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ANNO 7 - NR. 3 - aprile 2021
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Punto & a capo di Waimer Perinelli
Ma mi faccia il... VACCINO!
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a ricordate lo scanzonato motivetto romanesco di Alberto Sordi “Te c’hanno mai mannato a quel paese” ? A forza di spinte ci siamo arrivati e il vaccino la fa da padrone. Ecco, proprio il vaccino, il più grande affare del 2021 l’anno in cui se ne venderanno dieci miliardi di dosi con un ricavo previsto in 120-150 miliardi di dollari. Attorno e dentro questa enorme torta si sono scatenate polemiche ed appetiti. L’America di Donald Trump ha finanziato la produzione britannica di AstraZeneca con un miliardo e duecento milioni di dollari, la Gran Bretagna ne ha investiti 200 milioni e grazie alla disinvolta e pragmatica politica di Boris Johnson oltre la metà dei cittadini, premier compreso, sono vaccinati, almeno con la prima dose. E l’Europa? il vecchio Continente non sta a guardare. Il Presidente francese Macron a metà marzo ha avanzato perplessità sul vaccino perché, ha affermato, ci sono poche informazioni e ha aggiunto, salvo smentirsi poco dopo, pare non faccia bene a chi ha più di 65 anni. Anzi c’è stato chi ha avanzato l’ipotesi che facesse addirittura male e che una ventina di morti sui venti milioni di vaccinati, fossero imputabile ad AstraZeneca, ma questo non è stato dimostrato, anzi è stata affermata la mancanza di correlazione fra vaccinazione e morte. Tuttavia la polemica è continuata arrivando fino all’assurdo titolo di un giornale: Un uomo di 82 anni
travolto ed ucciso da un autobus, era appena uscito da un centro vaccinale. Involontario, tragico collegamento, innestato in una polemica apparsa strumentale. L’immunologo Francesco Le Foche ha dichiarato che:” Se le vaccinazioni vengono associate ad un problema casuale, ma la popolazione lo associa ad un problema causale, si crea solo un effetto domino di sfiducia. E così è stato. Nel frattempo si sono inseriti nel mercato europeo altri vaccini, ognuno con le proprie potenzialità. Il vaccino AstraZeneca, farmaco anglo svedese, è stato sviluppato all’università di Oxford e ad Irbm, società italiana fondata nel 2009 a Pomezia in provincia di Roma, che opera nel campo della bio tecnologia molecolare. L’azienda produttrice si è impegnata a consegnare quest’anno tre miliardi di dosi a costo di 2,8 euro l’una. Piero Di Lorenzo presidente di Irbm chiarisce che “l’azienda sta facendo uno sforzo sovrumano senza guadagnare un centesimo”. Il concorrente più temibile, dotato del favore della Germania, è lo Pfizer BioN Tech di cui la presidente della Commissione europea Ursula Von der Leyen ha annunciato la distribuzione di dieci milioni di dosi nel secondo trimestre dell’anno. Lo Pfizer è americano e sviluppato con la tedesca BioNTech con una tecnologia avanzata e costa 16 euro a dose. L’azienda si è impegnata a consegnare quest’anno 1,2 miliardi di dosi e consentirebbe
alla francese Sanopi di produrre 100 milioni di dosi. L’Italia sta cercando di ottenere la licenza per produrre il vaccino presso un’azienda di Frosinone. La Germania intanto innesta una quinta marcia e pare intenzionata a sviluppare un’industria locale per la produzione del vaccino Jhonson & Jhonson aggirando il divieto di esportazione USA. Questi due vaccini hanno un costo superiore di almeno una decina di euro rispetto all’Astra Zeneca e quanto ad efficacia non sarebbero inferiori. Le statistiche dicono Pfizer efficacia testata 95% e somministrato in due dosi; Moderna efficacia 95% con due dosi; Jhonson & Jhonson efficacia fino 86 % con la somministrazione di una sola dose. Intanto si affaccia sull’Europa lo Sputnik russo subito fermato da Thierry Breton commissario europeo per il mercato interno, secondo cui l’Europa non ne avrà bisogno. In tutto questo marasma l’Italia fa ancora una volta la parte del vaso di coccio ma è in buona compagnia in una Europa che avanza compatta in diverse direzioni. Insomma dai e dai a quel paese ci stiamo arrivando e il nostro di Paese non dovrebbe trovarsi male perché gli stati sovrani assomigliano sempre più alle regioni normali e province autonome. Ma noi che manchiamo di vaccini ma non di spirito, parafrasando il grande Totò , possiamo ancora dire: “ Ma mi faccia il.... Vaccino”.
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SOMMARIO ANNO 7 - APRILE 2021 DIRETTORE RESPONSABILE Armando Munaò - 333 28 15 103 direttore@valsugananews.com VICEDIRETTORE Chiara Paoli - Elisa Corni COORDINAMENTO EDITORIALE Enrico Coser COLLABORATORI Waimer Perinelli - Erica Zanghellini - Katia Cont Alessandro Caldera - Massimo Dalledonne Francesca Gottardi - Maurizio Cristini Laura Mansini - Alice Rovati Giorgio Turrini - Laura Fratini - Patrizia Rapposelli Zeno Perinelli - Adelina Valcanover - Veronica Gianello Nicola Maschio - Giampaolo Rizzonelli - Mario Pacher CONSULENZA MEDICO - SCIENTIFICA Dott. Francesco D'Onghia - Dott. Alfonso Piazza Dott. Giovanni D'Onghia - Dott. Marco Rigo EDITORE - GRAFICA - STAMPA Grafiche Futura srl Via della Cooperazione, 33 - Mattarello (TN)
PER LA TUA PUBBLICITÀ cell. 333 28 15 103 direttore@valsugananews.com info@valsugananews.com Registrazione del Tribunale di Trento: nr. 4 del 16/04/2015 - Tiratura n° 7.000 copie Distribuzione: tutti i Comuni della Alta e Bassa Valsugana, Tesino, Pinetano e Vigolana compresi COPYRIGHT - Tutti i diritti di stampa riservati Tutti i testi, articoli, interviste, fotografie, disegni e pubblicità, pubblicati nella pagine di VALSUGANA NEWS e sugli Speciali di VALSUGANA NEWS sono coperti da copyright GRAFICHE FUTURA srl e quindi, senza l’autorizzazione scritta del Direttore, del Direttore Responsabile o dell’Editore è vietata la riproduzione o la pubblicazione, sia parziale che totale, su qualsiasi supporto o forma. Gli inserzionisti che volessero usufruire delle loro inserzioni, per altri giornali o altre pubblicazioni, possono farlo richiedendo l’autorizzazione scritta all’Editore, Direttore Responsabile o Direttore. Quanto sopra specificato non riguarda gli inserzionisti che, utilizzando propri studi o agenzie grafiche, hanno prodotto in proprio e quindi fatta pervenire, a GRAFICHE FUTURA srl, le loro pubblicità, le loro immagini, i loro testi o articoli. Per quanto sopra GRAFICHE FUTURA srl, si riserva il diritto di adire le vie legali per tutelare, nelle opportune sedi, i propri interessi e la propria immagine.
Punto & a capo: ma mi faccia il…vaccino Sommario Cara Europa, ma non avevi altro cui pensare? Una nuova declinazione del territorio Alti e bassi della politica Mondo anziani in cronaca: RSA e Covid Il giorno del ricordo: siamo tutti profughi Musica e razzismo: dal classico al metallaro La ferrovia della Valsugana Umberto Osti, il primo macchinista La poesia e la canzone Il lampionaio Lamon e Sovramonte Umana-Mente , primavera rossa Il Trentino in controluce Sebesta e Kessler:nascita di un museo USA, gli Oscar 2021 Laura Pausini e la nomination Il personaggio: Cristiana Biondi Il calcio in controluce: Giovanni Trapattoni I biotopi della Valsugana Storie di casa nostra Il mistero dei laghi scomparsi Storie di casa nostra: il mulino Agostini Le streghe in Trentino Storie italiane: 75 anni di Vespa Personaggi dei nostri tempi Storie di casa nostra: il cria-ore Gates e Jobs: due colossi a confronto La giornata mondiale della terra Il romanzo "Neroinchiostro" La responsabilità penale degli enti e delle società La chiesa di San Biagio a Levico Terme Storie di casa nostra: la pizzeria con il menù sulle pareti Medicina & Salute: la perfezione esiste Benessere & Salure: le lenti a contatto morbide Sant’Orsola: il mirtillo residuo zero Pergine: CRAV, pianificazione finanziaria Girovagando: il Tibet, fascino e spiritualità Civezzano: il Saba delle streghe Meteorologia oggi:il pulviscolo del Sahara Altroconsumo risponde: attenti alle truffe
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Storie di casa nostra La ferrovia della Valsugana Pagina 21
Sebesta e Kessler Nascita di un museo Pagina 34
Il personaggio Cristiana Biondi Pagina 38
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Fatti e Misfatti di Armando Munao’
Cara Europa, ma non hai altro cui pensare? S
inceramente pensavo che in questo particolare e grave momento, legato al Covid, l’Europa con tutti i suoi burocrati avesse cose ben più importanti cui pensare. Mi ero illuso che avendo affrontato la pandemia con concreta e documentata superficialità, vedi la non bella figura collezionata sul tema dei vaccini, ( i contratti sottoscritti con i colossi farmaceutici e l’incertezza sull’efficacia dei farmaci ne sono una palese documentazione) i parlamentari europei si sarebbero impegnati, e al massimo, per mettere la tradizionale “pezza” e ovviare a questa situazione che si è dimostrata fallimentare agli occhi dei cittadini di tutti gli Stati. E invece? Invece la “nostra” Europa si è data da fare su un tema, eviden-
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temente prioritario e di impellente attuazione: l’adozione di un nuovo vocabolario e un nuovo linguaggio che, a mio modesto avviso, lascia sgomenti e non tanto per i contenuti, che con buona lungimiranza potrebbero essere anche compresi e forse condivisi, quanto per l’urgenza voluta. I parlamentari europei, non contenti di aver perso, anni fa, tempo prezioso per stabilire – udite udite - le dimensioni dei piselli, la grandezza delle vongole, la curvatura delle banane e dei cetrioli e la possibilità di fare il formaggio senza latte, (per fortuna molte di questa assurde regole sono state cancellate), questa volta si sono veramente superati, specialmente in un momento di così grave crisi sanitaria ed economica. Sì, si sono impegnati al massimo,
magari fino anche a perdere il sonno, per inventarsi e quindi stabilire l’adozione di un nuovo linguaggio, definito sensibile, e che, secondo loro, dovrà essere “più rispettoso e inclusivo” possibile e che, soprattutto, non sia discriminatorio nei confronti dei generi. Nello specifico il tema sul tavolo delle discussioni è stato quello della “Uguaglianza e diversità”. Un tema di prioritaria importanza, tant’è che la Direzione generale per il personale, senza perdere ulteriore tempo, ha redatto un glossario da usare in tutte le comunicazioni interne ed esterne per appellare ed etichettare correttamente le questioni e i termini riguardanti la disabilità, la razza, l’etnia, le persone LGBTI (lesbiche (L), gay (G) e bisessuali (B), transgender (T) e Intersex (I),
Fatti e Misfatti la religione e tutto ciò che potrebbe fare parte della nostra quotidianità. Da oggi in poi la burocrazia europea, con annessi e connessi, imporrà di usare nuovi e più appropriati termini
per rimanere al passo coi tempi, in nome di quel “politically correct” che, purtroppo e sempre di più, sta condizionando il nostro vivere. Un linguaggio unico da adottare e al quale tutti
Matrimonio gay Diritti dei gay e degli omosessuali Coppia tra due omosessuali Cambio di sesso Sesso biologico (maschio-femmina) Padre e madre Persona sana, normale o normodotata Gay, omosessuali Utero in affitto Adozione gay Uomo di colore Sordo
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dovranno adeguarsi, specialmente i funzionari, assistenti, portaborse, portavoce e politici. Ed ecco, per Vostra opportuna conoscenza, la nuova terminologia”:
Matrimonio equalitario / Uguaglianza matrimoniale Trattamento equo, paritario Relazione tra persone dello stesso sesso Transizione di genere / chirurgia affermativa di genere sesso assegnato alla nascita genitori Persona senza disabilità. persone gay, persone omosessuali, persone lesbiche Maternità surrogata gestazione per altri Adozione successiva persona proveniente da un contesto migratorio Persona con disabilità sensoriale
Ma la fantasia dei nostri “europei” tocca le massime vette quando decidono di sostituire il termine nano con “persona affetta da acondroplasia”. Cara Europa, non avevi altro cui pensare?
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Denise e Cinzia
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A parere mio di Cesare Scotoni
Una NUOVA declinazione
di TERRITORIO
Vi è un concetto abusato che viene invocato ogni qualvolta si vogliano nobilitare le ragioni di una scelta che implichi un contesto sociale di riferimento. Quel maltrattato concetto che è sintetizzato nel vocabolo “Territorialità”. Che non si fonda però su elementi fisici o geografici come il più solido “Territorio”, che è un Ente Oggettivo ed ha sempre un inizio ed una fine e spesso anche dei precisi confini. La Territorialità è definita di volta in volta dagli attributi che si vogliono associare ad uno Spazio Sociale che si vuole porre in relazione con un Territorio.
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l gioco che viene di volta in volta riproposto è dunque quello delle “affinità”. In Trentino per almeno 35 anni di grassa autonomia finanziaria, si è scivolati da un implicito piuttosto banale, riassumibile in una distinzione tra “i nosi da ‘na banda e i altri, che bussa, dall’altra” ad una situazione via via di maggior complessità. Dove i primi sono restati vittima di un’ autoreferenzialità riassumibile nel popolare detto del “chi si loda s’imbroda” sperando in una Continuità che puntava direttamente sulla Clonazione lì dove, per caso, la Cooptazione risultasse insufficiente… Avrei voluto qui sviluppare una Riflessione sul Passato per costruire su quella una visione di Futuro che immaginasse un modo nuovo di essere Territorio, ma oggettivamente
il rischio di perdersi in un’elencazione di quegli errori di cui peraltro han dato già evidenza in passato i troppi esperti del senno di poi, mi suggerisce di limitarmi ad invocare la Capacità d’Immaginare dei tanti che ancora credono in queste Terre di Montagna. Luoghi che son prima un confine tra Cielo e Terra che dei confini tra delle entità geografiche, il cui senso stesso va ripensato di fronte alla grandezza delle sfide che viviamo. La Sfida, innanzitutto culturale, è nel declinare in modo diverso quel Concetto così abusato. Lo scegliere assieme gli Attributi in cui una o più Comunità tra loro in relazione sanno riconoscersi vicendevolmente; quelle Affinità su cui reinventare e riproporre alle ambizioni di ciascun protagonista di quello Spazio la capacità di concepirsi quale soggetto territoriale. Non può essere però un esercizio slegato da ciò che già sostanzia quelle Comunità, salvo rivelarsi poi uno sforzo vano. Un’Amministrazione solida e capillare in attesa dell’evoluzione digitale, un buon welfare che della crisi sarà argine, un’Università che,
uscita dalla fase di crescita infrastrutturale è un asset per la creazione di Classe Dirigente, un’offerta turistica e culturale che ha assunto con le limitazioni dovute al COVID19 maggior consapevolezza del proprio peso, una Cooperazione ancora forte cui le nuove norme per il Credito e l’avvento del Commercio Elettronico han suonato la sveglia, un Sistema di Ricerca e Formazione tra i primi in Italia e che fa della relazione con i Settori Produttivi il proprio carattere distintivo. Un’agricoltura forte che è a difesa dell’Ambiente, poche grandi aziende, molto artigianato in attesa che il riuso del territorio divenga occasione di crescita ed un settore idroelettrico che ambisce ad una finanziarizzazione più moderna per divenire un fattore di Sviluppo. Questo c’è. Insieme a tanto altro, spesso frutto di una narrazione esausta. Da una rilettura delle relazioni tra quei protagonisti si debbono riconoscere Affinità e Differenze per saperle rimettere al Servizio di una Crescita Culturale e Sociale. Ed è un passaggio che richiede una profonda Onestà, non solo intellettuale. O la sfida con la Modernità sarà perduta. E quella sfida investe in primis la Politica che in quei Territori ha le sue radici.
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Fatti di Casa nostra di Joe Beretta
Alti e bassi della politica Giorgio Postal è l’Aquila 2021 di Trento
E’ difficile riassumere in poche righe la vita professionale dell’onorevole Postal che il Comune di Trento ha insignito dell’onorificenza dell’Aquila di San Venceslao. E’ stato parlamentare per sei legislature, tre alla Camera ed altrettante al Senato, è stato anche sottosegretario di Stato ai Beni Culturali nei governi Andreotti (III, IV e V), all’Ambiente nel governo Craxi secondo e in quello di Fanfani VI, e all’Interno nei governi Goria e De Mita. Compirà ottantadue anni ad agosto, e li festeggerà, oltre che da ricco pensionato, gode anche della pensione da dirigente Rai, con l’incarico di Presidente della Fondazione Museo Storico del Trentino, rinnovatagli lo scorso anno. Un uomo impegnato in politica, segretario della democrazia cristiana provinciale negli anni Sessanta, gli stessi del massimo impegno di Flaminio Piccoli, e nella società. E’ anche il più rappresentativo esponente di un Trentino che fu per lungo tempo nella stanza dei bottoni. E ora?
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ra il Trentino è tanto in basso quanto non lo fu mai. Eppure il Trentino è stato un faro nella politica italiana. Una provincia di nemmeno 500 mila abitanti, un terzo del Comune di Milano, ha espresso il primo Presidente del Governo della Repubblica italiana,
Alcide Degasperi
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Alcide Degasperi che è stato anche l’ultimo del Regno. Degasperi, Pieve Tesino 1881, è stato Presidente del Consiglio di otto governi. Il primo nel dicembre 1945 fu anche l’ultimo del Regno d’Italia, si dimise dopo il referendum del 2 giugno 1946 con la vittoria della Repubblica ed Enrico
Flaminio Piccoli (da Il popolo della Democrazia Cristiana)
Giorgio Postal (da l'Adigetto)
De Nicola, Capo provvisorio della Stato, lo incaricò di formare il primo governo repubblicano. Fu presidente di altri sei governi fino all’agosto del 1953. E’ il periodo fondamentale per la ricostruzione del Paese. Con la prudenza e concretezza della gente di montagna DeGasperi guidò
Maurizio Fugatti (Ufficio Stampa della Provincia di Trento)
Fatti di Casa nostra l’Italia verso l’alleanza Atlantica e la Comunità europea. Dopo di lui, ma non in una classifica bensì nella memoria, Flaminio Piccoli il quale fu ministro delle Partecipazioni Statali dal 1970 al 1972 e fece da apripista al torrentello di politici trentini entrati nei governi successivi. Beniamino Andreatta, economista, nato a Trento nel 1928; Giorgio Postal, Trento 1939,sei legislature e sottosegretario; Luciano Azzolini, Ala 1949, è stato sottosegretario in diversi governi. Mario Raffaelli, primo non democristiano ad entrare in una compagine governativa. Non è democristiano e nemmeno trentino, ma qui eletto, Giancarlo Innocenzi, sottosegretario con Berlusconi. Così come non è democristiano, ma la Dc è morta e sepolta, Maurizio Fugatti, originario di Avio, eletto con la lega, sottosegretario alla salute,
dimessosi dopo pochi mesi per assumere la presidenza della Giunta della Provincia autonoma. Se autonomia significa lontananza da Roma allora l’obiettivo è raggiunto: Roma non è mai stata così lontana. Poichè da una costola di Valsugananews è nata la nuova rivista Feltrinonews ci sembra giusto dare un’occhiata a quanto accade nella vicina provincia di Belluno ed in particolare a Trichiana, piccolo paese di nemmeno cinquemila abitanti dove, pare ci sia un’aria magica. Una magia politica che, alla soglia del Duemila, ha portato Aldo Brancher, classe 1943, ad entrare nei governi Berlusconi con l’incarico di Sottosegretario nel Dipartimento per le Riforme Istituzionali e, sia pure per 17 giorni, Ministro alla Sussidiarietà. Oggi questa frazione di Borgo Valbelluna è nuovamente al centro della
politica veneta che vede quattro ministri nel governo di Mario Draghi e, due di questi, sono originari della piccola località. Sono Daniele Franco neo ministro all’economia e Federico D’Incà, già ministro per i Rapporti con il Parlamento del governo Conte dal 5 settembre 2019 al 2021. D’Incà era subentrato in questo importante ministero a Roberto Fraccaro, veneto di Montebelluna in provincia di Treviso, ma eletto nel collegio proporzionale del Trentino Alto Adige. Un Trentino per caso, d’importazione, che già ministro nel governo Conte uno dal 1º giugno 2018 al settembre 2019, dal 5 settembre 2019 al 13 febbraio 2021 ha ricoperto la carica di Sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio dei Ministri. E con questo incarico è stato l’ultimo dei trentini, si fa per dire, nelle compagini governative.
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Mondo anziani in cronaca di Patrizia Rapposelli
RSA e COVID ripercorrere momenti difficili Chiedere al personale e al direttivo di una struttura per anziani un’idea sull’anno precedente e la situazione attuale è difficile. In questi mesi le RSA sono state oggetto di una sempre più alta attenzione a causa del diffondersi della pandemia e degli effetti sui pazienti e personale. Parlano le voci di corridoio e rispettiamo il silenzio calato intorno a questa comunità.
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e RSA sono e rimangono una comunità nella comunità, a volte dimenticate, altre volte al centro dei media. La primavera dell’anno scorso ne è stata esempio. L’emergenza sanitaria provocata dal Covid ha messo a dura prova il panorama socio-sanitario italiano. Periodo complesso anche per le RSA in termini clinico-assistenziale e organizzativi. Gli organi direttivi e amministrativi hanno attuato interventi mirati a proteggere anziani e personale, oltre a mantenere attiva la comunicazione tra familiari e ospiti. Il virus è stato quel granellino di sabbia che entrando in questo sistema ha mostrato luci e ombre, ne sono
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emerse tenute e debolezze. Nelle diverse realtà sono state messe in atto eterogene misure, decisioni drastiche per riorganizzare velocemente le attività e coordinare gli operatori, oltre garantire una faticosa comunicazione con i familiari. Alla fine di febbraio U.P.I.P.A. (Unione Provinciale Istituzioni Per Assistenza) ha fornito indicazioni e normative al fine di prevenire la diffusione del Covid nelle strutture. Segue poi la comunicazione di chiusura delle RSA. All’inizio nelle case di riposo più piccole è rimasto tutto rilegato a una “voce che gira”, solo poi la registrazione casi ha materializzato nel concreto paura e spaesamento. Nella prima
ondata, nel nostro territorio, ci sono state residenze per anziani particolarmente colpite, sia a livello di focolai che per decessi. Un racconto testimonia come le indicazioni fornite fossero ottimali, nonostante nella fase più critica si siano dimostrate variabili e contraddittorie; nella pratica c’erano dei problemi. Diffusione del virus a catena. “Una volta entrato, era impossibile fermarlo”. Scarsità di DPI e personale poco specializzato. L’ indicazione dell’azienda sanitaria di non trasferire malati Covid nelle strutture ospedaliere, ma di gestirli in struttura (a seguito allestite RSA Covid) ha aggravato una condizione già compromessa.
Mondo anziani in cronaca Da una parte il personale impreparato ad affrontare una prassi igienica particolare, dall’altra scarsa la dimestichezza con le procedure e le strumentazioni. Gli operatori non sono stati addestrati, perché per fare questo il materiale non era disponibile. Infatti, i DPI scarsi, erano distribuiti solo al personale sanitario e assistenziale. Inoltre, in questa prima fase i dispositivi di protezione sono stati forniti solamente alle RSA coinvolte nella gestione di un focolaio interno. Non si può definirlo errore, ma un fallo in buona fede, in quanto è mancato il materiale. Le singole strutture hanno cercato di ordinare mascherine via internet. “Via Amazon, eravamo tutti li con i cellulari.” 90- 80 euro per una cinquantina di mascherine certificate CE, le scritte in cinese non hanno permesso di capire l’effettiva validità. I canali fornitori
hanno venduto stock da ospedale a prezzi esorbitanti oppure non erano disponibili. Nel tempo l’organizzazione di U.P.I.P.A. ha permesso la fornitura di stock adeguati. Una vita interna stressata per operatori e ospiti. Nonostante lo sforzo di mantenere una continuità delle attività, ospiti e personale si è scontrato con una dimensione di vita diversa; anziani non più gestiti come gruppo, giornate scandite dalle frettolose presenze degli operatori protetti da mascherine e visiere, attesa della disponibilità per quel collegamento con casa e paura. Solitudine e lockdown senza fine. Ospiti sofferenti, altri ragionevoli ed altri per varie cause inconsapevoli. Nell’insieme è stata ed è difficile tutt’ora la gestione dei familiari impotenti verso la situazione e i cari lontani. Cancelli chiusi per lungo tempo e anche nella
riapertura delle visite, in alcuni casi vietate o concesse con il contagocce, c’è frustrazione e senso di denuncia. Lo sprazzo di luce dell’estate è andato a spegnersi con la seconda ondata, boom di contagi, non risparmia nemmeno quelle poche strutture riuscite a contenere la diffusione della prima fase. La ripresa di una quotidianità non emergenziale sarà difficile; la campagna vaccinale da gennaio è partita, ma la disorganizzazione non è mancata, qualcuno saprà cogliere l’energia sprigionata dalla crisi per promuovere cambiamenti necessari a ricreare una cultura organizzativa capace di generare appartenenza e benessere e di aprirsi di nuovo al territorio. Assistiamo al destino delle RSA, se si tornerà alla normalità o saremo davanti a un cambiamento epocale.
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Il “Giorno del Ricordo” di Joe Beretta
Siamo tutti
PROFUGHI Con la firma del trattato di pace del 10 febbraio 1947 e la cessione dell’Istria, Fiume e Dalmazia alla Jugoslavia la popolazione italiana inizia un esodo massiccio, lungo, doloroso e straziante. Ne abbiamo scritto il mese scorso ricordando soprattutto le azioni compiute da Edvard Kardelj, partigiano sloveno, braccio destro di Tito, inviato inviato in Istria per risolvere la “questione italiana”: uccisioni e migliaia di corpi gettati nelle foibe caratterizzano questa fase. La ventata di violenza che si protrae anche negli anni successivi alla fine della guerra e avrà il suo culmine nella strage di Vergarolla a Pola il 18 agosto 1946 con più di 70 vittime. Ci sono le storie diverse di migliaia di persone che vanno nei campi profughi sparsi in tutta Italia o che scelgono le vie dell’Australia o delle Americhe. Persone con vissuti tragici: hanno visto uccidere il loro marito, il loro padre, il figlio, il fratello, la sorella. Hanno subito la frantumazione sociale e familiare. Per 50 anni hanno tenuto per sé questo enorme dolore, non hanno avuto la possibilità di ottenere giustizia. Noi abbiamo raccolto la testimonianza di Roberto De Bernardis Presidente ANVG –Trentino (Associazione Nazionale Venezia Giulia Dalmazia) segretario dell’associazione Museo Storico in Trento, componente del Comitato scientifico della Fondazione Alexander Langher di Bolzano
QUELL’ESODO CHE CAMBIO’ LA NOSTRA VITA Quando mio padre tornò dalla prigionia in estremo oriente nell’autunno del 1946 trovò una situazione pesante e intimidatoria. C’erano gli inglesi che governavano a Pola ma ormai tutto era deciso: Pola sarebbe passata alla Jugoslavia. Con la firma del trattato di pace a Parigi il 10 febbraio 1947 il destino degli italiani dell’Istria veniva indirizzato verso l’esodo. Troppo forti erano le vessazioni, impossibili da accettare le condizioni dei nuovi padroni: perdita della lingua, delle tradizioni, delle proprietà fonti di reddito, della sicurezza personale e collettiva. Mio padre e mia madre optarono per rientrare nei confini italiani e mentre mia nonna paterna con due sorelle di mio padre, alcune
sorelle di mia madre, zie e zii salpavano con il piroscafo Toscana verso la costa italiana ai miei genitori non veniva concesso il visto dalle autorità jugoslave. Motivo: il cognome di mia madre, Zmak, non veniva considerato italiano per cui doveva restare. Partisse pure mio padre ma lei no. Finalmente dopo la mia nascita e quella di mio fratello decisero di lasciarci partire, era il 14 aprile 1952. Ma dovevamo farlo subito con la lista delle cose da poter portar via redatta dalle autorità. Alla stazione ci accompagnò una nipote di mia mamma con un cassone di legno riempito con vestiario e alcuni ricordi. Poi stipati sul vagone iniziò il viaggio. Durò cinque giorni: Pola, Lubiana, Trieste, Udine. A Udine, campo di smistamento, restammo due settimane per poi riprendere un altro viaggio: destinazione campo
Il campo profughi sulla strada Gravia-Altamura (da 10 frebbraio)
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Il “Giorno del Ricordo” De Bernardis nel campo profughi
profughi di Altamura, in Puglia. “Il Centro raccolta profughi era situato sulla strada fra Altamura e Gravina in una località poco agevole, chiamata Laura San Buco, distante 5,6 chilometri da Altamura. Recintato da filo spinato non sistemato in maniera omogenea(...) ci si poteva accedere attraverso un lungo viale di circa 160 metri che terminava con una entrata in legno, filo spinato e quattro pilastri in muratura”. Così lo descrive la ricercatrice Anna Gervasio nel libro “La Puglia dell’accoglienza”. All’interno capannoni con servizi comuni divisi per donne e per uomini e ventisette stanze per ciascun capannone e un grande piazzale in terra dove giocavamo io e mio fratello. Quando mio padre riprese il lavoro di marittimo, alla fine del 1952, risalimmo la penisola sino a Genova, dove ci stabilimmo. Trovammo famiglie di Pola, di Fiume, di Zara con cui legammo subi-
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Roberto De Bernardis
to. Un cugino di mio padre con tutta la sua famiglia. Ma gli altri dove erano finiti? Gli anni cinquanta furono anni di ritrovamenti. Mia nonna paterna e due zie erano a Como. Iniziammo ad andare a trovarle e ogni anno passavo un periodo con mia nonna che vedevo silenziosa, vestita di nero, accanto ai fornelli, lei che aveva abbandonato una piccola trattoria e la casa nel centro di Pola, dove si era trasferita con le figlie negli anni trenta da Rovigno. Il profumo della sua passata di fagioli lo sento ancora oggi. Aveva appeso su una parete un disegno in scala del campanile della chiesa di Santa Eufemia che suo figlio, morto per la spagnola all’inizio degli anni venti del novecento, aveva realizzato. Ogni tanto lo guardava e sospirava poi si sedeva apriva il suo giornale: “L’Arena di Pola”, periodico degli esuli, senza alcun commento, in silenzio. La diaspora fu enorme ed
era difficile comunicare, poi trovarsi quasi impossibile. Andavamo ogni tanto a Voghera e Tortona per trovare parenti di mio padre ma poi partirono per l’Australia. Altri per l’Argentina e poi per gli Stati Uniti. Nella mappa italiana della mia famiglia dispersa si trovano brandelli a Roma, Lucca, Verona, Gorizia, Trieste, Milano, Como, Genova. Mia madre sorrise per la prima volta alla nascita di mio figlio, il suo primo nipote, nel 1985. Prima non aveva altra preoccupazione che ricostruire la sua e la nostra vita. Anche lei in silenzio e con la volontà di cancellare quell’orribile passato. Dimenticare. Mio padre, gioviale e ciarliero, ricordava la sua barca da pesca, lasciata nella baia di Valsaline. Raccontava dei suoi viaggi, inventava storie impossibili che io e mio fratello ascoltavamo a bocca aperta. Ma anche lui non voleva parlare di quell’esodo che
Il “Giorno del Ricordo” Ex Campo profughi di Altamura (da Altamuralive.it)
continuava a maledire. Loro non vollero più tornare. Eppure a Pola erano rimasti i suoi fratelli, contadini legati alla terra con le loro famiglie e una sua sorella paralizzata nel letto che non aveva potuto andarsene. I rapporti erano rimasti solo epi-
stolari. Solo poco prima di morire le chiesi se conoscesse Lanischie. “Certo, mi disse, era il paese dei miei nonni” e lì, mi confidò, era rimasta con una sua sorella durante la prima guerra mondiale mentre suo padre era al fronte in Galizia e i fratelli più grandi
con la mamma badavano a quelli più piccoli e alla azienda agricola a Monte Paradiso, a Pola, per garantire il sostentamento di tutti. Per uno strano gioco del destino ho conosciuto a Rovereto una persona nata proprio a Lanischie: suo padre, maestro elementare originario di San felice (Mori) in Trentino, fu rapito sotto i suoi occhi e gettato in una foiba. Con Pola ho costruito, quando ero presidente dell’Associazione Velica Trentina, un rapporto stretto per diversi anni con il circolo velico di Bonarina con divertenti e impegnative regate su quelle acque. Il circolo velico di Bonarina aveva una particolarità: i suoi soci parlavano normalmente il dialetto istro-veneto, quello che a casa nostra abbiamo sempre parlato. L’unico bene che ci era rimasto del nostro passato l’abbiamo conservato e non si tratta solo di linguaggio ma anche di cultura, di emozioni, di identità, di flebili ma resistenti radici.
Commemorazione a Basovizza - Trieste
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Musica in controluce di Gabriele Biancardi
Dal classico al metallaro Quando la musica divide
L’edizione 2021 di Sanremo, ha confermato la teoria, che paradossalmente, vede la musica dividere invece che unire. Secondo l’immaginario collettivo, a partire dal flower power della fine degli anni 60, la musica era il collante più forte, i concerti oceanici, come Woodstock per capirci, i messaggi di amore e fratellanza. Io credo che ci fosse del vero in tutto questo. Ma fu un attimo fugace, una sola estate per l’appunto.
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in dall’età delle scuole medie i vari generi musicali dividono e spezzano amicizie, si arriva a litigare furiosamente anche con colpi bassi. “Ma tu cosa ascolti di solito?”, ai miei tempi era un approccio abbastanza diffuso, oggi è quasi una sorta di esame. “La Pausini? Ma non capisci una beata...”. “Tu invece?”, “beh, il grande rock. Iron Maiden, Black Sabbath..” “ah capisco, sei un metallaro ignorante”. Ecco, da lì diventa tutto faticoso. Diamo alla musica la facoltà di farci inquadrare chi abbiamo di fronte. Se capiamo essere un amante del genere neo melodico, alla Gigi D’Alessio per farci capire, si parte con lo sputtanamento coatto. Poi ci sono quelli che non vedono l’ora di farti sapere che oltre al jazz non esiste
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nulla. Tu te li immagini la sera, ascoltare il be-bop di Miles Davis con un calice di barolo invecchiato davanti al fuoco, con il dalmata adagiato mollemente in pantofole di feltro. Vogliamo parlare del cantautorato impegnato? Guccini, Vecchioni, Lolli, sono materia di discussioni che inevitabilmente sfociano nella politica. I metallari, capelloni, giubbotti di pelle con borchie e dai a loro una matrice magari violenta. Questo perché il metal è duro, possente e non ti fa pensare ad un prato di margheritine. In alto, sul podio, ci metto gli amanti della classica. Per loro, chi ascolta generi “volgari”, non fanno parte forse nemmeno del nostro ecosistema. Al contrario,
Led Zeppelin
maglia nera in questa ipotetica e altera classifica, gli amanti del genere liscio, il country italiano. Ecco, questo capita spesso, riusciamo ad essere razzisti anche in un campo artistico che dovrebbe essere soltanto fonte di gioia. Siamo arroccati nel nostro mondo, troviamo che altri generi non meritino la nostra attenzione. Faccio radio da 41 anni, credo di avere fatto
Musica in controluce
Renato Zero (da wikipedia.com)
oltre 1200 interviste, in tutti i campi musicali. Ho conosciuto artisti veramente rock, tatuati, piercingati, con i volti truci sulle copertine dei loro dischi, che una volta conosciuti, si sono rivelati tra le persone più gentili e disponibili del mondo. D’altro canto, potrei fare qualche nome di cantanti “leggeri”, che praticamente odiano tutto quello che c’è intorno se non riguarda loro e il
mondo che ruota intorno. E viceversa ovviamente. L’arte dovrebbe essere democratica, certo, un musicista jazz, potrebbe stare ore a spiegarmi come questo brano contorto di note sia una meraviglia perché le scale pentatoniche si sviluppano ecc ecc. ma sai che c’è, se a me non piace..non piace. Il punto è che non facciamo nessuno sforzo per capire il motivo per cui possa piacere un genere musicale che non ci colpisce. Invece di scambiarci informazioni, tendiamo ad allontanare chi non la pensa come noi. La musica fa gruppo certo, dai “mods”, ai “teddy boys”per arrivare ai “sorcini” di Renato Zero, alle “cartine” di Marco Carta. Io provo un moto di affetto quando vedo, tipo Sanremo, barriere umane fatte da ragazzine di 15 anni, che urlano, piangono per i loro idoli. In questo il mondo
non è cambiato per niente. Generazioni antecedenti che oggi sono nonni mansueti e candidi, si sono accalcati intorno alle transenne per i Beatles, Elvis, o più vicino a noi, Morandi, Baglioni. Tutti abbiamo avuto dei poster in camera. Eppure non siamo riusciti a fare quel passo in più. Non siamo stati capaci di perpetuare quel messaggio di unione che la “summer love” aveva proposto. Basta andare sui social e leggere i commenti post festivalieri. Per una generazione di ingrigiti amanti del rock, accostare i Maneskin al sacro pentagramma di gruppi come Led Zeppelin o Who, appare come la peggiore delle bestemmie. Confrontare le liriche cantautorali di Ghemon a Battisti, è passabile di denuncia. La musica non può essere brutta o bella..ma solo suonata male o bene.
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Storie di casa nostra di Massimo Dalledonne
La FERROVIA della VALSUGANA Una storia di fumo (tanto), fischi (quelli delle locomotive) e lacrime. Come quelle versate dalle tante famiglie di profughi che, durante la Grande Guerra, salirono sul treno per abbandonare in fretta e furia le loro case. Per raccontare la storia della “carrozza matta”, della Ferrovia della Valsugana ci vorrebbero 125 capitoli. Uno per ogni anno trascorso dalla sua costruzione. Ce ne sarebbero cose da raccontare. Lavori che durarono due anni. Per costruire, dal giugno del 1894 all’aprile del 1896, la ferrovia della Valsugana. Quasi 65 chilometri di strada ferrata, da Trento fino al confine dell’impero austro-ungarico di Tezze con quello italiano.
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ono trascorsi esattamente 125 anni dal primo viaggio inaugurale, avvenuto esattamente il 26 aprile del 1896. Era una domenica di sole. Partenza alle 9 dalla nuova stazione ferroviaria del capoluogo. Alla guida del convoglio, composto da due locomotive, un carro bagaglio e 14 carrozze, il macchinista Umberto Osti di Strigno. Dopo la benedizione, la locomotiva di testa fischia ed il treno “si snoda come un rettile sul nuovo viadotto di Gocciadoro”. Così riportava il giorno dopo il quotidiano Alto Adige, che descrive il viaggio con uno stile coinciso ma efficace. La carrozza si ferma a Villazzano, salta la fermata di Povo ed arriva nella valle del Fersina. Qui i primi gitanti trasportati sulle nuove rotaie
La stazione ferroviaria di Levico
vengono accolti a Ponte Alto da spari di mortaretti. Dopo una breve sosta a Roncogno, “alla stazione di Pergine – si legge nell’articolo – una folla enorme. Sale il podestà e il viaggio prosegue costeggiando il lago di Levico. Altre fermate, Fino a Levico tra bande, pennoni, orifiamme e folla ovunque e dovunque”. Niente fermate a Barco e Novaledo. La comitiva, all’arrivo alla stazione di Roncegno – Bagni Marter, scende per un breve buffet offerto dai fratelli Waiz, proprietari dello stabilimento termale di Roncegno Terme. “Altro subisso di gente a Borgo”. Così prosegue l’Alto Adige. Qui il convoglio si ingrossa. Con il locale podestà barone Hippoliti anche la Società di Mutuo Soccorso ad accogliere, tra gli altri, anche il ministro
della ferrovia dell’impero austro-ungarico cavaliere Gutemberg. Il viaggio prosegue, per concludersi alle 13.25 al capolinea presso la piccola stazione di Tezze “fra le salve dei mortaretti e il suono delle campane”. Su un prato, vicino al confine con l’Italia, mentre la locomotiva tornava a Grigno per scambio, oltre 400 persone partecipano ad un ricco e sostanzioso buffet. Alcuni gitanti decidono di passare il confine ed arrivano fino a Primolano dove incontrano quattro ufficiali italiani. Ed anche quest’ultimi vengono coinvolti nei festeggiamenti. La festa prosegue per tutto il pomeriggio. Quanto il treno arriva, in retromarcia da Grigno, a Tezze è l’ora del rientro a Trento dove la comitiva arriva verso le 18. Quel giorno, il viaggio di andata
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Gruppo di persone vestite a festa che attende il passaggio del treno inaugurale lungo la line ferroviaria della Valsugana
dura complessivamente quattro ore e 25 minuti, quello di ritorno tre ore e 30 minuti. La giornata si conclude con un ricco pranzo, servito dall’Hotel Trento, presso la sala ristorazione della stazione ferroviaria del capoluogo. “Allo champagne – conclude il resoconto del giornalista dell’Alto Adige – parlarono il vice presidente della Società per la ferrovia della Valsugana conte Boos Waldeck, il ministro Gutemberg ed il cavaliere Stummer”. Il 28 aprile parla dell’inaugurazione della ferrovia e della giornata di festa anche il giornale “La Voce Cattolica”. Oltre al resoconto dettagliato degli avvenimenti, informa i lettori disegnando un quadro sugli aggiornamenti politici avvenuti durante la costruzione della linea e le prospettive future. Il 27
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aprile ci furono le prime corse regolare gestite dalla K.K. SUDBAHN. C’erano sei locomotive in esercizio, serie K.K. St B56 tipo CNZ della Lokomotivfabrik di Vienna. Ognuna dal peso di 41 tonnellate e mezzo per una velocità massima di 50 chilometri all’ora. In dotazione anche 25 carrozze, 39 carri per il trasporto merci e 33 di vario tipo. Il tempo medio di percorrenza, secondo gli orari del tempo, da Trento a Tezze era di 2 ore e 40 minuti. I lavori per la costruzione delle Ferrovia della Valsugana iniziarono l’11 giugno 1894 e terminarono il 26 aprile del 1896. Come riporta il volume “la ferrovia della Valsugana” di Gian Piero Sciocchetti, edito dagli Amici della Storia di Pergine, furono 21 i territori attraversati dal tragitto della linea. Ognuno di
loro ebbe una stazione o fermata, ad eccezione di Canale (la ebbe con l’arrivo della Grande Guerra), Castagnè, Bosentino, Ischia e Scurelle. Complessivamente vennero espropriati 138 ettari di terreno, per il viadotto di Trento vennero posizionate ben 123 arcate. Si contano anche 281 tra sottopassaggi, ponti, tombini e cavalcavia. Nei due anni del cantiere vennero impiegati fino a 4.500 lavoratori. Il 48% proveniente dalla Valsugana, il 18% dal resto del Trentino ed il 30% dal vicino Veneto. Oltre le metà erano manovali, il 20% cavatori, l’11% muratori ed il 7% boari e carrettieri. Il 39% dei lavoratori avevano una età compresa tra i 20 ed i 30 anni, il 20% meno di vent’anni, il 16% tra i 30 ed i 40 anni ed il 17% avevano più di 40 anni. Solo il 7% dei
Storie di casa nostra
Fine 1800: treno in partenza dalla stazione di Pergine
lavoratori aveva superato il mezzo secolo di vita. Si lavorava dalle 5 alle 19 durante il periodo estivo, dalle 7 alle 17 nei mesi invernali. Nei due anni di lavoro si riscontrarono 257 infortuni tra gli operai, solo tre mortali. Nel giugno del 1894 iniziarono i lavori del primo lotto, da Trento e Calceranica al Lago. In tutto 24 chilometri affidati all’impresa Casagranda, Oss, Scoz & Co. Ditta che proseguì il cantiere, dal mese di giugno dell’anno successivo, per altri 20 chilometri fino a Borgo Valsugana. Nello stesso periodo l’impresa Marinelli-Peregrini si occupava dell’ultimo tratto, in tutto 21 chilometri dalla
stazione di Borgo fino a Tezze. Dei lavori di ampliamento della stazione di Trento, che doveva essere dotata di un nuovo binario e di una nuova tettoia, se ne occupò la ditta Albertini. Il progetto, redatto tra il 1889 ed il 1896, porta la firma dell’ingegnere Rudolf Stummer Ritter von Traunfels dopo che, nel 1864, l’ingegnere Luigi Tatti aveva predisposto una prima bozza per realizzare una linea ferroviaria da Mestre a Trento, via Bassano e la Valsugana. Come si legge nel volume “La carrozza matta” di Carlo De Carli e Cristian Rossi “a sud di Tezze, oltre il confine, c’era il Regno d’Italia, dal quale ci si attendeva in tempi brevi il completamento della linea che, nel 1877, era stata portata da Venezia fino a Bassano del
Grappa. Manca un ultimo balzo di appena 30 chilometri, che si sarebbe fatto aspettare ancora a lungo”. Esattamente fino al 21 luglio del 1910. Il costo complessivo per la realizzazione della Ferrovia della Valsugana raggiunse la somma di 12.973.968 corone, superando di quasi 1 milione il tetto dei 6 milioni di fiori (equivalente a 12 milioni di corone) raccolte attraverso l’emissione di obbligazioni ed azioni garantite dal governo di Vienna. Alla K.k. privilegiert Valsugana Eisenbahn Geselschaft i.r., ovvero l’Imperial Regia Società privilegiata della Ferrovia della Valsugana (costituita nel 1891 a Vienna), veniva concesso un prestito obbligazionario massimo di 4,5 milioni di fiorini al tasso del 4%. Lo Stato garantiva il pagamento degli interessi assieme alla quota di ammortamento. Per completare la costituzione del capitale d’impianto di 6 milioni di fiorini, la società era stata autorizzata ad emettere azioni di priorità per 800 mila fiori ed azioni di fondazione per i restanti 700 mila. Quest’ultime era rappresentate da 3.500 titoli del valore unitario nominale di 200 fiorini, così sottoscritte:
Il treno inaugurale si è appena fermato nella stazione di Pergine ed il podestà è salito nell'ultima carrozza "saloon" per porgere il saluto della cittadinaza al Ministro delle ferrovie von Guttemberg, al Logotenente del Tirolo Conte Merweld, al Capitano provinciale conte Brandis, al Comandante dl XIV Corpo di Innsbruck e alle autorità partecipanti al viaggio inauguale
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Storie di casa nostra
Tecnici e maestranze dell'impresa costruttirce in sopraluogo a Tezze
200 mila fiorini dalla Dieta provinciale tirolese ed altrettanti dal comune di Trento. Altri 300 mila fiorini vennero sottoscritti dai comuni della Valsugana.
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Ecco la ripartizione: Povo (3.000), Civezzano (6.000), Pergine (30.000), Levico (66.666), Caldonazzo (21.333), Calceranica (6.000), Centa (4.000), Vattaro (1.000), Luserna (1.000), Borgo (52.900),
Roncegno (20.000), Roncegno Stabilimento (18.000), Novaledo (3.000), Castelnuovo (6.000), Telve (5.000), Telve di Sopra (1.600), Torcegno (1.000), Carzano (500), Ronchi (1.000), Strigno (5.600), Scurelle (4.600), Villagnedo (2.600), Ospedaletto (1.000), Spera (500), Ivano Fracena (400), Samone (500), Bieno (500), Grigno (15.800), Castello Tesino (8.000), Pieve Tesino (6.000), Cinte Tesino (4.500). A completamento dell’importo, si aggiunsero le sottoscrizioni del signor Vonwiller di Telve e dei fratelli Waiz per l’importo di 1.000 fiorini ciascuno. La costruzione della nuova linea venne seguita dall’impresa generale concessionaria della Ferrovia della Valsugana così composta: Rudolf Stummer von Traunfels (concessionario), ingegnere Vittorio Forot (direttore generale), ingegnere Giuseppe Muzika (direttore tecnico), ingegnere Ernesto Gianfranceschi (ingegnere capo), ingegnere Leone Jarty (ispettore). Della direzione
Domica 26 aprile 1896. Il treno inaugurale della Ferrovia della Valsugana si sta fermando nella stazione di Pergine. Il treno era costituito da due locomotive KkStB modello 56 con tender, seguite da un carro bagagliaio e quattordici carrozze passeggeri. Chideva il convoglio la carrozza "Saloon car" con le massime autorità partecipanti. Il treno rimase fermo in stazione solamente 6 minuti. Come si tò facilmente notare dall'immagine, notevole fu l'affluenza del pubblico che assistette al "sospirato" arrivo del primo trento nella propria stazione
Storie di casa nostra tecnica facevano parte gli ingegneri Sabino Halatkiewiecz (1° e 2° lotto), Isidoro Scinfeld (3° lotto), Giuseppe Cescotti (4° lotto), Giuseppe Damin (5° lotto), Antonio Solerti (6° lotto), Egidio Conci (7° lotto), Ettore Cavallazzi (8° lotto), Marcello Smolenski (9° lotto), Raffaello Lopacinski (10° lotto). Già nel 1872 a Borgo era stato costituito il “Comitato per il completamento delle ferrovie venete ai confini austriaci” e, dopo molti anni e forti pressioni sul governo di Vienna, il 27 ottobre del 1891 nacque un “Comitato definitivo” per la ferrovia della Valsugana. A guidarlo l’allora podestà di Trento Paolo Oss Mazzurana. Il 10 aprile, sul Bollettino delle Leggi dell’Impero, venne pubblicato il documento di concessione con cui Francesco Giuseppe autorizzava l’ingegnere Stummer a costruire una “ferrovia locale da Trento per Borgo fino al confine dell’Impero presso Tezze”. Il Comitato Definitivo per la costruzione della Ferrovia della Valsugana
fu impegnato in 11 riunioni. Complessivamente vi parteciparono 56 delegati: le più numerose erano quella di Pergine e Civezzano (7), seguite da Levico e Borgo (6), Grigno (5), Trento, Roncegno e Strigno (4), Calceranica e Caldonazzo (2) e quindi tutti gli altri comuni con un solo rappresentante. Presenti anche il deputato al parlamento di Vienna don Emanuele Bazzanella, il progettista e due ingegneri delle ditte appaltatrici. Ai lavori, oltre al podestà di Trento ed Eduino Chimelli della Camera di Commercio di Rovereto, parteciparono anche i seguenti delegati: Antonio Tambosi, Carlo Depretis e Giovanni Peterlongo (comune di Trento), Giovanni Tomasi, Luigi Alessandrini,, Narciso Sartori, Diodato Parolari, Egidio Filippi, Domenico Casagrande e Clemente Nadalini (comune di Civezzano), Guido Chimelli, Ruggero Grillo, Francesco Montel, Giuseppe Crescini, Giovanni Chimelli e Giuseppe Carli (comune di Pergine), Demetrio Graziadei e Gaetano Ferrari
(comune di Calceranica), Clemente Chiesa, Gustavo e Giuseppe Prati (comune di Caldonazzo), Camillo Colpi, Enrico Romanese, Erardo Ognibeni, Antonio Sartori, Emilio Paldauf e Angelo Villi (comune di Levico), Luciano De Bellat, Luigi Hippoliti, Ferdinando Dal Trozzo, Giuseppe Benetti, Luigi Calvi e Guido Dordi (comune di Borgo Valsugana), Moderato Pola, Riccardo Eccher, Girolamo e Francesco Waiz (comune di Roncegno), Antonio Maccani (Castelnuovo), Eustacchio Osti, Pietro Weiss, Oreste Tomaselli e Guido Suster (comune di Strigno), Celestino Visintainer (comune di Scurelle), Paolo Meggio, Orbino Cappello, don Luigi Ceola, Leopoldo Meggio e Giuseppe Morandello (comune di Grigno), Domenico Boso (comune di Castello Tesino) e Fedele Baretta (comune di Cinte Tesino). Tutte le foto sono tratte dal libro “La ferrovia dellaValsugana” di Giampiero Sciocchetti - Edizioni Amici della Storia di Pergine. Un sentito ringraziamento
La stazione ferroviaria di Roncegno Bagni Marter
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Storie di casa nostra di Massimo Dalledonne
Umberto Osti Il primo macchinista A
guidare la locomotiva, quella in testa al convoglio che il 26 aprile del 1896 ha percorso per la prima volta il tratto della ferrovia della Valsugana da Trento a Tezze, c’era un macchinista di Strigno. Si chiamava Umberto Osti e quel giorno è rimasto impresso nella sua mente. Nato il 10 agosto del 1870, aveva imparato a fare il macchinista in Austria. Guidare le locomotive era sempre stata la sua grande passione ed all’età di 26 anni è stato il primo macchinista a percorrere il tratto austro-ungarico della ferrovia della Valsugana. Sposato con Federica Rocchetti (nata a Scurelle il 14 marzo del 1865 e deceduta il 27 aprile del 1953), ha vissuto a Strigno, Borgo e Scurelle dove è sepolto nella tomba di famiglia. Umberto Osti à deceduto il 16 marzo del 1939 all’età di 69 anni. Era davvero orgoglioso del suo lavoro. Lo amava davvero. Era una persona signorile, raffinata. Un piccolo aneddoto, Ce lo hanno raccontato i suoi discendenti che ancora oggi risiedono in valle. Quando passava per la Valsugana, tra una fermata e l’altra, nel tratto compreso tra Borgo e la stazione di Strigno, con il fischio della locomotiva comunicava con la sua fidanzata. I suoi era fischi d’amore, di vera passione. Per quella donna che sarebbe, poi, diventata sua moglie. Ma anche per il suo lavoro. Dai suoi discendenti abbiamo recuperato anche un quadro. È la riproduzione di un incidente in cui incappò lo stesso Umberto Osti. Non è dato sapere il giorno e
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l’anno esatto, ma sul luogo non ci sono dubbi. È il tratto della ferrovia in prossimità dell’attuale centrale idroelettrica di Grigno, poco prima della stazione ferroviaria. Quel giorno, solo la presenza di un capitello, a suo tempo eretto dalla popolazione dopo una violenta alluvione, ha impedito che l’incidente si trasformasse in tragedia. La locomotiva, infatti, a causa del cedimento della banchina ferroviaria si era inclinata tutto su un fianco. Grazie alla presenza del manufatto Umberto Osti riuscì a cavarsela miracolosamente. Senza nessun danno fisico. Solo un grande spavento.
Umberto Osti (primo macchinista sulla ferrovia della Valsugana) e la sua famiglia
Il quadro che raffigura l'incidente ferroviario a Grigno
Storie di casa nostra Quando, nella tarda mattinata del 26 aprile di 125 anni fa, la locomotiva arrivò alla stazione di Borgo Valsugana, ad accoglierla, con tante autorità civili e militari, anche il canto intonato da una scolaresca. Ecco il testo, composto per l’occasione da don Giuseppe Maurina e musicato dal maestro Paolo Amatucci. “Salve, o Borgo, simpatica terra. Terra sacra a un Prode romano (San Prospero) Ecco alfine dè secoli atterra le barriere il Progresso immortal’ Degli augelli volanti sul piano salutato dai vivi concenti, fra gli appalusi di fervide genti, del vapore il convoglio trionfal al tuo ciel che più bello si fa alfin slancia il fatidico urrà. Salve, o Borgo, A quel fischio che al mondo nuovi secoli annunzia solenne, Delle Dodici in tuono gioconda l’ardua Cima risponde fedel e dall’alto con eco perenne il gran carro sonante saluta che a una terra nell’ombra perduta lieto apporta un futuro più bel E di vera immortal libertà alza il grido, il fatidico urrà. E tu, o nera volante quadriga, che nel fumo che slanciasi ardente Simboleggi il tuo nobile auriga, il volar dell’umano pensier; che alle nuove vittorie incruente dell’industria richiami le genti, che affratelli di Cristo i redenti, tu al meschino un saluto sincer porta e un pane ed allora sarà socialismo cristiano il tuo urrà”
Ferrovia della Valsugana - Viaggio inaugurale borgo
CALDONAZZO
Il Lampionaio Era un giorno d’inizio anno 1914 come ci racconta la maestra Agnese Agostini, quando si accesero a Caldonazzo i primi lampioni elettrici portando novità in ogni settore del vivere. L’evento fu salutato anche dalla banda che percorse tutte le strade del paese fra una moltitudine in festa. L’arrivo della luce elettrica rivoluzionò il modo di rischiarare il buio della notte; prima d’allora aiutavano nelle case candele e lampade a petrolio; mentre in paese, nei punti più trafficati, delle mensole apposite sostenevano dei grossi lampioni, anch’essi a petrolio. E il lampionaio, una persona nominata dal Comune, era addetto all’accensione e manutenzione. Ogni sera egli faceva il suo giro armato di scaletta, recipiente per il petrolio e fiammiferi. Ad ogni lampione si fermava, ne apriva lo sportellino, controllava che tutto fosse a posto, accendeva e poi riprendeva il suo giro accompagnato sempre da un codazzo di ragazzi giocherelloni: era come un rito paesano che non poteva mancare a fine giornata. (M.P.)
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COMUNICATO IMPORTANTE Nel rispetto delle vigenti normative
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Quando Lamon e Sovramonte volevano diventare TRENTINI
“V
olete che il vostro Comune entri a far parte della Regione autonoma Trentino Alto Adige?” Era il primo novembre del 2005 quando gli abitanti di Lamon furono chiamati a scegliere se rimanere con il Veneto o passare armi e bagagli al Trentino Alto Adige e gli abitanti del piccolo comune bellunese-feltrino non si fecero pregare. Sui 2760 abitanti ben 2377 , il 93%, scelsero di andare amministrativamente con i vicini cugini e solo 150 rimasero di fede e cuore veneti. “ Vogliamo che tutto il Veneto passi nella Regione Trentino Alto Adige” dichiarò il Doge Giancarlo Galan, una provocazione che il presidente della Provincia di Trento bollò come “interessata solo ai soldi dell’autonomia” mentre il Landeshauptmann del SudTirolo-Alto Adige Luis Durnwalder dichiarò ironicamente di essere pronto a governare la Regione da Venezia. Il referendum di Lamon fu il primo di questo genere in Italia e per quanto previsto dalla legge, articolo 132 della Costituzione “si può indire un referendum per poter passare da una regione all’altra”, richiedeva un lungo iter costituzionale per diventare esecutivo. E infatti a distanza di 16 anni è rimasto lettera morta nel libro dei sogni.
Lamon (da L'amico del popolo)
Non ha avuto migliore sorte il referendum analogo celebrato nel vicino comune di Sovramonte, 1500 abitanti sparsi su alcune frazioni, dove il 9 ottobre del 2006 ben il 95% dei votanti, compresi quelli residenti all’estero, si sono espressi positivamente per il passaggio del Comune feltrino alla Provincia autonoma di Trento. Anche questa scelta fu insabbiata nel labirinto procedurale, ma sette anni dopo, non rassegnati, ancora parte della Provincia di Belluno e del Veneto, accettarono l’invito di un “Comitato Sovramonte in Trentino” e votarono provocatoriamente, su schede fac simile, per l’elezione del Presidente e del Consiglio provinciale del Trentino. In quella occasione ogni spazio libero del comune posto sullasinistra del Torrente Cismon e quindi confinante con il Primiero, è stato tappezzato da cartelli nei quali si leggeva : «In occasione dell’elezione del presidente della Provincia Autonoma di Trento, il comitato propone ai sovramontini di partecipare al rinnovo elettorale. Domenica 27 ottobre votiamo anche noi per il presidente della Provincia di Trento. L’appuntamento è presso il Casel di Sorriva dalle 10.30 alle 12». In fondo poi veniva aggiunto: «Seguirà aperitivo insieme». Come annunciato la disfida finiva a tarallucci e vino ma solo amministrativamente perché nella gente era rimasto un certo malessere. Salito da Trento nel 2006 per un servizio Rai, avevo riscontrato grande entusiasmo e la riscoperta di antichi legami. In primo luogo l’amministrazione ecclesiale del Vescovo di Feltre su buona parte del territorio sud orientale del Trentino, dal Primiero al Tesino e fino a Borgo e Pergine Valsugana e poi
storicamente i nemici comuni del medioevo Sovramonte (da Trentino)
ovvero i signori padovani, vicentini e scaligeri prima della supremazia di Venezia nel 1420. Lo Stato italiano rumorosamente silenzioso e tradizionalmente assente, davanti a minacce verbali ma pur seccanti, d’intesa con Regione e Province, ha varato, nel tempo, una serie di provvedimenti finanziari ed amministrativi. Recependo le richieste popolari infatti è stato varato un piano di investimenti da 40 milioni per le opere finanziate con i fondi dei Comuni di confine e con la quota di co-finanziamento di altri enti, primi fra tutti Regione Veneto e Provincia di Trento. Bisogna sapere, infatti, che nell’ambito dell’intesa tra Provincia di Trento e Regione Veneto erano stati previsti interventi cofinanziati al 70% dalla Provincia di Trento e per il 30% dalla Regione Veneto, per la messa in sicurezza della strada n. 50 del Grappa e Passo Rolle, più conosciuta come strada dello Schener. Le opere riguardano viabilità, sanità, cultura e altro ancora. Una scelta che coinvolge le zone trentine anch’esse interessate a collaborare. Il Primiero, per esempio, è interessato alla viabilità e agli ospedali di Feltre e Lamon, punti sanitari di riferimento per i primierotti.
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Umana-Mente di Chiara Paoli
Primavera rossa? È
giunta la primavera che risveglia la natura, gli animali e anche noi umani. Questa primavera, come la scorsa, purtroppo non promette però nulla di buono per quanto concerne la nostra libertà di viaggiare. Questa sarebbe la stagione delle festività pasquali e dei ponti, il periodo ideale per prenotare qualche lungo week end da passare con la famiglia a visitare le nostre bellissime città italiane o per iniziare ad assaporare l’aria di mare. La Pasqua si è tinta di rosso per tutti noi e la colpa non è da attribuire al sangue versato da Gesù Cristo. Per fortuna si può andare per lo meno in visita ai parenti che vivono nella stessa regione o provincia. Gli spostamenti d’altra part sono ancora limitati, e a meno che non si sia proprietari di una seconda casa, muoversi appare come un miraggio. La maggior parte degli italiani, d’altra parte non ha ancora prenotato neppure le vacanze estive e molti, a causa delle chiusure e del “lavoro mancato” non se le potranno neppure permettere. Un’altra stagione in
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cui ci vengono richiesti sacrifici, dopo un anno ancora dobbiamo aspettare, pazientare e tirare la cinghia. Questa primavera ci dona nuovi colori, ma quelli predominanti nella nostra mente rimangono sempre il rosso e l’arancione, che purtroppo non sono i colori degli aperitivi da fare in giardino o in città con gli amici. Queste tonalità sono quelle che sentiamo al telegiornale e nelle conferenze stampe che scandiscono le nostre settimane a colori alterni. Ormai vediamo un’Italia tutta tappezzata dei colori rosso e arancione, a seconda della regione, mentre sarebbe auspicabile poter ammirare solo i toni della primavera appena iniziata. Quel bellissimo rosa dei fiori di ciliegio, il candido bianco dei fiori di melo, dei bucanevi, dei crocus e dei mughetti, che invano sogniamo come colore della nostra provincia. Gli animali si risvegliano e divengono operosi e anche noi abbiamo nuova energia che vogliamo sfruttare per quanto possibile. Cerchiamo di vedere qualche lato positivo: rimane almeno quest’anno la possibilità di
fare qualche passeggiata nei dintorni di casa. Fare movimento è qualcosa di fondamentale e questa concessione è sicuramente utile, rispetto al blocco totale del 2020. Rimane sempre la frustrazione di non poter fare ciò che si vuole, di non poter festeggiare con amici e parenti tutti assieme. Confidiamo che giungano tempi migliori e intanto cerchiamo di goderci per quanto possibile il risveglio della natura; la bellezza che ci circonda è sempre un valido aiuto per il nostro animo, che in questo anno è stato messo a dura prova. Facciamo grandi respiri all’aria aperta, osserviamo insetti e farfalle che volano nei prati, godiamo alla vista di splendidi fiori e respiriamo il profumo del verde che ci circonda. Lasciamo che lo sguardo vada a spaziare nel cielo azzurro e terso e cerchiamo per quanto possibile di rilassarci, perché ne abbiamo tutti un estremo bisogno. Cara primavera, spero tanto che tu possa riportare a tutti un po’ di speranza e fiducia in un futuro migliore.
Il Trentino in controluce di Nicola Maschio
Il CONSUMO di suolo sul territorio TRENTINO
V
i siete mai fermati ad osservare il paesaggio dal finestrino di una macchina o di un treno? Anche nelle tratte brevi, magari quelle di un normalissimo pendolare che, dalla periferia di Trento, si sposta verso il capoluogo. Siamo così abituati a dare per scontato ciò che ci circonda che, nella maggior parte dei casi, non ci accorgiamo dei piccoli o grandi cambiamenti. La gestione del suolo e del paesaggio trentino, ad esempio, vive tra luci e ombre. Un quarto del territorio disponibile per agricoltura e insediamenti risulta infatti, ad oggi, artificializzato, impermeabilizzato oppure cementificato. Insomma, l’intervento umano sulle aree naturali comincia a farsi sentire in modo decisamente importante, giorno dopo giorno, con i cantieri e gli edifici che prendono invece forma nei mesi e negli anni. Quella che potremmo definire come “fame da costruzione”, per così dire. Un desiderio irrefrenabile di edificare, di creare, di erigere nuove strutture. Ma come si è evoluto il paesaggio trentino proprio nell’ultimo lustro? Come è cambiato il nostro territorio e quali zone di quest’ultimo hanno risentito in modo maggiore delle azioni dell’uomo? A queste ed altre domande ha risposto lo studio quinquennale inerente lo stato paesaggistico della nostra Provincia, redatto dall’Osservatorio del Paesaggio Trentino. Un’indagine accurata che ha portato alla luce diversi aspetti del nostro territorio, non solo attuali ma anche e soprattutto storici. Nel 1960, ad esempio, gli insediamenti presenti in Trentino registravano una superficie complessiva di 5.482 ettari di terreno.
Nel 1987, poco meno di trent’anni dopo, gli ettari sono diventati 12.104 e, successivamente, ben 15.943 nel 2004. Praticamente, un aumento in soli cinquant’anni pari al 190%, che tuttavia ha subìto un forte rallentamento dai primi anni duemila al 2019 (solo +4,4%, stanziandosi a 16.637 ettari in tutto). «Ciò a cui bisogna prestare attenzione è il cosiddetto fenomeno della saturazione – ha spiegato Giorgio Tecilla direttore dell’Osservatorio. - Notiamo come, in alcune zone, vi sia una vera e propria tendenza a raggruppare insediamenti abitativi in alcune zone. Pensiamo ad esempio all’Alto Garda, nei pressi del lago, oppure ad alcune zone della Vallagarina e Rovereto ed infine, ovviamente, anche alla Val d’Adige ed in particolar modo la città di Trento. Questo però ci porta a pensare che, nel prossimo futuro, potremmo avere un potenziale incremento delle aree fortemente antropizzate pari a circa il 20% rispetto alla situazione attuale». La soglia “problematica”, aggiunge il direttore Tecilla, sarebbe quella dei 25.859 ettari di aree antropizzate (zone
naturali nelle quali è intervenuto l’uomo) in modo importante, con ulteriore erosione di suoli agricoli fertili. Rispetto al consumo di suolo invece, dal 2006 al 2019 il Trentino ha registrato un consumo medio di circa 63 ettari all’anno, rallentato poi proprio due anni fa e sceso a 53 ettari medi. Rispetto al dato nazionale, che riporta un 7,10% di suolo medio consumato, la nostra Provincia si è fermata invece al 3,7%: statistica che tuttavia, per quanto sia bassa, deve per forza essere rapportata alla tipologia del nostro territorio. «Quest’ultimo, per il 60%, è sopra i 1000 metri di quota – ha aggiunto Tecilla. - Inoltre, il 53% è coperto da boschi, il 12% da pascolo e ben il 22% da rocce e, in alcuni casi, anche ghiacciai. Per agricoltura e insediamenti dunque è disponibile solo il 13% del territorio complessivo. Se pensiamo che potremmo arrivare entro breve ad una occupazione di suolo pari al 4,16% di ciò che abbiamo a disposizione, è chiaro come siano necessari dei ragionamenti per indirizzare al meglio questo fenomeno».
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Come eravamo di Waimer Perinelli
SEBESTA e KESSLER nascita di un museo Era il 1968 quando s’inaugurava a San Michele all’Adige il Museo degli Usi e Costumi della Gente Trentina. Testimoni dell’evento i due padri fondatori, Giuseppe Sebesta e Bruno Kessler, rispettivamente ideatore- realizzatore del Museo e Presidente della Provincia autonoma di Trento. Due grandi personalità, due uomini di origini e culture diverse capaci di intuire la potenzialità di una cultura etnografica in continua espansione.
B
runo Kessler nel 1962 aveva fondato l’Istituto Trentino di Cultura di cui la facoltà di Sociologia fu diretta emanazione e fra i corsi di laurea figurava Antropologia culturale, una scienza nascente in Italia, paese in cui alcuni studiosi praticavano l’etnografia: fra loro Tulio Tentori uno dei padri dell’antropologia italiana. Ma mentre questo accadeva ai piani alti della scienza, Giuseppe Sebesta, uomo semplice quanto inquieto, rovistava nelle soffitte e nei fienili trentini, Valsugana compresa, alla ricerca degli oggetti fabbricati dai nostri avi per arare,
Giuseppe Sebesta (da Trentino Cultura)
seminare, raccogliere e per rendere confortevoli le abitazioni. La storia lo avrebbe dimenticato, classificandolo come accumulatore seriale, se sulla sua strada non avesse incontrato
Museo degli usi e costumi della gente trentina (da wikipedia.com)
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Bruno-Kessler da Vita Trentina (Foto-Zotta)
Bruno Kessler, nato nel 1924 a Peio in Val di Sole, avvocato, avviato ad una brillante e costruttiva attività politica. L’incontro fra i due protagonisti di una parte importante della nostra
Come eravamo
Museo degli usi e costumi della gente trentina
storia viene raccontato da Giuseppe Sebesta, morto a Fondo in Val di Non nel 2005, in un’intervista registrata nel 1994 (tre anni dopo la morte di Kessler)e postata su you tube da Giovanni Kezich attuale direttore del Museo di San Michele all’Adige. Nell’intervista si scopre come il caso, la fortuna e la costanza, quando s’incontrano, possono forgiare cose buone ed il Museo degli usi e costumi è una di queste: la documentazione e la testimonianza di una civiltà Sebesta, nato a Trento nel 1919 da madre trentina e padre cecoslovacco, giunto nella valle dell’Adige nel 1940, manifesta presto lo spirito d’avventura che fino a 21 anni lo porta a girare per l’Europa. “Da subito nei mie viaggi, racconta Sebesta, sono stato colpito dal rapporto fra il paesaggio e l’uomo, cioè non l’uomo ricco e con i grandi processi, ma l’uomo povero che non avendo mezzi riusciva a sopravvivere ideando i mezzi, creando macchine, fabbricando un mondo di oggetti fuori del comune.” Un amore, una passione, una sensibilità con cui coglie la ricchezza del Trentino che, risparmiato, almeno nelle valli laterali, dalla guerra, ha salvato moltissimo materiale con il quale si poteva ideare un museo. Sebesta coltiva questa sicurezza per molti anni, senza poter avere un colloquio con qualcuno di importante, fino a che non incontra un altro
uomo eccezionale. Un incontro che ha dell’incredibile con un pizzico di magia. “E’ il 1956 ,il Venerdì Santo, sono al Museo di Scienze Naturali a Trento per il solito brindisi pasquale, racconta Sebesta, quando mi trovo davanti un’affascinante signora, molto sensibile ed intelligente, ed io parlo a lei di questo mio sogno, del mio rincrescimento che i trentini non capiscano che hanno un patrimonio bellissimo da valorizzare. Alle mie spalle c’è un ometto, più piccolo di me, io non lo conoscevo; quest’uomo improvvisamente mi batte una mano sulla spalla, io mi volto e lui mi prende direttamente la mano e mi dice: io sono Kessler sarei felice di parlare con lei”. Alcuni giorni dopo lo scienziato e l’amministratore s’incontrano e senza tanti preliminari Kessler affida a Sebesta il compito di realizzare un museo stanziando 500 mila lire. “ Da quel giorno, dice Sebesta, mi incontro spesso con Kessler, fondo un comitato etnografico.” Raccoglie materiale in tutte le valli e dopo il primo anno i magazzini presso il museo di Scienze naturali di Trento sono pieni ed è costretto ad abbattere alcune pareti per costruire un percorso elicoidale. Per fortuna, dopo un po’ di tempo, ha la possibilità di spostarsi a San Michele all’Adige con tutti i materiali e ricomincia a raccoglierne di nuovi. Riceve un
finanziamento di due milioni di lire. Le incertezze però sono ancora notevoli e Sebesta capisce la necessità di forzare le cose; allestisce le due prime sale con percorso guidato e didascalie. “ Un giorno, racconta, invitai Kessler a visitare questi due locali. Egli rimase sconvolto e improvvisamente, come poteva essere lui in senso affettivo, mi prese fra le braccia e mi disse Sebesta dimmi cosa vuoi di soldi e di mezzi per realizzare il museo, ma tu lo devi realizzare in un anno... Il 1968 si inaugurava il museo.” Dodici anni impiegati bene per realizzare un sogno, un museo che, ricorda Sebesta, è :“la testimonianza che il popolo trentino è una Stirpe, nel senso latino di Gens , un raggruppamento umano inserito nel proprio ambiente naturale”. Il Museo è cioè la rappresentazione della tecnologia umana applicata al territorio, dove sono messi in risalto i materiali che il popolo trentino, fin dalla preistoria ha sperimentato. L’ intelligenza e la modestia, pur nella complessa personalità del fondatore del Museo di San Michele, traspaiono nella sua ammissione di avere imparato quanto e più di quello che ha trasmesso.” Naturalmente, dice, è stata una bella avventura perché io stesso diventai uno scolaro, tanto che nei miei incontri internazionali affermai sempre che il mio grande maestro era stato il popolo.”
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Eventi americani di Katia Cont
USA: gli OSCAR 2021 La notte degli Oscar 2021, ha subito un posticipo rispetto al consueto calendario, naturalmente a causa della pandemia di Covid-19 che ha stravolto tutto. La 93ma edizione degli Academy Awards è stata fissata per la notte tra il 25 e il 26 aprile prossimi, quasi due mesi dopo rispetto alla data indicata originariamente, il 28 febbraio.
N
on è la prima volta che la cerimona degli Academy viene rimandata, era già successo a causa dell’alluvione a Los Angeles nel 1938 successivamente per l’assassinio di Martin Luther King Jr. e ancora nel 1968 per il tentato omicidio dell’allora presidente Ronald Reagan nel 1981. A causa del rinvio , sono state modificati anche i termini d’uscita dei film candidati. In principio era il 31 dicembre ed è stata estesa al 28 febbraio. “Per oltre un secolo, i film hanno avuto un ruolo fondamentale nelle nostre vite: ci hanno rassicurato, ispirato e intrattenuto durante i periodi più bui,” hanno dichiarato in un comunicato il presidente dell’Academy David Rubin e l’AD dell’Academy Dawn Hudson. “Quest’anno in modo particolare. Estendendo il periodo d’idoneità, speriamo di poter offrire la flessibilità necessaria ai registi, per terminare e rilasciare i film, senza essere penalizzati per qualcosa che è fuori dal controllo di chiunque”. Altra novità è l’introduzione di altre location che ospiteranno la serata. La tradizione verrà comun-
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que rispettata al Dolby Theatre di Hollywood, che in passato ha accolto fino a 3400 ospiti, ma gli organizzatori hanno dovuto pensare a risolvere il problema del distanziamento introducendo altri spazi. Quattro i nomi di italiani che saranno presenti in questa edizione, il primo “Notturno”, il lungometraggio di Gianfranco Rosi, segue Filippo Meneghetti direttore del film francese “Due” già nominato ai Golden Globe come miglior film straniero e “Pinocchio” di Matteo Garrone, nominato nella categoria miglior make-up e costumi di Massimo Cantini Parrini. La presenza femminile è affidata a Laura Pausini con la nomination di migliore canzone originale, “Io Sì” cantata in “ The Life Ahead” (La vita davanti a Sé) di Edoardo Ponti con la straordinaria partecipazione di Sophia Loren. Continuando con le presenze femminili, in questa edizione, come mai era successo nella storia degli Academy Awards, 2 donne registe hanno ottenuto la nomination, sono Chloe Zhao e Emerald Fennell, rispettivamente per ‘Nomadland’ con Frances McDormand e “Promising Toung Woman”. Le altre nomination per la miglior regia sono: Lee Isaac Chung con “Minari”; Thomas Vinterberg per “Another Round” (Un altro giro), Mank sulla vita dello sceneggiatore Herman J. Mankiewicz. Sarà una serata Oscar tinta di rosa: concorreranno 70 donne per un totale di 76 nomination. Chloé Zhao
LauraPausini
Chloä Zhao
di “Nomadland” è la prima donna a ricevere quattro nomination in un unico anno. Non rimane che attendere e seguire la notte più attesa dalla cinematografia mondiale.
Musicalmente di Katia Cont
Laura Pausini, “IO SI” e la nomination «Non ho mai scritto discorsi in occasioni simili, ma questa nomination e l’eventuale vittoria le dedico al mio babbo: suonava nelle orchestre, fu fra i primi a provare l’avventura dei piano bar, mi ha insegnato perché le canzoni sono importanti per la vita delle persone, ma non mi ha mai detto che dovevo cantare. Ha aspettato. E al mio ottavo compleanno, al ristorante Napoleone di Bologna, chiesi in regalo un microfono. A me sarebbe bastato fare i piano bar, non c’erano ragazze allora, ma lui mi diceva che i miei sogni erano troppo piccoli»
L
a cantante di Solarolo, come la stessa Laura Pausini ama definirsi, ha vinto il Golden Globe per la migliore canzone originale Io sì / Seen tratto dal film La vita davanti a sé di Edoardo Ponti con Sofia Loren. Un premio importantissimo considerato che storicamente il Golden Globe è un’anticipazione dei premi che verranno consegnati nella notte più importante per l’industria cinematografica mondiale. Il prossimo 25 aprile a Los Angeles infatti si terrà la notte degli Oscar che vedrà tra le protagoniste proprio la Pausini, nominata per la miglior canzone originale. Nessun brano interamente in italiano prima di questo – scritto dalla cantante romagnola insieme a Diane Warren e Niccolò Agliardi - aveva mai vinto il premio assegnato dai giornalisti della stampa estera iscritti all’Hfpa (Hollywood Foreign Press Association) e questa è già una soddisfazione enorme per chi continua a vincere anno dopo anno premi e riconoscimenti internazionali. Determinazione, idee chiare, un progetto definito e a lungo termine, una visione non solo locale e investimenti in un management forte, sono gli ingredienti del suo successo. Personalità e simpatia l’hanno sempre contraddistinta e fatta amare dal pubblico di casa e anche dal resto del
mondo, basti pensare al Sudamerica che la ha letteralmente adottata, ma ora anche l’industria cinematografica si è accorta di lei. Certo si rischia, si deve abbandonare la certezza di un successo locale per avventurarsi al di la dell’oceano. Questo comporta sacrifici, soprattutto per chi ha famiglia. Il più delle volte non è semplicemente “portare i propri successi all’estero”, ma adeguarsi ai singoli mercati, alle dinamiche e al contesto, il che vuol dire ricantare le proprie canzoni in un’altra lingua, modificare il testo, il messaggio, adeguarsi alle idee e alle dinamiche degli altri paesi, stare mesi e mesi a fare promozione lontano da casa e spesso ciò implica cambiare vita, certezze. Sacrifici, impegni che stanno regalando alla Pausini e a tutto il suo entourage i meritati riconoscimenti. Laura ha presentato una canzone dalla melodia dolce e pacata accompagnata da un testo in cui emerge chiaramente l’idea di un amore che rimane saldo, fermo e pronto a sostenere e confortare nel momento del bisogno. È un testo breve, di poche parole, ma che riesce comunque ad esprimere tutto l’amore nella sua essenza. Il testo della versione italiana è stato scritto da Laura Pausini e Niccolò Agliardi mentre il testo e la musica
nella versione originale sono stati composti dalla compositrice statunitense Diane Warren. Dopo aver visto il film, la Pausini ha accettato di eseguire la canzone, identificandosi nel suo messaggio sulla diversità e contro i pregiudizi e il razzismo. «Una storia di integrazione e buon senso, volendo anche fotografia del disagio attuale attraversato dall’umanità, non nascondo le perplessità che circondano le nostre esistenze da un anno ad oggi - ha detto la cantante romagnola, durante la videoconferenza di avvicinamento all’evento americano - abituata alla mia vita frenetica, perennemente tra spostamenti e viaggi, per viverla improvvisamente senza possibilità di programmare, bensì di gestirla alla giornata». «Prendersi cura del testo in italiano, insieme a Niccolò Agliardi, si è tramutato in lavoro per un arco di trenta giorni, l’adattamento della metrica Italiana è complicato, mancano le parole tronche, devi mettere volontà e innato senso armonico, se non vuoi lasciare qualcosa di marginale, al momento la canzone in italiano viene suonata da varie stazioni radio americane». La prossima fermata dunque è quella del Dolby Theatre, nella notte tra il 25 e 26 aprile 2021.
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Il personaggio di Laura Mansini
Politica e amministrazione:
è un lavoro per donne Nel viaggio fra le donne della nostra Valsugana uno spazio lo meritano anche quelle che lavorano ed al contempo fanno parte delle varie Associazioni Culturali, Sportive e di Volontariato, in generale. Oggi incontriamo Cristiana Biondi.
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onna attiva, intelligente, piena di interessi umani e sociali; nata a Levico Terme nell’aprile del 1973, Cristiana Biondi vive a Caldonazzo. Dopo aver conseguito la maturità scientifica presso il Liceo “Leonardo da Vinci” di Trento ed essersi iscritta alla Scuola di Statistica presso la facoltà di Economia e Commercio dell’Università degli studi di Trento, frequentata con profitto per due anni, nel 1995 l’ha abbandonata ed ha partecipato ad un corso organizzato dall’Agenzia del Lavoro della Provincia autonoma di Trento ottenendo un diploma di merito finalizzato al marketing, vendite e rapporti con il cliente. “Perché questa scelta?” “Perché per me, in quel momento della mia vita, sembrava più interessante della facoltà che avevo scelto con poca convinzione, pur di non andarmene da Trento, altrimenti avrei optato per Architettura, ma avrebbe voluto dire fare la valigia ed andare a Venezia e ciò, nella mia testa, non mi avrebbe permesso di essere economicamente autonoma per molti anni. Questa decisione non è stata proprio approvata dai miei genitori”; un sorriso pieno di tenerezza per la mamma Ivana Abbrescia, scomparsa troppo presto e per il padre, il prof. Domenico Biondi, persone molto presenti nella vita sociale del paese e fra i miei
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primi collaboratori nell’organizzare alcune importanti attività comunali come “R - Estate con noi” (1995), dedicata ai bambini di Caldonazzo, mettendo a disposizione alcuni originali corsi come quelli di disegno e quello del ricamo, arte nella quale Ivana era davvero maestra. Fu in quell’occasione che conobbi Cristiana ed ebbi modo di apprezzarla. “Rimpianti per aver lasciato l’Università?” “Chi non ha qualche rimpianto nella vita, l’importante è che non diventi un’ossessione…ho comunque riempito la mia vita di progetti e percorsi lavorativi per me molto interessanti, iniziando a lavorare nel lontano 1996 in un’agenzia immobiliare di Trento fino al 2001, quando inaspettatamente mi hanno chiamata per un colloquio dall’Oxford Civezzano Soc. Coop., Cooperativa che gestisce l’Istituto d’istruzione paritario Ivo de Carneri, offrendomi un posto a tempo indeterminato in amministrazione; qui nel frattempo ho frequentato un corso molto importan-
te organizzato dalla Consulting Trentina srl finanziato dal Fondo Sociale Europeo, dal tema “Lo sviluppo del ruolo manageriale”, rivolto a donne impiegate in piccole-medie imprese che mi ha permesso di giungere al
Cristiana Biondi
Il personaggio mio lavoro attuale, infatti dal 2002 sono socia della Cooperativa Oxford con mansioni di direzione dei servizi didattici ed amministrativi e direttrice del convitto. Dal 2009 al 2015 ho anche ricoperto il ruolo di Vicepresidente nel Consiglio di Amministrazione della Oxford Civezzano Soc. Coop. In tutti questi anni di lavoro - prosegue – oltre ad affrontare e risolvere le questioni e le problematiche che quotidianamente ci sono in un’azienda, ho imparato ad apprezzare il rapporto con gli studenti. In un convitto bisogna capire da uno sguardo, da un’espressione del volto, da un atteggiamento quello che lo studente vorrebbe trasmettere e che magari non riesce ad esternare ciò che prova ed a volte, ciò che nasconde”. Autonomia, indipendenza, sensibilità ed attenzione per il sociale e soprattutto per lo sport ed il turismo sono le caratteristiche di questa donna che ho avuto modo di apprezzare durante il mio percorso amministrativo presso il Comune di Caldonazzo, iniziato nel 1995 quando sono stata eletta come Capogruppo di maggioranza, sindaco Giuseppe Toller, e lei, poco più che maggiorenne, faceva parte del Consiglio Direttivo del locale Tennis Club, di cui dal 2003 è diventata Presidente. Ha fatto parte anche del Comitato Turistico Locale per moltissimi anni, dando vita a manifestazioni a tema che hanno vivacizzato le piazze di Caldonazzo per molte edizioni. Fu eletta mio consigliere comunale quando io ero Sindaco (2010-2015) e qui ho affidato a Cristiana l’incarico di Assessore al Turismo, Commercio, Manifestazioni Culturali e ricreative, biblioteca e rapporti con il Palazzetto Polifunzionale. “E’ stato un impegno che ho accettato con entusiasmo – conferma- dopo le iniziali perplessità, dovute al timore di non riuscire a conciliare le esigenze della mia professione con l’impegno politico. “
Impegno che ha assolto con generosità e competenza, facendo squadra. ” Si, sia nel lavoro che nella politica del paese ho sempre voluto lavorare coinvolgendo le persone che stavano attorno a me, infatti anche in politica, quella che si fa nei piccoli paesi come il mio, concepisco il concetto di lista Civica, quale era la nostra, come un gruppo di lavoro coeso che ha come obiettivo il bene della propria comunità e del territorio che amministra, non una lista dove le persone
che la compongono sono suddivise in piccoli gruppi, ognuno dei quali rappresenta una corrente politica, che entrano a far parte di una stessa aggregazione per vincere e per poi magari contrastarsi tra loro dall’interno”. Sagge parole che dovrebbero essere applicate anche alla politica Nazionale, ma si sa spesso prevalgono interessi giornalieri. “E poi ci si lamenta, dice Cristiana, se la politica è lontana dalla gente”.
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Il calcio in controluce di Alessandro Caldera
Vivere di calcio per morire in panchina:
la storia di GIOVANNI TRAPATTONI
N
ascere a ridosso dello scoppio di una guerra o durante un regime, comporta inevitabilmente sofferenza e sacrifici. La faccenda assume connotati ancora più tragici se, durante il conflitto in questione, l’essere umano si rende protagonista di barbarie e di atrocità inaudite. L’allusione è inerente, in parte, al secondo conflitto mondiale, che impegnò svariati Stati per circa sei anni e durante il quale perirono poco meno di 70 milioni di persone. Ma anche ad un qualcosa che ci interessa maledettamente più da vicino, come il Fascismo. Ecco, con queste premesse, una mattina di marzo del ’39 viene alla luce Giovanni Trapattoni. Il luogo di nascita è Cusanino Milanese, “Cusan” per i vecchi Bauscia, un comune situato a Nord del capoluogo lombardo. Il Trap, diminutivo con il quale sarà poi celebre, cresce in condizioni di precarietà finanziaria. Vive dapprima in una cascina assieme ad altre undici famiglie, un periodo per lui doloroso ma allo stesso tempo “utile”, Juventus, anni '80 Trapattoni e Platini
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perché farà di lui un uomo umile e determinato. Da giovanissimo lavora come garzone, poi alterna il calcio all’occupazione da tipografo presso la ditta cartotecnica Riboldi, fin quando non viene notato dal Milan. All’oratorio San Martino, campo in terra battuta del paese, il Giuanin, nomignolo che gli era stato affibbiato in gioventù, aveva già fatto intravedere le proprie qualità da difensore. Era tangibile la sua maturità, la sua abilità nel dirigere la manovra e la squadra, aspetti che folgoreranno il mister delle giovanili rossonere, Mario Malatesta. Il provino, avvenuto a Rogoredo poco fuori Milano nel 1956, portò ad un inevitabile plebiscito; arruolato in quella che oggi potremmo definire con un inglesismo come Accademy, Trapattoni vinse nel ’59 e nel ’60 il più prestigioso torneo giovanile, il Viareggio. Sulle ali dell’entusiasmo esordì con la prima squadra, il 29 giugno 1959 in un Milan-Como di Coppa Italia, con un tabellino della Gazzetta dello Sport che mise a referto un facile 4-1 ma anche un erroneo “Trappattoni”.
Giovanni Trapattoni
Poco male in realtà, il celebre quotidiano avrà modo di impararlo quel cognome; Giovanni vestirà infatti la casacca rossonera per altre undici stagioni, prima di una fugace esperienza a Varese. Della militanza da calciatore, se gli fosse fatta esplicita domanda, ricorderebbe indubbiamente due partite e un allenatore. La prima delle due si giocò il 12 maggio 1963, un Italia-Brasile, nella quale il Giuanin contenne in modo impeccabile Pelè, uscito dal terreno di gioco solamente al ventiseiesimo minuto. Con il tempo si seppe che la stella “verdeoro” non era al top della condizione ma questo alla gente poco interessava. Tutti erano rimasti ammaliati dalla superba prestazione del Trap. Per la cronaca,
Il calcio in controluce che assieme Durante questa esperienza, Giovanad un altro ni ha avuto la fortuna di “visitare” giocatore svariate nazioni e di approcciarsi a rossonero, diversi stili di gioco, sempre con una Lodetti, meravigliosa costante: il successo. È formava il lui che detiene il primato di scudetti gruppo delconquistati da allenatore in Italia, le “cocorite”. sette, ed è sempre lui il fautore dello Lo scopo “scudetto dei record”, raggiunto nella di questa stagione 1988-89, quando la sua Inter coppia era totalizzò 58 dei 68 punti disponibili. quello di Per tutto questo, quando si parla del rendersi Trap si può utilizzare, senza remora complici alcuna, il termine “pietra miliare” di degli scherzi questo sport, disciplina che ama e che lo schiche venera al punto di augurarsi una vo Nereo simile sorte:” Per uno come me che faceva a quei giornalisti scomodi ama il pallone e che non è mai stato o sgraditi. Tralasciando la sfera un tradito dal calcio, sarebbe la cosa più po’ più goliardica, Trapattoni vide in bella morire in panchina, durante una Rocco, una sorte di padre, al quale di partita.” fatto si ispirò sia per Giovanni Trapattoni festeggia 80 anni (da Sportnews.eu) quanto concerne la gestione del gruppo, sia l’impostazione più difensivista. Con questi presupposti, nel 1974 intraprese quel percorso al di là della linea laterale, una carriera che si è protratta complessivamente per più di mezzo secolo, terminando solamente nel 2013.
Trapattoni con Nereo Rocco (da Maglia Rossonera)
in quell’afoso pomeriggio a San Siro, la formazione sudamericana, reduce dal successo nei mondiali del ’58 e ’62, fu annichilita con un netto 3-0. Relativamente alla seconda partita invece, dobbiamo andare avanti nel tempo, non di molto in verità, di appena 16 giorni. In quell’occasione, la finale di Coppa dei campioni, Giovanni marcò in maniera superba la stella del Benfica, Eusebio, contribuendo a mantenere il risultato sul passivo di una rete a zero per il Milan, uscito poi trionfante dalla serata. Il terzo ed ultimo ricordo è legato, come anticipato precedentemente, alla figura di un allenatore: Nereo Rocco. Il “paròn”, soprannome con cui era noto il tecnico friulano, prese sin da subito in simpatia Giovanni
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Conosciamo il territorio di Chiara Paoli
I biotopi
della VALSUGANA
C
he cosa si intende per biotopo? Quando si parla di ecologia, questo termine designa un’area di dimensioni limitate, un ambiente dove animali e vegetali vivono in comunità, dando vita ad un piccolo ecosistema. Anche la nostra valle è ricca di biotopi, aree naturali protette di fondamentale valore ambientale ed ecologico, si tratta per lo più di zone umide, torbiere o piccoli stagni che stanno lentamente scomparendo. Per preservarle e per consentire al visitatore di apprezzare questi piccoli e preziosi ambienti, sono stati predisposti appositi percorsi, con punti di osservazione e pannelli che forniscono spiegazioni ed approfondimenti per i visitatori. Nel perginese si trova il Biotopo “Lago Pudro”, una torbiera delimitata dal
cosiddetto Doss del Zucàr. In questa zona umida trovano spazio diverse comunità vegetali, tra cui il “tappeto” galleggiante (aggallato), la carice (vegetazione erbacea), il canneto con la cannuccia di palude, cespugli e il bosco di ontano nero. Tra gli animali che abitano questo stagno, numerosi uccelli acquatici come l’airone cinerino, il martin pescatore, il tarabusino e poi ancora anatre, porciglioni, oche e tuffetti, assieme alle rane verdi con il loro gracidio. Il Biotopo si può visitare, accedendo al sentiero che si dipana dalla località di Brazzaniga, è una passeggiata adatta a tutti, che non presenta alcuna difficoltà. Il Biotopo Inghiaie di Santa Giuliana di Levico rappresenta la mutazione del “Lago delle Lòchere”, zona un tempo paludosa che venne poi bonificata. Questa zona è sottoposta a tutela ambientale, proprio perché testimonianza dell’antico ecosistema palustre, caratterizzato da ampi canneti costituiti dalla cosiddetta “cannuccia d’acqua”. I dintorni si connotano per la presenza di piccoli boschi ripariali Biotopo di Roncegno - Sentiero di visita per non vedenti (da APT Valsugana) con piante
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di ontano e salice. Diverse specie ittiche abitano la palude e alcune si esse sono piuttosto rare; tra queste pesci quali lo scazzone e la lampreda padana, specie di notevole interesse ecologico e naturalistico. Nella riserva si trovano poi uccelli acquatici come il martin pescatore, il germano reale e la gallinella d’acqua, che è possibile ammirare percorrendo il sentiero che si snoda per ben 4 km. Apposite bacheche informative sono state predisposte per fornire informazioni e si sta provvedendo a predisporre anche pannelli in braille e mappe tattili per consentire la visita alle persone non vedenti. Tra Borgo Valsugana e Roncegno Terme si colloca il Biotopo “Palude di Roncegno”, facilmente raggiungibile dalla pista ciclabile della Valsugana. Questa zona umida si contraddistingue per la persistente presenza di acqua, dovuta al fatto di trovarsi nella parte est del Rio Chiavona e per la presenza di un importante bosco ripariale, che appare essere uno tra gli ultimi rimasti nella nostra provincia. Il cammino, per chi si inoltra nell’esplorazione di questa zona protetta, non è impegnativo, sono poco più di 500 metri e la sua particolarità consiste nel fatto di essere fruibile anche da persone affette da disabilità motoria e da persone ipovedenti o affette da cecità. Tutto questo è possibile grazie ad un tracciato a tal fine appositamente predisposto, privo di gradini, con una larghezza e un fondo adeguati, cui si aggiungono
Conosciamo il territorio 8 punti informativi e pannelli con scrittura in braille. Vi sono inoltre disegni in rilievo e sagome di animali in vetroresina per consentire la percezione tattile e lungo tutto il tragitto è stata installata una corda che guida i non vedenti. Tutto questo è stato possibile grazie alla collaborazione con la sezione di Trento dell’Unione Italiana dei Ciechi e degli Ipovedenti, che si è impegnata a predisporre indicatori tattili a terra e corda anche nella porzione di strada che collega Borgo al biotopo. In località Drio Silana a Pieve Tesino, raggiungibile dall’abitato di Pradellano si trova il biotopo “I Mughi”. Si tratta di un grande bacino lacustre circondato da boschi di abete rosso, abete bianco, faggio e pino mugo. Qui hanno sede tre torbiere che sono il naturale sviluppo di 3 laghi di origini glaciali, risalenti al quaternario.
Biotopo I Mughi (da APT Valsugana)
Abitano questi luoghi specie come la biscia dal collare, il tritone alpino e la salamandra pezzata, cui si aggiungono mammiferi e uccelli che abitano il bosco limitrofo. La visita si snoda su un sentiero di circa 2,3 km con
pannelli informativi per conoscere le peculiarità di quest’area. Per chi volesse approfondire l’argomento, vi è un apposito sito della provincia dedicato al tema: www. areeprotette.provincia.tn.it.
STORIE DI CASA NOSTRA
I frati e gli uccelli Si racconta che diversi decenni or sono, un certo signor Pola di Roncegno era solito recarsi dai Frati di Borgo all’ora di pranzo. I frati, con la generosità che sempre li ha contraddistinti, lo invitavano tutte le volte a restare a pranzo con loro. Al termine bastava un grazie, e “alla prossima volta”. La cosa andò avanti per parecchio tempo, per diversi anni, e, parlando del più e del meno, si scoprì che il signor Pola era anche un appassionato cacciatore. E fu così che un giorno disse ai frati: “sareste contenti se in autunno vi mandassi gli uccelli”?. Ma grazie caro, risposero loro. Accettiamo ben volentieri. E già qualcuno dei religiosi pregustava il prelibato piatto di “polenta e osèi”. Poi l’appuntamento si interruppe e del signor Pola si perse ogni traccia. Passò del tempo, forse qualche anno, e un bel giorno uno dei frati incontrò casualmente in una via di Borgo, questo signore del quale non si aveva da tempo più notizie. “Voi siete il signor Pola? Chiese il religioso. E lui rispose subito affermativamente. E’ tanto tempo che non ci vediamo, come state? Terminati i consueti convenevoli, il frate, che non si era dimenticato della promessa, le ribadì: “Vi ricordate che una volta quando venivate a pranzo da noi ci avevate promesso che in autunno ci avreste mandato gli uccelli?. Ebbene questi non solo mai arrivati. Ma come intervenne subito lui, davvero non sono mai arrivati?. Certo che no rispose il fraticello. Mi sembra impossibile replica lui. “Eppure io sono sicuro di averveli mandati.” Ricordo che mi trovavo un giorno nel mio vigneto sopra Roncegno quando vidi uno stormo di centinaia di uccelli passare sopra la mia testa. A quel punto gridai loro a squarcia gola: “andate dai frati a Borgo che vi stanno aspettando!”. Quindi, come vede, io ve li avevo mandati. Se poi non sono arrivati non è colpa mia”. (M.P.)
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Accadde in Valsugana di Francesco Zadra
Il mistero dei
laghi scomparsi L
a Valsugana, a discapito dell’etimologia che la vorrebbe “asciutta”, è famosa per i laghi sulle cui sponde si riversano annualmente sciami di giovani in cerca di refrigerio. Per non parlare dei villeggianti nordeuropei che, abbarbicati sulle rive con tanto di sdraio e sandali (rigorosamente calzino-muniti), sfidano l’afa estiva per portarsi a casa l’immancabile tintarella, oltre a qualche scottatura. Quello che è forse ignoto ai più, è che fino a due secoli or sono, quando la parola “turismo” non compariva nemmeno sui vocabolari, la nostra valle poteva offrire agli ipotetici vacanzieri, perlopiù castori e anatre, altri due specchi d’acqua di discrete dimensioni. Tra gli abitati di Marter e Roncegno, dove ora troviamo la bucolica località “Lagomorto”, pit-stop di greggi in transumanza e ciclisti accaldati, si estendeva con i suoi 25 acri l’omonima palude.
I laghi di Novaledo e Marter sull'Atlas Tyrolensis
Operaie della torbiera di Novaledo
Le antiche cartografie riportano anche l’esistenza di un corpo lacustre denominato “Lago dei Masi”, ben 15 ettari, situato nel territorio dell’attuale comune di Novaledo, “masaroi” è infatti il soprannome degli abitanti del luogo. L’acquitrigno, oltre a non permettere lo sfruttamento agricolo del territorio, era anche focolaio di numerose malattie: le zanzare, portatrici del morbo malarico, vivevano e prosperavano tra le sue sponde. Venne poi prosciugato nel 1818, nel corso di una massiccia campagna di bonifiche palustri che interessò l’intero ambito territoriale (vedasi anche le bonifiche in zona “Lochere di Caldonazzo” e “quartier Grande” a Levico), mediante la rimozione dell’antica chiusa in legno ubicata a sud dell’in-
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Accadde in Valsugana
Scene di vita agreste attorno al lago morto, Pietro Marchioretto, 1796
fiume Brenta tramite la costruzione di argini in muratura. Ciò permise, nei terreni bonificati, la scoperta di un vero e proprio giacimento di torba, sostanza infiammabile valido sostituto del sempre più scarseggiante carbone, specialmente in tempo di guerra. Il ritrovamento fece la fortuna di Ermanno Pasqua-
Si ringraziano tutti coloro che hanno messo a disposizione fonti storiche e testimonianze utili alla stesura dell’articolo, in primis i sig.ri Mario Pacher, Alex Paccher e Damiano Oberosler. Last but not least: l’amministrazione comunale di Novaledo nella persona dell’ass. Emanuele Paccher
Come eravamo
sediamento antropico, provocando collateralmente un cambiamento del microclima locale. Per quanto riguarda il “Lago morto”, si può considerare “deceduto”, qualche anno prima, per cause naturali. Ma le bonifiche in valle non finiscono qui: negli anni ‘30 il regime fascista dispose l’incanalamento del
lini, imprenditore tesino che, con la neocostituita ditta “Torbiere della Valsugana”, si occupò di estrarre e commercializzare il prodotto, dando lavoro, fino al termine del conflitto mondiale, a una sessantina di donne della valle. La prossima volta che passerete per le campagne valsuganotte in sella alle vostre fidate MTB, ascoltate con attenzione: tra lo scrosciante mormorio della Brenta e il cinguettio degli usignoli potreste udire l’eco degli antichi canti operai.
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Storie di casa nostra di Mario Pola
233 anni alla macina: siamo nati MOLINARI Era il 1788 quando un Agostini di Caldonazzo comperò un terreno di proprietà dei conti Trapp per costruire un Mulino. Non conosciamo il suo nome, anche perché ricorda Cesare, il suo attuale discendente, né lui né i due testimoni sapevano scrivere e siglarono l’atto di compravendita con le sole iniziali. Il nostro illustre, ma sconosciuto Agostini, sapeva con chiarezza di voler fare il mugnaio ma non sospettava lontanamente che con quella iniziativa avrebbe avviato un’attività che dopo 233 anni ancora sopravvive in via Caorso a Caldonazzo.
È
difficile ricostruire puntualmente la storia del mulino e dei mugnai anche perché non sempre gli archivi parrocchiali e comunali sono precisi specie nel diciottesimo secolo, ma la memoria di Cesare, 83 anni attuale mugnaio anziano, confortata dai documenti di famiglia, ci ricorda l’albero genealogico con Valentino Agostini, il suo trisnonno vivente ai tempi del trattato di Vienna, seguito dal bisnonno Giuseppe, poi nonno Cesare nel 1878, che ebbe 8 figli e fra loro, nel 1908, Bruno, il padre di Cesare nato nel 1937 e avviato alla professione a soli 13 anni. Al suo fianco lavorano oggi le figlie Serena e Simonetta e il nipote Michele di 22 anni che, dice nonno Cesare “ sta per prendere la patente per guidare i camion.” Non si tratta di un vezzo ma di lavoro perché buona parte dell’attività, oltre alla macinazione, consiste nel raccogliere dai produttori il frumento e il granoturco e poi consegnare il prodotto finito. Beppi Toller, pure nato nel 1937, ricorda ancora quando, negli anni 50 del Novecento, il mugnaio Bruno girava i masi della valle alla ricerca della materia prima. “Aveva un cavallo baio, ricorda Beppi, ed attaccato il carro con le prime molle a balestra.” Personalmente ricordo il mugnaio Bruno, con il suo abbigliamento tutto cosparso
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di farina bianca, che passava di casa in casa, offrendo la sua attività raccogliendo del grano da macinare, sia frumento che granoturco, da cui si otteneva la farina gialla, materia prima per fare la nostra quotidiana polenta di mezzogiorno. A tal proposito si ricordano i tempi poveri di allora con le colture dei campi indirizzate soprattutto a prodotti che poi venivano consumati nelle famiglie. Per questo il giro di raccolta non era ristretto. E poi c’era la concorrenza, in particolare dei mulini della frazione Costa, sotto il col di Tenna, là dove dal lago nasce la Brenta la cui acqua muoveva la ruota della macina, facendo lavorare almeno quattro mugnai della famiglia Marchesoni. Il più noto era nonno Daniele e per questo i suoi familiari erano chiamati i danieloti. Erano i tempi in cui le pale del mulino giravano grazie all’acqua. Chi non ricorda il rumore dell’acqua della roggia proveniente dalla lontana Casa Prati sulla strada per Centa San Nicolò. Ebbene tale roggia, dopo aver percorso un breve tratto, era utilizzata in primis dalla segheria dei fratelli Guido e Remo Curzel e poi successivamente dall’officina dei
Cesare Agostini
maniscalchi fratelli Angelo e Massimiliano Rizzi di Vattaro. Dopo un percorso, poco meno di un chilometro, la roggia raggiungeva il mulino Agostini cui la forza dell’acqua incanalata arrivava alla grande ruota del mulino che con la sua forza riusciva a muovere tutto l’apparato addetto alla macinazione del grano. Quando si entrava nel mulino era consueto sentire il frastuono del movimento delle macine e la voce era
Storie di casa nostra
Da sinistra Cesare,Simonetta, Serena e Daniele
Come eravamo
soffocata, per cui non era possibile essere ascoltati se non dopo essere usciti dal portoncino del mulino stesso. Ad energia elettrica naturalmente funziona oggi il mulino Agostini. “Purtroppo, dice Cesare, con l’irrigazione dei campi una parte dell’acqua che
dal fiume Centa portavamo al mulino con l’apposito canale, ci venne a mancare. La portata non era più costante e diventava difficile da regolare. Il mulino ha bisogno di regolarità, di velocità costante: il prodotto finito non deve essere né troppo grezzo, né troppo sottile. Giusto per ogni tipo di consumo”. Con il tempo, come abbiamo già accennato, anche trovare la materia prima era diventato difficile. Cambiavano le coltivazioni nella piana di Caldonazzo, dal granoturco, alle patate, e poi le albicocche, infine le mele di ottima qualità per le quali la zona è oggi famosa. Ma per sopravvivere i mugnai del mulino Agostini, prima Bruno e poi Cesare, dovettero ampliare il giro nelle valli vicine. La valle di Fiemme, quella di Fassa, la valle dei Mocheni.” Sessantacinque anni a girare di valle in valle per raccogliere o consegnare il prodotto, dice Cesare,
con quattro camion e il timore che tutto finisse”. In realtà il settore, come tanti altri attraversa qualche difficoltà. Cesare ricorda come solo vent’anni fa alla festa di Santa Caterina, protettrice dei mugnai, celebrata il 25 novembre di ogni anno, partecipavano 25-30 colleghi. Oggi il mulino Agostini è rimasto fra i pochi, bastano le dita della mano per elencarli, a carattere artigianale del Trentino. Il lavoro non manca e riprendendo un’antica tradizione viene macinato il granoturco della qualità Spin la cui coltivazione è ripresa in particolare in Bassa Valsugana. E’ nato recentemente un Consorzio che interessa anche Caldonazzo ed ha sede a Borgo Valsugana. Il mulino Agostini ha diversificato la propria attività producendo farine alimentari per animali da cortile e domestici. “Noi resistiamo, dice Cesare, e guardiamo al futuro. Siamo nati molinari”.
Borgo Valsugana - Piazza Degasperi
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Tra storia e leggende di Andrea Casna
Le streghe in Trentino Sfogliando l’indice del libro Le mille leggende del Trentino, di Mauro Neri, (edito da Athesa) ci si accorge subito che le leggende sulle streghe non mancano. E anche la Valsugana ha il suo bel compendio di storie sulle streghe. Per fare qualche esempio possiamo citare le streghe di Castel Ivano, le streghe dell’Ilda di Roncegno, il sabba delle streghe di Civezzano, la bambina abbandonata dalle streghe a Levico, la strega di Mago Refatti di Viarago. E così in tutte le vallate del Trentino.
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ueste leggende hanno un piccolo fondo di verità. E questa verità va trovata nei processi per stregoneria che, fra Cinquecento e Settecento, hanno in un certo senso condizionato la vita di molte comunità rurali. Ma chi erano queste streghe? Andando al nocciolo della questione, a livello generale, erano donne che sapevano curare le persone con le piante medicinali o
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che aiutavano le donne incinte a partorire. In poche parole in una società agricola e contadina, erano coloro che detenevano “il sapere” delle cose naturali. E “il sapere”, come spesso accade, è molto scomodo, soprattutto se questo è nelle mani, in una società patriarcale, delle donne. Inizialmente, con la diffusione del cristianesimo, erano considerate streghe quelle donne dedite alla pratica
di culti pagani. Solo in un secondo momento si iniziò a collegare la stregoneria al Diavolo e a tutte le forze demoniache. Quelle accusate di stregoneria erano anche donne comuni che, a causa della superstizione, erano sospettate di possedere chissà quali poteri. Potevano essere donne troppo libertine, o che esprimevano le proprie opinioni. Oppure donne dedite all’amore saffi-
Tra storia e leggende
co e anche quelle povere e malconce prive di fissa dimora. Di fatto, i processi per stregoneria furono, secondo molti storici, un modo semplice e veloce per eliminare dalla circolazione le persone scomode. Nella cultura moderna la credenza popolare nelle streghe si basa su un solo concetto: il patto con il Diavolo. È grazie al Diavolo che le streghe possono volare su una scopa, tramutatasi in un gatto, fare pozioni o scatenare una tempesta o un’epidemia. Le streghe potevano causare la muffa sui cibi, le carestie, malattie o la morte improvvisa e apparentatemene inspiegabile di un bambino. Alla base della stregoneria, comunque, doveva esserci un patto con il Diavolo. E in Trentino furono molte le donne accusate di aver stretto un patto col Diavolo. Il primo processo ebbe luogo a Cavalese nel 1505. Sette donne
furono accusate di stregoneria e sotto tortura confessarono di aver avuto rapporti sessuali con il Diavolo, di aver sacrificato bambini e di aver fatto magie sul tempo e sui raccolti. Al termine del processo quattro donne furono arse vive. Durante il processo altre otto sfortunate furono accusate: due morirono in carcere e le altre sei sul rogo. Nel 1627, in Val di Fassa, furono arrestate alcune persone sospettate di stregoneria. Il processo durò quattro anni. Furono quattro e interminabili anni segnati da torture spaventose e dolorose: tre donne morirono in carcere, cinque donne e un uomo decapitati e bruciati, un donna e un ragazzo mandati in esilio. Fra il 1612 e il 1615 anche la Val di Non conobbe la mano pesante dell’inquisizione. Il parroco di San Zeno, preoccupato per alcune storie che raccontavano di streghe e stregoni nella valle, avviò una caccia alle streghe che si concluse con sette donne arse vive sul rogo e una donna morta in carcere. A perire sotto il martello dell’Inquisizione vi fu anche il nobile di Romeno Leonardo Perizzali
Promuovere crescita è stato il volano del nostro 2020. Siamo felici di affermare la riuscita del nostro intento.
mandato al rogo nel 1615. Anche le strade della Vallagarina si tinsero di rosso con il sangue di povere donne. Nel 1647 a Nogaredo, dopo un lungo processo durato un anno, la pena di morte arrivò per Domenica Chemella, per sua figlia e per altre tre donne. Per due donne morte in carcere fu decretata la dannazione del nome e la confisca dei beni. La scia di sangue si concluse nei primi anni del Settecento. L’ultima accusata di stregoneria fu Maria Bertoletti, detta Toldina di Pilcante. Nel 1715 fu imprigionata nel castello di Avio per poi essere processata a Brentonico. Fu accusata di maleficio, sacrilegio, infanticidio, idolatria, apostasia, sodomia, avvelenamenti e di aver avuto rapporti sessuali con il demonio. Fu condannata alla decapitazione e poi al rogo. Le cose iniziarono a cambiare solo a metà Settecento. L’imperatrice Maria Teresa d’Austria introdusse una norma secondo la quale nessuna sentenza per stregoneria poteva venire emessa senza l’approvazione del governo. L’ultima esecuzione per stregoneria vi fu ne 1750 a Salisburgo: in questo caso la strega era una ragazzina di sedici anni accusata di muovere oggetti, spalancare le porte e di produrre rumori strani. Sarà l’imperatore Giuseppe II, figlio di Maria Teresa, nel 1787 ad eliminare tutte le leggi contro le streghe.
Un team determinato che guarda al
futuro
Auguriamo a tutti di iniziare questo 2021 con ottimismo e un sorriso STAMPATO in viso!
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Storie italiane
Vespa
di Chiara Paoli
75 anni di...
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a mitica Vespa compie 75 anni. Questo scooter, simbolo del made in Italy, nasce infatti il 23 aprile del 1946, giorno in cui la Piaggio & C. S.p.A. deposita ufficialmente il primo brevetto della Vespa presso l’Ufficio centrale dei brevetti per invenzioni, modelli e marche del Ministero dell’Industria e del Commercio di Firenze con la dicitura: “motocicletta a complesso razionale di organi ed elementi con telaio combinato con parafanghi e cofano ricoprenti tutta la parte meccanica”. L’intuizione di Enrico Piaggio fu quella di affidare il progetto a qualcuno che avrebbe potuto ideare qualcosa di veramente innovativo, scelse perciò Corradino D’Ascanio, ingegnere aeronautico che non sopportava le motociclette. E proprio perché il progettista odiava l’idea di scavalcare la moto per poterci salire sopra, diede vita alla prima moto a scocca portante, spogliata della struttura tubolare in acciaio e quindi priva di tunnel centrale. L’ingegnere D’Ascanio pensa alla praticità di questo mezzo, dotandolo si una pratica seduta, per affaticare il meno possibile la guida, spostando il cambio sul manubrio e coprendo il motore con il telaio per evitare le macchie sui pantaloni causate dalle inevitabili perdite d’olio. Al pacchetto aggiunse poi una sospensione davanti, un motore sviluppato partendo da quelli di avviamento aeronautici e una assai utile ruota di scorta. Pare che il nome sia stato dato al prototipo proprio da Enrico Piaggio , che vedendola avrebbe esclamato: «sembra una vespa !», per via della silhouette della moto e del suo rumore ronzante. Questo nome e il modello divengono ben presto un’icona nel mondo delle due ruote.
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Già un mese prima il veicolo aveva fatto il suo debutto alla Mostra della Meccanica e Metallurgia di Torino dove ottenne un immediato successo. Venne poi fatta conoscere nelle principali città italiane grazie all’inserimento di appositi annunci pubblicitari sui principali quotidiani. La presentazione ufficiale fu fatta al Circolo del Golf di Roma, alla presenza del generale americano Stone e il tutto venne ripreso dal cinegiornale Movieton. La Vespa compare in copertina sulla rivista La Moto del 15 aprile 1946 e viene proposta nelle pagine interne di Motor, mentre motore e scossa vengono “toccati con mano” dagli appassionati alla successiva Fiera di Milano. Gli inizi ebbero anche qualche difficoltà, che però venne presto appianata, sfornando un numero sempre maggiore di esemplari all’anno; la Vespa fu il mezzo di trasporto che diede il primo impulso alla motorizzazione
di massa nel nostro paese, grazie soprattutto alla possibilità di pagamento a rate, che consentiva di affrontare il prezzo, che corrispondeva a diversi mesi di paga di un impiegato. I modelli di questo scooter si sono moltiplicati nel tempo con varie motorizzazioni, pur mantenendo inalterate quelle caratteristiche distintive che ne hanno fatto un prodotto d’eccellenza. Dopo solo tre anni dalla messa in commercio, nasce il 23 ottobre 1949, il primo Vespa Club a Viareggio, nel 1951 si radunano oltre ventimila Vespisti per la Giornata italiana della Vespa, due anni dopo nel mondo sono oltre diecimila le stazioni Piaggio. Mentre la produzione di scooter Piaggio si diffonde nel mondo, si iniziano a contare anche le imitazioni come la Lambretta della Innocenti, nata appena un anno dopo e fuori produzione dal 1971 e la Vjatka 150 cc, prodotta in Russia. Vespa si distingue poi per la possibilità di personalizzare il proprio
Vespa Primavera 125 (da Wikipedia.com)
Storie italiane veicolo con numerosi accessori, per renderlo originale e unico. Un successo alimentato anche dal grande schermo, memorabile il giro in Vespa di Audrey Hepburn con Gregory Peck nel celebre film Vacanze Romane del 1953 a cui seguono molte altre pellicole cinematografiche fino al 1958. La Vespa rimane un oggetto di culto che ha trovato posto anche nei musei di design, di arte moderna, in quelli della scienza e della tecnica, oltre a quelli più prettamente legati ai mezzi di trasporto in tutto il mondo. Lo scooter Piaggio fa inoltre parte della collezione permanente della Triennale Design Museum di Milano e del MoMA di New York. Questo nome si lega ancora oggi al modello originale, che viene riproposto in versioni sempre aggiornate, mantenendo viva la passione per la due ruote. Anche nella
nostra provincia vi sono diversi Vespa Club che ogni anno con la bella stagione trovano occasioni di ritrovo per sfilare lungo le strade, suscitando l’ammirazione Vespa 1959 (da Wikipedia.com) di tutti e rievocantezza e come dare torto a Cesare Credo numerosi ricordi nei più maturi monini quando cantava “ma quanto è osservatori. La Vespa, come le moto in bello andare in giro con le ali sotto ai generale sono il mezzo prediletto nei piedi, se hai una Vespa Special che ti mesi più caldi, simbolo di spensieratoglie i problemi”.
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Personaggi dei nostri tempi di Sabrina Chababi
Dall’India alla ricerca della felicità Jaggi Vasudev (Sadhguru) è un mistico e yogi indiano di 63 anni, autore di molti best seller e articoli per il New York Times, i cui insegnamenti trovano sempre maggiore ascolto in questi tempi di pandemia. Ma cosa insegna?
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iamo a Milano, una metropoli di un milione e mezzo di abitanti, sede della Borsa italiana, capitale della moda, e nel periodo della pandemia, triste capitale del Covid, ma proprio in questa crisi, anche centro di nuovi sentimenti, di sensazioni vibranti e calde, di voglia di ricerca di pace ed equità, ma soprattutto di felicità. La felicità è un bene che per molti si raggiunge solo quando si arriva al traguardo della personale idea di successo. A volte basterebbe pensare all’ IO’ bambino, che era sempre felice o che trovava quello spazio di felicità anche in momenti di infanzia brutti o difficili. La felicità è un sentimento naturale sin da bambini che muta con l’arrivo dell’età adulta e della continua ricerca del possesso dei beni materiali. Se imparassimo a riflettere e ad esaminare le nostre sensazioni ed emozioni invece che pensare subito a come superarli ecco, finalmente potremmo capire molte cose e con la conoscenza e la comprensione si possono trovare le soluzioni e far si che il nostro “stato” migliori e potranno presentarsi altre grandi possibilità di felicità. Questa è una riflessione che ciascuno di noi ha fatto e per questo sappiamo quanto sia difficile applicare alla vita reale un concetto tanto semplice quanto elevato e difficile da raggiungere. Spesso ci aiuta la Fede, altre volte l’incontro con altre persone, ma in tutti i casi è importante
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“DI UN MONDO PIENO D’AMORE, LUCE E RISATE, È ARRIVATO IL SUO MOMENTO. FACCIAMOLO ACCADERE”
Sadhguru
rito anche molte star internazionali . E’ stato premiato Padma Vibhushan per il suo contributo riguardo alla spiritualità, una concezione della vita mai così sentita come in questi tempi di pandemia. Tijana è stata sua allieva. Ha intrapreso nel 2014 lo studio di questa filosofia sia fisica che spirituale chiamata Isha Hatha Yoga. Dopo aver seguito molti video, grazie ai consigli di amici, è andata in India alla scuola di SADHGURU e ha cominciato sin dalla prima lezione di Yoga ad appassionarsi ed innamorarsi sempre di più di questa disciplina. Tajana ci accoglie con simpatia e semplicità. “ I benefici, ci dice, li ho sentiti subito, non solo quelli fisici scoprendo il corpo migliore, più
Sadhguru Jaggi Vasudev
avere modelli e guide. Una di queste potrebbe essere Tijana Stupar, una giovane donna, che vive a Milano, insegnante di Isha Hatha Yoga . Nata in Serbia ma cittadina del mondo ed amante dell’Italia è stata allieva di Sadhuguru, al secolo Jaggi Vasudev, un mistico e yogi indiano, che è famoso per la sua pratica di yoga e per i suoi insegnamenti di spiritualità e di vita. Oltre ad avere 7 milioni di seguaci ha fondato un’associazione no-profit per la pratica dello yoga, a cui hanno ade-
Tijana Stupar
Personaggi dei nostri tempi tonico e forte ma specialmente quelli mentali. Ho cominciato a sentirmi una persona migliore, più calma, più felice e riflessiva e non attaccata, agli stress della vita quotidiana. Tutto questo, avverte, senza danneggiare nè la mente, nè la salute”. Tutta questa energia l’ha portata ad affrontare altri viaggi in India, a studiare, imparare fino a ricevere l’attestato di insegnate che lei desiderava sin dalla prima lezione. Nel 2018 tornata in Serbia e diventata l’unica insegnante di Isha Hatha Yoga e traduttrice della disciplina. Croazia, Montenegro, Macedonia e Italia sono i Paesi dove pratica la sua idea di cambiare il mondo con la mentalità di far pensare alle persone al bene e alla serenità non solo personale ma anche di tutti inclusa la natura ed ogni essere vivente. “ Sadguru è la mia ispirazione, racconta, e quando
Tijana Stupar
mi sento triste o male fisicamente ascolto le sue parole e rinasce subito la voglia di vivere la serenità. Purtroppo non esiste insegnamento a di-
stanza, come sarebbe auspicabile in questi tristi tempi: lo Isha Hatha Yoga è un processo che si deve vivere visibilmente e con una persona che ti parla di fronte non attraverso uno schermo per darti le sue emozioni e le sue energie. La storia di Tijana però non solo legata allo Yoga anzi è molto lunga e a fasi diverse. Infatti, si è laureata con ottimi voti in giurisprudenza ed è anche avvocato e per mantenersi gli studi ha fatto una brillante carriera da modella a Milano: una donna quindi che oltre alla bellezza ha un cervello ed un grande talento.
STORIE DI CASA NOSTRA
Il Cria-ore CALDONAZZO - Nell’immediato primo dopoguerra il Comune di Caldonazzo assunse come “guardia notturna" Giovanni Dalprà, che in paese lo chiamavano il "Cria-ore" per quel suo mestiere di urlare tutte le ore della notte. Alle 8 di sera, ci ha raccontato la maestra Agnese Agostini,lui usciva di casa e percorreva tutte le strade del paese, più e più volte, fino all’albeggiare. Scopo principale del Dalprà, era quello di un controllo immediato sulla reale situazione delle strade, dei vicoletti e delle corti. E’ il caso di ricordare che all’epoca più di adesso c’era il pericolo di incendi, per la presenza di fieno stipato nelle "teze", spesso a ridosso di vecchi camini screpolati. Bastava un surriscaldamento della canna fumaria perché le scintille uscite dal camino incendiassero il fieno e da qui l’incendi0 dei tetti di "scandole" e dei soffitti in legno e maltapaia, dei "baiti" con la legna, dei molti "pontesei" in legno e di tutto il resto.Potevano circolare dei “malintenzionati” che, con il paese immerso in una semi-oscurita per la mancanza di un’adeguata rete di illuminazione avevano vita facile.Il "Cria-ore" si ponava in giro i "ferri" del mestiere che erano: un tamburo a tracolla per segnalare la sua presenza ed una grossa pistola per eventuali necessita di difesa personale. Nella sua solitaria marcia faceva tappa ad intervalli regolari ed urlava le ore: "ore dieci. .. e tutto va bene"! quando in via Roma arrivava davanti alla casa del capo-comune Prati si fermava e lanciava il suo grido: "Niente di nuovo"! lo lanciava più volte, fin quando il primo cittadino spalancava la finestra e gli rispondeva: "Niente di nuovo"! La sua passeggiata notturna poteva essere accettabile durante la bella stagione, ma d’inverno doveva sopportare il freddo. Si racconta che come arrivava a casa infagottato in un lungo mantello militare, gli stivaloni in grosso panno grigio e i baffi interamente coperti di “zizampa", metteva paura, tanto che i bambini scappavano terrorizzati. (M.P.)
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Lotta tra titani di Nicola Maschio
Gates e Microsoft, Jobs e Apple
DUE COLOSSI A CONFRONTO
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uella tra Bill Gates e Steve Jobs, o meglio tra Microsoft e Apple, è stata una delle rivalità più intense e durature nella storia dell’umanità. In realtà, nonostante la prematura scomparsa di Jobs (il 5 ottobre 2011 perse purtroppo la battaglia contro una lunga malattia al pancreas), ancora oggi i due colossi si combattono sul mercato a colpi di novità. Da più di quarant’anni Microsoft ed Apple dominano il mondo della tecnologia moderna. Da una parte Gates, il fondatore di Microsoft, l’uomo dedito puramente al mondo dell’informatica; dall’altra invece Jobs, che ha sempre avuto un tocco di stile in più, tanto nella persona (Gates ha sempre ammirato ed invidiato la sua capacità nell’affascinare il proprio pubblico) quanto nei prodotti realizzati. Se il primo infatti ha sempre ricevuto lodi per la potenza e l’innovazione dei propri computer, il secondo ha saputo stregare il mercato con realizzazioni ricercate e curate nei minimi dettagli. “Non sono un predicatore – ha recentemente ammesso lo stesso Gates in un’intervista al Wall Street Journal, soprattutto dopo che Netflix ha deciso di dedicargli una serie tv sull’ormai celebre portale cinematografico. - Ma posso dire di aver imparato a parlare in pubblico, risolvendo questo problema negli anni”. Ma andiamo con ordine. Partiamo proprio da Gates, ad oggi uno degli uomini più ricchi del mondo. Nato nel 1955 a Seattle (Washington), ha fondato con il collega Paul Allen la più grande azienda di software del pianeta, la Microsoft. All’età di 31
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Bill Gates
Steve Jobs
anni, Gates è diventato milionario. Conosciuto Allen poco prima di compiere quindici anni, è proprio a questa età che i due decidono di mettersi in affari insieme, sviluppando Traf-o-Data, un primo programma per il monitoraggio del traffico a Seattle. È l’aprile del 1975 quando si convincono a fondare Microsoft, azienda di micro-computer e software della quale Gates diventerà il “numero uno” alla precoce età di 23 anni. Allen, dal canto suo, si ritirerà dagli affari nel successivo 1983, mentre Gates deciderà di dimettersi dal ruolo di presidente nel 2014, concentrandosi sul campo della beneficenza insieme alla moglie Melinda. E Steve Jobs invece? Se oggi gli smartphone e la tecnologia in generale sono quello che sono, lo si deve (anche) a lui. E ci sono dei tratti di questa storia che sono veramente incredibili: si pensi all’anno di nascita, il 1955, proprio come il rivale Gates. Oppure la fondazione di Apple, la sua creatura, nell’aprile del 1976: stesso mese,
ma un anno dopo, rispetto al genio di Seattle. Jobs ha dato un apporto storico alla tecnologia: nel 1984 lancia Macintosh, primo computer controllato con quell’apparecchio all’epoca strano che oggi chiamiamo “mouse”. Ma qui la vicenda si fa interessante: solo un anno dopo, Jobs è costretto dalla stessa Apple a licenziarsi. Fonda così NeXT, per produrre computer all’avanguardia, poi la celebre Pixar e, infine, è la stessa Apple ad acquistare NeXT nel 1996, permettendo a Jobs di accasarsi nuovamente presso la “sua” azienda. Il resto è storia: nel 2001 presenta l’iPod, il lettore portatile di musica, nel 2007 l’iPhone ed infine anche l’iPad e i tablet. La fine per lui sopraggiunge però con largo anticipo, nel 2011. Ma di Gates e Jobs rimangono due frasi su tutte, che pure si incastrano tra loro. “Se oggi vado a letto non avendo fatto niente di nuovo rispetto a ieri, allora oggi è stato sprecato” ha affermato il primo, mentre il secondo ha chiuso il cerchio con il celebre “Siate affamati, siate folli”.
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La Natura in cronaca di Chiara Paoli
La Giornata mondiale della
terra
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l 22 aprile si celebra la giornata mondiale della Terra o Earth Day, evento che ha avuto origine grazie alla personalità di John McConnell, attivista per la pace e appassionato di ecologia, che nell’ottobre del 1969 propose durante la conferenza Unesco di San Francisco una ricorrenza per celebrare la vita e la bellezza della Terra. In realtà un forte stimolo è stato dato già nel 1962 dalla biologa Rachel Carson, con il suo libro intitolato “Primavera silenziosa”, che scagliandosi contro l’uso spropositato di fitofarmaci e insetticidi, può essere considerato il primo manifesto del movimento ambientalista. Il primo festeggiamento risale al 21 marzo 1970 ed è limitato a quella grande città d’oltre oceano, ma un punto d’inizio fondamentale, perché in quell’occasione viene stilato un documento che mette in luce le nostre responsabilità verso il pianeta, sottoscritto da 36 leader mondiali,
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«Più riusciamo a focalizzare la nostra attenzione sulle meraviglie e le realtà dell’universo attorno a noi, meno dovremmo trovare gusto nel distruggerlo.»
tra cui il Segretario generale delle Nazioni Unite. Il mese seguente, il senatore degli Stati Uniti, Gaylord Nelson istituisce ufficialmente la “Giornata della Terra – Earth Day”, inizialmente ideata come manifestazione ecologista americana, ma mutata successivamente da Denis Hayes, primo coordinatore dell’Earth Day in una commemorazione internazionale, rendendo partecipi più di 180 stati. Era l’inizio di una nuova consapevolezza, nel 1969 un evento aveva “aperto gli occhi” a molte persone, rendendoli consapevoli dei rischi dello sviluppo industriale. In California e per l’esattezza a Santa Barbara, una perdita di petrolio greggio aveva causato la morte di migliaia di animali tra volatili ed esemplari marini. Una forte scossa non soltanto per gli attivisti, ma anche per l’opinione pubblica. Le prime ricorrenze vennero celebrate soprattutto grazie al sistema
Rachel Carson
scolastico, con la partecipazione di college e università, a cui si aggiungono migliaia di scuole primarie e secondarie e svariate comunità degli Stati Uniti. Il salto si ebbe nel 1990, anno in cui la manifestazione mobilitò ben 200 milioni di persone in 141 paesi, portando alla ribalta le questioni ambientali e la cultura del riciclo a livello planetario; e preparando così la strada al Summit della Terra programmato dalle Nazioni Unite per il 1992 a Rio de Janeiro. Inizialmente l’evento era decennale, ma dopo le manifestazioni del 1990 Nelson e Bruce Anderson, principali organizzatori, hanno fondato il comitato Earth Day USA, mutato nel 1995 nell’ Earth Day Network. Nel 2000 per la prima volta viene utilizzato internet come strumento organizzativo, consentendo di
La Natura in cronaca Villaggio della Terra (Roma)
raggiungere 5.000 gruppi ambientali al di fuori degli U.S.A., centinaia di milioni di persone e 183 paesi. Ospite d’eccezione dell’evento Leonardo DiCaprio, attorno al quale si radunarono circa 400.000 persone, nonostante la giornata fredda e piovosa. La Giornata mondiale della Terra, si è trasformata in una settimana di sensibilizzazione. Earth Day Italia viene annoverato tra i migliori comitati organizzativi, tanto che nel 2015 è divenuta sede europea del network
internazionale. Di importanza fondamentale l’edizione 2016 dell’Earth Day Italia, grazie alla visita a sorpresa di Papa Francesco con il suo importante messaggio: “Voi trasformate deserti in foreste”; e per il collegamento in live streaming con il Ministro Galletti da New York, in occasione della firma del primo accordo universale sul cambiamento climatico. Ogni anno la capitale ed in particolare Villa Borghese, si trasforma per una settimana nel Villaggio per la Terra, luogo di eventi, laboratori, mostre, convegni, giochi, spettacoli e concerti volti alla sensibilizzazione. Il 2020 è stato un anno particolare, che non ha consentito di celebrare a dovere il 50 anniversario di questo appuntamento, la Giornata Mondiale
della Terra si è comunque adattata alla situazione di pandemia, ritrovandosi per una maratona online dal titolo #OnePeopleOnePlanet. Questa ricorrenza ci aiuta a tenere ben a mente quali sono le difficoltà che il nostro pianeta deve affrontare: l’inquinamento in primis, la distruzione degli ecosistemi, l’estinzione di specie vegetali e animali e il progressivo esaurirsi delle risorse non rinnovabili quali carbone, petrolio e gas naturali. “Tutti, a prescindere dall’etnia, dal sesso, da quanto guadagnino o in che parte del mondo vivano, hanno il diritto etico a un ambiente sano, equilibrato e sostenibile.” Questo è il principio fondamentale su cui si basa questa giornata interamente dedicata alla nostra Madre Terra, che ha bisogno di essere preservata perché ne possano godere anche le generazioni future.
EDICOLANDO: LE NOVITÀ IN LIBRERIA
NEROINCHIOSTRO Dal 13 aprile sarà in distribuzione, nelle librerie e nelle edicole, “Neroinchiostro”, il primo romanzo di Sara Vallefuoco, un interessantissimo mistery storico ambientato in Sardegna nell’estate del 1899. Negli anni in cui il Regno d’Italia andava costruendo una sua identità, in alcune regioni il brigantaggio era una realtà contro cui la legalità e lo Stato faticavano a intervenire. Il libro racconta le vicissitudini di un gruppo di giovani carabinieri provenienti da diverse parti d’Italia, a dimostrare che una legge diversa da quella crudele dei briganti è possibile. Ma quando la popolana Lianora si rivolge a loro per un caso di furto, il vicebrigadiere Ghibaudo scopre qualcosa che cambia totalmente il volto dell’indagine: il cadavere di un collega dell’Arma. I sospetti ricadono su Anania, bracciante di Lianora, ma alcuni indizi spingono Ghibaudo a sospettare che la verità sia più complicata – e scura – di così. E mentre il carabiniere cerca di fare i conti con i sentimenti inconfessabili che si accorge di provare, un assassino prende di mira i poeti al volo, rimatori di strada che girano di paese in paese denunciando i torti subiti dalla loro gente. * Sara Vallefuoco è romana ma vive a Telve Valsugana da quasi vent’anni. È diplomata in pianoforte e laureata in musicologia. Insegna materie letterarie alla Scuola Secondaria di Primo Grado di Strigno.
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L’avvocato risponde di Erica Vicentini*
La responsabilità penale degli enti e delle società
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20 anni dalla sua introduzione, la responsabilità penale delle persone giuridiche costituisce ancora (spesso) un rischio non adeguatamente compreso e calcolato nel mondo del lavoro. Il decreto legislativo n. 231 del 2001 ha introdotto nel nostro ordinamento la possibilità di perseguire penalmente la società (oltre che, ad esempio, la persona-fisica amministratore e/o legale rappresentante) nel caso di reato verificatosi – in via di prima approssimazione – nell’ambito della gestione dell’attività di impresa. Esempio classico è il procedimento
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penale in capo alla società (e non solo ai suoi vertici) in caso di lesioni o morte con violazione della normativa antinfortunistica. Il rischio penale non può essere sottovalutato dalle società: le sanzioni pecuniarie previste dalla legge non solo sono estremamente gravi ma vengono quantificate in misura proporzionale alla capacità economica (leggasi fatturato) della stessa impresa e si affiancano, spesso, a sanzioni c.d. interdittive, come il divieto di contrattare con la Pubblica Amministrazione o la pubblicazione della sentenza sui principali quotidia-
ni nazionali o locali. A ciò va aggiunto che le società non possono accedere, in caso di condanna, a benefici come la sospensione condizionale. Risulta intuibile come un insieme di sanzioni di questo tipo possa condurre una società in una grave situazione di carenza di liquidità se non, nei casi più gravi, al vero e proprio dissesto. Il giudizio di responsabilità penale nei confronti dell’ente trova applicazione nei confronti di tutti i soggetti individuati dall’art. 1 d.lgs. 231 del 2001, che annovera qualunque tipo di società, ente, ente no-profit, associa-
L’avvocato risponde zione o fondazione. La peculiarità del c.d. sistema 231 era emersa già ai tempi della sua entrata in vigore, con il vivace dibattito inerente la natura di tale forma di responsabilità, descritta formalmente come amministrativa, stante il dogma “societas delinquere non potest” ma contigua, in sostanza, al mondo delle garanzie e dei sistemi tipici giudizio penale. Il risultato operativo, corroborato dall’ultima giurisprudenza della Corte di Cassazione, è una forma di responsabilità autonoma e ibrida dal punto di vista teorico che, dal punto di vista pratico, può risultare estremamente afflittiva per la società che non affronta nel modo giusto il procedimento penale. Presupposto per poter valutare la sussistenza di una responsabilità dell’ente è la commissione di un illecito del catalogo dei c.d. reati presupposto contenuto nel d.lgs. n. 231/2001: tale catalogo, negli anni, è stato più volte integrato, al fine di rendere sempre più frequentemente possibile l’indagine di responsabilità in capo alle imprese, ritenute, di regola, più solvibili rispetto alla persona-fisica materialmente autore. Oggi sono stati inclusi molti reati tributari ed è in discussione l’inclusione di molti reati connessi alla contraffazione alimentare. Dal reato l’ente deve aver conseguito un interesse o un vantaggio. L’interesse viene letto come finalizzazione della condotta rispetto ad un beneficio, che manifesta la politica di impresa; il vantaggio va individuato ex post come si sostanzia in un beneficio di tipo economico che l’ente ottiene dalla commissione del reato. Recentemente la giurisprudenza ha avuto modo di specificare i concetti di interesse e vantaggio con riferimento ai reati colposi, in particolare i delitti di omicidio e lesioni con violazione della normativa antinfortunistica. Rispetto a tali fattispecie, è stato considerato vantaggio qualsiasi
agevolazione, aumento di produttività o risparmio di spesa derivante all’ente dalla violazione ovvero mancata osservanza delle regole cautelari nell’esercizio dell’attività lavorativa. L’autore materiale del reato deve risultare incardinato nel sistema aziendale. Laddove il reato sia commesso da un soggetto sottoposto all’altrui direzione, la prova liberatoria per la società dipende dalla corretta operatività al suo interno del c.d. modello di organizzazione e gestione, rispetto al quale il comportamento illecito deve porsi quale condotta del tutto non prevedibile ed eccezionale. Nel caso di reato imputabile al soggetto c.d. apicale, non sottoposto alle direttive di altri, la difesa dell’ente dovrà dimostrare non solo l’efficace implementazione del c.d. Modello organizzativo – gestionale, ma anche l’esistenza di un Organismo di Vigilanza indipendente, dotato di autonomi poteri di sorveglianza, nonché l’elusione fraudolenta dei protocolli contenuti nel modello organizzativo medesimo. La prova richiesta alla società, in sostanza, è tesa alla dimostrazione della totale dissociazione rispetto all’azione od omissione del soggetto “di vertice” e alla conseguente assenza di una colpa nella sua organizzazione, che in tal modo si dimostra astrattamente
idonea a prevenire reati del tipo di quello contestato. Lo strumento più importante che la società può adottare per andare esente da responsabilità penale è quindi il Modello di organizzazione e gestione, che può essere considerato la sintesi dei protocolli, delle regole e delle sanzioni (in caso di inosservanza) vigente all’interno del sistema impresa. L’adozione di tale modello, pur non essendo obbligatoria, non solo permette all’ente un’agevole via d’uscita dal procedimento penale ma, nei casi più gravi, permette quantomeno di assicurare una diminuzione della sanzione che, come esposto, può essere estremamente grave. *L’ Avvocato Erica Vicentini, del Foro di Trento, con Studio in Pergine Valsugana, Via Francesco Petrarca n. 84, si occupa di diritto civile e penale, con predilezione del diritto penale dell’economia e dell’impresa e della materia del sovraindebitamento privato. Ha terminato nel 2020 un Master in diritto penale dell’impresa e dell’economia ed è abilitata Gestore della Crisi da Sovraindebitamento, oltre ad offrire consulenza in materia di privacy-GDPR e contrattualista aziendale. Collabora da anni con editori come Dike Giuridica e la rivista Gazzetta Forense.
Chi desiderasse avere un parere su un problema o tematica giuridica oppure una risposta su un particolare quesito, può indirizzare la richiesta a: direttore@valsugananews.com
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Chiese feltrine in Valsugana di Francesco Zadra
S. Biagio a Levico Terme
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ontano da sguardi indiscreti e immersa tra la vegetazione, svetta, sull’omonimo “ermo colle”, la chiesetta di San Biagio. Quello che un tempo era il luogo di culto principale del paese, meta di assidui pellegrinaggi durante le epidemie, è ora circondato da ruderi di bastioni e cinte murarie inghiottite dal verde. Resti di un antico castelliere con funzione difensiva di fronte alle frequenti invasioni barbariche, location strategica per evitare visitatori indesiderati. Costruita nel XII secolo, quando Levico Terme (come gran parte della Valsugana) cadeva sotto la giurisdizione del vescovado feltrino, la piccola chiesa ad una sola navata con protiro esterno, era inizialmente integrata nella muratura del fu castello come cappella palatina, a dimostrazione di ciò la forma simil-feritoia della finestra che da a valle. Sulle pareti, tra profeti ed evangelisti in stile giottesco, spicca l’anomalo affresco che, gravemente danneggiato, allude all’epopea dei cavalieri templari. In pieno Rinascimento subì un re-
styling con l’aggiunta dell’abside, in cui si nota un evidente “gap generazionale” sia per la vivacità dei colori che per le pose più naturali,”no-filter”, della Vergine rispetto alle ieratiche Madonne Trecentesche ai lati della navata. In tempi in cui il clero possedeva anche il potere temporale, il notaio Barezia, per ingraziarsi i favori della curia apportò alla chiesetta una serie di migliorie a proprie spese. Il vescovo per quindi la elevò al rango di chiesa vescovile, sull’arco santo, infatti, capeggia in bella mostra lo stemma episcopale. E’ curioso notare anche le scritte (XVI sec) con le quali i pellegrini, a mo’ di writers ante litteram, “imbrattavano” le pareti affrescate lasciando traccia del loro passaggio. Un rapporto non propriamente “museale” con l’arte sacra, ma perfettamente comune per l’epoca. Non era raro che la gente si rapportasse in maniera passionale alle sacre immagini: venivano addirittura graffiate con aggressività le raffigurazioni di antagonisti biblici come Giuda Iscariota o leaders del sinedrio
Chiesetta di San Biagio (da Outdoor Active)
Affreschi nella Chiesa di San (da APT ValsuganaBiagio)
ebraico coinvolti nella crocifissione di Cristo. San Biagio fu poi affidata alle cure di una congrega di eremiti, tuttora sepolti nella cripta, fino a fine ‘700, quando si spense l’ultimo dei confratelli lasciando la chiesetta incustodita per secoli. Fino agli anni 2000, quando l’attuale custode, Paolo Gaigher, la prese sotto la sua ala protettrice. Ora, con la sua candida presenza, scruta dall’alto la cittadina termale godendo della compagnia di sporadici escursionisti e qualche timido capriolo, sperando che qualcuno venga a consolare la sua solitudine. Speranza forse non vana, poichè presto potrebbero insediarsi degli “eremiti 2.0”. Nuovi inquilini col pallino dell’agricoltura biologica che, tramite il progetto “Colle San Biagio”, si propongono di valorizzare il sito trasformandolo in fattoria didattica gestita da una cooperativa sociale. Vi abbiamo incuriositi? La chiesetta di San Biagio è aperta al pubblico su prenotazione grazie alla disponibilità del gruppo pensionati di Levico Terme, in particolare il signor Paolo Gaigher. Per visite guidate contattare il numero 340 6267017
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Storie di casa nostra di Nicola Maschio
La pizzeria con il MENÙ... sulle pareti!
È
iniziata come una proposta scherzosa, ma si è trasformata velocemente in un’idea vincente e unica. La pizzeria al taglio Vecchia Signora 2.0 di Verla (nome inoltre non replicato da nessun altro nel nostro Paese e con una sola omonimia in Danimarca) ha ora tutto il proprio menù letteralmente appeso alle pareti. E non si tratta di semplici fogli con scritte e prezzi, a cui siamo abituati quando ci rechiamo in un ristorante, ma di piccole opere d’arte. La matita di Maurizio Menestrina, operatore di Anffas famoso in Trentino per i propri disegni e caricature fumettistiche (in un nostro precedente numero avevamo raccontato la sua storia e quella del “Pesce grazie” realizzato dai bambini con disabilità), ha regalato l’ennesimo colpo di genio. Ora, sui muri della pizzeria cembrana, ogni pizza ha preso vita con un proprio disegno: ortaggi, frutti e composizioni colorate con tanto di nasi e bocche. Un mix di colori e simpatiche realizzazioni artistiche, che rappresentano letteralmente un qual-
Menu della Vecchia Signora 2.0
cosa di unico in tutta Italia e, fino a questo momento, mai nemmeno lontanamente immaginato. «Inizialmente ci è stato consegnato il famoso “Pesce grazie”, poi abbiamo ricevuto il primo quadro personalizzato dopo la seconda visita di Maurizio – hanno spiegato Benedetto e la compagna Letizia, che insieme gestiscono il locale. – Da quel momento in poi l’idea ha cominciato a prendere forma quadro dopo quadro. Maurizio si è dimostrato velocissimo e bravissimo nel realizzare le caricature, tenendoci aggiornati addirittura con gli schizzi che faceva durante le giornate e dedicandocene anche alcune, con i nostri visi. Nel giro di un mesetto abbiamo ricevuto circa una quarantina di quadri che ora sono appesi alle nostre pareti. Danno quel tocco di unicità e particolarità alla nostra attività, e siamo fieri del fatto che nessuno altro, ad oggi, ha utilizzato questa iniziativa per “descrivere” il proprio menù». Insomma, un’idea rivoluzionaria che chissà non possa essere presa come spunto anche da altre pizzerie
Benedetto e Letizia
o ristoranti. Al momento infatti, spiega Benedetto, nella Vecchia Signora 2.0 non ci sono tavoli o spazi per sedersi e consumare sul posto: tuttavia, prosegue il titolare, non è esclusa in futuro la possibilità di ampliare questa tipologia di servizio. E quale passatempo migliore mentre si aspetta la propria pizza, prosegue lo stesso Benedetto, se non quello di andarsi a vedere i quadri appesi alle pareti? O addirittura, perché no, scegliere la pizza ordinandola direttamente dal muro? «Ci siamo detti “Si, facciamolo!” - hanno concluso Benedetto e Letizia con entusiasmo. - Ed effettivamente si è rivelata un’ottima idea. Anche per le persone che, prima della zona rossa, sono venute a trovarci: fissavano le pareti con curiosità, è stato bello vedere come l’iniziativa abbia riscosso un grande successo. Inoltre per noi, che abbiamo avuto il coraggio di aprire in piena pandemia, lo scorso 23 ottobre 2020, si è trattato di un modo per affrontare al meglio questo periodo difficile».
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Medicina & Salure di Erica Zanghellini
La perfezione
ESISTE?
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el mondo d’oggi sembra che per essere adeguati dobbiamo essere sempre al top. Rincorrere sempre e ovunque la perfezione: deve essere tutto al posto giusto, comportarsi e agire sempre al meglio in assoluto, e non importa a che costo. Anche se guardiamo le foto postate sui social, devono rappresentare il momento più divertente, la compagnia migliore, la posa giusta. E’ come se non tollerassimo o comunque fosse vietato mostrare i normali comportamenti o situazioni della vita, per non parlare dei propri punti di fragilità, quelli devono essere nascosti ad ogni costo. Ma la perfezione esiste? Logicamente la risposta è no. Il problema è che questa tendenza si può far spazio in noi già da giovanissimi e quindi avere un impatto negativo rischioso per la nostra qualità della vita. Le persone perfezioniste si auto-valutano positivamente solo quando riescono a raggiungere standard elevati nelle loro attività, qualsiasi esse siano. La loro cartina torna sole rispetto l’essere adeguati o meno è legata solo ed esclusivamente alla performance. La difficoltà nasce dalla paura di fallire, che li porterà a continui controlli su come sta andando la loro prestazione, oppure a procrastinare per paura di non farcela o non essere soddisfatti di quello che si è prodotto. Per non parlare della paura dei giudizi negativi, altro fattore predisponente a questo tipo di problematicità. Nei casi in cui l’ansia conseguente a questa situazione sarà particolarmente intensa troveremo l’evitamento della circostanza temuta. Logicamente il fatto che non esista la perfezione non vuol dire che non ci si debba impegnare per migliorare sempre di più, ma significa che bisogna essere realistici. Diciamo che il proprio atteggiamento e comportamento non deve essere legato al dover essere in quel modo assoluto ma, il voler fare quella cosa impegnandosi al massimo delle proprie capacità. Questo cambio di prospettiva è importante, anche perché alimenta la soddisfazione interna nel fare le cose, purtroppo però non è sempre così facile. Se non raggiungiamo gli standard, cosa che per i perfezionisti è sovente, visto le loro aspettative altissime non bisogna cadere in un baratro. Il problema è la mancanza di consapevolezza, molte volte infatti la persona ha un’altra percezione. Non si vede al centro di un circolo vizioso negativo, non riesce oggettivamente a dire che quello che causa il suo malessere è il perfezionismo. Per lui il suo modo di compor-
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Medicina & Salure tarsi non alimenta nessun malessere. Se poi nell’ambiente c’è qualcuno che rafforza le modalità perfezionistiche l’impresa diventa ancora più ardua. A livello pratico questo tipo di funzionamento non fa altro che minare l’autostima, la qualità di vita, il livello emotivo (causando ansia e depressione), la socialità solo per fare alcuni esempi. Nei ragazzi il campanello d’allarme emerge sovente a scuola, d’altronde spesso è la prima esperienza di messa alla prova per i giovani, dove hanno un resoconto sulla loro performance. Si nota perché magari cominciano a fare fatica a svolgere alcuni compiti, poi a seguire alcune lezioni, o ancora si instaurano dei meccanismi di evitamento che possono portare a numerose assenze e che quindi li espongono a rischio bocciatura. Come si capisce viene perso il risvolto
“leggero” del fare le cose, quello legato alla curiosità, al piacere oppure al farlo per sé stessi, non per essere perfetto e arrivare ad una performance magnifica. Il sano desiderio di eccellere è fatto di questo, deve essere accompagnato da entusiasmo e piacere nel cercare di raggiungere gli obiettivi e soprattutto non considerare gli eventuali errori come la prova di essere difettosi. Dobbiamo slegare il valore personale, al voto che si porta a casa nella verifica. Non si corrisponde a una valutazione. Il voto sta ad indicare quanto sappiamo di quel argomento non come siamo noi. Il problema dei giovani sempre legato a questo tema, come accennavo prima è che spesso loro cercano di avere la forma fisica, l’intelligenza, la cultura ecc ecc..perfetta, anche per cercare di essere sempre al passo con la società che è sempre più esigente
e soprattutto evitare possibili critiche. L’errore non viene concepito come una tappa dell’apprendimento ma, una macchia su di sé. Questo aspetto forse rimane ancora un po’ sottovalutato, ma se vogliamo mirare a migliorare il benessere dei nostri giovani dobbiamo correre ai ripari. Cominciamo in famiglia, come genitori, cerchiamo di essere meno controllanti, meno critici e meno iperprotettivi. Facciamoli sbagliare, valorizziamoli per l’impegno profuso al di là della votazione. Facciamo da modello, verbalizziamo il fatto che anche noi abbiamo sbagliato, ma che nonostante ciò siamo andati avanti e abbiamo raggiunto degli obiettivi. Dott.ssa Erica Zanghellini Psicologa-Psicoterapeuta Riceve su appuntamento Tel. 3884828675
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Salute & Benessere di Rolando Zambelli, titolare dell’Ottica Valsugana, è Ottico Optometrista e Contattologo
Corretto utilizzo delle lenti a contatto morbide
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e lenti a contatto (LaC), in base ai materiali con cui vengono prodotte, si possono suddividere in due categorie: lenti a contatto rigide gaspermeabili e lenti a contatto morbide. Le LaC morbide si dividono in due grandi famiglie a seconda dei materiali (polimeri) con cui vengono costruite, LaC in Idrogel e LaC in Silicone Idrogel. Si possono suddividere anche in base alla tipologia di porto: monouso o a ricambio frequente (settimanali, quindicinali, mensili, trimestrali, semestrali e annuali). È importante seguire le indicazioni che il contattologo in sede di applicazione spiega, il portatore deve attenersi a queste regole di igiene e manutenzione per ottenere il meglio dalle LaC usandole in modo efficace e sicuro. Metodologia per un utilizzo efficace e sicuro delle LaC morbide ● Prima di applicare la LaC DEVI lavarti ed asciugarti accuratamente le mani ● NON usare l’acqua per pulire le LaC ● Per le LaC a ricambio frequente, dopo ogni utilizzo, pulisci (strofinando la lente con la soluzione
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unica consigliata dal contattologo sul almo della mano), disinfetta, risciacqua e conserva nella soluzione consigliata Le LaC monouso (o giornaliera) dopo ogni utilizzo DEVONO essere gettate. Richiudere sempre il flacone della soluzione conservante Dopo ogni utilizzo il portalenti deve essere svuotato (non lasciare la soluzione e riutilizzarla), dev’essere pulito (NON con l’acqua, ma con la soluzione di manutenzione delle LaC) e poi asciugato. Il contenitore DEVE essere sostituito una volta al mese Utilizza le LaC per il tempo per cui sono indicate (una settimana, 15 giorni, un mese, . . . ) e per il tempo che il contattologo consiglia (es: solo qualche ora al giorno) Applica le LaC prima di truccarti e rimuovile prima di struccarti NON usare le LaC nel mare o in piscina (oppure indossa gli occhialini da nuoto e poi getta via le lenti) NON dormire con le LaC, a meno che non siano lenti apposite Le LaC e le soluzione di manuten-
zioni sono state scelte appositamente per te: non cambiare tipo senza aver prima consultato il tuo applicatore. ● In caso di fastidio, arrossamento o altri disturbi NON applicare le LaC, contatta immediatamente il tuo contattologo e/o rivolgiti al medico oculista. È importante che il portatore verifichi periodicamente con il contattologo che la soluzione di manutenzione e le lenti stesse continuino ad essere le più idonee, vanno quindi effettuate visite di controllo periodiche per evitare qualunque possibile complicanza. Fonti: SOPTI (Società Optometrica Italiana), Assottica
Pantone 484 C C M Y K
25,29 88,89 96,63 21,91
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Sant’Orsola, ricerca, sperimentazione e sviluppo di Walter Laurana
DAI PICCOLI FRUTTI
il mirtillo residuo zero F
ragole, lamponi, mirtilli belli da vedere difficili da coltivare. Se vale sempre l’antico proverbio sulle fatiche dell’agricoltura perché, si diceva, la terra è bassa, oggi malgrado alcune coltivazioni avvengano sollevate dal suolo con appositi contenitori, a livello amatoriale perfino sui balconi dei grattaceli, i piccoli frutti restano fra i lavori più impegnativi con l’impiego di antiparassitari specifici. Un annoso problema affrontato in Trentino dalla Società cooperativa agricola Sant’Orsola, leader nazionale nel settore dei piccoli frutti che, dopo molti anni di ricerca e sperimentazione, ha certificato il primo mirtillo a residuo zero ovvero privo di contaminanti chimici. Sono una novità per l’Italia, provengono esclusivamente dai campi siciliani e calabresi dei suoi soci che coltivano su più di 50 ettari mirtilli giganti americani di varietà diverse, principalmente la Ventura. Il residuo zero è la nuova frontiera, dopo la produzione mediante la lotta integrata, la produzione biologica e la biodinamica. Garantisce la insussistenza di residui da fitofarmaci nel frutto in vendita ovvero la sua salubrità. Lo certifica
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il CSQA, ente accreditato e riconosciuto dal Ministero delle politiche agricole, alimentari e forestali che ha sede a San Michele all’Adige. L’organismo di certificazione esercita la leadership nazionale nel settore agricoltura ed è il primo ente italiano accreditato nel food, certifica in un recente rapporto che il residuo di fitofarmaci nel mirtillo residuo zero prodotto dalla Cooperativa i Sant’Orsola è inferiore al limite minimo quantificabile ovvero è inferiore a 0,001 parti per milione, secondo metodi standard europei di misura praticati, riconosciuti e validati dalle autorità competenti. Particolarmente soddisfatto il direttore generale della Sant’Orsola Sca Matteo Bortolini. “Il progetto ambizioso del mirtillo residuo zero , afferma, esaudisce il crescente desiderio dei consumatori di acquistare frutta sempre più salutare. Noi produciamo da oltre 40 anni fragole e piccoli frutti, settore nel quale siamo leader italiani
Matteo Bortolini, direttore generale
riconosciuti.” Il mirtillo residuo zero è figlio della continua attività di ricerca, sperimentazione e sviluppo per l’innovazione, praticata da 18 periti ed agronomi dello staff tecnico stabile della Sant’Orsola, al lavoro nel Campo sperimentale situato sull’Altopiano della Vigolana in Trentino, a 700 metri di quota. Responsabile è Gianluca Savini, tra i massimi esperti nel mondo dei piccoli frutti, agronomo con dottorato di ricerca in produzione e organizzazione degli agro-ecosistemi vegetali. Avviato nel 2002, il Campo sperimentale è la sede di incessanti attività di selezione e di miglioramento genetico di fragole e di piccoli frutti coltivati dai soci. L’attività punta alla ricerca di nuove varietà più tolleranti alle malattie, alla massima riduzione ed all’azzeramento dell’uso di fitofarmaci, al miglioramento delle tecniche di coltivazione ed alla riduzione dell’uso di acqua, raggiunta peraltro con ottimi risultati. Dalla ricerca alla produzione. E’ opi-
Sant’Orsola, ricerca, sperimentazione e sviluppo nione comune che il mirtillo sia una pianta tipica dell’emisfero Nord, ma in Sicilia ed in Calabria si sono verificate le condizioni migliori per alcune varietà di mirtillo. Secondo i tecnici, le qualità del sud Italia sono migliori che in Spagna e di altre aree del Mediterraneo. Il mirtillo prodotto dalla Cooperativa Sant’Orsola appartiene alla specie gigante americana. La sua produzione, avviata anni fa da alcuni soci su piccoli appezzamenti nell’Isola e nell’estremo Sud italiano, è via via cresciuta in numero e in estensione fino a diventare un settore rilevante dell’economia delle aree interessate. Tanto lavoro ma ottimi e soprattutto salutari frutti. Il mirtillo è un piccolo frutto fonte di fibre, naturalmente a basso contenuto calorico, privo di grassi e senza iodio. Una porzione da 100 gr è fonte di vitamina C, fondamentale per il normale funzionamen-
to del sistema immunitario, per la protezione delle cellule dallo stress ossidativo, per la riduzione della stanchezza e dell’affaticamento. Significativo è anche il contenuto minerale (su 100 gr di peso fresco): calcio (circa 120 mg), potassio (circa 550 mg), fosforo (circa 115) e magnesio (circa 56 mg). In quanto alimento, il mirtillo contiene componenti e principi attivi con effetti positivi sulla salute, la prevenzione ed il trattamento delle malattie. Il mirtillo rappresenta infatti una delle principali sorgenti di antociani, ogni 100 gr ne contiene ben 390 mg. E’ accertata la loro funzione benefica sulla salute umana, correlata al loro potere antiossidante e antitumorale.
PERGINE: CRAV, Pianificazione finanziaria
Dalla Previdenza complementare al Fintech nell’era Green Un incontro di formazione destinato a veicolare informazioni in materia economica e finanziaria coinvolgendo Dirigenti e Docenti di tutti gli Istituti scolastici di ogni ordine e grado dell’Alta Valsugana. Si è svolto così lo scorso mercoledì 24 marzo il webinar dal titolo “PIANIFICAZIONE FINANZIARIA: dalla Previdenza complementare al Fintech nell’era Green” realizzato dalla Cassa Rurale Alta Valsugana che ha ottenuto per questa iniziativa il prestigioso Patrocinio del Ministero dell’Economia e delle Finanze e della Banca d’Italia per la nona edizione della “Global Money Week”, manifestazione internazionale promossa dall’OCSE e coordinata dal Comitato per la programmazione e il coordinamento delle attività di educazione finanziaria. Un evento rivolto proprio a chi, come i Dirigenti e i Docenti scolastici, rappresenta la cinghia di trasmissione fondamentale della conoscenza nei confronti degli studenti. Il webinar, disponibile sul canale YouTube della Cassa Rurale, ha registrato la preziosa partecipazione di Marco Facchinelli dell’Ufficio formazione di Pensplan Centrum e di Marco Casagranda, Gestore Finanza della Cassa Rurale Alta Valsugana.Ad introdurre i lavori, un indirizzo di saluto del Presidente della Regione Trentino-Alto Adige/Südtirol, Arno Kompatscher, che ha rivolto un messaggio, in particolare ai giovani e alle famiglie, a pianificare per tempo il proprio futuro anche da un punto di vista finanziario.
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Girovagando di Fiorenzo Malpaga
TIBET, il mitico tetto del mondo
FASCINO E SPIRITUALITÀ Quando sono andato in Tibet ad affascinarmi erano il film con Brad Pit, “Sette anni in Tibet” ed il romanzo autobiografico dell’austriaco Heinrich Harrer da cui è stato tratto il soggetto nel 1997. Se il problema di Harrer al termine di una affasciante scalata, fra molte avversità, fu quello di lasciare il Tibet il mio e dei miei compagni di viaggio fu quello di entrare in questo meraviglioso paese.
È
nel 2012 che ho avuto l’opportunità di fare uno dei viaggi più belli della mia vita, una meta che ho sempre sognato, un posto intriso di fascino dato dalle montagne più alte del mondo, l’Himalaya, e nel contempo un popolo con una elevata spiritualità e senso religioso. Occorre premettere che fino al 1950 il Tibet era uno stato autonomo, poi è stato invaso dalla Cina, con un genocidio feroce, con oltre un milione di morti, la distruzione di migliaia di templi ed assoggettato alla sua amministrazione, con forti limitazioni agli usi costumi, riti religiosi dei tibetani. Un popolo pacifico, di origine cen-
tro-asiatica (Mongolia). Per visitare il Tibet, oramai considerata regione della Cina, necessita del visto cinese, ed essere accompagnati da guida cinese oltre che tibetana, questo perché è stato posto il divieto per gli occidentali di visitare direttamente tale regione, presumibilmente per tenere nascoste le condizioni di oppressione, disposte dai cinesi, nei confronti del popolo tibetano. Nel 1959 il Dalai Lama, massima autorità religiosa tibetana, dovette rifugiarsi di nascosto in India. E dire che durante la contestazione studentesca del sessantotto, si vedevano lungo le vie di Trento studenti che mostravano il libretto rosso di Mao e gridavano “la Cina è vicina”..
Tibet Lhasa - il Palazzo del Potala
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slogan ispirato dal film di Marco Bellocchio del 1967 ma trasposto all’ideologia maoista, questo per evidenziare il regime che vige in Cina, tutt’altro che democratico. Il nostro gruppo (eravamo 17 fra trentini e altoatesini) ha potuto constatare tale clima di oppressione, fin dai primi giorni del viaggio, iniziato a Lhasa, la capitale del Tibet, posta a 3650 metri di altitudine: tutte le strade ed i templi erano presidiati da militari cinesi, che non si possono fotografare, muniti di estintori pronti a spegnere il fuoco appiccato dai monaci tibetani ai propri corpi, immolati in segno di protesta contro il governo cinese; ben 37 casi in pochi mesi!!! L’identità religiosa del popolo tibe-
Bambina tibetana
Girovagando
Barkhor e il famoso palazzo del Potala, tempio immenso che domina la città
tano è oramai ridotta al minimo, in particolare a Lhasa il piccolo quartiere di Barrkhor ed i famoso palazzo del Potala, tempio immenso che domina la città, la parte bianca inferiore dove risiede la comunità dei monaci e quella rossa adibita a funzioni religiose. In varie zone della città, gruppi di tibetani, spesso donne anziane, con i loro vestiti variopinti, recitano i mantra facendo girare le “ruote della preghiera” (foto 2); i vari monasteri (Drepung, Nechung, Sera e altri) sono veri e propri centri scolastici e formativi teologici della dottrina tibetana di tipo buddista, che mira alla apertura della mente ed alla chiarezza del pensiero. Nelle piazze e davanti ai monasteri, la svastica, (foto 3) simbolo orientale antichissimo, che riveste il significato di buona fortuna, di benessere, poi “utilizzata” dal nazismo per scopi propagandistici del tutto deleteri. La religione in Tibet è connessa con la filosofia e la cultura, e rappresenta un vero e proprio stile di vita; la medicina è una delle più antiche del mondo, basata su rimedi naturali. Si crede nella reincarnazione, con un rito particolare per i defunti, lasciati in preda ad avvoltoi sulle montagne considerate sacre. Si fatica a camminare, l’aria è rarefatta, siamo a oltre 4.000 metri di altitudine,
ti vette perennemente imbiancate e ogni stanza dell’albergo è munita dell’Himalaya, il sorriso e la serenità di bombole per l’ossigeno; l’altopiano di un popolo semplice e pacifico, tibetano è contornato dalle altisnonostante le tribolazioni sofferte sime vette himalayane, imponenti dall’occupazione, sono tutti elementi ed affascinanti per la loro altezza e che suscitano una forte suggestione maestosità (foto4), talmente elevate ed emozione in chi visita il Tibet. che sovrastano la coltre di nuvole, Purtroppo la globalizzazione, il cocon il mitico Everest con i suoi 8848 siddetto “progresso” e l’occupazione metri s.l.m. cinese, stanno progressivamente eroVisitando varie vallate, si incontradendo la particolare cultura, gli usi, no gli yak, tipici buoi tibetani che i costumi e la religiosità di questo riescono a sopravvivere a quelle popolo. altitudini, grazie ad una folta pelliccia che li ricopre; sui valichi piccoli villaggi abitati da pastori, che utilizzano gli escrementi essiccati degli animali per riscaldarsi (foto 5), le donne che fanno i lavori di fatica, trasportando pesi sulla schiena (foto 6). Per i tibetani, le montagne Donne anziane, con i loro vestiti variopinti, recitano i mantra sono sacre e per questo facendo girare le “ruote della preghiera” depongono bandierine colorate lungo i ripidi versanti, con riportate preghiere; piccoli gruppi di case bianche fatte di pietra, con le caratteristiche finestre in legno, le acque color smeraldo dei laghi e dei torrenti, il cielo pulito e terso, i colori particolari ed intensi, l’assenza di vegetazione, le imponenUtilizzano gli escrementi essiccati degli animali per riscaldarsi
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Le leggende della Valsugana di Andrea Casna
CIVEZZANO
il Sabba delle streghe Era un caldo pomeriggio d’estate di tanto tempo fa. L’aria era calda e in cielo non si vedeva nemmeno una nuvola. Il sole era alto a riscaldare l’aria. Le cicale facevano da colonna sonora a questa estate torrida. A Civezzano, in un campo, due giovani contadini stavano falciando l’erba. Il caldo, a tratti, era quasi insopportabile. Quella mattina i due non parlarono molto perché intenti a risparmiare le energie: il loro obiettivo, infatti, era di finire tutto entro sera.
A
d un certo punto il sole era alto nel cielo, segno che era mezzogiorno. Il momento giusto per rinfrescarsi e per mangiare un boccone e poi, via nuovamente al lavoro. I due si sedettero all’ombra di un albero per poter gustare con calma, e con un poco di fresco, il pranzo portato da casa. «Quanto vorrei avere qui un botticello di vino buono -disse uno dei due». E proprio in quell’esatto momento due strane figure, due donne anziane vestite di nero, uscirono dal bosco. «Avete per caso chiesto del buon vino? – dissero in coro le due anziane. Noi abbiamo quello che fa al caso vostro». E come per magia comparvero due botti di vino fresco. I due rimasero esterrefatti e stupiti. «Dai su -dissero sempre in coro le due vecchie – non siate timidi. Bevete, bevete». «Possiamo veramente? Domandò uno dei due falciatori». «Ma certo -rispose quella più anziana. Ma ad una condizione: questa notte, a mezzanotte, ci dovete aspettare proprio qui, in questo campo.. perché verrete con noi a ballare e a mangiare». I due ragazzi si guardarono per qualche istante e.. «D’accordo. Ci stiamo. Fateci assaggiare il vostro vino e questa notte verremo con voi a ballare e a mangiare». A quel punto presero le due botti e iniziarono a bere. Era vino buono. «Mai bevuto un vino – disse uno dei due ragazzi». Ne bevvero molto senza però ubriacarsi. Anzi quel vino diede a loro le energie per poter finire di falciare il prato. E così fecero. Trascorsero tutto il pomeriggio a falciare riuscendo a
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Le leggende della Valsugana finire tutto entro il tramonto. Arrivò la mezzanotte e i due mantennero la promessa: a mezzanotte stavano infatti seduti su un muretto che delimitava il campo appena falciato. A mezzanotte in punto sentirono provenire dal fondovalle un canto lugubre, poi videro uno sciame nero illuminato dalla luna che si mescolava con l’oscurità della note: erano centinaia e centinaia di streghe a cavallo delle loro scope. Giunte sul posto, alcune si avvicinarono ai due, altre accesero subito un grande falò al centro del campo. «Ora si danza, si canta e si mangia. Sta per arrivare il nostro signore – dissero tutte in coro». «Venite con noi -dissero le streghe ai due ragazzi». I due, pietrificati dalla paura, non sapevano più cosa fare. «Queste sono streghe altro che semplici vecchiette. Siamo nel bel mezzo di un Sabba e il loro
signore è il Diavolo – disse uno dei ragazzi». «Già – rispose l’altro con voce tremante. Ci siamo infilati in un bel guaio. Siamo lontani dal paese e non possiamo chiedere aiuto. Sarebbe inutile urlare perché tanto non ci sentirebbe nessuno. Non possiamo nemmeno scappare perché sono in troppe. Cosa facciamo?». Un gruppo di streghe iniziò ad avvicinarsi ai ragazzi, visibilmente terrorizzati, quando notarono due croci appese al collo dei contadini: erano croci d’oro che brillavano grazie alla luce riflessa proveniente dal fuoco. «Buttate via quelle croci – disse la strega più anziana. Buttatele via. Satana si infurierà e vi ucciderà. Buttatele via..buttatele via....». A quel punto i due giovani presero coraggio. Si alzarono in piedi sul muretto. E con le croci in mano, in bella vista, ordinarono alle streghe di andarsene: «Andatevene -dissero
i due. Andatevene, la Croce di Cristo ci protegge. Non potete farci nulla». A quel punto un forte vento si alzò spegnendo il fuoco e spazzando via tutte le streghe. Subito dopo nel prato ritornò la calma e i due poterono tornare a casa sani e salvi. Il Sabba. Il Sabba, nella tradizione, è il raduno delle streghe in presenza del Demonio durante il quale venivano compiute pratiche magiche, orge diaboliche e riti blasfemi. Il Sabba è spesso presente negli atti dei processi contro le streghe. Nella cultura ufficiale, basata sugli atti dei processi per stregoneria, le streghe giungevano sul luogo prestabilito volando a cavallo di un animale, sopra un bastone o, come in questa leggenda, su una scopa. Nell’iconografia il Demonio, metà uomo metà capra, è al centro del rito seduto su un trono.
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Meteorologia oggi di Giampaolo Rizzonelli
Quando arriva il pulviscolo dal deserto del Sahara effetti immediati e futuri
A
d inizio febbraio 2021 la Spagna è stata colpita da una perturbazione atlantica con forte richiamo di aria direttamente dal deserto del Sahara, oltre all’aria la perturbazione ha portato con sé tantissimo pulviscolo dal deserto, pulviscolo che è caduto abbondante anche su numerose piste da sci oltre che della Penisola Iberica anche della Francia e in seguito ha raggiunto anche il Piemonte ed è arrivata (con quantitativi minori) fino in Trentino. Il tutto è ben evidente dall’immagine satellitare del 5 febbraio (fig.1) che mostra il pulviscolo in movimento dal deserto del Sahara verso il Mediterraneo e la Penisola Iberica. Nelle fig. 2 – 3 – 4 alcune immagini delle precipitazioni di pulviscolo del deserto che hanno raggiunto Spagna, Francia e Piemonte a febbraio 2021. Questo fenomeno non infrequente si verifica quando un vortice di bassa pressione si posiziona sulla Penisola Iberica, dall’entroterra sahariano nel letto di questi venti caldi “attratti” dal vortice depressionario, viaggiano grossi quantitativi di pulviscolo desertico che si concentrano in sospensione alle quote più alte dell’atmosfera, pronti a raggiungere la Penisola Iberica, la Francia e poi l’Italia. Il fenomeno si verifica soprattutto nel semestre freddo e si può percepire ad occhio nudo anche dalla semplice osservazione del cielo e delle nuvole, che mostrano attraverso la colorazio-
Fig. 2 - Baqueira, Pirenei (Spagna)
Fig. 3 - Queyras (Francia)
Fig. 1 - Immagine da satellite
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Fig. 4 - Sestriere, sabbia deserto
Meteorologia oggi
Fig. 5 - Pale di San Martino, sabbia deserto
ne tra il rosa e il rosso, la presenza di pulviscolo sahariano che con le precipitazioni andrà a ricoprire tutte le superfici. Nell’immagine n. 5 scattata il 6 aprile 2016 sulle Pale di San Martino si nota la colorazione della neve anche qui in Trentino. Va detto che questa sabbia del deserto accelera lo scioglimento della neve sulle Alpi e vi spiegherò il perché. Innanzitutto parliamo di albedo, che è la frazione di luce riflessa da un oggetto o da una superficie rispetto a quella che vi incide, banalizzando con un esempio, “pensate alla carrozzeria di un’automobile di colore nero sotto il sole di luglio, se la toccate probabilmente rischierete di scottarvi, questo a differenza di una carrozzeria di colore bianco”. L’albedo massima è 1, quando tutta la luce incidente viene riflessa, l’albedo minima è 0, quando nessuna frazione della luce viene riflessa. In termini di luce visibile, il primo caso è quello di un oggetto perfettamente bianco, l’altro di un oggetto perfettamente nero. Tornando alla neve, l’albedo di quella
fresca arriva fino a 0,9, però se la neve viene sporcata dalla sabbia del deserto, l’albedo diminuisce drasticamente. A sostenerlo è uno studio condotto grazie alla collaborazione dei ricercatori di Arpa Valle d’Aosta, del dipartimento di Scienze dell’ambiente e della terra dell’Università di Milano-Bicocca, dell’Istituto nazionale di fisica nucleare, di Météo-France (Univ. Grenoble Alpes e Cnrs) e del Max Planck Institute, in Germania. Il fenomeno sarebbe provocato dal colore rossastro della sabbia, che posandosi sulla neve ne scurisce la colorazione, compromettendo la sua capacità di riflessione e determinando un maggior assorbimento della luce. Per compiere lo studio ‘Saharan dust events in the European Alps: role in snowmelt and geochemical characterization’, pubblicato sulla rivista The Cryosphere, gli esperti, coordinati da Biagio Di Mauro dell’Università di Milano-Bicocca, hanno valutato l’effetto delle polveri del Sahara sulla neve, simulando il fenomeno che avviene sulla Alpi, a Torgnon (Aosta). Sfruttando un’area sperimentale
situata a 2.160 metri di altezza, i ricercatori hanno dimostrato che negli anni con intense deposizioni di polveri dal Sahara si verifica un’accelerazione dello scioglimento delle nevi. In particolare, nella stagione del 2015-2016, la copertura nevosa è scomparsa circa un mese prima del previsto: ”pari a un quinto della stagione nivale”. Si tratta quindi di un ulteriore elemento a sfavore per la resistenza della neve delle Alpi, che deve già fare i conti con altri ostacoli, quali la scarsità delle precipitazioni invernali e le alte temperature delle stagioni calde. “Studi come questi sono importanti per valutare l’accuratezza dei modelli idrologici e per stimare l’effetto delle deposizioni di polvere sahariana sulla fusione della neve e del ghiaccio nelle Alpi”, spiega Roberto Colombo, esperto dell’Università di Milano-Bicocca. “In futuro, questi studi saranno applicati ad immagini satellitari come quelle del sensore Prisma, recentemente lanciato in orbita dall’Agenzia Spaziale Italiana (Asi)”.
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Altroconsumo risponde di Alice Rovati*
Attenti alle TRUFFE LA DOMANDA
In un mercato in Valsugana ho firmato un documento per certificare che un signore mi aveva fatto un'intervista. Dopo circa 40 giorni mi arrivata a casa una enciclopedia (valore 2.400 euro) che avrei acquistato apponendo la mia firma in un contratto firmato con questo signore lo stesso giorno dell'intervista. Al momento del ritiro avrei dovuto pagare il versamento della prima rata di euro 220,00 e avrei dovuto firmare una ricevuta per l'accettazione dei successivi bollettini di pagamento. Ma io avevo solo firmato l'intervista. Ho chiesto l'originale del contratto ma ad oggi nulla arrivato. Come mi devo comportare prima di andare da un avvocato? Direttore, La informo che non ho ritirato l'enciclopedia.
LA RISPOSTA La negoziazione di contratti fuori dai locali commerciali (come nel caso di specie in aree pubbliche) è soggetta alla particolare disciplina prevista dal Codice del consumo (art. 49 e ss.). In tali situazioni la posizione del consumatore appare svantaggiata rispetto a quella del professionista e quindi i relativi rapporti giuridici sbilanciati a favore di questi. Il venditore si presenta all’acquirente in luoghi non deputati allo svolgimento di trattative commerciali; il consumatore viene preso alla sprovvista e potrebbe essere indotto ad un acquisto non meditato, del quale potrebbe anche eventualmente pentirsi. Infine, la possibilità di confrontare prezzo e qualità dei prodotti in questo tipo di contratti risulta alquanto limitata. Tali circostanze hanno indotto il legislatore a regolamentare la prassi della negoziazione che prende origine, e si sviluppa, al di fuori degli esercizi commerciali, attraverso interventi che hanno, per di più, posto l’accento sulla tutela dei diritti del cd. contraente debole.
Tra questi vi è l’obbligo di informazioni precontrattuali. Prima che il consumatore sia vincolato da un contratto negoziato fuori dei locali commerciali, il professionista fornisce al consumatore – in maniera chiara e comprensibile – tutta una serie di informazioni. Queste informazioni vengono fornite su supporto cartaceo o – se il consumatore è d’accordo – su un altro mezzo durevole (ad esempio in un DVD o in una e-mail) e devono essere leggibili e presentate in un linguaggio semplice e comprensibile. Il professionista deve fornire al consumatore una copia del contratto firmata (sempre su un supporto cartaceo o durevole). Nel caso descritto dalla nostra lettrice, la firma è stata apposta solo ad un documento di presa visione. Consiglio quindi di inviare una racc. a/r di reclamo nella quale si contesta di aver firmato il contratto di acquisto dell’enciclopedia. Ricordo comunque che, come sopra precisato, al consumatore deve sempre essere consegnata copia del contratto firmata, pena l’illegittimità dell’acquisto (con conseguente possibile richiesta di
Chi desiderasse avere un parere o una risposta su un qualsiasi problema o porre un particolare quesito, può indirizzare la richiesta a: direttore@valsugananews.com
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annullamento del contratto). Infine, a beneficio del consumatore, c’è sempre la possibilità di recedere: l’art. 53 del Codice del consumo precisa che, se il professionista non ha fornito al consumatore le informazioni sul diritto di recesso, il periodo di recesso termina dodici mesi dopo la fine del periodo di recesso iniziale (ossia 14 giorni dal ricevimento del bene). *La dott.ssa Alice Rovati, docente di diritto, rappresentante provinciale di Altroconsumo. Dopo la laurea ha frequentato diversi corsi di specializzazione in materia consumeristica e ha partecipato, in qualità di relatrice, a numerosi incontri informativi e a progetti dedicati alla tutela del consumatore. Dal 2016 è membro del Consiglio di Altroconsumo
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