e grande cucina La ricetta di BARtù 66 L’equilibrio del Gambero La foto di BARtù 67 Fabrizio Borraccino, un anno al Four Seasons 68 Pillole 69 Tech News Alberto’s choice 70 Japonito, fusion senza estremismi
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Gennaio - Febbraio 2020
In copertina: Ettore Bocchia, executive chef al Mistral di Bellagio, all’interno del GH Villa Serbelloni, è un esempio per tanti ristoratori e cuochi. Innamorato della materia prima, di cui è ossessivo selezionatore, ne conosce ogni caratteristica, anche chimica: una condizione necessaria alla valorizzazione di ogni ingrediente
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BARTENDER Edoardo Nono, mixology d’autore
L’INTERVISTA Bruno Barbieri Una lunga carriera
ORIENTAL STYLE Claudio Liu apre Yio Aalto a Milano
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direttore editoriale Alberto P. Schieppati alberto.schieppati@edifis.it
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Milano 16 - 17 Maggio
PALAZZO DEL GHIACCIO
Le stelle del vino tornano a Milano per la 3° Edizione di Best Wine Stars
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News
Barolo & Barbaresco degustazione a NY Una commissione composta dai 100 migliori palati – Masters of Wine, critici, giornalisti e Master Sommeliers – provenienti dai cinque continenti giudicherà le nuove annate di Barolo (2016) e Barbaresco (2017) nel cuore del World Trade Center. L’appuntamento è per il 4 e 5 febbraio per la prima edizione del Barolo & Barbaresco World Opening, ideata dal Consorzio di Tutela Barolo Barbaresco Alba Langhe e Dogliani dedicata ai due grandi rossi piemontesi. In degustazione i vini di 220 produttori di Barolo e Barbaresco per la prima e più grande degustazione al mondo interamente dedicata alle menzioni geografiche aggiuntive (MeGA) delle due denominazioni. “Questo primo BBWO rappresenta un’occasione unica per parlare al consumatore finale dei nostri vini e allo stesso tempo contribuisce a rafforzare la conoscenza delle menzioni geografiche aggiuntive tra gli addetti ai lavori” ci racconta il Presidente del Consorzio di Tutela Matteo Ascheri.
Hotel Food R-evolution: il futuro dell’hotellerie Da semplice servizio offerto a elemento imprescindibile nel monto dell’ hotellerie: l’offerta food&beverage oggi è uno dei motori che condizionano le scelte dei viaggiatori. Il punto della situazione è stato analizzato con trend, numeri e case history a Hotel Food R-evolution con oltre venti speaker internazionali. Ad aprire il convegno Giorgio Palmucci, presidente di Enit, l’agenzia nazionale di promozione del turismo italiano: “C’è sempre più attenzione rivolta al settore F&B e oggi più che mai le aziende che intendono offrire un prodotto di qualità studiano con attenzione le tendenze in atto sul mercato per poterne cogliere gusti e stimoli ed offrire così un prodotto tailor made capace di esaudire anche il palato degli ospiti più esigenti. L’attuale domanda rivolta al food vede un’attenzione particolare ai prodotti locali, una voglia di riscoprire le ricette tradizionali, un forte impegno alla sostenibilità, rispetto del cibo e attenzione agli inutili sprechi alimentari”.
Barman internazionali a Ego Circus Parma Capitale Italiana della Cultura 2020 Un tour lungo quattro mesi, un circo della La mostra di Fondazione Barilla mixology, Ego Circus vede 13 appuntamenti con barman di spicco e internazionali. Ogni sera si potranno assaggiare drink realizzati a sei mani, con un guest barman, proveniente da un prestigioso locale irternazionale, per un lavoro “spalla a spalla”. Un format itinerante che vede dalle 18,30 alle 20,30 il guest barman affiancare il barman resident e per la seconda parte della serata, dalle 22 alle 24, si sposterà in un altro bar fiorentino per affiancare il suo head bartender. “Ego Circus si evolve seguendo la corrente che sta portando sempre più sovente Firenze al centro del panorama nazionale della mixology – afferma l’ideatore di Ego Circus Gabriele Frongia - quest’anno infatti ha il piacere di ospitare tre barman internazionali e dieci di altrettante città Italiane. Da Torino a Napoli passando per Milano, Bassano del Grappa, Genova, Reggio Emilia, Roma e Sorrento per abbracciare tutta Italia”. I tre prestigiosi rappresentanti esteri sono il Benfiddich a Tokyo, il Delicatessen a Mosca e il 28 Hong Kong Street a Singapore, che raccontano e rappresentano un approccio innovativo della mixology.
“Noi, il cibo, il nostro Pianeta: alimentiamo un futuro sostenibile” è la mostra inaugurata per Parma Capitale della Cultura 2020 promossa da Fondazione Barilla in collaborazione con National Geographic Italia, Sustainable Development Solutions Network Mediterranean, Madegus e Civicamente, inserito in un protocollo d’intesa col MIUR. Un percorso esperienziale che vuole sottolineare il forte legame che esiste tra la tutela della nostra salute e quella del Pianeta, a cominciare da quello che mettiamo ogni giorno nel piatto. Un percorso multimediale che arricchisce il programma educativo della mostra: la produzione di cibo è infatti l’attività dell’uomo che contribuisce di più al cambiamento climatico (fino al 37%), superando il riscaldamento degli edifici (23,6%) e i mezzi di trasporto (18,5%). Ecco perché occorre ripensare il modo viene prodotto. “C’è un’emergenza che è sotto gli occhi di tutti, il nostro modello di vita non è più sostenibile. Migliaia di ragazzi chiedono a noi adulti, ai politici e a chiunque ne abbia la capacità, di fare qualcosa di concreto. C’è un rischio concreto di estinzione di specie animali e vegetali, al tempo stesso le emissioni di gas serra sono quasi raddoppiate rispetto al 1980 portando a un aumento della temperatura di circa 0.8°C rispetto all’inizio del secolo” ha spiegato Riccardo Valentini, membro dell’Intergovernmental Panel on Climate Change ‐ IPCC, Premio Nobel per la Pace nel 2007.
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La ricetta diventa brevettata: il primo a farlo è Giancarlo Perbellini
Annual Brands Report Diageo Reserve in vetta
Perbellini brevetta la sua prima ricetta. La potrete copiare tra 20 anni, quando scadrà il brevetto. La “Milanese cotta e cruda” si può degustare a Casa Perbellini, 2 stelle Michelin in Piazza San Zeno a Verona. E da aprile nei bistrot Locanda Quattro Cuochi a Verona e Locanda Perbellini Milano, solo alcuni dei diversi progetti che l'imprenditore veronese gestisce con successo, in Italia e nel mondo. “Con l’apertura di Locanda Perbellini, il mio bistrot milanese, mi sono ritrovato spesso a pensare ai piatti della tradizione lombarda e a come rivisitarli in chiave contemporanea. Memore delle numerose versioni della milanese e in particolare di quella di Gualtiero Marchesi, che è stata per me di grande stimolo, ho voluto dar vita a una rielaborazione di questo piatto-simbolo della città di Milano, che proporrò in tutti i miei bistrot come fuori menu. A introdurlo sui tavoli delle mie Locande ci penserà un libretto che racconta storia e segreti della creazione”. Un unicum nel panorama italiano, come spiega l'ing. Marco Lissandrini, direttore della sede veronese della Bugnion Spa.
Diageo Reserve, la collezione di distillati ultra premium di Diageo, conquista le prime posizioni del Brands Report 2020 di Drink International, la testata britannica considerata il più autorevole punto di riferimento per gli addetti ai lavori. Una classica che stila le top ten nelle categorie Best Selling, tenendo come indicatori i volumi di vendita, e nei Top Trending, che premia la brand reputation. Diageo Reserve viene premiata nella sezione vodka e tequila rispettivamente con Ketel One e Don Julio, mentre Tanqueray, Johnnie Walker e Bulleit conquistano le classifiche tra i gin, scotch e american whiskey. Per Ketel One, la storica vodka olandese, conquista la medaglia d’oro per l’ottavo anno consecutivo tra i Best Selling (scelta da più del 30% degli intervistati) e tra i Top Trending. Tra i Best Selling Don Julio rimane saldo sul podio per il quinto anno di fila.
A Carrara Tirreno C.T
Grandi carni alla Griglia di Varrone
Compie quarant’anni Tirreno C.T. un appuntamento dedicato al mondo dell’ospitalità e della ristorazione che insieme a Balnearia negli ultimi anni ha rivoluzionato anche il modo di vivere la spiaggia italiana. L’appuntamento è dal 1 al 4 marzo a Carrara Fiere per una delle più longeve manifestazioni che coinvolge ristoranti, bar, alberghi, pizzerie, gelaterie, pasticcerie. "Abbiamo raggiunto un traguardo importante grazie al successo conquistato anno dopo anno dalla manifestazione diventata garanzia dell’incontro qualificato fra domanda e offerta di questo settore che è sempre più in divenire. Un successo che conferma l’ormai abituale presenza di grandi marchi che di anno in anno rinnovano la loro fiducia all’evento prenotando gli spazi con largo anticipo e scegliendo Tirreno C.T. per lanciare le loro principali novità di mercato", commenta, Paolo Caldana, fondatore di Tirreno Trade promotrice dell’evento.
Una degustazione di carni di La T-Bone di Wagyu australiano alto livello qualitativo si è svolta presso la Griglia di Varrone, il ristorante milanese di Massimo Minutelli. Un ristretto gruppo di giornalisti ha potuto assaggiare tagli pregiati , di manzo e di maiale, destinati all’alta ristorazione e proposti nella linea di cucina del ristorante; in particolare hanno colpito, per succulenza e valore organolettico, le carni spagnole di Joselito (della famiglia Gomez), con la Presa, il Secreto, la Pluma e la Cabezada. Per quanto riguarda il manzo, la sequenza nel servizio, coordinato dal bravo Tony Melillo, restaurant manager della Griglia, prevedeva cinque assaggi di Wagyu australiano di AACO, Australian Agricultural Company, che hanno stupito per consistenza, marezzatura e tenerezza, oltre che per una cottura perfetta. Il concept della Griglia di Varrone punta su una reinterpretazione contemporanea della proposta di carne, adeguata alla domanda della clientela, sempre più alla ricerca di sapori caratterizzati e originali, grazie a materie prime di elevato livello qualitativo.
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News
Campari Barman Competition 2020: il trionfo di Corey Squarzoni
Pig Full Immersion, dalla teoria alla pratica
Il vincitore della Campari Barman Competition 2020 è il ventiseienne Corey Squarzoni di Novara. A conquistare la giuria il suo Eternal Shot, cocktail a base di Campari, cordiale di tè arancia e camomilla, Grand Marnier, agresto, angostura, 1 goccia di Averna addensata all’arancia e gocce di olio di rosmarino e sesamo. “Ho creato Eternal Shot utilizzando ingredienti che fondono gusti contemporanei a elementi storici e immortali, come l’agresto, realizzando un cocktail che è destinato a essere eterno - ha raccontato entusiasta Corey." Gli ingredienti per vincere sono: passione per il proprio lavoro e determinazione nel raggiungere gli obiettivi, senza dimenticare però l’importanza di sapersi divertire, fondamentali in questa professione”. Secondo posto per Riccardo Cerboneschi, barman de Il Locale di Firenze e terzo per Martina Proietti di The Court a Roma. Corey Squarzoni seguirà un percorso di collaborazione con Campari Academy lungo un anno, che comprende un master di specializzazione sul brand Campari e un tour di guest bartending nei migliori locali italiani ed esterni.
Tutto quello che avreste voluto sapere del maiale, ma non avete osato mai chiedere. Dal 17 al 22 febbraio 2020 le risposte a tutte le domande a Pig Full Immersion: dalla teoria alla pratica dell’arte contadina della produzione dei salumi. Location d’eccezione nelle storiche cantine, le più antiche del mondo attive, dove viene stagionato il Culatello di Zibello: l’Hosteria del Maiale dell’Antica Corte Pallavicina di Polesine Parmense (PR). Per sei giorni il laboratorio dello chef Massimo Spigaroli diventa il teatro di un viaggio nel mondo della salumeria, ultimo presidio dove viene allevata la razza Nera Parmigiana. In questo corso si approfondiranno le lavorazione del maiale, la storia dell’agricoltura, si analizzeranno le diverse razze suine e il comportamento delle loro carni una volta macellate, la produzione dei salumi, la loro conservazione e le tecniche di servizio. Il programma prevede anche una visita completa all’azienda, focus pratici sulla lavorazione delle carni di maiale (sezionamento e salatura), la preparazione di salami, cotechini, ciccioli, cicciolata e mariole, la legatura dei culatelli, delle coppe, dei preti, delle spalle, dei lombi, dei fiocchetti e delle pancette e un corso di cucina dal tema. Fondamentali anche le nozioni di abbinamento salumi-vino e la legatura dei salumi. Con il corso si otterrà un diploma, incoronati a “maestro dei salumi”.
Le carni gallesi post Brexit Se il d-day è arrivato, a più di tre anni dal referendum del 2016 in cui la maggioranza dei britannici votarono per il ‘leave’, e la Gran Bretagna si appresta ad uscire ufficialmente dall’Unione Europea, non ci sono novità nel comparto delle carni gallesi IGP. Con il 1° febbraio, di fatto, inizierà un periodo di transizione, che durerà fino al 31 dicembre 2020, nel quale le due parti cercheranno un accordo sui futuri rapporti tra la UE e il Regno Unito. 11 mesi in cui l’UK sarà ancora legata alle strutture comunitarie continuando ad applicarne le regole. Le carni gallesi IGP, presenti sulle tavole degli italiani da oltre 15 anni, continueranno ad essere a disposizione dei buongustai di tutta Italia. Tanto che le esportazioni di Agnello Gallese IGP a livello globale hanno ottenuto ottimi risultati nel 2019, registrando, fra gennaio e ottobre, un +18,2% rispetto all’anno precedente, un incremento che si traduce in oltre 77.000 tonnellate.
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Lo chef Massimo Spigaroli
EGO Festival, il futuro è nella ristorazione
Protocollo di intesa per la lotta allo spreco
Dal 16 al 18 febbraio Taranto diventerà la capitale della ristorazione e dell’accoglienza del sud Italia: al via la III edizione di EGO Festival, la kermesse dedicata alla formazione nel mondo della ristorazione. Al Castello Aragonese, il tema di quest’anno è sul “futuro”: oltre cinquanta tra cuochi stellati, pastry chef, pizzaioli, maitre e bartender che daranno la loro visione sul futuro della cucina italiana. L’edizione 2020 di EGO Festival si tiene in contemporanea con la mostra di Steve McCurry dedicata al cibo organizzata dal Comune di Taranto. Alla kermesse dialogheranno e si confronteranno Giuseppe Palmieri di Osteria Francescana, Marco Reitano de La Pergola, Antonio Casillo de I Tigli in Theoria, Eugenio Boer di Boer, Martino Ruggieri de Ledoyen Pavillon, Esther Massats de El Celler de Can Roca, Davide Guidara di Sum, Gianfranco Pascucci di Pascucci al Porticciolo e tanti altri. Durante l’edizione verrà nominato anche il miglior sommelier di Puglia che vincerà un’esperienza in uno chateau.
“La legge “antispreco” è la prima legge di economia circolare nel nostro Paese, che ha coniugato la solidarietà sociale con il recupero delle eccedenze alimentari all’interno della filiera produttiva. – racconta l’on. Maria Chiara Gadda. La legge 166 offre risposte e opportunità che prima non esistevano: lo spreco si combatte in tutte le fasi della filiera alimentare. La ristorazione ha un ruolo importante, ottimizzando i processi e donando le eccedenze per solidarietà sociale, e coinvolgendo i cittadini nella prevenzione e nelle buone pratiche come la doggy bag”. METRO Italia risponde redigendo il Vademecum del ristoratore sostenibile: “Un manuale che conterrà indicazioni utili per ridurre gli scarti e informare sulle opportunità offerte dalla legge 166/2016. Sarà distribuito ai professionisti dell’Horeca in tutta Italia e sarà promosso attraverso iniziative di sensibilizzazione” commenta Tanya Kopps, CEO di METRO Italia.
News
Délifrance Italia lancia “Come una volta” Délifrance Italia ha lanciato un concorso dedicato ai professionisti del settore Horeca: obiettivo del concorso, che prende il nome dal suo pane, “Come una volta”, si concretizza nella realizzazione di un “panino gourmet” declinato in tre categorie: bar, ristoranti e ristoranti d’hotel. Una volta creato il panino, l’autore dovrà inviare la ricetta più un’immagine che lo raffiguri. Chi non fosse ancora cliente, per partecipare, potrà inviare una mail a concorso@delifrance.com. Per iscriversi, c’è tempo fino al 29 febbraio 2020 mentre la ricetta deve essere inviata entro il 31 marzo 2020. Dopo l’iscrizione, ogni partecipante riceverà in omaggio un cartone di pane “Come una volta” per realizzare la propria ricetta gourmet. Prima di iniziare a liberare la creatività, ecco le poche regole che ogni partecipante dovrà seguire. Chi opera nei bar, dovrà scegliere una di queste cinque categorie (carne, pesce, salumi, formaggi o vegan), mentre per i ristoranti e i ristoranti d’albergo, invece, la sfida sarà quella di reinterpretare una ricetta locale o della tradizione. Nella prima fase (entro il 10 aprile 2020), una giuria tecnica guidata dallo Chef stellato Eugenio Boer selezionerà 150 ricette. Dal 13 aprile al 24 maggio, invece, una giuria popolare voterà sul sito www.concorsocomeunavolta.it le 60 migliori ricette. Infine (entro il 29 maggio) la giuria tecnica presieduta dallo stesso Boer sceglierà le 30 ricette finaliste. Queste ultime verranno presentate durante l’evento finale, il 30 giugno, al The Lab by Délifrance di Liscate (Mi). In questa occasione verranno premiati i tre finalisti assoluti, uno per ogni categoria, con un voucher da 8mila euro da utilizzare per l’acquisto di attrezzature per la propria attività. Ma non finisce qui: 15 finalisti, cinque per ogni categoria, riceveranno un voucher da spendere online del valore di 500 euro. Inoltre, i vincitori avranno visibilità sui canali social Délifrance e sulle più importanti riviste di settore. Cosa state aspettando? Mettetevi al lavoro e buona fortuna!
Best Wine Stars al Palazzo del Ghiaccio a Milano
Nuovo team per Masseto
Si scaldano i motori per la terza edizione di Best Wine Stars che quest’anno si terrà il 16 e 17 maggio a Palazzo del Ghiaccio a Milano, con oltre 2400 mq di spazio per accogliere visitatori provenienti da tutto il mondo. Quest’anno il fil rouge sarà il design che si lega al mondo del vino come continua ricerca per la bellezza, la qualità e l’innovazione. La nuova edizione offre al visitatore una nuova occasione di degustazione che completasse il percorso sensoriale della manifestazione e ha deciso di stringere un’importante collaborazione con l’importatore Massucco. Per la prima volta tra i protagonisti due maison di Champagne: Rochet Bocart, vigneron indépendant nata nel 1956 e Trousset Guillemart, piccolo produttore di champagne situato ai piedi della Montagne de Reims. Come ogni anno anche da questa edizione verrà pubblicato il prezioso libro Best Wine Stars 2020, con la storia e le foto delle cantine che rendono importante la produzione vitivinicola italiana, famosa in tutto il mondo come sinonimo di qualità.
Giovanni Geddes da Filicaja, CEO di Masseto, ha rivoluazionato gli equilibri della cantina: accanto ad Axel Heinz, che continua il suo impegno come Estate Director, Tim Banks in veste sarà il nuovo Sales & Marketing Director. Già dal 2015 Sales & Marketing Director di Ornellaia, Tim Banks raddoppia così il suo incarico e inizia questo percorso alla guida di una nuova squadra formata da Vianney Gravereaux e Susanne Weber, rispettivamente nei ruoli di Global Sales Manager e Brand Manager, insieme a Elena Oprea, Communication Manager. Eleonora Marconi continuerà invece a ricoprire il ruolo di enologa della cantina Masseto.
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Con Chivas crea il tuo blended whisky Come nasce un blended whisky? Chivas Regal vi sfida a creare il vostro con un programma di masterclass in collaborazione con Whiskyclub.it. Il Master Blender, maestro che compone sofisticati equilibri di sapori, vi regalerà un’esperienza unica, un’occasione per approfondire come ‘nasce e matura’ il Blended Scotch Whisky Chivas Regal invecchiato 12, XV o 18 anni. Ad ogni partecipante viene dato un ‘whisky blending kit’ che contiene una mini-bottle di blended grain con note floreali e 4 mini bottle di single malt, ognuna con un particolare sentore: fruttato, cremoso, agrumato, affumicato. Muniti di pipetta e contenitore graduato, i partecipanti si divertiranno nella creazione del proprio whisky rigorosamente Made in Scotland. Senza dimenticarsi che “ci vuole una vita per conoscere e comprendere la complessità e l’immensa gamma dei sapori naturali nel whisky scozzese.” Le prossime date sono il 17 febbraio at Taylor’s di Cagliari, l’ 11 marzo allo speakeasy Room 21 di Soverato e il 12 marzo all’Eurodrink di Lamezia Terme.
Il turismo pugliese si concentra sul food Dal 20 al 22 febbraio e la VI edizione di BTM, Business Tourism Management si allarga con la prima edizione di BTM Gusto 2020, puntando sul turismo enogastronomico, tra le scelte che guidano i turisti che scelgono la Puglia come destinazione delle vacanze. Il focus dell’edizione si concentrerà sugli artigiani locali, sui piccoli produttori agricoli e sulla loro storia, sui prodotti e sull’impatto emozionale di chi apprezza il loro operato, vera carta vincente da tradurre in attrattiva, con tutto ciò che comporta in termini di crescita e successo. Punto di forza della kermesse è l’internazionalità: già confermate le presenze di buyer e seller da Inghilterra, Germania, Francia, Olanda, Danimarca, Svizzera, Ungheria, Lettonia, Russia, Ucraina, Canada, Stati Uniti e Australia.
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Focaccia e Ciabatta con farina varietà Cappelli La farina varietà Cappelli porta con sé una storia antica e autentica. La sua storia infatti, risale ai primi del Novecento, quando Nazareno Strampelli, genetista di Macerata, fece un sogno: rendere le colture cerealicole più resistenti alle malattie così da essere più redditizie per gli agricoltori. Sogno che portò avanti grazie all’incontro con il marchese d’Abruzzo e Senatore del Regno d’Italia Raffaele Cappelli, uno dei più importanti protagonisti della riforma agraria dei primi anni del ‘900. L’avveduto Senatore sostenne Nazareno nella sua attività, mettendo a sua disposizione proprietà per semine sperimentali, laboratori e risorse. Così, nei primi anni del Novecento, l’abile genetista selezionò una varietà di grani nordafricani rustici molto resistenti. Si trattava di una pianta molto alta che raggiungeva il metro e ottanta, adatta al territorio meridionale e che nel 1915, in onore del lungimirante uomo politico, prese il nome di Senatore Cappelli. Oggi si assiste a una piena valorizzazione del grano Made in Italy e delle specialità regionali, a cui le aziende rispondono lanciando nuovi prodotti da forno con grani antichi (il 13% rispetto al totale). Nel 2017 la varietà Cappelli si è distinta per essere il grano duro antico più seminato in Italia, raddoppiato rispetto dall'anno precedente per un totale di 2,5 milioni di kg. Pochi e semplici ingredienti della tradizione italiana conferiscono alla nuova Ciabatta Cappelli un gusto autentico. Realizzata con farina di grano duro varietà Cappelli, un grano antico, coltivato e macinato a pietra in Italia.
Délifrance così, dopo 100 anni, ha lanciato la sua nuova linea composta da Focaccia e da Ciabatta con farina varietà Cappelli. Due prodotti nuovi, riattualizzati e di qualità eccezionale frutto del sodalizio tra i processi produttivi tradizionali e la riscoperta d materie prime autentiche. Perché scegliere queste referenze? Per i seguenti motivi. 1. Sono prodotte in Italia con un processo di lenta lievitazione (di oltre 16 ore). 2. Gli ingredienti sono pochi e semplici. 3. La farina di semola varietà Cappelli utilizzata è macinata a pietra.
Per info: commercialeitalia@delifrance.com - Tel. +39 02 458 643 04
L’opinione
Ristoratori, sveglia! I turisti han bisogno di voi di Stefano Bonini
L’importanza del turismo enogastronomico nel nostro Paese assume sempre più valore Le eccellenze enogastronomiche non sono solo un’enorme risorsa economica ma anche, e sempre più, un’opportunità turistica grazie al valore storico e culturale che determina quell’heritage valoriale conosciuto come Made in Italy. Il cibo è la porta di accesso più immediata di un territorio, è la prima esperienza con la quale il viaggiatore contemporaneo cerca un contatto con la cultura e le tradizioni del luogo, con quell’italian experience che è tale anche grazie alla presenza e al lavoro di migliaia di attività ristorative. Non è più oggetto di discussione il fatto che la ristorazione abbia un ruolo di primo piano nella definizione dell’offerta turistica di una città, di un territorio. Che va al di là dalla pura valenza simbolica e dunque immateriale che il cibo ha come “parte integrante del patrimonio culturale italiano e dell’immagine del nostro Paese nel mondo” (cit. Dario Franceschini, Ministro dei beni e delle attività culturali e del turismo). Secondo studi recenti il turismo enogastronomico nel nostro Paese cresce progressivamente anno su anno tanto da essere arrivato a produrre circa 110 milioni di presenze nelle strutture ricettive, con una significativa quota di turisti internazionali e un impatto economico stimato in circa 12 miliardi di euro (fonte: Unioncamere – Isnart). Secondo il più recente rapporto ENIT nel 2017 i soli turisti stra-
nieri hanno speso ben 223 milioni per una vacanza enogastronomica in Italia con una crescita della spesa di oltre il 70% rispetto ai 131 milioni del 2013. Sostanzialmente quasi un turista straniero su tre giunge in Italia attirato dai suoi prodotti food&wine di grande qualità, per i piatti tradizionali e per i suoi vini. E per muoversi in lungo e in largo per la Penisola gli unici strumenti qualitativi a disposizione dei turisti sono le guide ristorative ed enogastronomiche oppure i portali di recensioni online come TripAdvisor. L’offerta ristorativa nazionale, al contrario di quella ricettiva (al netto di tutte le pecche e lacune che la caratterizzano, c’è una classificazione alberghiera), non è in alcun modo “normata” dal punto di vista qualitativo. Se quella ristorativa è diventata dunque una delle esperienze turisticamente più significative per chi visita l’Italia, la proposta di prodotti tipici e ricette locali dunque non è affatto banale, così come non lo è la qualità del servizio di sala, con camerieri raramente valorizzati che devono, soprattutto nei confronti dei turisti stranieri, ergersi al ruolo di “ambasciatori” del loro territorio al pari del cibo: è l’epocale passaggio, avvenuto solo in minima parte, dal cameriere muto al cameriere parlante. Resto convinto d’altra parte che solo con la narrazione e l’empatia dei primi (i camerieri) il secondo (il cibo) può più opportunamente raccontare l´anima, la cultura e la storia di un luogo. A questo proposito è consigliabile la lettura de Il Manuale del Ca-
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meriere di Trademark Italia. Il combinato disposto di cibo e servizio rende proprio gli esercizi ristorativi, più di qualunque altra impresa del settore alimentare, il volano per la promozione e la qualificazione di un territorio. L’autenticità, la genuinità, il rispetto delle tradizioni e la capacità creativa da loro espressa sono elementi imprescindibili per divulgare il meglio di quel made in Italy basato sul bello, ben fatto e buono. È per tutto questo che non possono essere solamente le guide (private) con i loro simboli e codici o i portali online con le loro recensioni (spesso inaffidabili) a fungere da bussola per i turisti che devono muoversi nella fitta giungla dell’offerta ristorativa italiana. Il sistema Paese dovrebbe trovare un modo per dare indicazioni e riferimenti specifici sul modello, comunque perfettibile, della classificazione alberghiera, superando logiche promozionali, commerciali ed editoriali o personalistiche, che condizionano, volenti o nolenti, i giudizi e le valutazioni anche dei migliori critici enogastronomici. Ritengo strategico dare ai turisti dei riferimenti utili per la loro scelta che non può essere limitata alle poche centinaia di locali e ristoranti segnalati dalle guide di settore. Che fotografano la punta dell’iceberg ma certamente non la sua grande e immensa base, fatta di tante piccole trattorie, osterie, pizzerie e locali che la lente dei critici gastronomici non inquadra e di cui dunque spesso i turisti purtroppo non hanno traccia. •
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Cover Story / Rivoluzioni
Ettore Bocchia “Tutto parte dalla materia” di Alberto P. Schieppati
Lo chef del Mistral di Villa Serbelloni a Bellagio segna un cambiamento di rotta nella ristorazione d’albergo Chi si ricorda che cos’era la ristorazione d’albergo in Italia solo una trentina di anni fa? Un mezzo disastro, se guardato con gli occhi di oggi… Eppure, a modo loro, le strutture funzionavano, seppure sotto tono, con molti limiti e troppe inadeguatezze. I ristoranti d’hotel erano aperti solo per chi soggiornava nella struttura con la formula della pensione completa (già la “mezza” era una concessione dell’albergatore), le linee di cucina erano spesso banali e prevedibili, il servizio garibaldino (a dir poco) o, negli hotel cittadini, “alla francese”, come si diceva allora. Quante cose sono cambiate nel tempo! Oggi possiamo dire che pranzare o cenare in hotel sia, in alcuni casi, un’esperienza memorabile: l’’apertura dei ristoranti anche alla clientela esterna fu il primo passo verso l’evoluzione qualitativa dell’offerta, grazie anche a una gestione imprenditoriale del food e del beverage, slegato dall’occupazione camere e dalla scelta della struttura. Rivolgersi ad un mercato più ampio, più esigente e molto
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diverso da quello tradizionale degli ospiti delle camere, vacanzieri o d’affari, segnò la prima, grande differenza con il passato. Le catene alberghiere per prime sentirono questo bisogno di modernità, con le scelte strategiche conseguenti: avere un executive chef di livello professionale elevato, investire su questa figura e sul personale di cucina, qualificando anche la sala nelle sue figure chiave. E poi: comprendere il valore economico della qualità (affrontando anche seriamente il food cost, ritenendolo finalmente una variabile fondamentale del business) e saperlo trasmettere alla clientela attraverso proposte e linee di cucina all’altezza della Casa. Ma non solo le catene intuirono questa necessità: anche le proprietà e le gestioni indipendenti, nel tempo, hanno sentito il bisogno di questa evoluzione qualitativa, E, grazie a intuizioni e a scelte oculatissime, sono arrivati a dotarsi di chef dallo stile e dal talento ineguagliabili. Uno di questi chef si chiama Ettore Bocchia, e il suo mentore imprenditoriale Giancarlo Bucher, rampollo di una grande famiglia svizzera di albergatori di prim’ordine. Bocchia, classe 1965, di San Secondo Parmense (tra Busseto e Fidenza, patria del-
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la Spalla cotta, mitica), è al Grand Hotel Villa Serbelloni, della Famiglia Bucher, da quasi trent’anni: “Ricordo perfettamente il giorno in cui incontrai per la prima volta Ettore Bocchia: si era presentato a Villa Serbelloni per iniziare la sua esperienza lavorativa insieme a noi”, ricorda Gianfranco Bucher, patron dell’hotel di famiglia, un cinque stelle lusso, ubicato a Bellagio, sul lago di Como. “Era il 1991 e Ettore allora aveva ventisette anni. Mi accorsi immediatamente che disponeva di tutte le qualità necessarie per fare una grande carriera: aveva, come peraltro oggi, quasi trent’anni dopo, una irrefrenabile passione per la disciplina, era infaticabile e propenso al sacrificio, curioso, innovativo e, dote molto importante, era ben educato e rispettoso verso chiunque lavorasse o soggiornasse in hotel”. In realtà, Bocchia era un rivoluzionario. Dietro l’apparente garbo, dietro l’approccio signorile e formale (non a caso viene chiamato il Signore della cucina) si nascondeva un coraggioso e audace anticonformista, che “ha rotto il muro del suono che fino a quel momento cullava la cucina italiana nelle sue certezze”, come ha scritto Luca Sommi. Dopo solo due anni, Bocchia occupa
Cover Story / Rivoluzioni
Gnocchi di patate della Sila, rosolati in padella con funghi e animelle
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Carlo Pierato, restaurant manager di alta professionalità, insieme alla squadra di sala
già la carica di sous chef e finalmente, nel 1999, conquista la posizione di executive, che si era “liberata” nel frattempo. Un ruolo di grande responsabilità, che ancora oggi Ettore detiene e amministra al meglio, arrivando a rappresentare un unicum nel suo genere. Nessuna velleità, zero esibizionismo, caparbia ostinazione nel trovare sempre il meglio, indipendentemente da costo, distanza, reperibilità. Non ci sono ostacoli se la posta in gioco è raggiungere l’obiettivo del meglio, senza se e senza ma. E con una sensibilità decisamente non comune da parte della proprietà, che si assume l’onere di un food cost complessivo decisamente superiore alla norma. Il miglior prosciutto di cinta senese? Si prende e si va: si scopre, si assaggia, si confronta. E si sceglie. Il migliore foie gras? Quello di Aleandro Sousa: l’animale non subisce alcun tipo di alimen-
tazione forzata, ma si ciba naturalmente. Oggi Villa Serbelloni è l’unica struttura in Italia ad importare questo prodotto eccezionale dalla Spagna (regione dell’Estremadura).“Perché il cliente deve trovarsi di fronte al meglio oggettivamente possibile”, dice Ettore presentando al tavolo, orgoglioso, una pregiata sogliola di Dover, arrivata da poche ore, che si accinge a sfilettare. O come quando propone il suo Rombo assoluto cotto nello zucchero con spuma di patate. verdure al vapore, salsa ai porri. I suoi mantra: selezione e ricerca sul campo di materie prime e ingredienti, in Italia e all’estero; adozione di un linguaggio moderno per esprimere ruoli e funzioni; realizzazione di piatti mai banali e frutto di attente analisi della materia di cui sono composti; attenzione estrema agli aspetti chimici e scientifici delle materie; importanza della sala con
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conseguente capacìtà di interagire con il cliente (non a caso in sala governa Carlo Pierato, numero uno nell’empatia con l’ospite. E il numero due in cucina è Andrea Arienti, un esempio di alta professionalità). Si deve a Ettore la scoperta della cucina cosiddetta molecolare, che altro non è che uno stile innovativo di fare cucina, monitorando le trasformazioni fisiche e chimiche degli alimenti durante la loro preparazione. Quella per la materia e per la ricerca è una vera ossessione per Bocchia: nel 2002 ebbe l’intuizione (che lo ha reso celebre fra gli addetti ai lavori) di creare il primo menu di cucina molecolare, grazie agli studi fatti in collaborazione con Davide Cassi, docente di Fisica della Materia all’Università di Parma. Tre anni dopo, nel 2005 il Mistral, il ristorante gourmet del Grand Hotel, dove opera con una brigata di quindici cuochi, Bocchia
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Bottoni di pasta fresca ripieni di olio di oliva e basilico, consommé chiarificato al pomodoro
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ottiene la prima stella Michelin, che tuttora orgogliosamente detiene. Ma chi si limitasse a definire un’esperienza gastronomica al Mistral puramente “molecolare” si sbaglierebbe, e mi spiego meglio. La cucina di Ettore non è né cervellotica né incomprensibile, anzi: è chiarissima e va nella esatta direzione di far comprendere le materie in tutte le loro sfumature, nelle loro differenze e nelle loro caratteristiche più profonde. Diciamo che la cucina di Ettore è una cucina di profondità, senza essere astrusa. È evidente che per arrivare a questo risultato è fondamentale la conoscenza della materia, in ogni suo dettaglio. E la chimica è una chiave di lettura e di interpretazione delle molecole che compongono la materia stessa: per arrivare al nucleo dell’ingrediente, per sapere come trattarlo, come cucinarlo, come servirlo. Con un obiettivo, dichiarato dallo stesso Bocchia: realizzare la perfezione nel piatto, per regalare al cliente un’esperienza unica. Come si legge anche nell’ultimo libro dello stesso Ettore, L’essenza dell’invisibile, edito da Aliberti nella collana I Fiori del Male, in cui racconta la sua filosofia, di vita e di cucina, con una bella prefazione di Luca Sommi, che abbiamo citato sopra. Da leggere, innanzitutto per capire se è vera la frase di Bocchia che si legge in quarta di copertina: “Non so se ho cambiato la cucina italiana, però ci ho provato. E forse qualcosa è accaduto”. •
DA CARTA NASCE CARTA Più del 72% della carta e del cartone viene riciclato in Europa. Questa è una notizia, vera.
Scopri le notizie vere sulla carta www.naturalmenteioamolacarta.it Fonte: The European Paper Recycling Council, 2018 Europa: 28 Paesi dell’Unione europea + Norvegia e Svizzera
Bar / Bartending
Edoardo Nono, rendo felici i miei clienti
di Alberto del Giudice
Intervista a “shaker aperto” a un noto personaggio del mondo del bere miscelato. Un vero maestro della mixology Il talento di Edoardo Nono è l’ospitalità e fare felici le persone da dietro un bancone. È partito dalla provincia, bar e discoteche, ha trascorso lunghe stagioni estive nei villaggi vacanza. E via, in giro per il mondo, a bordo di navi da crociera. Molte avventure, tanta fatica e la necessità di imparare rapidamente il mestiere. Farne tesoro e infine aprire due locali cult a Milano: il Rita e il Tiki Room. La tua prima fuga dalla scuola e dalla provincia? Un tour operator che si chiamava Club Vacanze, con un livello alberghiero molto alto. Lì ho avuto la fortuna di incontrare Andrea Bertelli, che ha saputo vedere in me il classico diamante grezzo. Lui ha saputo imprimermi una sterzata rapidissima. In quei luoghi devi essere pronto subito. Inoltre, da lui ho ricevuto dritte ancora utili, ho imparato tanto sull’utilizzo di scarti, materie prime, sulle preparazioni home made, che allora erano quasi inedite. Anche se noi allora lo facevamo per lucro!. Quanto è cambiato da allora il mestiere di bartender? Molto. Oggi siamo nel pieno della nuova Golden Age del bartending. Fino al 2000 il nostro mestiere è stato più legato allo stile di servizio che alla preparazione del prodotto e all’invenzione di drink nuovi.
Poi prodotto e tecnica sono diventati centrali, si è andati a ricostruire il percorso storico del Proibizionismo, ci siamo avvicinati all’universo cucina e utilizziamo preparazioni più sofisticate. Oggi, il rischio è il contrario: allontanarsi troppo dal cliente perché concentrati solo sul prodotto. Il cliente è più o meno esigente di prima? Il cliente è più informato di una volta. Anche se negli Usa è tutta un’altra cosa, perché loro hanno nel dna la cultura del bere. Lì anche la signora anziana si presenta al ban cone, anzi, magari sale sul bancone, ti chiede un Planter’s
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Punch e pretende di averlo con il Rum Myers. Immagina tua nonna che va in un locale e pretende che le servano il “suo” Rob Roy!. Nella mixology torniamo ad apprezzare il passato. Penso all’impiego di vermouth e amari quasi dimenticati… Vi sono corsi e ricorsi storici. Le mode del momento che recuperano liquori e distillati più in voga ieri e l’altro ieri, ma questo non vuol dire che il cognac sia destinato a diventare lo spirit del futuro. Il gin che oggi è in gran voga, molti sostengono che stia già passando di moda. Io non ci credo. In realtà quello che succede in città non va preso troppo
sul serio. In città le cose accadono velocemente, mentre dovresti andare in provincia a vedere che cosa arriva e che tipo di percezione c’è, per esempio, nel centro Italia, lontano da Roma. Oggi fanno tendenza anche tequila e mezcal. Per fortuna, anche perché del tequila è passato il concetto che deve essere 100% agave, mentre il tequila mixto significa solo sbronzarsi di brutto. Ci sono meno persone che vengono a dirti: “No guarda il tequila e il gin mi fanno star male”. Pensa alle schifezze che servivano qualche anno fa in discoteca. Si è alzata tanto la qualità media. I grandi distributori importano prodotti di qualità che prima non raggiungevano i nostri mercati. Anche i grandi produttori. Se guardo la nostra vetrina, con un centinaio di gin, resta il fatto che i prodotti più affidabili e interessanti e i best seller sono quelli delle grandi maison. Perché hanno capacità tecnica e interpretativa. Costanza della materia prima. Dove c’è un Mastro distillatore si sente la differenza. Sai che negli anni in cui sono usciti tutti i gin Premium sarebbe arrivato un prodotto super centrato. E così è successo. Con quali criteri elaborate una nuova carta dei cocktail? Se parliamo di Tiki Room, alle sue spalle c’è un studio filologico. Il locale ha un format vintage, quindi dietro c’è una storia e dovevamo essere coerenti con quello stile. Abbiamo studiato, recuperato libri che hanno riportato alla luce quella cultura. La carta del Tiki è la carta n°1, ma è comunque sempre destinata a evolvere nel tempo, fondandosi su radici solide. Riguardo al Rita, ora il 95% del lavoro lo fa Leonardo Todisco, il nostro capo barman super creativo. Leo va in una direzione più contemporanea, utilizza tecniche innovative e sofisticate, infusion, carbonizzazioni,
chiarificazioni ecc. La carta del Rita, inoltre segue di più la stagionalità. Si introducono periodicamente cocktail nuovi, mentre il Tiki è più comfort zone. Quanto conta lo storytelling di un drink? Il cliente non va mai troppo stimolato, perché potrebbe non volere essere indottrinato. Ma puoi stimolare la sua curiosità. Metti il nostro banco. È come un vero e proprio palcoscenico. Quindi puoi venire tentato da quel che avviene nel gran teatro del bar. E se disponi di bravi barman, da cosa nasce cosa. Essere capaci di costruire un racconto intorno a un drink resta fondamentale. Che cosa giustifica il prezzo di un cocktail? È un mix di cose. Primo, la location. Secondo, la location. Terzo… la location. Scherzi a parte, anche l’incidenza della materia prima. Di quanti posti disponi, la tua proposta di pairing, il servizio. Da ogni drink devi ottenere un certo incasso. In un locale dove si fa miscelazione di buon livello, se offri anche una carta dei vini, devi avere vini di alto profilo in
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modo che la remunerazione del singolo bicchiere sia circa quella che avresti con un cocktail. È l’unità quella che conta. Di solito le persone ordinano un bicchiere e occupano un tavolo per un’ora. E un’ora è poco. Qual è la regola perché un locale abbia successo nel tempo? Il mix è bizzarro. C’è una componente fashion ancora molto importante, ma non rende realmente giustizia alla qualità e al livello del locale. Anche l’aspetto della relazione umana è centrale. Ci sono pub che non sono nulla di che, ma che sono sempre affollati, perché ti senti come a casa tua e non fai tanto caso alla qualità di quel che bevi e mangi. Un locale che fa miscelazione e funziona bene è quello che trova il giusto equilibrio tra l’aspettativa e il prodotto. La mixology oggi ha rotto degli schemi comportamentali nella clientela. Quanto più un locale diventa famoso, tanto più il cliente si affida alla carta. Così, se prima il menu era diviso in cocktail classici, cocktail nuovi e signature, in proporzione 60/40, quindi 50/50, ora abbiamo solo drink originali. •
Bar / Concept
Il Julep, le erbe che risvegliano Roma
di Oscar Cavallera
All’Hotel de la Ville, della famiglia Forte, un concept innovativo che fa tesoro delle migliori tradizioni e le fa proprie Raccontare l’Hotel de la Ville a Roma seguendo l’offerta food and beverage è come seguire il filo rosso della carriera del suo General Manager Francesco Roccato. Una carriera che parte da Cleveland e trova il primo grande passo a Phoenix in Arizona dove apre in qualità di direttore food and beverage il resort Montelucia per il gruppo Intercontinental. Cinque outlet da far funzionare in una struttura nuova, una bella sfida che appassiona Francesco e anche l’occasione per dimostrare al suo managing director Valeriano Antonioli che i progetti saranno un successo. E così fu. Tanto che tre anni dopo Valeriano lo porta in Italia per una nuova grande avventura in qualità di general manager presso la Lungarno Collection Hotels della famiglia Ferragamo. Arrivano altri successi, una stella Michelin con lo chef Peter Brunel, il primo ristorante di cucina nikkei in Italia e l’apertura della terrazza aperitivo all’Hotel Continentale. Il Filo rosso per Francesco è sempre basato sulla ricerca di un progetto ed ecco che lo troviamo qualche anno dopo director of operation del gruppo Puente Romano Resort e general manager dell’Hotel Nobu di Marbella è ancora un nuovo progetto con l’hotel Nobu di Ibiza. La Spagna sembra una meta ormai definitiva ma arriva la chiamata di Sir Rocco. Una nuova avventura, il rientro in Italia
a Roma per aprire un hotel il cui punto di forza è il reparto food and beverage quasi a voler sancire il credo di Francesco convinto dalle varie esperienze vissute, che la ristorazione può portare all’interno di una struttura alberghiera non solo una buona immagine ma anche profitti interessanti. L’hotel de la Ville ha al suo interno due terrazze al sesto e settimo piano con circa 150 posti a sedere ed un panorama fantastico a 360 gradi per godere della grande bellezza di Roma; qui due bar ed una cucina offrono all’ospite un servizio di alto livello in un ambiente dinamico che si trasforma a seconda dell’orario. Un luogo dove dalla quiete del giorno si passa alla musica lounge con dj della sera. Una lista cocktail che offre miscele a base di vino che ripercorrono la storia del vino conciato romano. Un mix che trova nuove regole e capricci abbinando il vino con liquori, erbe e miele del territorio. Una ricerca che porta l’ospite a scoprire i riti dell’antica storia di Roma. Al secon-
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do piano il ristorante Mosaico supervisionato dallo Chef Fulvio Pierangelini, come tutta la parte food della struttura, offre una cucina dal sapore autentico con ricordi di spezie che raccontano la geografia dell’impero romano. Il bistrot Da Sistina e il Julep herbal & vermouth bar completano la struttura, il Julep é un concept innovativo pur basandosi su prodotti che hanno fatto la storia della miscelazione ossia il vermouth, le spezie e le erbe. Il progetto Julep si basa su due punti fondamentali: 1) I mercanti di Venezia che dal lontano Oriente e dall’Africa importarono spezie che con l’andare del tempo diventarono di uso comune in Occidente per la preparazione di cibo e di bevande; 2) La grande tradizione erboristica italiana nata nei monasteri con l’utilizzo delle erbe per la produzione di vini aro-
matizzati, di liquori e di distillati dalle Alpi al mare Mediterraneo. Venezia dal 1500 al 1700 importa spezie da ogni parte del mondo conosciuto e praticamente i mercanti ne intuiscono l’importanza e ne assumono il monopolio.
Dal bacino di San Marco si dipartono le rotte per l’est e per il sud per comprare spezie che da ponte di Rialto ripartiranno per tutta l’Europa. Si creano così le tre vie delle spezie che per centinaia di anni faranno ricca Venezia Le tre vie sono: quella della seta che arriva dalla Cina, quella che arriva dall’India e quella che attraverso il Nilo ed Alessandria arriva dal Madagascar. Gli spezieri veneziani triturano e mescolano, provano, gustano, studiano combinazioni e ne identificano gli effetti. Inventano miscele pronte per l’uso che vengono chiamate “sacchetti veneziani”. Oggi al Julep i sacchetti veneziani sono diventati un menù racchiuso in una preziosa scatola di legno con 9 sacchetti. Tre raccontano ognuno una via, gli altri sei sono il risultato di un’attenta miscelazione. Ogni sacchetto corrisponde ad
un cocktail, l’ospite sceglie attraverso l’olfatto la sua fragranza preferita ed il barman la ripropone in una miscela che diventa un viaggio di sapori e aromi verso Paesi lontani. La tradizione erboristica italiana vive al Julep grazie alla ricerca di piccoli e grandi produttori di amari, vermouth ed elisir di erbe. Una collezione con più di 100 etichette. Il menu cartaceo propone oltre ai classici cocktail internazionali un’offerta di signature e una sezione definita Ritual. I Ritual del Grand Hotel de la Ville sono basati su una ricerca che valorizza il gusto primario dell’ingrediente base, ed un particolare vermouth ed amari, abbinandoli ad erbe, radici, frutti e bibite evitando qualsiasi contaminazione alcolica. Quindi non cocktail nel senso stretto del termini ma elaborazioni erboristiche. Una missione che i bartender del Julep
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perseguono di mese in mese aggiungendo ogni volta un prodotto, un’intuizione, un’analisi e un racconto. Il bar manager Gabriele Rizzi è il ricercatore attento e scrupoloso che con passione e conoscenza gestisce i bartender di tutti gli outlet che hanno come missione quella di celebrare il rito dell’ospitalità italiana offrendo memorie fatte di sapori, profumi e sorrisi che sono alla base del saper fare italiano. Un successo dichiarato non solo dagli ospiti dell’albergo ma anche che da una forte presenza glamour di romani che rinnovano una dolce vita contemporanea. L’Hotel de la Ville oggi è sicuramente un esempio di horeca alberghiera e il filo rosso di Francesco Roccato fatto di conoscenza, passione e capacità di creare team legati dallo stesso pensiero, qui, grazie a Lydia Forte, ha trovato un habitat naturale. •
Bar / Concept
Una pizzeria Nazionale che unisce food e drink
di Alberto P. Schieppati
A Milano, un esempio eloquente di come il concetto di pairing sia vincente. E sappia interpretare in modo inedito la domanda di qualità Roberto Colombo ha le idee chiare, chiarissime. L’amministratore delegato di Sebeto, il gruppo che ha creato la catena di successo Rossopomodoro, con il nuovo format di Pizzeria Nazionale intende raggiungere un pubblico particolarmente sofisticato, attirato sì dalla pizza di alta qualità (“Sapore italiano”) ma anche dall’offerta di cocktail e aperitivi di livello superiore alla media. Il locale di via Palermo, in zona Brera a Milano, aperto da pochi mesi, unico pillar del gruppo, ha inaugurato quella che potrebbe rivelarsi la “declinazione” vincente di un’offerta altamente innovativa, composta in parallelo da food e beverage, alcolico e non. Se il focus del ricco e goloso menu è incentrato soprattutto sulla pizza, presente in 25 voci, proposte in versione soffice o croccante (più una carta essenziale di primi piatti e di gustosi sfizi all’italiana) la vera novità è rappresentata da una ricca e equilibrata selezione di aperitivi e di cocktail: preparati e serviti ogni giorno dalle 18.00 alle 20.00, sempre accompagnati da un mix di piattini/ stuzzichini proposti per l’occasione dallo chef. Abbiamo chiesto a Roberto Colombo come si sta sviluppando questo format e quali sono gli obiettivi futuri: “Siamo molto soddisfatti, innanzitutto perché la clientela di Pizzeria Nazionale capisce di trovarsi di fronte a una tipologia di offerta
completamente diversa da quella di format solo apparentemente simili. Poter gustare ottime pizze, scegliendo fra la versione soffice o croccante, preparate dal nostro personale altamente specializzato e servite con cura e attenzione, fa già la differenza. Ma è con le proposte di drink che il pubblico rimane ulteriormente affascinato da qualità, quantità e varietà tipologiche: un aperitivo o un cocktail per ogni occasione di consumo. Al punto che stiamo pensando di replicare il successo Roberto Colombo del locale, immaginando altre location in canali diversi, come gli spazi aeroportuali o in altre aree in ambicomparto beverage che sa di poter conto internazionale”. Una lista di drink che tare su abbinamenti food di alta qualità, parte dai classici, da Aperol e Campari con materie prime originali e tracciabili, Spritz fino al Negroni sbagliato o all’Amea cominciare dalle pizze. Quella nella ricano o al Milano Torino, fino ai pestati, versione soffice, realizzata con impasto napoletano contemporaneo con biga come Caipirinha, Caipiroska, Mojito o al artigianale, vede una lievitazione di 24 più leggero “Nazionale”, ovvero un pestaore. Si caratterizza per alta digeribilità to a scelta con soft drink (arancia rossa, mandarino, aranciata, chinotto, gassosa). e presenta un cornicione pronunciato e Non mancano gli internazionali: Bulldog alveolato che lascia al palato una sensaTonic, Martini Cocktail, Moscow Mule, zione di morbidezza e scioglievolezza. La Wild & Ginger, Paloma, Jamaican Mule, pizza croccante, invece, ha un impasto Whiskey Sour. Non mancano gli analromano, con un “fermentino” ottenuto colici, fra i qualim primeggiano Crodino attraverso un mix di farine, con circa 20 Twist, Sicilian Sunrise, Tropical Ginger. ore di lievitazione ad alta idratazione. La “I drink sono concepiti per accompapizza risulta alta, croccante, leggera e gnare tutte le specialità presenti in carta, fragrante. Una Pizzeria Nazionale dalla sottolinea Clelia Martino, responsabile parte dell’innovazione, come ha più volte comunicazione di Rossopomodoro”. Che sottolineato Colombo, che consente alla aggiunge: “La formazione dei nostri barclientela, soprattutto giovane ma non tender si avvale della consulenza di Camsolo, di scegliere fra diverse modalità pari Academy, che si occupa insieme a noi di consumo (soffice, croccante, sfizi), della selezione dei prodotti e della valoaffiancando al food drink d’autore, in rizzazione professionale dei barman. Una cui l’alcol svolge un ruolo di consapevole collaborazione qualificata e preziosa”. Un protagonista dell’offerta. •
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Bar / Intervista
“Assaggio il tè e ve lo racconto” di Nadia Afragola
Gabriella Lombardi, Tea Sommelier, spiega il tè. E introduce informazioni utili a chi voglia farne un business Il tè è una tazza di vita e mai come in questo caso è proprio di una vita quella di cui andiamo alla scoperta. Gabriella Lombardi, prima Tea Sommelier professionista in Europa, certificata dalla Tea and Herbal Association of Canada, responsabile didattica di Protea Academy per i corsi professionali TAC Tea Sommelier e coordinatrice per l’Italia della Tea Masters Cup International. Gabriella che ha lavorato come giudice internazionale di gara, la trovate a Milano, dove nel 2010 ha deciso di aprire Chà Tea Atelier, il primo negozio con una sala da tè specializzato nella vendita e degustazione di tè pregiati. Parliamo di oltre 150 tipi di tè puri, inclusa una vasta selezione di tè biologici, provenienti dai migliori giardini di Cina, Giappone, Taiwan, India e Sri Lanka. Nel mentre Gabriella ha trovato anche il tempo di scrivere un libro, che è diventato un successo europeo: Tea Sommelier (edito da White Star e tradotto in inglese, francese e tedesco).
degustazione, non un bar con una selezione di infusi. Pensavo che con il tempo avrei aperto un altro punto vendita, mai mi sarei immaginata di darmi alla docenza e alla consulenza. Ricopro un ruolo istituzionale all’interno della Protea Academy, organizzazione no-profit, affiliata alla Associazione Italiana Cultura e Sport (AICS). Sono membro dell’International Tea Committee. E sono la prima Tea Sommelier, certificata, in Europa. Una Tea Sommelier di cosa si occupa? Assaggio i nuovi raccolti di tè e decido cosa vale la pena consigliare e cosa no. Studio ogni livello qualita-
Chi è Gabriella Lombardi? Una pazza che dieci anni fa ha deciso di cambiare vita. Ho un passato da account in una agenzia di pubblicità e un giorno ho deciso di diventare imprenditrice di me stessa, aprendo il primo negozio con somministrazione e vendita di tè pregiati a Milano. Una vera e propria sala da
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tivo delle foglie e se corrispondono alla loro fascia di prezzo. Il tè è come il vino, sono tante le differenze, anche economiche. Tra i miei compiti c’è quello di creare una nuova audience in un paese come l’Italia in cui c’è poca cultura in materia. Curo dei corsi base o di approfondimento di degustazione dei tè, partendo anche solo da una tipologia o da un paese, messo a confronto con il resto del mondo. Mi capita poi di curare la carta dei tè di hotel, ristoranti gastronomici, spa, multinazionali e in tutto questo devo lasciare da parte le mie preferenze e le strategie commerciali di chi, come me, è partito da un “semplice” punto vendita.
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Bar / Intervista Qual è stato il suo percorso? Ho iniziato frequentando un corso di formazione professionale, di due anni, alla Tea and Herbal Association of Canada, percorso che oggi insegno in italiano all’interno di Protea. Poi ho pubblicato un libro distribuito ai quattro angoli del mondo. Hanno iniziato a invitarmi in Asia, in casa dei maggiori produttori, dove il tè è considerato come da noi l’acqua. Lo bevono dalla mattina alla sera, non fanno caso alla tipologia che viene selezionata in base al piatto che viene messa in tavola; quella è una moda italiana, francese, dato che noi siamo abituati ad abbinare il vino. Il tè è molto versatile e non lo abbini solo a un carboidrato per merenda o lo servi a colazione, ma va bene con carne, zuppe, verdure, e certi antipasti. Quali sono gli effetti benefici del tè sulla salute? Non sta a me dirlo ma ai medici. Ci sono tante ricerche in ambito medico-scientifico che testimoniano le proprietà benefiche del tè, il suo potere antiossi-
dante, il ricco contenuto di polifenoli, tale da prevenire una serie di malattie. Una legge europea mi impone una precisa deontologia: vendo il tè ma non dirò mai che stimola il dimagrimento, che previene certe malattie, l’insorgere di tumori. C’è una letteratura medica precisa intorno a quello che, a tutti gli effetti, è considerato un super food. Poi è diventata presidente di Protea e coordinatrice italiana della Tea Masters Cup International. Sono stata la prima in Italia, anzi in Europa a ottenere la certificazione di Tea Sommelier e il successo internazionale del libro ha fatto il resto. Ricordate però che il tè è un business fuori dall’Italia, non qui. Nel 2015 sono stata giudice di
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una gara internazionale alla Tea Masters Cup, in Turchia. Ero il giudice della categoria dedicata agli abbinamenti del tè con il cibo. Poi la Tea and Herbal Association of Canada mi ha chiesto di entrare a far parte dei loro istruttori, portando in Italia la cultura del tè. Il passo successivo è stato quello di chiedermi di organizzare la selezione italiana. Per avere quella credibilità internazionale di cui avevo bisogno, non potevo usare il biglietto da visita del mio store di Milano. Nasce da qui l’idea dell’associazione no-profit, che vuole più di tutto far capire alla gente comune che il tè non è qualcosa di vecchio e stantio come si possa immaginare. Serve cultura e ciò è quello che offriamo.
Parliamo di cibo e di tè. Qual è l’abbinamento più interessante che le hanno proposto? Era il 2017, la finale mondiale quella volta si svolgeva in Cina. A colpirmi un ragazzo lettone: arrivava da Riga. Aveva abbinato un tè fermentato cinese a del peperoncino piccantissimo con uno spicchio di mandarino. Un tè semplice, un agrume abbinato a del piccante. Un piccolo snack che non necessita di cottura. Il suo era un percorso sensoriale che ti portava in viaggio in Lettonia: c’era il mar Baltico, sentivi la parte marina, ma c’era anche il gusto pieno della foresta, vaporizzato sotto forma di olio essenziale sul mandarino. Il tè conferiva le note terrose. Quel ragazzo è stato bravo a creare un nuovo sapore. Con il tè puoi fare degli abbinamenti semplici, per affinità… ma la magia sta nel saper giocare sui contrasti. A fine 2019 si sono tenuti a Torino gli European Tea Show 2019. Com’è andata e cosa accadrà nel 2020? Abbiamo selezionato chi ci rappresenterà alla finale mondiale, categoria mixology: Erica Rossi di Rovigo. Poi continueremo con i corsi di formazione ma non siamo strutturati per organizzare eventi di un certo livello a cadenza annuale. Abbiamo scelto Torino perché i fondatori di Protea sono tutti piemontesi e perché rispetto alle altre città, sotto la Mole c’è una sensibilità che a Milano magari scivola via per la quantità di eventi ai quali tutti sono esposti. Torino è la capitale del gusto italiana, in Piemonte, patria di tante eccellenze, dove è nato Slow Food. Cercavamo una città ricettiva, ricca di gourmand. Il prossimo appuntamento è fissato per il 2021. Quali sono le novità intorno al mondo degli infusi che sarebbe bene sapere? I tè più venduti sono i verdi giapponesi matcha, sencha e kukicha (quest’ultimo è richiesto per il suo basso contenuto di teina). Chi ama la tradizione è alla ricerca di tè indiani come il darjeeling (la Cina
Tea pairing Cerchiamo nuovi sapori che possano arricchire la nostra esperienza gastronomica: l’abbinamento del tè con i piatti si basa anche sulla sperimentazione, in base al sapore che si vuole evidenziare. Pertanto, l’utilizzo del principio di base di contrasto e somiglianza è il miglior approccio per creare matrimoni di gusto duraturi. Basandoci su questo principio, dobbiamo chiederci ulteriormente: 1. È il tè o il cibo a costituire la priorità? 2. Quali sono le intensità di peso e sapore che devono essere abbinate nel tè e nel cibo? 3. Sono presenti caratteristiche individuali marcate nel tè o nel cibo che dovranno essere gestite una volta abbinate l’una all’altra? Il food pairing si esalta quando le caratteristiche sono simili. Volendo mettere in risalto le peculiarità di un tè o un cibo eccellenti, meglio optare per farli risaltare da soli, o in abbinamento con un pairing dignitoso in un semplice ruolo di supporto. È opportuno selezionare cibi e tè di carattere simile, quindi decidere quale sapore dovrebbe predominare e quale tè o alimento dovrebbe sostenere e migliorare quell’esperienza. Nel corso TAC Tea Sommelier un intero modulo, il Tea 107, è dedicato agli abbinamenti e all’utilizzo del tè in cucina come ingrediente. produce tutte le sei famiglie di tè, quindi ha un’offerta più ampia rispetto agli altri paesi produttori) oppure i raffinati wulong di Taiwan. Chi è curioso si fida e punta su tè meno conosciuti come quelli coreani, del Vietnam, Malawi, Rwanda. La fa da padrone comunque il Giappone e il tè verde puro. E se invece parliamo di tendenze? I sencha giapponesi (non ho ancora capito se sono i miei best seller perché convinco i clienti all’acquisto o se anche a me danno dipendenza!), dall’India i darjeeling o i sikkim first flush; dalla Cina il tè wulong ad alta ossidazione. Da Hong Pao, da Taiwan il dong ding, un wulong a media ossidazione. Mi sto appassionando anche agli shan teas del Vietnam (tè pro-
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dotti da piante antiche e selvatiche che crescono nelle foreste incontaminate del nord-ovest del paese). Di che numeri parliamo se pensiamo a un paese come l’Italia? In Italia si consumano circa 47 tazze pro capite all’anno contro le 667 in UK, le 89 della Francia e le 233 della Germania. Parliamo di un mercato vergine da conquistare, partendo dalla formazione e dell’informazione. Come si è fatto anni fa con il vino e negli ultimi anni con il caffè. E lei quanto tè beve? Circa due litri al giorno. Potrei dire che nelle mie vene scorre più tè che sangue. Ma io… sono un caso a parte. Sono l’eccezione, che conferma la regola. •
L’intervista / Celebrity
Bruno Barbieri: occorre un fisico bestiale!
di Maurizio Bertera
Il cuoco giudice “veterano” di Masterchef ci racconta tutte le tappe della sua lunga carriera Bruno Barbieri, è partita da poco la nona edizione di Masterchef Italia: lei è il veterano, presente dalla prima edizione. Si è divertito ancora? Assolutamente. E’ una delle cose che mi ha permesso di vivere in modo diverso una professione che per oltre 30 anni è stata totalizzante nella mia vita. Fare il cuoco a tempo pieno ti regala un sacco di soddisfazioni ma ti toglie anche molto. E poi ero stufo di lavorare con l’ansia da prestazione. Dovrebbe spiegarlo alle migliaia di persone che aspirano a diventarlo. A partire dai concorrenti di Masterchef. Guardi che a ogni intervista lo dico sempre. E quindi pure adesso lo ripeto: è un mestiere durissimo, occorrono un fisico bestiale e una testa raffinata. E come in ogni sport: non basta il talento, bisogna valorizzarlo e tenerlo allenato. Cosa non abbiamo capito ancora di Masterchef? Raramente ho visto sottolineare quanto abbia dato al nostro mondo, non solo ai cuochi. E’ vero che è stata decisivo nel aumentare la dignità di una professione, già in crescita ma non ancora popolare come oggi. Ma soprattutto ha acceso una luce sulla ristorazione, sulle materie prime, sui luoghi del cibo dando anche un impulso economico. E ogni serie ha il merito di riaccendere questa luce, che
Tortellini in brodo di gallina con fonduta di parmigiano
in un paese come il nostro rischierebbe facilmente di spegnersi. Al di là della gara, molto più tirata di quanto si dica, per me questo è il senso di Masterchef. E lei cosa ha imparato? Il piacere di un altro lavoro. O meglio di una parte del mio lavoro, quello in tivù che mi ha coinvolto anche in Quattro Hotel, dove in primavera ci sarà la nuova serie. È bello vivere a 57 anni questa seconda vita da cuoco, in modo informale e facendo cose diverse. Ma vedo che succede anche per i colleghi piu giovani e lo capisco: noi della vecchia guardia siamo cresciuti stando dentro i ristoranti dal mattino a notte inoltrata; adesso si cucina, si viaggia, si fanno eventi…
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Ci sono molti che considerano negativa questa ecletticità. È cambiato il mondo, è cambiata la cucina. Mi preoccuperei molto di più di cosa finisce nel piatto, fatico a capire il senso di muschi, licheni, cetrioli di mare… E resto perplesso che i cuochi italiani li prendano a riferimento per il loro menu. Dovremmo provare a essere contemporanei partendo dalle nostre origini, non mi interessano le regole che arrivano dalla Francia, dalla Spagna, dal nord Europa. Devo raccontare chi sono io qui, nella mia terra, in questo momento. Messaggio ai giovani? A quelli che inseguono la stella Michelin? Ho grande rispetto per il sogno: le stelle
Una carriera stellatissima
Bruno Barbieri è un signor cuoco: dalle navi da crociera al record delle sette stelle Michelin in carriera, conquistate in quattro ristoranti: due alla Locanda Solarola di Castelguelfo, due al Trigabolo (leggenda per i gourmet italiani degli anni ’80) di Argenta, una alla Grotta di Brisighella e due ad Arquade-Villa al Quar di San Pietro in Cariano. Non male. Classe ‘62, da Medicina (Bo), ha iniziato a cucinare in famiglia e all’alberghiero. «Volevo viaggiare e imparare a fare il cuoco era la scelta giusta. L’educazione al cibo in casa era naturale, visto che vivevamo in campagna e in più avevo una nonna che invece di raccontarmi le favole, mi insegnava come utilizzare i prodotti per le ricette» ricorda. Poi dopo le navi da crociera, torna in Italia e inizia una grande carriera. «Prima ho lavorato in piccoli locali nella Riviera Romagnola, come facevano – e dovrebbero fare – tutti i giovani. Il nostro è un lavoro di sacrificio, al di là delle copertine: non si diventa ricchi e si fatica a creare famiglie normali». Ha scritto una dozzina di libri, ma la notorietà presso il grande pubblico è arrivata nel 2011 come giurato della prima edizione di Masterchef Italia: alla nona edizione, è il solo ad averle fatte tutte. Ma quale è stato il locale più importante nella sua storia «Detto che al Trigabolo di Argenta c’era una brigata eccezionale e abbiamo svolto un lavoro unico all’epoca e di cui si parla ancora, scelgo la Solarola che era all’interno di un agriturismo che forniva gran parte dei prodotti a un menu fisso che cambiavo a rotazione. Sette anni bellissimi, con la doppia stella. Tra i miei clienti c’era un giovane cuoco, Massimo Bottura».
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L’intervista / Celebrity Michelin per un cuoco sono come gli Oscar per chi lavora nel cinema. Una volta ricamate sulla giubba, costituiscono un riconoscimento importante e indelebile in carriera. Poi è evidente che non sia facile saperle portare, i problemi per molti iniziano in quel momento. Ma
luzione. La ricetta storica e il tocco in più. I tortellini in brodo e quelli con il fior di panna: buoni entrambi. Nessuna provocazione fine a se stessa, l’obiettivo è il gusto che soddisfa il cliente. Poi, in questo periodo storico, noi dobbiamo riempire i ristoranti e non pensare a po-
chi fortunati che spendono troppo. Ecco perché ho pensato a Fourghetti: puoi fare tutto, sentirti libero, anche solo rilassarti dieci minuti. Bere un drink, mangiare qualcosa, cenare proprio. In una saletta o al bancone. Restando mezz’ora o per tutta la serata.
Quattro spaghetti a Bologna... Per il ritorno sulla grande scena culinaria, Bruno Barbieri ha scelto Bologna, ristrutturando una storica locanda per farne un concept che non stonerebbe all’estero. Scelta coraggiosa, pensando che il motto latino ‘nemo propheta in patria’ si presta facilmente al giudizio di chi abita sotto le Due Torri, dove la ristorazione è ancora molto classica. Fourghetti (ossia ‘quattro spaghetti’ ma anche ‘forget it’ in uno slang inventato) è un concept moderno: bancone bar – anima del Bar Bieri, sempre giocando con l’ironia – dove bere un drink della brava Francesca Lolli o mangiare un piatto, salette interne (piacevolmente separate senza essere lontane), un piccolo spazio esterno. Domina il nero, l’essenzialità, la linearità. Il menu, curato dal talentuoso Erik Lavacchielli, è stringato a pranzo (quattro portate, dall’antipasto al dolce, acqua e caffè compresi a 28 euro) e articolato per il servizio serale dove una carta non banale spazia dalla tradizione locale – soprattutto i primi piatti – sino all’originale ramen di mare e montagna, passando per il Tortino di granchio reale, milleuova di Mare, fondente di zucchine e pancotto. C’è un piccolo menù degustazione a 65 euro con tre portate e un petit dessert, scelto dallo chef. Infine, al Bar Bieri si può sempre chiedere un hamburger, una selezione di salumi con piadina fatta al momento, una selezione di ostriche. Al piano superiore rivive la locanda di un tempo, con poche camere ma di design. Si sta molto bene. Non è poco.
la mia è una riflessione più ampia su dove stiamo andando. Prego. Negli ultimi anni abbiamo costruito un modello gastronomico per pochi eletti, non comprensibile a tutti, talvolta troppo complicato. Mi piacerebbe invece che la ristorazione fosse più libera, meno presuntuosa, di basso profilo e alta qualità, in grado di dare la possibilità di esprimersi in modo differente, distante dalle esasperazioni che spesso vedo in giro. Molti grandi chef hanno il loro locale di rappresentanza, ma poi si divertono e divertono con locali come i bistrot dove la cucina è alla portata di tutti. Se le dico Tradizione e Avanguardia? La prima è la base, la seconda è l’evo-
Galletto in porchetta
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una cantina che abbia buona bottiglie e pure quelli che giocano a carte. Osteria per me è poter spendere quanto vuoi, serenamente.
Bignè fritti e caramellati
‘Domani sarà più buono’ è il titolo del suo ultimo libro. Curioso. È la voglia di raccontare le emozioni che nascono dal nostro rapporto con il cibo e dal modo che abbiamo di consumarlo. Ho suggerito qualche spunto per guardarlo sotto una luce diversa Ma è anche un riallacciarsi alla storia della cucina italiana, che è fatta di recuperi fantasiosi e intelligenti, quelli che chiamo ‘i doppi piatti’ È un’educazione alimentare che tutti dobbiamo apprendere e insegnare ai nostri figli, perché in cucina non si butta via nulla. Non è solo una questione di economia, di risparmio. Semmai una filosofia gastronomica, un modo di interpretare il cibo.
C’è un ritorno dei ristoranti classici, borghesi, confortevoli: cosa ne pensa? Ne sono strafelice. E’ giusto che ci siano posti di alta cucina, pochissimi in Italia e sostanzialmente all’interno di un sistema come quello della Fifty Best, che esige costantemente una cucina d’avanguardia, sperimentale persino. Ma dietro questi locali e il mare di stellati è fondamentale trovare ristoranti dove si stia bene, si mangino piatti comprensibili e si spenda il giusto. Hanno ancora senso i ‘monumenti’? Certo: andare al San Domenico di Imola o dal Pescatore a Canneto sull’Oglio è come seguire una lezione di storia culinaria. Sedersi dai Cerea a Brusaporto
Pappardelle con intingolo di lepre
vuol dire assaggiare i migliori prodotti di un Paese intero dal musetto fatto a pochi km dal locale sino ai crostacei siciliani. Mi auguro e credo siano eterni. Parliamo di osterie? Magari ci fosse un vero ritorno… Oggi è pieno di trattorie moderne o di locali che giocano sulla tradizione, succede persino nella mia Bologna dove quelle che molti definiscono osterie a me paiono ristoranti, dove manca il tocco che fa la differenza, il contesto. Sarò nostalgico ma lì voglio trovare due salumi buoni,
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Barbieri, lei è un grande viaggiatore, non solo per eventi o lavori vari. Alla fine, le è rimasta dentro quella ‘fissa’ di girare il mondo che ha sempre raccontato, sin da quando studiava all’Alberghiero di Bologna? Penso di sì. Nel 1979 mi imbarcai come terzo cuoco su una nave da crociera, battente bandiera panamense: sembra un racconto umoristico ma in realtà si è rivelata un’esperienza preziosissima durata un paio di anni che mi ha permesso di entrare in contatto con le culture culinarie di molti paesi stranieri In cucina conta il viaggio, attraverso il quale vivi sensazioni, scopri gente, materie prime e prodotti che, senza visitare la zona d’origine, non avresti mai conosciuto. •
Ristoranti / Convivialità
Enrico Croatti e l’Osteria di Moebius
di Giovanna Moldenhauer
Il nome del locale si ispira al celebre fumettista francese Jean Giraud e, dopo pochi mesi, è già successo Il locale ubicato in un ex deposito di tessuti, su una superficie di 700 metri quadrati per 12 metri di altezza, è diviso in due anime distinte con un Tapa Bistrot al piano terra, aperto sin da luglio 2019 e un’Osteria Gastronomica, situata in una specie di piattaforma sospesa a quattro metri dal suolo, dalla struttura architettonica impressionante creata dallo studio fiorentino Q-bic. Alberto Guerci, ristoratore di lungo corso, nel centro di Siena che rappresenta la proprietà, ha messo a capitanare Moebius, il figlio 27ennne Lorenzo. Scorrendo il curriculum nell’attesa di incontrare Croatti, per capire il suo percorso professionale tra Francia, Spagna e Stati Uniti, ci persuadiamo che alcune esperienze tra cui quella con Paul Bocuse all’Auberge du Pont de Collonges oppure quella a Madonna di Campiglio come executive chef del Dolomieu, dove ha conquistato la Stella nel 2013 e firmato la carta per 10 anni, abbiano fatto del giovane riminese, classe 1982, quello che è definito da molti “uno dei migliori talenti d’Italia”. Sin dall’esordio del nostro incontro abbiamo avvertito, da parte di Enrico, una sorta di felicità per la realizzazione del suo più grande sogno nel cassetto, che cullava da tempo: arrivare a Milano. Nell’attesa di sederci a tavola gli chiediamo come ha ideato i piatti dell’Osteria Gastronomica. «Tut-
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te le proposte – risponde con simpatia tipicamente romagnola – sono state studiate, pensate e quindi realizzate, a partire dalle mie origini, dal concetto di osteria che ho vissuto e respirato nella mia città natale, Rimini, da cui 25 anni fa ho mosso in miei primi passi. A partire da questo ho poi sviluppato un processo creativo. I piatti sono caratterizzati da un’identità autentica e molto concreta, coniugata poi a una visione sperimentale e creativa, dove la tecnica viene messa a disposizione della materia prima e mai il contrario». Proseguendo poi «L’Osteria, frutto di tre anni di studio, è un’idea che in un certo senso è nata nella mia testa, poi è maturata e si è concretamente realizzata. Quando ho raccontato agli architetti, come m’immaginavo lo spazio dedicato, ho trovato nella realizzazione del loro progetto, esattamente quella che era la mia idea iniziale. Sento quindi d’essere stato complice e partecipe al concept architettonico». Alla domanda se ha regole per la scelta degli ingredienti abbiamo ricevuto la conferma che
Qui si raccontano invece le mie origini riminesi, arricchite da viaggi, ricerche ed esperienze che mi servono oggi per rielaborare concetti e metodologie, oltre che per proporre uno spirito lavorativo che si è sicuramente evoluto nel tempo. La lista dei piatti lavora molto sulle stagionalità, con alcuni che considero i miei ‘cavalli di battaglia’ da più di 12 anni. Tutto il resto è mutamento, cambiamento. E’ un’evoluzione continua di quello che è il concetto di Osteria oggi, in chiave avanguardistica». Poco dopo ci siamo seduti a tavola e il pranzo ha avuto inizio. All’esordio è stato servito un antipasto dal nome La Tripla evasione del calamaro servito con “Ho fatto un casino dei passatelli, seguicon l’ossobuco” to da un primo di pasta ripiena Ho fatto un casino con l’ossobuco. Entrambi i piatti non scende dal sapore spemai a comciale, erano assopromessi sulla lutamente squisiti e qualità, indipenperfetti con Clemente dentemente che si primo bianco Rubicone tratti di fegatini di pollo, IGP 2018 della cantina romafoie gras, aragosta, girello di gnola Enio Ottaviani composta da vitello, per citarne, sino alla semplice Pagadebit, autoctono romagnolo, e dagli patata. «Devo conoscere – asserisce poi internazionali Sauvignon, Riesling, con con grande convinzione – la storia delle sentori floreali fruttati, dalla beva fresca, materie prime, avere la “carta d’identità” poco sapida, un buon equilibrio gustatidi ogni singolo prodotto per capire da vo. Il piatto successivo Carne alla brace dove arriva, come è stato coltivato, già accostato al Taurasi Radici Riserva 2015 con una propria storia, senza seguire DOCG di Mastroberardino, dal bouquet mode o tendenze. Questa per me è la complesso, dal sorso avvolgente ed eleregola principale. Come fornitori in gante, ricco e sinuoso, ha rappresentato questi anni ho incontrato, conosciuto un abbinamento perfetto. e quindi selezionato con grande cura e Scorrendo la carta tra le proposte più attenzione degli artigiani di cui mi fido curiose nel menu degli antipasti troviae a cui mi rivolgo abitualmente. Non mo Testa di pesce in brodetto tra Rimini sono quindi legato né a grandi aziene Tokio, nei secondi invece Passione per de, né a multinazionali». Continuando la mora romagnola, vietato ai minori di poi «Per quanto riguarda le esperienze 18 anni, che testimoniano la fantasia, precedenti in Italia, Francia e Spagna, l’esperienza di Croatti, con un pizzico di non si ritrovano né nel menù, né nell’isensualità e quel savoir fair tipico della dentità dell’Osteria ma nel Tapa Bistrot. Romagna. La carta dei dolci dell’Osteria,
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Ristoranti / Convivialità
Il social table conviviale del tapa Bistrot
La tripla evasione del calamaro
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in cui nell’esordio si ritrovano le radici di Enrico, esordisce con il Tiramisù di mamma Franca, per proseguire con Mandorle in fiore, Cioccolatino e Biscotto al cioccolato, sale e lampone. Prima di accomiatarci gli chiediamo di parlarci del menù del Tapa Bistrot al piano terra, dove collabora con Luca Pilia sous-chef. «Qui possiamo dire – racconta – che c’è più un’influenza francese-spagnola, dato che questi sono stati due importanti periodi formativi e lavorativi della mia vita. Il Tapa Bistrot è generatore di un’esperienza umana: quella delle tapas appunto che, poste al centro della tavola, diventano un momento di condivisione e convivialità, una specie di cucina in miniatura da stuzzicare all’inizio, una sorta di preludio. Con questo progetto ho fatto mio un momento culturale tipicamente presente in Spagna lavorando però molto con prodotti italiani e non solo». Per esempio a pranzo si possono trovare proposte che spaziano da Fregola, gazpacho di ceci e vongole alla Chicken cotoletta from Los Angeles to Milano, dagli Spaghetti ai pomodori alla Caprese con burrata ed erbe, nonché golosissimi dolci come il Bouquet di frutti rossi e cioccolato, il Semifreddo ai pistacchi, wasabi e frutto della passione o la Panna cotta al mango, pesca noce, vaniglia, zafferano e lime. Nel menu sono presenti anche piatti vegetariani e vegani, mentre il pane di Moebius è preparato da Pavè, laboratorio artigianale di pasticceria che utilizza lievito madre e una cottura su pietra. Il successo, conquistato in questi mesi, dal Tapa Bistrot, unione di due culture attraverso la convivialità e il piacere del cibo, da ragione all’entusiasmo con cui la famiglia Guerci e Enrico Croatti hanno ideato e reso reale Moebius. Noi dal canto nostro abbiamo molto apprezzato la possibilità di assaggiare, in anteprima, alcune creazioni culinarie, in vista dell’apertura ufficiale al pubblico avvenuta dal 30 ottobre 2019. •
FIGLI 2020 FOTO FRANCESCO ZIZOLA TESTO PIETRO VERONESE
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Ristoranti / Etnico
La famiglia Liu guarda sempre più Aalto di Gualtiero Spotti Foto di Benedetta Bassanelli
Apre a Milano il quarto locale, dopo Ba Asian Mood, Gong, e Iyo. Un’altra stella nel firmamento delle insegne asiatiche d’alto livello Giulia, Marco e Claudio Liu rappresentano ormai da diversi anni l’eccellenza della cucina asiatica a Milano. A voler fare un paragone azzardato, e scherzando un po’, ma neanche troppo, viene da pensare a un’altra grande famiglia: quella dei Cerea, che a circa cinquanta chilometri di distanza in quel di Bergamo vede impegnati tutti i suoi componenti nella realizzazione di un grande progetto di ristorazione, dove i fratelli sono uniti nel ricordo del padre Vittorio. La famiglia Liu, in realtà, a differenza dei Cerea, si è sempre mossa su progetti ben distinti, con tre ristoranti gestiti autonomamente dai tre fratelli. Giulia, elegante e perfetta padrona di casa si prende cura di Gong Oriental Attitude, un ristorante di cucina cinese con ampi accenni fusion e un approccio contemporaneo perfetto per la piazza meneghina; Marco invece è impegnato al Ba Asian Mood, un indirizzo più agile e metropolitano, rinnovato da poche settimane, che punta l‘attenzione su assaggi di dim sum e dumplings e strizza l’occhio a una clientela più giovane, e infine Claudio, il maggiore dei tre, che gestisce Iyo Taste Experience, l’unico ristorante italiano dallo spirito e dalla cucina fortemente influenzata dal Giap-
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pone ad aver conquistato la stella Michelin. Ma non è tutto. Lo spirito imprenditoriale, la dedizione al lavoro, la passione e la qualità unite a un pizzico di ambizione ha portato proprio quest’ultimo, Claudio Liu, da un paio di mesi a questa parte, a inaugurare un nuovo ristorante in piazza Alvar Aalto. Iyo Aalto, questo il nome che ricorda certamente il luogo ma anche il legame, in qualche modo, con l’esperienza già avviata dell’altro ristorante, è in realtà un nuovo progetto che può ben essere definito come l’upgrade di Iyo. Si tratta di un ristorante con due sale separate e due percorsi ben definiti: nella prima sala si incontra una cucina contemporanea che unisce sensazioni e gusti internazionali dove materia prima, idee e sollecitazioni asiatiche prendono forma nel piatto. Qui il regno del giovane e intraprendente Domenico Zizzi, cuoco giramondo (ma pugliese doc), che ben conosce il sud est asiatico, essendo transitato da Bangkok e Tokyo oltre che da tavole di prestigio come quelle di Carme Ruscalleda e Heinz Beck a Tokyo, ma solo dopo aver masticato un po’ di clas-
Claudio Liu insieme a Domenico Zizzi
sicismo francese chez Robuchon a Parigi. L’altra sala, più piccola, è invece un unicum in città e presenta l’esperienza omakase, dove ci si affida alle scelte e al percorso deciso dal cuoco. In questo caso però ai fornelli sono ben due sushi master (Masashi Suzuki e Luciano Yamashita) che si dividono diligentemente gli otto ospiti che siedono al banco dove si possono osservare le preparazioni certosine di ogni singola portata. Il percorso, in quattordici momenti, ricalca la tradizione Edomae Zushi, ovvero il rigoroso rituale di Tokyo, dettato dalle diverse stagioni e da una sequenza di assaggi dove è la grassezza del pesce a determinare l’ordine dei piatti. Anche se poi questo viaggio gastronomico può variare a seconda del pescato giornaliero a disposizione. Il menu degustazione ha come protagonista assoluto il pesce, interpretato in versione nigiri (canocchia, capasanta, branzino, toro, pagello, ricciola, scampo, anguilla) con inserti di zuppe (Owan), di miso (Misoshiru) e di piatti che evocano incroci gustativi dove le verdure (come le melanzane) e le salse hanno un ruolo sempre determinante. Vedi, ad esempio il delizioso Gindara, un black cod con miso fermentato e castagna. In un ambiente raccolto e quasi mistico, che riporta al Sol Levante, anche se fuori dalla finestra ci sono i palazzi di Porta Nuova, l’angolo di omakase (gettonatissimo e, visti i pochi coperti, da prenotare con largo anticipo) vive di gesti netti e silenziosi dei due sushi master, di perfezione applicata, sia che si tratti di tagliare un tonno o, semplicemente di curare la griglia del Robata o la vaporiera del riso. Qui, comodamente seduti su alti sgabelli, verrebbe istintivo abbinare un sake a tutto pasto, ma per i bevitori
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più tradizionalisti c’è anche l’ottima carta dei vini, stilata per entrambi i ristoranti (e curata con gusto dal sommelier Savio Bina), dove ci si può sbizzarrire tra bollicine e grandi etichette, oltre scegliere bottiglie tutt’altro che banali di vini biologici. E forse ancor più interessanti se si vuole entrare nel mood umami che il percorso di assaggi suggerisce. Per Claudio Liu, che ha realizzato Iyo Aalto curando ogni piccolo particolare, dall’ambiente alle luci, passando per la scelta di chopsticks, piatti e arredamento, è un sogno che si realizza e un investimento sul futuro in un momento in cui Milano dimostra di essere, se mai ci fosse stato qualche dubbio, la città più vivace e dinamica d’Italia, quando si tratta di mettere le gambe sotto a un tavolo. Non ci stupiremmo se già fra qualche mese fosse in lizza per accaparrarsi riconoscimenti importanti dalle migliori guide gastronomiche italiane. •
Ristoranti / Menu
Bon Wei Milano La carta dei Lamian
di Fiorenza Auriemma
Sono dei noodle particolari, che il ristorante cinese ha introdotto in carta per il pranzo: l’obiettivo è di accontentare il cliente alla ricerca del “piatto unico” Per chi a Milano voglia conoscere e gustare le diverse anime dell’autentica cucina cinese, Bon Wei è un punto di riferimento sicuro: lo dimostra la carta di questo elegante ristorante di alta cucina tradizionale cinese - progettato dall’architetto Carlo Samarati secondo i canoni della Cina contemporanea – che vanta tra le sue specialità 24 ricette regionali, oltre all’anatra laccata alla pechinese. Fondato nel 2010 in Via Castelfidardo al 16 da Yike Weng e Chiara Wang Pei – gli stessi che qualche anno dopo avrebbero aperto Dim Sum – oggi è diretto da Zhang Le, figlio dello chef Zhang Guoqing, terzo socio ai tempi dell’apertura. È davvero un’esperienza unica entrare in questo raffinato locale, arredato senza eccessi né elementi kitsch: i pannelli e mobili in lacca rossa, il legno di acacia birmana dei pavimenti, il piccolo giardino in stile zen che fa da sfondo alla più interna delle tre sale del locale, le serigrafie sugli specchi, le statue e molti altri piccoli dettagli, tutto è studiato per offrire agli ospiti confort e praticità, e un’atmosfera elegantemente orientale. Il momento migliore per gustare un’autentica cena cinese è la sera. Bon Wei però è aperto anche a mezzogiorno, e da qualche settimana propone a pranzo un’interessante carta dei lamian, ovvero particolari noodle. «Cerchiamo sempre
Lamian con pancia di maiale croccante
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di dare il nostro meglio, e proprio in quest’ottica è nata l’idea della carta dei lamian a mezzogiorno», racconta Zhang Le. «I motivi principali sono due: la preparazione di questo piatto è particolare, richiede tempo e l’impegno della brigata in cucina, e quindi non è adatta al servizio della sera quando il locale è molto affollato; inoltre, Bon Wei finora non ha mai avuto un menu specifico per il pranzo, e con questa novità abbiamo pensato di offrire a chi lo desidera un piatto unico completo, soddisfacente e veloce». La particolarità dei lamian – dei quali si trova già traccia in un codice della dinastia Ming del 1504 – è di essere lavorati a mano e con particolare abilità ed energia: si parte da un’unica pagnotta a base di farina e acqua (mezzo litro di acqua per un chilo di farina) e sale, dalla quale si ottengono matasse che vengono più volte sbattute contro il piano di lavoro, tirate per conferire all’impasto la massima elasticità (le consistenze sono molto importanti per il palato cinese) e tagliate solo quando è stata raggiunta la lunghezza desiderata. Sembra facile, ma vedendo lo chef Zhang Guoqing preparare i lamian si comprende quanta perizia ed esperienza richieda di fatto. Questi particolari tagliolini sono entrati nella carta di Bon Wei - come specialità regionale dello Shandong - nel giugno 2015, durante EXPO, all’interno del progetto de “La Grande Tradizione Gastronomica della Cucina Cinese”, il cui scopo era far conoscere alla clientela del locale la cucina regionale cinese: i lamian venivano dapprima sbollentati in acqua e poi saltati nel wok con un trito di carne di maiale, cipollotto e una salsa di fagioli gialli, con l’aggiunto di una julienne di cetriolo, secondo la ricetta tradizionale della regione. Questa prima ricetta – ovvero i Lamian dello Shandong – è rimasta nella nuova carta, affiancata da altre quattro: con uova e pancia di maiale cotta al forno e sfilacciata; con uova e gamberi; senza uova e con sole verdure (carote, peperoni zucchine, sedano, germogli di
soia e cavolo cinese); in brodo ai frutti di mare con gamberi, calamari, vongole veraci, pak-choi e funghi shitake. «Non si tratta di un menu fisso, né abbiamo previsto particolari combinazioni: è solo un’ulteriore possibilità di scelta nella carta di Bon Wei», precisa Zhang Le. «In questo modo pensiamo di poter venire incontro alle esigenze e alla curiosità della nostra clientela del mezzogiorno, che così può pranzare velocemente e con soddisfazione spendendo tra i 20
Zhang Guoqing salta nel wok i lamian
Lamian in brodo con crostacei e pesce
Lamian di Shandong
e i 25 euro, compresa acqua e caffè». I lamian in carta – in porzioni abbondanti - costano dai 12 euro degli Shandong ai 18 euro di quelli ai frutti di mare. Oltre alla nuova proposta per il pranzo, c’è un’altra novità da Bon Wei, ovvero una collaborazione per la carta dei dessert con la pasticciera Sonia Latorre Ruiz. Classe 1987, colombiana di nascita e con
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esperienze in pasticceria, nella ristorazione e nell’hotellerie di lusso (Princi, Savini, Bulgari Hotels), a lei è stato affidato il delicato compito di ideare dolci che possano accontentare il gusto della clientela italiana che non sempre apprezza i ‘dolci poco dolci’ della tradizione cinese, ma che abbiano al tempo stesso alcuni ingredienti orientali. E così – a fianco dei dessert classici di Bon Wei, ovvero Fagottini con cuore morbido di soia rossa, Polpette di riso al vapore con cocco, Polpette di riso fritte con sesamo, Budino di zucca e Gelato caramellato con mandorle – ora si può scegliere tra quattro nuove proposte denominate come i punti cardinali, e che ruotano periodicamente, seguendo la stagionalità della frutta e l’estro personale della pastry-chef: ad esempio, è così che nato il Sud, ovvero una mousse di mango e zenzero con cremoso di fragola e acqua di rosa, cuore morbido di litchi, copertura di cioccolato bianco e frolla alla vaniglia con sale Maldon. •
BR
B ar | A l b e rg h i | Rist ora n t i
Una presenza ancora più forte e una penetrazione più capillare: BARtù è nelle VIP Lounge degli aeroporti milanesi di Malpensa, Linate, di Bologna, Napoli, Verona, Venezia; nelle edicole Hudson News degli aeroporti di Malpensa, Linate e Stazione Centrale di Milano.
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Ristoranti / Querelle
Guide o classifiche? Facciamo un po’ di chiarezza di Maurizio Bertera
Non sempre le valutazioni coincidono fra loro. Talvolta chi è penalizzato da una, viene osannato dall’altra. Ma conta solo il giudizio del cliente Ma che rapporto hanno i cuochi e i patron con le guide? Sono esattamente come i calciatori che a parole dicono di non guardare i voti della Gazzetta dello Sport ma non parlano più con il giornalista che gli rifila costanti insufficienze. Quindi chi cucina o gestisce un locale controlla non solo i propri voti ma soprattutto quelli del collega più vicino (ragioni commerciali) o più considerato dalla critica (ragioni personali). Tra il piccolo - ma sempre appassionato - popolo delle guide, invece, si perpetra l’eterna domanda: chi è veramente il migliore del reame? E già che ci siamo, perché la critica non ha una visione concorde? Per intenderci, la più mediatica resta la the World’s 50 Best Restautants dove i 40 membri di ogni panel (che rispecchiano un Paese o un’area geografica) hanno a disposizione dieci preferenze. Almeno quattro (ma sei al massimo) devono essere indirizzate a locali della propria area. Sì e no, visto che si presta storicamente a voti di scambio su scala nazionale - per quanto assegnati da gente che ne capisce parecchio - e gli sponsor importanti necessitano di luce. Tanto è vero che da quest’anno si è deciso di far uscire dalla classifica i ristoranti che l’hanno vinta in passato, a meno di un cambio di location. Tanto per fare un esempio, l’Osteria Francescana - due
volte n.1 - non potrà più esserlo. Sistema discutibile, ma ogni casa ha le sue regole: quindi il Mirazur di Mentone è il miglior locale del mondo. In ogni caso, la The World’s 50 Best Restaurants si presta bene ad essere lo strumento dei viaggiatori gourmet, senza problemi di budget e che vogliono sentirsi “nel circuito”. Ma del centinaio di locali recensiti, una buona metà potrebbe essere sostituita in un minuto. Potremmo dire lo stesso della The Best Chef Top 100 che offre il fianco a un concetto evidente: anche qui a decidere sono gli “esperti” (giornalisti, operatori del settore e pure gli chef) anche se Mauro Colagreco del Mirazur è primo anche qui, seguito da altri tre cuochi transalpini e da Rene Rezdepi. Qui non c’è Hall of Fame e quindi succede che l’idolo Bottura non sia neppure in classifica. E comunque nel 2018 era solo 57°. Mah... Peraltro, mancano all’appello altri nostri big quali Enrico Bartolini, Carlo Cracco e Antonino Cannavacciuolo mentre tra i sette in graduatoria il posto più alto è il 26°, nelle mani di Nadia Santini, celeberrima cuoca del Pescatore di Canneto sull’Oglio. Bravissima, ma è evidente che l’anzianità di servizio, il blasone del locale, la fama della famiglia Santini giocano un ruolo notevole nel piazzamento. Si potrebbe portare un’argomentazione tecnica: questa classifica giudica solo i cuochi, la ‘Fifty Best’ considera i locali nel complesso. Come considerarla? Come memo per un’esperienza internazionale. Invece, per chi è ancora fissato con la cucina transalpina, ha senso dare un’occhiata a Les Chefs 100, classifica redatta unicamente dai cuochi con due e tre stelle Michelin. Un “giochino” considerando che la Francia resta il paese più stellato al mondo e
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Giancarlo Morelli
Andrea Camesasca, illustre ignorato dalla Michelin, inventore dell’albergo sostenibile
Andrea Aprea
Enrico Bartolini
difatti l’ultima graduatoria comprende una quarantina di chef d’Oltralpe mentre il numero uno è il talentuoso Arnaud Donckele di La Vague d’Or, tristellato a Saint-Tropez. Grande posto, grande cucina ma non viene manco citato nella Best Chef Top 100. Incredibile no? Peraltro, in questa graduatoria il neo tristellato Enrico Bartolini è giusto centesimo, dietro colleghi Antonino Cannavacciuolo italiani che obiettivamente sono lontani dalla persone impiegate a tempo capacità del “regista” del pieno (anche se in realtà Mudec. Capitolo Michehanno un ruolo importante lin: se per i cuochi resta anche i “suggeritori” che l’obiettivo per ragioni di fanno altro nella vita) e ha prestigio (è come arrivauna visione internazionale, re in Serie A partendo creata in decenni di storia. dal vivaio) e commerciali Clemy e Gianni Bolzoni Paradossalmente gli ispet(non è aria fritta: in 24 tori dedicati sono anche la ore la neo-stella vale un debolezza della guida: il numero limitato 30-50% in più sulle prenotazioni), per gli appassionati è sicuramente la guida più (pare una quindicina di persone) riduce adatta al viaggio, non fosse che “tocca” sicuramente la radiografia costante del centinaia e centinaia di località, indica Paese e l’influenza dei critici stranieri - in anche 640 alberghi e nell’era delle app particolare dalla stella a salire - resta potente e non favorisce i nostri locali. Detto ha una versione cartacea che trova posto questo, nonostante le accuse di staticità nella tasca di una portiera o nel casset(in parte motivate), negli ultimi anni la tino dell’auto. È affidabile? Intanto, è la Rossa Michelin si è movimentata molto di sola che viene redatta da un gruppo di
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più che in passato. A parte molte discutibili scelte all’interno del mondo stellato (roba da addetti ai lavori, ma sui tre Stelle c’è pochissimo da contestarle) e qualche “buco” sul territorio, è un buon strumento anche per chi non è fissato. Espresso e Gambero Rosso sono indubbiamente più “leggibili” della Michelin perché sono fatte di vere e proprie recensioni, come del resto il volume delle Osterie d’Italia di Slow Food che ha uno ‘zoccolo duro’ votato ai locali della tradizione, mai come oggi popolari. La vera differenza tra le due guide è rappresentata dal metodo di valutazione: più basico l’Espresso che ha creato da qualche anno le fasce dei Cappelli (da una a cinque, più i fuori classifica del Cappello d’Oro), più approfondito il Gambero Rosso con il suo punteggio per centesimi, determinato da cucina, sala e cantina. Generalizzando, potremmo consigliare ai “conservatori” la prima e ai progressisti la seconda. Poi anche qui a volte si resta perplessi: nel gruppo dei Cinque Cappelli e Cappelli d’Oro de l’Espresso ci sono tutti i Tre Stelle Michelin salvo... l’ultima, quella del Mudec di Enrico Bartolini! Come il lungo elenco delle Tre Forchette del Gambero Rosso contempla parecchi locali con una sola stellina... Quindi, pure qui ci sono (legittime) visioni diverse, mai drammatiche nella sostanza ma che possono regalare gioie e dolori a chi si siede intorno al tavolo. In definitiva qual è il miglior ristorante italiano per le nostre guide? Incrociando i voti, il Reale di Castel di Sangro perchè il Gambero Rosso assegna un punto in più rispetto all’Osteria Francescana, mentre Michelin e l’Espresso li valutano alla pari. Curioso: Niko Romito è solo 51° nella The World’s 50 Best Restaurants (terzo italiano dietro Enrico Crippa e Massimiliano Alajmo) mentre nella The Best Chef Top 100 è 20° dietro Bottura ma davanti a tutti i suoi colleghi. Come la mettiamo? Prenotate (pazientemente) da entrambi, senza leggere cosa dicono le guide, e poi fatevi la vostra idea. Forse la migliore. •
Ristoranti / Montagna
Il Cantinone, lo stellato più ad alta quota d’Italia di Gualtiero Spotti Foto di Benedetta Bassanelli
Nell’albergo di famiglia, il ristorante stellato a Madesimo tiene alte le tardizioni Il ristorante Il Cantinone a Madesimo (So) è un piccolo miracolo gastronomico ad alta quota che si rinnova di anno in anno grazie alla caparbietà del cuoco Stefano Masanti e della moglie Raffaella Mazzina, che gestisce la sala e la cantina. Un indirizzo non facile da raggiungere, certo, visto che si trova in cima alla Lombardia, tra le vette che separano l’Italia dalla Svizzera. E che da qualche stagione a questa parte si concede il lusso di essere aperto solo nei mesi invernali, quando la stagione della neve raccoglie la nutrita schiera di amanti dello sci in una delle più apprezzate località turistiche della regione. Ma c’è anche un altro motivo per questa “apertura” limitata a quattro mesi: Stefano Masanti il resto dell’anno lo trascorre nella Napa Valley, e precisamente nella Sattui Winery, un’importante cantina da oltre tre milioni di bottiglie dove gestisce la ristorazione tra cene, eventi, degustazioni e matrimoni. Si tratta, questo, di un impegno che nel corso delle ultime stagioni è diventato sempre più importante, ma che non ha certo impedito al cuoco di sviluppare idee e novità per la sua Madesimo, una volta rientrato a casa. La cucina del Cantinone, aperta dal mese di dicembre fino a Pasqua, e ospitata all’interno dello Sport Hotel Alpina, di anno in anno risulta essere sempre più convincente. Perché riesce a rinnovarsi e
a nutrirsi di piccoli accorgimenti dettati dalla passione per il territorio montano (l’utilizzo di erbe spontanee, la volontà di servirsi da produttori locali), mediati dalle intuizioni raccolte strada facendo uscendo dal vissuto più tradizionale della valle. Poco importa se qui capita di assaggiare squisiti culurgionis che invece di arrivare dall’Ogliastra vengono confezionati a 1550 metri sul livello del mare, solo perché uno dei cuochi ha origini sarde (per inciso, sono Culurgionis di pernice, con crema di zucca e fondo di pernice), e se la Royale è di anguilla, con prezzemolo fritto e olio al prezzemolo. La cucina d’autore firmata da Masanti, con il contributo importante di Stefano Ciabarri, più di un semplice braccio destro in cucina, risulta essere una piacevolissima avventura che parte dalla Valtellina e si spinge verso altri lidi. Così ca-
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pita, tra i piatti di questa nuova stagione, di incontrare la Coda di manzo con patate e mortadella di fegato del maialino nero delle Alpi (la coda trascorre 12 ore in forno a 100 gradi), l’ottima Indivia (cotta con zenzero, frutto della passione e arancio), che nasconde una tartare di anguilla con bagna cauda di missoltini del lago di Como, o le apparentemente semplici Verdure invernali con tre tipi di carote (gialle, rosse e arancioni), le foglie di topinambur e un poke di trota chiavennasca dove si marina il kiwi invece dell’avocado, con aggiunta di olio di sesamo e soia. Tutti piatti sempre ispirati, che celano un brillante connubio local/ global giocando su interessanti contrappunti gustativi e che giustificano ampiamente la luminosa stella con la quale la guida rossa da anni premia la cucina del Cantinone. Ma le novità che riguardano
Le verdure invernali con tre tipi di carota e trota chiavennasca
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Ristoranti / Montagna il ristorante e l’universo del vulcanico Masanti non si fermano qui. Dal mese di agosto nel centro del paese è stato inaugurato a due passi dall’officina gastronomica Ma!, dove si producono brisaole artigianali (la sua è stata la migliore d’Italia nel 2019 per il Gambero Rosso) e salumi pregiati. Oltre a una microscopica pizzeria con un solo tavolo, che quotidianamente sforna focacce, pizza in pala, pizze rotonde, croissant e pane utilizzando prodotti selezionati in tutta Italia e con farine bio e integrali lavorate dal Molino Rachello di Roncade: un’idea che sposa in pieno la filosofia del cuoco legata a far crescere l’offerta di Madesimo anche nelle stagioni non baciate dal turismo, visto che dal mese di settembre il Ma! Che Pizza!, questo il nome, è anche gastronomia d’asporto aperta tutto l’anno. L’unico negozio gastronomico con il Ma! che rimane aperto tutto l’anno. Un progetto da imprenditore locale illuminato, grazie al quale, in tempi di spopolamento della montagna, si offrono delle opportunità ai giovani del paese e della valle che possono rimanere a lavorare a Madesimo. Non male, per un cuoco che ha trovato l’America qualche anno fa, ma che non ha mai smesso di rientrare a casa propria complice il legame fortissimo con la propria terra. Al punto che da quest’anno il Cantinone entra anche a far parte della guida Les Collectionneurs, quella curata da un certo Alain Ducasse, che negli ultimi tempi ha raccolto adesioni da diverse realtà ristorative e alberghiere di casa nostra. In tempi non facili per la Valtellina, che in pochi anni ha visto la perdita di due pezzi da novanta della cucina come Mattias Peri a Livigno e Andrea Tonola a Villa di Chiavenna, è un segnale forte e importante quello lanciato da Stefano Masanti che, si spera, possa essere un punto di partenza per una rinascita del territorio alpino lombardo. Intanto, vale la pena investire del tempo per scoprire le preziose costruzioni gastronomiche che si celano tra le pieghe del menu degustazione proposto dal Cantinone. •
Stefano Masanti insieme alla moglie Raffaella Mazzina
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Ristoranti / Forniture
ARCA, i professionisti della qualità
Un’azienda specializzata nella commercializzazione di prodotti alimentari ma anche di confezioni per la cosmesi e la profumeria
ARCA Srl è una società iscritta al Registro delle Eccellenze Italiane, associazione patrocinata dal Ministero dello Sviluppo Economico, che si occupa di commercio di prodotti alimentari, prodotti biologici e biodinamici, produzione e confezionamento di prodotti cosmetici e di profumeria, per l’igiene della casa e della persona e commercio di materie prime per l’industria cosmetica. Dal 2018 ha creato alcune linee di prodotti a proprio marchio. Tra queste, spiccano “Youkino Natural Vegan”, “Youkino Healty Food” e “Balmò”. Balmo’ è l’Aceto Balsamico di Modena Igp, prodotto e commercializzato dalla società. L’Aceto Balsamico di Modena Igp Balmò è ottenuto dalla sapiente miscela di mosto cotto e aceto di vino affinato in botti. Frutto di una piccola produzione di una acetaia modenese che segue il metodo tradizionale, non contiene alcun tipo di additivo o colorante grazie alla sua produzione completamente naturale. ARCA Srl lo commercializza in due preziose
bottiglie da 250 ml. Ottimo da utilizzare nella guarnizione di piatti importanti, è ideale, anche, per essere gustato sulle verdure, frutta fresca e gelato. Proposto con un design innovativo e accattivante, il packaging di Balmò racconta una storia: nel progetto della sua etichetta rivive il processo produttivo che ha dato origine a questo pregiato Aceto Balsamico di Modena Igp. Il tappo rappresenta l’origine e descrive la parte artigianale e naturale della produzione. Il nero simboleggia il prodotto finito nella sua cromaticità. Il bianco con i richiami neri racconta l’uso dell’aceto prima del consumo finale. La potremmo definire
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una vera opera d’arte. Le Perle di Aceto Balsamico Balmò, invece, rappresentano una nuova opportunità di interpretare l’aceto balsamico. Grazie alla sottile gelificazione che le caratterizza, le Perle di Aceto Balsamico Balmò, prodotte e commercializzate da ARCA, sprigionano nel palato una vera e propria esplosione di gusto. A impreziosire poi e arricchire l’esperienza sensoriale vi è ancora una volta il packaging: elegante e all’avanguardia per un prodotto dal fascino avvolgente e dall’eccezionale potenza gustativa. Ottime per arricchire antipasti sfiziosi, si sposano perfettamente con il pesce crudo. Ma sono anche eccellenti in abbinamento a verdura, frutta e gelati. Per farsi ricordare e lasciare il segno, sono da provare nei cocktail, al fine di rendere unici i drink proposti in occasioni speciali. •
Ristoranti / Istituzioni
San Domenico di Imola Vertice di classicità
di Maurizio Bertera
Se si deve a Gianluigi Morini l’affermazione del ristorante, è con Valentino Marcattilii e con Massimiliano Mascia, che vengono raggiunti i vertici attuali Se gestire un ristorante di tendenza è già difficile, guidare un ‘monumento’ lo è ancora di più. E non di rado si finisce nel dimenticatoio, in mancanza di idee o quantomeno di una lucida successione. Ecco perché fa veramente piacere – da gourmet prima ancora che da giornalisti – raccontare storie come quella del San Domenico di Imola, un’istituzione della nostra cucina. Ci limitiamo per il passato a fissare solo la data di apertura di questa elegante luogo - 7 marzo 1970 – e a ricordare che la cucina era ‘supervisionata’ da un nume quale Nino Bergese: ‘il cuoco dei re e il re dei cuochi’, come veniva
definito all’epoca. Era stato chiamato dal fondatore, l’eclettico imolese Gianluigi Morini, per sovraintendere la proposta culinaria: Bergese in cucina trovò un giovane di origini abruzzesi, Valentino Marcattilii, con cui si creò immediatamente un’intesa, un sodalizio che fece
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crescere in pochissimo tempo la notorietà del posto e consolidò l’esperienza di quello che tuttora è lo chef del bistellato Michelin. Morini voleva «uno spazio per la felicità, dove i clienti diventano ospiti» e in effetti lo creò ‘su misura’, nei locali della casa paterna nel centro di Imola. Una bomboniera da venti tavoli, curatissima: le pareti ricoperte di tela di lino, i soffitti di tessuto decorato, con i quali ricopre i paralumi appesi su ciascun tavolo. Le tovaglie di lino pesante colore fucsia, i bicchieri di cristallo, i sottopiatti d’argento, come i candelieri, le posate e i vasi pieni di fiori freschissimi. L’impressione che il San Domenico, ancora oggi, suggerisce, è quella di un circolo, privato ed esclusivo. Il che rende di buon umore, pensando ai tanti locali-fotocopia dove la scarsezza di arredi e la prevalenza del nero vengono scambiate per minimalismo cool. Ai Marcattilii – Valentino e il fratello Natale in sala, impeccabile – va riconosciuto il grande merito di non
Massimiliano Mascia e Valentino Marcattilii
essersi fermati, semmai di aver trovato l’araba fenice: quella del rinnovamento nella tradizione, che a parole tanti sostengono di fare ma in concreto ben pochi realizzano. Partendo da un’ospitalità solare e attentissima al dettaglio,
con un servizio preciso e leggero, che ha due colonne in Giacomo, figlio di Natale, e nel sommelier Francesco Cioria. Mentre ai fornelli, con Valentino, c’è il giovane nipote Massimiliano Mascia nel cui curriculum spiccano le esperienze italiane a Casa Vissani e Romano, quella statunitense all’Osteria Fiamma di New York e quelle francesi prima alla Bastide Saint Antoine e infine a Parigi alla corte di Alain Ducasse al Plaza Athenée. E’ andato, giustamente, ed è tornato a dare un tocco nuovo, equilibrato, in cucina. «La mia crescita professionale - spiega - è iniziata molto presto, perché fin da bambino ho sentito una grande attrazione per questo lavoro. L’unica difficoltà che ho dovuto superare è stata, lavorando, dimostrare a tutti che ero soltanto uno che voleva fare questo mestiere al San Domenico, non il figlio o il nipote di qualcuno. Ecco perché ho voluto affrontare tutte le sfide, senza evitare tutta la fatica necessaria. Questo oggi mi permette, essendo diventato chef,
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di comprendere le difficoltà dei ragazzi più giovani che lavorano con noi e di aiutarli nel modo migliore». L’alchimia tra la storia e il presente funziona. C’è un menu Divertimenti, più provocatorio, a 180 euro, dove si sente maggiormente la mano di Massimiliano. E quello Della coppia a 160 euro, con i classici, a partire dal leggendario Uovo in raviolo con burro di malga, parmigiano dolce e tartufo bianco. Perfetto e attualissimo, nonostante sia una visione bergesiana del 1974… E ancora c’è l’intelligente idea di un moderno Sei portate, solo il mercoledì, che costa 100 euro, a patto di essere nati dal ’70 in avanti. Mischiamo i piatti tra i due menu, per farvi intuire che la buona cucina non è questione di tempo ma solo di mano: Ostrica al lime, in brodo di prosciutto e Parmigiano Reggiano; Ricciola marinata al sale di Cervia, gel di yuzu, quinoa croccante e gin spray; Scampi al vapore con emulsione di patate e caviale; Noci di cappesante alla plancia con riduzione di ostrica e Martini Dry, vongole veraci alle erbe; Risotto, quaglia, rapa rossa e polvere di caffè; Dorso di coniglio al tegame, con puntarelle, cavolo romanesco e olio alle acciughe del Cantabrico; Sella di maialino di Mora romagnola con carote gialle e salsa al rosmarino; Crostata di fichi alla saba con gelato allo squacquerone. Altro che (triste) effetto monumento: viene solo voglia di tornare presto. Il ricordo del passato, di una visione oggi impossibile da realizzare – basta scendere nella cantina da 800 mq con 2200 etichette tra vini e distillati da inginocchiarsi – è semplicemente un elemento di continuità, grazie (ancora una volta, in Italia) a una grande famiglia. «Qui dirlo non è semplicemente una questione di sangue. E’ il condividere uno stile, una tradizione che non è mai un punto nel passato, ma solide basi su cui continuare a creare a inventare, ad armonizzare sinfonie di gusto e passione» sottolinea Valentino Marcattilii. Lunga vita al San Domenico e al suo Uovo in raviolo, naturalmente. •
Vino / Anniversari
Sella&Mosca il nuovo stile di Terra Moretti di Theo Smith
L’azienda sarda ha festeggiato i suoi 120 anni dalla fondazione. Grandi obiettivi e una visione strategica ben delineata, targata Vittorio Vittorio Moretti, già ideatore di modelli di successo in Franciacorta e in Toscana, con sua figlia Francesca, enologa e AD del Gruppo Terra Moretti, ha dichiarato ai giornalisti durante l’appuntamento in azienda, lo scorso autunno, per festeggiare i primi 120 anni della cantina: «Quando siamo arrivati qui, da Sella & Mosca, io e Francesca siamo rimasti così colpiti da quel vigneto a corpo unico da non poter resistere. Il nostro obiettivo è proprio rafforzare la vigna, fare tornare la cantina a essere quello che c’è sempre stato nel suo dna. Sella & Mosca è una realtà straordinaria e merita tantissimo, sia per la qualità dei vigneti che per le potenzialità di ulteriore crescita in chiave qualitativa». Francesca Moretti dal canto suo ha aggiunto: «Credo ci sia una responsabilità sociale nel promuovere e nel raccontare il territorio. Poi è un circolo virtuoso e ne beneficiamo anche tutti noi». Accanto all’impegno enologico infatti, il Gruppo Terra Moretti, nei tre anni dalla acquisizione, ha realizzato il recupero architettonico e funzionale del vecchio centro aziendale, comprendente anche una piccola chiesa dedicata alla Madonna dell’Uva e articolato in suggestive cantine storiche insieme a abitazioni d’epoca divenute oggi oggetto di attività agrituristica di livello. «Il perfezionamento
dell’accoglienza, in chiave di ospitalità qualificata, resa ancor più affascinante da questa location straordinaria, è uno dei nostri obiettivi primari. Chi visita l’affascinante tenuta rivive in prima persona l’atmosfera dell’inizio del secolo, in un continuo caleidoscopio di profumi, odori e aromi che esprimono il carattere di questa terra assolata e forte e tanto contribuiscono alla personalità inconfondibile dei suoi vini», ha sottolineato Vittorio Moretti. Tutte le strutture sono immerse in un grande parco, circondate da oltre 550 ettari di vigneto, uno dei più grandi ed estesi d’Italia. L’obiettivo della famiglia Moretti è di completare e proseguire un progetto che, oggi come allora, fa onore alla Sardegna che la ospita, accogliendo nelle proprie tenute migliaia di visitatori e di wine lovers ogni anno. Oggi sono aperte al pubblico le cantine storiche, costruite nel 1903, l’enoteca
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e il piccolo museo, diviso nella sezione aziendale e in quella archeologica legata alla necropoli di Anghelu Ruju, scoperta negli stessi anni nell’area della neonata azienda e da cui prende nome uno dei vini prodotti, straordinario vino “da meditazione”. Baciata dal sole e abbracciata dai venti, la Sardegna è una terra da sempre vocata alla viticoltura. Nell’isola, Sella&Mosca ha selezionato alcune delle aree vinicole più pregiate e interessanti. I Piani, a nord di Alghero, rappresenta la parte più consistente. Questa proprietà si estende per 650 ettari, in una piana soleggiata e accarezzata dal vento di maestrale, immersa in un incredibile parco botanico circondato da oltre 550 ettari di vigneto. Un luogo che non può essere confuso con nessun altro, puntellato da oleandri, pini marittimi, palme ed eucalipti. A queste terre si aggiungono i piccoli appezzamenti della Gallura, nella parte
La storia secolare dell’azienda
Sella&Mosca è un’esplosione di natura, come si legge nel comunicato ufficiale dell’azienda, riservato alla stampa. Nasce ad Alghero, angolo incantato di Sardegna, nel 1899 per mano di due intraprendenti piemontesi che le danno il nome: l’ingegnere Sella, nipote del famoso statista Quintino Sella, e l’avvocato Edgardo Mosca. I due in quell’anno iniziarono un’importante opera di bonifica dei terreni della zona dove oggi sorge l’azienda. Sono passati oltre 120 anni da allora e quell’impresa suona ancora pionieristica, unica ed esemplare. Il progetto di Sella&Mosca era ambizioso: strappare la terra della località “I Piani” agli acquitrini e all’abbandono, per renderla uno dei più importanti vivai per la produzione di barbatelle; insomma, trasformare una zona della Sardegna incolta in un immenso vivaio. Dopo i 15 ettari della tenuta Nuraghe Majore si aggiungono i 600 ettari dei Planos de Sotzu. Fin dall’inizio furono necessarie imponenti opere di bonifica idraulica e spietramento per trasformare le vaste tenute de “I Piani” dallo stato incolto a un fiorente insediamento viticolo. Bisognava poi sviluppare competenze perché l’innesto tra vitis vinifera e vitis labrusca non era ancora pratica diffusa. Infine la Sardegna, in quanto isola, aveva tempi e costi di commercializzazione notevoli: ma nonostante questi limiti Sella&Mosca riuscì a vincere la propria sfida e avviare un’attività di successo. Così Sella&Mosca all’inizio del Novecento trasformò una terra lasciata al pascolo in fertili vigneti, avviando la più prestigiosa produzione di vini in Sardegna. Negli anni l’azienda ha continuato ad assolvere il ruolo pionieristico, introducendo con costanza nuovi metodi di lavorazione che hanno consentito la produzione di vini di stile contemporaneo, le cui caratteristiche rivelano la nuova tradizione dei vini sardi. Nel 2002 Sella&Mosca entrata a far parte del Gruppo Campari, ma è solo nel 2016, con l’acquisizione da parte del Gruppo Terra Moretti che guadagna un nuovo slancio verso l’innovazione e il rispetto del territorio.
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Vino / Anniversari
I quattro chef che hanno guidato una grande cena in azienda: Christian Andreini, Stefano Deidda, Olivier Piras e Luigi Pomata
Antonio Marras con Francesca Moretti
In cantiere nuovi progetti Ciò che da sempre contraddistingue il Gruppo Terra Moretti è la cura e la valorizzazione del territorio, per dare ai suoi ospiti un’esperienza il più possibile completa e stimolante. Con questo spirito, Vittorio Moretti prima e le figlie Francesca e Valentina poi, si sono mossi nello sviluppo di attività e servizi volti alla valorizzazione e al rispetto non solo del territorio, ma anche delle sue tradizioni, senza però dimenticare mai il futuro e l’innovazione. Per questa ragione lo sviluppo dell’ospitalità e dell’accoglienza ha da sempre rappresentato un punto fondamentale per il gruppo che il 1 agosto ha aperto un nuovo agriturismo all’interno della tenuta sarda.Il progetto è stato curato da Valentina Moretti vicepresidente esecutiva della Moretti Costruzioni e direttrice creativa di More, l’anima più innovativa di Moretti – Building on Human Values, un’impresa con oltre cinquant’anni di esperienza di progettazione e costruzione di grandi opere di architettura moderna. L’azienda inaugura l’apertura dell’Agriturismo Villamarina il cui nome deriva dalla zona su cui sorge. «Investire, partendo da ciò che offre la terra, per dare radici al futuro», afferma Valentina Moretti, che crede fermamente nei progetti che restituiscono valore alla terra e alla cultura a cui appartengono. Bellezza, qualità, innovazione e rispetto del territorio sono dunque le parole chiave, per un progetto che comprende a oggi un totale di 9 camere di cui 2 suite, 1 junior suite e le restanti superior, con un ulteriore ampliamento programmato nei prossimi anni. Il concept ispirazionale dunque è chiaro: il rispetto della natura ed il legame con il territorio.
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nord orientale dell’isola (15 ettari) e di Giba, nel Sulcis, sulla costa sud occidentale, tra Capo Teulada e la catena montuosa dell’Iglesiente (6 ettari). Il terroir è diverso per ogni sito e caratterizzato da elementi ambientali unici: un suolo ricco di umori minerali e avaro d’acqua, dove l’aria è tersa e il clima caldo quanto ventoso. Pur nella loro unità geologica, le tenute presentano una grande varietà di terreni: argillosi, sabbiosi, calcarei, vulcanici. In ogni microarea, i vari vitigni danno risposte diverse, consentendo un’eccezionale pluralità di caratteristiche.
La Linea Marras Lo stilista Antonio Marras, conosciuto nel mondo per il suo stile di grande sperimentazione, ha disegnato le etichette dei quattro nuovi vini di Sella&Mosca prodotti dai vitigni più rappresentativi dell’azienda: vermentino, cannonau e torbato, proposto in due versioni: una classica e una Metodo Classico. L’ispirazione prende corpo dalla notte magica di San Giovanni (23-24 giugno) quando due marinai, un pugile, un eccentrico e un uomo ingiustamente accusato di essere un bandito si incontrano ad Alghero e saltando il fuoco diventano compari. I quattro vini portano il nome dei personaggi raccontati da Marras: Oscarì, il Metodo Classico da uve torbato; Ambat il Vermentino di Sardegna; Catore l’Alghero Torbato e Mustazzo il Cannonau di Sardegna. Ne nasce una storia di amicizia, di legami autentici, di valori e di territorio.
Nei vini Sella&Mosca è facile ritrovare i caratteri naturali del contesto in cui nascono: il sole, il vento, il mare, i terreni generosi e forti, la macchia e i suoi mille profumi. A prescindere dalle varietà e dalle pieghe territoriali, emerge in maniera netta il loro carattere mediterraneo, oltre alla capacità di mantenere le virtù della tradizione attraverso idee nuove. Energia ed eleganza, forza e finezza, calore e freschezza. Ogni vino cerca l’equilibrio virtuoso tra l’esuberanza che i frutti della natura portano in dote e il saper fare di chi li modella. Un connubio inscindibile, l’unico capace di forgiare una dimensione assoluta che rispetta lo spazio e va oltre il tempo. Dall’acquisizione della famiglia Moretti nel 2016, sono due le novità introdotte: il Torbato Brut ora prodotto ad Alghero e la linea di vini nati dalla collaborazione con Antonio Marras. Il Torbato Brut è prodotto con un’uva rara e preziosa, riscoperta e valorizzata da
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Vittorio Moretti e signora
Sella&Mosca dopo anni di grande lavoro. L’uva torbato cresce su terreni ricchi di calcare provenienti da sedimentazioni marine millenarie. I grappoli sono accuratamente selezionati tra quelli che si distinguono per la spiccata acidità, in modo da conferire al mostro le migliori caratteristiche per la spumantizzazione. Un connubio unico, esaltato dal metodo cuvée close, capace di preservare al meglio gli aromi, conferendo al vino brillantezza e fragranza. •
Ristoranti / Stellati
Atene splende: merito di Angelos Lantos
di Nadia Afragola
Unico chef bistellato di tutta la Grecia, propone una cucina d’impronta francese, ma senza dimenticare le materie prime della tradizione locale Ha quella gentilezza figlia del suo percorso francese. Come anche il rigore, la precisione, la calma. Pochi orpelli e due stelle cucite sul petto (è l’unico chef di tutta la Grecia ad aver raggiunto un simile traguardo), fanno di Angelos Lantos lo chef di punta di Atene, lui che da oltre sette anni guida una storica istituzione gastronomica greca: Spondi. “Un ristorante che merita la deviazione” a sentire gli ispettori della Rossa: sarà per via dei piatti eterei, quasi evocatori. Un ristorante che in realtà è una villa immersa nel verde per un ragazzo, Angelos, che ha scelto di fare il cuoco quando non c’era nulla di affascinante in questo. Il suo apprendistato lo ha portato in alcuni dei più famosi ristoranti greci, lavorando con Christos Tzieras, Herve Pronzato e Arnaud Bignon. E così il ragazzo si è fatto uomo, marito, padre di due figli, docente. È rimasto autentico, si è scoperto contemporaneo, pur rimanendo legato alla tradizione. A compimento dell’esperienza gastronomica fatta nel suo ristorante, una certezza: quando ci si alza dal tavolo del suo ristorante si torna a casa con una mappa dai sapori ben chiara in testa e nitida al palato. Chi è Angelos Lantos? Sono uno a cui piace cucinare. Un cuoco con più di 20 anni di esperienza, dei
quali gli ultimi 14 trascorsi tra le mura di Spondi. Da 7 anni sono l’executive chef del ristorante. È riuscito a far digerire la cucina francese ai greci. Ho avuto modo di vivere la Francia fino in fondo, ho fatto molta esperienza e ho imparato la sua storia ma soprattutto la sua tradizione culinaria. Ne ho acquisito la tecnica e i sapori, mi si sono impressi dentro fino a diventare un unicum con la mia cucina. Inoltre il nostro ex chef Arnaud Bignon, che per me è stato come un mentore, era di origini francesi. Il che ha naturalmente contribuito a tracciare la mia direzione. Due stelle Michelin pesano più sull’uomo o sullo chef?
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Direi che pesano più su Spondi che su di me. La Michelin non attribuisce le Stelle agli chef ma al ristorante, anche nei casi in cui lo chef stesso sia il proprietario della struttura. Questo viene ripetuto spesso dalla Guida, ed è sempre bene ricordarlo. È la cucina e quindi il nostro operato a essere giudicato prima di tutto, ma anche il servizio, la cantina, l’architettura e il design del locale, hanno il loro peso. Quando era bambino cosa voleva fare da grande? Ho dei ricordi vaghi della mia infanzia, immagini, piccoli flash, legati principalmente alla mia città e a mia nonna, da cui andavo spesso e che cucinava per me, come ogni nonna del mondo. Niente che potesse far presagire questa mia carriera gastronomica.
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Ristoranti / Stellati ho fatto un buon lavoro e va migliorato. Di quante persone si compone il suo team? Sono 13 gli stabili, tra cui un panettiere che la mattina fa il pane. Ci sono tre ragazzi in pasticceria, e otto in cucina. Lavoriamo sette giorni a settimana, dalla domenica al sabato. Non abbiamo un giorno di riposo. Motivo per cui nel ristorante abbiamo tantissimo personale che si occupa di tutto ciò che non è far da mangiare e vi assicuro che il lavoro da fare è tanto. Durante l’anno, chiudete mai per ferie? Lavoriamo tutto l’anno, 362 giorni per la precisione. Siamo chiusi solo 3 giorni, non di più. Esclusivamente durante la Pasqua.
E adesso cosa vuole fare da grande? Vorrei avere la forza di continuare a fare questo lavoro. Ci vuole tantissima determinazione e una passione che non deve mai sfiorire, soprattutto se si vuole rimanere ai vertici. Se un giorno non dovessi più avere la giusta motivazione, sono certo che mi fermerei. Cos’è etico per lei? Imparare tutto e da tutti. È riconoscere l’importanza della cucina italiana, francese o spagnola. È sapere che ogni tradizione può darti qualcosa. Oggi i social ci aiutano in questo, abbiamo una finestra sul mondo che è illimitata e va usata nel più responsabile dei modi. Il fattore umano in cucina quanto conta?
È estremamente importante. Qui siamo come una famiglia, e non potrebbe essere altrimenti. Lavoriamo insieme almeno per 12 ore al giorno, ci vediamo molto più che con le nostre mogli o con i nostri figli. Il rispetto reciproco è alla base di un rapporto duraturo. Chi è un critico? Tutti: chiunque può esprimere il suo punto di vista sul cibo, perché mangiare è un atto che ci accomuna. Alcuni hanno alle spalle più esperienze gastronomiche e più formazione, e danno quindi un punto di vista su un piatto sicuramente più tecnico. Ma il cliente medio, anche senza una preparazione specifica, sta comunque spendendo i suoi soldi nel mio ristorante. Quindi se non è felice, significa che non
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Quali sono le coordinate della sua cucina? Siamo semplici. Non si vede che c’è tanta tecnica dietro, quando si guarda alla composizione. Non facciamo focalizzare il cliente sulla tecnica ma sul sapore. Il piatto “sembra” minimal, non troppo complicato ma solo in apparenza. Quando, al tavolo, vedono il piatto e dicono “wow” allora so di aver fatto un buon lavoro! Solo poi quando si assaggia, un palato allenato, percepisce che ci sono stati tanti passaggi per la preparazione di quel piatto. Insegna anche ai cuochi del futuro. Come sono le nuove generazioni? È una domanda difficile. Ci sono dei talenti. Ma se ne ha e non ci lavora su, rimane sempre una dote buttata per il resto della vita. Quindi l’unica cosa che pretendo da quelli con un quid in più è di lavorarci su. Bisogna leggere, viaggiare, passare la maggior parte del tempo che si ha a disposizione in cucina, altrimenti non si è adatti a questo mondo. Ogni professionista dovrebbe fare così. Non importa se medico, calciatore, cuoco o giornalista. Bisogna avere passione se no, non si arriva da nessuna parte.
Spesso i giovani cuochi vogliono diventare delle star televisive. Questo ha degli aspetti positivi e negativi. Il positivo è che imparano le dinamiche della tv, a partire dallo show business ma non so cosa veramente dia alla vita di uno chef. È solo uno show anche se tante persone vogliono arrivare a quello stile di vita. C’è un piatto che più di altri la rappresenta? L’anatra. E per quanto mi riguarda il momento migliore per creare un piatto nuovo è di inverno non d’estate. C’è un ingrediente che non entrerà mai nella sua cucina? Non ci sono degli ingredienti che non faccio entrare… a parte forse il serpente ma solo perché non ho nessuna esperienza a riguardo, o i ragni sempre per lo stesso motivo, anche se so che alcune persone li mangiano. Non ho esperienza con questi ingredienti, quindi non li utilizzo. Se in futuro li assaggerò e mi piaceranno, allora sì! Quanto spesso cambia il menu? Almeno due volte all’anno nella sua interezza ma ogni volta che introduciamo un ingrediente, cambiamo inevitabilmente dei piatti. C’è qualcosa che invidia alla cucina italiana? Tutti amano il risotto e la pasta dell’Italia. Personalmente vado spesso a mangiare in ristoranti italiani. Che dire… mi sento così bene quando mangio la pasta. Parliamo di maestri, chi è stato il suo? Arnaud Bignon per me è stato non solo un amico ma anche un mentore. Mi ha insegnato come lavorare gli ingredienti, come averne cura e come rispettarli. Mi ha insegnato come comportarsi in cucina. Non ha mai urlato ma ha sempre dato il suo sostegno e una spiegazione per tutto. Questo mi ha aiutato a crescere e mi ha
reso un uomo migliore ancor prima che uno cuoco preparato. C’è uno chef italiano che stima? Massimo Bottura lo stimo non solo perché è un bravissimo chef ma anche perché è una persona con passione e fa tante cose che vanno oltre quello che è il suo lavoro di cuoco. Questo aspetto lo considero molto importante. Bellissimi i suoi discorsi su come non sprecare il cibo. È una di quelle persone che lascerà qualcosa in dono e in eredità a tutti, al di là della sua capacità di cucinare. Tutto questo è qualcosa di nuovo e di importante per me. Ingrediente o tecnica, cosa conta di più? Gli ingredienti. Se l’ingrediente è buono, diventa difficile rovinarlo. Pensate al pesce grigliato, se non si sa cucinare è molto probabile che si rovini, ma se il pesce è fresco, anche se viene rovinato, rimane ancora gustoso. Nel 2020 ha senso ancora parlare di km0? Certo. Ma il problema è che nessuno chef al mondo utilizza solo gli ingredienti locali. Anche se dicono il contrario, non stanno dicendo la verità a meno che non abbiano il loro orto e la loro serra e anche in quel caso non è detto. Dubito che nelle grandi città ci sia posto per un orto. Se un ingrediente è buono, non ci si deve preoccupare che sia locale o no. Ci sono tanti produttori di Parmigiano nel mondo ma non è il vero Parmigiano. Quindi meglio usare quello buono anche se non è locale. Quando non vestiva i panni dello chef, cosa avrebbe voluto fare? Volevo diventare un medico. Quando ho terminato il liceo, la prima cosa che volevo fare era l’università. In Grecia abbiamo dei test di ammissione che ti portano via
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un anno intero di studio. Da giovane ero un po’ particolare, decisi che nel caso in cui non lo avessi superato avrei fatto lo chef. Quell’anno il livello era molto alto ed eccomi qui... Adesso vorrei darmi una seconda opportunità. Dite che sono ancora in tempo? Per Yannick Alleno le donne in cucina non arrivano al top perche sono portate a fare le mamme. Lei cosa ne pensa delle donne in cucina? No. Non esiste un simile ragionamento. Le donne possono essere mamme insieme a un sacco di altre cose. Sono gli uomini che non riescono a fare semmai più cose insieme. Gli uomini possono solo
fare carriera. Le donne possono avere una carriera, un marito, dei bambini e comunque avere tutto quanto sotto controllo. Le tante donne chef nel mondo sono la dimostrazione di questo. Progetti futuri? Non so cosa mi riserverà il futuro. Se pianifico qualcosa può essere che poi non si realizza, e rimango deluso. Quindi ogni giorno faccio qualcosa per il giorno dopo. Sperando che sia migliore di quello appena passato. •
Alberghi / Talenti
La Tavola di Riccardo, una storia italiana di Alberto P. Schieppati
Il giovane chef di Laveno, sul lago Maggiore, esprime nei piatti una passione fuori del comune Quando si parla di storie italiane, quella della famiglia Bassetti è certamente da inserire tra le meglio riuscite. Il loro hotel, il Porticciolo, si trova a Laveno Mombello, sulle rive varesine del lago Maggiore, arroccato tra collina e lago, dove si staglia con le facciate di un colore rosso vivo. Non appena si raggiunge l’Hotel, si parcheggia praticamente a sbalzo sul lago; l’impatto scenico è fortissimo ed è il primo contatto con l’acqua, che vi accompagnerà per tutta la durata del vostro soggiorno. Dal parcheggio si scendono i tre piani e si raggiunge il ristorante La Tavola, una stella Michelin, fiore all’occhiello della struttura e riferimento gastronomico per tutta la zona; è il regno dello chef Riccardo Bassetti, classe 1982, che ha ereditato da papà Giovanni la passione per la cucina e dalla mamma Elisabetta Ballerini l’amore per il vino ed il gusto estetico. Riccardo ha imparato dai migliori, ha lavorato con Davide Oldani al D’O, con Sergio Mei al Four Seasons di Milano, poi sugli Champs-Elysées nell’Atelier di Joel Robuchon e nel mentre si è rimboccato le maniche anche nelle cucine del Meurice, sotto la guida di Yannick Allenò. Al
Sur Mesure del Mandarin Oriental Palace di Parigi ha avuto l’onore di far parte della squadra di monsieur Thierry Marx. Infine, dopo tutto questo peregrinare, è tornato a casa con un bagaglio di esperienze e di tecniche pronto a lasciare l’ impronta. Si è dato una scadenza precisa, una volta tornato nella sua Laveno Mombello: «Ho deciso di tornare in Italia perché avevo voglia di prendere in mano le redini dell’attività di famiglia; arriva un momento in cui ti senti pronto, e così mi sono dato al massimo quattro anni per dimostrare a me stesso che valevo una stella Michelin. Così è stato, e nel 2016 è arrivato l’ambito riconosci-
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Riccardo Bassetti
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Alberghi / Talenti mento». Seduti al ristorante La Tavola non si perde mai il contatto con il paesaggio, ci si rilassa fronte lago e ci si perde guardando i colori che cambiano e la vita su questo specchio d’acqua, mentre alle spalle si sente che qualcosa ferve, che la brigata in cucina ha terminato l’impiattamento, e che è giunto il momento della nostra esperienza gastronomica. La predilezione dello chef per il pesce è ben visibile fin dai primi amuse bouche, ma è nello sviluppo del pasto che esce la sua vera passione per quello di lago.
D’altro canto qui puoi pescare direttamente dal molo, contando sulla presenza di un’ottima materia prima a km zero, come anche tutti gli altri ingredienti che vengono selezionati tra i piccoli produttori e mercati locali: «Il pesce di lago è difficile da lavorare – prosegue lo chef - e da trasformare, ma non per questo deve essere bistrattato. Se preparato nel modo giusto e valorizzato correttamente, ha un sapore davvero speciale e da ricordare». Il cestino del pane è una delizia per gli occhi e per il palato. È curata dal papà Giovanni, come tutti i lievitati, ed è davvero quel punto in più che fa la differenza, accompagnato poi da una selezione di sali aromatizzati e di oli che esaltano ogni boccone. Si va dal croissant salato,
Riccardo Bassetti insieme ai suoi genitori Giovanni e Elisabetta
alla focaccina, alla mini baguette, preparata con impasto con autolisi e fermentazione indiretta con poolish. Il risotto con la zucca è ormai un must per chi conosce il ristorante, tanto che lo chef ha dovuto creare una versione alternativa per i mesi in cui la stagione
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non ne consente il reperimento. È nato così un piatto, realizzato con la zucca fermentata, che si può gustare anche in primavera. Il concetto di “evoluzione di una ricetta” è molto forte nella cucina di Bassetti, dove si predilige un approccio che non stravolga il menù, ma
che proponga una evoluzione del piatto, con l’aggiunta, la sostituzione o l’eliminazione di un ingrediente, o di una salsa. Dietro c’è l’idea che il piatto cresca insieme agli stimoli ricevuti, alle influenze o ai sapori i con cui si entra in contatto: «Naturalmente ci sono sempre delle novità in menu, la stagionalità viene sempre rispettata - prosegue lo chef -, ma una cosa che mi piace molto e che gradiscono anche i clienti, è giocare con ricette note e vedere come reagiscono quanti magari abbiano già assaggiato diverse versioni di quel piatto». Tra i primi, interessantissima e originale, anche nel nome, la versione della Bouillabaisse, la zuppa di pesce tradizionale francese, che alla Tavola diventa BouillaBassetti, fatta con pesce di lago e ravioli ripieni di rouille. Qui si mette in gioco anche l’aspetto estetico, che in certe preparazioni si fa quasi fumettistico grazie all’uso di stampi che ricreano le forme stilizzate dei pesci. La maggior parte del pescato del lago infatti risulta ricco di spine e va quindi deliscato in maniera meticolosa, rischiando di perdere o modificare la sua forma iniziale e la riconoscibilità una volta nel piatto. La ricostruzione delle sue fattezze originarie è certamente una nota non solo gustosa ma anche in un certo senso ludica. Si ritrova lo stesso accento estetico anche negli Spaghetti con alici nelle tre versioni, dove una di queste è proprio la lisca dell’alice fritta, che dona croccantezza al palato e rompe l’armonia compositiva dello spaghetto. Tra i secondi, la Trota con provola, crescione e lardo e il Luccioperca con chorizo ed acqua di cozze, convivono con proposte di terra come la Quaglia e suoi satelliti, con foie gras, salsa di soja e verza. In questi piatti è tanto visibile l’esperienza francese dello chef, quanto allo stesso modo la capacità di farla sua e di calzarla su un territorio da sempre votato ai prodotti che il lago offre. L’attenzione alla stagionalità e alla scelta delle materie prime, reperite quasi
esclusivamente tra le aziende agricole e gli allevamenti locali, sono le note che ricorrono nelle 4 proposte annuali. Le tecniche di cottura e le preparazioni dello chef Riccardo Bassetti, maturate alla corte dei più grandi maestri nazionali e internazionali della cucina, sono gli accenti che contraddistinguono ogni ricetta. Sono tre le combinazioni possibili da scegliere alla carta: 3, 5 o 7 portate, con prezzi a partire da 64 euro. Ogni percorso è scandito dagli abbinamenti di Elisabetta Ballerini che, oltre al ruolo di sommelier, ricopre il ruolo anche più importante di mamma di Riccardo e moglie di Giovanni. Come si diceva all’inizio, una vera storia di famiglia. Il tocco di Elisabetta, oltre che nella scelta dei vini che compongono una cantina di oltre 600 etichette, è ben percepibile anche nel resto della struttura, dove sono collocati oggetti di design, opere d’arte e collezio-
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ni d’autore, selezionati per impreziosire tutti gli ambienti. Con la bella stagione poi, viene aperta la terrazza esterna che si protrae a sbalzo sulle acque del lago, il vero fiore all’occhiello della struttura. Qui d’estate e in primavera ci si può rilassare godendosi un’esperienza gastronomica cullati dal suono delle onde. Importanti novità poi sono all’orizzonte. In fase di costruzione ci sono infatti la nuova piscina posizionata sul tetto dell’hotel, la sauna, la palestra e restyling di tutte le camere. •
Alberghi / Aperture
NovitĂ a Lisbona, Anunciada di lusso
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di Gualtiero Spotti
Sempre in crescita le aperture alberghiere nella capitale portoghese, come la recente inaugurazione di questo albergo di fascia alta La crescita di Lisbona come città turistica, avvenuta negli ultimi anni, ha in qualche modo cambiato la geografia della capitale lusitana. In poche stagioni si sono moltiplicati i ristoranti di pregio, ma soprattutto è cresciuto esponenzialmente il numero degli alberghi, in una corsa compulsiva all’ospitalità che ha portato nuovi indirizzi, in particolar modo nell’ambito dell’hotellerie di alto profilo. Al punto che è davvero difficile oggi, tra ristrutturazioni e nuove aperture, restare al passo con le novità che si susseguono a scadenza quasi mensile. Solo poco più di un decennio fa i nomi cui affidarsi tra gli alberghi cinque stelle si contavano forse sulle dita di due mani e, in alcuni casi, le strutture mancavano del necessario appeal per restare al passo con le esigente del viaggiatore moderno. Oggi tutto è cambiato e sia le grandi compagnie di hotel, ovvero i brand internazionali, che le strutture a conduzione familiare, si sono velocemente adattate alla nouvelle vague portoghese con la rinascita di una città che è percepita come una delle più importanti destinazioni turistiche internazionali. Uno tra i nuovi alberghi apparsi a caratterizzare il centro cittadino è il Palacio Da Anunciada, facente parte del brand The One che vanta un hotel anche in Spagna, a Barcellona. Discretamente nascosto in una via che collega agilmente il vivace quartiere di Rossio con la più celebrata via dello shopping di qualità, Avenida da Liberdade, il Palacio Da Anunciada è stato inaugurato nel febbraio dello scorso anno e sin dai primi giorni ha fatto parlare di
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sé per la bellezza della struttura. Ospitato all’interno di un edificio risalente al Sedicesimo Secolo, il palazzo unisce in un sol colpo, nelle sue 83 camere e negli spazi comuni, il piacere di una sosta in stile old fashion, unita a convincenti sprazzi di minimalismo contemporaneo. Che si avvertono nella cura dei dettagli, nella ricerca del bello non ostentato ma naturale, come se si dovesse tornare ai tempi in cui l’edificio era residenza privata. In più c’è il valore non indifferente della discrezione e della tranquillità vissuta a due passi dalla rutilante area dei teatri e del passeggio urbano. All’interno il mondo dell’hotel è invece ovattato e rilassante, con la piacevole sala da lettura che ospita un’ampia scelta di volumi da consultare, con l’esposizione di quadri e sculture (in vendita) a caratterizzare la sala relax al pianterreno, con l’area benessere Despacio, perfetta e contenuta per chi vuole concedersi una sauna finlandese, una doccia sensoriale o, semplicemente, un tuffo in piscina. Oppure il Boemio cocktail lounge, situato nell’ampia hall che una volta, tornando indietro nei secoli, ospitava botteghe, negozi e scuderie, mentre oggi raccoglie l’atten-
Alberghi / Aperture po nascosta per il mondo delle verdure e della materia prima che arriva dalla terra, come evidenzia bene una sezione del menu dedicata a piatti vegetariani. Meno entusiasmante, forse, la carta dedicata ai dolci, ma si può puntare l’attenzione sui piatti di formaggi visto la qualità, tra gli altri, di due cavalli di battaglia della produzione casearia locale come il Serra da Estrela o l’Azeitão. Infine, in un hotel di grande fascino e gusto come il Palacio Da Anunciada, non si può trascurare il piacere intimo di concedersi una sosta
zione di chi vuole togliersi uno sfizio gastronomico a base di tapas, oppure concedersi una full immersion tra etichette di vino portoghese e qualche cocktail. Ma se si parla di ristorazione, il punto di forza del Palacio da Anunciada rimane il ristorante principale Condes de Ericeira. Qui, in una piccola sala con meno di venti coperti, si incontra la cucina del giovane cuoco (appena trentenne), Bruno Fradeira. Un nome ben noto per chi frequenta la ristorazione d’albergo lusitana e in particolare quella di Lisbona, visto che Fradeira, formatosi alla scuola professionale di Chaves, è transitato prima al Caldas da Rainha di Obidos per
poi passare al Vidago Palace e, quattro anni fa, allo Skyna hotel di Lisbona. Ma anche all’Azul e Branco, il ristorante dell’Hotel H10. Nella sua più recente avventura prima di occuparsi del Condes de Ericeira, dove è giunto con l’ambizione di combinare due mondi diversi, quello della cucina dal respiro internazionale e quella portoghese più classica. Così nel menù, dalle porzioni generose, la Terrina di foie gras incontra il Porto di Quinta do Noval, i fichi e il crumble di pistacchio, e il Risotto ai funghi di stagione, con croccante di Parmigiano Reggiano, si spinge fino in Asia inserendo i funghi shimeji, preparati sautèe, mentre l’immancabile baccalà (e il suo lombo) vengono presentati in versione molto vegetale, con rosmarino, un purè di ceci, lo scalogno caramellato e i broccoli. Ma in questo caso non c’è da stupirsi visto che la mano del cuoco rivela una passione neanche trop-
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nel patio interno, caratterizzato da una grande fontana. È la corte sulla quale si affacciano le stanze dell’albergo e il ristorante, e dove è possibile anche osservare il magnifico albero del drago (Dragon Tree) che ha più di 100 anni di vita ed è stato gelosamente custodito nel corso dell’imponente ristrutturazione che ha portato l’edificio a diventare uno degli alberghi di maggior prestigio in città. •
Serata benefica in occasione dei 180 anni della Fondazione Istituto dei Ciechi e dei 100 anni dell’Unione Italiana dei Ciechi e degli ipovedenti, a sostegno del Centro Diurno per ragazzi non vedenti con disabilità complesse.
©Daniele Aloisi
lunedì 23 marzo 2020 - ore 20
Budapest Festival Orchestra Iván Fischer direttore Patricia Kopatchinskaja violino Prevendita telefonica 02 465 467 467 (lunedì - venerdì 10/13 e 14/17) Costo dei biglietti da 15 a 170 Euro (esclusa prevendita)
Richard Strauss Der Rosenkavalier - Walzerfolge n. 1 Jean Sibelius Concerto in re min. op. 47 per violino e orchestra Gustav Mahler Adagio della Sinfonia n. 10 Richard Strauss Till Eulenspiegels lustige Streiche op. 28
Coordinamento generale
Con la collaborazione
La ricetta di BARtù
L’equilibrio del Gambero
Procedimento
di Giorgio Ascorti
La famiglia Gavazzi, a Calvisano, reinterpreta la tradizione con estro e passione Gino Gavazzi con la moglie e la mamma
Riso riscaldato Ingredienti per quattro persone PER IL RISOTTO: 200 gr di riso arborio Vino bianco q.b Olio extravergine d’oliva Cipolla tritata Brodo di verdure Sale q.b.
La Rossa Michelin ne parla così: “Nel centro di Calvisano, dietro all’apparente semplicità dei piatti ci sono grande cura e l’equilibrio tra tradizione e modernità affinato in oltre un secolo e mezzo di storia familiare: una cucina solida, di gusto e sostanza”. Non sempre, la guida gastronomica per eccellenza riesce a cogliere nel segno, ma nel caso del Gambero la definizione è precisa. Già, la Michelin: il bel locale della famiglia Gavazzi nella centralissima via Roma vanta un piccolo record. Nel 1989 conquistava la Stella, 30 anni dopo non l’ha mai persa ed è diventato uno dei vanti della cittadina, insieme al rugby e all’Agroittica Lombarda, quella del Calvisius. E una storia ancora
PER LA BISQUE DI CROSTACEI: Testa e carapace dei crostacei Olio e.v.o Cipolla tritata Sedano Carote Passata di pomodoro 50 gr di burro e 50 gr di farina ogni litro di bisque PER LA FINITURA: Polpa affettata di 4 capesante 4 scampi sgusciati 8 gamberi rossi sgusciati 8 mazzancolle sgusciate Emulsione al basilico
più lunga è quella del locale: c’era già nel 1880, come stazione di posta nella Bassa, tra Brescia e Mantova, poi diventata locanda con stallaggio e a partire dagli
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Si inizia preparando la bisque legata di crostacei: soffriggere in un tegame la cipolla tritata, aggiungere le teste ed i carapaci dei crostacei, far rosolare il tutto e successivamente unire abbondante acqua fredda. Dopo aver aggiunto sedano e carote a pezzi, portare a bollore e mettere la passata di pomodoro. Ultimata la cottura di un’ora, aggiustare di sale e filtrare il tutto con un colino. In un’altra pentola preparare un roux con 50 gr di burro e 50 gr di farina ogni litro di bisque . Aggiungere il brodo al roux e cuocere per altri 10 minuti affinché ne esca una crema vellutata. Nell’attesa della cottura del risotto mantenere la bisque legata in un recipiente a bagnomaria. Per la preparazione dell’emulsione al basilico, frullare del basilico fresco con olio extravergine di oliva. Condire i crostacei e le fette di capesante con sale, pepe ed olio. Preparare il risotto alla parmigiana, mantecandolo a fine cottura con olio extravergine d’oliva. Impiattare il risotto in un piatto piano, salsarlo con la bisque legata, posizionarvi al di sopra le capesante ed i crostacei ed infine condire con un filo di emulsione al basilico
anni ’60 solo ristorante. E che ristorante. Sempre con Gino Gavazzi, il grande patron che insieme a mamma Edvige — la protagonista dei primi successi — e alla moglie Maria Paola (oggi in cucina) a tenere altissimo il blasone. “Siamo fieri di rappresentare la tradizione, il nostro amato territorio e su questo non si discute – spiega - ma oggi è giusto rivedere le ricette, alleggerirle un po’, dare quel tocco di classe che sino a qualche anno fa non era richiesto e naturalmente bisogna introdurre nuovi piatti, mai troppo d’avanguardia o complicati, ma contemporanei e sempre golosi”. E uno di questi è il Risotto d’Amare, di cui il Gambero regala la ricetta ai lettori di Artù. •
Patischie
La foto di BARtù
FABRIZIO BORRACCINO, UN ANNO AL FOUR SEASONS Già stellato al Poggio Rosso di Borgo San Felice (Si), lo chef Fabrizio Borraccino compie un anno di attività come executive al Four Seasons di Milano. Una presenza prestigiosa e autorevole, che raccoglie l’eredità di un grande come Sergio Mei, oltre che del talentuoso Vito Mollica, executive al Four Seasons di Firenze, dove è anche food and beverage manager. Nella foto, Borraccino durante una serata sui tartufi di Savini, abbinata ai grandi vini di Montevertine.
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Pillole Veuve Clicquot Rosé per assemblaggio
MyBioma®: cornetto del benessere Nasce MyBioma®, il primo cornetto che all’apporto di fibra alimentare proveniente da dieci fonti differenti, favorisce la diversità del microbioma intestinale, elemento chiave per il benessere, firmata Cupiello. Quanto è importante prendersi cura di sé, senza rinunciare al gusto e anche facendo la colazione al bar? Ecco la risposta. Ricco di patate, piselli, agrumi, bambù e semi di lino, un classico cornetto vuoto ai cereali reso estremamente digeribile perché ricco in lievito madre fresco, una lievitazione di 36 ore e un impasto privo di latte e uova, ideale anche per chi segue una dieta vegana.
Julius Meinl e l’arabica whisky Una nuova miscela poetica firmata da Julius Meinl: dalla produzione atigianale e sostenibile The Originals è stata presentata a Sigep la nuova mono-origine Vietnam Whisky Barrel Aged Arabica. Una 100% arabica proveniente dal Vietnam, invecchiata in barili di quercia utilizzati per Scotch Whisky Single Malt.
Le novità Collesi per Beer Attraction
Nel 1818 Madame Clicquot, con la sua audacia e intraprendenza, creò il primo Champagne Rosé per assemblaggio della storia. Veuve Clicquot Rosé è stato il primo a colorarsi di rosa grazie all’intuizione di assemblare il vino rosso ottenuto dalle uve Pinot Noir, con il suo Champagne classico. Veuve Clicquot Rosé è savoir-faire innato: la Cuvée nasce dall’assemblaggio del tradizionale Yellow Label con un 12% di vini rossi provenienti da uve nere selezionate, arricchito da attraenti bagliori rosati.
Match Point (in fusto) e Touch Down (in bottiglia long neck da 33 cl) sono le novità firmate Collesi che sono state presentate a Beer Attraction, dal 15 al 18 febbraio a Rimini. Due declinazioni, in fusto e in bottiglia, di una bionda 5% vol non pastorizzata, ad alta fermentazione e rifermentazione naturale in bottiglia o fusto. Le due nuove proposte alla spina sono dedicate all’universo IPA: una classica IPA8,5 vol e una American IPA6,5% vol: leggere, spigliate, e pensate -anche nell’etichetta-per un pubblico giovane, dal pomeriggio in spiaggia ai locali per le serate più spensierate.
Il Canto del Lago di Garda Una donna che stava per annegare nelle acque del Lago di Garda, divenuta musa ispiratrice della linea Liquori delle Sirene, grazie al suo “canto amaro” ha attirato l’attenzione di un fauno lacustre che l’ha trasformata in sirena per salvarle la vita e renderla sua sposa, proprio nella Baia delle Sirene, a Punta San Vigilio, in quello specchio di acqua tra Garda e Torri del Benaco. Quarta generazione di raccoglitrici, Elisa Carta seleziona diverse botaniche del Lago di Garda come radici, frutta e fiori per realizzare un blend finale con botanicals hanno tempi di macerazioni e gradazioni idroalcoliche diverse. Nasce così Canto Amaro.
Nes per San Valentino L’oro di Pellegrino Dai terreni vulcanici di Pantelleria, Nes è frutto di una selezione di uve provenienti da zone costiere esposte a sud: Martingana, Scauri e Rekhale, essiccate al caldo in estate su graticci di canne. Un vino da meditazione, e da baci, dalle intense note di frutta candita, agrumi, eucalipto, salvia e albicocca.
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La birra tatuata 8.6 limited edition Due lattine che portano la firma dei famosi tatuatori internazionali Dimonia Tattoo e Maud Dardeau: un successo che 8.6 ripercorre con una nuova limited edition che lancerà in occasione dei Mondial du Tatouage di Parigi. La n°15 rappresenta un’iguana che si avvolge intorno alla lattina, mentre sulla n°16 si trova un intreccio tra un cuore, un serpente e una rosa.
Nasce Mine Wine 11 territori in uno Una donna coraggiosa che ha voluto creare un vino unico nel suo genere: Giusi Scaccuto Cabella ha sognato di prendere l’anima vinicola di 11 territori della denominazio-ne per farne un’unica etichetta. “Volevo rappresentare il Gavi in tutta la sua forza. La scelta delle percentuali di ciascuna terra tiene conto dell’andamento dell’annata e di come si sono espresse le zone nel corso della stagione. Di fatto, credo di aver realizzato un Gavi, che rappresenti la mia personalità, tanto complessa quanto sfaccettata”ci racconta.
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Mai più senza MyCIA
Quando il clima è di prima classe
Sono cinque milioni gli italiani che ogni giorno mangiano fuori casa (pari al 10,8% secondo gli ultimi dati Fipe – Federazione dei pubblici esercizi – appena diffusi) e 10 milioni (18,5%) i connazionali che cenano al ristorante almeno due volte a settimana. E’ nata MyCIA, l’app che mette in contatto chi mangia fuori casa con i ristoranti, mostrano menù e ingredienti: si compila la propria Carta di Identità Alimentare, che valuta il proprio stile alimentare, e il gioco è fatto. Di fatto è il primo Personal Food Advisor, un progetto tutto italiano ideato dall’imprenditore Pietro Ruffoni, CEO HealthyFood, per il nuovo marketplace food-tech. Sull’App già presenti centinaia di ristoranti di quelle che vengono considerate le Top Destination del settore come Milano, Venezia, Firenze, Roma, Napoli e Torino. Un buona opportunità anche per i ristoranti: registrare i menù e acquisire visibilità non costa nulla.
Il relais Casina Ricchi di Cavriana, letteralmente immerso nel verde delle colline moreniche mantovane, è un eccellente luogo in grado di offrire ospitalità a diretto contatto con la natura e con i suoi ritmi. All'interno della struttura è presente un centro benessere diviso in zona piscina e zona relax. Entrambe le aree sono opportunamente climatizzate al fine di mantenere al loro interno condizioni termo-igrometriche favorevoli alla permanenza in ogni momento della giornata. L’unità autonoma di deumidificazione DTP, realizzata da E.T. marchio esclusivo di gruppo ATR Castelfranco Veneto (Tv), dedicata all'area piscina, consente di mantenere rigorosamente la temperatura ambiente a 30 °C con l’umidità mai superiore al 65% durante tutto l’anno. Essa è equipaggiata con ventilatori di mandata e di ripresa dell’aria molto silenziosi e in grado di regolarne i flussi in rapporto alle frequenti variabili esigenze ambientali, così da ridurre i consumi elettrici annuali.
Nanban, il nuovo e-commerce per il design Una nuova piattaforma e-commerce per oggetti di design per la cucina e la tavola direttamente dal Giappone: è il progetto Nanban che seleziona il meglio della produzione giapponese, presenta una collezione di strumenti per la cucina e per la tavola, frutto dell'incessante ricerca di uno dei più amati designer giapponesi, Sōri Yanagi. Dalle sapienti maestranze di Niigata e Morioka, rispettivamente culle giapponesi delle lavorazioni dell'acciaio e della ghisa, per la prima volta in Italia si potranno trovare oggetti unici che coniugano il sapere orientale con le nuove tecniche del design industriale di matrice occidentale. Contaminazioni ormai diventate di tendenza. Il progetto nasce dall’incontro e dall’idea di tre soci – Francesca Pellicciari, Giacomo Donati, Ayaki Itoh (cui si è poi aggiunto il fotografo Giulio Boem) – determinati a proporre un punto di vista nuovo su quanto prodotto in Giappone sia in termini di design contemporaneo sia di artigianato, con uno sguardo sul mondo della cucina. “La passione per la bellezza e per il cibo sono due aspetti molto forti che ci uniscono al Giappone. Restando nell'ambito di ciò di cui si occupa Nanban, c'è un'immensa tradizione di artigianalità, cura per il dettaglio, amore per le cose fatte non soltanto per assolvere a una funzione, ma anche per il puro piacere degli occhi. Insomma, una grande attenzione all'estetica, colta anche nella sua transitorietà, che si riflette poi in una miriade di ambiti, dal cibo, al design, al modo in cui si affronta più in generale l'esistenza” racconta Francesca Pellicciari.
Food Ensemble Il concerto che puoi mangiare La fusion si trova anche tra l’arte della cucina e la musica elettronica, suoni profumi e sapori si intrecciano a creare un’atmosfera unica. Come avviene? I rumori della cucina vengono campionati e si trasformano in musica, gli ingredienti si compongono e diventano assaggi per gli spettatori, che vengono coinvolti in un’esperienza multisensoriale. Ingredienti genuini, piatti curiosi, spezie rubate in tanti viaggi, odori, melodie, colori e sperimentazione: questi gli ingredienti che compongono la performance. Una degustazione quattro portate e un concerto di quattro composizioni. Ogni brano è composto partendo dai suoni e dai rumori prodotti dalla realizzazione dei piatti che accompagna, campionati dal vivo. Piatti che vengono realizzati davanti agli occhi dello spettatore proprio come in uno show cooking. Lo scorso anno esce l’album Spaghetti Symphony (distribuito in vinile e su piattaforma digitale Spotify), realizzato insieme allo chef stellato Davide Oldani. Il tour della “band” registra il tutto esaurito in ogni tappa. Sul palco trovate Francesco Sarcone, in arte Sarc:o, sound designer; Andrea Reverberi, lo chef, amante della fusion di sapori ed esperienze e Marco Chiussi, sous chef e sommelier.
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Alberto’s choice
Japonito, cucina fusion senza estremismi LEGENDA
ALL’ISOLA, UNO SPAZIO DI FOOD MULTIETNICO Japonito Piazzale Segrino 1, 20159 Milano 02 6688560 www.japonito.com
Cervello incoronato = Memorabile, coerente, ineccepibile per qualità delle materie prime e stile dell’offerta
Tre corone = Ottima cucina, perfetta esposizione delle voci in menù, ambiente e servizio all’altezza
Japonito è un nuovo ristorante che ama essere definito fusion e che, come si legge nel sito, “nasce dall’incontro fra due terre molto lontane fra loro, Messico e Giappone”. Non sappiamo se la definizione “fusion”, già spesso abusata dai media e utilizzata a sproposito per definire formule di ristorazione confuse, per non dire altro, possa avere senso in questo caso. Ci pare comunque un’idea più che ragguardevole e, soprattutto, diversa dalle solite: un’idea partita (e realizzata concretamente) dalle aspirazioni imprenditoriali di Francesco Ferini, commercialista milanese (“uno fuori dal settore”, come si definisce) che, in seguito ad esperienze (da cliente) presso format “Tex-Mex-Nippo” negli Stati Uniti, a Los Angeles in particolare, ha pensato di esportare questo concept, seppure reinterpretandolo, anche in Italia. L’idea, sua e della moglie Anna, a pochi mesi dall’apertura, si sta già rivelando un successo, visto che la formula piace, anche se la clientela, soprattutto giovane, che frequenta il locale, è attratta, credo, dalla vantaggiosità dell’offerta,
da un eccellente price for value, e dalla abbondanza delle porzioni. Ma anche dalla proposta di eccellenti cocktail e di bere miscelato, con annessi stuzzichini molto invoglianti. Già questa è una bella rivoluzione, se guardiamo a quanti locali “pretenziosi” aprono a Milano con l’unico obiettivo di posizionarsi su fasce di prezzo elevate e a target di clientela conseguenti. Il caso del Japonito è diverso, e l’obiettivo, come sottolinea Ferini, è di raggiungere una fascia di pubblico non necessariamente elitaria (nel senso sociologico del termine) ma che ricerca conivialità, atmosfera, qualità, prezzo e stile complessivo dell’offerta. La location, in Piazzale Segrino, fra la fermata Zara della MM linea 3 e l’Isola (Linea 5) , è di sicuro appeal. In carta ci sono tapas, tacos, fajitas e piatti dai sapori e dai profumi totalmente originali, frutto di intelligente contaminazione fra le due culture culinarie, la messicana e la giapponese. Il menu, realizzato dagli executive chef David Blanco e Nobuya Niimori, spazia dalle Fajitas (“da capottarsi”, si legge su Tripadvisor) agli Uramaki e alle Tortillas,
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Due corone = Linea di cucina corretta
Una corona = Dignitoso e affidabile
Corona nera = C’è ancora molto da fare
Tre cervelli = Un vertice nel servizio di sala
Due cervelli = Qualità e attenzione al cliente
Un cervello = Bravi, ma non basta
Cervello nero = Scarsamente ragionevole
Colophon
Alberto’s choice
BARtù N° 105 gennaio - febbraio 2020 Direttore editoriale Alberto P. Schieppati Direttore responsabile Andrea Aiello Redazione Camilla Rocca Collaboratori Nadia Afragola, Giorgio Ascorti, Arianna Augustoni, Fiorenza Auriemma, Guido Bernardi, Maurizio Bertera, Stefano Bonini, Oscar Cavallera, Alberto Del Giudice, Angelo Gaja, Rocco Lettieri, Aldo Nenzi, Giovanna Moldenhauer, Sonia Ricci, Vincenzo Russo, Theo Smith, Gualtiero Spotti, Elisa Tricarico, Claudio Zeni Grafica e impaginazione Daniele Scozzari Contatti bartu@edifis.it - www.bartumagazine.it Pubblicità dircom@edifis.it Traffico pubblicitario Roberta Motta - roberta.motta@edifis.it Amministrazione amministrazione@edifis.it Foto Archivio BARtù, Alvise Barsanti, Benedetta Bassanelli, Marcello Bocchieri, Stefano Borghesi, Nicolò Brunelli, Claudia Calegari, Ferdinando Cioffi, Gaetano Del Mauro, Armin Huber, Pieter D’Hoop, Davide Dutto, Giovanni Latorella, Matteo Mancini, Mauro Montana, Patischie, Barbara Santoro, Roberto Savio, Raimondo Santucci, Brambilla Serrani, Tiberio Sorvillo, Lido Vannucchi, Renato Vettorato Stampa Aziende Grafiche Printing S.r.l. - Peschiera Borromeo (Mi) Prezzo per una copia E 5,00 - Arretrati E 10,00
davvero eccellenti, proposti anche con il pesce, fino agli Uramaki rivisitati in chiave messicana, e ai Tazon, piatti unici a base di riso, verdure, carne o pesce. In carta non mancano Tartare e Chevice di pesce crudo. La linea di cucina di Japonito è caratterizzata da un’attenzione estrema alle materie prime (e pure non siamo in un ristorante stellato dalle grandi pretese) sia esotiche che mediterranee, selezionate e lavorate con rispetto e stile, per offrire alla clientela sapori inattesi e gustosi, pur nella leggerezza e nel contenimento calorico di ogni porzione. Il locale rispecchia l’anima dei piatti, fusione perfetta fra essenzialità nipponica e colore messicano. Una tela bianca e luminosa sulla quale emergono elementi tipici della cultura messicana, incorniciata dal verde brillante delle grandi piante esotiche. L’essenzialità del Japonito si rivela anche nei prezzi, decisamente “umani”, che evidenziano la scelta di non insistere sui margini di profitto ma di essere inclusivi verso un grande pubblico giovanile. Mediamente, senza esagerare con le comande, non si raggiungono i 20-25 € per uno scontrino. Non ci sembra male, soprattutto considerando che tale pricing è reso possibile da un Food Cost esasperatamente attento. Un tocco street è dato dal grande murales icona realizzato da Neve, artista di strada iperrealista. Raffigura il volto di una bellissima geisha con il capo adorno di rose purpuree. Una nuova Frida Kalo dallo sguardo assorto e misterioso.
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