Birra Nostra Magazine 6_2022

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Materie prime di Michele Matraxia FOCUS N.6| NOVEMBRE-DICEMBRE 2022 MAGAZINE NOVITÀ, DEGUSTAZIONI, PRODUZIONI, ITINERARI NEL MONDO BIRRARIO BIRRA NOSTRA STORIA E TRADIZIONI BIRRA E GHIACCIO: DA NEMICI MORTALI AD AMICI INSEPARABILI di Alberto Grandi SOSTENIBILITÀ A BRUXELLES LO SVILUPPO URBANO INCONTRA LA BIRRA di Erika Goffi GUSTO PER UNA CARTA DEGLI ABBINAMENTI di Roberto Muzi

PAESE CHE VAI… birra (e accoglienza) che trovi

Il numero di questo terzo anno insieme si chiude all’insegna del viaggio! Un viaggio che non va solo alla scoperta, o riscoperta, di nuove sfumature del gusto della nostra bevanda preferita ma piuttosto all’esplorazione di nuovi modi di accogliere chi, spinto dalla sete di conoscenza, si avvicina timido e curioso a paesi con tradizioni e abitudini diverse dalle nostre. Del resto l’accoglienza è un’arte e gli amanti della birra artigianale sono turisti decisamente sui generis. Del luogo di cui vanno alla scoperta gli interessa di certo anche la cultura, l’architettura e la storia ma più che altro si muovono con carta, penna, papille gustative pronte a tutto e un bagagliaio capiente al seguito per acquistare souvenir da degustarsi al rientro a casa con lo scopo di tenere vivo il ricordo del viaggio compiuto. Accogliamo, nelle prime pagine, un nuovo collaboratore. Alberto Grandi inizia il suo viaggio insieme a Birra Nostra Magazine con un articolo che ripercorre le tappe della difficile relazione tra la birra e il ghiaccio; un legame che ha radici profonde nella storia, nella cultura e soprattutto nell’industria del nostro paese. Di viaggi e accoglienza ci parla anche Eleni Pisano che ha attraversato tre grandi città europee, Valencia, Londra e Amsterdam con amici expat che l’hanno portata a conoscere locali confortevoli e curati dove la birra è la protagonista assoluta e oggi condivide con noi le sue riflessioni sul concetto di identità e riconoscibilità, e anche qualche consiglio

utile per chi vuole conoscere i diversi luoghi dove degustare birra… perché non esiste solo il pub!

Nei luoghi del cuore ci portano Andrea Camaschella, Norberto Capriata e Daniele Cogliati: lo Yorkshire per il primo, il Belgio per il secondo e la Germania per il terzo rappresentano luoghi dove si sentono a casa, dove ritrovano e a volte scoprono angoli, sapori e birrifici destinati a volte a scomparire a causa delle regole del mercato e altri che invece, nonostante tutto, resistono, si rinnovano e si fanno portavoce di forti tradizioni identitarie.

Il marketing turistico e urbano sono invece i temi attraverso i quali viene delineato da Matteo Malacaria ed Erika Goffi il senso del viaggio. L’analisi di Malacaria prende spunto da una riflessione sulla (in)capacità italiana di valorizzare il proprio patrimonio enogastronomico, mentre Goffi ripercorre le tappe di un rinnovamento urbano che la città di Bruxelles sta vivendo in armonia con la sua identità birraria. Un viaggio nel gusto e nelle materie prime è invece quello di Roberto Muzi e Michele Matraxia; se Muzi si sposta nel campo del gusto accompagnato da Nicoletta Lurano, chef e formatrice nell’intento di creare una carta degli abbinamenti, Matraxia conclude il suo viaggio nel mondo dei lieviti. Un numero che vi mostriamo con orgoglio, felici di condividerlo con tutti voi per un Natale all’insegna della condivisione.

Buona lettura e buona bevuta!

BIRRA NOSTRA MAGAZINE 3 novembre-dicembre 2022 Editoriale
MIRKA TOLINI Professionista della scrittura e della comunicazione, collaboro da dieci anni al progetto Birra Nostra

IN QUESTO NUMERO...

EDITORIALE

Paese che vai… birra (e accoglienza) che trovi 3

STORIA E TRADIZIONI

Birra e ghiaccio: da nemici mortali ad amici inseparabili 6 di Alberto Grandi

ACCOGLIENZA

Paese che vai, locale che trovi 10 di Eleni Pisano

GUSTO

Per una carta degli abbinamenti 16 di Roberto Muzi

BIRRE DA RACCONTARE

Black Sheep, Yorkshire soul 22 di Andrea Camaschella

MARKETING

Birrovagare in Italia: luogo magico dove birra e turismo si incontrano (e talvolta si scontrano) 28 di Matteo Malacaria

4 BIRRA NOSTRA MAGAZINE novembre-dicembre 2022 SEGUICI SU facebook.com/BirraNostraMagazine
6 28 16 10 NOVITÀ, DEGUSTAZIONI, PRODUZIONI, ITINERARI NEL MONDO BIRRARIO MAGAZINE BIRRA NOSTRA

SOSTENIBILITÀ

A BRUXELLES LO SVILUPPO URBANO

INCONTRA LA BIRRA 36 di Erika Goffi

MATERIE PRIME

ANALISI DI HANSENIASPORA UVARUM

IN BIRRIFICAZIONE: I RISULTATI 42 di Erika Goffi

STILI BIRRARI

Omnia praeclara rara: le birre della Klosterbrauerei Mallersdorf 48 di Daniele Cogliati

TURISMO BIRRARIO

The ultimate vacation travel guide for the modern beerhunter: Belgium - Part 2 52 di Norberto Capriata

NOVITÀ DAL MONDO BIRRARIO

HANNO SCRITTO PER NOI

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Mirka Tolini

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Hanno contribuito a questo numero Andrea Camaschella, Daniele Cogliati, Norberto Capriata, Erika Goffi, Alberto Grandi, Matteo Malacaria, Michele Matraxia, Roberto Muzi, Eleni Pisano.

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BIRRA E GHIACCIO: da nemici mortali ad amici inseparabili

Che cosa c’è di più accattivante in estate di una bella birra fredda, con tutta la sua deliziosa schiuma che tracima dal boccale? Sì, certo, i gusti sono gusti e magari a molti la birra non piace né in estate né in inverno, ma non c’è dubbio che questa sia l’immagine classica dell’antica bevanda ottenuta dalla fermentazione del malto d’orzo. Bene, fino all’invenzione del freddo artificiale la birra era una cosa del tutto diversa; come il vino, ma forse più del vino, questa bevanda ha subito un’evoluzione straordinaria negli ultimi 150 anni. Sia chiaro, la birra

che quasi sempre beviamo oggi era conosciuta anche prima dell’invenzione del freddo artificiale compiuta dai vari Carrè e von Linde a partire dalla seconda metà del XIX secolo, ma produrla era estremamente difficile e costoso, per cui quello che si beveva in giro per il mondo era un alcolico completamente diverso e che generalmente si consumava a temperatura ambiente o al massimo da cantina. Oltre l’80% della birra che si beve oggi nel mondo è del tipo Lager nelle sue varie declinazioni (pilsner, wien, helles, export, marzen ecc.). La lager è una bir-

ra a bassa fermentazione, nella quale tale processo avviene tra i 4 e i 15 °C. Ma il suo nome deriva dal termine tedesco lagern, cioè “conservare” o “recintare”. Purtroppo, è la stessa parola diventata tristemente famosa durante il nazismo con lo stesso significato di luogo recintato e sorvegliato, perché per produrre la lager è necessario tenere la birra per qualche settimana a temperature prossime allo 0, con lo scopo di permettere al lievito di riassorbire il diacetile che altrimenti darebbe un aroma e un sapore poco gradevoli alla birra. Ovviamente, quando non esistevano le celle frigorifere, questa fase, detta ancora oggi lagerizzazione, poteva avvenire solo nei mesi più freddi e tendenzialmente in montagna; per evitare furti o manomissioni del prodotto era quindi necessario recintare e sorvegliare costantemente il posto nel quale veniva conservato.

Quando la birra si beveva a temperatura ambiente Questo tipo di produzione, come si può facilmente intuire, non era soltanto estremamente costoso, ma era anche fortemente limitato dal punto di vista quantitativo: la lager si poteva produrre solo in determinati mesi e solo in determinate aree; è chiaro che in Mesopotamia o in Egitto, dove pure la birra pare sia stata inventata, una lager

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di Alberto Grandi

era impossibile da realizzare. Il risultato è che fino alla seconda metà del XIX secolo nel mondo si bevevano quasi esclusivamente le altre birre: ale, stout, weiss, porter ecc., le quali, non solo non prevedono la lagerizzazione, ma sono birre cosiddette “ad alta fermentazione”; in altre parole la trasformazione degli zuccheri e degli aminoacidi contenuti nel malto in alcool e anidride carbonica avviene a una temperatura compresa tra i 12 e i 23 °C, quindi nella fase centrale del processo di produzione queste birre temono il freddo più di ogni altra cosa. Non solo, ma essendo la produzione dispersa in migliaia di piccoli laboratori a conduzione domestica prossimi ai mercati di sbocco (città, porti, taverne, osterie, ecc.), i luoghi di maturazione e deposito non potevano certo essere le grandi ghiacciaie che abbiamo già visto a partire dal basso medioevo. Di conseguenza, per favorire la conservazione della birra nel tempo si utilizzava lo stesso metodo usato anche per il vino: si introducevano alcuni ingredienti per renderne stabile il sapore, come il luppolo, ma soprattutto si manteneva alto il tasso alcolico. Insom-

ma, per farla breve, fino alla seconda rivoluzione industriale, la birra si beveva quasi sempre a temperatura ambiente e, siccome era generalmente più pesante e più alcolica di quella di oggi, se ne consumava anche molta meno.

Già nella prima metà del XIX secolo, cominciò a diffondersi la produzione industriale di birra, che progressiva-

mente andò a sostituire sul mercato la produzione domestica. L’ingresso del grande capitale (inizialmente non grandissimo, sia chiaro) ebbe come conseguenza una spinta sempre più forte ad ampliare la platea dei potenziali consumatori. Normalmente questo risultato viene ottenuto riducendo i costi di produzione e sviluppando la gamma dei

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Antichi attrezzi e modalità per raccogliere la neve in inverno e utilizzarla in estate.

prodotti; il primo obiettivo fu raggiunto attraverso le economie di scala e una razionalizzazione del processo produttivo. Il secondo, invece, era più complesso da raggiungere, dal momento che gli ingredienti e le ricette erano sostanzialmente immutabili dato il livello tecnologico e scientifico del periodo.

I progressi nella bassa fermentazione Proprio sugli aspetti tecnologici e scientifici si concentrarono quindi i primi gruppi industriali di una certa consistenza. Il primo grande passo avanti fu compiuto dal danese Carlsberg, che già negli anni ’70 dell’Ottocento cercò di rendere più stabile e meno aleatorio il processo di produzione, ma soprattutto riuscì a isolare un nuovo tipo di lievito, non a caso denominato Saccharomyces Carlsbergensis, che rese più semplice e sicura la cosiddetta bassa fermentazione, quella che avviene tra i 4 e i 15 °C, tipica delle birre lager. Ora era necessario riuscire ad avere temperature più basse per la fermentazione e la lagerizzazione, senza dover andare

in montagna o attendere l’inverno. Perché Carlsberg, e con lui molti altri suoi colleghi del settore, erano convinti che proprio la lager fosse il tipo di birra con le maggiori potenzialità di espansione commerciale. La storia dimostrò che non avevano ragione, ma avevano straragione: la lager era leggera, di più facile consumo, beverina diremmo oggi e quindi si tendeva a berne di più, ma soprattutto sembrava adattarsi maggiormente ai gusti del pubblico femminile rispetto a quelle birre pesanti e pastose che si producevano fino ad allora. Insomma, c’era il 50% del genere umano che poteva diventare il nuovo mercato per Carlsberg e soci, valeva certamente la pena di provarci.

Birra e ghiaccio diventano inseparabili

I problemi rimanevano quelli legati ai costi e ai limiti alla produzione determinati dalle necessarie condizioni climatiche. Ma qui, come era facilmente prevedibile, venne in soccorso la nascente industria del ghiaccio e del freddo. Da questo momento, diciamo grossomodo negli anni ’80 e ’90 dell’Ottocento, la birra e il ghiaccio divennero gemelli

siamesi, assolutamente inseparabili; il destino della prima era legato indissolubilmente allo sviluppo del secondo e viceversa. Praticamente tutte le fabbriche di birra nel mondo divennero anche fabbriche di ghiaccio, perché dal momento che dovevano produrre il freddo per ottenere la tanto desiderata lager, tanto valeva anche avere un po’ di ghiaccio da vendere direttamente. Fu un’autentica rivoluzione industriale, commerciale, ma anche culturale. La birra invase tutti i mercati ai quattro angoli della Terra. Mettere in piedi una fabbrica per produrre la lager era relativamente poco costoso e gli introiti garantiti comunque dalla vendita del ghiaccio permettevano di contenere i prezzi e di superare le possibili difficoltà iniziali, derivanti dall’introduzione di un prodotto nuovo in mercati poco abituati al consumo di birra, come il sud Europa o l’Asia. In pochissimo tempo la lager, da prodotto di nicchia consumato quasi esclusivamente nel sud della Germania e in Austria, divenne la birra per antonomasia, l’unica conosciuta in gran parte del mondo, se si escludono alcune aree di antica tradizione birraria, come le isole britanniche e il Bel-

BERE BIRRA FUORI PASTO

Il cambiamento e il successo del prodotto erano legati anche alle nuove modalità di consumo e anche qui c’entra il freddo, eccome se c’entra. Fino alla metà dell’Ottocento, quando la birra si beveva a temperatura ambiente o al massimo fresca di cantina, era la bevanda che accompagnava i pasti e che si poteva bere nelle taverne esattamente come il vino nel sud Europa, ma quando si diffuse la lager, così leggera, più frizzante e con quel sapore amarognolo decisamente più dissetante delle vecchie e pastose birre ad alta

fermentazione, si cominciò a bere la birra anche nei momenti conviviali lontani dai pasti, semplicemente come bevanda per togliersi la sete e per socializzare, un po’ come il tè delle cinque in Inghilterra. Però, per poter svolgere questa funzione, la lager doveva essere fredda, altrimenti perdeva questa sua dimensione per così dire ludica. Fino a quando non si diffusero i frigoriferi domestici, le fabbriche di birra fornivano ai bar e ai pub anche il ghiaccio per mantenere fredde le bottiglie o i fusti con i quali la distribuivano.

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Brevetto di una delle prime macchine per il ghiaccio.

gio. Per altro anche qui le produzioni dovettero in qualche modo adeguarsi alla moda dilagante e quindi le vecchie stout o ale vennero alleggerite e ingentilite, se così si può dire, perché altrimenti non erano più riconosciute come birra nemmeno dai consumatori locali.

Il boom dell’industria del freddo

L’effetto di questa rivoluzione dei consumi fu straordinario per quanto riguarda l’industria del freddo, perché permise un ulteriore afflusso di capitali in questo settore e quindi un ulteriore balzo in avanti dal punto di vista tecnologico. Come detto, in Germania, dove la lager era già conosciuta e apprezzata, il connubio tra industria del freddo e fabbricazione della birra, spazzò via i vecchi mercanti di ghiaccio naturale, ormai del tutto inutili; lo stesso avvenne con qualche anno di ritardo, diciamo alla vigilia della prima guerra mondiale, in Francia e persino negli Stati Uniti, patria dei grandi produttori globali di ghiaccio naturale: già negli anni ’10 del Novecento le fabbriche di ghiaccio avevano conquistato tutto il mercato nazionale. Per dire, nel

1909 vennero censite sette fabbriche di ghiaccio persino nel Massachusetts. Questo Stato era il quartier generale di Frederic Tudor che in tutto il mondo era soprannominato “The Ice King”, perché riusciva a esportare addirittura in India il ghiaccio naturale che raccoglieva nei laghi del New England e che imbarcava nel porto di Boston; è evidente che tutta quell’epopea era definitivamente conclusa e la diffusione della birra in America svolse un ruolo importante, quanto meno nell’accelerare il declino di quell’antica attività.

Il connubio tra birra e ghiaccio in Italia

Anche in Italia il matrimonio tra ghiaccio e birra rappresentò un grande balzo in avanti per i consumi di quest’ultima. Dopo un inizio stentato, tra il 1880 e il 1920 la Penisola si riempì di piccole e grandi fabbriche di birra e quasi tutte erano contemporaneamente anche fabbriche di ghiaccio. A seguito dell’entrata in vigore della legge Marescalchi del 1927, numerose fabbriche di birra furono costrette a chiudere, ma molte sopravvissero come semplici fabbriche di ghiaccio. Il caso più importante

fu probabilmente quello della Peroni. A Roma si faceva da secoli un grande consumo di ghiaccio e non fu un caso se proprio nella Città Eterna venne istituita la prima privativa del ghiaccio da Papa Paolo V all’inizio del XVII secolo. Ma quando Giovanni Peroni affiancò la produzione di ghiaccio alla piccola fabbrica di birra, attiva fin dal 1867, di fatto cancellò in un attimo un’attività che aveva tradizioni quasi millenarie e al tempo stesso, grazie al lancio della nuova lager, fece esplodere i consumi di birra nel mercato romano, che fino a quel momento aveva dimostrato di non essere particolarmente interessato a questo prodotto. I consumi di birra nella capitale calarono vistosamente negli anni ’30, ma il commercio di ghiaccio permise alla Peroni di superare la crisi per poi conoscere un vero e proprio boom nel secondo dopoguerra. Quando beviamo un bel boccale di birra ghiacciata non stiamo solo appagando i nostri sensi, ma stiamo anche celebrando un rito in onore di una grande rivoluzione tecnologica, quella del freddo artificiale, che ha cambiato in maniera irreversibile la nostra società e i nostri stili di vita. ★

BIRRA NOSTRA MAGAZINE 9 novembre-dicembre 2022 STORIA E TRADIZIONI

PAESE CHE VAI LOCALE CHE TROVI

Il servizio è accoglienza. L’accoglienza è stile. Lo stile è cultura. La cultura è conoscenza. La conoscenza è diversità. La diversità è genuinità e semplicità. La genuinità è mancanza d’imposizioni. La mancanza d’imposizioni è libertà. Il turismo è libertà (dall’Elogio dell’accoglienza di Arrigo Cipriani).

La ricerca del bello e spesso dell’effetto wow sembra essere sempre più prioritaria per chi vuole aprire un nuovo locale. Sono presupposti positivi ma, come sempre, si devono ben calibrare rispetto all’obiettivo che si prefigge una nuova attività di somministrazione e questo passa, inevitabilmente e pragmaticamente, per la definizione di un adeguato piano d’investimento e di recupero. Non fare questo ragionamen-

to riporta i locali, come citano i dati non solo italiani ma europei in generale, a una vita media sempre minore a causa di grandi investimenti e per la necessità di tempi più lenti nel recupero del capitale iniziale. Allora come si deve fare?

A partire anche dall’attenta lettura di quello che diceva Arrigo Cipriani, che dell’ospitalità fece un mantra e un brand riconosciuti in tutto il mondo, “la diversità è genuinità e semplicità”.

Le cose semplici nella costruzione di un locale sono quelle che necessitano di maggiore capacità di funzionalità, coerenza, armonia tra la bellezza estetica e la valorizzazione esperienziale. Ci sono però convinzioni erronee che ancora troppo spesso ritengono che alcuni concetti e accorgimenti non siano adeguati o valorizzanti per il mondo brassicolo. Il sempre maggiore connubio tra mescita e somministrazione di cibo, le varietà

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di Eleni Pisano
Una parete tappezzata di vinili nel locale DE PRAEL, ad Amsterdam.

di locali che spillano e che affiancano anche attività di carattere artistico e d’intrattenimento, i luoghi in cui si pone attenzione all’armonia e alla bellezza estetica sono tutti trend che parlano di un settore che, per svilupparsi e radicarsi sempre di più, ha bisogno di raccontare la birra con volti, stili, modalità ampie e differenti.

Il food design

Se si parla di somministrazione del cibo non si può non parlare di food design. Dimenticate che sia prerogativa di locali stellati o con scontrini medi molto alti; si tratta piuttosto di un concetto che invita a essere attenti al modo in cui si serve e si presenta un piatto. Che si mangi prima con gli occhi è un fatto assodato da moltissimo tempo e per questo non basta avere un buon prodotto alla spina o saperlo servire correttamente, ci deve essere anche una grande cura del piatto che si propone in abbinamento. Alcune regole fondamentali per un buon food design sono, per esempio, l’identificare il concept, le texture e gli elementi del piatto, scegliere le forme e i colori adatti e infine identificare il pattern geometrico. Proviamo a tradurre in pratica quello che vogliamo dire. Usiamo come esempio concreto un piatto di spaghetti al pomodoro. Se seguiamo le regole precedentemente citate il piatto dovrà essere conviviale, evocativo (familiare), tradizionale; allo stesso tempo avrà colori intensi e contrasti di rosso, verde e bianco (pomodoro, basilico e formaggio); i colori dovranno essere valorizzati in modo tradizionale, perciò si sceglierà un piatto da portata bianco e, infine, per valorizzare contrasti e colore gli spaghetti saranno impiattati al centro con mestolo e forchetta e si dovrà lavorare in altezza con basilico e formaggio.

La mise en place

Sarà forse perché si tratta di un termine francese, ma spesso questa parola si associa subito a localini molto di moda e ricercati. In realtà il termine tradotto in

italiano significa letteralmente messa sul posto, ossia il modo in cui si allestisce il coperto sul tavolo. Esistono molte regole per ottenere una buona mise en place e dipendono anche dal tipo di locale e di servizio, ma la regola principale e assoluta è: cura, coerenza con il resto del locale, funzionalità. Questo vale anche in un pub o in un locale di mescita che serve anche del cibo. Si tratta di piccoli dettagli che contribuiscono a rendere l’esperienza del consumatore più incisiva e piacevole. Alcuni esempi concreti:

Le tapas

Le tapas devono il loro nome al verbo tapar, che in spagnolo significa tappare. Tradizionalmente nelle vecchie osterie si era soliti mettere sopra il bicchiere di vino una fetta di pane o altro per proteggerlo da insetti e polvere e da qui poi, per estensione, la trasformazione in tapas intesa come assaggi d’accompagnamento.

se il locale punta molto sul sostenibile e green bisogna fare attenzione ai supporti usa e getta, anche se biodegradabili; se il locale ha bicchieri logati con il proprio nome, perché non farlo anche con parte dell’allestimento sul tavolo? Se il locale punta molto anche sulla cucina con la birra sarebbe coerente mettere sul tavolo la possibilità di condimenti di produzione brassicola.

Di seguito tre locali sparsi per l’Europa in cui la birra è protagonista assoluta e di livello, in ambienti confortevoli, cura-

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ti e di grande carattere e riconoscibilità. Ho viaggiato attraverso tre grandi capitali con l’aiuto di amici che mi hanno fatto conoscere, per ognuna, la lunga e ricca tradizione brassicola che la contraddistingue. Ogni città e ogni locale esprimono un modo diverso di accogliere gli ospiti ma un elemento comune li lega: tutti e tre aspirano a rendere sempre più la birra un mezzo per stare insieme e condividere non solo una pinta ma anche sapori, chiacchiere e risate.

Valencia

Valencia è una delle città della Spagna più eclettiche e riesce a unire a un’atmosfera molto elegante un’anima vivace e colo-

rata. Ricca di tradizione gastronomica, ovunque riconosciuta grazie soprattutto ai variopinti pinchos (una fetta di pane condita con molte ricette diverse adatte a tutti i palati) e alle immancabili tapas. In Spagna, uno dei luoghi più attraenti per il turismo in ragione del suo clima mite e della varietà del suo territorio, si beve la classica caña (la birra piccola tra i 200/250 cl) o tubo (termine che riprende la forma del bicchiere in cui viene servita e che ha una capienza di circa 300 cl), solitamente una birra chiara, spesso una lager o talvolta pils; una bevuta facile e beverina che accompagna il pasto degli spagnoli. In merito al settore brassicolo artigianale, il movimento spagnolo van-

ta, negli ultimi anni, un continuo e graduale aumento di microbirrifici (a oggi sono circa 800 concentrati in prevalenza, non esclusiva, nella zona catalana) ma anche di qualità della ricettazione brassicola e della sperimentazione.

La Spagna è il luogo per eccellenza delle osterie, delle taperie dove si è da sempre soliti socializzare, finire la giornata di lavoro e festeggiare ogni occasione con del buon cibo accompagnato da qualcosa da bere. In questo senso anche all’interno delle cervecerias artisanals (birrerie artigianali) si trovano spesso abbinamenti interessanti di piatti o menù variegati. Oggi la birra è la bevanda in assoluto più consumata in Spagna e quest’ultima è tra i primi cinque paesi in Europa per quantitativi di produzione.

A Valencia, Paolo Iannarone vive da più di 12 anni ed è lui che ci porta a visitare OLHOPS (www.olhops.com).

Si tratta di due locali situati nel quartiere di Ruzafa dove si può gustare un’autentica birra artigianale prodotta da Olhöps Craft Beer House, un birrificio in stile nordico aperto dal 2014 e che dispone di 10 spine a rotazione e un frigorifero con oltre 100 referenze in bottiglia e in lattina. Nel 2018 i titolari hanno aperto un secondo birrificio Olhöps Craft Beer Lab; qui non è presente la cucina ma si sono organizzati offrendo la possibilità ai clienti di portarsi la cena per consumarla ai loro tavoli. Questa scelta rende

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La Città delle Arti e delle Scienze a Valencia. L’OLHOPS a Valencia.

il locale, dalle linee industriali e un po’ fredde, un luogo più familiare e vocato alla convivialità che nulla di meno ha rispetto ai vecchi pub. Lo stimolo alla socialità e alla diversità diventa quindi il mezzo per far assaggiare ai curiosi avventori le nuove birre. In linea con il brand è stata creata, a partire dalle birre, una linea di gelati; questa tipologia di alimento così selezionato racconta molto bene lo spirito del locale, che si può assaporare ogni volta che elaborano un nuovo gusto!

Dal punto di vista della costruzione di un brand e di un locale il fatto di non avere la cucina può anche rappresentare un primo graduale piano di recupero dell’investimento iniziale; inoltre una cucina in loco ha alti costi di gestione che è meglio non avviare se si pensa di non essere all’altezza del servizio che si intende offrire.

Amsterdam

La città di Amsterdam nacque 800 anni fa. Il centro urbano fu fondato quando, lungo le rive del fiume Amstel, alcuni pescatori costruirono un ponte che attraversava il corso d’acqua nei pressi dell’IJ, una grossa insenatura di acqua salata. Oggi Amsterdam è conosciuta, oltre che per i suoi canali e per i suoi ponti, per le numerose biciclette, per l’arte e per il divertimento privo di ipocrisie. Qui la birra scorre ogni giorno abbondante proprio perché è una tra le città più visitate al mondo e per la sua lunga tradizione brassicola. È anche un luogo di cultura e sperimentazione che convive con una tradizione locale ben radicata ed è anche sede di una delle birre più famose e vendute al mondo, ma questo non rappresenta un ostacolo alla nascita di microbirrifici e locali in cui gustare delle ottime craft beer.

Anna Arnone mi ha accompagnata a conoscere DE PRAEL (www.depraeloudezijds.nl).

La sala degustazione si trova sull’Oudezijds Armsteeg e uno dei punti forti di questo locale è che ha la capacità di

farti sentire subito bene accolto; sono presenti 14 spine di birre di loro produzione e di altri birrai, accompagnate da cibo profumato e squisito pensato proprio per esaltare il sapore e le note aromatiche delle birre. I prezzi sono variegati per consentire a tutti di assaggiare qualcosa in abbinamento ed è sempre presente almeno una proposta vegana, elemento che spesso in Italia non è ancora ben integrato tranne che nei locali specializzati. L’arredo ricorda quello ti-

picamente nordico con materiali naturali e molto legno. Gli arredi sono molto diversi tra di loro come a voler replicare uno stile casalingo e variegato. Molti i tavoli dedicati alla convivialità con tanti coperti che contribuiscono a dare una lettura del locale che incentiva lo scambio e lo stare insieme.

Il fatto che in questa birreria sia presente una sala degustazione denota già l’importanza (e l’investimento) che si vuole dare al binomio birra e cibo;

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Veduta da un ponte sul fiume Amstel, ad Amsterdam. Il bancone del DE PRAEL.

questo aspetto si traduce poi nella gestione degli spazi del locale, del tipo di servizio al tavolo e dell’impiattamento, con porzioni medio abbondanti, sapori decisi e contrasti di colori.

Londra Londra è storicamente una città multiculturale in ogni suo aspetto e che tende ad accogliere e integrare le diversità mantenendo molto forte il suo carattere e la sua storia locale. La birra è a Londra la bevanda in assoluto più bevuta con una lunghissima tradizione e stili riconoscibili in tutto il mondo. Qui i pub sono istituzioni nazionali; erano i luoghi in cui ci si incontrava e alla birra si accompagnava sempre anche del cibo. In seguito vennero definiti Public House, abbreviato poi in pub durante il regno di Enrico VII d’Inghilterra, nella seconda metà del Quattrocento. La prima legge che prevede una licenza ufficiale per i locandieri risale al 1552, tempo in cui i pub erano perlopiù suddivisi fra angolo bar, camere e diverse

sale per accontentare i clienti appartenenti alle varie classi sociali.

La lunga storia dei pub li porta a essere, ancora oggi, i luoghi ideali in cui poter consumare piatti e sapori tipici della tradizione gastronomica inglese iniziando da una full English breakfast, la ricca colazione a base di uova strapazzate, bacon, toast, funghi e pomodori grigliati (ma anche salsicce, black pudding, fagioli in salsa…), per poi passare al tradizionale Sunday Roast, il pranzo della domenica composto da roast beef, patate arrosto, Yorkshire puddings (pastelle cotte in forno dalla forma simile a quella dei muffin) e molto altro ancora.

Silvia Sanvito mi ha fatto conoscere una gemma nascosta a pochi passi dal leggendario Cutty Sark a Greenwich: The Old Brewery (www.oldbrewerygreenwich.com).

Entrare in uno dei pub più storici e belli di Londra è un’emozione unica; si respira il gusto per la convivialità che i grandi spazi del locale non lesinano di

certo. Per i meno freddolosi ci sono i tavoli all’esterno nel grande giardino, ma io preferisco entrare e ammirare l’altezza dei soffitti, i colori intensi ed eleganti che regalano calde atmosfere. I fermentatori imponenti e maestosi sembrano installazioni artistiche, ma in realtà producono una birra che viene servita a qualsiasi ora della giornata. I piatti proposti sono in parte della tradizione e in parte frutto della cultura cosmopolita della città.

In questo pub gli elementi degni di nota che ci parlano di accoglienza sono molti: per prima cosa la presenza di birre prodotte con il brand del locale a cui si aggiungono birre nazionali e altre internazionali, per dare ai clienti un’ottima offerta in termini di quantità ma anche di qualità. Da non sottovalutare c’è poi la presenza di piatti gustosi e variegati che appartengono a diverse diete: ci sono piatti per celiaci, per vegani e cucina halal. Un’attenzione particolare è inoltre rivolta ai bambini, con una linea menù pensata apposta per loro.

ACCOGLIENZA
www.ubertive.com

Le parole sono importanti. Glossario per i luoghi della birra

Ogni tipologia di locale racconta un diverso progetto di ospitalità e somministrazione. Se ne sente parlare sempre di più, ma quali sono le differenze?

Tap room: dall’inglese, letteralmente, si traduce in saletta. Il termine è però solitamente collegato anche al mondo brassicolo e si riferisce al luogo, all’interno o adiacente ai locali di produzione, in cui è possibile degustare e assaggiare la birra. Chiamata anche saletta di degustazione ha la spillatura molto vicino ai fermentatori, consente di parlare direttamente con chi fa la birra e di vedere dove viene prodotta. Sempre più birrifici stanno sviluppando all’interno dei loro luoghi

di produzione un’area dedicata alla tap room. Lo sviluppo delle tap room è un ottimo modello per interagire con la clientela e fidelizzarla al prodotto. Brewpub: sono locali destinati alla somministrazione di birre e cibo che hanno al loro interno una parte dedicata a piccole unità di produzione. Somministrano e vendono i propri prodotti. Diversamente da un microbirrificio che vende a terzi o al dettaglio, in un brewpub il birrificio decide di creare un suo locale, con coerenza di brand e immagine, in cui poter far degustare le proprie birre in abbinamento al cibo. Questa formula, tipicamente anglosassone e statunitense, si è diffusa rapidamente anche in paesi come Italia e Spagna, con ottimi risultati e rafforzamento della brand reputation dei birrifici.

Beerstrot: si tratta di un’innovazione molto recente nel mondo brassicolo internazionale. Il termine è la fusione delle parole beer e bistrot, che deriva dal francese e indicava l’osteria intesa come un luogo informale e accogliente in cui si consumavano cibo e bevande. Negli anni il termine bistrot è stato poi identificato con una tipologia di osteria che cura molto anche la parte di ospitalità, di arredi, di servizio. L’unione dei due termini, in beerstrot, racconta di locali che partono dal concetto dell’informalità e delle dimensioni medio piccole per accogliere i clienti in ambienti belli e curati. Questo modello di locale avvicina un pubblico nuovo e attento alle produzioni e alle eccellenze del mondo brassicolo in generale. Pub: in assoluto il termine più conosciuto e citato quando si parla di un locale in cui bere la birra. Deriva dalle public house, luoghi storicamente deputati alla vita di comunità dei piccoli borghi inglesi e irlandesi. Qui le persone si potevano incontrare e socializzare, erano punti di riferimento importanti. Se il pub ha degli alloggi disponibili si aggiunge il termine Inn. Negli anni i pub hanno visto moltissime evoluzioni ma restano comunque saldi al loro concetto di essere luoghi in cui accogliere la comunità in senso ampio, offrendo piatti che vengono dalla tradizione. Beershop: la nascita e il diffondersi di negozi di questo tipo è uno dei migliori modi per comprendere che il mondo della produzione brassicola sta crescendo in termini quantitativi e qualitativi. Come le enoteche, sono luoghi in cui si vuole valorizzare al meglio il prodotto birra, in questo caso attraverso la selezione di molte etichette locali e non solo; è un modo per introdurre le persone al mondo brassicolo. Se aumentano i beershop significa che aumenta il consumo di birra anche in ambito privato, aspetto che aiuta a diffondere il consumo della buona birra e la consapevolezza di quello che si sta comprando e bevendo. ★

BIRRA NOSTRA MAGAZINE 15 novembre-dicembre 2022 ACCOGLIENZA
The Old Brewery a Londra, con gli alti soffitti e gli imponenti fermentatori.

PER UNA CARTA degli abbinamenti

Abbiamo lasciato la scorsa volta tracciando una serie di strade e di possibilità da percorrere: perché niente parte senza un piano di azione logico e ben strutturato. Ora vorremmo cercare di dare qualche esempio concreto: scendere sul campo è essenziale per capire e farsi capire e dimostrare la fattibilità di ciò che si sostiene.

I nostri, di esempi, vogliamo considerarli come un semino da piantare, come un invito alla ricerca, allo studio e alla gioia nel praticare assaggi, comparazioni, abbinamenti.

Costruire una carta degli abbinamenti va considerato come il frutto ultimo del lavoro che si svolge tutti i giorni all’interno del proprio locale. Ognuno ha infatti una modalità di lavoro specifica, che dipende certamente da carattere e personalità di chi lo conduce, ma che si esprime in maniera altrettanto significativa nella scelta della linea di cucina e nella selezione degli alcolici. Impostare una carta degli abbinamenti significa costruire una lista di abbinamenti che funziona e che viene consigliata perché eleva e valorizza ciò che si

mangia e ciò che si beve. Ogni locale troverà il modo di comunicarlo come meglio crede: nell’osteria o nel pub magari sarà a voce o su una lavagna, mentre nel ristorante stellato ci sarà una stampa su carta pregiata. Non è questo l’importante. Quello che conta è che ci siano delle connessioni sperimentate tra i piatti e le birre proposti e comunicare che ci sono dei cibi e delle birre che accoppiati sono meglio che da soli (anche se dobbiamo tenere ben presente che, nel piacere, la soggettività è un fattore essenziale e ineliminabile).

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di Roberto Muzi

L’aperitivo al bar

Uno spuntino preparatorio ai pasti era già previsto nel programma degli articolati pranzi-evento delle raffinate corti rinascimentali, ma è solo nella seconda metà dell’Ottocento, con gli imponenti cambiamenti socioeconomici della società di massa, che viene isolato come momento dedicato e separato, in cui decomprimere gli stress di giornata e promuovere la socialità.

La birra, per via della grande varietà stilistica e delle basse gradazioni alcoliche, può affiancare in maniera degna i più consueti bicchieri di vino o i drink.

Ecco allora tre esempi di abbinamenti da aperitivo, tratti da una serata-evento condotta assieme alla preziosa amica, chef e formatrice Nicoletta Laurano, che ha ideato e realizzato i piatti.

Quinoa con verdure primaverili e mandorle / Helles, Augustiner, 5.2% Birra da bere copiosamente con uno straordinario equilibrio tra i toni maltati e quelli del luppolo e un piatto perfettamente sintonizzato, leggiadro e profumato. Un’ouverture coi fiocchi, fatta di stimoli gusto-olfattivi piacevoli, stuzzicanti e poco impegnativi.

Tarte tatin alle cipolle / Nera, Birradamare, 5.5%

L’aromaticità tipica e la tendenza dolce del piatto si incontrano con la maltosità e i tratti tostato/fumé di questa schwarzbier, costruendo una coppia che funziona e appaga. Purtroppo, questa birra non è più prodotta, ma sul mercato ci sono diverse, validissime compagne di stile.

Tempura di gamberi e verdure con salsa agrodolce / Migdal Bavel, Extraomnes/Stillwater, 6.7%

Grandioso esempio di incontri virtuosi. La carbonica sgrassa bene l’untuoso, l’aromaticità fine di questa meravigliosa saison arricchisce il gusto del piatto, la secchezza aiuta a ripulire il palato e stimola la richiesta del prossimo boccone.

In pizzeria

Uno dei luoghi gastronomici prediletti dalla birra (nello scorso numero abbiamo raccontato l’origine di questo storico matrimonio) e che ha conosciuto una recente rivoluzione, simile a quella dell’artigianale. Nelle migliori pizzerie, alla ricerca sulle farine, all’attenzione sulle tempistiche di lievitazione-maturazione, si è affiancata un’attenzione lodevole alla carta del bere. Scelta sensata da diversi punti di vista: perché rappresenta una contraddizione in termini mangiare bene e bere male; perché si aumentano l’offerta e le pos-

sibilità di soddisfazione; perché si alza la spesa media del singolo cliente.

Supplì classico / Gose, Ritterguts, 4.7%

Da uno storico produttore di questo particolare stile, che oggi troppi interpretano con insensate aggiunte di sciroppi, una birra fresca, acidula, profumata, lievemente sapida e beverina. Il supplì, realizzato da Pizza Chef Roma, una delle migliori pizzerie al taglio della capitale, ha pochi “segreti”: panatura e frittura ben eseguite. Con la Gose compongono un vero abbinamento da street food: la birra deterge perfettamente

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la bocca e la lieve tendenza sapida non disturba il condimento, aggiungendo piuttosto una nota fresca alle tendenze dolci. Quando si dice “partire col piede giusto”.

Pizza ripiena con arrosto e bufala / Tynt Meadow, Abbazia di Mount St. Bernard, 7.4%

Abbinamento fatto durante un’incantevole serata di degustazione presso Hop family, noto beer shop romano, scandita dalle splendide preparazioni culinarie di

Elettroforno Frontoni. Pizza buonissima e gustosa, con grande attenzione nella scelta degli ingredienti, e birra che è già, ormai, una garanzia. L’abbinamento le esalta: la parte maltata dialoga con quelle sapide della muzzarella e del prosciutto e le irresistibili aromaticità presenti si mescolano, lasciando in bocca un’inedita freschezza erbacea e un palato netto, pronto al prossimo giro.

Marinara con aglio ursino / American red ale, Birra Perugia, 6.0%

In questa ricetta, realizzata dalla già citata Pizza Chef Roma, protagonista assoluta è la particolare aromaticità di questa officinale (il cui nome viene dalla passione che gli dimostrano gli orsi): rispetto all’aglio comune, di cui è la versione selvatica, ha profumo inebriante, gusto delicato e non crea gli odiosi effetti indesiderati del dopo. L’abbinamento è fantastico: il lavoro dei malti è un accordo musicale con il lieve acidulo del pomodoro e le note tostate-caramellate lasciano opportunamente spazio alla fragranza dell’aglio.

Cenare al pub

Il pub, si sa, è la casa della birra. Ma in un mondo in cui si beve sempre meno e in un contesto in cui i locali di somministrazione sono sempre di più, avere la disponibilità della cucina diventa una necessità per garantire gli imprescindibili margini economici. Puntando soprattutto sulla semplicità e l’appetibilità delle fritture e dei panini. Sulle fritture c’è poco da dire, se si fa attenzione all’olio utilizzato e si evitano eccessi surgelati. Sui panini, invece, qualche problema in più si riscontra: troppo spesso vengono assemblati con altezze da media collina appenninica e composti da ammucchiate di ingredienti senza logica. Sembra che l’obiettivo principale siano i like per la foto sui social network, ma il risultato finale è fatto di impossibilità di addentare, di pani che si sfaldano come argilla bagnata e di untuosità variegate che stillano copiosamente nel piatto. Il panino è un cibo meraviglioso, ma va assemblato con una logica gastronomica e senza tentare di strafare.

Il pub rimane la casa della sostanza e della semplicità e su questa impronta filosofica si dovrebbe costruire il menu. Possiamo considerare il pub come il corrispettivo birrario delle osterie della tradizione regionale italiana più autentica, con al centro di tutto: il buon bere; oste/ ostessa o publican; piatti che hanno semplicità di fruizione e protagonismo delle materie prime; socialità e convivialità.

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Pettola con peperoni / Terzo tempo, Argo, 4.4%

La pettola, termine che conosce un ampio numero di varianti locali in tutto il Mezzogiorno d’Italia, è una palla di pasta lievitata e fritta. Pur se di provenienza ancora incerta, venne probabilmente assorbita a partire da una preparazione chiamata petullat, tipica delle comunità arbëreshë (che, secoli fa, dall’Albania colonizzarono alcune aree del nostro meridione). Le pettole sono preferibilmente servite bollenti e salate, ripiene o ad accompagnamento delle verdure, ma esiste anche la versione dolce, accoppiata al miele, allo zucchero o al mosto cotto, di vino o di fichi.

Cibo di strada fantastico, la pettola risulta untuosa e aromatica: la birra, dalla beva e dalla freschezza eccezionali, deterge e aggiunge una nota erbaceo-floreale che completa il bouquet di coppia.

Panino all’olio con straccetti di pollo al tegame, erbette ripassate e pesto alla siciliana (pomodori secchi, capperi, olive, ricotta salata) / Yakima Valley, Arbor, 7.0%

Il panino (ideato e realizzato da Nicoletta Laurano) risulta intrigante e gustoso; questa American IPA coniuga beva strepitosa e apprezzabile spina dorsale

maltata. Così l’abbinamento funziona, esaltando entrambi: carne e salsa sono perfettamente accompagnate e valorizzate dai malti; il luppolo aggiunge aromaticità fruttata all’insieme, ampliando il portfolio di profumi che impregnano il respiro della retro-olfattiva. Come terza proposta, gli abbinamenti per una selezione di formaggi

1) Emmentaler A.O.P. / Rochefort 6, 7.5% L’istituzione dell’ Appellation d’Origine Controlée ha finalmente recintato il perimetro di magnificenza di questo formaggio (di cui esistono troppe versioni scialbe): garantisce che sia a latte crudo e da vacche allevate in montagna, due caratteristiche che restituiscono profumi tipici e uno splendido gioco tra dolcezza, grassezza, pungenza e lieve sapidità.

La Rochefort 6 è una strong ale ambrata trappista complessa, con buon corpo e apprezzabile carbonazione: una birra storica e sempre affidabile.

In abbinamento, le note caramellate e quelle mielate accompagnano la dolcezza lattica e la sensazione burrosa e contrastano piacevolmente la sapidità tenue. Chiusura netta, pulita che incoraggia a replicare l’assaggio “di coppia”.

2) Vastedda del Belìce Presidio Slow Food / Tripel, Casa di cura, 8.0%

È l’unico formaggio italiano a pasta filata proveniente da latte di pecora. Da tradizione, i casari della Valle del Belìce (tra le province di Trapani, Agrigento e Palermo) lo producono da maggio a ottobre, rilavorando ad alta temperatura i pecorini che presentano difetti: il nome, infatti, deriva dal dialettale vasta, cioè guasta. Di forma ovoidale, è da consumare fresco (tanto che può sostituire anche la mozzarella in una caprese) e risulta lattico, pastoso e dalla sapidità gentile.

La Tripel de La casa di cura è una birra fatta benissimo, elegante, dalla grande persistenza gusto-olfattiva e con una maniacale attenzione ai dettagli che, assaggiata alla cieca, fa pensare alla firma dei maestri belgi: vera ed encomiabile rarità per uno stile troppo spesso mal interpretato.

Si sa che le birre amano il formaggio, ma in questo caso c’è davvero un proficuo incontro tra le parti mielate e quelle lattiche, tra la sapidità e le tendenze maltate, tra la lunghezza gustativa del formaggio e quella della birra.

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3) Blue d’Auvergne AOP / Quadrupel, Extraomnes, 9.3% Vastedda del Belìce (foto di Alberto Peroli e Fabio Artusi).

Proveniente dal Massiccio centrale francese, area desolata e adatta alla pastorizia, risulta tra i migliori erborinati d’oltralpe. È caratterizzato da grassezza, dolcezza, sapidità e chiusura leggermente amaricante, con una rilevante persistenza gusto-olfattiva.

La birra ha la personalità di una quadrupel e la bevibilità di una strong belgian ale, con impressioni di frutta disidratata, spezie dolci, tostature, cacao e cenni vinosi. In abbinamento, i malti lavorano bene sulla sapidità, aggiungono le sensazioni tostate a quelle grasse e burrose, l’imponenza del corpo contrasta la sapidità, si assiste a un affiancamento delle lunghezze gustative e dopo aver deglutito rimane la sensazione di un panforte, di un formaggio ubriaco e di bellezza.

Stappare birre al ristorante

Quella della presenza delle birre nelle carte più prestigiose è forse la sfida più stimolante: l’abbiamo accennato nello scorso numero, la birra ha ampie potenzialità nell’alta ristorazione, ma spesso mancano le competenze per acquistarla e abbinarla, un po’ di coraggio e vige questa sorta di obbligo morale per il quale se si va a mangiare fuori e si spendono almeno 50,00 € si debba stappare del vino.

Ecco idee e suggerimenti per stuzzicare i nostri cari ristoratori a fare il passo decisivo.

Polpo marinato al tabasco grigliato, con lamponi, servito su vellutata di Cicerchie Serre de’ Conti, Presidio Slow Food / Gallagher stout, Hilltop, 5.5%

In una serata organizzata qualche anno fa dalla Condotta Slow Food di Civitavecchia, l’abbrivio della cena con questo piatto fu una vera Epifania: all’assaggio tutti furono pervasi da un senso di felicità, che si trasformò in incertezza quando i camerieri cominciarono a servire questa birra scura e con un vago sentore fumé. Un’inconsueta coppia, certamente, che si rivelò in tutta la sua fertilità al momento dell’abbinamento: le tostature della birra, una delle migliori stout italiane, cercano l’aromaticità del polpo e del ribes e la delicatezza della vellutata, mentre l’accordo tra la salsa piccante e la lieve affumicatura della Gallagher (data dalla dulse) si trasforma in un gioco godurioso.

Flan di zucca e gorgonzola con riduzione della Sigma di Alvinne (ricetta e realizzazione di Nicoletta Laurano) / Sigma, Alvinne, 8.0% Piatto davvero particolare, che gioca tra dolcezza, piccantezza, sapidità e una

lieve vena acidula. Ad accompagnarlo un’intrigante flemish red ale sui generis, che ha molti degli elementi di sottigliezza e acidità dello stile, ma anche la forza dell’alcol e la rotondità di un’originale trama maltata.

In abbinamento, i due elementi viaggiano allo stesso livello di personalità, si incrociano splendidamente dolcezze e acidità, sprigionando coinvolgenti sensazioni fruttate e speziate.

Croccante di maiale (capocollo di maiale nero abruzzese, broccoletti, senape) / Castagnale, Birra del Borgo, 6.8%

Il piatto, preparato da Franco Franciosi e Francesco D’Alessandro, cuochi del fantastico Mammaròssa (Avezzano, AQ), arrivava a dei livelli di estasi rari. E l’abbinamento (con la ricetta prima delle modifiche successive alla nota acquisizione del birrificio da parte di AB-Inbev) fu di pura gioia: la birra ha il corpo perfetto per affrontare un piatto di spessore, offre una nota leggermente affumicata che il maiale ama e i toni maltati affrontano prolificamente la pungenza della senape. ★

20 BIRRA NOSTRA MAGAZINE novembre-dicembre 2022 GUSTO

A HOSPITALITY 2023, birra artigianale, mixology e il mondo Ho.Re.Ca. al completo

febbraio con un focus dedicato alle Marche, una delle regioni italiane principali produttrici di orzo, che con la sua Strada della Birra propone un itinerario che valorizza il settore brassicolo artigianale con iniziative legate al turismo e alla scoperta del territorio.

Nella mattinata di mercoledì 8 febbraio si parlerà di “Turismo brassicolo in Italia: prospettive e opportunità”, mentre nel pomeriggio appuntamento con “HopTour e HopFood: il luppolo in cucina, nuove esperienze degustative e turistiche” con la presentazione de Il Giardino delle Luppole di Grattacoppa (Ravenna).

Il programma è sempre in aggiornamento su www.hospitalityriva.it.

Hospitality - Il Salone dell’Accoglienza, la fiera internazionale leader in Italia nel settore dell’ospitalità e della ristorazione, torna dal 6 al 9 febbraio 2023 a Riva del Garda con un’offerta business oriented unica e completa. Tra i grandi protagonisti della prossima edizione di Hospitality anche la birra nell’area speciale dedicata Solobirra: un vero e proprio laboratorio di tendenza per gli operatori Ho.Re.Ca. con la partecipazione di produttori e distributori di eccellenza italiani e internazionali oltre alle soluzioni per impiantistica e imbottigliamento. Grazie ai contributi di mastri-birrai e opinion leader del settore, sta prendendo forma un ricco palinsesto di incontri che animerà la Beer Arena del Padiglione B4. In apertura lunedì 6 e martedì 7 febbraio

le premiazioni dei contest Solobirra e Best Label 2023, che decreteranno le migliori birre artigianali per proprietà organolettiche e originalità di etichette e packaging. Molte le degustazioni e gli appuntamenti per approfondire il legame sempre più stretto tra birra, turismo e ospitalità, sottolineare il potenziale di crescita delle craft beer e discutere dei trend topic del settore.

Qualità, artigianalità e legame con il territorio saranno tra i temi dell’incontro “La Strada della Birra della Regione Marche. La craft tourist revolution” in calendario nel pomeriggio di martedì 7

Oltre alla birra artigianale, a Hospitality una grande attenzione è dedicata al bere miscelato con RPM-Riva Pianeta Mixology, l’area speciale con le migliori aziende italiane e internazionali produttrici di distillati e grappe, e mixologist di fama internazionale che si alterneranno in educational e free masterclass per bartending e professionisti di ristorazione e hôtellerie. Focus sull’enoturismo con l’area speciale Winescape.

Hospitality rappresenta il mondo Ho.Re.Ca. a 360°: quattro aree tematiche - Beverage, Contract&Wellness, Food&Equipment e Renovation&Tech - per un percorso espositivo completo con aziende selezionate tra le eccellenze del settore, per connettere fornitori e partner e offrire opportunità di formazione e aggiornamento con l’Academy.

BIRRA NOSTRA MAGAZINE 21 novembre-dicembre 2022

Black Sheep, YORKSHIRE SOUL

L’Inghilterra è stato uno dei primissimi posti in cui ho capito che la birra non era necessariamente quella cosa gialla, gasatissima, da bere ghiacciata. Diciamo che nei pub inglesi, se incappi in una birra tradizionale, una Real Ale, la terapia è d’urto, con birre servite “piatte” (praticamen-

te sgasate) e a temperatura di cantina, di poco inferiore a quella ambiente. Si scoprono sapori e profumi sconosciuti ma soprattutto ci si trova in un mondo a sé, con un tenore alcolico molto basso senza che il piacere della bevuta venga minimamente scalfito, anzi. D’altronde, un viaggio in Inghilterra non può pre-

scindere da una buona pinta di birra. È un dato di fatto: la birra in Gran Bretagna (e quindi in Inghilterra) è parte integrante del tessuto sociale. Le grandi città, Londra in testa, nella loro dinamicità non sono però un fedele specchio della realtà brassicola anglosassone, ma un esempio di grande modernità e apertu-

22 BIRRA NOSTRA MAGAZINE novembre-dicembre 2022 BIRRE DA RACCONTARE
di Andrea Camaschella

ra verso nuove frontiere; qui i consumi di birra sono meno importanti e spesso si vedono persone bere vini o cocktail. Il vero baluardo della tradizione è la provincia, laddove le abitudini e le consuetudini si cambiano a fatica: il pub è ancora il luogo di ritrovo dopo il lavoro, per chiacchierare con gli amici o i conoscenti bevendo una birra, e a volte il luogo in cui andare a cena con la famiglia.

Il mondo di James Herriot Egoisticamente, vi porto nella regione che più amo dell’Inghilterra, lo Yorkshire: sono cresciuto leggendo, nei primi anni ’80, i libri di un autore poco noto ai più, James Herriot - pseudonimo di James Alfred Wight (1916 - 1995) - un veterinario che nel 1937 trovò impiego nell’immaginaria Darrowby, nei cui dintorni sono ambientati i suoi racconti. Nomi (di persone e di luoghi) sono immaginari, ma basati su situazioni reali: Darrowby altro non è che Thirsk, dove oggi l’ex studio veterinario - nonché abitazione - di Wight e del suo socio Donald Sinclair è un museo, “The World of James Herriot” (23 Kirkgate, Thirsk, North Yorkshire).

Di quel mondo rurale, di quei personaggi spesso rudi ma pieni di umanità, di quei paesaggi serbo un ricordo speciale e, ogni volta che ci torno, quelle terre non mi deludono mai. Almeno non dopo il primo viaggio in cui dovetti accettare che cavalli e buoi erano stati definitivamente sostituiti da trattori e altri macchinari. Per altro, una modernità che molti scorci di paesaggio non lasciano ancora oggi intravedere, con pianure immacolate, colline impervie ricoperte di erica e pecore libere al pascolo: sono il biglietto da visita dello Yorkshire e anche la miglior rappresentazione della brughiera. Le città più importanti sono Leeds (West Yorkshire), Sheffield (South Yorkshire), York (North Yorkshire) dove si trovano birrifici e pub in quantità ma, soprattutto nelle prime due, anche l’effetto di cui accennavo sopra: grande modernità e minor tradizione.

Soggiorno consigliato al Tan Hill Inn o al Lion Inn

Per entrare fino in fondo nello spirito locale, consiglio di fare un salto al Tan Hill Inn (Long Causeway, Richmond DL11 6ED), il pub che vanta la massima altitudine della Gran Bretagna (ben 528 metri sul livello del mare: in fondo è l’Inghilterra, non l’Himalaya…), oppure al Lion Inn (Blakey Ridge, Kirkbymoorside, North Yorkshire) sulla cresta del North York Moors. Entrambi hanno camere, alcune con servizi privati, e il rischio di restare bloccati per neve è concreto: in quel caso si è ospiti delle strutture. Qui, nel mezzo del nulla, tra i pascoli delle pecore, gli avventori non mancano: a cena o anche solo per bersi una birra dopo il lavoro e si beve quasi esclusivamente Real Ale. Altra peculiarità a me molto cara di entrambi i posti è quella del servizio di sole birre prodotte nello Yorkshire; in particolare, una hand pump è sempre dedicata a una delle mie birre preferite in assoluto, la Best Bitter di Black Sheep, uno dei simboli - opinione persona-

le ma condivisa da molti in quelle terre - dello Yorkshire.

La storia di Black Sheep

Black Sheep apre i battenti nel 1992 ma la sua storia brassicola risale a oltre un secolo addietro: Paul Theakston, il fondatore, è infatti discendente di Robert Theakston, fondatore nel 1927 di T&R Theakston Ltd e se risaliamo l’albero genealogico scopriamo che la madre di Robert, Mary Lightfoot, era discendente di una famiglia di birrai, proprietari e fondatori di Lightfoot Brewery (acquisito da Theakston stesso e chiuso definitivamente nel 1919) anche questo a Masham.

Gli anni ’90 sono un periodo molto complicato per i birrifici familiari britannici. Se alla fine della I guerra mondiale sono in attività circa 4.400 birrifici, negli anni ’70 ne rimangono meno di 150 e dagli anni ’80 inizia una timida ripresa. La maggior parte dei birrifici viene spazzata via dall’intraprendenza delle grandi aziende, che si accaparrano il mercato o acquisiscono diretta-

BIRRA NOSTRA MAGAZINE 23 novembre-dicembre 2022 BIRRE DA RACCONTARE

MASHAM: 8 LOCALI CHE SERVONO BIRRA PER 1200 ANIME

Masham merita uno studio a parte per un appassionato di birra: è un piccolo borgo abitato da circa 1200 anime che si sviluppa attorno alla Market Place, la piazza principale, sede di uno dei più antichi mercati inglesi (il diritto al mercato risale alla metà del XIII secolo); in particolare, la fiera dell’ovino, a settembre, ha tutt’oggi grande risonanza. Non ha una stazione ferroviaria: la più vicina si trova a Thirsk. Sulla Market Place si affaccia il pub dell’Hotel Kings Head; subito a nord della piazza si trova il pub The Bay Horse e appena più in là, in Little Market Place, il Bruce Arms, pub con un paio di camere e un giardino sul retro. Poco più a nord si trovano il

Black Bull in Paradise e il White Bear, entrambi di Theakston LTD (il primo è il visitor centre connesso al birrificio Theakston). Verso la fine del villaggio, a sei minuti a piedi dalla piazza in direzione nord, si trova il birrificio Black Sheep, con il pub, il ristorante e il negozio. Camminando per meno di 20 minuti verso sud verso la club house del golf club si trova un altro pub. Nel raggio di circa un chilometro dalla piazza ci sono 7 locali dove bere birra, le stesse etichette in ognuno, prodotte a Masham o, in rare occasioni, più lontano ma sempre e rigorosamente nello Yorkshire. Possiamo salire a 8 locali si aggiungiamo, ancora più a sud a circa 3,5 km dalla piazza, un

mente i concorrenti per poi chiuderli o trasformarli in altro, talvolta tenendo vivo soltanto il marchio. Theakston viene appunto acquisito negli anni ’80 da Matthew Brown Brewery, a sua volta acquisito da Scottish & Newcastle pochi anni più tardi e chiuso definitivamente nel 1991. La produzione di alcune birre, tra cui la Best Bitter, viene trasferita alla Scottish & Newcastle’s Tyne Brewery. Per Paul, che a quel birrificio ha dedicato la vita entrandoci a 19 anni e diventandone amministratore a 23, è troppo ed esce dalla società mentre gli altri famigliari restano in azienda (fino a ricomprarla nel 2003). Paul nel 1991 acquisisce l’ex malteria North of England Malt Roasting Co, un edificio nella parte più a nord di Masham, dove creare il nuovo birrificio, ma non tutto è filato subito liscio: in rete si trovano molti resoconti dei problemi che hanno ostacolato l’inizio dell’avventura di Black Sheep, ritardandone l’apertura. Un figlio di Paul mi raccontò infatti che

vecchio e affascinante pub con camere, il Black Swan Hotel. Dunque, tanti posti dove bere la Best Bitter di Black Sheep, dove incontrare la popolazione locale che si divide tra le varie birre; ognuno ha la sua preferita ma a seconda di chi offre il giro si può cambiare etichetta. Gente tranquilla ma curiosa e quando non sente l’accento, marcato, locale, inizia a scrutarti fino a vincere quel muro di timidezza per scoprire da dove arriva lo straniero. O forse solo per assicurarsi che sia un turista, chissà, ma lo fanno in modo molto educato e si sforzano anche di parlare un inglese comprensibile e di darti consigli, ma solo se espressamente richiesti.

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l’accesso alla nuova struttura fu a lungo osteggiato da S&N perché passava attraverso una loro proprietà (il vecchio birrificio Lightfoot) e, in particolare, furono proprio i cugini a far ritardare con ogni mezzo la costruzione di una nuova strada.

Il birrificio

Black Sheep è parte integrante della comunità rurale di Masham, ma è anche e soprattutto uno dei birrifici che riescono a coniugare tradizione e modernità con classe ed eleganza, senza strafare. Il nome lo si deve all’ironia di Sue, la moglie di Paul, che propose di usare Black Sheep visto che Paul sarebbe diventato la pecora nera della famiglia Theakston.

Il birrificio si sviluppa in parte in una nuova struttura e in parte nella vecchia malteria di cui sono ancora visibili alcuni macchinari (seppur inutilizzati); lo spazio è limitato ma affascinante e qui si trova il primo impianto, datato: un piccolo reperto storico se vogliamo, ma ancora in funzione anche se nell’ala più recente ci sono macchinari moderni e tecnologici. Nella zona dedicata alla fermentazione del mosto fanno ancora mostra di sé i classici tini a cielo aperto e pianta quadrata, gli Yorkshire Squares, costruiti in ardesia, da cui l’altro nome con cui sono riconosciuti: Yorkshire Stone. Sono a due piani per permettere di separare il lievito (ed eventualmente recuperarlo) man mano che finisce il suo lavoro così da aiutare la pulizia della birra, un concetto che oggi vediamo sviluppato nei tini dal caratteristico fondo tronco conico.

La cantina è corredata anche di molti moderni tini in acciaio a base rotonda con controllo della temperatura, decisamente più attuali. Quello che stupisce - o almeno stupisce me - è la presenza di una enorme cella fredda dove vengono conservati i luppoli che di solito in Regno Unito sono lasciati a temperatura ambiente. Tutto è ordinato e pulito: è un birrificio visitabile ma

Il primo bollitore.

BIRRA NOSTRA MAGAZINE 25 novembre-dicembre 2022 BIRRE DA RACCONTARE
Il vecchio tino di ammostamento, ancora oggi utilizzato per alcune ricette.

la cura dei dettagli, la sanificazione e la pulizia in generale sono qualcosa che supera gli standard della maggioranza dei birrifici britannici e che si riflette, positivamente, nelle produzioni. Paul è ancora amministratore ma senza deleghe: il ruolo lo ricopre Rob, il figlio

maggiore, mentre Jo, il secondo figlio, è il responsabile delle vendite e del marketing. La missione è sempre la stessa: produrre birre dello Yorkshire in cask con grande attenzione alla qualità. Black Sheep, nel panorama brassicolo inglese, è una pecora nera, nell’acce-

zione però positiva del termine e non solo per la pulizia degli impianti, di cui accennavo, ma anche per la cura dei dettagli: alcuni, in particolare, stridono con la realtà brassicola locale. Il birrificio è dotato di un mulino mentre molti altri acquistano il malto già macinato. Il lievito è stato selezionato da un ceppo storico, in uso sin dagli anni ’20 dello scorso secolo, e mantenuto con grande cura perché è la base dello “smooth mouthfeel”, la sensazione di morbidezza al palato tipica di tutte le birre di Black Sheep (e dei migliori esempi di Best Bitter dello Yorkshire). Le materie prime sono selezionate per la qualità.

Le birre

Al pub le birre sono, una per l’altra, perfette. Al bistrot si mangia bene, si apprezza un’ottima materia prima e, cosa ancor più rara, sul menù accanto alle portate sono indicate le birre consigliate per l’abbinamento!

La Best Bitter (3,8% ABV con luppolo Challenger e il mio amato Fuggle ad arricchire il bouquet) è la birra iconica per eccellenza nonché la prima prodotta da Paul e racconta la tradizione, lo Yorkshire, i suoi abitanti e le loro abitudini. Accanto alle birre più tradizionali sono progressivamente apparse birre più moderne, tra cui la Lager 54° (che indica il parallelo che passa per Masham), che in realtà è fermentata col lievito della casa, quindi ad alta fermentazione, ma lagerizzata 4 o 5 settimane e di chiara ispirazione tedesca, così come tedeschi sono i luppoli, tra cui svetta, senza graffiare, il Polaris. In tempi molto recenti ha fatto capolino anche la Respire, una American Session IPA con note tropicali e agrumate, legata a un progetto che contribuisce alla piantumazione di nuovi alberi.

E non si possono non citare le tre birre dedicate ai mitici Monty Python: la Holy Grail (una British Pale Ale caratterizzata dal luppolo Whitbread Goldings Variety), la Brian (una Pale Ale) e la Flying Circus (un’American IPA). In realtà, le

26 BIRRA NOSTRA MAGAZINE novembre-dicembre 2022 BIRRE DA RACCONTARE
Il fermentatore quadrato in ardesia. I nuovi fermentatori in acciaio.

referenze oggi sono davvero tante tra classiche, fisse, stagionali e possono trovarsi in cask, in fusto, in bottiglia o in lattina ma non necessariamente tutte in ogni contenitore: ogni birra è confezionata nei formati di cui il team di produzione è soddisfatto dei risultati o in alcuni casi con delle differenze sul processo produttivo per far sì che la birra sia comunque soddisfacente.

Il lavoro sui cask

Per gustarsi al meglio una Best Bitter e più in generale capire a fondo una birra inglese il cask e la hand pump sono elementi fondamentali ma anche terribilmente complessi da gestire.

In Black Sheep il lavoro sui cask, o meglio con i cask, è certosino: consapevoli che al di fuori del mondo inglese è un oggetto sconosciuto o quasi, hanno redatto con il loro cellarman, il collaboratore che si occupa della gestione dei cask per il pub di Black Sheep, un do-

cumento di 62 pagine (oltre a due altri fogli di riepilogo delle manovre fondamentali, con foto e disegni) che spiega come trattare un cask prima, durante e dopo la mescita della birra che contiene. In realtà, il documento tratta anche dei più comuni (alle nostre latitudini) fusti in acciaio e parte dalla sanificazione delle linee senza tralasciare ogni aspetto della gestione del pub: per servire una buona pinta occorre l’attenzione di tutta la filiera.

Black Sheep è l’unico birrificio in cui mi è stata data una risposta alla fatidica domanda “cosa succede alle vostre birre in cask se vengono servite senza sparkler? [lo sparkler è un ugello da avvitare al rubinetto della pompa che fa sì che la birra crei un vortice favorendo la creazione della schiuma, sottolineando la sensazione di morbidezza al palato. NdA.]?”. Normalmente, nello Yorkshire, mi guardano come un alieno e credo che manco capiscano il senso della do-

manda: si usa e basta, ignorando il fatto che poco più a sud non si usa affatto e che le birre perdono tanto, tantissimo e non solo nelle sensazioni tattili. Con grande naturalezza, Jo mi ha risposto che “le nostre birre sono state pensate e vengono prodotte per essere servite con lo sparkler; nelle nostre zone il problema non si pone, lo usano tutti, quando vendiamo in altre regioni lo consigliamo vivamente ma non possiamo costringere i nostri clienti, però…” e mi racconta del documento di istruzioni che accompagna i loro prodotti specificando la preoccupazione su come vengono trattati i loro cask al di fuori del birrificio. La cosa sembra funzionare a dovere: le (purtroppo) rare occasioni in cui ho potuto bere Black Sheep in cask fuori dallo Yorkshire, potevo semplicemente chiudere gli occhi per rivivere anche i panorami, perché tutto il resto è già nel bicchiere, pardon, nella pinta. ★

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Jo Theakston. Dettaglio di uno sparkler.

BIRROVAGARE IN ITALIA:

luogo magico dove birra e turismo si incontrano (e talvolta si scontrano)

Personalmente mi piace riferirmi all’Italia come al Belpaese, sebbene a qualcuno l’espressione evochi immediatamente l’immagine dell’omonimo formaggio. Per me, invece, è un epiteto calzante, dal potere evocativo immenso, che ben si presta a sottolineare l’enorme potenziale del

nostro territorio. Tuttavia, al netto di patriottismi e stereotipi, cosa rende davvero l’Italia così bella? La gastronomia, croce e delizia di noi appassionati della bevanda di Cerere, certamente gioca un ruolo centrale nel raggiungimento di un così alto titolo. La gastronomia è il fiore all’occhiello di una

nazione che può vantare – a ragion veduta! – un microcosmo di prodotti tipici, un ventaglio di gozzoviglie distribuite in maniera capillare lungo tutto lo Stivale, una varietà eccezionale di prodotti da bere e da mangiare. Quali altri paesi d’Europa e anche del mondo possiedono uno spettro così ampio di

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di Matteo Malacaria

prodotti alimentari, concentrati in un fazzoletto di terra così piccolo? Pochi, pochissimi. Credi a uno che ha ancora molto da scoprire, ma qualche viaggio se lo è comunque fatto. A proposito di viaggi, se la gastronomia rappresenta uno dei punti di forza italiani, ancor di più lo è il turismo. Perché ha un potere attrattivo devastante, perché si rivolge a una platea decisamente più vasta, perché sotto l’ombrello del turismo rientrano un sacco, ma proprio un sacco di patrimoni nazionali di cui la gastronomia rappresenta solo la punta di diamante. Storia, architettura, religione, filosofia, arti in genere, mare, montagna ed eterogeneità geografica rendono l’Italia, a detta di molti, il paese più bello del mondo – anche se personalmente mi dissocio da questo superlativo, soprattutto quando di orientamento nazionalpopolare. Sulla scorta della mia piccola e finora troppo breve esperienza di viaggiatore (in un’altra vita sarò nomade, in questa mi tocca essere un impiegato qualunque), ovunque sono andato ho scoperto che l’Italia evoca una sensazione di universale simpatia, apparentemente motivata da quello che è poi anche un vecchio slogan coniato dall’esimio Ernst Friedrich Schumacher, recentemente tornato in auge per intercessione dei sacri maestri del marketing: piccolo è bello.

Piccolo è bello Ecco, l’Italia è un paese indubbiamente piccolo, che impallidisce per dimensioni di fronte alle grandi, in tutti i sensi, nazioni mondiali; ed è bello, anzi doppiamente bello, perché nelle sue dimensioni piccine raccoglie pressoché tutto quello che un turista possa desiderare. L’ho presa larga e l’ho messa anche un peletto sotto il profilo romantico; perdona l’arzigogolata introduzione ma stiamo arrivando al nocciolo della questione. Le dimensioni delle imprese sono in scala: lo dimostra il fatto che le PMI (Piccole e Medie Imprese) rappresentano la quasi totalità del

tessuto imprenditoriale del paese, con una percentuale esigua di aziende che impiegano oltre 250 dipendenti. Hai idea di quanto questo essere piccinipicciò possa risultare affascinante, se non addirittura magico, agli occhi del turista straniero? Prendi il classico turista statunitense, il quale è abituato a cose esageratamente mastodontiche e a utilizzare il proprio veicolo anche solo per andare a gettare l’immondizia casalinga e poi si trova in Italia, dove tutto è appunto piccolo e bello. Credi a me (per la seconda volta): dici Italia e gli stranieri vanno in visibilio.

Il fascino della birra artigianale italiana

Non sto qui a fare un panegirico su cosa significhi compiere un corretto posizionamento di prodotto o di mercato e di-

ventare il punto di riferimento della propria nicchia: lasciamo questi discorsi ai tempi e ai momenti più opportuni. Limitiamoci ad aggiungere, rispetto a quanto detto poc’anzi, che pur in un contesto ampio e variegato come quello turistico, a parità di bellezza paesaggistica, l’Italia può ulteriormente brillare per l’offerta turistica nostrana. In generale siamo noti per il vino, da cui la celebre enogastronomia; tuttavia, di recente anche la birra si è fatta spazio nel cuore dei consumatori, sia italiani che esteri. Torniamo un attimo negli USA, dove tutto è il contrario di tutto: la birra è la tendenza e il vino è l’eccezione. Anche gli americani si sono lasciati ammaliare dalla grande bellezza della piccola Italia, anche e soprattutto dalla birra artigianale made in Italy. Perché se è vero che gli statunitensi di birra artigianale sono abituati a

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consumarne a secchiate, è altrettanto vero che il microbirrificio italiano appare ancora più micro e quindi magico! Ma non vale solo per i turisti USA: tutti gli appassionati di birra, senza distinzione di cittadinanza, nutrono per il piccolo, appassionato e romantico fenomeno birrario italiano profonda stima ed enorme curiosità. Questo offre una scusa in più per viaggiare con destinazione Italia. Ce n’era veramente bisogno? Per il turismo in sé forse no, per il comparto birrario assolutamente sì. A questo punto però la domanda che vorrei porre ai lettori è: siamo pronti ad attirare prima e accogliere poi il turismo birrario? Secondo me no.

Potenziare il turismo birrario Proprio pochi giorni fa stavo ascoltando un interessantissimo podcast (che

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vivamente consiglio) chiamato Juice

It Up. Nella puntata in questione l’argomento erano le bollicine italiane e gli ospiti intervenuti convenivano sul fatto che il marketing in generale e il lifestyle in particolare rappresentano la vera differenza tra lo champagne italiano e quello francese, considerato benchmark. E stiamo parlando di qualcosa che, alla stessa stregua del vino, è emblema nazionale. Se un settore così strutturato e rappresentativo è in ritardo rispetto ai propri competitor esteri, non tanto sul fronte qualitativo quanto sul piano comunicativo, figurarsi la birra, quella artigianale in particolare, che è sul mercato da poche decadi e che per il consumatore medio è rappresentata da Moretti non filtrata e Messina con cristalli di sale. Insomma, la comunicazione di settore è in ritardo siderale. In un precedente articolo comparso su questa rubrica ho cercato di argomentare la questione inerente all’attrattività della birra artigianale con riferimento al suo orientamento imprenditoriale un po’ demodé. Oggi vorrei chiudere il cerchio, soffermandomi su un altro aspetto che manca, a mio modesto avviso, alla generalità dei birrifici italiani: una visione d’insieme, la stessa che consentirebbe di vedere quanto sarebbe utile potenziare il turismo birrario per attrarre nuovi capitali.

Viaggiare, scoprire nuovi birrifici, birrovagare…

Viaggiare per me ha un unico obiettivo: la scoperta. Sovente, anzi piuttosto di frequente, la scoperta dei luoghi coincide con quella dei birrifici di zona, oppure quella degli stili birrari tradizionali. Insomma, quando mi metto in viaggio la birra ha sempre un modo per farsi trovare. Ed ecco il significato del termine birrovagare, neologismo in cui viaggio e birra si uniscono per raggiungere la medesima destinazione: la scoperta, appunto. Ora, capisco che a parte me e il buon Indiana Jones siamo veramente in pochi a ritenere che il viaggio sia scoperta

pura; tuttavia, pur mettendomi nei panni del turista tradizionale – me ne rendo conto quando mi capita di indossare i responsabili panni del docente birrario – mi rendo conto che la curiosità attorno al tema è forte e altrettanto la voglia di viaggiare per “abbeverarsi alla fonte”. Basti pensare a quegli stili dai forti connotati locali che rimangono reperibili altrove, ma che se bevuti nel loro luogo d’origine hanno tutto un altro sapore. Mi sovvengono Gose e Kölsch, che ho bevuto anche in Italia ma di cui non ho mai assaggiato un esemplare originale sul suolo tedesco. Ecco perché, in totale umiltà, ammetto di non conoscere appieno questi stili, semplicemente perché mi manca il metro di paragone, il riferimento, quello che ho precedentemente definito benchmark.

Per noi nerd della birra viaggiare è il miglior modo, anzi l’unico, per conoscere davvero una birra nel suo intimo, apprenderne i parametri sensoriali e fissarli bene a mente. Al netto di un’esperienza così trascendentale rimangono assaggi e degustazioni sparse, nessuna delle quali potrà mai compensare la scoperta in loco. Chiaramente di adeguatezza allo stile di riferimento sia il consumatore sia il birrovago se ne infischiano altamente. Però la birra piace a tutti, appassionati e non, e la possibilità di unire utile e dilettevole, ovvero viaggiare e bere insieme, ha un fascino al quale neppure il turista più astemio può resistere.

La Guinness in Irlanda ha tutto un altro sapore Non si tratta, infatti, solo ed esclusivamente di bere. Freschezza del prodotto a parte, consumare qualcosa nel suo luogo di origine possiede un fascino innegabile e indescrivibile. Hai presente la storia secondo cui la Guinness in Irlanda ha tutto un altro sapore? A dirlo non sono gli irlandesi, che la fabbrica non la frequentano molto, bensì i turisti internazionali che qui si riversano a frotte. Hai mai assaggiato un autentico ramen giapponese, magari in una bettola nip-

ponica, circondato da giapponesi che di risucchiare ad alto volume ne fanno una questione di orgoglio? Altro che All you can eat e fusion vari. Vale per il cibo così come per la birra e tutte le altre bevande: tutto è sorprendentemente più buono quando lo si consuma nel luogo di origine. Si chiama suggestione e, nonostante l’annebbiamento dei sensi, rende tutto più bello di quanto non lo sarebbe in condizioni normali. È così che il piccolo birrificio italiano, sconosciuto ai più, si ammanta di un’aura di mistero e magia che lo rendono straordinario agli occhi del visitatore, soprattutto se si tratta di un forestiero per il quale la novità è esponenziale. Ecco, siccome

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viviamo nel Belpaese, talmente bello che potrebbe vivere di turismo e piuttosto si accontenta di essere lo zimbello d’Europa, il comparto birrario potrebbe smettere di vivere di stenti e adagiarsi sugli allori, se solo riuscisse a sfruttare il potenziale latente del turismo birrario. Peccato che la burocrazia e la guerra dei prezzi occupino tutto il tempo di chi si impegna a mandare avanti la baracca, lasciando alle generazioni posteriori, semmai ve ne saranno, il compito di prendere in mano una patata bollente che ha tutto l’aspetto di una pepita d’oro incompresa.

Pensa alla coppia d’oro cacio e pepe: a chi non piace? Soprattutto quando a

farle da contorno ci sono un’osteria con una sua storia da raccontare, uno chef innovativo, magari un sommelier che azzecca il giusto pairing. Questo per dire che a rendere affascinante la birra non è (solo) la birra in sé, quanto piuttosto la voglia di vedere i luoghi in cui viene prodotta, sentirne tessere le lodi dal birraio, mistica creatura che la produce nel suo laboratorio alchemico. Insomma, tutte le storie che noi super appassionati abbiamo già sperimentato abbondantemente sulla nostra pelle e che ogni qualvolta riteniamo scontate mettiamo la croce sull’ennesima occasione per fare comunicazione birraria, quella buona. Un buon marketer sa che deve stupire il

suo pubblico, ma se il pubblico lo deve ancora creare bisogna innanzitutto attirarlo a sé. Come? Mettendosi nei suoi panni, osservando il mondo con occhi nuovi, gli occhi dell’esploratore: così facendo scopriremmo l’acqua calda, ovvero che a rendere la Guinness così buona non è tanto la birra in sé – pur beneficiando la freschezza della produzione e l’assenza di viaggi sulle spalle – bensì il fatto di assaggiarla al termine di una visita alla sua fabbrica di produzione.

Il grande potenziale del turismo birrario in Italia Guinness è un eccellente esempio di marketing birrario di qualità e il successo attrattivo della sua fabbrica ne è l’ennesima conferma. Un successone, visto che c’è gente disposta a viaggiare per concedersi un’esperienza del genere. Mi vengono in mente anche l’Oktoberfest oppure, giusto per rimanere nell’ambito della birra artigianale a noi più vicina – forse ancora per poco – il successo delle tante iniziative firmate BrewDog, rispetto alle quali neppure il costo di volo e albergo frena l’entusiasmo dell’impavido sostenitore. Il turismo, mio caro, è una fabbrica di soldi e sarebbe utile a tutti farla lavorare a pieno regime, dentro e fuori la birra. Mettici che, con la sua peculiare eterogeneità gastronomica, in Italia è facile che ogni birrificio abbia al suo fianco un pub, un panificio, un caseificio, un salumificio, un qualunque altro coso-ficio, un ristorante stellato oppure la pizzeria all’ultimo grido; e se pure il cibo non fosse pane per i denti del turista in questione, ci sarà sicuramente una chiesa, un parco, un edificio storico, un castello, un museo, un’opera teatrale o qualsiasi altra cosa che possa interessargli. Un contesto così ricco e variegato avvalora l’ipotesi secondo cui un turismo birrario non è solo possibile ma è anche necessario per la sopravvivenza della specie. Giacché da una parte completa l’attuale offerta enoturistica dominante, offrendo una più che valida alternativa al turista al quale il calice di vino stia stretto; dall’altra aggiunge un

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ulteriore elemento di diversificazione per il settore turistico stesso, aumentandone l’attrattività e il corrispondente indotto.

Alcuni esempi virtuosi Qualcuno potrebbe obiettare che sono un visionario. In realtà, caro mio, purtroppo sono lontano dall’essere lo Steve Jobs di turno e mi sono lamentato a constatare un dato di fatto. Non vorrei passasse per “marchetta”, tuttavia provo a citare un paio di esperienze personali. La prima la conosco per via diretta e si chiama Birrificio Manerba, il quale vive non solo di birra ma anche della luce riflessa sulla superficie del lago di Garda. Pensaci, quale piacere maggiore che concludere la propria giornata sul lago, magari praticando sport, se non andando a bere (anche mangiare, visto il sontuoso Biergarten) un bel boccale di birra per recuperare vitamine e sali minerali? L’altra è un’esperienza indiretta, poiché

non ci sono mai stato ma di cui ho raccolto buone parole. Mi riferisco a Brasseria della Fonte, che unisce le sublimi birre a uno scenario che dire bucolico è poco – e qui, assieme al ristorante, ci sono anche gli alloggi. In entrambi i casi, se ci rivolgessimo al turista tradizionale, italiano come estero, dimmi cosa ritieni sia più attraente: la qualità della birra oppure la bellezza della location, i servizi che offre e quelli circostanti? Sempre senza fare un torto a nessuno, penso ad Alder, che di birre non ne sbaglia una, ma la cui offerta è “limitata” alla birra stessa, non offrendo nulla di turistico se non il contesto urbano circostante. Ecco che il suo pubblico si circoscrive a habitué e appassionati del bere bene. Questo non necessariamente significa che Alder abbia meno clienti di Manerba o Brasseria, potrebbe benissimo essere il contrario. Sto semplicemente provando a farti

ragionare sul fatto che i locali hanno una differenza sostanziale sulla tipologia di clientela cui si rivolgono, e che nei primi due casi il turismo gioca un ruolo fondamentale per attirare una consistente fetta di clientela. Che è poi quella a cui dovremmo maggiormente puntare, visto che gli appassionati sono lo zoccolo duro, inamovibili seguaci del movimento, mentre i turisti sono occasionali, vengono una volta e mai più, ma creano un flusso che può essere costante, diversificano e fanno fare cassa.

Un’opportunità di guadagno per tutti

Mentre la birra artigianale è sulla bocca degli stessi quattro gatti ormai da anni, l’industria consuma pasti decisamente più luculliani aggredendo fette di mercato crescenti, perché sa attirare il curioso. Considerare il risvolto turistico della faccenda aiuterebbe a invertire la tendenza, favorendo l’espansione del mercato di birra artigianale. E poi, come dicevo, il guadagno è per tutti: per gli hotel nei dintorni di birrifici che magari stanno ospitando eventi a tema; per tutte le attività ristorative e ricettive nei pressi dei concorsi per homebrewer, che comunque attirano un buon numero di domozimurghi; degustazioni guidate e cotte pubbliche potrebbero, nelle mani di un tour operator, trasformarsi in uno strumento di attrazione di massa. I turisti in vacanza hanno voglia di divertirsi. Mangiare e bere può essere molto divertente. I turisti sono particolarmente aperti a nuove esperienze e sono più predisposti ad aprire il portafogli per togliersi uno sfizio mentre si trovano in vacanza. Magari al turista in questione la birra artigianale neanche interessa, ma quando è correttamente inserita in un percorso enogastronomico, in uno storytelling, la voglia di assaggiarla emerge. Ed ecco il paradosso tutto italiano sotto la voce del verbo birrovagare: bere un boccale di birra per poi perdersi in un bicchiere d’acqua. Meditate, gente, meditate.★

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SIMEI 2022: UNA NUOVA CASA PER LA BIRRA ARTIGIANALE

Unionbirrai. Oltre a inibire l’innovazione – ha concluso – questo rappresenta un ostacolo alla commercializzazione delle birre prodotte in Italia, favorendo l’ingresso di proposte più innovative dai mercati esteri.

Offerta tecnologica in espansione e sempre più affinata, convegni, incontri e momenti di aggiornamento dedicati: il comparto della birra artigianale ha trovato in SIMEI, il salone internazionale delle tecnologie per enologia e imbottigliamento tenutosi lo scorso novembre a Milano, una vera e propria “casa” in cui dare risalto al settore, con tante occasioni di aggiornamento tecnico-professionale e normativo per tutti gli operatori del settore. I microbirrifici negli ultimi sette anni sono più che raddoppiati e anche la spesa media mensile degli italiani ha seguito un andamento simile, così come i consumi, più che raddoppiati tra il 2017 e il 2021. E dell’attenzione verso il comparto è stata una testimonianza palpabile la grande varietà di attrezzature e prodotti presentati dagli espositori: fermentatori, etichettatrici, imbottigliatrici, lieviti, bottiglie ecc.

“È naturale – dicono gli organizzatori di SIMEI – assecondare e incentivare tanta attenzione da parte degli espositori, che stanno progressivamente ampliando l’offerta merceologica anche alla birra, creando iniziative e momenti dedicati per un settore che sta crescendo in maniera netta”.

Un settore che sta correndo velocemente quindi, ma con un passo più veloce di quanto la legislazione sia in grado di sostenere, come è emerso in un convegno specificamente dedicato che ha messo in luce l’arretratezza di un impianto normativo obsoleto, che risale a 60 anni fa. Occorre quindi mettere mano all’impianto legislativo formulando un testo unico sulla birra prendendo spunto da quanto fatto nel settore enologico, come ha affermato Simone Monetti, segretario generale di

Secondo il focus sulle birre artigianali realizzato dall’Osservatorio Birre Artigianali ObiArt-DAGRI dell’Università di Firenze e presentato a SIMEI dal coordinatore, Silvio Menghini, il brassicolo made in Italy conta 1.326 imprese e poco più di 9.600 addetti diretti (dati di ottobre 2022), per un comparto segmentato tra piccoli birrifici e microbirrifici (che rappresentano 8 imprese su 10 pur impiegando solo il 19% degli addetti) e aziende medio/ grandi. Nel 2018 i birrifici artigianali in Italia hanno realizzato una produzione tra i 400mila e 600mila ettolitri, con una distribuzione del prodotto fortemente localizzata e quasi interamente destinata al mercato domestico. La crisi che ha colpito l’intero settore nel 2020 ha determinato una riduzione del numero degli addetti del comparto associata alla grande industria, ma non per i birrifici agricoli che rappresentano oggi il 22% dei birrifici nazionali, il 233% in più negli ultimi sette anni. Sul fronte dei consumi, si stima che le famiglie spendano per la birra nel suo complesso circa il 30% del budget destinato alle bevande alcoliche (24 euro al mese nel 2021).

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Tecnologie all’avanguardia per un comparto in continua crescita, con qualche ombra su un impianto normativo che necessita di essere ammodernato per restare competitivi. Necessario un testo unico.

A BRUXELLES

LO SVILUPPO URBANO INCONTRA LA BIRRA

Nel numero 4 avevamo anticipato alcune novità che riguardano il cambio di look di Bruxelles e ora torniamo con piacere sull’argomento. I lavori previsti per la rivalorizzazione della capitale belga sono decisamente considerevoli ed è ancor più interessan-

te, per noi popolo di assetati birrofili, sapere che la birra gioca un ruolo davvero importante nel contribuire alla rinascita di una nuova Bruxelles.

L’immagine che si collega alla capitale belga è spesso quella dei viali congestionati dalle auto, grandi piazze lastri-

cate, palazzi ed edifici commerciali dalle svariate sfumature di grigio, che fanno perfetto pendant con il cielo.

Ebbene, pare che questa immagine sia destinata presto a diventare solo uno sbiadito ricordo: il governo belga, infatti, ha in corso una rivoluzione degli spazi

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di Erika Goffi
SOSTENIBILITÀ
La Grand Place di Bruxelles, con il Municipio, il Palazzo reale e i maestosi edifici in gotico brabantino.

che interesserà buona parte dell’urbanistica bruxelloise, con l’ambizione di farla diventare il paradiso ecologico del futuro, dove vivere bene e realizzare i propri sogni diventa una priorità. Nel 2020 la Regione ha approvato Good Move, un progetto che ridefinisce la situazione della mobilità e sostiene un nuovo modo di spostarsi a Bruxelles. Una filosofia che pone al centro dell’attenzione pedoni e ciclisti, lasciando alla viabilità automobilistica un ruolo secondario, per disincentivare l’uso delle autovetture. L’obiettivo è ridurre l’uso dell’auto del 24% entro il 2030 (del 34% per il traffico di transito), aumentare l’uso delle biciclette di quattro volte, restituire spazio pubblico agli abitanti e creare 50 quartieri tranquilli senza traffico di transito.

Al fianco del piano sulla mobilità sostenibile, il governo belga sta ora lavorando al progetto del Good Living, introducendo una serie di provvedimenti atti a migliorare l’urbanistica della città.

I principi chiave sui quali si basa la filosofia del Good Living sono fondamentalmente tre: spazio pubblico, urbanistica e abitabilità della città. Aspetti che verranno presi in considerazione per migliorare la qualità della vita di tutti i residenti nella capitale belga.

Per quanto riguarda gli edifici della città, l’intento è quello di applicare quanto più possibile opere di ristrutturazione, per non snaturarne l’origine; ci saranno tuttavia tanti nuovi complessi che verranno costruiti con criteri di alta eco-sostenibilità.

La città attingerà anche al potenziale inutilizzato degli spazi sui tetti degli edifici, che si tratti di giardini privati o roof top bar, mentre tutte le proprietà private dovranno includere uno spazio esterno privato di almeno quattro metri quadrati (come abbiamo già visto avvenire nel roof top di Arkose Canal).

anche gli edifici saranno migliorati. Gli edifici con una superficie di oltre 1.000 m2 devono avere uno spazio aperto accessibile agli occupanti. Per promuovere lo sviluppo urbano, sarà data priorità ai progetti che rinnovano piuttosto che demolire. Inoltre, la gestione dell’acqua piovana dovrà essere integrata nei nuovi edifici. I tetti piani di oltre 20 m2 dovranno essere dotati di terrazze, tetti verdi, agricoltura urbana o pannelli solari. In autunno, il governo inizierà a consultarsi con i comuni e le autorità regionali, tra cui Urban Brussels, l’ufficio per lo sviluppo urbano e la commissione per lo sviluppo regionale.

Una volta che il disegno di legge sarà stato modificato da queste parti interessate, tornerà al governo per una seconda lettura prima di andare davanti al Consiglio di Stato. La proposta Good Living dovrebbe essere approvata nell’estate del 2023, dopodiché il Parlamento la adotterà come legislazione. Una volta adottato, il disegno di legge entrerà in vigore il 1° gennaio 2024.

Port Sud: Brussels Beer Project Tap Room, il più grande “beer garden” della città Torniamo per un istante sul canale di Bruxelles, zona interessata ora da diver-

Rinnovare

è la chiave La pianificazione urbana non è limitata alle strade e alle aree pubbliche esterne:

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Veduta del centro di Bruxelles. Port Sud, sede della nuova tap room di Brussels Beer Project.

se criticità in ambito urbanistico, protagonista di un radicale cambiamento atto a farla diventare un nuovo quartiere di alto interesse soprattutto per le nuove generazioni. È proprio qui, lungo il canale, che a fine maggio è stata inaugurata la nuovissima tap room di Brussels Beer Project. Non un semplice punto di ritrovo per gli amanti del brand locale, bensì il più grande giardino della birra della capitale!

L’area dedicata ha dimensioni davvero notevoli: 1000 mq che per tutti i fine settimana d’estate ospitano piccoli concerti, food trucks, eventi e birra, tanta birra artigianale locale. La tap room sorge in un’area dismessa, un’ex discarica, situata vicino alla pista ciclabile, un ottimo punto di riferimento per promuovere il messaggio di birrificio attento all’ambiente.

Fondato nel 2013 dal belga Olivier de Brauwere e dal francese Sébastien Morvan, il progetto è sostenuto da una comunità attiva fin dai primi giorni, coinvolta nella scelta del nome del primo prototipo di birra da produrre “Oltre alla birra” aveva dichiarato Olivier in un’intervista ad una radio locale “vogliamo dare l’e-

sempio di un’azienda responsabile ed essere motivo di orgoglio per la nostra comunità. Ecco perché siamo stati tra i primi a produrre una birra con pane invenduto, a sostegno dell’economia circolare. Quando abbiamo creato la nostra struttura, non c’era alcuna riflessione sull’ecologia” spiega Sébastien. “In pochi anni le cose sono cambiate molto. Come molti birrifici, abbiamo installato 250 m2 di pannelli solari sul tetto. Il 20% dell’elettricità è verde e locale. Sfruttiamo le acque reflue per riscaldare l’edificio invece dei combustibili fossili. Per la pulizia sanitaria e dei pavimenti, utilizziamo l’acqua piovana. Le trebbie dei nostri cereali vengono consegnate agli agricoltori delle nostre campagne. Per quanto riguarda le materie prime, stiamo iniziando a lavorare con l’agricoltura rigenerativa, in particolare per il birrificio Dansaert”.

Con un enorme sito produttivo, uno stabilimento dedicato alla fermentazione spontanea, sei tap room (di cui due non nella capitale belga), i ragazzi di Brussels Beer Project possono essere incoronati a pieno titolo come un vero e proprio fenomeno birrario, il primo nella capitale a vivere una crescita così fulminea. Gli audaci fondatori del BBP

sono determinati a conquistare l’universo birrario essendo già approdati in Francia e Giappone con le loro tap room e avendo all’attivo una produzione di 70 birre diverse l’anno. Cifre da record. La missione di Olivier e Sébastien è quella di continuare a scrivere la storia della birra belga per il futuro, affinché non rimanga “un cimelio storico da museo”.

BBW, il nuovo museo della birra belga nel centro di Bruxelles

E a proposito di musei legati alla birra parliamo adesso di BBW, il nuovissimo museo della cultura birraria belga nel cuore di Bruxelles. Il centro della città sarà infatti interessato da una grande novità che non lascerà indifferenti gli amanti della Sacra Bevanda i quali, per poterla opportunamente onorare, giungono da ogni angolo della terra nella capitale belga. L’attuale edificio de la Bourse, che sorge sull’omonima piazza e che già in passato ha accolto mostre e rappresentazioni artistiche, diventerà presto sede del Belgian Beer World: il primo grande museo interamente dedicato alla cultura birraria belga.

L’ingresso alla struttura sarà principalmente orientato sul lato della Grand Pla-

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Veduta aerea della nuova tap room. Nuovi acquisti al BBP.

ce, all’incrocio tra rue de la Bourse e la famosa strada de “A’ la Bécasse”, storica brasserie nel cuore della capitale, in rue de Tabora. Una nuova, e si presuppone vincente, attrazione turistica per tutti i visitatori che scendono in questa direzione dopo una visita alla famosa Grand Place e a Manneken Pis.

Chiacchierando con David Blocteur, esperto di marketing del settore birrario, scopro alcuni dettagli che lui stesso ha notato durante una visita al cantiere del futuro museo.

“La visita del BBW inizia dal primo piano: qui un’enorme scalinata porterà i visitatori al secondo piano da dove si godrà di una splendida vista. Questo

piano sarà dedicato alla spiegazione della cultura birraria belga e immergerà i turisti nello spirito delle nostre birre e della belgitude... Il tour sarà costruito sulla base dell’interattività e di strumenti multimediali” spiega David. “Lungo il percorso” continua il blogger “attraversando un’altra sala si arriverà a incontrare Gambrinus [che è sepolto nella chiesa francescana di Bruxelles e i cui resti si trovano nella tomba visibile dietro l’edificio della borsa] ma anche la storia della birra nei nostri paesi nel Medioevo. Il visitatore sarà accompagnato indietro nel tempo per meglio comprendere i diversi tipi di cervoises [bevande fermentate a base di orzo e

luppolo prodotte nel Medioevo] e le storie dei loro produttori. Attraverso video storie proiettate, sarà possibile comprendere meglio l’esportazione della birra belga e conoscere più da vicino le materie prime che ne caratterizzano la produzione. Al secondo piano, è stata creata una stanza speciale che immergerà il pubblico in una sorta di scatola nera interattiva, con effetti tridimensionali per ‘vivere’ il fenomeno della fermentazione, che consente di avere una tale diversità di stili birrari belgi”. Il vecchio sottotetto sarà convertito in roof top bar, dove poter degustare le birre in estate e col bel tempo. Sarà disponibile una selezione permanente

BIRRA NOSTRA MAGAZINE 39 novembre-dicembre 2022 SOSTENIBILITÀ
L’edificio de la Bourse.

Le guide Le guide Le

LE TUE BIRRE FATTE IN CASA

Ricette per tutti gli stili - Seconda edizione di Davide Bertinotti, Massimo Faraggi

Davide Bertinotti e Massimo Faraggi, tra i massimi esperti italiani di birra fatta in casa e artigianale, in questo libro hanno selezionato oltre 90 ricette per realizzare nella propria cucina i più diversi e apprezzati stili birrari, dalle Lager alle Ale inglesi, dalle IPA ai Lambic. Tutte le ricette sono state premiate in concorsi birrari e includono sia birre strettamente aderenti allo stile presentato sia “interpretazioni” più libere, comunque testate e approvate da esperti giudici degustatori. Per ogni stile è presente la descrizione completa tratta dalla revisione 2021 del BJCP (Beer Judge Certification Program), ossia il disciplinare che descrive e definisce ogni stile birrario in termini tecnici e organolettici, e che è alla base delle più importanti competizioni amatoriali e commerciali in tutto il mondo.

ISBN 9788868959470 Pagine 368 | Colori Prezzo 22,90 euro
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di dieci birre, scelte in maniera casuale da un algoritmo: una tecnica scelta per soddisfare ogni birraio e dargli l’opportunità di far conoscere la propria gamma produttiva. Poco meno di 1.300 birre diverse sono previste in degustazione! Il tour si concluderà proprio sul tetto dell’edificio da dove poter godere della vista mozzafiato a 360° sulla città: dal Palazzo di Giustizia agli edifici della Grand Place, passando per la cattedrale di Saint Michel.

“Un paese non esiste se non ha la sua birra”

Il museo vuol essere il punto di partenza da cui il visitatore birrofilo possa iniziare il proprio tour alla scoperta della cultura birraria belga, senza rinunciare alle tante occasioni di bevuta che la città offre. Un budget di € 46.000.000 è stato necessario per l’acquisto dell’edificio, la sua ristrutturazione e le attrezzature del progetto.

Durante la firma tra birrai e politici, che ha avuto luogo nella sala ovale del Municipio di Bruxelles, Philippe Close,

il sindaco, ha insistito sull’importanza del know-how belga e sulla sua notorietà in tutto il mondo. In modo particolare ha insistito su una visione: quella per cui Bruxelles sarebbe un ponte tra diverse regioni perché il progetto è

centrale e riunisce tutti i birrifici. Infine, sottolinea che si può lavorare con diversi livelli di potere e anche diversi settori per un progetto comune. “Non c’è una birra belga in particolare, c’è una varietà di birre belghe. Un paese non esiste se non ha la sua birra e una compagnia aerea. Alla fine, è bene che abbia anche una squadra di calcio e armi nucleari, ma ciò che conta di più è la birra” ha detto il primo cittadino alla firma dell’inizio lavori per il nuovo museo.

Rudy Vervoort (Ministro-Presidente) ha aggiunto che “Bruxelles ha bisogno di esistere nell’arena internazionale, ha bisogno di brillare. Uno dei modi migliori per farlo è attraverso la birra; del resto, ciò che sembra naturale per il vino a Bordeaux, per la Guinness a Dublino o per il whisky in Scozia deve essere altrettanto naturale in Belgio con la birra”. Infine, il riconoscimento è andato al ministro Sven Gatz, colui da cui tutto è iniziato, che è diventato nel 2011 il capo dell’Associazione belga dei birrai e poi è tornato agli affari politici nel 2019, come ministro del bilancio di Bruxelles. Sven Gatz ha permesso al Belgio e alla sua cultura della birra di diventare patrimonio riconosciuto dall’UNESCO nel 2016. ★

BIRRA NOSTRA MAGAZINE 41 novembre-dicembre 2022 SOSTENIBILITÀ
Il percorso del Belgian Beer World. I lavori in corso per creare un roof top bar nel sottotetto.

ANALISI DI HANSENIASPORA

UVARUM IN BIRRIFICAZIONE:

I RISULTATI

Nel mio ultimo articolo per BNM (numero 4/22), avevo illustrato l’importanza dei lieviti non convenzionali in birrificazione, in particolare evidenziando le interessanti caratteristiche del ceppo di Hanseniaspora uvarum nel ruolo di lievito starter. Nel frattempo, si è giunti al termine della ricerca che ha visto come protagonista il ceppo YGA34: la tolleranza di questo lievito a valori di 7-8% (v/v) di alcool, un’eccezionale resistenza ai composti bio-attivi del luppolo (di oltre 90 ppm di iso-alfa acidi – pari a 90 IBU), insieme a un rapido avvio del processo fermentativo sono soltanto alcune killer feature di questo lievito.

Al fine di valutare le performance e le caratteristiche di questo ceppo non convenzionale, sono stati condotti numerosi studi sperimentali di birrificazione presso il laboratorio di Microbiologia Agroalimentare del dipartimento SAAF dell’Università degli Studi di Palermo. L’obiettivo ultimo è stato quello di valutare l’effetto dell’inoculo di questo ceppo in diverse fasi della fermentazione alcolica (FA) di un mosto di birra all-grain , analizzando i parametri fisico-chimici e microbiologici, la produzione di composti organici volatili e la qualità sensoriale del prodotto imbottigliato ottenuto alla fine del processo.

Il piano sperimentale

Per comprendere meglio l’effetto dell’inoculo di H. uvarum durante la FA, sono state prodotte birre sperimentali ad alta fermentazione su media scala (batch da 10 litri) utilizzando quattro diverse combinazioni di inoculo tra il ceppo YGA34 H. uvarum e il ceppo commerciale US-05 Saccharomyces cerevisiae (Fermentis), usato anche come ceppo di controllo (Figura 1). Le quattro tesi sperimentali (T1, T2, T3 e T4) e una prova di controllo (Tc) sono state inoculate come riportato di seguito:

Tesi T1: co-inoculo (inoculo contemporaneo) dei ceppi YGA34 e US-05 (rapporto 1:1);

Tesi T2: co-inoculo dei ceppi YGA34 e US-05 (rapporto 10:1);

Tesi T3: inoculo sequenziale: ceppo YGA34 e, dopo 48 ore, inoculo del ceppo US-05;

Tesi T4: monocoltura (inoculo singolo) del ceppo YGA34 di H. uvarum; ❱ Tesi Tc: monocoltura del ceppo US05 di S. cerevisiae

Ciascun ceppo di lievito è stato inoculato nel mosto con una densità cellulare pari a 2 × 106 Unità Formante Colonia (UFC)/mL nelle prove T1, T3 e T4, mentre nella prova T2, H. uvarum YGA34 e S. cerevisiae US-05 sono stati inoculati rispettivamente a 2 × 106 e 2 × 105 UFC/ mL. Le birre sono state prodotte presso l’impianto pilota del SAAF, Dipartimento - Università di Palermo (Italia), utilizzando un sistema AIO (all-in-one) Klarstein da 50 litri. Il mosto è stato realizzato

42 BIRRA NOSTRA MAGAZINE novembre-dicembre 2022 MATERIE PRIME
di Michele Matraxia
Figura 1 - Il piano sperimentale.

impiegando 9 kg di malto Pilsen (BestMalz, Heidelberg, Germania) macinato tramite un mulino regolabile a due rulli, aggiungendolo a 30 litri d’acqua minimamente mineralizzata con aggiunta di 10 g di cloruro di calcio (CaCl2). Il mash (single-step) è stato riscaldato fino a 70 °C, per circa 40 minuti, fino alla completa conversione degli amidi in zuccheri semplici, verificando l’avvenuta reazione con il test della soluzione di iodio. Successivamente, i grani di malto sono stati risciacquati (sparging) con 20 L di acqua riscaldata a 80 °C, ottenendo un volume totale di 45 litri. Il mosto ottenuto è stato fatto bollire per 60 minuti, all’inizio dei quali sono stati aggiunti i luppoli (pellet, 40 g, 11,5% di α-acidi) per raggiungere una concentrazione finale di 25 IBU, realizzando quindi una luppolatura esclusivamente “da amaro”, per permettere di valutare meglio gli aromi prodotti dai diversi lieviti inoculati. Dopo la bollitura, sono stati ottenuti 42 L di mosto a 13,5 °Bx (gradi Brix). Il mosto è stato poi chiarificato attraverso un whirlpool costituito da 10 minuti di ricircolo e 10 minuti di riposo. Il mosto è stato infine raffreddato a 21 °C in preparazione all’inoculo dei ceppi di lievito selezionati.

Le analisi sui parametri qualitativi standard del mosto di birra sono riportati nella Tabella 1.

Tabella 2 - Percentuale di consumo dei diversi zuccheri durante la fermentazione alcolica.

D-GLUCOSIO (%) D-FRUTTOSIO (%) SACCAROSIO (%) MALTOSIO (%)

T1 99.4 ± 0.02 97.3 ± 0.05 100 ± 0.05 82.0 ± 0.04

T2 99.5 ± 0.05 97.9 ± 0.01 100 ± 0.07 89.2 ± 0.10

T3 99.5 ± 0.02 98.1 ± 0.07 100 ± 0.49 84.6 ± 0.03

T4 99.2 ± 0.03 96.8 ± 0.02 37.9 ± 0.39 2.2 ± 0.07

Tc 99.4 ± 0.05 96.8 ± 0.08 100 ± 0.07 84.3 ± 0.01

I risultati indicano i valori medi ± σ di tre misurazioni.

Alla fine della FA primaria, le birre prodotte sono state imbottigliate e sottoposte a rifermentazione in bottiglia, aggiungendo 4,5 g/L di destrosio e 5,0 × 106 UFC/mL di lievito US-05.

Durante le diverse fasi di birrificazione sono state condotte analisi come il monitoraggio delle popolazioni microbiche dei lieviti inoculati, analisi dei principali parametri fisico-chimici (pH, zuccheri residui, etanolo, glicerolo e acido acetico), analisi sui composti organici volatili (COV) e analisi sensoriale da parte di un panel di giudici. Infine, i dati sono stati elaborati dal punto di vista statistico, per evidenziare le differenze e le similitudini tra le tesi, tenendo conto di tutti i parametri monitorati.

Risultati

Conte microbiche

Nella prova T4, nonostante l’incapacità di H. uvarum di consumare gli zuccheri complessi del mosto, carattere confermato anche dai database pubblici dei genomi dei lieviti, i suoi livelli hanno sfiorato i 70 milioni di UFC per mL. Anche altre specie del genere Hanseniaspora non sembrano possedere questo gene specifico che produce l’enzima maltasi.

Parametri chimici

Alla fine della FA, le tesi sperimentali non hanno fatto registrare differenze sostanziali in termini di pH, risultato compreso tra valori di 3,95 e 4,10, a eccezione della tesi T4, che ha fatto registrare una fermentazione incompleta e quindi un pH superiore (4,85).

Tabella 1 - Parametri qualitativi del mosto (media ± σ).

° Brix 13,5 ± 0,10

pH 5,62 ± 0,01

Gravità specifica (SG) 1052,5 ± 0,70

Azoto α-amminico (mg/L) 71,44 ± 0,42

Azoto ammoniacale (mg/L) 106,6 ± 0,60

Composizione zuccherina (g/L)

D-glucosio 7,16 ± 0,01

D-fruttosio 0,94 ± 0,04

Saccarosio 10, 02 ± 0,02

Maltosio 75,63 ± 0,23

Riguardo l’evoluzione delle popolazioni di lieviti inoculati, l’andamento delle curve di crescita dei due ceppi ha fatto registrare senz’altro dei risultati interessanti. I livelli di conta (Figura 2) evidenziano la capacità del ceppo YGA34 di dominare la FA rispetto a US-05. Come si può vedere dall’immagine, infatti, sia nella tesi T1 che, ancor di più, in quella T2, H. uvarum ha fatto registrare un miglior tasso di crescita e di dominanza nelle prime fasi della FA. Per quanto riguarda la tesi T3, inoculata sequenzialmente, la dominanza di YGA 34 è durata per tutto il corso della FA.

Anche la final gravity (FG) è risultata simile nelle tesi T1, T2, T3 e Tc, con valori pari a 1.015. La percentuale degli zuccheri residui fermentati è riportata nella Tabella 2. Fruttosio e glucosio sono stati completamente fermentati in tutte le tesi.

A eccezione della tesi T4, il saccarosio contenuto nel mosto è stato metabolizzato in tutte le altre prove, evidenziando quindi la capacità del ceppo YGA34 di fermentare soltanto zuccheri semplici; per questa ragione non è stata condotta la rifermentazione per questa tesi.

Il consumo di maltosio è risultato compreso tra l’82 e l’89% per le tesi T1, T2, T3 e Tc, ove era presente il lievito S. cerevisiae

In Tabella 3 sono riportati i risultati delle analisi eseguite su alcool, glicerolo e acido acetico.

BIRRA NOSTRA MAGAZINE 43 novembre-dicembre 2022 MATERIE PRIME

Figura 2 - Evoluzione

popolazioni microbiche di H. uvarum (in verde) e S. cerevisiae (in rosso).

Il valore più alto di etanolo è stato raggiunto nella tesi T2, con il 5,16% (v/v). Il glicerolo è un composto che riveste un ruolo principale nella birra, in quanto rappresenta il terzo metabolita prodotto durante la FA (dopo alcool e anidride carbonica). Esso ha un’influenza positiva su diverse proprietà sensoriali, fra cui morbidezza e rotondità al palato; solitamente la sua concentrazione nelle birre è compresa fra 1,5 e 3,5 g/L. Tra le prove sperimentali condotte, la tesi che ha fatto registrare la maggiore produzione è stata quella che ha previsto l’inoculo sequenziale tra H. uvarum e S. cerevisiae, con un valore pari a 3,8 g/L. L’acido acetico ha invece fatto riscontrare i suoi valori minimi nelle tesi T1 e Tc (0,03 g/L), mentre il suo valore più alto nella tesi T3 con 0,27 g/L. Il ceppo H. uvarum YGA34 è stato in grado di produrre discrete quantità di acido

acetico, anche se a concentrazioni inferiori rispetto allo studio di controllo, già durante le prime 48 ore di FA.

Compostiorganicivolatili(COV)

In totale, dall’analisi delle birre prodotte, sono stati identificati 18 composti organici volatili. Le birre sperimentali, prodotte con l’inoculo del ceppo selezionato YGA34, hanno mostrato un profilo COV diverso sia fra loro che soprattutto rispetto alla tesi di controllo inoculata con US-05. Nella Figura 3 è rappresentata una heat-map che indica i diversi livelli di COV nelle varie tesi, evidenziando le differenze tramite una scala colorimetrica dal giallo (concentrazioni più basse) al rosso (concentrazioni più elevate)

La categoria di COV più abbondante è stata quella degli alcoli, noti per esaltare aromi floreali, ma anche di solvente o di alcolici; tuttavia, la loro presenza oltre una certa soglia potrebbe essere indesiderata.

Le principali differenze tra le tesi sono state riscontrate nella produzione di esteri, che è risultata la seconda classe di COV più abbondante. Il livello di esteri dipende quasi esclusivamente dall’attività specifica del ceppo di lievito impiegato, in particolare dalla produzione e dall’equilibrio tra gli enzimi di sintesi e di degradazione. Esistono infatti dei ceppi come quelli classicamente impiegati per brassare le Saison

Tabella 3 - Concentrazioni di etanolo, glicerolo e acido acetico prodotti nelle birre, utilizzando le diverse combinazioni di inoculo.

ETANOLO (%) RESA IN ETANOLO (g/g) GLICEROLO (g/l) ACIDO ACETICO (g/l)

T1 5.05 ± 0.16ab 0.498 ± 0.064a 3.20 ± 0.18b 0.03 ± 0.02c

T2 5.16 ± 0.13a 0.476 ± 0.042a 3.09 ± 0.08b 0.17 ± 0.03b

T3 4.80 ± 0.07c 0.461 ± 0.049a 3.80 ± 0.06a 0.26 ± 0.04a

T4 0.52 ± 0.01d 0.309 ± 0.023b 1.28 ± 0.40c 0.27 ± 0.01a

Tc 4.90 ± 0.11bc 0.470 ± 0.050a 3.08 ± 0.04b 0.03 ± 0.02c

Significatività

statistica

I risultati indicano i valori medi ± σ di tre misurazioni.

I dati riportati nella stessa colonna seguiti dalla stessa lettera non sono significativamente diversi secondo il Tukey’s test.

Valori di significatività statistica (P-value): *, P < 0,01; ***, P < 0.001.

44 BIRRA NOSTRA MAGAZINE novembre-dicembre 2022 MATERIE PRIME
*** * *** ***
delle

che, a causa dell’elevata produzione di enzimi che sintetizzano gli esteri, permettono di ottenere birre molto speziate e fruttate.

I livelli di esteri nella tesi T3 (32,7 mg/L) sono stati infatti di oltre tre volte superiori rispetto alla tesi di controllo Tc (9,2 mg/L).

Il principale estere è stato l’acetato di etile (o etil-acetato), un metabolita secondario della FA, responsabile dell’aroma fruttato delle birre e la cui soglia di percezione è pari a 25 mg/L. La tesi che ha previsto l’inoculo sequenziale ha fatto registrare il valore maggiore (32,2 mg/L) di questo composto, superando così la soglia di percezione sensoriale. Altri esteri, come l’esanoato di etile e l’acetato di isoamile, responsabili dell’aroma di banana, mela e anice, sono stati anch’essi prodotti in misura maggiore nella tesi T3.

Analisi sensoriale

La valutazione sensoriale delle birre sperimentali è stata condotta con un’analisi descrittivo-quantitativa condotta dai panelisti per definire colore, odore, sapore e qualità complessiva. Undici giudici (di età compresa tra i 23 e i 52 anni) sono stati reclutati dall’Università di Palermo, da associazioni birrarie e da birrai professionisti, tutti con esperienza nella produzione e nell’assaggio di birra. I giudici hanno generato consensualmente 28 attributi descrittivi sensoriali su aspetto, odore, sapore, gusto e qualità complessiva in diverse sessioni. Gli attributi sono stati: aspetto (intensità giallo); odore (intensità, complessità, fruttato, agrumato, floreale, luppolato, cereale, maltato, miele/caramello, tostato/ bruciato, sulfureo, acetico, ossidato/ invecchiato, alcool e off-odours); gusto (dolce, amaro, acido e salato); sensazione in bocca (corpo e astringenza); sapore (intensità, complessità, fruttato, agrumi, luppolo, cereale, maltato, miele/caramello, tostato/bruciato, alcolico, solforoso e off-flavours). È sta-

to incluso anche il descrittore “qualità complessiva” sia per l’odore che per il sapore.

Nessuna delle birre prodotte ha fatto registrare off-odours o off-flavours, così come non si sono segnalate differenze sostanziali per il parametro del colore. Il punteggio più alto per la qualità complessiva è stato riscontrato per le birre delle prove T2 e T3. Le birre fermentate in presenza del ceppo YGA34, in particolare le prove T1 e T3, hanno mostrato i punteggi più alti per intensità, complessità e descrittori flo-

reali nel profilo odoroso, così come per intensità, complessità, acidità e sapidità nel profilo gusto-olfattivo. Le differenze sensoriali sono state riconosciute anche all’interno delle tre prove fermentate con il ceppo YGA34; la prova T3, che prevedeva l’inoculo di H. uvarum 48 ore prima di quello di S. cerevisiae , ha mostrato il valore più alto dei descrittori di acidità e sapidità nel profilo gustativo, mentre la prova T2 ha mostrato i valori più bassi per gli stessi attributi, segno che la tempistica e la modalità di inoculo possono

BIRRA NOSTRA MAGAZINE 45 novembre-dicembre 2022 MATERIE PRIME
Figura 3 - Heat-map dei composti organici volatili.

giocare un ruolo chiave per modulare il profilo sensoriale della birra.

I descrittori sensoriali che hanno maggiormente caratterizzato le birre prodotte sono riportati nelle Figure 4 e 5.

Conclusioni

In conclusione, la diversità dei lieviti presenti nell’antica bevanda a base di miele prodotta in Sicilia, lo “Spiritu Re Fascitrari” , è stata investigata per la selezione di starter microbici da impiegare in bevande fermentate. Il presente studio ha difatti fornito dati scientifici sulle proprietà tecnologiche dei lieviti appartenenti a questa nicchia ecologica, per la produzione di birra. Questo lavoro arricchisce le limitatissime conoscenze scientifiche sul ruolo dei lieviti non convenzionali, fra cui il genere Hanseniaspora , come potenziali co-starter per la produzione di birra. Attraverso un approccio polifasico (genotipico e fenotipico) è stato possibile identificare e caratterizzare cinque ceppi di H. uvarum . Per la prima volta è stata segnalata un’elevata resistenza all’etanolo e al luppolo per dei ceppi di questa specie. L’applicazione di questi lieviti durante la produzione di birra ha mostrato differenze in termini di parametri fisico-chimici, COV e caratteristiche sensoriali, evidenziando come questi lieviti possano essere impiegati con successo come co-starter in un’ampia gamma di produzioni di birra. Tuttavia, sono necessarie ulteriori indagini per valutare il ruolo di questi e altri ceppi durante la fermentazione, sia in singolo che in presenza di altri ceppi di S. cerevisiae , per la produzione di stili specifici, valutando i risultati anche per l’impiego in mosti con un diverso grist di malti.

A cura di Michele Matraxia, Antonino Pirrone, Rosario Prestianni, Vincenzo Naselli, Giuliana Cinquemani, Antonio Alfonzo, Giancarlo Moschetti, Nicola Francesca

Nicola.francesca@unipa.it

Dip. SAAF Universit. degli Studi di Palermo

46 BIRRA NOSTRA MAGAZINE novembre-dicembre 2022 MATERIE PRIME
Figura 4 - Spider-plot dei descrittori sensoriali aromatici. Figura 5 - Spider-plot dei descrittori sensoriali gustativi.

de a de a de a

LA CULTURA BIRRARIA NELLE ANTICHE CIVILTÀ

Pensieri, abitudini alcoliche e dinamiche sociali dai Sumeri alla caduta dell’Impero Romano di Simonmattia Riva

In qualsiasi angolo del mondo una birreria è probabilmente il luogo in cui più facilmente può capitarvi di fare nuove conoscenze iniziando a conversare con perfetti sconosciuti. Perché lo spumoso nettare di malto e luppolo esibisce un potere socializzante che nessun’altra bevanda pare possa eguagliare? La risposta non risiede certo solo nella presenza, peraltro estremamente modica, di alcol, ma deve necessariamente coinvolgere aspetti più profondi e istanze vitali che accompagnano donne e uomini fin dagli albori della civiltà.

Questo libro, per la prima volta, prova a mettere a confronto storie, pensieri e abitudini alcoliche dei popoli antichi alla ricerca di una traccia da seguire.

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OMNIA PRAECLARA RARA:

le birre della Klosterbrauerei Mallersdorf

Tutti, almeno una volta, abbiamo sentito parlare delle famose birre trappiste, prodotte sotto la supervisione dei monaci cistercensi della stretta osservanza in birrifici sparsi ormai un po’ in tutto il mondo.

Oltre a lodare i loro prodotti, ultimamente le notizie su questo argomento ci informano del fatto che la crisi delle vocazioni religiose ha un grave impatto anche sull’esistenza degli amati birrifici trappisti. È notizia di qualche mese

fa la chiusura della produzione dello statunitense Spencer Brewery (Saint Joseph’s Abbey, Spencer, MA), a fronte di un numero sempre minore di monaci e di un’attività brassicola non più ritenuta sostenibile. Sempre a causa

48 BIRRA NOSTRA MAGAZINE novembre-dicembre 2022 STILI BIRRARI
di Daniele Cogliati

della carenza di personale religioso in organico, le deliziose birre belghe prodotte da Achel (Sint-Benedictusabdij, Hamont-Achel) non si potranno più fregiare dell’esagono che certifica un prodotto autenticamente trappista. Esiste però una realtà “birraria-monastica” ancora più rara e meno conosciuta. A Mallersdorf, vicino a Regensburg (Germania) è ancora attivo un birrificio la cui produzione è gestita… da una suora. La grande abbazia di Mallersdorf (Kloster Mallersdorf) è oggi un grande edificio bianco che si staglia tra l’azzurro del cielo bavarese e il verde delle colline, in cima a un rialzo chiamato Klosterberg. Fondato nel 1107 da Enrico di Kirchberg e dedicato a San Giovanni Evangelista, il monastero venne occupato dai monaci Benedettini fino al 1803, quando fu secolarizzato e adibito a uso civile. Nel 1869 la struttura divenne la casa madre della Congregazione delle Suore Francescane Povere della Sacra Famiglia. Attualmente le sorelle vi dirigono un’accademia di pedagogia sociale e una scuola secondaria. Come tutti i monasteri, anche Kloster Mallersdorf tende a rappresentare una realtà idealmente autosufficiente: dal punto di vista alimentare, vi si coltivano cereali e verdure, e al suo interno, oltre ad ampi refettori che possono accogliere centinaia di persone, sono presenti cucine attrezzate, un panificio e una piccola fabbrica di birra (una parte della quale, naturalmente, viene consumata internamente: le suore, infatti, possono bere birra durante ogni pasto, colazione esclusa).

La produzione di birra a Mallersdorf risale al 1881. Da ormai più di quarant’anni al timone del birrificio claustrale c’è suor Doris Engelhard, originaria della Media Franconia, che nonostante abbia superato la settantina continua imperterrita a produrre le birre della Klosterbrauerei e di fatto è l’ultima e l’unica suora al mondo a dirigere un birrificio. In questo compito è coadiu-

vata da alcuni collaboratori laici e da alcune sorelle.

Il birrificio unisce tradizione e modernità. La sala cottura è stata completamente rinnovata nel 2005 ed è quindi tecnologicamente aggiornata, come

anche la maggior parte dell’impiantistica, ma non si può non notare la storica vasca di raffreddamento aperta, ancora utilizzata, nel sottotetto dell’edificio. Fino agli anni Novanta del secolo scorso, inoltre, il birrificio includeva

BIRRA NOSTRA MAGAZINE 49 novembre-dicembre 2022 STILI BIRRARI

una malteria e ancora oggi una parte dell’orzo è coltivata direttamente nei campi del monastero.

Suor Doris è una birraia professionista, con una formazione di alto livello nel settore brassicolo. Produce una volta la settimana, con una doppia cotta da 38 hl, per un totale annuo che si aggira attorno ai 3000 hl. La birra viene confezionata in fusti e bottiglie, rigorosamente non filtrata e non pastorizzata. Le tipologie prodotte sono tipicamente bavaresi, tutte a bassa fermentazione. Accanto a etichette realizzate durante tutto l’anno, come Zoigl e helles Vollbier, ci sono prelibatezze stagionali: Jubiläumsbier (Festbier), heller Bock, Maibock, Doppelbock (quest’ultima, per esempio, va in cotta per un solo giorno, nella seconda metà di gennaio, in modo che la birra sia pronta dopo parecchie settimane di maturazione a freddo, all’inizio della Quaresima). Tutte le birre di suor Doris possono essere assaggiate presso l’accogliente Klosterbräustüberl, di fronte al monastero, accompagnate da piatti regionali succulenti e dolci sostanziosi, in un’atmosfera completamente rilassata.

50 BIRRA NOSTRA MAGAZINE novembre-dicembre 2022 STILI BIRRARI
Gli auguri di buona Pasqua di suor Doris, arrivati con l’ordine delle bottiglie. Suor Doris Engelhard.

Omnia praeclara rara, tutte le cose eccellenti sono rare, dicevano gli antichi. Forse avevano ragione.

L’assaggio

Vollbier

Hell (5% abv)

di shelf life in bottiglia non c’è rischio di farla invecchiare.

Heller bock (6,7% abv)

Come la Vollbier, dopo un anno di palestra. Intensamente dorata, leggermente velata, schiuma bianca, fine e compatta, ottima persistenza. Aroma abbastanza intenso, con cereale, pane in cassetta e ancora miele millefiori, fieno, camomilla e più dietro un accenno di erba tagliata di fresco. Gusto dolce prevalente, all’inizio, con un amaro mediamente intenso e mediamente persistente che esce alla distanza e bilancia egregiamente il sorso. Retrolfatto di miele, con l’aggiunta di un lieve spunto erbaceo che esce alla fine, quando la birra si riscalda. Corpo medio-pieno, bolla media, molto fine ed elegante. Un lievissimo riscaldante, piacevole, è percepibile sul palato. Complessivamente simile alla Vollbier, ma più intensa da tutti i punti di vista. Deliziosa.

Birra dorata, velata, con schiuma bianca, fine, persistenza buona. Aroma rustico, mediamente intenso, con evidenti sentori di cereale e fieno, con fiori bianchi e uno sbuffo fruttato appena percepibile. Di nuovo, come nelle birre precedenti, leggere note erbacee e di miele chiaro. In bocca l’intensità è media, con l’inizio dolce del cereale smorzato da un amaro evidente, pulito, dall’intensità media e abbastanza persistente, sensibile anche dopo parecchi secondi dalla deglutizione. Corpo medio, bolla media. Questa caratterizzazione verace, sicuramente meno “pulita” delle altre due birre assaggiate, la rende estremamente facile e piacevole da sorseggiare. Molto simile alle birre del territorio che si possono incontrare proseguendo a nord di Mallersdorf, verso la Franconia. ★

Per approfondire

https://www.mallersdorfer-schwestern.de/ https://youtu.be/NuTmuaKUuV4 https://youtu.be/ByywxLdJihg ai165348297726_BIRRA NOSTRA giugno2022-stampa.pdf 1 25/05/22 14:49

Schiuma bianca e soffice, molto persistente, grana delle bolle media, spumosa. Birra leggermente velata, di colore giallo dorato intenso. L’aroma è rustico ma al tempo stesso elegante: mollica di pane, un miele delicato, appena accennato e un leggerissimo profumo di fieno, con sbuffi di fiori bianchi e una nota erbacea rinfrescante sullo sfondo. In bocca è suadente, dolce in principio e con un finale amaro non molto intenso, ma comunque sufficiente a caratterizzare la bevuta in direzione di una grande snellezza. Retrolfatto in linea con l’aroma, con meno fiori e più pane e fieno. Corpo medio, bolla media a conferire un po’ di brio al sorso. Semplice, concreta, estremamente facile da bere. Mandatoria la consumazione del prodotto fresco, ma con un paio di mesi

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STILI BIRRARI

THE ULTIMATE VACATION travel guide for the modern beerhunter: Belgium - Part 2

A spasso per la Bruxelles bene: Cantillon e De La Senne

Considerando quanto le produzioni di Cantillon siano bramate in tutto il mondo, e quanto folli siano i ricarichi applicati da distributori e locali, recarsi al birrificio senza poi poterne portare a casa qualche bottiglia è semplicemente improponibile. Ci si va in auto quindi, scelta che ci si trova poi a riconsiderare, cercando parcheggio nei pressi del luogo, tra strade iper-trafficate e vicoli malfamati. E l’edificio stesso, anonimo

e diroccato, non è che comunichi tutta questa poesia, soprattutto ora che è in fase di ristrutturazione e avvolto da impalcature arrugginite. Appena entrati però, come sempre, tutto cambia all’improvviso e non si può evitare di commuoversi un minimo, mentre ci si aggira circospetti tra attrezzi vetusti, logore pulegge, antiche carrucole, scale scalcagnate, botti e tini traboccanti schiuma densa e giallastra, annusando quello strano mix di odori che miscela sinesteticamente i cereali fermentati con lo scorrere del tempo, a conferma

che la targa che ti ha accolto all’ingresso, “Musée Bruxellois de la Gueuze”, non mentiva affatto. E, a visita conclusa, la commozione irrompe definitivamente davanti ai prezzi per l’asporto: 7 euro per 75 cl. di Gueuze: hallelujah! Ovviamente, prima di andarsene con qualche cassa, vale la pena passare un po’ di tempo al bar al primo piano, dove, compresi nel prezzo del tour, vengono serviti tre assaggi delle birre “base” (Lambic, Gueuze e Kriek) e dove i visitatori più geek potranno acquistare, solo per il consumo in loco, alcune delle ormai tantissime produzioni “speciali”, altrove praticamente introvabili: cuvée, blend e maturazioni in botti delle più svariate provenienze. Chi invece, come me, preferisse limitare l’acidità entro livelli accettabili, può pensare a una seconda tappa bruxellese. A distanza di passeggiata (non brevissima, ma fattibile) si trova infatti il locale del Birrificio De La Senne, uno dei migliori tra i produttori belgi relativamente recenti e, nota non trascurabile in un agosto tra i più torridi che ricordi, tra i pochissimi a brassare birre leggere, dissetanti e di facile beva. La zona, anche

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di Norberto Capriata
L’interno della stazione centrale di Antwerp.

in questo caso, non è proprio tra le più chic e rinomate della città: ci troviamo in un ampio spazio commerciale un bel po’ sgarrupato, frequentato da una fauna umana quasi sicuramente non proveniente da ambienti altolocati. Per dirla tutta a poche decine di metri dal locale è sito un hub umanitario che ospita rifugiati internazionali di varie etnie (che, in occasione della mia visita, mi sono sembrati comunque tutti molto sereni e sorridenti, non saprei dire se la vicinanza del birrificio abbia un’influenza positiva, ma mi piace immaginarlo).

Il locale, col grande impianto aperto alla vista, è comunque molto carino e le birre, come sempre, stilisticamente impeccabili e di grande bevibilità. L’unico limite, tipico dei locali belgi, è la consueta mancanza di un vero punto di ristoro gastronomico che costringe ad accontentarsi di qualche salsiccetta cruda e patatine in sacchetto, quando invece tutte le birre accumulate avrebbero meritato ben altro accompagnamento (dicono però che, alcuni giorni della settimana, in orario serale, nel cortile del birrificio stazioni un food truck... non in occasione della nostra visita comunque).

Kulminator, tra sogno e realtà Citerò mia moglie Antonella (che non lo sappia mai): “Varrebbe la pena di viag-

giare in Belgio anche solo per venire qua”. Ancora oggi, a 16 anni dalla nostra prima visita, ogni volta che varco la soglia del Kulminator di Anversa emozioni tra il sacro e il profano mi accompagnano. A metà strada tra la Prima Comunione e la prima erezione. La prima volta al Kulminator può essere sconvolgente, nel bene e nel male: il tempo cessa di esistere, al punto che diviene impossibile distinguere passato da presente, sogno da realtà. Fin dall’arrivo le cose si fanno da subito strane; è difficile da spiegare a chi non ne abbia mai fatto esperienza: non ci proverò nemmeno, preferendo piuttosto riportare qui di seguito un antico sonetto fiammingo di origine incerta e di dubbia autenticità, che ben descrive però la tipica accoglienza di un cliente presso il locale.

Per quanto risulti difficile immaginare il proprietario del Kulminator, o un suo avo, impegnato in una conversazione più complessa di un paio di mugugni gutturali, il madrigale rende l’idea di quanto possa risultare perturbante l’arrivo presso il locale e del perché poi, una volta entrati, ci si trovi a muoversi con esagerata cautela, sussurrando, come fossimo in un monastero di clausura, piuttosto che in un pub. Anche l’ambiente si presta, a metà strada tra una taverna medioevale e il salotto “bene” di una nobile prozia decaduta, con musica di clavicembalo e spinetta diffusa in sottofondo a completare l’opera. Ma, come dicevo, al Kulminator bisogna andarci, finché c’è. Pertanto, interromperò qua ulteriori descrizioni e commenti sull’esperienza,

Oh viaggiatore stanco - che assetato un dì - ti troverai alle porte - della taverna nostra Sappi che in cotal loco - solo il credente vero - potrà con la su fede - trovare la risposta Chino lo capo umile - silente come una suora - tristo e penitente - attenderai mezz’ora Sbarrato sarà il portone - ma non desister mai - percuoti lo campanaccio - e lo ridesterai Lo burbero mastro di chiavi - lacero e claudicante - alfin egli giungerà - grattandosi le mutande E ti porrà il quesito - antico come il mare – “se qua sei solo per bere - puoi andartene a [omissis] Se vuoi solo ingozzarti - come li crapuloni - ti invito immantinente - a toglierti dai [omissis] Dileguati oh marrano - o assaggerai la cura - non troverai che lacrime - dietro codeste mura Ma se lo desio tuo - è puro e decoroso - se umile e pacato - ti rechi a degustare Supera lo cancello - raggiungi lo desco tuo - e con fiducia attendi - ti facciano accomodare Ma prima di procedere - come fan li viandanti - se tieni alla pelle tua - mostrami li contanti!”

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Il mash tun di inizio ’900 del birrificio Cantillon. L’orologio della stazione di Antwerp.

non prima però di fare accenno a Sua Maestà la Birra che, anche se finora non avevo nemmeno nominato, è tutt’altro che un elemento di contorno: è la Regina Assoluta, come in nessun altro luogo al mondo tra quelli di mia conoscenza. Le spine lasciano ben sperare, un paio di Lambic per iniziare e qualche commovente Strong Ale vintage. Altrove saremmo già soddisfatti. Ma è il grosso raccoglitore con l’elenco delle birre in bottiglia a lasciare senza fiato: una lista degna delle migliori cantine vinicole. Centinaia (migliaia?) di referenze, a coprire la maggioranza delle etichette belghe, rarità comprese, suddivise poi per annata, in genere a partire dagli anni Novanta ma in molti casi anche da molto prima. E quasi tutto a prezzi assolutamente umani: nulla comunque per cui svenarsi, come invece accadrebbe sicuramente in situazioni analoghe, in un’enoteca. Certo, difficile pensare che una Blanche o una Saison di venti e rotti anni possano regalare chissà quale esperienza gustativa, ma basta avere un minimo di dimestichezza su quali siano gli stili che ben si prestano alle maturazioni prolungate (no? Che problema c’è, ve li riassumo io: Dark Belgian Ale, Imperial Stout e Barleywine, oltre a buona parte delle fermentazioni spontanee o miste) ed ecco che avrete a disposizione uno scrigno di tesori dal quale estrarre ogni volta qualche gemma pregiata.

Un pezzo di formaggio e una salsiccia si rimediano, quanto basta per non stramazzare sul sofà alla terza quadrupel e, tra un’estasi gustativa e l’altra, in un attimo è sera, e ti ritrovi ancora una volta a inciampare per i marciapiedi di Anversa, cercando di ricordare dove cavolo fosse quel fantastico Frituur N.1 che potrebbe rimetterti in sesto e farti giungere in condizioni decenti alla stazione. Perché, ricordalo, al Kulminator ci si va in treno.

Brew Friday

Se il primo weekend l’abbiamo dedicato a De Dolle, per il secondo si punterà verso De Struise, ma prima abbiamo ancora tutto un intero venerdì da impiegare al meglio. A pochi chilometri da Gent si trovano due birrifici di valore: Glazen Toren, il cui laboratorio apre al pubblico proprio il venerdì pomeriggio, e Liefmans che, pur un po’ dimenticato dagli appassionati di nuova generazione, rimane un produttore di grande interesse. Due aziende estremamente diverse, sia per tipologia sia per dimensioni. Giunti ad Erpe Mere, Glazen Toren si rivela... un garage. In effetti, come ci mostra il birraio Jef Van Den Steen, contiene solo la (comunque piccola) sala cottura e qualche maturatore, mentre il grosso della produzione prosegue in un magazzino nel paese limitrofo di Aalst. Jef è un personaggio vero, mi ha sempre ricordato l’homeless pazzo che compare per pochi secondi in una puntata dei Simpson, cantando: “quella cavalla là - non è la stessa più”. Ma ancor più scompigliato, col suo gran barbone bianco, e più eccentrico nel vestiario, perennemente in canottiera bianca, pantaloni al ginocchio, calzino corto e scarpa in finta pelle. Però ci sa fare. La spiegazione del processo di birrificazione che ci ha improvvisato, stringata e precisa, è forse l’unica che mi abbia fatto capire qualcosa, tra le tante che mi sia capitato di ascoltare. Ovviamente un ambito così angusto non permette visite prolungate, ma la simpatia di Jef vale la strada percorsa, come pure la possibilità

di acquistare qualche birra, dato che le sue Saison e Tripel sono tra le migliori in assoluto e i prezzi presso il birrificio sono decisamente stracciati. Volendo prolungare piacevolmente la permanenza a Erpe Mere, il paesino propone anche il ‘t Vissershof, un ottimo pub che, oltre alle birre di Glazen Toren, offre un magnifico scorcio di natura a ridosso di un laghetto pescoso. È poi tempo per un po’ di modernariato birrario, presso il birrificio Liefmans, a Oudenaarde, sempre a pochi chilometri da Gent. Agli spazi enormi della fabbrica, aperta al passeggio e al cazzeggio, si aggiunge un bar all’altezza, dove però la gente sembra quasi tutta lì per altro: cole, cocktail, cibarie varie. In effetti le birre in degustazione sono le solite di sempre, tutte abbastanza anomale rispetto al gusto comune: l’oud bruin da cinque gradi che fa da base alla ancor ottima Goudenbad e alla Cuvée Brut alle ciliege, più una “sour blonde” decisamente dimenticabile. E l’ampia veranda all’aperto, affacciata sul fiume Schelde, si rivela perfetta per trascorrervi qualche altra ora, rilassante e fuori dal tempo, prima di tornare a Gent e dedicarle l’ultima serata.

L’enigma De Struise

È sabato e, puntando a Struise, si torna verso est, a ridosso di Diksmuide, dove eravamo il precedente weekend. Considerando che l’indomani torneremo a ovest per le Streekbierenfestival di Zwevegem, questa è sicuramente la parte meno “ottimizzata” dell’itinerario (anche se alla fine si tratta di tragitti piutto-

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L’interno del pub Kulminator. Jef Van Den Steen del birrificio Glazen Toren.

sto brevi). La scelta è comunque obbligatoria perché, almeno teoricamente, il birrificio cult di Oostvleteren apre al pubblico soltanto il sabato pomeriggio e solo per poche ore, in un locale ricavato da una vecchia scuola cittadina, ove è possibile degustare una trentina delle loro birre. Scrivo “teoricamente” perché le informazioni presenti sul web sono decisamente carenti e datate e alla mail che ho inviato non hanno mai risposto; mi è quindi venuto il dubbio che la tasting room possa non essere più attiva. Con un Atto Di Fede abbiamo comunque prenotato in zona (anche in questo caso gli spostamenti in auto, data la potenza alcolica delle birre, sono fortemente sconsigliati). Atto Di Fede che ha sortito risultati purtroppo non del tutto soddisfacenti: la taproom di Struise infatti è chiusa, definitivamente. Ma non tutto è perduto, perché il sito web indica un beershop a pochi chilometri di distanza, aperto sabato e domenica pomeriggio, e in questo caso l’informazione risulta corretta. Che dire... qualche bella spina c’è (sei o sette, compresa un’ottima Sint Amatus 2016) e le bottiglie e lattine esposte sono davvero tante: tutto lo Struise immaginabile, ovviamente, e quasi tutto il Belgio che conta, ma anche una serie notevole di birre estere, modaiolissime, provenienti soprattutto da USA e Scandinavia: sembra quasi di essere a Roma, invece che nelle Fiandre. Ma alla fine si tratta di un grosso magazzino scaffalato, con quattro tavolacci Ikea e atmosfera in linea col mobilio. Niente di nemmeno lontanamente memorabile come avevo sperato. L’atmosfera per fortuna non manca al Pub “Eth Witte Paard” di Vleteren, proprio a due passi dalla ex taproom chiusa: poche birre e decisamente meno ricercate, ma un cortiletto fiorito tra i più deliziosi che ricordi. La scoperta non basta a bilanciare la parziale delusione della tappa (che a questo punto vi consiglio di depennare), soprattutto perché il Publican ci confessa che anche questa piccola chicca ha i giorni contati, dato che

sta per cambiare proprietà e rinunciare alla birra per passare alla ristorazione.

Lo Streekbierenfestival di Zwevegem, ovvero: il miglior Ferragosto possibile

Data che tutti amano, a prescindere, il Ferragosto può invece rappresentare, per il moderno beerhunter sempre alla ricerca di mete birrarie di livello, un ostacolo difficile da affrontare. Già normalmente, come scrivevo, in Belgio non è sempre facilissimo capire quali siano le date e gli orari di apertura di birrifici e pub, soprattutto nel mese di agosto. A Ferragosto poi, si rischia di girare a vuoto a oltranza. Per fortuna ci viene in aiuto questo validissimo festival, che avevamo già visitato qualche anno fa. Zwevegem è un paesino a sud di Gand, che normalmente non offrirebbe grandi motivi di interesse, perlomeno non in ambito birrario: grazie allo Streekbierenfestival, organizzato sempre a cavallo del 15 agosto, diventa una sosta imperdibile. La piazza principale del paese, allestita con tendoni, panche e un piccolo palco per la musica dal vivo, accoglie gli stand di una cinquantina di birrifici, ai quali si affianca qualche ulteriore spazio dedicato al cibo e ai bambini. I produttori presenti sono tutti belgi (a dire il vero quest’anno era atteso anche Brewdog che però, senza generare grandi rimpianti, ha rinunciato all’ultimo momento), solo una piccola percentuale dei quali

di fama (inter)nazionale; gli altri, circa tre quarti del totale, sono tutti nomi nuovi o comunque poco noti. Questa caratteristica rende la manifestazione particolarmente interessante perché, in effetti, uno dei limiti tipici dei tour birrari in Belgio è che si tende quasi sempre a indirizzarsi verso gli stessi nomi, a bere le stesse cose - buonissime, per carità - ma è sempre più difficile individuare qualche novità degna di nota. Allo Streekbierenfestival il problema è opposto: quasi tutti i produttori sono “nuovi” e il rischio è di andare un po’ a naso, con tutti i rischi che ciò comporta. Eh sì, perché di birre piccole o di assaggi qua non se ne parla nemmeno: ogni gettone vale una bottiglia da 33 cl. (o la quantità equivalente, se la birra è in fusto) e dato che parliamo di birre mediamente parecchio forti, bastano due o tre scelte sfortuna-

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La sede del birrificio Liefmans. Degustazioni al birrificio Liefmans.

te per avvicinarsi pericolosamente alla soglia alcolica entro la quale sarebbe meglio chiudere la giornata di bevute, in pratica, sprecandola. Fortunatamente, essendo in due, abbiamo potuto permetterci qualche bicchiere in più, condividendolo; inoltre, essendoci fermati per due giorni, abbiamo accumulato una discreta lista di bevute. Anche il metodo adottato, che consiglio, ci ha aiutato a orientarci al meglio. Inizialmente abbiamo puntato su qualche nome noto ma imperdibile (Rodenbach Vintage, per esempio, l’ottima Cuvée Van Der Keizer Imperial Blond) o su birrifici reduci da qualche premio internazionale (come la raffinatissima Tripel di Dikke Jan). Da qua in poi, interagendo con i birrai e gli appassionati presenti al Festival, sia-

Streekbierenfestival: le migliori bevute

Julia Belgium - Sunny Joy 4.2 e Hedonis Ambachtsbier - Ouwen Duiker: le segnalo assieme perché sono due birre ben luppolate e piacevoli, molto leggera e beverina la prima, più strutturata la seconda, e perché creazioni di birrai molto giovani e interessati a quello che accade fuori dal Belgio. In entrambi i casi - e lo stesso approccio l’ho notato anche per altre birre simili ma meno convincenti - l’idea è di fare qualcosa che ricordi una IPA ma, dato che lo stile (si capisce) li convince poco, mantenendo caratteristiche chiaramente autoctone. Più Hoppy Blond che IPA, infatti.

The Brew Society - Martha Guilty pleasure e Martha Brown Eyes: anche in questo caso abbiamo birrai giovani e decisamente sgamati (marketing modernissimo, date un’occhiata al sito) ma più interessati a svecchiare stili locali piuttosto che scimmiottare altri paesi. In questo caso abbiamo una godibile Fruit Ale alle ciliegie e una saporitissima quadrupel, davvero notevole. Birrificio pluri-premiato nei concorsi birrari, a ragione.

De Landtsheer - Malheur: birrificio piuttosto noto e, anch’esso, reduce da parecchie medaglie internazionali, che avevo però in precedenza sempre un po’ snobbato (chissà perché?). Presentava, tra le altre, i suoi veri e propri top di gamma Malheur 10, 12 e Brut: una meglio dell’altra, in particolare le due chiare. Belgio al massimo livello.

mo riusciti a farci suggerire qualche dritta utile per proseguire con gli assaggi, per evitare di procedere alla cieca. Il risultato finale è che siamo riusciti a bere sempre bene, spesso molto bene, senza mai “lavandinare” nulla e scoprendo anche qualche birra davvero pregevole di cui non eravamo a conoscenza. Un’ultima nota sul festival. Pieno di persone giovani, mature, famiglie. Può forse centrare il fatto che l’ingresso è gratuito, per il bicchiere si paga solo una cauzione e che con un gettone - 3 euro - hai diritto a una birra da 33 cl. di qualsiasi tipologia? Quando infine si ragiona su quanto bevono fuori dall’Italia forse bisognerebbe considerare anche quali siano le differenze di esborso.

Vindevogel - Pauline: qua c’è dietro una storia triste. Si tratta infatti dell’omaggio di un papà homebrewer alla figlia neonata, Pauline Vindevogel, tragicamente morta in culla. Inizialmente prodotta in piccole quantità presso Deca Browerji è ora diventata l’unica birra di un piccolo birrificio gestito dal signor Vindevogel stesso. Una Golden Strong Ale da 10%, continuamente ritoccata negli anni per avvicinarsi alla perfezione: un capolavoro di forza ed equilibrio che mi ha incantato.

‘T Verzet - Kameradsky Balsamico: l’ultima birra che abbiamo bevuto. Cercavo qualcosa di definitivamente appagante e dopo una serie di suggerimenti incrociati sono arrivato a questa. Tra tutte le birre presenti al festival era probabilmente proprio quella che, di mia volontà, non avrei mai scelto. Innanzitutto, non ho mai amato Verzet e le loro birre troppo taglienti e poi detesto il mix tra tostature e acetico (si tratta di una via di mezzo tra una Imperial Stout e una Flemish Red). Mi sono, non so come, trovato il bicchiere in mano e ormai... Invece ho scoperto un inspiegabile capolavoro che sfrutta al meglio le caratteristiche dei due stili riuscendo a valorizzarne i pregi e minimizzare i difetti, per creare qualcosa di nuovo che è meglio della somma delle parti. Una birra estrema, da 13,5%, potente, complessa e strutturata... che ho scolato in pochi secondi. Un miracolo.

Siamo arrivati alla fine. Avremmo da raccontarvi ancora qualcosa, per esempio del birrificio D’Oude Maalderij, di Izegem, un locale davvero magnifico purtroppo penalizzato da birre pessime, e soprattutto della tappa Svizzera alla BFM (Brasserie de Franches Montaignes), dove, negli ultimi anni, non manchiamo mai di concludere le nostre vacanze all’estero. Ma il tempo è finito, ne parleremo un’altra volta. Ci rimane però da rispondere alla domanda che ci eravamo posti a inizio articolo: vale ancora la pena, nel 2022, di viaggiare in Belgio per birre?

La risposta ovviamente è Sì.... ma solo con: The ultimate vacation travel guide for the modern beerhunter! ★

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Il festival birrario di Zwevegem. La locandina del festival birrario di Zwevegem.

LA BIRRA DEI DETENUTI

Negli scorsi numeri di BNM avevamo raccontato delle varie esperienze di imprese italiane che operano - oltre che per la produzione birraria - anche in ottica di solidarietà sociale al supporto ai deboli e al reinserimento dei detenuti. Dopo lo storico birrificio Pausa Caffè di Saluzzo (TO), il progetto Vale la Pena di Roma e la Casa Lavoro di Vasto (CH), è stato recentemente inaugurato un nuovo “birrificio carcerario” presso la Casa Circondariale “Carmelo Magli” di Taranto. Si tratta di un progetto di inizia-

tiva privata che ha il duplice scopo di realizzare un percorso di formazione e inclusione applicato alla produzione e mescita di birra artigianale, ma anche di autosostenersi pienamente dal punto di vista finanziario.

Al momento due detenuti sono stati assunti per le operazioni produttive, con la previsione di incrementare di ulteriori due unità l’organico dell’impresa.

Il target produttivo annuo delle quattro attuali referenze, a marchio “Birra Pugliese” e distribuite in locali tarantini, è di circa 1500 hl.

Il luppolo previene l’Alzheimer?

Uno studio italiano sulle caratteristiche dei luppoli mostra che questi avrebbero la capacità di interferire con l’accumulo di proteina beta amiloide, associata all’Alzheimer. Test di laboratorio condotti dall’Università di Milano-Bicocca, insieme all’Università Statale di Milano e l’Istituto di Ricerche Farmacologiche Mario Negri potrebbero dare impulso a nuovi nutraceutici contro la neurodegenerazione. Lo studio, pubblicato sulla rivista ACS Chemical Neuroscience, dimostrerebbe che l’alto livello di polifenoli del luppolo promuove processi che consentono all’organismo di eliminare le proteine neurotossiche, e anche un’attività antibiotica e d’inibizione d’accumulo di proteina beta amiloide. Un test su vermi di tipo C elegans - i più comuni usati nei laboratori - ha mostrato la capacità di prevenire la paralisi correlata all’Alzheimer.

BIRRA NOSTRA MAGAZINE 57 settembre-ottobre 2022 NOVITÀ DAL MONDO BIRRARIO a cura della redazione

HANNO SCRITTO PER NOI

Andrea Camaschella

Appassionato di birra da svariati anni, sono coautore dell’Atlante dei Birrifici Italiani, docente ITS Agroalimentare per il Piemonte e in svariati altri corsi.

Norberto Capriata

Scienziato, filosofo, artista, pornografo, viaggiatore del tempo, mi divido tra la florida attività di arrotino-ombrellaio e la passione per la birra artigianale. Ho collaborato con le principali riviste del settore, a loro insaputa, e insegnato in vari corsi di cultura birraria, che nessuno ricorda. Conosco perfettamente la differenza tra Porter e Stout, ma non la rivelerò mai.

Daniele Cogliati

Sono un lettore e viaggiatore birrario seriale, giudice BJCP, scrivo su alcune riviste di settore e gestisco la pagina Facebook Beerbliophily – Books for Beer Lovers, sulla quale pubblico recensioni di libri che parlano di birra.

Erika Goffi

Operatrice turistica per vocazione, craft beer enthusiast per passione! Nasco in Franciacorta, ma alle “bollicine” preferisco l’effervescente mondo della birra: una sfida non indifferente per una donna che vuole diffondere la cultura birraria in un territorio ad alta vocazione vitivinicola. Ho coronato uno dei miei sogni trasferendomi in Belgio prima, passando per Olanda e Germania poi, vivendo così in prima persona tre importanti paradisi brassicoli europei. “I don’t have any special talent, I’m only passionately curious”. - A. Einstein -

Alberto Grandi

Professore di storia economica all’Università di Parma dove insegno Storia dell’Alimentazione e Storia dell’Integrazione Europea. Laureato in Scienze Politiche, nella mia attività di ricerca mi sono occupato di Corporazioni nel Medioevo e in Età Moderna e di mercati alimentari nel periodo preindustriale. Sono autore di circa cinquanta pubblicazioni accademiche in Italia e all’estero. Negli ultimi anni mi sono dedicato alla divulgazione scientifica con libri come Denominazione di Origine Inventata (Mondadori 2018), Parla mentre mangi (Mondadori 2019) e L’incredibile storia della neve e della sua scomparsa (Aboca 2022), ma soprattutto con il podcast “DOI - Denominazione di Origine Inventata” che ha raggiunto il primo posto per ascolti sulle principali piattaforme di distribuzione.

Matteo Malacaria

Giudice qualificato BJCP e beer sommelier, autore del blog Birramoriamoci.it e del libro Viaggio al centro della birra. Mi occupo di comunicazione e marketing applicati al settore birrogastronomico e sono docente presso la NAD di Verona.

Michele Matraxia

PhD Student presso il Dipartimento Scienze Agrarie, Alimentari e Forestali (SAAF) dell’Università degli Studi di Palermo e docente presso l’Istituto d’istruzione superiore agrario “Stanga” di Crema. Mi occupo di selezione e screening tecnologici su lieviti non-convenzionali per le produzioni di birre e idromeli. Ho da poco discusso la mia tesi di dottorato dal titolo “Innovazioni biotecnologiche nei processi fermentativi delle birre e di bevande fermentate a base di miele”.

Roberto Muzi

Formatore, sommelier, assaggiatore ONAF e consulente di settore. Laureato in Scienze Politiche, sono stato responsabile regionale per la Guida alle birre d’Italia di Slow Food Editore dal 2014 al 2021 e giurato in diversi concorsi birrari nazionali.

Eleni Pisano

Scrivo, fotografo, insegno e racconto di cibo. Esperta di turismo esperienziale in ambito brassicolo, beerchef, food stylist e beernauta in cerca di eccellenze. Ho lavorato per grandi marchi del mondo birrario italiano e poi mi sono avvicinata al mondo brassicolo artigianale. Lavoro come consulente e beerchef in diversi locali tra Milano e Monza. Svolgo collaborazioni sul beer pairing.

58 BIRRA NOSTRA MAGAZINE novembre-dicembre 2022 NEWS
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