Il “Giorno del Ricordo” di Joe Beretta
Siamo tutti
PROFUGHI Con la firma del trattato di pace del 10 febbraio 1947 e la cessione dell’Istria, Fiume e Dalmazia alla Jugoslavia la popolazione italiana inizia un esodo massiccio, lungo, doloroso e straziante. Ne abbiamo scritto il mese scorso ricordando soprattutto le azioni compiute da Edvard Kardelj, partigiano sloveno, braccio destro di Tito, inviato inviato in Istria per risolvere la “questione italiana”: uccisioni e migliaia di corpi gettati nelle foibe caratterizzano questa fase. La ventata di violenza che si protrae anche negli anni successivi alla fine della guerra e avrà il suo culmine nella strage di Vergarolla a Pola il 18 agosto 1946 con più di 70 vittime. Ci sono le storie diverse di migliaia di persone che vanno nei campi profughi sparsi in tutta Italia o che scelgono le vie dell’Australia o delle Americhe. Persone con vissuti tragici: hanno visto uccidere il loro marito, il loro padre, il figlio, il fratello, la sorella. Hanno subito la frantumazione sociale e familiare. Per 50 anni hanno tenuto per sé questo enorme dolore, non hanno avuto la possibilità di ottenere giustizia. Noi abbiamo raccolto la testimonianza di Roberto De Bernardis Presidente ANVG –Trentino (Associazione Nazionale Venezia Giulia Dalmazia) segretario dell’associazione Museo Storico in Trento, componente del Comitato scientifico della Fondazione Alexander Langher di Bolzano
QUELL’ESODO CHE CAMBIO’ LA NOSTRA VITA Quando mio padre tornò dalla prigionia in estremo oriente nell’autunno del 1946 trovò una situazione pesante e intimidatoria. C’erano gli inglesi che governavano a Pola ma ormai tutto era deciso: Pola sarebbe passata alla Jugoslavia. Con la firma del trattato di pace a Parigi il 10 febbraio 1947 il destino degli italiani dell’Istria veniva indirizzato verso l’esodo. Troppo forti erano le vessazioni, impossibili da accettare le condizioni dei nuovi padroni: perdita della lingua, delle tradizioni, delle proprietà fonti di reddito, della sicurezza personale e collettiva. Mio padre e mia madre optarono per rientrare nei confini italiani e mentre mia nonna paterna con due sorelle di mio padre, alcune
sorelle di mia madre, zie e zii salpavano con il piroscafo Toscana verso la costa italiana ai miei genitori non veniva concesso il visto dalle autorità jugoslave. Motivo: il cognome di mia madre, Zmak, non veniva considerato italiano per cui doveva restare. Partisse pure mio padre ma lei no. Finalmente dopo la mia nascita e quella di mio fratello decisero di lasciarci partire, era il 14 aprile 1952. Ma dovevamo farlo subito con la lista delle cose da poter portar via redatta dalle autorità. Alla stazione ci accompagnò una nipote di mia mamma con un cassone di legno riempito con vestiario e alcuni ricordi. Poi stipati sul vagone iniziò il viaggio. Durò cinque giorni: Pola, Lubiana, Trieste, Udine. A Udine, campo di smistamento, restammo due settimane per poi riprendere un altro viaggio: destinazione campo
Il campo profughi sulla strada Gravia-Altamura (da 10 frebbraio)
augana
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