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Settimanale di politica cultura economia N. 43 • anno LXVIII • 30 OTTOBRE 2022 Domenica 3 euro L’Espresso + La Repubblica In Italia abbinamento obbligatorio alla domenica. Gli altri giorni solo L’Espresso 4 euro
ECONOMIA
AMBIENTE
IDEE
Donne e giovani Pensione impossibile
Soffocati dai gas serra ma il clima può attendere
Bufalino inedito su Florio raccontato da Stefania Auci
Mentre il governo di Giorgia Meloni ne fa una questione di rendimento la scuola è lo specchio delle disuguaglianze. Qualità scadente, opportunità negate, dispersione record. E tagli agli investimenti
Lezioni di merito
in the end, all we have is our memories. 63 R u e d e Tu r e n n e , Pa r i s
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Altan
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Sommario numero 43 - 30 ottobre 2022
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Merito e uguaglianza separati nella scuola Lirio Abbate
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Prima Pagina Il ministro che ci meritiamo La scuola disuguale Sovrana è la Costituzione Stesse chance a chi è in svantaggio Meloni, il fascismo e l’ombra di Fini Ripresa in appalto
Carlo Tecce Antonio Fraschilla e Chiara Sgreccia Stefano Bonaga Gaja Cenciarelli Susanna Turco Gianfrancesco Turano Pensionata mai Gloria Riva Tre bombe a orologeria sul futuro della Sanità Ivan Cavicchi Clima, invertire la rotta Vittorio Malagutti Pale al piede Sara Dellabella C’è un’altra Ilva nel Salento Pierfrancesco Albanese Appestati dai fumi della raffineria Alan David Scifo Sempre più Comunità Ue Daniela Schwarzer Dove osano i troll di Mosca Luciana Grosso Soccorso russo al golpe birmano Alessandro De Pascale Ci serve il gas, aiutiamo Baku Sabato Angieri Erdogan gioca d’azzardo Filippo Rossi Donne e curdi uniti nella lotta colloquio con Aso Komeni di M. Edgarda Marcucci L’investitura da boss in un pizzino Antonio Fraschilla La scorciatoia per essere avvocati Anna Dichiarante
12 18 21 22 24 36 40 45 46 50 54 56 58 60 64 68 72 76 78 80
Idee Sabina Minardi Giuseppe Fantasia colloquio con Alexander Zeldin di Francesca De Sanctis Laura Pezzino colloquio con Ludovico Einaudi di Emanuele Coen
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La battaglia contro gli sprechi fa volare il mercato dell’usato Maurizio Di Fazio Venezia, al macero gli strumenti degli artisti di strada Marco De Vidi La miniera, la strage nazista, il lago. La seconda vita del borgo Donatella Chiappini
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La versione di Franca Sarò sempre un bracconiere Dove il mondo è a casa Bilbao, cielo e acciaio Facciamo teatro per carità Romanzo proletario La mia musica per il pianeta
Stefania Auci
Rubriche
Opinioni Altan Makkox Murgia Serra Panarari Manfellotto Cacciari
3 8 30 33 35 39 122
La parola Taglio alto Bookmarks Ho visto cose #musica Scritti al buio Noi e voi
7 17 105 118 118 119 120
COPERTINA Foto di Cristiano Minichiello / AGF
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La parola
© RIPRODUZIONE RISEVATA
la presidente Se Leia Organa, o sua madre Padmé Amidala, avessero chiesto di venir chiamate rispettivamente “Senatore” dell’Impero Galattico e “Re” di Naboo forse persino i Sith avrebbero manifestato un certo sconcerto. Difatti, la discussione su “il” o “la” presidente del Consiglio ha un retrogusto surreale, semplicemente perché non bisognerebbe neanche discuterne: già nel 2008 la prima donna presidente dell’Accademia della Crusca, Nicoletta Maraschio, pubblicava un chiarimento lucido quanto ovvio: «La lingua italiana consente, in questo caso, una soluzione semplice e per così dire trasparente e naturale di un problema, quello del riassestamento maschile-femminile nei nomi professionali; bastano infatti l’articolo (maschile o femminile) e l’eventuale accordo (una presidente impegnata / un presidente impegnato) a definire, insieme, il genere e la funzione». Ma senza scomodare la Crusca, e
la conoscenza della lingua italiana, dovrebbe bastare il buon senso: se la memoria non mi inganna, abbiamo detto e diciamo «la preside» o «la docente» senza evocare lo spettro di Tom Wolfe (e la malafede con cui si declina il termine che ha coniato, radical chic). Poi, certo, massima libertà di scelta, anche a dispetto della correttezza grammaticale: se Elsa Morante si definiva «scrittore», non mi sembra un gran problema se Giorgia Meloni vuole farsi chiamare «il presidente», ritenendo che sia più prestigioso: comunque sia, il lavoro sul linguaggio andrà avanti lo stesso e il mondo – e con lui la lingua – sta comunque cambiando. Semmai, per restare in tema Star Wars, porrei attenzione alle previste ma sconcertanti giravolte non solo linguistiche degli ultimi tempi. Come diceva proprio Padmé Amidala: «È così che muore la libertà: sotto scroscianti applausi». È vero, era solo un film, ma meglio ripassare.
LOREDANA LIPPERINI 30 ottobre 2022
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Cronache da fuori
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30 ottobre 2022
Makkox
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Lirio Abbate
Editoriale
Merito e uguaglianza separati nella scuola
D Il sistema dell’istruzione pubblica aggrava le ingiustizie sociali, mentre l’ideologia del nuovo governo promuove le eccellenze individuali. E mentre l’Italia discute, Putin torna a minacciare l’uso dell’atomica
i sicuro è tornata la politica. Con i leader, le contrapposizioni e le idee sul Paese. E la legislatura è entrata nel vivo già con l’intervento alla Camera di Giorgia Meloni, replicato al Senato, dove era scontato che ottenesse la fiducia. Eravamo curiosi del discorso della presidente del Consiglio e di quello che avrebbe ribattuto l’opposizione. E la premier non ci ha sconvolto, perché è stata coerente con ciò che aveva urlato nelle piazze durante la campagna elettorale. L’opposizione invece ha provato a fare l’opposizione. E la presidente di Fratelli d’Italia ha fatto capire che è a capotavola della sua maggioranza di destra. Quello di Giorgia Meloni è stato un lungo discorso la cui forma e contenuto ci riporta ad un linguaggio, non più tecnico, ma a una mossa che si rifà alla politica da prima Repubblica. Lo schema è quello e ci fa guardare indietro. Ma per quello che dice di fare, senza riforme la macchina non può funzionare perché rischia di incepparsi. E con lei il Paese. Due punti, anzi, due valori che sono stati indicati dalla premier, fanno però discutere e sono il merito e l’uguaglianza, che lei considera “fratelli”. Il riferimento è all’istruzione, alla scuola pubblica, che non sta bene. Soffre e con lei pure docenti e studenti. Meloni e il suo ministro devono sapere che gli istituti sono costretti a chiedere contributi economici alle famiglie dei ragazzi per comprare quello che occorre agli studenti per le loro attività. Cose alle quali hanno diritto. E ne viene fuori non una scuola dell’uguaglianza dei diritti e dei doveri, nella quale siano promossi la
cultura e il merito, ma una scuola della diseguaglianza perché divide per provenienza, ceto sociale e ricchezza. Sono gli stessi docenti che si chiedono: come si persegue il bene comune se non si difendono i diritti di tutti? Gli strumenti degli insegnanti sono la pazienza, l’approfondimento, l’impulso alla fatica e allo sforzo per aumentare il numero dei capaci e meritevoli. Per questo motivo mentre il governo di Giorgia Meloni ne fa una questione di merito, la scuola è lo specchio delle disuguaglianze: qualità scadente, opportunità negate, dispersione scolastica a livelli record. E ci sono i tagli agli investimenti anche per l’edilizia scolastica. Occorre stare accanto a docenti e studenti. Per non lasciare nessuno indietro. E mentre Meloni fa “lezioni di merito”, nel mondo temono le azioni nucleari del presidente russo, Vladimir Putin, il quale si è messo comodo ad assistere ad una esercitazione delle forze di deterrenza strategica, simulando una risposta ad un attacco nucleare. Lo zar torna a minacciare l’uso della bomba atomica. Per questo il segretario generale dell’Alleanza Atlantica, Jens Stoltenberg, ha fatto subito sapere al Cremlino che «la Nato difenderà tutti gli Alleati». «Vladimir Putin sta perdendo sul terreno e sta rispondendo con attacchi sui civili e con una retorica nucleare». Stoltengerg ammonisce la Russia: «Non usi falsi pretesti per una escalation. La Nato non sarà intimidita nel suo sostegno» all’Ucraina. Scenari nazionali e internazionali sui quali il nuovo governo dovrà iniziare ad operare e decidere. Per merito.
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Istruzione / Il governo
IL MINISTRO CHE DI CARLO TECCE
AMICO DEI RUSSI, BOCCIATO ALLE ELEZIONI, FAVOREVOLE A EFFICIENZA, INDIVIDUALISMO, AUTORITARISMO. ECCO CHI È VALDITARA, L’UOMO CHIAMATO A GESTIRE UN SISTEMA DISASTRATO 12
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Prima Pagina
CI MERITIAMO
Studenti all’ingresso del liceo scientifico Isacco Newton di Roma 30 ottobre 2022
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Istruzione / Il governo
I
l grande merito del prof. Giuseppe Valditara è che non s’è parlato abbastanza del merito della sua nomina a ministro dell’Istruzione e appunto del Merito (altrui). Ci si è soffermati sulle copertine dei suoi volumi come sulle confezioni dei cioccolatini. Se per tratteggiare il profilo di un docente universitario di Diritto Romano a Torino pare inelegante citare la mamma di Forrest Gump, che teorizzò che «la vita è uguale a una scatola di cioccolatini e non sai mai quello che ti capita», si potrebbe candidamente osservare che il Valditara ha solcato più fasi politiche e intellettuali. Allora viene da menzionare Pablo Picasso. Qui siamo, si perdoni l’azzardo, al cubismo sintetico che sovrappone e giustappone più Valditara. E con sollievo già abbiamo individuato un suo merito. Il prof. è conteso dalle province italiane e dai partiti di destra. Nelle solite agiografie che cullano i ministri appena incaricati, si legge che il 61enne ministro Valditara, figlio di una insegnante e di un dirigente di
HA SCRITTO NEL SUO MANIFESTO ELETTORALE: “PASSARE DALLA LOGICA DEL DIPLOMIFICIO A UN MODELLO CHE PRIVILEGI LO SVILUPPO INDIVIDUALIZZATO DEI TALENTI” banca ex partigiano, è un milanese che tifa Inter, ma risiede nel Biellese a Graglia vicino al santuario della Madonna lauretana. In paese raccontano che da senatore si è impegnato alacremente per ottenere dei contributi pubblici per un parco giochi. Una targa gli rende il dovuto omaggio. Anche la residenza politica non è stabile nonostante da oltre un quarto di secolo ne sia un assiduo frequentatore. Il prof. ha il vezzo di definirsi un allievo di Gianfranco Miglio, ideologo e ispiratore del federalismo leghista. Nel bel mezzo delle trattative per le Carlo Tecce elezioni del ’94, in veste di Giornalista consulente, Valditara par14
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tecipò con la delegazione leghista - c’erano Vito Gnutti e Bobo Maroni - a una riunione con Mario Segni. Però ha sempre militato in Alleanza Nazionale e fu un estimatore del pugliese Pinuccio Tatarella: «Squilla il telefono e una voce anonima mi dice: “le posso passare il presidente Tatarella?”. Pensavo fosse uno scherzo e invece era proprio Pinuccio. Mi chiese se fossi - ha ricordato in un volume celebrativo della Fondazione Tatarella - disponibile a incontrarlo a Milano. Aggiunse che era da un po’ che mi seguiva sui giornali e che il mio progetto era anche il suo progetto». Unire le destre contro le sinistre senza troppe distinzioni. Con il baricentro in un punto imprecisato della destra ma comunque a destra, Valditara esordì da assessore con doppia delega alla provincia di Milano (c’era pure l’istruzione, certo) e al Senato proprio con Alleanza Nazionale nel 2001. I pregiudizi lo investono per il ruolo di integerrimo relatore di maggioranza della riforma che porta il nome della ministra Mariastella Gelmini (2009/11) e che si riassume brevemente nei crateri che causò nel sistema scolastico e universitario con il taglio di 8/10 miliardi di euro di risorse (sul consuntivo ci sono valutazioni discordati) e di decine di migliaia di
Foto pagine 12-13: F. Fotia – Agf, pagine 14-15: Agf
Prima Pagina
cattedre. A palazzo Madama il senatore Valditara scortò in aula la parte universitaria, non ha responsabilità dirette di quello scempio, ma la koinè culturale - più efficienza, più individualismo, più autoritarismo - è la stessa. E gli indizi col tempo si tramuteranno in prova. Con pazienza. Valditara seguì lo scissionista Gianfranco Fini, salutò i colleghi berlusconiani e aderì a Futuro e Libertà. Che sciagura. Il prof. si ritrovò fuori dal Parlamento (2013) e con le sue destre di riferimento - quella post missina e quella post bossiana - quasi evaporate. Per fortuna incontrò un politico studente di larghe ambizioni e di facili suggestioni che stava per declinare il federalismo in sovranismo e l’autonomia locale in nazionalismo revanscista: sì, Matteo Salvini. Il prof. Valditara, che già nel ’96 affascinò Tatarella - ha modestamente confessato - con la sua associazione per le Libertà, domiciliata in una villa che fu di Quintino Sella, folgorò Salvini col gruppo di studio Logos e con l’opera di semplice utilizzo politico “L’immigrazione nell’antica Roma: una questione attuale” per Rubbettino che nell’edizione per il Giornale divenne “L’impero romano distrutto dagli immigrati” (2015). Il rigore accademico di Logos, che
LEZIONE Primo giorno di scuola al liceo scientifico Isacco Newton di Roma
fu anche una pregiata rivista, lo si evince dal curriculum del direttore responsabile che affiancò il direttore scientifico Valditara e cioè Gianluca Savoini, ex portavoce di Salvini, appassionato di Vladimir Putin, e poi protagonista della trattativa con i russi all’hotel Metropol di Mosca per un presunto finanziamento alla Lega. Fervido oppositore della “cancel culture”, Valditara ha dapprima eliminato la foto di Savoini dalle pagine di Logos e infine ha chiuso il sito e soppresso il gruppo. La recensione più interessante sull’impero di Roma è arrivata due anni fa dalla Russia: «Linnikov & Parteners si congratula con il suo amico e collega italiano, il prof. Giuseppe Valditara, per l’uscita della versione inglese di “Civis romanus sum: citizenship and empire in ancient Rome”. L’opera fondamentale del famoso statista, che ha dato un contributo significativo allo sviluppo della cooperazione scientifica e educativa fra Russia e Italia. L’autore scrive dei principi dell’assimilazione nell’antico Stato, dei problemi della discriminazione razziale e delle opportunità di carriera nell’antica Roma. Auguriamo a Giuseppe Valditara successo nel suo lavoro scientifico e nel rafforzamento delle relazioni fra Italia e Russia!». Alexander Linnikov è un avvocato di affari e prorettore della Financial University di Mosca, una università governativa che ha un rapporto di collaborazione con la statale di Torino dove insegna Valditara. Il prof. fu ospite dell’ateneo russo il 27 novembre 2018, in quei giorni si teneva un convegno su come far entrare la Russia nelle principali cinque economie del mondo con la partecipazione tra gli oratori dell’ex ministro Giulio Tremonti (oggi deputato di Fratelli d’Italia). In quel momento, però, Valditara non era soltanto un famoso docente o «statista», ma era un alto funzionario pubblico, capo dipartimento per la formazione superiore e la ricerca all’Istruzione con il ministro leghista Marco Bussetti. Il prof. Valditara, nel governo Conte I, cercò di introdurre con la legge di bilancio maggiore, anzi totale, autonomia per le università di stringere accordi con le aziende private e per i docenti di non avere limiti alle consulenze esterne. L’esecutivo gialloverde di Giuseppe Conte cadde per mano di Salvini durante il Ferragosto 2019 e col governo cadde la proposta della coppia Bussetti e Valditara. Ostina30 ottobre 2022
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Istruzione / Il governo to col suo atteggiamento oblativo, il prof. non ha abbandonato Salvini e assieme al politico studente si è presto allontanato dal sovranismo. Ha archiviato l’esperienza di Logos e ha fondato Lettera150 durante la pandemia con un appello di altri 149 docenti. Nel 2017 firmò il saggio politico “Sovranismo, una speranza per la democrazia” con la postfazione di Marcello Foa, futuro presidente della Rai. Lo scorso settembre ha firmato il manifesto elettorale “L’Italia che vogliamo” con Alessandro Amadori (psicologo e sondaggista) e un intervento di Matteo Salvini e di Armando Siri. Dettaglio prosaico: il prof. era candidato leghista in un posto scomodo di un listino proporzionale a Varese, e non ce l’ha fatta. Dicevamo. Come si conciliano i due Salvini e i due Valditara l’ha spiegato il medesimo Valditara all’Espresso: «C’è continuità perché non ho mai inteso il sovranismo come nazionalismo, ma sovranità popolare come nella nostra Costituzione e di cui il
IL SUO LIBRO È STATO RECENSITO ENTUSIASTICAMENTE DAL PRORETTORE DELLA FINANCIAL UNIVERSITY DI MOSCA. “L’OPERA DEL FAMOSO STATISTA AIUTA LA COOPERAZIONE FRA I PAESI” federalismo è la massima espressione». La parola merito al singolare o al plurale ricorre 18 volte nelle 228 pagine de “L’Italia che vogliamo”. Valditara e Amadori sono più dirompenti nel capitolo università - il ministero è attribuito alla ministra Anna Maria Bernini di Forza Italia - che sul sistema scolastico: «Occorre procedere a una serie di riforme legislative che garantiscano alle università maggiore libertà nell’esercizio del commercio e dell’industria. La raccolta di finanziamenti privati che investano nel successo della sperimentazione dei brevetti deve essere in ogni modo agevolata e organizzata. È necessario dirottare parte delle risorse pubbliche per finanziarie in particolare quelle ricerche, e quei dipartimenti, che sono o possono diventare punte avanzate dell’innovazione. I finanziamenti governativi devono essere in parte contrat16
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RIVISTA Giuseppe Valditara e (a destra) Gianluca Savoini. Rispettivamente direttore scientifico e direttore responsabile della rivista pubblicata dalla fondazione Logos
tati sulla base di una verifica delle potenzialità dell’ateneo e in relazione a precisi progetti di sviluppo, che esaltino i punti di forza dell’università e considerino il bisogno di crescita del territorio circostante, sapendosi integrare con le politiche sociali ed economiche locali». Valditara si occupa di Istruzione e non di Università, ma in questo passaggio c’è una concreta applicazione del “merito”, che certamente non appiana le differenze, bensì le accentua per soddisfare esigenze pratiche e nazionali (variabili a seconda del governo) e così svantaggia, respinge, esclude. Nel paragrafo “una scuola che non lasci indietro nessuno” l’approccio è illusoriamente dissimile. Valditara e Amadori dimostrano con gli irrefutabili numeri che la dispersione scolastica e le carenze di apprendimento sono allarmanti, ma mirano a esaltare i singoli, non a elevare il collettivo. In perfetta sintonia con la precisazione della presidente Giorgia Meloni alla Camera: «Tutti sulla stessa linea di partenza, ma non sulla stessa linea di arrivo». «Se questi sono i risultati di un sistema scolastico che - proseguono Valditara e Amadori - ha cercato la qualità attraverso i processi selettivi e le bocciature agli studenti, dovremmo concludere che ha fallito. Ma sarebbe profondamente sbagliato
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immaginare di risolvere il problema della qualità degli apprendimenti futuri dei nostri giovani se, mantenendo la struttura del sistema scolastico esistente, eliminassimo soltanto le bocciature. Un sistema scolastico che sia “lievito” dei talenti degli studenti e che non trascuri nessuno deve strutturarsi sul piano ordinamentale, organizzativo e didattico in una maniera di-
versa dall’attuale. Passare dalla logica del “diplomificio” a un modello di formazione scolastica che privilegi lo sviluppo individualizzato dei talenti e delle corrispondenti competenze». Ecco dov’era finita l’originale di Mariastella Gelmini. Adesso si chiama Giuseppe Valditara. Chissà se la scuola si merita il bis.
MAURO BIANI
Foto: A. Casasoli – A3, Ansa, Agf (2)
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Sopra: studenti del liceo classico Giulio Cesare di Roma si avviano in classe. A sinistra: una studentessa del liceo scientifico Alessandro Volta di Milano
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Istruzione / Le scelte
LA SCUOLA DISUGUALE DISPERSIONE, DIVARIO DI APPRENDIMENTO, COMPETENZE, TAGLI. ECCO PERCHÉ “MERITO” RESTA SOLO UNO SLOGAN DAL SAPORE CONSERVATORE, DICONO STUDENTI E DOCENTI. IL PROBLEMA SONO LE RISORSE DI ANTONIO FRASCHILLA E CHIARA SGRECCIA 18
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La ripresa delle lezioni durante la pandemia di Covid-19, nel liceo Kennedy di Roma
Foto: L. Santini / Contrasto
I
l problema non è la parola «merito», ma i mancati investimenti. Il problema non è un nome aggiunto al ministero, ma la situazione difficile che vive tutto il mondo della scuola dopo anni di riforme e tagli per assunzioni e formazione. Occorrono finanziamenti e cambiamenti strutturali per migliorare la scuola italiana e rendere davvero attuale quella parola tanto cara al nuovo governo: «merito», appunto, una parola che è anche nella Costituzione ma che dovrebbe arrivare alla fine di un percorso che consente a tutti, ricchi e poveri, del Nord o del Sud, di poter accedere alla migliore istruzione. Dagli studenti ai dirigenti scolastici, dai docenti di periferia a quelli dei centri benestanti delle città, tutti chiedono in fondo la stessa cosa al nuovo governo guidato da Giorgia Meloni e dalla destra: investimenti, riforme profonde, e pari opportunità per tutti i bambini e i ragazzi del Paese. L’Espresso ha ascoltato diverse voci dal mondo della scuola e dell’università per capire quali sono le urgenze dell’istruzione in Italia che il governo dovrebbe affrontare. Il responsabile dell’Associazione nazionale presidi, Antonello Giannelli, ha pronto una sorta di dossier da inviare al neoministro dell’Istruzione Giuseppe Valditara sulle principali emergenze: «Abbiamo un problema grave che riguarda la dispersione scolastica ovvero il gran numero di alunni che escono dal sistema educativo, prima di conseguire un diploma. Un fenomeno di disagio giovanile al quale si aggiunge anche il problema di trovare lavoro. Poi c’è il tema dei divari di apprendimento nei vari territori. Invalsi ci fa vedere che l’efficienza del sistema educativo è molto differenziata non solo a livello geografico ma, a volte, anche nello stesso istituto scolastico. A questo si aggiunge il problema del basso livello di competenze dei nostri diplomati: cosa questa che, a cascata, si riflette sul prodotto interno lordo. Come affrontare questi problemi enormi? Innanzitutto con maggiori investimenti in personale docente, amministrativo e nell’edilizia scolastica. Riprenderei quindi proprio una frase della presidente del Consiglio Giorgia Meloni detta durante il discorso che ha tenuto alla Camera: l’Italia non è un Paese per giovani. Noi infatti investiamo nella spesa sanitaria, visto che siamo molto anziani, ma diminuiamo ogni anno il budget ri-
servato all’istruzione». Per i dirigenti scolastici la parola «merito» non è un problema: «Questa parola è presente nell’articolo 34 della Costituzione, dove si dice che “i capaci e i meritevoli” devono arrivare ai livelli più alti dello studio e lo Stato deve favorire questa dinamica aiutando chi ha minori possibilità. Sarebbe quindi il caso di reintrodurre vere borse di studio, come avviene in diversi Paesi anglosassoni, evitando sistemi elitari. Ma il concetto del merito va poi applicato anche al personale docente e a tutti gli attori che animano la scuola». Ma poi è nelle classi che si vivono i problemi, altro che merito calato dall’alto. Secondo Piero De Luca, preside dell'Istituto comprensivo Sauro Errico Pascoli di Secondigliano, nella periferia di Napoli, «il problema sta nel capire cosa intendono col legare la parola merito all’istruzione»: «La scuola deve dare uguali opportunità a tutti, occupandosi, paradossalmente, proprio di chi potrebbe essere definito come meno meritevole. Parlare di merito fa pensare all’idea di riportare in auge una concezione conservatrice della scuola che ripete negli istituti le logiche classiste che ci sono in società. Invece la scuola, almeno secondo me, dovrebbe essere rivoluzionaria affinché venga rispettato l’articolo 3 della Costituzione secondo cui tutti “hanno pari dignità, senza distinzioni”. Credo che il merito nasconda dentro di sé un’idea dell’istruzione legata a voti, classifiche e graduatorie, tremenda. Come quella messa in atto con le prove Invalsi che hanno lo scopo di identificare scuole di serie A e B. Come se non fosse già chiaro a tutti che i risultati migliori arrivano dalle aree di Paese in cui il benessere è maggiore. Noi che lavoriamo in contesti deprivati dal punto di vista sociale e economico, sappiamo bene come accrescere l’idea di Antonio Fraschilla competizione; qui significa Giornalista far morire la scuola: perché crea frustrazione tra chi ha opportunità diverse e scatena disaffezione tra chi non vede già la scuola di buon occhio. La scuola dovrebbe educare non all’eccellenza ma alla cittadinanza». Da Chiara Sgreccia Secondigliano alle aule del Giornalista centro di Milano, in fon30 ottobre 2022
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Istruzione / Le scelte do il punto di vista non cambia: «Come docenti abbiamo difficoltà nel valutare con dei numeri la preparazione degli studenti», dice Felice Moramarco, docente di Storia e filosofia al liceo Carlo Tenca. «La scuola degli ultimi anni ha cercato di avere più attenzione al benessere degli studenti. Le condizioni di partenza, il contesto familiare e sociale, oggi sono fattori di cui teniamo conto. Introdurre il concetto neoliberale del merito va nella direzione opposta. Rafforza l’idea falsa secondo cui una persona può farsi da sola. Non è vero, non esiste nessuno che è stato in grado di raggiungere il successo senza il supporto degli altri». La parola merito comunque non piace non solo ai docenti, ma anche agli studenti: «Di che tipo di merito può farsi portavoce il nuovo ministro Valditara con un sistema scolastico che priva migliaia di studenti dall'accesso al diritto allo studio?», si chiede Daniele Agostini, responsabile scuola Fronte giovani comunisti: «Circa 100 mila persone ogni anno lasciano gli studi e tra le cause principali c’è l’aumento dei costi come il caro libri, trasporti e i contributi scolastici». Aggiunge Tommaso Biancuzzi, rappresentante nazionale della Rete degli studenti medi: «Il merito è un concetto che esclude senza criterio, che non considera il libero sviluppo delle personalità, che si basa sulla competizione sfrenata e non permette di cre-
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L’INIZIATIVA Stefano Disegni ha firmato sei “vignette da completare” sul tema delle disuguaglianze a sostegno della campagna di raccolta fondi “Insieme per la giustizia sociale e ambientale” che il Forum Disuguaglianze e Diversità ha lanciato su Produzioni dal Basso. Terminata lo scorso 20 ottobre, la campagna ha visto la partecipazione di oltre 680 donatori e donatrici e ha raccolto oltre 83.000 euro. La sesta battuta vincitrice è di Maria Teresa Benassi nella vignetta che pubblichiamo qui. Tutte le vignette premiate sono disponibili anche sul sito del Forum Disuguaglianze e Diversità: www.forumdisuguaglianze diversita.org.
scere. La scuola che vogliamo è tutto il contrario. Vogliamo una scuola aperta». Ma una riforma che ha già introdotto certi concetti di «merito», legandoli anche ai finanziamenti da dare agli atenei e provocando fratture sempre più profonde, è quella dell’università. Non a caso qui la richiesta alla neoministra Anna Maria Bernini è unanime: più finanziamenti agli atenei per consentire loro di competere, a Milano come a Palermo. Dice Antonella Polimeni, rettrice de La Sapienza di Roma: «Auspico che il governo presti attenzione ai finanziamenti al sistema di formazione e ricerca che negli ultimi anni hanno avuto un seppur debole incremento e mi auguro che continui perché un Paese che non investe in formazione non investe sul capitale umano. Va respinto comunque con forza alla radice il tema degli atenei di serie A e B, garantendo accesso egualitario a tutti nei nostri atenei. Il dibattito sul merito è vuoto. Dobbiamo garantire invece il diritto allo studio, supportare gli studenti con attività di orientamento fin dalle medie e costruire ponti importanti tra università e mondo del lavoro». Gli studenti universitari comunque vivono sulla loro pelle le riforme basate su “meriti” delle università fatte dagli ultimi governi, a partire dalla riforma Gelmini. Secondo Camilla Piredda, dell’Udu, l’Unione degli uni-
Prima Pagina L’APPELLO
SOVRANA È LA COSTITUZIONE DI Stefano Bonaga
Foto: Martino Lombezzi/contrasto
Studenti in una delle aule dell’Università di Bologna
versitari, «performatività, competitività, individualismo sono stati i filoni che hanno guidato il trattamento dei giovani negli ultimi decenni e le due figure che oggi sono a capo dei ministeri di Istruzione e Università non fanno pensare ad alcun miglioramento. Come possiamo basare ogni scelta che concerne le nuove generazioni sul concetto di merito in un Paese con delle disuguaglianze socioeconomiche che non fanno altro che crescere?». «Il concetto di merito è presente da anni all’interno delle scuole e delle università e infatti ha indebolito il sistema di welfare e piegato il sapere alla certificazione dei crediti: è stato utilizzato anche in chiave ideologica per rafforzare l’idea che tra studenti debba vigere la competizione invece del confronto», spiega Antonio Corlianò dell’associazione studentesca universitaria Cambiare Rotta. «Il merito è stato utilizzato come strumento per smantellare alcune tutele: come la possibilità di accedere alle borse di studio, che sono sempre meno, o di alloggiare nelle residenze universitarie, sempre più in mano ai privati. Oppure come succede nei bandi per la ricerca e per l’accesso nelle università a numero chiuso che danno vita a un sistema di concorrenza sfrenata. La narrazione del “se te lo meriti ce la fai“ porta sempre meno persone a iscriversi all’università».
Le elezioni sono una condizione necessaria per qualunque democrazia, ma non una condizione sufficiente. Un caso fra i tanti di Mussolini, Hitler, Ceaucescu, Erdogan, Orban, Putin. La democrazia ha equilibri delicati che richiedono rigore e attenzione. Ad esempio, il primo articolo della nostra Costituzione recita che la sovranità appartiene al popolo, ma vi aggiunge una virgola cui segue la formula: «Che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione». Il popolo è dunque assolutamente sovrano solo quando, attraverso l’Assemblea costituente, articola i principi della Costituzione. Qualunque norma esca dalle Assemblee parlamentari pur delegate dai cittadini è, infatti, sottoposta al giudizio degli organi che la garantiscono: il presidente della Repubblica e la Corte costituzionale. Sovrana è in principio la Costituzione, non il popolo. Le recenti elezioni del Senato e della Camera sono formalmente indiscutibili, benché condotte con una legge elettorale pessima, che distorce la rappresentanza. Tuttavia siamo allarmati dal fatto che le due figure di garanzia da poco elette – i presidenti delle due Camere – e quelle di altri ministri appena nominati siano caratterizzate culturalmente da identità che ribadiscono la loro devozione al trinomio “Dio Patria Famiglia”, triste eredità di regimi autoritari come quello di Vichy in Francia durante la seconda guerra mondiale. Questo trinomio è in contrasto con l’articolo 3 della Costituzione. La nostra Costituzione non prevede infatti “Dio, Patria e Famiglia”, ma al contrario garantisce la pari dignità di ogni cittadino indipendentemente dal sesso, dalla razza e dalla religione e dunque implica il rispetto di una pluralità di dei, di patrie e di famiglie. Come cittadini di questa Repubblica che hanno a cuore la Norma costituzionale fondativa e che sono quotidianamente impegnati sul fronte della formazione, della ricerca artistica e dell’elaborazione culturale e scientifica riteniamo nostro dovere segnalare all’attenzione della pubblica opinione la minaccia rappresentata da questa parola d’ordine, che nel nostro recente passato ha fatto da bandiera alle più infami avventure totalitarie (dal fascismo al franchismo, dal nazismo al putinismo), anche se naturalmente altre avventure simili – come nel caso dello stalinismo – si sono sviluppate senza utilizzo di tale trinomio. Oggi i diritti garantiti dalla Costituzione sono ancora tutelati, ma i timori di un loro indebolimento sono ragionevolmente fondati. Stefano Bonaga, Rocco Ronchi, Piergiorgio Ardeni, Alessandro Bergonzoni, Antonio Caprarica, Maurizio Ferraris, Massimo Fusillo, Nicola Lacetera, Piero Maranghi, Riccardo Manzotti, Pietro Marcello, Ivano Marescotti, Piergiorgio Odifreddi, Moni Ovadia, Leonardo Piccinini, Pif, Daniela Ranieri, Andrea Roventini, Elena Stancanelli, Fabrizio Tonello, Emanuele Trevi, Ornella Vanoni, Giovanni Veronesi, Sandro Veronesi, Giancarlo Vitali L’appello può essere sottoscritto attraverso i commenti sulla pagina Facebook “Insonnia della ragione”: https://www.facebook.com/insonniadellaragione
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Istruzione / Le opportunità
STESSE CHANCE A C DI GAJA CENCIARELLI
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ell’arco di tempo intercorso dal risultato delle elezioni all’insediamento del nuovo governo, una delle pratiche più diffuse è stato il cosiddetto totoministri. Nel lungo elenco dei ministeri non compariva quasi mai quello della Pubblica istruzione. Non c’è da stupirsene: la scuola è stata, negli ultimi decenni, praticamente invisibile nell’agenda politica e, quand’anche abbia goduto di una certa attenzione, le conseguenze sono state disastrose. Una delle più recenti innovazioni è stata la costosissima informatizzazione delle supplenze. Esperimento riuscito? Stando alle dichiarazioni del ministro uscente, è stato un successo: tutti i docenti erano in cattedra dal primo settembre. Gli insegnanti precari la pensano diversamente: numerosissimi gli aventi diritto con punteggi alti e titoli aggiuntivi – in ogni classe di concorso, comprese le graduatorie sul sostegno - scavalcati in graduatoria da candidati con un punteggio inferiore; i vincitori del recente concorso ordinario che, in alcune regioni, non sono stati immessi in ruolo e si sono visti costretti ad accettare supplenze per un’altra annualità; i dirigenti scolastici che hanno iniziato a convocare da graduatorie di istituto o a pescare dalle Mad (acronimo per Messa a disposizione) per tappare buchi che somigliano a voragini e che rischiano di sottrarre tempo prezioso alla didattica. Senza addentrarci sul danno economico che questi errori causano all’affollatissima categoria dei docenti, senza nemmeno sottolineare il meccanismo farraginoso che ostacola la stabilizzazione dei precari storici, ci sia concesso di avanzare qualche legittimo dubbio sull’effettivo, assoluto successo di questo sistema che si proponeva di essere risolutivo. Del resto, non è mai accaduto che negli Uffici scolastici regionali – soprattutto quelli delle grandi città – non si siano verificati errori: la gran mole di lavoro da gestire ha molto influito sull’accuratezza. Fin qui il cahier de doléances che entra nel merito del sistema scolastico dal punto di vista organizzativo. Ciò nonostante, con i suoi difetti e le sue pecche strutturali, la scuola è – e resta, grazie ai docenti e agli studenti – teatro di quel nobilissimo atto politico che è l’insegnamento. Da qualche giorno, tuttaGaja Cenciarelli via, sia chi insegna sia chi impara si è riScrittrice trovato, a percorrere non solo la strada 22
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Una lezione al liceo classico, linguistico, scientifico Virgilio di Milano
dell’istruzione ma anche del merito. Sono due gli articoli della nostra Costituzione che disegnano le linee guida della scuola pubblica con particolare attenzione nei confronti dei discenti. L’articolo 3 recita: «È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese». L’articolo 34 precisa: «La scuola è aperta a tutti. […] I capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi». Se, dunque, la nostra Costituzione già contempla il merito e le capacità, di cosa si parla quando si introduce il concetto di merito? Qual è la sua portata (o la sua deriva) semantica? Secondo il nuovo governo, la scuola progressista ha fallito, si è appiattita al ribasso: «La scuola senza qualità,
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HI È IN SVANTAGGIO una maggioranza di studenti che non è di madrelingua italiana. Di contro, i licei blasonati, quelli dove si trasmette il patrimonio culturale, sono quasi tutti posizionati nei quartieri ricchi o al centro delle grandi città. Certo, ci sono studenti stranieri anche nelle scuole più prestigiose, ma sono in netta minoranza. Per le ragazze e i ragazzi che frequentano i licei classici, scientifici, linguistici con nomi altisonanti sarà più semplice raggiungere i propri obiettivi grazie al merito. Se, poniamo, una studentessa ginnasiale prende lezioni di inglese fin da quando era bambina, avrà tutte le chance di assicurarsi un voto alto nella materia. Se, poniamo, una studentessa musulmana iscritta in un istituto professionale, da poco trasferita in Italia, che non parla altra lingua che l’urdu e che non può permettersi una professoressa privata, viene interrogata, forse farà fatica a meritare una sufficienza. Forse, però, anche gli studenti che, durante l’alternanza scuola-lavoro, perdono la vita avrebbero meritato di vivere. Dunque, torniamo al nucleo della questione: forse merito è sinonimo di privilegio? La scuola progressista che secondo alcuni ha fallito si avvale di una pletora di strumenti dispensativi e compensativi per portare avanti tutte e tutti e non lasciare indietro nessuno. Chiunque insegni sa benissimo quanto sia importante un rinforzo positivo in certi momenti: il che non equivale ad appoggiare la deriva di una scuola al ribasso, bensì a riportare al centro della vita sociale la comunità scolastica (e dunque po-
Foto:Pavesi / Contrasto
“I CAPACI E MERITEVOLI, ANCHE SE PRIVI DI MEZZI, HANNO DIRITTO DI RAGGIUNGERE I GRADI PIÙ ALTI DEGLI STUDI”, RECITA LA COSTITUZIONE. BISOGNA GARANTIRE LE POSSIBILITÀ
tutto sommato, piace a molti, probabilmente alla maggioranza. Ma, nello stesso tempo, esiste una minoranza – tutt’altro che esigua – che vorrebbe studi più seri, più profondi, più impegnativi. E desidererebbe che la scuola tornasse a svolgere innanzitutto la sua funzione classica, di trasmissione del patrimonio culturale». In Italia, le ragazze e i ragazzi stranieri che siedono tra i banchi delle scuole sono di origini diverse: le comunità più rappresentate sono, in ordine decrescente, afrodiscendenti oppure giovani provenienti da Paesi del continente africano e di madrelingua diversa da quella italiana; asiatici – anche in questo caso non tutti italofoni - e sudamericani. Gran parte di loro frequenta istituti tecnici o professionali, situati generalmente nelle periferie delle grandi città o in provincia. Gli insegnanti che entrano in queste classi, ogni giorno, sanno perfettamente che cosa significhi fare lezione a
litica) e le persone che la compongono. È complicato? Sì. È faticoso? Molto. È un dovere civico? Certo. Piaccia o no. Se le condizioni di partenza non sono le stesse per tutti, dobbiamo fare in modo che lo siano almeno le possibilità. Le storie emozionanti secondo cui chi parte sfavorito stravolge i pronostici e raggiunge posti di prestigio e potere non devono essere appannaggio esclusivo della politica.
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Re Giorgia
MELONI, IL FASCISMO E L’OMBRA DI FINI U DI SUSANNA TURCO
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L’ASCESA
La neopresidente del Consiglio arriva a Palazzo Chigi dopo trent’anni di marcia e di scontri politici con i vecchi capi dell’MsiAn che l’hanno prima scelta e poi subita. Dalle catacombe di Colle Oppio al vertice dello Stato
provocazione: anzi è la spiegazione che, in maniera abbastanza sorprendente, viene offerta più spesso quando si affronta la questione parlando con gli stessi mondi ex aennini, tra la gente di Fratelli d’Italia. Il rischio di essere anche solo vagamente accostabile all’ultimo segretario di An a Meloni stronca i passi. Eppure c’è qualcosa di incongruo. Gianfranco Fini si è ritirato dalla vita politica da anni. Dopo il 2013 non si è più candidato, non ha un partito né un movimento. Sparito dai radar dal 2017, a processo dal 2018 per riciclaggio nella vicenda della casa di Monte-
MEZZA POLITICA, MEZZA INFLUENCER. UN GIANO BIFRONTE. ARRIVA IN LIBRERIA LA PRIMA BIOGRAFIA (NON AUTORIZZATA) DELLA PREMIER. ANTICIPIAMO QUI IL CAPITOLO SUI CONTI CON LA STORIA carlo comprata a prezzo di saldo dal cognato Giancarlo Tulliani, non fa l’opinionista, né per iscritto né in tv. E come mai questo Fini, politicamente ridotto a nulla e quasi del tutto silente da anni, fa così tanta paura a Meloni che per il resto pare non temere quasi niente – a parte forse gli scarafaggi? Risposta: se Gianfranco Fini ha archiviato il fascismo come «male assoluto», lei, che pure nel 2003 non si dissociò da quella presa di posizione, ha finito per archiviare come male assoluto proprio lui: il capo che l’ha apprezzata come giovane promessa, che l’ha scelta
Foto: Valli e Santini / Cesura
no strano testacoda avviene dentro Fratelli d’Italia, forse proprio dentro la testa della sua leader. È una specie di triangolazione senza uscita tra Giorgia Meloni, Gianfranco Fini e la complessa questione che va sotto il titolo: i conti col fascismo. Moltissime volte, in questi anni, alla leader di FdI è stato rimproverato di non recidere abbastanza di netto quel legame, di non prendere sufficienti distanze da quella catena che si stende tra regime mussoliniano e personaggi come il “barone nero” Roberto Jonghi Lavarini, tra il Ventennio e il saluto romano di Augusta Montaruli a Predappio, passando per la Repubblica di Salò, Giorgio Almirante, l’Msi, An, il nostalgismo, eccetera. Equilibrismi, dribbling, bilancini, un continuo e impercettibile scartare di lato. (...) Perché Meloni, che pure è passata in pochi anni dall’1,90 al 26 per cento, non riesce a fare il passo decisivo per archiviare la storia da quale viene? Perché se Giuliano Castellino assalta la sede del principale sindacato italiano lei fatica a prendere le distanze, pronuncia equilibrismi come «non so quale sia la matrice», e in privato aggiunge che le scoccia fare così con una persona che conosce sin da ragazzina? La risposta, andando al sodo, può apparire bizzarra: perché ha paura di fare la fine di Gianfranco Fini. PerSusanna Turco ché ha paura di somigliargli. Giornalista Non è una deduzione, o una
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[ TROVERETE GIVI AL PADIGLIONE 13 STAND G50 ]
Re Giorgia come vicepresidente della Camera, come ministra della Gioventù. Il segretario che prima ha chiuso l’Msi poi An, che l’ha trascinata nel Pdl, che poi si è ribellato a Berlusconi ed è voluto venire via, per fare qualcosa che non era tornare ad An. Colui che sostanzialmente ha messo le basi perché lei, la destra, potesse muoversi libera dall’ombra del suo passato così ingombrante. Eppure Meloni non può in alcun modo permettersi di essergli paragonata, pena la morte politica. La fine di tutto. Ed è paradossale che sia proprio questo elemento a indebolirla, laddove in effetti Meloni è riuscita, negli anni, in autentici miracoli, come quello di pacificare anime dell’ex An-Msi che non trovavano pace si può dire da sempre, o come la ricucitura di un orizzonte che pareva destinato a non risorgere più. Perché mai? C’è uno snodo nei rapporti tra Fini e Meloni che risulta in qualche modo illuminante. Arriva dopo gli anni dello strappo e della fine del Pdl, quando lei prima è critica, poi non segue il suo ex segretario, nel 2010, fuori dal Pdl. Arriva dopo una stagione di armistizio bilaterale, nel quale lei si rifiuta di dargli del traditore e lui tace le sue critiche sulla costruzione del nuovo partito. Quando però Meloni, con Crosetto e La Russa, decide di celebrare il primo congresso di FdI proprio a Fiuggi, nel luogo simbolo della storia della destra italiana, dove nel
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MENTORI Il leader di An puntò per due volte sulla giovane segretaria di Azione Giovani, per spezzare gli equilibrismi tra le correnti del partito e lanciare un volto nuovo. La volle vicepresidente della Camera nel 2006 e ministra della Gioventù nel 2008. Lei non lo seguì nel divorzio da Silvio Berlusconi e dal Pdl
«SIAMO CRESCIUTI TROPPO IN FRETTA, COME SEMPRE ACCADE AI RAGAZZI ABBANDONATI DAL LORO PADRE». NEL 2014 LA LEADER DI FDI INTRECCIA LA VICENDA DI FIGLIA E QUELLA DI POLITICA 1995 Gianfranco Fini aveva officiato la svolta dell’Msi in An, l’uscita dalla “casa del padre”, accade qualcosa di irreversibile. In quell’occasione Fini rivolge, con una nota, a Meloni e Fratelli d’Italia parole terribili. «Fa riflettere il modo con cui i dirigenti di Fratelli d’Italia tentano di far risorgere Alleanza Nazionale. Dopo aver furbescamente inserito il simbolo, seppur in formato bonsai, nel loro logo elettorale, celebrano questo fine settimana il congresso nazionale a Fiuggi […]. Mi sembrano bambini cresciuti, e viziati che vogliono imitare i fratelli maggiori senza
capire che le condizioni in cui si trovano sono completamente diverse. Rischiano di far piangere, di rabbia e non certo di commozione, chi venti anni fa era consapevole di quel che stava accadendo a destra», scrive Fini. Ripercorrendo i passaggi principali della svolta di Fiuggi, quando «la destra italiana trasformò radicalmente se stessa perché uscì dalla casa del padre con la certezza di non farvi mai più ritorno», «non cambiò nome, mutò identità e prospettive». E ammonisce: «Non tutto è andato come avevamo sognato», «mi sono preso la mia parte di responsabilità» «anche per questo dico ai Fratelli d’Italia di smetterla di scimmiottare la storia. Per sopravvivere e superare il 4 per cento alle Europee serve loro qualcosa di assai più convincente che una scampagnata semiclandestina a Fiuggi. La storia di An, di cui anch’essi fanno parte, non merita di ripetersi in farsa. I simboli da soli non bastano. Alla destra servono idee nuove e prospettive credibili […]. Senza una risposta era meglio convocare l’assise altrove. Perché il confronto con il passato sarà inevitabilmente impietoso». Toni da maledizione biblica, in un momento nel quale in effetti Fratelli d’Italia si era presa il simbolo di Alleanza Nazionale ma non aveva ancora rinsaldato un partito che fluttuava tra i tanti partiti possibili spuntati e poi rapidamente scomparsi a destra. Una maledizione finiana alla quale comunque Meloni risponde con altrettanta veemenza. Anzi la raddoppia. La leader di Fratelli d’Italia aspetta infatti di arrivare proprio sul palco di Fiuggi. E alla fine del discorso di apertura del primo congresso affronta la questione Fini. La prende da lontano. Da Giorgio Almirante, il men30 ottobre 2022
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tore di Fini che Meloni solleva in alto, per scaraventarlo addosso proprio a Fini, che è il suo di mentore. Dice infatti: «Abbiamo raccolto l’insegnamento di Giorgio Almirante quando diceva: “In altri tempi ci risollevammo per noi stessi, da qualche tempo ci siamo risollevati per voi, giovani, per trasmettervi la staffetta prima che ci cada di mano, come ad altri cadde nel momento in cui si accingeva a trasmetterla”. Raccoglieremo quel testimone, con uno sguardo al futuro». Qui Meloni fa una lunga pausa. E precisa: «Voglio anche dire che di recente, a qualcuno, quel testimone è caduto». Altra pausa. «Non ho mai risposto ai diversi attacchi, alle ironie, che ci e mi sono state rivolte da Gianfranco Fini. Perché non è nel mio stile rispondere e perché penso che i panni sporchi debbano essere lavati in casa. Quello che ho letto ieri, però, merita almeno una risposta. Io non comprendo le ragioni di tanto astio per chi prova a ricostruire qualcosa che evidentemente a Gianfranco Fini non interessava più. Non accetto l’accusa di essere dei bambini viziati. Noi non siamo bambini viziati. Siamo uomini e donne che sono dovuti crescere troppo in fretta e cavarsela da soli, come sempre accade a quei ragazzi che vengono abbandonati dal loro padre, che a un certo punto scappa di casa e se ne va in giro per il mondo a sperperare un patrimonio. Questo noi siamo». Sono parole terribili già lì per lì. E segnano, per anni, la fine di qualsiasi armistizio con Fini, il quale dirà in più occasioni che Meloni è una «fotocopia della Lega», o una «mascotte», una «ragazzina che si è montata la testa», «ridicola». Ma nel 2014, al congresso di Fiuggi, Meloni non aveva messo a fuoco e dettagliato, nel racconto pubblico che ha poi 28
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Re Giorgia
ESORDI Cominciò a far politica nel 1992, dopo la strage di via d’Amelio. Questa è una delle poche foto in cui era ancora una semplice militante diciottenne. Sarebbe diventata consigliera provinciale nel 1998, a ventun anni
IL LIBRO La controstoria della prima donna a governare da Palazzo Chigi uscirà il 1° novembre, per Piemme (pagg. 176, euro 18,50)
fatto di sé, il ruolo di suo padre, Franco Meloni. Un padre che, come avrebbe scritto nel 2021 in “Io sono Giorgia”, se ne era «andato di casa», aveva «girato il mondo in barca a vela», così sperperando – stando al racconto di Meloni – il patrimonio affettivo-familiare delle sue figlie, ma anche – stando alle ricostruzioni dei vari media spagnoli spuntate dopo la vittoria di FdI alle elezioni 2022 – anche un patrimonio in senso letterale e non metaforico. Denari insomma. Non può sfuggire, pur con tutte le cautele del caso, il parallelo che proprio Meloni stabilì durante il primo congresso di Fratelli d’Italia, tra la sua vicenda di figlia e quella di politica: «Siamo uomini e donne che sono dovuti crescere troppo in fretta e cavarsela da soli, come sempre accade a quei ragazzi che vengono abbandonati dal loro padre». Il parallelo tra Gianfranco Fini e Franco Meloni. Sperperatori di patrimoni, in senso letterale e metaforico. Mentre «noi stiamo tentando di ricostruire quello che lui ha deliberatamente distrutto», come ebbe a dire Meloni, di nuovo, nel 2015. Con queste premesse, è forse un pochino più evidente quanto possa essere complesso per Meloni fare i conti con l’eredità rappresentata da Gianfranco Fini, come sia difficile maneggiare la libertà di manovra di cui ha potuto usufruire grazie a lui, portare ancora un pezzo più avanti le svolte che sempre da quel percorso originano. Senza sentirsi dare della traditrice. E senza sentircisi, lei stessa. Gianfranco Fini, del resto, nella vulgata è diventato il traditore per eccellenza. Un capro espiatorio, persino oltre le sue oggettive responsabilità. (...) Resistenze spiegate come un’eco da tanti suoi interlocutori abituali: «Non può mica fare questi passaggi perché glieli chiedono», «li farà quando non sembrerà che stia sulla difensiva», eccetera. Non lo fa perché sta più comoda. Perché per quanti pochi siano i voti dei nostalgici e dei neofascisti, comunque ci sono. Perché una volta che dovesse affrontare di petto la questione, dovrebbe affrontare anche Fini. È un passaggio incomprimibile. Se Meloni non dovesse farlo, come ha scritto Marco Follini a fine agosto sulla «Stampa», in uno dei pochi articoli che hanno chiamato in causa l’ex leader di An, «vorrà dire che esiste un problema politico più complicato delle soluzioni che gli erano state date».
Foto: A. Scattolon / FotoA3 (2), A. Casasoli / FotoA3
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Michela Murgia
Questo potere che pro
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n nessuna democrazia piena un capo di governo porta in tribunale le voci intellettuali per criminalizzarne la critica. Succede solo nelle cosiddette democrature, i regimi nei quali le spinte autoritarie sono prevalenti anche su apparenti regole democratiche. Non c’è bisogno di arrivare a Polonia e Ungheria: per studiosi del calibro di Giovanni Sartori, per parlare di democratura era già sufficiente introdurre artifizi come le liste bloccate o il premio di maggioranza, che creavano - con la scusa della governabilità - le condizioni di quella che lui definiva “dittatura della maggioranza”. L’esito di quel processo, oltre allo strapotere dell’esecutivo e allo svuotamento dei meccanismi di controllo che nei sistemi sani sono alla base della dialettica politica, è soprattutto pedagogico: porta la cittadinanza a dimenticare che il dissenso è parte integrante del sistema democratico e la spinge a guardare la critica come una minaccia alla stabilità del Paese. Chi contesta - che sia uno scrittore in un editoriale, una studentessa in un’occupazione scolastica o dei lavoratori in sciopero - è dipinto come un violento e un odiatore, ma anche un nemico della democrazia, giacché si sostiene che il suo dissenso, mirando a Migranti tratti in salvo mettere in difficoltà chi governa, vada consu un barcone tro l’esito delle urne. Nella retorica della democratura, il dissenso verso il potente diventa dissenso verso chi lo ha votato e le persone che esprimono la critica passano dallo status di guardianə del potere a quello di nemici del popolo. In Italia quel passaggio è stato compiuto da decenni, durante i quali la criminalizzazione di chi critica è diventata normale. Cominciò Berlusconi, presentando la sua politica non come proposta di governo, ma come progetto d’amore che avrebbe trionfato sempre «sull’invidia e sull’odio», cioè i nomi che lui dava al dissenso. Dal cosiddetto editto bulgaro, che creò le condizioni per la cacciata dei giornalisti ostili dalla tv pubblica, fino alla sanguinosa repressione del dissenso di Genova nel 2001, per vent’anni si gettarono le basi per additare ogni antagonista come antipaticə odiatorə seriale, veicolo di negatività e di narrazioni distruttive per il paese. La prassi criminalizzante dal berlusconismo è passata presto ai suoi sottoprodotti politici. L’ultimo presidente del Consiglio a mutuarla è stato Matteo Renzi, con la campagna a suon di minacce legali contro giornalisti, scrittori e persino utenti di Twitter ricordata con il bellicoso hashtag di #colposucolpo.
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Intendiamoci: non è che la classe politica italiana ce l’abbia col dissenso più di altre. L’anomalia qui è che l’assenza di una reale opposizione alle politiche di destra costringe spesso chiunque abbia una visibilità mediatica derivata dal suo mestiere a fare la supplenza morale di una sinistra partitica che da anni non c’è o non rileva. Per questo l’opposizione oggi sembrano farla, anche loro malgrado, le persone dotate di visibilità mediatica, che siano scrittorə, fumettistə, cantanti, influencer, sportivə e persino stilistə. Le loro opinioni critiche, complice un giornalismo a caccia di click, vengono però raccontate come attacchi, affronti, incursio-
L’antitaliana
Illustrazione: Antonio Canu Foto: Chris McGrath / Getty Images
cessa chi lo critica
ni violente e anomale degne di un’asfaltata, generando l’equivoco che ruolo politico e visibilità mediatica siano poteri equivalenti. Ma prendere decisioni e criticarle non sono due atti paritari. La critica də cittadinə, anche di quelli famosə, si regge solo sulla libertà di parola e i suoi limiti, mentre le decisioni politiche sono agite col supporto di un sistema che offre gli strumenti economici e di garanzia dello Stato, che sono molto più ampi. Per portare un alto politico a processo occorre un’autorizzazione parlamentare che escluda il sospetto di persecuzione, ma non c’è alcuna legge che impedisca agli stessi politici di ricorrere alla magistratura, con co-
spicue risorse pubbliche, per perseguire chi critica le loro azioni. Oggi, altro governo e altra presidente del Consiglio, tocca a Roberto Saviano rispondere in tribunale per aver agito quella critica in modo forte e in un contesto preciso: davanti al video di una madre che perde in un naufragio il suo bambino di sei mesi, lo scrittore ha detto «Vi sarà tornato alla mente tutto il ciarpame detto sulle Ong: “taxi del mare” “crociere”. Ma viene solo da dire “bastardi, come avete potuto?” A Meloni, a Salvini… “Come è stato possibile?”». Per questa frase Giorgia Meloni lo ha querelato, eppure quello di Saviano è un riferimento per niente casuale. L’operato di Salvini sull’immigrazione quando era ministro dell’Interno è stato talmente sospettabile di abuso da far sì che ancora oggi debba risponderne nei tribunali e i suoi atti rumorosi hanno fatto passare in sordina le posizioni di Meloni sugli stessi temi, che però non erano meno violente. Trascurando la famosa frase «affondate i barconi», non meno grave è infatti quello che la neo presidente del Consiglio disse nel febbraio del 2015, incalzata a Ballarò dall’allora sottosegretario alla presidenza dei ministri Sandro Gozi, che a proposito dei migranti le chiedeva incredulo: «Ma come li rimandi indietro? Li fai affogare tutti? Li ammazzi tutti?». «Sì, esattamente!» - rispondeva lei con furia - «Difendi il popolo che rappresenti». Chi mi chiede se mi piacerebbe sentirmi definire bastarda finge di non sapere che io non ricopro cariche istituzionali. Le mie opinioni non trattengono le navi umanitarie nei porti mentre persone indifese affogano senza soccorso. Le mie opinioni non dettano la linea politica di un partito che chiede l’affondamento dei mezzi di salvataggio, né hanno il potere di finanziare mercenari che riportano i disperati nei lager libici di cui ormai chiunque in Europa conosce l’orrore. Dare della bastarda a un’intellettuale che fa l’analisi di questi fatti è un insulto esattamente come lo sarebbe verso qualunque cittadinə. Dare del bastardo a chi ha usato la sua carica di Stato per contribuire a rendere il Mediterraneo la più grande fossa comune del mondo rientra invece nella definizione di critica politica. È una parola dura? Certo che lo è. Ma se pensiamo che sia più dura la vista di un bambino di sei mesi che muore in mare per le scelte politiche di tutta Europa, forse dovremmo fare in modo che il 15 di novembre Roberto Saviano in quel tribunale non ci vada da solo.
Lo scrittore Roberto Saviano va a giudizio per aver denunciato con parole dure le posizioni di Meloni su immigrazione e morti in mare. Criminalizzare il dissenso è tipico dei regimi autoritari e di quelle che oggi vengono chiamate democrature
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Michele Serra
Satira Preventiva
Salvini: Nei porti mine antisbarco
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a fortificazione dei porti è il primo provvedimento che il nuovo ministro delle Infrastrutture, Matteo Salvini, intende adottare in tempi brevi, con bocche da fuoco rivolte verso il mare, mine antisbarco e riattivazione delle torri di avvistamento dei saraceni. Ricaduta positiva per l’economia, un bando di assunzione per più di mille avvistatori: dovranno scrutare il mare gridando forte al profilarsi dei gommoni carichi di migranti.
Illustrazione: Ivan Canu
Falsi allarmi Nelle prove simulate si sono registrati numerosi falsi allarmi (gommone con famiglia di Biella in vacanza; gommone con pescatore di tonni che cerca di recuperare la lenza; materassino alla deriva con Mario Balotelli addormentato). Previsti corsi di specializzazione, e nella dotazione degli avvistatori, oltre allo sgabello e alle parole crociate, anche un buon binocolo. Il ministro, sullo slancio, intendeva proporre anche un nuovo inno per la Marina Militare, “Cicciobombo cannoniere”, considerato però troppo autobiografico dagli stessi alleati di governo. La strategia Nella visione di Salvini il suo ministero è il più importante di tutti. Avendo competenza su porti e aeroporti, strade e canali navigabili, tunnel e ponti, trafori e autogrill, piazzole e rondò, parcheggi e strisce pedonali il successore di Toninelli tiene saldamente in pugno l’economia nazionale, la difesa militare e l’ordine pubblico. «Basta che io decida di mettere un cartello di divieto di transito, e si ferma il Paese», avrebbe detto Salvini alla sua fidanzata per vantarsi del suo nuovo incarico. Di qui in poi i ministri dell’Economia, della Difesa e dell’Interno dovranno concordare con il ministro delle Infrastrutture le loro attività, facendogli visita ogni martedì e superando qualche problema logistico: nessuno sa dove si trovi il ministero delle Infrastrutture, che ha dovuto cambiare sede più volte perché pericolante.
Il ministro prevede anche bocche da fuoco e torri di avvistamento. Sulle spiagge gravi dissapori tra il leader leghista e la Santanchè. Uno vuole imporre il modello Papeete, l’altra propugna il modello Twiga
Le spiagge Sono previsti dissapori tra Salvini e la ministra del Turismo Santanchè (che ha fatto presente di non gradire la definizione di ministra: preferisce ministressa). Nella visione della ministressa le spiagge italiane devono diventare tutte come il Twiga, secondo Salvini tutte come il Papeete. I due modelli sono molto diversi: nel primo caso si danza per ore seminudi con un drink in mano dicendo scemenze, nel secondo caso si danza per ore seminudi con un drink in mano dicendo scemenze, ma con uno sconto del quindici per cento. Le spiagge libere, piene di fricchettoni che si fanno le canne o di ambientalisti che soccorrono tartarughe, verranno soppresse perché improduttive. Le tartarughe potranno continuare a deporre le uova sui litorali a patto che danzino per ore seminude con un drink in mano dicendo scemenze. E paghino il biglietto, beninteso. La Lega Punta nel vivo dall’istituzione del ministero del Mare e del Sud, la Lega ha chiesto l’istituzione di un ministero della Montagna e del Nord, di forte valore simbolico, con sede in una delle valli prealpine che fecero da culla al Carroccio quando era ancora un partito autonomista. La prima riunione tra i sindaci della zona è stata rimandata per frana, la seconda per un blocco stradale di badanti non in regola, la terza per una rissa tra ultras del Brescia e dell’Atalanta.
Roma capitale Mentre continuano, senza successo, le ricerche del sindaco Gualtieri, disperso mentre guidava una spedizione di giardinieri nella giungla di Tor Mannara, il governo intende mettere mano al problema della spazzatura romana con un grande Sabato di Raccolta Popolare. La popolazione romana, in un sabato dal clima al tempo stesso festoso e patriottico, sarà invitata a raccogliere la spazzatura che giace abbandonata mettendola in appositi sacchi, forniti dal Campidoglio. In una fase successiva si deciderà dove mettere tutti quei sacchi.
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Il commento
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di MASSIMILIANO PANARARI
Gli antisistema al potere nel laboratorio politico Italia
D
opo l’insediamento del governo Meloni è giunto definitivamente il momento di rivedere la dicotomia tra sistema e antisistema, quella frattura su cui i partiti populisti hanno costruito la conquista di palazzo Chigi. All’indomani di una sequenza inarrestabile di successi (con l’unica parentesi della sospensione della campagna elettorale permanente determinata dalla pandemia), l’antiestablishment si fa pertanto establishment. In Italia come in altri luoghi, ma con tutta una speciale valenza laboratoriale e “avanguardistica” proprio nel nostro Paese, fucina a getto continuo e di lunga durata dell’antipolitica e del populismo antiliberale (come aveva intuito Steve Bannon indicandolo compiaciuto come un avamposto della “rivoluzione” e della “Internazionale sovranista”, sin dalla fase gialloverde del Conte 1). E non soltanto perché i gruppi dirigenti delle formazioni neopopuliste diventano élite di governo in prima persona (e, come da antropologia del potere e suo inevitabile funzionamento, si alleeranno con vari esponenti dell’alta burocrazia), ma anche per alcune ragioni di fondo (e più profonde).
L’Italia, nazione tutto sommato di recente costituzione, in larghi settori della cultura e della popolazione ha sempre nutrito un rapporto problematico con quella cultura politica liberale (e post-illuministica) che identifica una delle bandiere della modernità europea. E che ha rappresentato la concezione mainstream e “di sistema” di molti ordinamenti politici e sociali dell’Occidente, mentre qui risultava appunto maggiormente fragile e malferma, tanto più alla luce del suo repentino passaggio, per tanti versi senza soluzione di continuità, dalla premodernità al postmoderno. Oggi, in questo nostro Paese, si può dire che il mainstream coincide con il ventaglio delle culture politiche neopopuliste che, dopo una serie di governi tecnici, fanno perno sulla rivendicazione dell’investitura popolare (la quale, però, fondamento del modello democratico, non è certo una loro esclusiva). Dalla critica, sviluppata tra Prima e Seconda Repubblica, nei confronti della partitocrazia sino a un ricorso disinvolto agli strumenti della politica pop e alle scorciatoie cognitive della disintermediazione, la destra ha saputo cavalcare i temi dell’antipolitica. Al pari dei neopopulisti che, durante la loro
In un Paese dove la tradizione liberale ha sempre avuto vita problematica, oggi i populisti egemonizzano tanto la maggioranza quanto l’opposizione
ascesa, si dichiaravano «oltre la destra e la sinistra». La somma delle percentuali riportate alle ultime elezioni da quello che si potrebbe chiamare il «campo larg(hissim)o populista», a cui devono essere ascritte formazioni tra loro anche in competizione (o direttamente in conflitto) - vale a dire, FdI, Lega, Movimento 5 Stelle e i partitini no-vax - segnala come le culture politiche neopopuliste e sovraniste si rivelino attualmente maggioritarie. E come da antisistema si siano difatti convertite in sistema. Tanto che quelle appartenenti alla coalizione risultata vittoriosa stanno dispiegando una vera e propria operazione di egemonia culturale, che si sta manifestando in vari modi (dall’inserimento nel discorso pubblico di vecchie-nuove parole d’ordine alle deleghe ministeriali con nomi che sono “tutto un programma”). Mentre, sull’altro fronte, Giuseppe Conte sta cercando di egemonizzare con il suo neopopulismo di ritorno che ha battuto il progetto “liberalmoderato” di Luigi Di Maio - una sinistra sempre più in confusione e percepita come fattore di conservazione dell’esistente anziché di sua trasformazione. D’altronde, le forze populiste hanno una spiccata natura di partiti pigliatutto che puntano a occupare il sistema. Così è accaduto per il tentativo (fallito) di una «Balena gialla» pentastellata, e così sarà per il progetto di partito neoconservatore e di destracentro a trazione meloniana.
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Economia e affari
RIPRESA IN APPALTO N
on potrà cavarsela con la guerra alle Ong che aiutano i migranti in mare e nemmeno con ponti che non si faranno mai. Matteo Salvini, nuovo ministro delle Infrastrutture e Mobilità Sostenibile, è il primo snodo di quella messa a terra che rilancerà il Paese - pardon, la Nazione - grazie ai fondi dell’Europa oppure l’affosserà sotto il peso dell’occasione persa. Del resto, il ministero di Porta Pia è una rosa colossale con spine in proporzione. Il grande sconfitto del 25 settembre deve guardare il bicchiere mezzo pieno anzi, traboccante dei miliardi del Pnrr, che pure è finito sotto la vigilanza del meloniano Raffaele Fitto, ministro degli Affari Europei. Il prossimo appuntamento per incassare la nuova rata di fondi Ue è il 31 marzo 2023. Per quella data Salvini dovrà avere legiferato sull’ennesimo codice degli appalti. La bozza è stata consegnata al governo uscente da Franco Frattini, presidente del Consiglio di Stato, e da Luigi Carbone, ex capo di gabinet36
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to di Giovanni Tria al Mef e responsabile della sezione atti normativi del Cds, in perfetto orario il 20 ottobre. Alcuni elementi del testo sono destinati a suscitare polemiche di oppositori, magistrati e tecnici assortiti. Per correre veloce nonostante guerra e penuria di materie prime, il nuovo codice porterà da tre a due i livelli di progettazione, escludendo la definitiva e conservando solo preliminare ed esecutiva. Tornerà la revisione prezzi in corso d’opera e ci sarà il via libera sui subappalti a cascata, da sempre ingresso preferenziale per le imprese a guida mafiosa. Le semplificazioni richieste dall’Europa si scontrano con complessità italiche vecchie e nuove. Il mondo degli appalti statali è stato ingolfato di commissari straordinari che hanno accentrato poteri spesso in conflitto con quelli del ministero o del management della maggioGianfrancesco Turano re stazione appaltante d’ItaGiornalista lia, il gruppo Ferrovie dello
Foto: N. Marfisi / Agf
GRAN PARTE DEI FONDI DEL PNRR SONO PER LE INFRASTRUTTURE. IL NEOMINISTRO SALVINI DOVRÀ DIMOSTRARSI CAPACE DI FRONTEGGIARE POTENTATI PRIVATI E PUBBLICI DI GIANFRANCESCO TURANO
Prima Pagina
Una veduta notturna del nuovo viadotto sul Polcevera Genova
Stato. A sua volta Villa Patrizi, sede delle Fs a pochi passi dal Mims, è un ministero nel ministero che ha elaborato un piano industriale decennale 2022-2031 da 190 miliardi di euro di investimenti di cui 50 saranno gestiti dalla controllata Anas, affidata all’ex Rfi Aldo Isi. L’ad del gruppo Luigi Ferraris è in carica da un anno e mezzo e non teme di essere rimosso. Per Salvini, ex studente fuori corso in Scienze Politiche e Lettere, non sarà semplice affrontare il Golem di Porta Pia, paragonabile all’amato e perduto Viminale in quanto a metratura ma forse ancora più impenetrabile negli strati geologici di una tecnostruttura abituata a gestirsi da sé, qualunque politico vincente pretendesse di fare altrimenti. E l’ossequiente funzionario, se scontentato, fa presto a diventare una serpe in seno. In un governo che ha sdoganato i cognati è facile mettere il piede in fallo prima ancora di avere iniziato. La prima grana porta il nome di Tommaso Verdini. Il figlio di Denis, e fratello della compagna del vicepremier leghista, è sotto indagine a Roma con l’ipotesi di corruzione per essersi interessato molto premurosamente della Orte-Mestre di Vito Bonsignore circa un anno fa, quando il numero uno dell’Anas (gruppo Fs) era Massimo Simonini, oggi indagato con Verdini junior e Bonsignore ma sempre in carica come commissario straordinario della statale 106 Jonica (oltre 4 miliardi di euro di interventi), della E78 Grosseto-Fano (oltre 2 miliardi di euro di lavori). A fare da whistleblower è stato un dirigente della stessa Anas. Mentre sono in corso le nomine della nuova squadra, il Capitano ha annunciato che si atterrà al suo metodo. Nella speranza di recuperare crediti batterà i cantieri italiani per sorvegliarne lo stato di persona, magari dopo che gli avranno spiegato la differenza fra un tracciato brownfield e uno greenfield o di che cosa si parla quando si parla di Erms, di Bim e di stralli. Pragmatico per antica abitudine, ha già lanciato i suoi ballons d’essai. No, non la Orte-Mestre, colosso da 9,7 miliardi di euro caduto nell’oblio nonostante sia stato approvato dal Cipe il 10 novembre di otto anni fa, quando a Porta Pia c’era Maurizio Lupi, a palazzo Chigi Matteo Renzi e comandava lo Sblocca Italia, più un augu30 ottobre 2022
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rio che un decreto. Il colpo a effetto per eccellenza è il ponte sullo Stretto. Salvini lo ha inserito fra i suoi obiettivi con il pieno sostegno dei presidenti forzisti di Sicilia e Calabria, Renato Schifani e Roberto Occhiuto. E se il pericolo sismico che incombe sull’area è molto concreto, con i subappalti a cascata si può parlare di certezza assoluta. Non saranno l’Anac e le procure sotto organico a potere fermare le infiltrazioni del crimine organizzato. Ma nei primi giorni di incarico anche un cavallo di battaglia logorato da molte legislature può servire da cortina fumogena. Salvini sa che il suo progetto politico di sfondare al Sud è fallito e che, in ogni caso, è difficile superare le difficoltà di un sistema refrattario ai lavori pubblici. Lo dimostra la vicenda recente dell’autostrada Ragusa-Catania, un altro sogno dell’ex dc brontese con sede a Bruxelles Bonsignore. Dopo che una prima gara è stata rinviata per mancanza di offerte, solo ai primi di ottobre sono arrivati segnali di interesse per un appalto da 1,1 miliardi di euro che è stato revisionato nei prezzi e deve comunque essere chiuso da qui a giugno o si perdono i fondi dell’Europa. Ma fondamentalmente il Mezzogiorno è quasi tutto appaltato al gruppo Ferrovie che da poco ha affidato la gara da 616 milioni di euro in quota Pnrr per la ferrovia Palermo-Catania a un raggruppamento WeBuild (Salini) e Pizzarotti. Per recuperare la base perduta della Padania, passata in massa a Fdi al voto delle politiche, il leader leghista dovrà avere un occhio di riguardo per quanto si muove da Roma in su. Genova non è solo il modello Genova, la procedura accelerata che ha consentito di ricostruire il viadotto Polcevera in poco meno di due anni. La città natale del fedelissimo salviniano Edoardo Rixi, ex viceministro delle Infrastrutture con Danilo Toninelli, è interessata da 11 miliardi di euro di opere pubbliche fra gronda, tunnel portuale e la nuova diga offshore appena assegnata a WeBuild e Fincosit contro il raggruppamento Gavio-Caltagirone. Altri 6 miliardi sono impegnati per il terzo valico dell’alta velocità Milano-Genova che avanza dopo l’assoluzione, a fine settembre, degli imputati eccellenti Pietro Salini di WeBuild e Andrea Monorchio, ex ragioniere generale dello Stato. Nord significa Olimpiadi Milano-Cortina 38
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MINISTRO Il ministro delle Infrastrutture e della Mobilità Sostenibile Matteo Salvini
2026, dove le nuove infrastrutture sono a zero a partire dalla statale 36 dello Stelvio, la più pericolosa d’Italia con 9,8 incidenti per chilometro contro una media nazionale dello 0,6/km. I lavori per i giochi invernali si sono persi in un labirinto. Sul fronte degli stakeholder, il comune di Milano guidato da Beppe Sala non fa parte della coalizione vincente del 25 settembre. Il presidente della Lombardia, Attilio Fontana, è leghista pre-salviniano ed è impegnato a respingere gli assalti della sua vice Letizia Brichetto Moratti in vista delle regionali del prossimo marzo. Moratti è stata tentata con il posto di ad della Fondazione Milano Cortina, che doveva toccare al neoministro dello sport Andrea Abodi. Il totale di questi intrighi è che dei 120 milioni di euro per rinnovare i 150 chilometri da Sesto San Giovanni al confine valtellinese con la Svizzera non è stato “messo a terra” un centesimo per la disperazione del presidente del Coni Giovanni Malagò. Anche la Pedemontana lombarda avanza molto adagio fra extracosti a mala pena arginati dai tagli di percorsi. Il traffico regionale su rotaia, affidato al leghista Andrea Gibelli, ad di Ferrovie Nord Milano, è una fonte di problemi assortiti. Non solo ritardi, cancellazioni e scioperi per le aggressioni al personale viaggiante ma, di recente, lo smacco dei nuovi treni Colleoni comprati per 192 milioni dalla svizzera Stadler e rimasti inchiodati sui binari della Brescia-Parma per problemi tecnici. Per fare correre i cantieri, Salvini dovrà anche confrontarsi con un mercato di imprese edili italiane che si è ridotto a pochi player ingorgati di commesse, con WeBuild a fare la parte del leone sopra un gruppo di imprese private: la Vianini lavori di Caltagirone, la parmense Pizzarotti, Itinera di Gavio, l’udinese Rizzani De Eccher, la genovese Fincosit. Quando i Benetton controllavano Autostrade per l’Italia (Aspi) era privata anche la vecchia Pavimental. Sei mesi fa è stata ribattezzata Amplia infrastructures dal nuovo proprietario pubblico Cdp che ha rilevato Aspi insieme ai fondi Macquarie e Blackstone. L’operazione è finita al vaglio della Procura di Roma, più che altro per questioni finanziarie. Ma lavori pubblici e processi sono il vero matrimonio all’italiana. Il Capitano naviga da troppo in politica per non saperlo. Dovrà accettare il rischio.
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Economia e affari
Il commento
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di BRUNO MANFELLOTTO
Dietro i nomi dei ministeri confusione e lotte di potere
Foto: Francesco Fotia / AGF
N
omina sunt consequentia rerum», i nomi sono conseguenti alle cose, diceva il vate. Per il suo governo, invece, Giorgia Meloni ha capovolto il concetto: prima ha scelto i nomi, ora deve pensare alle cose. E sì, perché tra slogan identitari, slalom comunicativi e astute sottrazioni di potere sono troppi i casi in cui non si capisce chi debba fare cosa. Insomma, più del lessico meloniano qui interessano le reali competenze dei ministri. Tra i quali abbondano i conflitti, e non solo di interesse. Segue qualche esempio, ovviamente con molte domande ancora senza risposta. Il fu ministero dello Sviluppo economico diventa in era meloniana delle Imprese e del made in Italy (Adolfo Urso). Insomma, sovranità aziendale. Ma attenzione, c’è anche la Sovranità alimentare aggregata all’Agricoltura (Francesco Lollobrigida). Cosa dovranno fare i due, spingere i nostri prodotti all’estero o impedire che arrivino quelli degli altri, come i pomodori coltivati in Polonia in 1400 ettari di serre riscaldate? Come, con i dazi? Oppure? Comunque, made in Italy è solo moda, griffe e tecnologia o anche formaggi, vino e parmigiano? E se ci sarà da correre a Bruxelles per difendere l’uno e gli altri sarà compito di Urso, di Lollobrigida o di Raffaele Fitto, ministro degli Affari europei e del Pnrr? A proposito, Matteo Salvini guida ora il ministero delle Infrastrutture che dispone di un consistente pacchetto di progetti finanziati con il Pnrr, 90 miliardi solo per le ferrovie: deciderà tutto lui da solo, o dovrà prima sottoporre ogni dossier al consenso di Fitto? Poi: la Famiglia conquista un ministro (prima era un sottosegretario), ma si
Giorgia Meloni con i suoi ministri al Quirinale per il giuramento
arricchisce della neonata Natalità. E cioè? Perché se si tratta di aiuti sociali ed economici, sono chiamati in ballo Lavoro ed Economia; se sotto sotto è solo una scusa per parlare di aborto allora le carte passano alla Salute. E poi, favorire solo la natalità, come dire?, made in Italy o anche degli stranieri? Chissà che ne pensa Salvini. Ancora. Il Sud, nuovo regno del siciliano Musumeci, “fascista gentiluomo”, si appropria anche del Mare, e quindi di porti e balneari? Questi toccherebbero a Daniela Santanchè (Turismo) che generosamente dice che potrebbe rinunciarvi, ma da esperta del ramo certo dispenserà consigli; sui porti punta Salvini per farne barriere anti-immigrati, e li ha già rivendicati. Solo che Musumeci è stato messo lì da Meloni apposta per complicargli le cose. Urgono decreti, istitutivi per ministeri che non esistevano, e interpretativi per dare a Cesare quel che è di Cesare e ai cittadini chiarezza. Ambiguità di competenze, e pure ambiguità politiche. All’Istruzione,
per esempio, si affianca il Merito: dei professori o degli studenti? E chi fissa i parametri per sanzionare il poco merito o favorire il meritevole, “un’apposita commissione” o personalmente il ministro e prof. Giuseppe Valditara? Speriamo abbia almeno letto don Milani... Problemi anche per Roberto Calderoli, ministro per gli Affari regionali che dovrà conciliare le spinte leghiste per una più ampia autonomia territoriale con il rilancio del Sud e il presidenzialismo auspicati dalla premier. Tra tante aggiunte, una sottrazione: il ministro per l’Innovazione e la Transizione digitale diventerà un sottosegretario. Speriamo che gli lascino i 40 miliardi previsti dal Pnrr. Il ministero dell’Economia, invece, resta ciò che era, con i suoi poteri e le sue competenze, però prima ancora di cominciare gli alleati già premono per flat tax, pensioni minime, pensioni anticipate, tregua fiscale, condoni... Ma questo è tutto un altro discorso. O lo stesso?
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Emergenze sociali
PENSIONATA MAI T
IL GOVERNO VUOLE RIFORMARE LE PENSIONI PER FACILITARE LE USCITE ANTICIPATE. MA NON PENSA A CHI È VERAMENTE PENALIZZATO DAL SISTEMA: LE DONNE E I GIOVANI GLORIA RIVA INFOGRAFICA DI PAULA SIMONETTI
ra quindici giorni il governo Meloni dovrà inviare a Bruxelles la legge di bilancio 2023 che, oltre ai complicati dossier su caro energia e inflazione, dovrà anche affrontare il nodo pensioni, come ha annunciato la neopresidente del Consiglio nel suo discorso alla Camera. «Intendiamo facilitare la flessibilità in uscita». Spetterà al ministro del Lavoro, Marina Calderone, già pre- DI sidente dei Consulenti del Lavoro, e a quello dell’Economia, il leghista Giancarlo Giorgetti, trovare una soluzione economicamente sostenibile senza scontentare il suo elettorato. Senza indugio, la Lega vorrebbe inserire in finanziaria Quota 41, cioè l’uscita con 41 anni di contributi al di là dell’età anagrafica. Una misura cara a Salvini che sta drenando 23,2 miliardi alle casse pubbliche e, se estesa al 2023, comporterebbe un ulteriore aggravio di cinque miliardi. Con il sistema delle Quote sono andati in pensione 380mila lavoratori, mentre la stima della Ragioneria di Stato era di 990mila uscite. Il ministro Calderone intende invece creare una “Quota flessibile” a partire dai 58 anni di età tenendo fermo il requisito minimo di contributi a 35 anni e ricalcolando l’intero assegno con il sistema contributivo. Il modello Calderone, sposato da Meloni, è simile all’attuale Opzione Donna, che è tutto fuorché una proposta allettante per le lavoratrici. Infatti chi la sceglie deve accettare il ricalcolo della quota retributiva (basata sulla retribuzione e non sull’ammontare dei contributi versati) con il metodo contributivo. Le pensioni retributive sono più vantaggiose di quelle contributive e per questo nel 2021 solo 15 mila donne hanno sfruttato Opzione Donna. Oggi il 48 per cento di chi vi ha 40
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aderito percepisce meno di mille euro lordi al mese e, più in generale, l’importo medio delle loro pensioni è di 1.073 euro per le dipendenti e 805 euro per le autonome, con una decurtazione del 32 per cento dell’assegno. Nei calcoli fatti mesi fa dalla Fondazione dei consulenti del lavoro, di cui l’attuale ministro del lavoro era presidente, la Quota Flessibile avrebbe consentito l’uscita anticipata di circa 470 mila persone, con l’obiettivo di incentivare il ricambio occupazionale, senza tuttavia gravare sui conti pubblici grazie al ricalcolo della pensione con il metodo contributivo. Tesi che si scontra con i dati della Corte dei Conti, secondo cui il tasso di sostituzione di Quota Cento è del 40 per cento, ovvero meno di un nuovo assunto ogni due pensionati. E si scontra anche con i bassissimi tassi occupazionali italiani certificati dall’Ocse: siamo ultimi in Europa al 60,3 per cento di popolazione occupata, scavalcati da Romania, Bulgaria e persino dalla Grecia che ha un livello di occupazione del 61,5 per cento, mentre la media europea è del 69,8. Il tema, dunque, non è mandare i sessantenni in pensione, Gloria Riva quanto incentivarli a restare al lavoro e fare Giornalista altrettanto per attivare donne e giovani.
Prima Pagina PATRIMONIO PENSIONISTICO Risultato di esercizio e patrimonio netto. Previsione 2020-2029. In milioni di euro
2029
2028
2027
-11.042 -92.043
-10.580 -80.996
-70.410
-61.754
-54.182
Risultato di esercizio Patrimonio netto
-8.657
2026
-7.566
2025
LEGENDA
-8.468
2024
-9.906 -45.711
2023
2022
-15.732 -23.285 -12.510 -35.800
2021
-21.719 -7.552
-25.594
2020
14.165
Dal 2021 che il patrimonio è negativo
LIVELLI DI OCCUPAZIONE % della popolazione occupata (15-64 anni), maggio-agosto 2022, paesi OECD Soltanto la Turchia ha un livello di occupazione più basso dell’Italia: 52,7%
77,4%
75,5%
69,8%
68%
64,9%
61,4%
60,3%
Germania
R. Unito
Area Euro
Francia
Spagna
Grecia
Italia
REDDITO PENSIONISTICO PER GENERE
OPZIONE DONNA
Evoluzione dell’importo medio lordo all’anno
Pensioni liquidate al 30 settembre 2021, per anno di decorrenza
IN EURO
Reddito
IN Nº DI PENSIONI EROGATE ALLE DONNE
25.000
IN TOTALE
144.544
28.864
20.000
10.000 5.000
18.773
17.263
15.000
17.532
15.484
15.003
11.275
Le donne hanno un reddito inferiore rispetto agli uomini
6.986
2001 2003 2005 2007 2009 2011 2013 2015 2017 2019 2021
2012
10.716 2.648
0 2013
2014
2015
2016
2017
2018
2019
2020
2021
FONTE: SEGRETERIA TECNICA CIV - COORDINAMENTO GENERALE STATISTICO ATTUARIALE
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Emergenze sociali A tal proposito, nel rapporto annuale presentato a luglio dall’Inps si spiega che «i pensionati uomini incassano seimila euro più delle donne per tre motivi: le donne hanno salari inferiori del 17 per cento; sono occupate part-time e hanno il 25 per cento in meno di anzianità contributiva», dice l’Inps, che in sostanza fa notare come le carriere delle donne siano più fragili, discontinue e meno remunerate di quelle dei maschi. «Tra i fattori a cui è riconducibile il “gender pay gap” c’è la diffusione dei contratti a tempo determinato (pagati il 30 per cento in meno di quelli a tempo indeterminato) e, per quanto riguarda le ore retribuite nell’anno, la differenza è di oltre il 15 per cento, con i maschi che lavorano 300 ore più delle femmine», scrive l’Inps. Salari bassi per l’ente previdenziale significano meno entrate correnti e quindi meno liquidità per pagare le pensioni attuali, mentre per le lavoratrici vuol dire future pensioni da fame. Sul fronte pensionistico è Ezio Cigna, responsabile delle politiche previdenziali della Cgil, che all’Espresso spiega come una delle problematiche maggiori per le donne è riuscire a raggiungere i requisiti minimi di pensionamento, soprattutto perché la Riforma Fornero prevede una soglia minima di ingresso per coloro che hanno cominciato a lavorare dopo il 1995. Chi ha compiuto 66 anni può andare in pensione, ma solo se ha almeno 20 anni di contributi e un assegno da 1.310 euro, cioè 2,8 volte l’importo dell’assegno sociale. Altrimenti, come in un gioco dell’oca, quella persona deve attendere i 67 anni e deve parallelamente avere un assegno pensionistico di almeno 1,5 volte l’assegno sociale, cioè 710 euro. Se anche in questo caso il lavoratore non raggiunge quella soglia, dovrà attendere i 71 anni. «Assurdamente, potremmo trovarci di fronte a due lavoratori, entrambi di 64 anni, lui un manager con 20 anni di contribuzione, ma una retribuzione di quattromila euro, lei una dipendente part time con 40 anni di contributi, ma uno stipendio da 650 euro. Con gli attuali requisiti il primo potrà accedere al pensionamento subito perché ha perfezionato una pensione di 1.320 euro. L’altra non potrà andare in pensione perché il suo importo maturato è di 360 euro. Non potrà accedere neppure a 67 anni e sarà costretta a lavorare altri quattro anni, per un vitalizio di soli 430 euro», e non si tratta di un caso limite. A sostenerlo è Michele Raitano, economista dell’Università La Sapienza di Roma, che mette in evidenza la seconda grana pensionistica, ovvero le carriere discontinue e i bassi salari degli italiani. La vera bomba sociale non sono gli attuali sessantenni che lottano per Quota 100, bensì i trentenni e quarantenni precari, freelance, professionisti, dipendenti con il contratto a termine che in comune hanno gli scarsi versamenti contributivi. Raitano spiega che la metà degli under 40 percepisce redditi inferiori ai mille euro al mese e, per via del sistema contributivo, a partire dal 2035 le loro pensioni saranno altrettanto misere. «L’analisi di chi è entra-
PER LE LAVORATRICI È ESTREMAMENTE DIFFICILE RAGGIUNGERE I REQUISITI MINIMI PER ANDARE A RIPOSO CON UN ASSEGNO DECENTE. OPZIONE DONNA NON CONVIENE: POCHISSIME HANNO ADERITO
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to nel mondo del lavoro nel 1996 e ha lavorato per 20 anni mostra un quadro di diffusa fragilità. Complessivamente, infatti, il 50 per cento ha trascorso almeno 10 anni come working poor e poco più della metà ha almeno 16 anni di contribuzione totale utile ai fini pensionistici. Inoltre, solo il 35 per cento di queste persone - 25,8 per cento fra le donne, 40,8 per cento fra gli uomini - ha accumulato almeno 20mila euro lordi l’anno», snocciola dati preoccupanti l’economista, che aggiunge: «Più del 38 per cento di questa popolazione ha accumulato meno di mille euro al mese ed è quindi a forte rischio di povertà da pensione futura», e ovviamente le più colpite sono proprio le donne. Il “gender pay gap” sommato al precariato giovanile porta dritti dritti al terzo problema che il neoministro Calderone non potrà non affrontare - nonostante di questi temi non ci sia traccia nei programmi elettorali di FdI, Lega e Fi - ovvero la sostenibilità dell’Inps. L’ente, sulla base dei flussi contabili di entrata e uscita, mostra un saldo negativo da qui al 2029 per un totale di 92 miliardi, sia perché le pensioni liquidate
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Foto: Ipa , Y. Nardi / Reuters / Contrasto
La ministra del Lavoro Marina Elvira Calderone. A sinistra: l’agenzia del Lavoro di Milano
sono più onerose dei versamenti dei lavoratori, sia perché il patrimonio dell’ente dall’anno scorso si è azzerato. A pesare sono soprattutto i conti di alcune casse, come quella dei lavoratori autonomi, dei lavoratori pubblici, dei giornalisti, dove l’elevato numero di pensionati e le relative corpose pensioni, non è compensato dall’esiguo numero di nuovi assunti e con bassi salari. «Solo migliorando i modelli di produzione del reddito si potrà garantire il patto intergenerazionale e adeguati livelli di finanziamento dello stato sociale», avverte l’Inps nel suo rapporto annuale, per poi chiarire: «Non è in discussione la stabilità dell’Inps, che gode della più ampia garanzia, quella del Bilancio dello Stato». Detto altrimenti, a pagare le pensioni ci pensa lo Stato, che s’accollerà i 92 miliardi delle pensioni, accumulando quindi altro debito pubblico, come se non ne avesse già abbastanza di suo. Pochi giorni prima della nascita del governo Meloni, all’Inps si erano riuniti tecnici ed economisti per cercare di rendere strutturale una misura di flessibilità in uscita e superare così l’urgenza di porre ogni anno una toppa agli stringenti vincoli di uscita della riforma Fornero. L’ipotesi più realista sul tavolo è stata quella di concedere un’uscita anticipata di non più di quattro o cinque anni, ma con una decurtazione del tre per cento l’anno per la quota retributiva. Questo avrebbe consentito di non aggravare i conti pubblici e spostare il dibattito sui veri problemi previdenziali, ovvero donne, giovani e sostenibilità dei conti. Invece il governo, al massimo, metterà l’ennesima toppa per evitare che dal primo gennaio si innalzi a 67 anni l’età per andare alla pensione. Ma la Cgil tiene il punto: «Senza contrastare
la precarietà e perseguire la piena e buona occupazione, pagata il giusto, gli assegni previdenziali continueranno a ridursi. Un'altra piaga da combattere è il lavoro nero, che non prevede alcun versamento contributivo», dice Christian Ferrari, della segreteria nazionale Cgil, che continua: «Nel frattempo, serve una riforma che garantisca a giovani e donne una pensione dignitosa, attraverso la pensione contributiva di garanzia e il riconoscimento del lavoro di cura. È poi necessaria la valorizzazione dei lavori gravosi, perché non tutti i lavori sono uguali e così le aspettative di vita. Una cosa è certa, non è accettabile il ritorno a pieno regime della Fornero. Va garantita una giusta flessibilità in uscita». La priorità, secondo Raitano, è la creazione di una pensione di garanzia per coprire i buchi pensionistici: «Un fondo di copertura per i mesi di mancata contribuzione che, nell’immediato, non costerebbe nulla, perché entrerebbe in funzione dal 2035, cioè da quando queste persone cominceranno ad andare in pensione. Il vantaggio sarebbe quello di ridurre il lavoro nero e incentivare i giovani a cercare un’occupazione regolare, stimolati dalla possibilità di avere una pensione superiore all’assegno minimo». Si dovrà anche iniziare a discutere su come in futuro s’intende finanziare l’Inps, visto che i lavoratori sono sempre meno. A tal proposito si fa strada l’ipotesi di tassare gli extraprofitti di multinazionali e big company che fanno affari d’oro pur avendo pochi dipendenti. Una bella idea di redistribuzione del reddito, che non sembra essere all’ordine del giorno per un governo di destra, come quello Meloni.
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L’intervento
Prima Pagina
di IVAN CAVICCHI
I
Tre bombe a orologeria sul futuro della Sanità
l nuovo ministro della Salute, il professor Orazio Schillaci, riceve in eredità da chi l’ha preceduto una situazione oggettivamente a dir poco preoccupante. Il sistema sanitario pubblico, soprattutto dopo la pandemia, è sempre più vistosamente regrediente, fiaccato da vistose carenze di personale e da innegabili disfunzioni del sistema di servizi. La sua privatizzazione continua a crescere in ogni modo, ma quel che è peggio il diritto alla salute dell’art. 32, ormai soprattutto dopo le controriforme degli anni 90 mai corrette, non è più un diritto fondamentale ma un diritto relativo e subordinabile. Nello stesso tempo oggi il ministro Schillaci eredita dal predecessore Roberto Speranza un Pnrr (missione 6 ) a dir poco preoccupante, cioè pieno di bombe “retard”, che se non disinnescate per tempo possono causare grandi danni a tutti. La prima bomba riguarda i medici di medicina generale. Speranza, a forza di dare il contentino a tutti, ha fatto un enorme pasticcio. Di fatto ha controriformato le cosiddette cure primarie spostandole almeno per metà nelle case di comunità che sono tutto meno che servizi di prossimità. Per obbligare i medici di medicina generale a lavorare in queste “case”, Speranza di fatto li ha segati in due: una metà continua a lavorare negli studi
privati come liberi professionisti e una metà lavora nelle “case” come dipendenti. Già prima, poveracci, i cittadini si lamentavano e anche molto dei medici di medicina generale: figurarsi ora. A Speranza non è venuto in mente che anziché far girare i cittadini come trottole, avrebbe potuto negoziare con i medici una convenzione semplicemente più adeguata alle loro necessità . La seconda bomba “retard” sono gli ospedali. La scelta di Speranza è stata quella di confermare i parametri di organizzazione degli ospedali definiti nel 2015 (DM 70). Cioè prima della pandemia. Per rendersi conto dell’inadeguatezza di questi parametri, a parte confrontare i nostri standard smaccatamente al di sotto di quelli europei, è sufficiente andare in qualsiasi ospedale, contare i posti letto disponibili e contare i malati da ricoverare e parcheggiati nei pronto soccorso. Non solo si scoprirà che i malati sono più dei letti disponibili nei reparti, ma soprattutto ci si renderà conto dello stato precario in cui si trovano i reparti e i loro organigrammi. Forse si è esagerato un po’ troppo con la deospedalizzazione. Oggi serve urgentemente correre ai ripari. La terza bomba “retard” riguarda soprattutto i sistemi di prevenzione necessari per tutelare le nostre
Medicina generale, ospedali e prevenzione. Grossi nodi da sciogliere che il nuovo governo riceve in eredità. E che deve risolvere usando bene i finanziamenti del Pnrr
popolazioni. L’eredità di Speranza è inquietante. Pur potendo, grazie alle recenti modifiche costituzionali, integrare le politiche di prevenzione sanitaria con quelle ambientali ha mantenuto i vecchi dipartimenti di prevenzione, mantenendo la vecchia dicotomia sanità-ambiente. Per cui, nonostante la solfa “one health” oggi molto di moda, dopo circa 200 mila morti, abbiamo le agenzie per l’ambiente da una parte e i dipartimenti di prevenzione dall’altra. Cioè Speranza si è guardato bene da mettere in atto una svolta riformatrice. Oggi solo se produciamo salute mettiamo in sicurezza l’economia e allo stesso tempo risolviamo la questione della sostenibilità finanziaria della sanità pubblica. Il punto è come si produce salute oggi. A questa domanda Speranza non dà proprio risposte. Il Pnrr lasciato in eredità al ministro Schillaci per la Sanità vale 20 miliardi. Soldi che però a causa delle soluzioni sbagliate di Speranza rischiamo di buttare alle ortiche. Non si dimentichi poi che per la Sanità le previsioni di spesa definite con la nota al Def del precedente governo sono tutt’altro che generose e che le regioni chiedono a gran voce di rivedere i fabbisogni programmati anche alla luce della crescita dei costi del sistema. Ho l’impressione che il ministro Schillaci sia chiamato a misurarsi con scelte delicate difficili e complesse e che i cittadini presto ne faranno empiricamente la sua conoscenza diretta. Vedremo.
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Riscaldamento globale
CLIMA INVERTIRE LA ROTTA DI VITTORIO MALAGUTTI
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olete misurare la distanza tra la realtà del cambiamento climatico e la sua percezione da parte della classe dirigente del mondo? Basta leggere l’ultimo comunicato dell’Agenzia Internazionale dell’Energia (Aie) che aggiorna i dati delle emissioni di gas serra su scala globale. «Quest’anno la quantità di anidride carbonica diffusa nell’atmosfera per effetto dell’uso di combustibili fossili aumenterà solo dell’1 per cento rispetto al 2021», recita la nota stampa diffusa il 19 ottobre scorso dall’organizzazione nata per coordinare le politiche energetiche dei maggiori Paesi industrializzati, Italia compresa. Il tono è soddisfatto: un risultato «molto migliore rispetto alle previsioni», si legge. E, in effetti, i numeri sembrano incoraggianti, ma purtroppo non c’è nulla da festeggiare. Il mondo si trova drammaticamente in ritardo nella corsa a mantenere gli impegni di riduzione del riscaldamento globale fissati dagli Accordi di Parigi del 2015. Le emissioni di CO2
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dovrebbero essere tagliate del 45 per cento entro il 2030 per poter sperare di limitare l’aumento delle temperature in questo secolo entro 1,5 gradi rispetto ai livelli preindustriali, come previsto dall’intesa sottoscritta da 195 Paesi al termine della conferenza sul clima di sette anni fa. E invece, secondo l’ultimo rapporto ambientale dell’Onu, continuando di questo passo l’anidride carbonica prodotta dall’attività umana nel 2030 sarà aumentata del 16 per cento in confronto al 2010. Per tentare di invertire la rotta, migliaia di delegati dei governi di tutto il mondo, delle agenzie internazionali e dei movimenti ambientalisti si incontreranno a Sharm el-Sheikh, in Egitto, per due settimane a partire da domenica 6 novembre. La ventisettesima Conferenza delle Parti, meglio nota come Cop 27, non poVittorio Malagutti trebbe cadere in un periodo peggiore. PriGiornalista ma la pandemia e poi l’aggressione russa
Prima Pagina perdollaro e dell’impennata dei tassi d’interesse, e con crescenti difficoltà nei rifornimenti alimentari. I Paesi ricchi, invece, in primo luogo l’Europa, devono affrontare i rischi di un’imminente recessione associata a un’inflazione mai così elevata da oltre 40 anni, a causa soprattutto dell’aumento esponenziale dei prezzi dell’energia. Per far fronte al taglio delle forniture di gas decise da Mosca, i governi del Vecchio Continente hanno accelerato la transizione verso fonti rinnovabili come il solare e l’eolico, ma allo stesso tempo sono tornati a investire sul carbone, il più inquinante dei combustibili fossili. Ben diverse erano le premesse con cui un anno fa si è aperta la Conferenza mondiale sul clima di Glasgow, la Cop 26, che nelle attese di tutta la comunità internazionale avrebbe dovuto rilanciare la lotta al cambiamento climatico su scala globale dopo la sosta forzata dovuta alla pandemia. Il ritorno degli Stati Uniti al tavolo negoziale, da cui si erano ritirati negli anni della presidenza di Donald Trump, aveva rafforzato le speranze di una svolta, di un salto di qualità nella ricorsa degli ambiziosi obiettivi sottoscritti a Parigi nel 2015. Il documento finale della conferenza aveva per la prima volta messo nero su bianco l’impegno comune a tagliare del 45 per cento le emissioni di gas serra entro il 2030, anche eliminando gradualmente l’uso del carbone. «Si poteva fare di più», commentarono all’epoca i movimenti ambientalisti e molti governi, soprattutto in Europa. A dodici mesi di distanza, però, anche quegli obiettivi minimi stabiliti nel cosiddetto Patto di Glasgow, sembrano sempre più difficili da raggiungere. La tabella di marcia per ridurre la dipendenza dei combustibili fossili, frutto di laboriosi negoziati e inevitabili compromessi al ribasso, ora appare fin troppo ambiziosa, proiettata com’è in un contesto di crisi globale in cui più che mai prevalgono gli egoismi nazionali sulla collaborazione per far fronte a una minaccia comune come quella dei cambiamenti climatici. «Ma non ci sono alternative», sottolinea Mariagrazia Midulla,
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Un vigile del fuoco al lavoro in California dopo uno degli incendi della scorsa estate
EMISSIONI AL TOP. TEMPERATURE MAI COSÌ ALTE. E ORA IL VERTICE COP 27 DOVRÀ RILANCIARE LA COOPERAZIONE PER SALVARE IL PIANETA. MA IL GOVERNO ITALIANO HA ALTRE PRIORITÀ
all’Ucraina hanno innescato una serie di crisi che hanno finito col minare seriamente ogni prospettiva di cooperazione internazionale. Da mesi ormai la minaccia del clima impazzito sembra passata in secondo piano a livello globale. «Stiamo andando nella direzione sbagliata», avverte l’Organizzazione meteorologica mondiale, in uno studio pubblicato a metà settembre in cui si legge che senza correzioni delle politiche energetiche a livello mondiale a fine secolo l’aumento della temperatura media rispetto all’epoca preindustriale toccherà i 2,8 gradi. Questo significa che gli eventi climatici estremi, alluvioni, siccità, ondate di calore sono destinati ad aumentare ancora, con perdite sempre più pesanti in termini di vite umane e di danni materiali. Intanto, però, la metà più povera del mondo combatte con i debiti in aumento, effetto del su-
responsabile energia e clima di Wwf. «Tutti i governi - spiega Midulla - hanno compreso che l’unico orizzonte possibile è quello della transizione energetica e quindi anche nella prossima conferenza i negoziati andranno nella direzione di rafforzare l’impegno per contrastare l’aumento delle temperature». Il tempo stringe. Il riscaldamento globale, con il suo carico di disastri naturali, corre molto più veloce dell’azione 30 ottobre 2022
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Riscaldamento globale UN PIANETA SEMPRE PIÙ CALDO
politica dei governi. È poi molto probabile che a Sharm el-Sheik il fronte dei Paesi (anomalie di temperatura rispetto alla media 1900-2000 per gennaio-settembre) in via di sviluppo porrà di nuovo con forza 1.00 la questione dei finanziamenti per il clima. E cioè risorse per centinaia di miliardi di 0.80 dollari indispensabili non solo a sostenere il passaggio verso fonti rinnovabili, ma so0.60 prattutto a rifondere i danni provocati dal riscaldamento globale, che ha effetti parti0.40 colarmente gravi in zone del mondo già afflitte da una povertà estrema. 0.20 I Paesi ricchi, di gran lunga i maggiori responsabili dell’accumulo dei gas serra, non 0.00 hanno fin qui neppure mantenuto l’impegno a sovvenzionare le nazioni più povere -0.20 con 100 miliardi di dollari l’anno destinati a progetti per la mitigazione del cambiamen- -0.40 to climatico. Anche in questo caso hanno finora prevalso gli stessi egoismi nazionali -0.60 1880 1890 1900 1910 1920 1930 1940 1950 1960 1970 1980 1990 2000 2010 2020 con cui deve fare i conti l’Unione Europea, terzo produttore mondiale di CO2 dopo Cina e Usa. In maggio Bruxelles ha approvato il RePowerEu, un programma d’azione che (dati in miliardi di tonnellate di CO2) ha l’obiettivo dichiarato di eliminare la di51,3 pendenza dalle forniture russe e punta a 50 rilanciare la transizione energetica fissando obiettivi ancora più ambiziosi negli investimenti in fonti rinnovabili. Allo stesso tempo, però, i 27 Paesi Ue faticano a trovare una politica comune sul gas e ciascuno, a 40 cominciare dall’Italia, nei mesi scorsi è andato per la sua strada alla ricerca di nuove fonti di approvvigionamento. «Se davvero vogliamo liberarci il più rapidamente possibile della dipendenza dai 30 2010 2011 2012 2013 2014 2015 2016 2017 2018 2019 2020 2021 combustibili fossili - ammonisce Luca Bergamaschi, direttore esecutivo del think tank ambientalista - Ecco, non possiamo limitarci a sosti- cato dal suo predecessore al Mite, Roberto Cingolani, come tuire il gas di Mosca con altro gas comprato altrove». L’Ita- è successo all’ultimo vertice di Lussemburgo di martedì 25 lia, in particolare, si presenta all’appuntamento di Sharm ottobre. A Sharm invece il ministro esordiente sarà probael-Sheik con un nuovo governo che, come primo atto for- bilmente accompagnato da Alessandro Modiano, un diplomale, ha cambiato nome al Ministero della Transizione matico di carriera, senza esperienza in tema ambientale, a Ecologica. Il Mite torna a chiamarsi Ministero dell’Ambien- cui il governo Draghi ha assegnato l’enfatico titolo di “Inviate con l’aggiunta della Sicurezza Energetica. Un’indicazione to Speciale per il Cambiamento climatico”. Una nomina, chiara di quali siano le priorità della coalizione di centro- decisa nel gennaio scorso, che Cingolani condivise con l’aldestra per il dicastero affidato al berlusconiano Gilberto lora titolare degli Esteri, Luigi Di Maio. Modiano deve aver Pichetto Fratin. lavorato molto dietro le quinte, perché dal giorno della sua A sole due settimane dalla nomina, il nuovo ministro promozione non si è più avuta notizia di lui. La coppia Mosarà chiamato a presentarsi sulla scena mondiale e, perdi- diano-Pichetto adesso è in partenza per la Cop 27. Intanto, più, come ospite di un Paese, l’Egitto, con cui i rapporti di- lunedì 24 ottobre, il ministro ha approfittato della sua prima plomatici sono da tempo a dir poco accidentati per via dei uscita ufficiale per dichiararsi favorevole alla sperimentacasi di Giulio Regeni e poi di Patrick Zaki. Lo stesso Egitto, zione sul nucleare di ultima generazione e al rilancio delle peraltro, che grazie all’Eni si prepara ad aumentare di mol- trivellazioni in Italia alla ricerca di gas. Neppure una parola, to le sue forniture di gas all’Italia. per ora, su clima e rinnovabili. Questione di priorità. Nei negoziati sull’energia in sede Ue, Pichetto sarà affian-
GAS SERRA AL TOP
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La transizione energetica
PALE AL PIEDE PARERI SU PARERI, VETI INCROCIATI, LENTEZZE BUROCRATICHE. ANNI PER AUTORIZZARE UN PARCO EOLICO. E QUANDO È PRONTO È GIÀ VECCHIO. PERCHÉ LE RINNOVABILI NON DECOLLANO DI SARA DELLABELLA
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innovabili? Più facile a dirsi che a farsi. E in un periodo di crisi energetica e ambientale il tema non è secondario. Soprattutto con il caro bollette che si è già abbattuto su molte famiglie e imprese e che stende un’ombra di incertezza e ansia sul prossimo inverno. Per questo sono molti a indicare le energie rinnovabili come una soluzione, peccato però che al ministero della Transizione ecologica (Mite) ci siano progetti fermi dal 2018, in attesa del parere della Commissione di impatto ambientale. «Per fare un rigassificatore c’è un iter autorizzativo semplificato in sei mesi, per le rinnovabili no», racconta Katiuscia Eroe, responsabile energia di Legambiente: «Al Mite ci sono 120 infrastrutture in validazione per le fonti fossili tra cui: nuove centrali a gas, repowering, ampliamenti, riconversioni, gasdotti, metanodotti, depositi e trivelle. Poi ci sono 280 GW di 50
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fonti rinnovabili che sono in attesa di autorizzazione. Con 280 GW avremmo raggiunto tutti gli obiettivi da qui al 2050». Il rapporto “Scacco matto alle rinnovabili”, redatto da Legambiente mette in luce tutti gli ostacoli burocratici e non, che stanno mettendo a rischio il raggiungimento degli obiettivi climatici. Normative obsolete, lentezze, burocrazia, atteggiamenti negativi, vincoli, discrezionalità, frammentazione e fake news. Così come la mancanza di una normativa unica, di regole chiare, certe e trasparenti in grado di dare certezze al mercato come ai territori. Il Rapporto mette in evidenza un quadro normativo e autorizzativo stratificato e disomogeneo che coinvolge tutti i livelli di governo: Stato, Regioni, Province e Amministrazioni comunali e sul quale è necessario intervenire anche alla luce delle innovazioni e dei nuovi strumenti oggi disponibili. Un sistema che di fatto non
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Foto: Getty Images
Il parco eolico offshore a cinque chilometri dalla costa di Copenaghen, in Danimarca
permetterà a questo Paese di installare 9 GW di rinnovabili l’anno, aprendo a false soluzioni, come gas e nucleare, per tutti i nostri problemi: climatici, energetici e sociali. A confermare le difficoltà di muoversi in questo contesto sono anche gli imprenditori. «Tutti gli impianti eolici dal 2017 a oggi hanno avuto il parere negativo della Soprintendenza. Parliamo di circa 100 impianti per 7mila megawatt», spiega il presidente dell’Associazione nazionale energia del vento (Anev), Simone Togni: «La Soprintendenza dice semplicemente no, senza entrare nel merito dei progetti. Lo dico perché poi con i ricorsi al Tar, al Consiglio di Stato, alla presidenza del Consiglio questi progetti vengono autorizzati». Sara Dellabella Sono i casi singoli a raccontare quanto Giornalista sia complicato fare un impianto eolico nel
nostro Paese. A Civitavecchia la società Tyrrhenian wind energy srl ha presentato un progetto per un impianto eolico offshore composto da 27 aerogeneratori ciascuno con potenza nominale di 10 MW, che dovrebbe sorgere a circa 30 chilometri dalla costa. Fino a qualche tempo fa, sul progetto pesava il parere negativo della Soprintendenza speciale per il Pnrr del ministero della Cultura. Chiedeva ai proponenti «il rendering di come si sarebbe visto il parco eolico dal traghetto. Questo vuol dire impedire la costruzione dei parchi e allungare gli adempimenti tecnici», racconta Eroe. «Anche la Soprintendenza in qualche modo ha linee chiare ma ogni tanto viene fuori con richieste esagerate». Solo dopo un intervento diretto del ministro della Cultura, Dario Franceschini il rendering da obbligatorio, si è trasformato in «mera indicazione». In Italia, esiste un solo parco eolico offshore e una quarantina di progetti di impianti, mappati da Terna, che dovrebbero sorgere al 30 ottobre 2022
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La transizione energetica
L’impianto offshore di rigassificazione a Porto Levante (Rovigo)
largo di Sicilia, Sardegna, Puglia e Ravenna. A Taranto, primo parco eolico offshore dello stivale, ci sono voluti 14 anni per far partire le pale. Tra richieste della Soprintendenza c’era quella di tutelare il paesaggio industriale di Taranto. Così tra presentazione del progetto nel 2008, stop and go burocratici, il fallimento della ditta proponente, le 10 turbine eoliche da 3 MW sono entrate in funzione solo lo scorso aprile. Peccato però che l’impianto sia già obsoleto. Negli anni, la tecnologia ha sviluppato turbine da 10-15 MW, ma per chiedere un ammodernamento del progetto o una variante si sarebbe dovuto ricominciare l’iter da capo. Non va meglio neppure agli impianti arrivati a fine vita e che hanno necessità di un repowering. Esemplare il caso del parco eolico da 16 aerogeneratori per 32 MG di potenza da realizzarsi nel comune di San Bartolomeo in Galdo (Benevento). Qui Regione Campania e Soprintendenza di Caserta e Benevento prima hanno dato parere positivo, poi, di fronte alla richiesta di adeguamento tecnico del progetto che portava alla modifica sostanziale nella sostituzione dei 16 aerogeneratori con 4 da 32 MW, hanno dato parere negativo per un presunto, e sopraggiunto, impatto ambientale. Tanto che alla fine, la ditta, nel 2021, è tornata al vecchio piano e installerà macchine meno potenti. Nel Pnrr sono previsti al capitolo eolico circa 400 milioni di euro, ma in questo caos sarà difficile spendere i soldi entro i tempi imposti da Bruxelles. Da un lato quella energetica è una delle questioni centrali del nostro tempo e lo dimostra il fatto che negli ultimi consigli dei ministri del governo Draghi sono arrivati i pareri di compatibilità ambientale per otto progetti di impianti di produzione di energia elettrica alimentati da fonti rinnovabili (energia eolica, fotovoltaica e geotermica), per una potenza complessiva pari a circa 314 MW, che erano rimasti impigliati in qualche parere negativo. Nel
dettaglio, si tratta di tre progetti da realizzare nella regione Puglia, tre nella regione Basilicata e due nella regione Toscana. In particolare si tratta degli impianti eolici nei comuni di San Mauro Forte, Salandra e Garaguso (Matera) per 72,8 MW; dell’impianto eolico nei comuni di San Paolo di Civitate località Masseria Difensola e Poggio Imperiale località La Colonnella (Foggia) per 31,35 MW; dell’impianto eolico Serra Palino nei comuni di Sant’Agata di Puglia e Candela (FoggiaG) per 48 MW e dell’impianto eolico Venusia nei comuni di Venosa e Maschito (Potenza) per 36 MW. Tutti hanno alle spalle anni di scartoffie e talvolta, le contestazioni dei comitati locali contrari alla realizzazione dei grandi impianti sul proprio territorio, i cosiddetti Nimby. A sgombrare il campo da ogni contestazione è proprio Legambiente che apre ad una proposta: «L’impatto zero non esiste, ma si può fare in modo che l’impianto sia fatto nel rispetto del territorio, del contesto e delle tecnologie che ci sono e della popolazione locale», spiega Eroe: «Noi proponiamo che per ogni parco eolico ci sia una comunità energetica che in questo momento rappresenta l’unico strumento di welfare strutturale in grado di ridurre da subito le bollette, aiutare la comunità e lo sviluppo dei territori. In Italia ne esistono diverse, ma solo una trentina sono attive. Anche qui riscontriamo una difficoltà nelle autorizzazioni e nelle norme locali». Ma come si può incidere sulla lentezza, in un momento in cui lo scenario internazionale richiede misure straordinarie? Intanto con una celere revisione delle
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linee guida che sono ferme al Decreto ministeriale del 2010 - spiegano gli addetti ai lavori - e attraverso un lavoro congiunto tra ministeri, Transizione ecologica, Sviluppo economico e Cultura e con il varo di un testo unico che semplifichi gli iter di autorizzazione degli impianti, definisca in modo univoco ruoli e competenze dei vari organi dello Stato e dia tempi certi alle procedure. Un testo che dovrà essere in grado di rispondere al nuovo scenario energetico. Accanto alla semplificazione dei processi bisognerà investire in trasparenza e certezza dei tempi con una maggiore partecipazione dei territori. Un piano ambizioso che potrebbe liberare l’Italia dalla dipendenza energetica dalla Russia ma che rischia di non vedere mai luce senza la determinazione del prossimo governo.
Foto: Ansa
AL MITE SONO FERMI IN ATTESA DI AUTORIZZAZIONE PROGETTI PER 280 GW “CON QUESTA QUOTA AVREMMO RAGGIUNTO TUTTI GLI OBIETTIVI DA QUI AL 2050”, SPIEGA LEGAMBIENTE
Ambiente a rischio
C’È UN’ALTRA ILVA NEL SALENTO DI PIERFRANCESCO ALBANESE
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missioni inquinanti, elevata incidenza di patologie tumorali, l’ombra dell’impiego di rifiuti pericolosi. L’apertura d’un fascicolo d’indagine. E il déjà-vu è servito. Lo chiamano eco-mostro. È sempre Puglia, ma non Taranto. Galatina, terzo comune per grandezza della provincia di Lecce. Ventiseimila abitanti e un unico rovello: che la concentrazione di tumori nel distretto sanitario cittadino – 16 comuni classificati dall’Istituto superiore di sanità «area cluster per neoplasie polmonari» – non sia un castigo piombato dal cielo. Ma conseguenza degli scarichi di Colacem, il cementificio del colosso Colacem Spa, società capofila del gruppo Financo, la holding finanziaria delle famiglie Colaiacovo. Sei stabilimenti in Italia, 4 terminal e 3 depositi all’estero. E l’impianto salentino. Dalle dimensioni ciclopiche: quasi 550mila metri quadri, a 2 chilometri dal centro di Galatina e due altri comuni dell’hinterland, Soleto e Sogliano Cavour, con emissioni impattanti su un’altra decina di comuni salentini, per un totale di oltre 140mila abitanti. A queste condizioni, che gli scarichi non intaccassero ambiente e salute è da tempo ipotesi accompagnata da scetticismo. Acuito da una serie di studi. Già nel 2012 Colacem è tra le industrie a maggiore impatto ambientale e sanitario secondo l’Agenzia europea dell’ambiente. Nel 42 per cento dei bambini galatinesi sottoposti a una ricerca dell’Università del Salento è emersa la presenza di micronuclei, indice d’esposizione a inquinanti ambientali. Poi il cluster tumorale secondo lo studio Protos del Cnr, dopo i picchi di neoplasie registrati tra il 2006 e il 2011. Tra i maggiori fattori di rischio figura l’esposizione agli inquinanti industriali. Cercare la pistola fumante, accertando oltre ogni ragionevole dubbio il nesso tra inquinamento e patologie, è però
Betoniere in un cementificio
UN’INCHIESTA SUL CEMENTIFICIO COLACEM E SULL’INCIDENZA DEI TUMORI. DITO PUNTATO SULLE EMISSIONI E SUI RIFIUTI TRATTATI. L’AZIENDA SI AUTOASSOLVE: “È TUTTO A NORMA”
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difficile. Specie in assenza d’analisi di enti terzi. Ora in corso, dopo anni d’attesa. Ma a credere che l’esposizione ai fumi c’entri qualcosa sono in tanti. Tra loro Salvatore Andreano. «Totò», precisa, relegando le formalità ai soli registri comunali. 80 anni, una vita da impiegato di banca vissuta a 10 chilometri dal cementificio. Per Totò l’unità di misura dell’impatto delle emissioni è pari all’intensità del dolore di una privazione: l’impossibilità di andare in bicicletta. Ha un carcinoma polmonare. «Senza avere mai fumato nella vita», puntualizza. Si rac-
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conta con intermezzi scherzosi. «Quando il medico mi chiede come sto, gli rispondo: io bene. Sono i polmoni a non stare tanto bene». Ne parla come fossero cosa separata. E sta tutta lì la cesura con la vita precedente. Oggi orbita tra le associazioni impegnate nella vertenza Colacem, dopo l’impegno in un altro contenzioso, quello sull’oleificio Copersalento, chiuso per emissioni di diossina 8 volte superiori al limite. «Queste industrie non riescono a operare senza emettere fumi tossici. O si cambia produzione, o bisogna chiuderle», dice. Nel 2017, a ridosso della Conferenza dei servizi convocata per il rinnovo dell’Autorizzazione ambientale (Aia) di Colacem, si è costituito il Coordinamento civico ambiente e salute, tra i capofila della vertenza. Alla base, le risultanze scientifiche. Ma anche l’esperienza dei componenti, legata a doppio filo alla fabbrica. Alessandra Caragiuli, Pierfrancesco Albanese sociologa galatinese, parla di una «famiglia Giornalista sventrata». La sua. La madre, 60 anni, morta
nell’arco di due settimane per una leucemia mieloide cronica fulminante. Così il cognato, 45 anni. Poi, il tumore alla vescica del padre e quello all’intestino della zia. Vite ed età differenti. Ma in comune l’orto di famiglia a meno d’un chilometro dal cementificio. «Nessuno ci ha mai detto cosa significasse vivere lì. Lo abbiamo scoperto a nostre spese», spiega. Nel suo quartiere, quando i fumi rendevano l’aria irrespirabile, ricorreva una frase: «Ci sape ce sta brucianu». Chissà che stanno bruciando. È una domanda a cui ora risponderà la magistratura. La Procura di Lecce ha infatti aperto un fascicolo con l’ipotesi di getto pericoloso di cose. Alla base un esposto di 13 associazioni e una mole ingente di documenti, tra cui la Consulenza tecnica d’ufficio (Ctu) disposta dal Tar nell’ambito dei procedimenti aperti dopo il ricorso presentato dai Comuni di Galatina e Soleto contro l’Aia concessa a Colacem dalla Provincia nel 2018, e modificata nel 2019. I procedimenti oggi sono chiusi, dopo la sopravvenienza d’una nuova Aia nel 2021. In mezzo, però, i risultati della consulenza tecnica disposta per verificare l’idoneità o meno delle 30 ottobre 2022
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Ambiente a rischio misure adottate a tutela di ambiente e salute. La perizia getta più di un’ombra sull’operato dell’industria. E costituisce ora la spina dorsale dell’indagine. Pesa l’assenza di monitoraggi adeguati sulle polveri. Ma è sui rifiuti che si gioca la partita più delicata. Colacem, difatti, effettua regolarmente recupero di materia dai rifiuti. I periti evidenziano però l’assenza di prescrizioni attinenti alla quantità di rifiuto impiegabile nel cementificio. Con il rischio che la lavorazione di quantità indiscriminate non consenta il calcolo degli impatti ambientali. C’è poi il tema dell’errata caratterizzazione di alcuni rifiuti. Nella specie le sabbie esauste, con possibile sprigionamento di sostanze nocive per la salute. Le sabbie, è la tesi dei periti, sono state inquadrate come rifiuto non pericoloso sulla scorta di un’analisi parziale che – scrivono – non ha tenuto conto della probabile esistenza di sostanze pericolose. «Pertanto – si legge - in contrasto con quanto prescritto nell’Aia (…) sono stati accettati anche rifiuti, quali le sabbie esauste, per i quali non era dimostrato che non contenessero sostanze pericolose. L’errata classificazione ha permesso che rifiuti non ammissibili per qualità fossero trattati nella cementeria». Al deposito della Ctu, Colacem ha alzato un muro granitico a difesa del suo operato. Anche mediante una Valuta-
INQUINANTI A destra, il cementificio Colacem di Galatina, in provincia di Lecce. Sotto: l’incendio scoppiato nella Raffineria Mediterranea di Milazzo, tra le più importanti del Sud Italia, nel settembre 2014
APPESTATI DAI FUMI DELLA RAFFINERIA DI ALAN DAVID SCIFO Dalla punta di capo Milazzo puoi vedere quello che è stato e quello che sarebbe potuto essere. Da un lato il blu del Tirreno siciliano e i monti a picco sul mare, dall’altro la raffineria a ridisegnare paesaggio e destini. Prese forma negli anni ’60, per ritornare in attività nel 1982 senza mai più fermarsi, nonostante incidenti, morti e veleni. Non sono bastate le sette vittime dell’esplosione del 1993 né l’incendio del 2014 e neppure l’ultimo, a marzo scorso, ad interrompere l’industria del petrolio: il polo “Raffineria di Milazzo”, controllato oggi da Eni e Q8, con le ciminiere che svettano vicinissime al centro abitato. Nel 2018, dopo denunce e rivolte di ambientalisti, privati e dei Comuni della Valle del Mela, a Barcellona Pozzo di Gotto è iniziato un processo. Davanti al tribunale gli ultimi tre direttori dello stabilimento, succedutisi dal 2014 al 2018. Marco Antonino Setti, Gaetano De Santis, Pietro Maugeri sono chiamati a rispondere di «gettito
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pericoloso di cose e disastro colposo». Ma il processo va a rilento e restano sospesi gli interrogativi sul nesso di causa effetto tra le emissioni e l’incidenza anomala di patologie segnalata nel rinvio a giudizio: «Eccezionale diffusione, nella popolazione dei comuni limitrofi allo stabilimento, di patologie dell’apparato respiratorio e tumorali, anche mortali». A subire le conseguenze sono i cittadini della Valle del Mela dove soffia forte il vento che spinge i fumi fin dentro le case: «Non stendiamo al sole i vestiti perché ce li ritroviamo bucati dall’acido solforico», racconta Pippo, uno dei cittadini di Pace del Mela, componente del comitato Tat, tutela ambiente, il primo nato in zona: «Qui arrivavano a deporre le tartarughe, oggi i bambini a scuola disegnano il mare con le ciminiere e quel fumo che si porta via tutto, una casa sì e una no ci sono morti di cancro». Sulle colline di Pace del Mela sono scomparsi gli agrumeti che assieme ai fiori erano il vanto di
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Foto: pagine 56-57: I. Tortorella, G. Isolino - Afp / GettyImages
zione d’impatto sanitario (Vis) autoprodotta, che assolve l’azienda da danni ambientali e sanitari. Ritenuta, tuttavia, incompleta dalla Conferenza dei servizi: sarà una Vis di parte pubblica a dire dell’impatto dell’azienda. Il caso, intanto, è approdato in Parlamento. Dopo il dossier recapitato dalle associazioni con richiesta d’audizione alla Commissione ambiente della Camera su Colacem Galatina e i poli di Gubbio e Sesto Campano - sui quali i report contengono dati altrettanto preoccupanti - Nicola Fratoianni ha chiesto lo stop degli impianti sino ai risultati della Vis. Intanto, le città circostanti restano nel limbo. Mentre aleggia lo spettro d’un caso ben presente nell’immaginario collettivo: l’Ilva di Taranto. Non a caso il legale che ha rappresentato le associazioni in Procura è Leonardo La Porta, uno dei volti del processo Ambiente Svenduto. «Non si possono tracciare delle equivalenze, ma lo stesso accadde a Taranto», spiega. «Ci accorgemmo della diffusione di patologie legate all’inquinamento e ci furono degli studi a suffragare queste ipotesi. La gente è preoccupata in Salento come lo era lì. Non si può fare altro che delegare l’incarico alla magistratura. Ora si accerteranno eventuali rischi per ambiente e salute».
questa comunità. Dicono che i terreni siano avvelenati e per questo i contadini li abbandonano. I limoni crescevano gialli ma poi, di notte, una patina scura li macchiava e in quelle condizioni era impossibile venderli. Che la zona sia inquinata è certificato da un acronimo, Sin, sito di interesse nazionale. Come Gela e Augusta. Impone una bonifica che però non è mai avvenuta. I cittadini non si danno per vinti e con l’aiuto dell’Arpa hanno iniziato a monitorare l’aria. Tra il 2007 e il 2008, sono stati installati 21 punti di rilevazione di sostanze nocive nell’area di Pace del Mela, vicino alle scuole. A Milazzo e ad Archi sono stati riscontrati valori di anidride solforosa, di biossido di azoto e di benzene superiori agli standard. E i test sui bambini hanno accertato che nei giorni in cui anidride solforosa e polveri sottili sono in aumento si riduce la funzionalità respiratoria. Con i dati raccolti ed elaborati da Pasquale Andaloro, in un rapporto pubblico, già nel 2019, si è giunti alla conclusione che «nella Valle del Mela la salute dei bambini può essere compromessa». Gli indizi convergono verso i picchi sulla «cronicizzazione dell’asma» e, pur in assenza di evidenze giudiziarie, sulla diffusione di patologie tumorali. Nella chiesa di Archi una tabella rivolge alla Madonna dell’Annunziata il ringraziamento per aver salvato la comunità dall’incendio del 2014 e la preghiera «perché liberi Archi e la Valle del Mela dalle pesanti catene dell’inquinamento». La chiesa è piccola ma i fedeli sono sempre meno. «Uccisi dai tumori o fuggiti vita», racconta don Peppe Trifirò, 55 anni di sacerdozio, alla testa di un agguerrito comitato cittadino:
«All’inizio ci prendevano per pazzi, oggi facciamo i conti con tanti casi di tumore al pancreas e tantissimi casi di Alzheimer, anche tra i giovani». A pochi passi dalla chiesa c’è il “Quartiere delle parrucche”, lo chiamano così perché in ogni casa c’è una donna che ha perso i capelli per la chemio. «Ho detto che morivano tutti e quasi mi denunciavano, così ho fatto una mia mappa, andando casa per casa a registrare i morti di tumore. È una terra dei fuochi, c’è la raffineria, un ripetitore a pochi metri delle abitazioni e un elettrodotto sopra le nostre teste», spiega Angela Bianchetti, ex consigliera comunale che abita in contrada Passo Vela, a Pace del Mela e che vive sulla sua pelle la malattia. Lo dicono anche i dati dello studio Sentieri del 2019 che oltre all’alto tasso di tumori anche in età pediatrica e giovanile a Milazzo, ha cerchiato in rosso il primato di malformazioni congenite: 79 per cento in più rispetto alla media nazionale. Nonostante tutto, però, dopo il picco di attenzione, anche qui la curva dell’impegno è in fase calante. «Il problema è che un terzo della popolazione ha a che fare con la raffineria. Manca un dibattito pubblico sul futuro e nelle ultime elezioni non se ne è neanche parlato», dice il giovane giornalista Davide La Cara. Uno dei pochi che non demorde, nonostante, le intimidazioni, è Giuseppe Maimone alla testa di un’associazione dei familiari dei morti di tumore (Adasc): «È una mattanza, la mia famiglia è stata massacrata. La gente non parla. Per vergogna o per paura». Perché se l’inquinamento uccide, gli interessi in pericolo atterriscono.
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Lorem etOggi Europa ipsorum A CURA DI AMÉLIE BAASNER
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l 6 ottobre 2022, Praga ha ospitato un incontro piuttosto singolare. Nel contesto di un’escalation della guerra alle porte dell’Europa, 44 capi di Stato e di governo si sono riuniti per il lancio della Comunità Politica Europea. È raro avviare un nuovo forum senza aver previamente concordato obiettivi chiari, termini di riferimento espliciti o piani futuri, ma questo si è rivelato estremamente efficace, anche se dovranno seguirne altri. Questo primo incontro su scala continentale ha inviato segnali importanti. Il principale è stato un messaggio geopolitico: di fronte alla guerra della Russia contro l’Ucraina e all’aggressione in altri Paesi, i leader europei - sia all’interno che all’esterno dell’Ue riconoscono la necessità di collaborare più strettamente e strategicamente per proteggere e ricostruire l’Europa, mantenervi l’ordine e, come concorda la maggior parte dei 44 leader presenti, proteggerne i valori e principi fondamentali. Il compito è ora quello di trasformare questa prima conversazione in una comunità politica d’impatto che risponda in modo adeguato alle gravi sfide dell’Europa, in primis quelle della sicurezza e della crisi energetica. È una scelta saggia quella dei leader di riunirsi nuovamente nella primavera del 2023, questa volta ospitati dalla Moldavia, paese candidato all’ammissione all’Ue, dove l’influenza russa si manifesta in forme molteplici, mentre un governo eletto democraticamente combatte la corruzione, spinge per la riforma del sistema giudiziario e accoglie migliaia di rifugiati ucraini. Ci si augura che il viaggio a Chisinau farà capire ai leader dell’Ue l’urgenza di attuare politiche più incisive per i Paesi più vulnerabili. Incontri ravvicinati e regolari tra i leader permetterebbero alla Comunità Politica Europea di evolvere in un forum continentale chiave, ma solo a condizione che tutti i suoi membri concordino su principi fondamentali come quelli che stanno alla base dell’Ue o del Consiglio d’Europa nei settori dello stato di diritto, della democrazia e dei diritti umani. Sebbene il primo incontro abbia avuto le caratteristiche di un utile workshop che combina grandi gruppi multilaterali e piccoli gruppi, nonché colloqui bilaterali attesi da tempo tra leader dello stesso continente, a un certo punto la Cpe dovrà passare alla definizione delle politiche per rimanere rile58
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SEMPRE PIÙ COMUNITÀ UE Dall’incontro di Praga può nascere una vicinanza politica che stringa i rapporti tra l’Unione e i paesi confinanti. Esistono obiettivi comuni da raggiungere insieme DI DANIELA SCHWARZER
L’AUTORE Daniela Schwarzer è Direttrice dell’Open Society Foundations. È stata consulente di diverse presidenze dell’Ue. La sua specializzazione è sempre stata la politica europea ed internazionale. È docente presso la Johns Hopkins University e ha insegnato, tra l’altro, presso la Freie Universität di Berlino e la Hertie School of Governance
vante. In questo caso, le divisioni interne potrebbero richiedere una modifica dell’elenco degli invitati e sarà di fondamentale importanza raggiungere un allineamento affidabile di tutti i Paesi partecipanti sulla loro posizione nei confronti della Russia. Sono necessari anche legami più stretti tra l’Ue e i suoi vicini, perché né l’allargamento né la politica di vicinato possono dare i risultati rapidi e convincenti di cui abbiamo bisogno. La Cpe può dare un contributo positivo se diventa un ponte verso l’Ue per i Paesi in via di ammissione, consentendo legami più stretti e la stabilizzazione al di là degli attuali confini dell’Ue. Ciò è tanto più importante in quanto i leader europei, in particolare il presidente francese Emmanuel Macron e il cancelliere tedesco Olaf Scholz, hanno chiarito in modo inequivocabile i prerequisiti per un ulteriore allargamento. Entrambi hanno sottolineato che prima di accogliere altri Stati membri saranno necessarie riforme dell’Ue che coinvolgano il processo decisionale e le istituzioni. Il processo decisionale dell’Ue è a volte lento e macchinoso e, mentre l’unione politica lavora duramente per la propria capacità di agire, deve anche diventare più
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La riunione dei capi di Stato e di Governo a Praga
agile. Spesso ostacolata da veti o minacce di veto, la legittimità democratica di questo processo decisionale deve essere sostenuta e rafforzata. Uno spazio politico in cui affrontare le sfide alla sicurezza e alla stabilità collettive e definire politiche concrete è infatti ciò che accomuna gli interessi dell’Ue con quelli degli Stati vicini. I leader dovrebbero quindi utilizzare il tempo che ci separa dal prossimo vertice per costruire una piattaforma in grado di combinare il dialogo politico con l’attuazione delle politiche in modo rapido e flessibile, al fine di strutturare in modo più incisivo le relazioni tra l’Ue e i suoi vicini, compresa, ad esempio, la cooperazione in materia di sicurezza energetica, i progetti infrastrutturali e altri passi pratici. In questo senso è fondamentale considerarsi come pari. La logica asimmetrica del processo di adesione, con un centro forte e un candidato speranzoso, viene ribaltata, poiché l’Ue fa bene a imparare anche dai suoi vicini, ad esempio in materia di difesa, digitalizzazione o elaborazione di politiche decentralizzate e agili. In questo modo la Cpe può essere due cose insieme: un forum intergovernativo per
IL TEMA Di fronte alla guerra russa i leader europei - all’interno come all’esterno dell’Ue - riconoscono la necessità di collaborare più strettamente e strategicamente per ricostruire l’Europa e proteggerne i valori. Dopo un primo incontro tenutosi a Praga il 6 ottobre 2022, con l’intento di lanciare una cosiddetta Comunità politica europea, resta il compito di creare una politica d’impatto che risponda in modo adeguato alle gravi sfide dell’Europa
coordinarsi non solo contro l’aggressione della Russia, ma anche nei confronti della Cina come sfidante sistemico che mira a dividere l’Ue per guadagnare influenza, e il “voto unanime” di cui ha bisogno per impedire decisioni politiche che vanno contro i suoi interessi in aree in cui l’Ue decide ancora all’unanimità. Per attuare rapidamente le politiche, la Cpe dovrebbe basarsi su un accordo di “soft law” tra gli Stati partecipanti e l’Ue e disporre di chiari meccanismi decisionali. Dovrebbe lavorare il più possibile con le istituzioni esistenti, puntando ad un processo decisionale più efficace di quello che avviene attualmente nell’Ue. Potrebbe, ad esempio, funzionare senza veto in sottogruppi di Stati membri, o lavorare in aree geopoliticamente rilevanti che non sono ancora di competenza dell’Ue. Una Cpe ambiziosa fornirebbe risorse finanziarie per una cooperazione più profonda in materia di energia e clima, sicurezza e difesa, e convergenza economica e sociale. Tuttavia la Cpe non sarebbe e non dovrebbe essere considerata un sostituto dell’adesione all’Ue. Al contrario, dovrebbe essere concepita in modo tale da poter funzionare da acceleratore. Per i Paesi che non intendono aderire all’Ue, la Cpe fornirebbe un quadro di riferimento continuo che sostiene una cooperazione strutturata. Solo pochi anni fa, i Paesi in via di ammissione respingevano l’idea di costruire legami più stretti al di sotto del livello di piena adesione. La situazione è cambiata: ora è necessaria la capacità comune di agire e di aumentare la resilienza di fronte ad attacchi multiformi. Una Cpe lungimirante può essere d’aiuto e potrebbe alla fine produrre risultati che le politiche tradizionali dell’Ue non avrebbero potuto dare. Tradotto da: Amanda Morelli e Nicholas Teluzzi
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La propaganda del Cremlino
DOVE OSANO I TRO AFRICA E AMERICA LATINA SONO LE NUOVE FRONTIERE DELLA FABBRICA DEL RANCORE ANTI OCCIDENTALE ALLESTITA DALLA RUSSIA. CON VELENI PIÙ SUBDOLI IN PAESI CON MENO ANTIDOTI DI UN’EUROPA GIÀ INTOSSICATA
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frica e America Latina: se il vostro lavoro fosse quello di essere agenti della disinformazione e della propaganda russa e filoputinana, è lì che stareste guardando. Altro che le piazze, complicate e, del resto, ormai sature di Europa e Nord America. L’Eldorado della disinformazione, delle teorie del complotto, delle bufale e della propaganda, ormai, è altrove. Si trova in società di Paesi che, per varie (e per lo più storicamente fondate) ragioni sono già intrise di sentimenti di ostilità e di rancore verso Europa e Usa e che, dunque, sono meglio disposte a bere le nefandezze che, inventate o meno, vengono dette sul loro conto. Così da qualche tempo (grosso modo una decina di anni, ma con maggiore forza negli ultimi mesi, dopo lo scoppio della guerra) la propaganda via social e via fake news che origina (non solo, ma soprattutto) da Mosca, mira a ripetere con le opinioni pubbliche di Africa e Asia lo stesso giochino che le è riuscito con quelle europee, balcaniche e statunitensi: dividere per controllare, inquinare per intossicare, menLuciana Grosso tire per delegittimare. Giornalista La ragione per cui lo fa è 60
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sempre la solita: indebolire l’Occidente e le istituzioni internazionali e rafforzare se stessa. Solo che la strategia per farlo, specie dall’inizio della guerra, non è più quella vecchia, dritta, diretta esplicitamente al pubblico occidentale. Ma una più obliqua, di sponda, che mira a diffondere contenuti antioccidentali e antimultilateralismo, non solo nelle opinioni pubbliche occidentali, ma anche tra quelle tra i loro vicini di casa, così che il risentimento e la deligittimazione siano globali, condivisi. Le società dei Paesi di Africa e Sud America si prestano eccezionalmente bene al compito: sia perché, appunto, già predisposte a una certa (comprensibile) diffidenza verso l’Occidente e le istituzioni internazionali, sia perché già, e per i fatti loro, frammentate, divise, fragili, spesso povere e corrotte. Inoltre, a rendere quelle società più appetibili e permeabili, c’è anche il fatto che sono ancora prive del dedalo di regole e regolamenti anti fake news che, negli ultimi tempi, hanno preso forma in Occidente e, in particolare, in Europa. «Quando è iniziata la guerra della Russia in Ucraina, Facebook, Twitter e altri giganti dei social media si sono mossi per bloccare o limitare la portata degli account della macchina di propaganda del Cremlino in Occidente. Lo sforzo, tuttavia, è stato limitato dalla geografia e dalla lingua, creando un mosaico di restrizioni piutto-
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DI LUCIANA GROSSO
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LL DI MOSCA
Ritratti di Putin in varie pose su magliette souvenir a Mosca
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La propaganda del Cremlino sto che un divieto generale. Il risultato è stata un’asimmetria geografica e culturale nella guerra dell’informazione sull’Ucraina che ha contribuito a minare gli sforzi guidati da americani ed europei per esercitare un’ampia pressione internazionale su Putin affinché sospendesse la sua guerra», scrive il New York Times. Così, visto che diffondere bufale in Occidente è diventato sempre più faticoso (anche se tutt’altro che impossibile) le fabbriche dei troll (come vengono chiamati i veri uffici nei quali lavorano persone il cui compito è diffondere e creare contenuti fasulli e incendiari da diffondere sui social) hanno iniziato a rivolgere le loro attenzioni ad altre piazze, altri mercati, altre strategie. Un report dell’Africa center for strategic studies (ente che, a dispetto del nome, ha sede e cuore negli Usa) scrive: «Negli ultimi anni, dozzine di campagne accuratamente progettate hanno pompato milioni di post intenzionalmente falsi e fuorvianti negli spazi sociali online dell’Africa. La conseguente confusione nel decifrare i fatti e di-
VIA SOCIAL E INQUINANDO CON FAKE NEWS L’INFORMAZIONE TRADIZIONALE SI PUNTA A DIVIDERE E DELEGITTIMARE, INNESTANDOSI SU OSTILITÀ PREGRESSE E IN CONTESTI PIÙ PERMEABILI stinguerli dalla finzione ha avuto un effetto corrosivo sulla fiducia sociale, sul pensiero critico e sulla capacità dei cittadini di impegnarsi in politica in modo equo, la linfa vitale di una democrazia funzionante». Com’è ovvio, più le situazioni interne dei Paesi presi di mira sono complesse e fragili, più la propaganda attecchisce. «Tutte le nazioni del Sahel soffrono di estremismo violento e sono rimaste deluse sia dalle forze di pace delle Nazioni Unite che dall’esercito francese che hanno tentato di stabilizzare la regione. Con molti governi regionali ora rivolti a Est, il sentimento filorusso si è diffuso attraverso campagne mediatiche in parte finanziate da oligarchi russi», scrive un report di Icds, International centre for defence and security, con sede in Estonia. Una situazione simile, seppur in conte62
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sti diversi, si verifica in alcune aree dell’America Latina, dove l’emittente, Actualidad RT, diramazione in lingua spagnola di Russia Today (emittente interamente finanziata e controllata dal Cremlino, e messa al bando in Europa), è uno dei canali più popolari e seguiti sin dalla sua fondazione nel 2009 (la sua pagina Facebook ha circa 18 milioni di follower) e si premura di diffondere contenuti populisti e demagogici contro le istituzioni locali (soprattutto se filoccidentali) e soprattutto infamanti verso Onu, Nato, Usa e Ue. Già nel 2015, il responsabile del comando meridionale degli Stati Uniti, il repubblicano John Kelly, dichiarò davanti alla commissione per i servizi armati del Senato che «periodicamente, dal 2008, la Russia ha perseguito una maggiore presenza in America Latina attraverso la propaganda, la vendita di armi e attrezzature militari, accordi antidroga e commercio. Sotto il presidente Putin, tuttavia, abbiamo assistito a un chiaro ritorno alle tattiche della Guerra Fredda». Una situazione che si è acuita e rinsaldata negli ultimi anni, soprattutto dopo i mondiali di calcio del 2018, che la Russia ha usato per accreditarsi con il pubblico
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latino e costruirsi un «seguito leale». Un seguito leale che paga e funziona se è vero che, nel Brasile della campagna elettorale di Jair Bolsonaro e Ignacio Lula da Silva, i due candidati sono sostanzialmente concordi nel non condannare la Russia per la guerra ma nel ritenere l’Ucraina colpevole delle violenze tanto quanto Mosca. «Proprio come le loro controparti di destra, i sostenitori di sinistra del Cremlino insistono sul fatto che è stata la Nato a “provocare” la guerra e che la Russia si sta semplicemente “difendendo”. Stanno anche respingendo le notizie credibili di crimini di guerra, crimini contro l’umanità e persino genocidi provenienti dall’Ucraina come “distorsioni” occidentali e “propaganda Nato” finanziate da George Soros (ironicamente anche lo spauracchio dell’estrema destra antisemita)», scrive Al Jazeera. Questa incapacità di distinguere le cose, i piani, le cause e gli effetti, i carnefici e gli aggressori, è esattamente il segnale del fatto che una campagna di disinformazione è andata a segno e che, ormai, sono state dette e diffuse talmente tante e tali bugie, teorie, menzogne, che distinguere i contorni della verità si è fatto impossibile.
MAGNIS SUS Un manifesto del defunto presidente venezuelano Hugo Chavez con il presidente russo Vladimir Putin nel quartiere Catia di Caracas. A sinistra, dall’alto, Alina Afinogenova e una manifestazione filorussa dopo il colpo di Stato in Burkina Faso
Una storia esemplificativa, in questo senso, è quella di Alina Afinogenova, una giornalista russa perfettamente bilingue in spagnolo che, per anni, è stata il volto più noto e popolare di Russia Today in America Latina. I suoi video, molto efficaci, accattivanti e ben fatti, hanno diffuso il verbo del putinismo, negato l’idea stessa che esistesse una propaganda russa, e attaccato con ferocia i leader occidentali. All’inizio del 2022, Afinogenova, aveva scritto e pubblicato più volte in merito al fatto che non ci sarebbe stata nessuna invasione russa e che, tutto questo vociare e cianciare di attacco imminente, era solo frutto della paranoia di Joe Biden e della ricerca occidentale di un pretesto per attaccar briga. «Verrà gennaio, poi febbraio e marzo; il 2022 finirà... e sicuramente continuerai a leggere sui media mainstream che l’invasione russa dell’Ucraina è imminente», disse nel dicembre del 2021. Le cose poi, lo sappiamo, sono andate diversamente e le previsioni di Afinogenova si sono rivelate un buco nell’acqua. Per settimane la giornalista, in genere molto prolifica sui social, è rimasta in silenzio. Poi, il 3 maggio, ha pubblicato un video nel quale annunciava le sue dimissioni da Russia Today e la sua disapprovazione della guerra. «Non capirò né giustificherò mai nessuna guerra che persegua i civili. Non so se la piattaforma su cui ho lavorato per tutti questi anni fa propaganda. La verità è che non lo so. Ma io, personalmente, non farò propaganda di guerra». Potrebbe sembrare (e magari forse è) un’epifania improvvisa, un pentimento in extremis, un ravvedimento scatenato dalla brutalità oscena della guerra. Ma il problema è che, nel gioco di specchi e di bugie che è l’architettura stessa delle campagne di disinformazione, nessuno sa più niente. Nessuno, nemmeno i più informati, accorti e preparati, conoscono più la saldezza della verità. Così ora che, dopo qualche mese di silenzio, Afinogenova è diventata una presenza fissa nel podcast quotidiano spagnolo La Base, scritto e condotto dall’ex leader di Podemos Pablo Iglesias, risulta difficile capire se è la sinistra spagnola che ha arruolato nelle sue file un’ex punta di diamante della propaganda putiniana, oppure se è successo esattamente il contrario.
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La geopolitica di Putin
SOCCORSO RUSSO AL GOLPE BIRMANO DI ALESSANDRO DE PASCALE
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endita di armi, costruzione di una fabbrica di veicoli militari, firma di un accordo per la fornitura di carburante e per la cooperazione nel settore dell’energia nucleare, attivazione di voli diretti e integrazione dei sistemi finanziari. È il sostegno politico ed economico che la Russia sta fornendo alla giunta militare birmana salita al potere con un colpo di Stato il 1° febbraio 2021. «I preesistenti legami tra il regime russo e la giunta birmana si sono intensificati dopo il golpe», conferma a L’Espresso Yadanar Maung, portavoce di Justice For Myanmar. Il gruppo di attivisti, che opera in clandestinità segnalando chi intrattiene relazioni con i golpisti, ha individuato almeno 19 aziende russe del settore difesa, le cui armi e attrezzature militari continuano a finire nelle mani dell’esercito birmano. Nell’elenco delle forniture (disponibile sul loro sito) c’è di tutto: veicoli corazzati Brdm-2 aggiornati, caccia Su-30Sme (alcuni dei quali sarebbero già stati schierati dall’aviazione birmana nello stato di Kachin), droni Orlan-10E, sistemi di difesa aerea Pantsir-S1, motori, pezzi d’artiglieria, parti di ricambio per la flotta di aerei Mig-29, Yak-130 e di elicotteri Mi-24 e Mil, nonché per i missili terra-aria Pechora 2M. Le esportazioni di armi russe nell’ex Birmania, come anche quelle di Cina e Serbia, «sono avvenute con la piena consapevolezza che sarebbero state usate per attaccare i civili, in probabile violazione del diritto internazionale», ha scritto lo scorso febbraio in un rapporto il Relatore speciale dell’Onu sulla situazione dei diritti umani in Myanmar, lo statunitense Tom H. Andrews. Diverse nazioni (come Stati Uniti, Regno Unito e Canada) e l’Unione europea hanno varato diversi pacchetti di
Una troupe di artisti del Myanmar in tour nella giungla per radunare i combattenti anti-golpe
VEICOLI, ELICOTTERI, AEREI, MATERIALE BELLICO. E NON SOLO: SIGLATI ACCORDI ANCHE SULLO SVILUPPO DEL NUCLEARE. COSÌ LO ZAR ESTENDE LA PROPRIA RETE DI INFLUENZA NELL’ASIA SUDORIENTALE
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sanzioni, vietando alle proprie imprese di avere rapporti con i golpisti e con i soggetti e le entità a questi vicini. Misure simili a quelle intraprese nei confronti della Russia in seguito all’invasione dell’Ucraina. Ma in entrambi i casi, a causa del veto nel Consiglio di sicurezza dell’Onu di Mosca e Pechino, non si è mai arrivati a sanzioni globali delle Nazioni Unite alle quali ogni Stato deve attenersi. C’è così chi può continuare a fare affari con una giunta militare che da quando ha preso il potere ha ucciso oltre
Foto: Afp / La Presse
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2.500 persone (in gran parte civili) e arrestato circa 16.000 oppositori politici, sparando sui manifestanti pro-democrazia e compiendo continui raid nei villaggi, dando alle fiamme abitazioni, scuole, campi coltivati e persino i cadaveri delle vittime. Il 16 settembre, alcuni elicotteri da combattimento, assieme alle truppe di terra, hanno, per esempio, aperto il fuoco sulla scuola del monastero di Let Yet Kone (regione di Sagaing) uccidendo 13 persone, 11 delle quali erano bambini. Nello Stato del Kachin, dove secondo gli attivisti la giunta avrebbe schierato i nuovi caccia di produzione russa Su30Sme, il 24 ottobre sono state uccise in un raid aereo almeno 60 persone (tra cui diversi noti artisti e musicisti). Dopo il bombardamento, compiuto nel villaggio di Kansi durante un concerto per l'anniversario di un gruppo separatista che soAlessandro De Pascale stiene la resistenza contro il golpe, i miliGiornalista tari avrebbero impedito l'evacuazione dei
feriti bloccando le vie di fuga. Da quando è avvenuto il colpo di Stato, il generale Min Aung Hlaing (autoproclamato premier birmano e comandante in capo delle forze armate) si è recato tre volte in Russia, uno dei pochi Paesi che può ancora visitare, visto che la maggior parte delle nazioni vietano l’ingresso ai membri della giunta. A settembre si è recato nello stabilimento aeronautico di Irkustsk (Siberia centrale) dove fabbricano i nuovi caccia a reazione Su-30Sme che, a suo dire, «saranno tutti consegnati presto». A produrli la Sukhoi, parte del maggiore conglomerato russo del settore difesa Rostec: 700 imprese in 14 holding, tra le quali la United aircraft corporation (Uac) proprietaria al 90 per cento anche della Superjet International (il restante 10 per cento è del colosso statale italiano Leonardo). A causa delle sanzioni europee imposte alla Russia, a questa joint-venture con sede a Tessera (Venezia) ad aprile sono stati congelati beni per circa 150 milioni di euro, bloccando il pagamento degli stipendi. Altra partnership eu30 ottobre 2022
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La geopolitica di Putin Un momento di una parata militare in Myanmar. A destra, dall’alto, Min Aung Hlaing e una manifestazione di rifugiati Rohingya
ropea della Uac, quella con i francesi di Thales. Ancora in Russia, il capo della giunta birmana si era precedentemente recato alla Russian Helicopters, che ha fornito all’esercito birmano la flotta di elicotteri da combattimento e da trasporto M-2, Mi-17 e Mi-24. Visite ricambiate: in Myanmar, a fine aprile, della delegazione della Repubblica russa del Tatarstan faceva parte anche Sergey Kogogin, sottoposto alle sanzioni internazionali in quanto direttore generale della Kamaz, il più grande produttore di camion della Russia. Altre armi, come avvenuto nel caso di ditte occidentali (durante la repressione delle manifestazioni da parte della giunta sono ad esempio state rinvenute cartucce della franco-italiana Cheddite di Livorno), sarebbero invece finite nelle mani dell’esercito birmano tramite triangolazioni o broker: ben 116 le imprese intermediarie birmane e di Singapore individuate da Justice For Myanmar. Tra queste la Dynasty International che, per il gruppo di attivisti, «ha stretti legami con il regime bielorusso e ha mediato l’acquisto di armi e materiale correlato da Bielorussia, Russia e Germania». Rapporti in seguito confermati anche dal dipartimento del Tesoro degli Stati Uniti. Alla ricerca di clienti per la sua energia, la Russia sta inoltre inviando idrocarburi via mare: le prime navi sono approdate a settembre. «Da quando Singapore ha sospeso le esportazioni di carburante in Myanmar, in soccorso della giunta è arrivata Mosca», denuncia a L’Espresso la segretaria generale di Italia-Birmania Insieme, Cecilia
Brighi. Il 10 ottobre, la sua associazione ha scritto ai rappresentanti delle istituzioni europee per chiedere di inserire il combustibile nella lista dei prodotti da sottoporre a sanzioni per il suo duplice uso (anche militare, il cosiddetto “dual-use goods”), allegando la lista delle navi e delle aziende coinvolte e chiedendo il blocco delle banche della giunta. Per Yadanar Maung di Justice For Myanmar, «il fatto che la giunta militare abbia riserve di valuta disponibili per l’acquisto di armi e carburante dalla Russia, utili a sostenere la sua campagna terroristica, mostra chiaramente che le sanzioni sono state insufficienti e che
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gli sforzi devono essere intensificati». C’è poi la questione nucleare. Nel suo ultimo e terzo viaggio in Russia, dove a settembre ha partecipato all’Eastern Economic Forum 2022 di Vladivostok (incontrando anche lo stesso Vladimir Putin), il generale Min Aung Hlaing ha inoltre incassato la firma di diversi protocolli d’intesa con l’azienda statale russa Rosatom, grazie ai quali in Myanmar potrebbe essere costruito il primo reattore atomico.
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LE ORGANIZZAZIONI PER I DIRITTI UMANI E L’ONU HANNO DENUNCIATO L’IMPIEGO DELL’ARSENALE PER LA REPRESSIONE DEI CIVILI. E DA MOSCA ARRIVA ANCHE IL CARBURANTE
Fronti di guerra
CI SERVE IL GAS AIUTIAMO BAKU DI SABATO ANGIERI
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e guerre non sono tutte uguali. Non solo dal punto di vista militare, simbolico o per il numero di caduti; ma per le reazioni che generano nella comunità internazionale. Ciò che sta accadendo tra Armenia e Azerbaijan è l’ennesima riprova che gli interessi economici e la contingenza influenzano i leader mondiali molto di più di concetti indefiniti come l’etica. D’altronde, sia la guerra in Ucraina, sia la debolezza russa hanno implicazioni dirette con le reazioni occidentali alla crisi caucasica e, in questo contesto, l’Italia ha un ruolo tutt’altro che marginale. Il nostro governo, infatti, è il principale partner commerciale dell’Azerbaijan tra gli Stati europei e uno dei primi al mondo con un volume di importazioni pari al 30,1 per cento dell’export totale di Baku. Di cosa si tratta? Idrocarburi, ovviamente. Più del 10 per cento del fabbisogno annuo italiano di gas proviene dall’Azerbaijan, il quale detiene circa il 20 per cento del totale delle riserve mondiali di gas, oltre a essere un importante esportatore di petrolio. Tramite i gasdotti, Scp (South Caucausus pipeline), Tanap (Trans Anatolian Pipeline) e Tap (Trans Adriatic pipeline), gli idrocarburi arrivano fino alle coste pugliesi di Melendugno partendo dai giacimenti del Mar Caspio, deviando per la Georgia, attraversando tutta la Turchia e infine per la Grecia e l’Albania. Si noti che l’Eni ha un ruolo di primo piano in diversi accordi con l’azienda statale di idrocarburi azera, la Socar, e che il Tap ha come azionista di maggioranza l’italiana Snam. Entrato in funzione a fine 2020, il Tap ha una portata di 10 miliardi di metri cubi di combustibile all’anno (teoricamente raddoppiabili in futuro) e nel 2021 ha immesso nel sistema energetico italiano 7,2 miliardi di metri cubi di gas azero. Inoltre, secondo i Sabato Angieri dati di un rapporto dell’Unem, il greggio azeGiornalista ro rappresenta circa il 20 per cento del totale
importato dall’Italia su base annua (con un picco nel 2021 del 23 per cento e una flessione nell’anno in corso, 16,4 per cento). Il 20 febbraio dell’anno scorso, con il governo Conte ancora in carica, il presidente della Repubblica dell’Azerbaijan, Ilham Aliyev, è atterrato in Italia per la prima visita ufficiale di un capo di stato azero nel nostro Paese. Al Business forum di Roma ospitato dalla Farnesina sono stati siglati 18 nuovi accordi di partenariato tecnologico e commerciale tra i due Stati e si è anche firmata una “Dichiarazione congiunta sul rafforzamento del partenariato strategico multidimensionale” che riveste un’importanza politica molto significativa alla luce degli sviluppi della cosiddetta «questione armeno-azera». Infatti, in sordina, l’Italia si è lentamente allonta-
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nata dalle posizioni della presidenza del cosiddetto Gruppo di Minsk dell’Osce, costituito da Usa, Francia e Russia nel 1992 al fine di trovare una soluzione politica (e pacifica) al conflitto del Nagorno-Karabakh. Gli Usa l’anno scorso hanno riconosciuto il «genocidio armeno» in una cerimonia ufficiale che ha molto indispettito la Turchia. La Francia è storicamente un Paese molto legato all’Armenia, sia a causa della diaspora, sia per la forte influenza delle élite culturali di origine armena, di cui faceva parte il famoso chansonnier Charles Aznavour. La Russia ospita più di 1,5 milioni di armeni sul suo territorio ed è legata a Yerevan nella Comunità degli Stati Indipendenti e tramite il Csto, l’Organizzazione del trattato di sicurezza collettiva, un’alleanza militare di 6 Stati
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PIÙ DEL 10 PER CENTO DEL FABBISOGNO ANNUO ITALIANO VIENE DALL’AZERBAIJAN TRAMITE ACCORDI CON ENI E SNAM. UNA PARTNERSHIP CHE CI PERMETTE DI IGNORARE IL CONFLITTO ARMENO. ANZI
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La costruzione del gasdotto TransAdriatico per trasportare gas naturale del Caspio in Europa 30 ottobre 2022
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Fronti di guerra
In corteo per chiedere di fermare il cambiamento climatico a Roma
dell’ex-Urss. In molti credevano che l’Azerbaijan non si sarebbe arrischiato ad attaccare l’Armenia direttamente per paura della reazione russa, ma con la guerra in Ucraina il Cremlino ha altre priorità. E poi c’è la Turchia, principale alleato dell’Azerbaijan. La fornitura di droni Bayraktar Tb2 a Baku ha determinato una schiacciante superiorità aerea durante l’ultima guerra decimando le truppe armene che non avevano adeguati sistemi di difesa. Il presidente turco Erdogan vede il sogno di realizzare un’area di turcofoni sotto la sua egida che vada dal Mediterraneo al Mar Caspio e comprenda Azerbaijan e Turkmenistan. L’unico ostacolo è, appunto, l’Armenia, o almeno la zona sud del Paese, quella sottile striscia di terra che divide l’Azerbaijan dall’exclave del Nakijevan, confinante direttamente con il territorio turco. Appropriarsi di questo territorio aprirebbe per Ankara e Baku una serie di prospettive commerciali enormi. E, si badi bene, non stiamo parlando di un’ipotesi tanto remota. Tornando all’Italia, oltre agli accordi commerciali, negli anni Roma ha gettato le basi anche per collaborazioni nel campo della Difesa. Il 6 novembre 2012 è stato firmato tra il nostro governo e quello azero un “Accordo sulla cooperazione nel settore della difesa”, ratificato il 9 gennaio 2017. Pur non trattando direttamente della fornitura di armamenti, al punto 3 dei “campi” si legge «ricerca e sviluppo, supporto logistico ed acquisizione di prodotti e servizi per la Difesa» e nell’articolo 6, riguardante la «cooperazione nel campo dei materiali per la Difesa» si parla di «approvvigionamento di materiali militari rientranti nell’ambito di programmi comuni e produzione, ordinate da una delle Parti, conformemente alle rispettive leggi nazionali in materia di importazione ed esportazione di materiali per la Difesa». Si ha traccia evidente di una sola fornitura militare all’Azerbaijan negli ultimi 10 anni e si tratta di due radar avionici di sorveglianza marittima “Gabbiano T20” e “T200” venduti dall’azienda “Selex es” nel 2013. Nelle
relazioni governative (Maeci e Dogane), tuttavia, questi strumenti sono stati poi catalogati come «Apparecchiature per la direzione del tiro». Anche se non se ne ha conferma nelle relazioni ufficiali, nel 2012 l’ “AugustaWestland”, controllata dall’italiana “Leonardo” stanziata all’estero, potrebbe aver fornito degli elicotteri militari al governo azero. Così come molte testate specialistiche nel febbraio 2020 (6 mesi prima dello scoppio della guerra nel Caucaso) davano per concluso l’accordo tra l’Azerbaijan e l’Alenia Aermacchi per la fornitura di 12 velivoli da addestramento M-346 Master. I media azeri in tale occasione parlarono anche di un’opzione per altri 12 aerei, nella versione “FA”, utilizzata per gli attacchi al suolo. Nella relazione del Senato italiano «sulle operazioni autorizzate e svolte per il controllo dell’esportazione, importazione e transito dei materiali di armamento» del 5 aprile 2022 riferita all’anno 2021 si legge una sola «Autorizzazione materiali armamento» per l’Azerbaijan ma il valore monetario indicato è “0”, quindi potrebbe trattarsi anche di interventi di manutenzione o di altro tipo di supporto. Inoltre, nel Rapporto dello Studio Ambrosetti del 2018 sull’azienda “Leonardo”, alla nota 61 si fa presente che: «Entro il 2022 è prevista l’apertura di uffici di rappresentanza di Leonardo in: Algeria, Angola, Azerbaijan» e diversi altri Stati che negli indici di democrazia internazionale sono ai posti più bassi della graduatoria. L’Azerbaijan, ad esempio, è al 141° posto tra 167 Stati analizzati, accomunato ai «regimi autoritari» di Russia, Bielorussia e dei Paesi centro-asiatici. È significativo notare che nella relazione del Senato italiano c’è una nota: «Nel 1992 la dichiarazione del Comitato alti funzionari Osce invita a non cedere o fornire arma-
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menti alle forze impegnate nelle zone del conflitto nel sud-ovest dell’Azerbaijan, nella regione Repubblica del Nagorno-Karabakh, tra la maggioranza etnica armena - sostenuta dalla Repubblica Armena - e la Repubblica dell’Azerbaijan». Tuttavia, sembra che il comportamento dei governi italiani, da Monti a Draghi, sia orientato più ad aggirare quest’embargo in nome dei propri interessi energetici. Del resto, l’Italia non è la sola: a luglio la presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, ha visitato la capitale azera e in un incontro con il presidente Aliyev ha parlato di «approfondire le relazioni bilaterali» in nome di un accordo «stabile e duraturo sull’energia».
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GLI ACCORDI DI COOPERAZIONE NEL SETTORE DIFESA NON PREVEDONO DIRETTAMENTE FORNITURE DI ARMI MA ENTRO IL 2022 LEONARDO DOVREBBE APRIRE UNA PROPRIA SEDE AZERA
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Medio Oriente / Turchia
ERDOGAN GIOCA D’AZZARDO DI FILIPPO ROSSI DA ISTANBUL
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opo il quarto incontro consecutivo con il presidente russo Vladimir Putin in Kazakistan, a metà ottobre, Recep Tayyip Erdogan ha detto: «Non abbiamo tempo da perdere». Parlava della creazione di un “hub” in Turchia per lo smistamento e il trasporto del gas russo verso l’Europa. Ma ha sopratutto messo in evidenza il ruolo sempre più centrale che sta giocando in questi mesi la Turchia, distante da una Nato diffidente e da un’Europa sempre più dipendente. Il gasdotto, chiamato TurkStream e in funzione già dal 2020 (trasporta oggi 31,5 miliardi di metri cubi di gas russo all’anno verso l’Europa), permetterebbe, con un potenziamento, di evitare l’Ucraina e i gasdotti sabotati nel Mar Baltico, rendendo la Turchia un passaggio obbligato. Una delle mosse che ha evidenziato la volontà di Erdogan – alle prese con una crisi interna da risolvere – di portare avanti una diplomazia veloce e concreta. Tesa ad accreditare il presidente come mediatore internazionale e il suo Paese come potenza continentale sullo scacchiere internazionale, indipendente in egual misura da Oriente e Occidente. 72
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SI ACCREDITA COME PONTE TRA EST E OVEST E TIENE IN SCACCO L’EUROPA. APRE AL MONDO ARABO E CON UNA SFILZA DI MISURE POPULISTE IN FUNZIONE ANTI-CRISI PROVA A FARSI RIELEGGERE Oltre a creare i presupposti per un futuro incontro con il presidente siriano Assad e mediare un sempre più realistico accordo di pace nel Caucaso fra Armenia e Azerbaijan (rispolverando il progetto di avvicinamento dell’Asia centrale turcofona), Erdogan ha trattato la ripresa del trasporto di grano e uno scambio di prigionieri tra Mosca e Kiev. Il vero obiettivo di Ankara rimane però quello di un cessate il fuoco che porti a un accordo di pace fra i due Paesi. Tuttavia, i legami politici e commerciali
Foto: The New York Times – Redux / Contrasto
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di Erdogan con la Russia hanno fatto imbestialire Bruxelles e Washington, indecise su come trattare l’alleato diventato indispensabile tanto sul grano quanto sul gas ma considerato “pericoloso”. Dalle relazioni con Putin, Erdogan ha incassato un aumento del proprio export e un prestito di 8 miliardi che gli serve a rimpolpare le esigue riserve della Banca centrale, oltre a uno sconto sul prezzo del gas. Decisiva la scelta di non legarsi le mani rifiutando di aderire alle sanzioni occidentali nei confronti della Russia ma approvando solamente quelle delle Nazioni Unite con annessa condanna dell’invasione in Ucraina. La posizione equidistante della Turchia – parte della Nato dal 1952 – sulla guerra Filippo Rossi in Ucraina, visto che vende Giornalista anche armi a Kiev, è lo spec-
Una gigantografia del presidente turco Recep Tayyip Erdogan esposta a una manifestazione filogovernativa a Istanbul, nel 2013
chio di prossimo riposizionamento. È ciò che intravede anche l’ammiraglio Cem Gürdeniz, analista politico di stampo liberale che si oppone al governo Erdogan: «La Turchia non ha bisogno della Nato, rimane all’interno perché vuole difendere i propri interessi ma sapendo benissimo che oggi è diventata uno strumento dell’egemonia angloamericana». Secondo Gürdeniz, uno dei motivi per cui Erdogan potrebbe allontanarsi dalla Nato è il sostegno indiretto degli Usa al Pkk: «Perché essere alleati di qualcuno che sostiene un movimento terroristico nel proprio Paese?» si chiede polemicamente Gürdeniz. La Nato, dal canto suo, considera la Turchia come un membro infido e alcuni esponenti hanno considerato la possibilità di sollecitarne l’espulsione. E la situazione non è migliorata dopo il no della Turchia alle richieste di adesione di Svezia e Finlandia, sospese proprio per via del veto di Ankara. Erdogan ha preteso una prova di lealtà chiedendo l’estradizione di terroristi del Pkk che vivono nei due Paesi e ha bollato come «promesse» le rassicurazioni ricevute. Un altro segnale d’allarme per Europa e Stati Uniti è dato dalle relazioni disastrose che la Turchia intrattiene con la Grecia per via di rivendicazioni territoriali, condite da accuse sul mancato rispetto di accordi storici di convivenza pacifica e di violazione dei confini, spinte al limite dell’escalation militare. «Se fosse per me, la Turchia dovrebbe uscire dalla Nato, dall’unione doganale europea, abbandonare la richiesta di adesione all’Ue e allontanarsi dai diktat occidentali. Se ci sono economie fiorenti come la Cina e l’India, perché bisogna continuare a sottomettersi a chi ci considera un peso, inferiori, un pericolo e vuole controllarci dicendo di essere nostro amico?», si interroga Gürdeniz rivendicando il proprio nazionalismo, condiviso da una gran fetta della popolazione indipendentemente dalla collocazione politica rispetto a Erdogan. Il quale, dal canto suo, trae il massimo del vantaggio da questo sentimento diffuso di amore-odio fra Ankara e l’Europa, giocando sul filo del ricatto proprio mentre si guarda intorno e altrove. Per alleviare i suoi problemi economici la Turchia non si è rivolta soltanto a Russia e Cina ma ha approfondito anche la cooperazione con il Qatar, riallacciando rapporti con l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti, 30 ottobre 2022
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aprendo ai fondi di investimento per decine di miliardi di dollari. Un ulteriore elemento della disinvoltura delle alleanze strategiche arriva da Purnima Anand, la presidente del forum internazionale dei cinque Paesi emergenti del Brics: ha riferito che tra gli Stati interessati ad aderire l’anno prossimo alle intese di cooperazione economica c’è anche la Turchia. Il Paese, infatti, vive da mesi ormai un momento di difficoltà economica, con la caduta del 27 per cento della Lira, un’inflazione al 90 per cento, e una situazione di difficile convivenza con i milioni di rifugiati siriani ancora in territorio turco. Il governo, attraverso la Banca centrale (che ha cambiato il direttore tre volte nell’ultimo anno), ha deciso di tagliare i tassi d’interesse arrivati fino all’11 per cento (il che porterà il deficit del Paese al 6,4 per cento del Pil). In un momento di grandi vittorie diplomatiche, quindi, Erdogan e il suo governo devono gestire un conflitto interno dovuto soprattutto alla crisi economica che potrebbe esacerbarsi con l’avvicinarsi delle elezioni presidenziali previste per giugno 2023. Rispecchieranno le tensioni nella società turca contemporanea, che vede opporsi i nostalgici di un’occidentalizzazione forzata kemalista, ormai passata alla storia, a chi appoggia valori più consoni alle radici, riesumando la religione islamica e guardando ad altri lidi per costruire un futuro economico più solido. 74
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Medio Oriente / Turchia
I LAVORI L’interno della Pioneering Spirit, nel 2018: la nave posatubi è stata usata per la costruzione del gasdotto TurkStream
A ciò si aggiunge una legge sui media ratificata dal Parlamento a metà ottobre. Prevede fino a tre anni di reclusione per chi «diffonda notizie false tra il pubblico, sia all’estero che all’interno del Paese». Una legge considerata “pericolosa” dagli oppositori del governo e che colpirebbe soprattutto i piccoli media del Paese, ma che Erdogan reputa «impellente per la sicurezza e la pace dei turchi». Elementi di debolezza che l’opposizione al partito per la Giustizia e lo Sviluppo (Akp), presieduto da Erdogan, potrebbe sfruttare per indebolire la propria posizione. Ma la minoranza è disunita e priva di un leader carismatico che possa contrastare la campagna politica del presidente, iniziata già da settimane. Sebbene l’Akp fosse dato in netto svantaggio nelle ultime settimane la tendenza è cambiata sull’onda delle contromisure di stampo populista annunciate da Erdogan per contrastare l’aumento vertiginoso dei costi della vita. Ha tradotto, per esempio, lo sconto sulla vendita del gas con uno slogan a beneficio della popolazione più colpita dalla crisi: «Nessuno avrà freddo». E grazie ai fondi di investimento esteri e a un turismo in ripresa ha annunciato di voler costruire 500 mila nuove abitazioni a basso costo nei prossimi 5 anni destinate a famiglie in difficoltà. Un progetto da 49 miliardi di dollari, con 3 milioni di richieste già arrivate. Ha poi aumentato il salario minimo nazionale, gli stipendi degli statali, eliminato gli interessi sui prestiti per gli studenti, incentivato le esenzioni fiscali per i commerci. E giurato che «l’inflazione ritornerà normale a febbraio», dovendo scommettere sul breve tempo, consapevole che lo spazio di manovra per conquistare il consenso degli indecisi è estremamente ridotto. E mentre la Turchia si impone come un ponte fra Est e Ovest, tenendo in scacco l’Europa, l’Occidente non sembra intenzionato a riconoscerne il ruolo. In questo quadro, le elezioni del prossimo anno rischiano di trasformare il Paese in una polveriera. Alle prese con la battaglia elettorale, Erdogan giocherà tutte le carte a disposizione per rinsaldare prestigio e potere. Le spinte dell’opposizione per contrastarlo finirebbero per giocare su un terreno di posizioni estreme per conquistare porzioni di elettorato ostili al presidente ma ideologicamente oltranziste.
Foto: I. Terli – Anadolu Agency / GettyImages
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Iran
DONNE E CURDI UNITI NELLA LOTTA I COLLOQUIO CON ASO KOMENI
DI MARIA EDGARDA MARCUCCI
l 16 settembre 2022 a Teheran una pattuglia della polizia morale ferma una giovane donna accusata di indossare l’HIjab in maniera inapproriata. Si tratta di Jina Mahsa Amini, ventiduenne curda in visita da dei parenti nella capitale. La ragazza viene arrestata, poche ore dopo muore in custodia. La polizia dichiara che la causa del decesso è un malore al cuore, la famiglia smentisce: impossibile, era in piena salute. Escono i referti del ricovero, si vedono diverse fratture, una profonda sul cranio. Amini era originaria di Saq- donne del Kurdistan», racconta Aso Komeni, che ne fa parte. qez, città del Rojhilat, il Kurdistan iraniano, dove nel giro di Komeni, esattamente come Amini è una donna curda iraniapoche ore le persone cominciano a scendere in strada, chie- na, ha trent’anni, oggi vive a Londra, ma non smette di andare dendo giustizia. Le manifestazioni si diffondono immediata- e venire dall’Iran. Soprattutto non ha mai interrotto il suo lamente in tutta la regione curda, dalla vicina Sanandaj arriva- voro con il Kjar (Comunità delle donne libere del Rojhilat), la no fino a Theran e poi in tutto il resto del Paese. È passato poco branca iraniana del movimento delle donne. Chi meglio di lei più di un mese, ma ripercorrere ciò che è successo nelle ultime per parlare di quello che sta succedendo nel suo Paese. settimane in Iran, già vuol dire parlare della Storia di questo «Le donne dell’Iran e del Rojhelat sono state sottoposte a Paese. Perché queste proteste ne stanno scrivendo un capitolo trattamenti degradanti e disumanizzanti, tra cui femminicidi, importante. È presto per capire cosa si potrà leggere al suo mancanza di istruzione, mancanza di diritti di base. L’obbligo interno, però non sembra assurdo pensare a come potrebbe del velo e la regolamentazione dell’abbigliamento ne sono un intitolarsi: “Zan, Zandegi, Azadi”, donna, vita, libertà. Come lo prodotto: vengono usati come strumento dal regime, per rislogan più ripetuto nelle strade da quel sedici settembre in cordare costantemente alle donne che sono imprigionate». poi. Sarebbe normale, sentendo queste parole per la prima Amini non è certo la prima vittima della polizia morale, che volta in occasione delle proteste in corso, non essersi interro- negli ultimi anni ha notevolmente intensificato le sue attività. gate troppo sulla loro origine, pare basti la traduzione: “Don- Da lontano è difficile capire, perché proprio lei? Perché prona, vita, libertà” il protagonismo delle donne è un elemento prio ora? «Il regime iraniano ha sempre impedito qualsiasi fondativo in questo movimento contro il regime, torna tutto. evoluzione sociale attraverso un governo fondamentalista Ma chi ha seguito la storia recente del cosid- che applica la sharia, così ha marginalizzato la posizione e il detto Medio Oriente, e in particolare quella ruolo delle donne nella società e, per procura, di una vasta delle donne, probabilmente lo ha trovato fami- maggioranza della popolazione. Ha soffocato le nostre identiliare: è lo slogan del movimento delle donne li- tà, individuali e collettive». Il governo iraniano ha sempre bere del Kurdistan, è lo slogan delle Ypg. Spes- strumentalizzato la presenza di diverse etnie sul territorio per so, lo si legge anche sui cartelli nelle piazze di fomentare discriminazioni e guerre tra poveri. «In molti anni Non Una Di Meno, in Italia. «Jin JIyan Azadi di malagestione e corruzione estrema, ha saccheggiato l’ecoMaria Edgarda (l’originale in curdo Ndr.) È uno slogan che na- nomia e le risorse naturali del Paese, facendo perdere ai giovaMarcucci Giornalista sce dalla Jineolojì, la scienza delle donne: l’in- ni ogni speranza di un futuro certo e sicuro». La stessa giovene autrice sieme di teorie e pratiche del movimento delle tù che oggi sta fronteggiando le guardie di regime e che sta 76
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Manifestazione di protesta per la morte di Jina Masha Amini. Sopra: Aso Komeni
trovando modi sempre nuovi di respingere i suoi attacchi. «Non è stata solo la morte di un’altra donna; è stata il simbolo della morte delle donne e dei giovani in Iran». Un simbolo che oggi ha tutt’altro segno, perché il viso di Jina Amini ormai è noto in tutto il mondo, e chi lo guarda non vede “la morte delle donne e dei giovani in Iran”, vede la loro resistenza. «Jina è diventata un legame tra la storia del popolo curdo e quella delle donne iraniane». Per comprendere il senso di questa affermazione è necessario conoscere la storia dei curdi in Iran, almeno quella recente. «Nell’agosto del 1979, l’ayatollah Khomeini emise una Fatwa (editto religioso ndr) contro i curdi, che si tradusse in una campagna militare contro la popolazione civile per tutti gli anni Ottanta, in particolare a Sanandaj. Nel 1988 i membri del cosiddetto “Comitato della morte” arrestarono circa 33.000 civili. Ci furono “sparizioni forzate”, stupri, torture e condanne al patibolo, molti considerano ciò che accadde in quegli anni come un tentativo di genocidio. Ebrahim Raisi, attuale presidente, era parte del comitato». Lo stesso Raisi che ha mandato truppe armate ad assediare proprio Sanandaj nella notte del 15 ottobre. Il numero delle vittime di questo attacco ancora non è accertato: «Quando non si trova il corpo della vittima, per il governo tecnicamente non è considerato un decesso». Ecco spiegato come mai il regime fornisca numeri così discordanti rispetto alle organizzazioni umanitarie e alle testate indipendenti; non è la propa-
ganda del momento, bensì uno strumento rodato perché la popolazione viva nella paura ogni giorno. «È molto difficile dare un numero preciso alle persone uccise nell’assedio. Abbiamo la certezza su 9 vittime, ma stiamo ancora cercando di capire. Le persone ferite sono più di 1.500». È la seconda volta che succede in meno di un mese, durante il primo intervento le truppe iraniane hanno scagliato colpi di artiglieria fino alle città curde dal lato iracheno del confine. Dopo l’attacco le organizzazioni studentesche di Teheran hanno chiamato manifestazioni in tutta la città per rispondere. Il governo ha drasticamente limitato l’accesso a internet e a qualunque social media. «Ma i giovani si affidano a servizi di messaggistica criptati, correndo il rischio che possano vendere i dati a terzi, ci si organizza anche col passaparola, per fortuna ci sono delle comunità molto forti». Del resto pensando alla storia dell’Iran è facile ricordarsi che quando l’attuale governo prese il potere, nel 1979, non c’era internet. Intanto la rivolta quella notte è arrivata fino al carcere di Evin, la struttura di massima sicurezza di Teheran. Per ora il bilancio è di otto morti tra le persone imprigionate, e tra le decine di feriti, 61 sono state colpite da proiettili. C’è qualche persona che conosci detenuta a Evin? «Ognuna di noi conosce qualcuno che è stato a Evin, specialmente se si
Foto: Pau Barrena / Afp / Getty Images
SEGREGAZIONE FEMMINILE E PERSECUZIONE DELLA MINORANZA SONO DUE VOLTI DEL REGIME REPRESSIVO DEGLI AYATOLLAH. MA ORA, SPIEGA L’ATTIVISTA, LE COSE STANNO CAMBIANDO è parte di un’organizzazione politica. La popolazione curda non supera il 10% di quella di tutto il Paese. Però il 70% delle persone detenute sono curde. Fare nomi che non siano già pubblici però può esporre a molti pericoli. È ironico che “evin” significhi amore, in curdo». Testate indipendenti come Iran International e Iranwire riportano fonti da dentro il carcere, che l’incendio era pianificato. «Se era un tentativo da parte del governo per sedare le idee di rivoluzione, si è rivelato un passo falso. Abbiamo visto i video dei prigionieri riuniti sui tetti che gridavano slogan, gridavano “Jin, Jiyan, Azadi”». Aso deve andare, non posso rubarle altro tempo, c’è qualcosa che vuole aggiungere? «Storicamente, quando ci siamo fidate di vecchi partiti, gruppi e leader, abbiamo scoperto che le nostre voci sono state messe in secondo piano e la società è peggiorata. Dobbiamo trovare una strada diversa, come hanno fatto le donne del Rojava. Non dobbiamo accontentarci né accettare niente di meno».
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Esclusivo / Mafia dei Nebrodi
L’INVESTITURA DA BO DI ANTONIO FRASCHILLA FOTO DI ROSELENA RAMISTELLA
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a mafia ha messo le mani su un fiume di denaro di fondi europei destinati alla pastorizia siciliana. Sui terreni arroccati nei Nebrodi e per cifre milionarie. E seguendo questo fiume di soldi sporchi gli inquirenti hanno ritrovato anche una lettera, inviata dal carcere dal boss di Centuripe, riconducibile alla famiglia mafiosa Santapaola, che indica un suo rampollo come nuovo reggente e uomo di fiducia. Un documento davvero singolare che L’Espresso ha letto in esclusiva e che dimostra come negli anni Duemila vadano ancora avanti le cose in questo spicchio di Paese lontano dai riflettori mediatici e spesso anche dallo Stato: una lettera su carta che ha sorpreso anche gli investigatori, perché di solito questo tipo di comunicazioni vengono bruciate non appena sono state lette dagli interessati. Invece in questo caso, nonostante il boss concludendo il documento chieda espressamente di bruciare tutto, la lettera è stata ritrovata intatta. Tutto accade nelle contrade tra Enna e Centuripe. La Guardia di Finanza di Nicosia, coordinata dal sostituto procuratore della Dda di Caltanissetta Pasquale Pacifico, nel luglio del 2020 entra a casa di alcuni componenti della famiglia dei Conti Taguali. Il mandato della Procura di Caltanissetta riguarda una mega indagine per l’accaparramento di fondi europei in terreni pubblici affidati in maniera illegittima proprio a questa famiglia. Indagine nata dopo la firma del protocollo Antoci, che prende il nome dall’ex presidente del Parco dei Nebrodi: protocollo diventato poi legge dello Stato che, in soldoni, prevede l’obbligo della richiesta di certificazione antimafia per l’affitto di terreni pubblici di qualsiasi valore e per conseguente richiesta di contributi. I Conti Taguali, i cui componenti hanno diversi guai con la giustizia anche per fatti di mafia, dopo le nuove norme si erano subito messi in allarme, visto che dal 2012 al 2017 hanno avuto affidati dall’Azienda pubblica silvopastorale di Troina ben 1.181 ettari di terreno (su un totale di 4.200 gestiti dall’Azienda comunale). Insomma, un quarto di tutti i terreni pubblici. E grazie a questa concessione a canoni frazionati sotto la soglia dei 150 mila euro (soglia fissata fino al Antonio Fraschilla 2015 come necessaria per chiedere la certiGiornalista ficazione antimafia, adesso con il protocol78
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Vista di una vallata sui Nebrodi in Sicilia
lo Antoci è stata tolta) hanno ottenuto contributi comunitari per 3 milioni di euro. L’indagine, il mese scorso ha portato all’arresto dell’ex responsabile dell’Azienda silvopastorale e di diversi componenti delle famiglie dei Nebrodi che avevano intestato a prestanome migliaia di ettari di terreni per continuare a incassare i contribuiti. Ma nelle pieghe di questa indagine è saltata fuori la lettera del boss, che ha aperto uno squarcio su quello che accade ancora in queste contrade e sulla presenza costante della mafia. Nel portafoglio di uno degli indagati è stata trovata la lettera che ha come mittente il boss Gianni Galati Massaro: attualmente in carcere per scontare una condanna definitiva per 416 bis, il reato di associazione mafiosa,
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SS IN UN PIZZINO Adrano e che mi hanno parlato molto bene di te…e io questo già lo sapevo , che tu sei a posto, perché una vita che ci conosciamo……sappi solo che io e i ragazzi siamo una cosa sola, fratello mio come tu sai sto pagando una associazione mafiosa a Centuripe e so che te la stai sbrigando nel territorio, io sono contento, anzi hai carta bianca e il primo che ti dà fastidio fagli venire i vermi, poi se vogliono spiegazioni fammelo sapere che glieli do io, anzi fammi un favore: se ci sono lavori da fare fammi la cortesia di avvisare a N. e farlo lavorare e che nessuno gli rompe la minchia. Digli solo che lui sa cosa fare con me…digli di parlare con te che sei la mia stessa persona…Come sai ho delle possibilità di uscire, anzi a proposito di questo ti devo chiedere un favore..devo chiudere il processo dei 16 anni per cui mi servono 3 mila euro per l’avvocato…poi ho parlato con mio nipote che si trova qui con me e lui mi ha detto se abbiamo bisogno fuori ci sei tu e S. per qualsiasi cosa, per cui mi ha detto di stare tranquillo e io sono tranquillo, io vi chiedo se quel pezzo e merda di sbirru di P. sbaglia rompetegli le gambe e ditegli di stare al suo posto, poi prendigli un po’ di nafta a mio figlio così può venire a fare i colloqui…questa lettera non manca a te dopo averla letta di bruciarla…». Per gli inquirenti è evidente che la lettera non è stata
INDAGANDO SU UNA TRUFFA MILIONARIA ALLA UE CON IL SISTEMA DELL’ACCAPARRAMENTO DEI PASCOLI, SALTA FUORI LA LETTERA DAL CARCERE CON CUI IL PADRINO DESIGNA L’EREDE per una inchiesta del 2013, mentre è in corso l’appello per una seconda condanna a 16 anni, sempre per reati di mafia. Secondo il collaboratore di giustizia Antonio Mavica, i referenti di Cosa nostra per il territorio tra Centuripe e Troina sono i due cugini, Gianni e Santo. D’altronde il contenuto della lettera lascia poco spazio ai dubbi, dando mandato al rampollo di agire in suo nome anche per intimidire chi non si comporta bene, pagare gli avvocati, dare lavoro ai suoi parenti. Scrive Gianni: «Ciao carissimo T. sono Gianni, come prima cosa spero con tutto il mio cuore che questo mio scritto ti viene a trovare in ottima forma a te e famiglia. Amico mio cosa dirti, di me, io sto bene e spero anche tu, ti faccio sapere che abbiamo parlato di te con i ragazzi di
bruciata proprio perché il rampollo voleva accreditarsi sul territorio come nuovo referente del boss di Centuripe e aveva bisogno di una sorta di documento. Un errore, visto che poi, seguendo il fiume di denaro sui fondi europei, la lettera è saltata fuori con tanto di nome del “designato” a gestire gli affari di un clan legato storicamente a Cosa nostra e che deve fare muro ad alcuni rivali che si stanno facendo strada in questo angolo di Sicilia, come gli aderenti al clan Cappello, avversari dei Santapaola. Il designato è stato arrestato, ma così comunque vanno avanti le cose anche nel 2022, con lettere dal carcere che servono a indicare come comandare su queste valli.
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LA SCORCIATOIA PER ESSERE AVVOCATI DI ANNA DICHIARANTE
Raffigurazione della Giustizia all'ingresso della Corte di Cassazione, a Roma
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i erano accaparrati un controverso titolo di avocat in Romania, con quello erano riusciti a registrarsi come abogado in Spagna. Fissando, quasi tutti, il domicilio presso lo stesso numero civico di Madrid. Speravano, così, di aggiudicarsi anche l’iscrizione all’albo degli avvocati in Italia. Precisamente, a Pavia. A ricostruire la triangolazione e a capire che si trattava dell’ennesimo tentativo di aggirare le regole sull’accesso alla professione è stato l’Ordine degli avvocati della città lombarda: ottenuti dall’omologo madrileno i documenti da cui emerge il vizio a monte, ha messo alla porta gli aspiranti legali. Peccato che, a stretto giro, alcuni di loro siano rientrati dalla finestra in altri fori. Mentre a Bucarest i sospetti avocat continuano a circolare. È utile ricordare che per diventare avvocati nel nostro Paese, dopo la laurea in Giurisprudenza, bisogna svolgere un periodo di pratica o frequentare una scuola di specializzazione e, infine, superare l’esame di abilitazione; ma la direttiva europea che sancisce la libertà di stabilimento consente, pur con dei limiti, di esercitare l’attività forense in ogni Stato dell’Ue con il titolo di provenienza. Da noi occorre essere inseriti in una sezione speciale dell’albo, destinata, appunto, ai cosiddetti stabiliti. Su un totale nazionale di 244.846 avvocati, se ne contano 2.557 (dati aggiornati al 31 dicembre 2021). Questi ultimi, qualora dimostrino di aver lavorato in maniera effettiva per tre anni sotto la vigilanza di un collega vero e proprio, possono chiedere all’Ordine di essere iscritti nell’elenco principale senza sostenere il test attitudinale integrativo.
però, ha chiarito di essere una tappa intermedia. L’interessato si era stabilito lì, ma era in origine un avocat. E il competente organo rumeno, da noi interpellato, ha confermato». Ecco il problema. Tale organo – l’Uniunea Nationala a Barourilor din Romania o Unbr “Bota”, con sede in strada Academiei 4-6, Bucarest – non risulta né competente né legittimato al rilascio di titoli forensi. BOTA O NON BOTA Si parla della struttura fondata nel 2002 da Pompiliu Bota, una specie di ordine parallelo, che ha una denominazione identica e un simbolo assai simile all’autentica Unbr. A distinguerle è soltanto l’indirizzo: quella riconosciuta ufficialmente si trova presso il Palazzo di Giustizia di Bucarest, Splaiul Indipendentei 5. Nel 2013 Bota viene arrestato, prima di essere rinviato a giudizio davanti al Tribunale di Suceava, con l’accusa di associazione per delinquere dedita a una sfilza di reati riassumibili in esercizio abusivo della professione, frode, utilizzo indebito di qualifiche e insegne. Nel 2021 i giudici di primo grado lo assolvono. Intanto, l’Alta Corte di Cassazione e Giustizia della Romania dichiara che chiunque eserciti da avvocato senza essere inquadrato nell’Unbr ufficiale lo fa illecitamente. Al di là dei risvolti penali, per le autorità governative ru-
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ISCRITTI IN ROMANIA E RICONOSCIUTI IN SPAGNA, ESERCITANO IN ITALIA. MA ORA, DA PAVIA A CALTAGIRONE FIOCCANO LE CANCELLAZIONI. NON SENZA PARADOSSI E CONTENZIOSI
IL CASO PAVESE «Quando il nuovo Consiglio dell’Ordine di Pavia si è insediato nel 2019 ha ricevuto una serie di domande di dispensa dal test da parte di abogado. Le istanze erano già state presentate ai nostri predecessori, i quali avevano ritenuto di non rispondere. Noi le abbiamo valutate, iniziando a verificare la regolarità delle iscrizioni in Spagna», racconta Francesco Giambelluca, lui stesso consigliere e referente della commissione avvocati stabiliti. Insospettisce che queste siano successive al 31 ottobre 2011, data di entrata in vigore della legge con cui Madrid ha irrigidito l’accesso alla professione forense; prima bastava convertire la laurea italiana, con le opportune integrazioni, ora è necessario frequentare un master e superare l’esame di Stato. «Nonostante li avessimo sollecitati a provare di possedere i requisiti imposti dalle norme spagnole, gli abogado si sono rifiutati di collaborare. Secondo loro, non potevamo sindacare la scelta di ammetterli compiuta dalla Spagna nell’ambito della sua sovranità». La diatriba si trascina, finché a uno dei candidati alla toga viene recapitato un esposto disciplinare per ragioni che non riguardano la vicenda: «A quel punto – prosegue Giambelluca – era nostro dovere avvertire il suo Ordine di provenienza. Il Colegio de Abogados a cui ci siamo rivolti,
mene l’iscrizione all’Unbr “Bota” è priva di validità. Tra il 2018 e il 2019, il Tribunale e la Corte d’Appello di Bucarest condannano la struttura a rinunciare ai diritti sul logo Unbr e dispongono la cancellazione del marchio dall’apposito registro. Decisione diventata definitiva nel 2021. In Rete, comunque, il vecchio sito www.bota.ro è stato sostituito da www.unbr.eu. Nella rinnovata veste, la coincidenza con il nome, il simbolo e l’indirizzo web della vera Unbr è pressoché totale. Mentre l’elenco degli iscritti pubblicato arriva fino a 2.177 presunti avocat.
Anna Dichiarante Giornalista
IL PRECEDENTE DI CALTAGIRONE Sull’onda delle pronunce della magistratura rumena, il nostro Consiglio nazionale forense allerta le varie diramazioni territoriali. Tra i primi a muoversi c’è l’Ordine di Caltagirone che, nel 2016, avvia un procedimento di cancellazione di oltre duecento avocat. Gli interessati insorgono. Seguono molte impugnazioni al Cnf, che funge da secondo grado 30 ottobre 2022
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Da sinistra: il Palazzo di Giustizia di Bucarest, dove ha sede l'Unione degli avvocati rumeni, e Pompiliu Bota, fondatore dell’Ordine parallelo
rispetto alle delibere dei Consigli locali, e poi ricorsi alla Corte di Cassazione, che in materia si esprime a sezioni unite. Quest’ultima, come si legge in un provvedimento del Cnf, «conferma l’orientamento sull’obbligo, da parte dei Consigli dell’Ordine, di non iscrivere e di cancellare dalla sezione avvocati stabiliti i soggetti in possesso di un titolo non valido per l’esercizio del diritto di stabilimento, in quanto rilasciato da ente non risultante tra quelli abilitati al rilascio e inclusi nell’elenco del sistema Imi (Internal market information). Il controllo è demandato all’autorità competente nello Stato italiano a riconoscere e far valere la legittimità del titolo, ossia al ministero della Giustizia». Ebbene, il controllo è stato effettuato e della struttura “Bota” non c’è traccia.
«La questione pone interrogativi seri – conclude Giambelluca – innanzitutto sull’efficacia dell’attività svolta da persone senza titolo; poi, potrebbero proliferare esposti per esercizio abusivo della professione da chi si senta leso, magari cliente o controparte, o accertamenti delle Procu-
IL CORTOCIRCUITO Perciò, a Pavia, i consiglieri esigono chiarimenti da tutti gli stabiliti. Spiega ancora Giambelluca: «Qualcuno ha negato di avere rapporti con la Romania. Altri li hanno ammessi e sono stati cancellati nel 2021. Altri sette non hanno risposto; così abbiamo chiesto e ottenuto dal Colegio spagnolo d’appartenenza un certificato originario, constatando che erano iscritti alla Unbr “Bota”. Nei giorni scorsi è scattata la cancellazione anche per loro». Il cortocircuito, però, è dietro l’angolo: «Alcuni tra quelli che sono stati cancellati un anno fa si sono re-iscritti presso gli Ordini di Milano, Napoli Nord, Messina e Alessandria. Motivo per cui abbiamo ora comunicato la nostra decisione e le ragioni su cui si fonda ai colleghi e al Cnf. Ciò a esclusiva tutela della professione, dell’amministrazione della giustizia e dei cittadini». Uno dei destinatari del provvedimento, invece, avrebbe presentato querela contro l’Ordine per abuso d’ufficio, lamentando di essere stato tolto dall’elenco prima del termine di 60 giorni previsto per un’eventuale impugnazione. 82
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re. Andrebbero trovate soluzioni sul piano europeo. La Spagna, per esempio, ha mantenuto l’iscrizione degli avocat cancellati da noi. Si rischia di prestare il fianco a intenti strumentali». Del resto, il dubbio che il diritto di stabilimento venga sfruttato per aggirare gli ostacoli l’aveva sollevato pure una rilevazione fatta dall’Ufficio Studi del Cnf nel 2014: dai dati emergeva come il 92 per cento degli avvocati stabiliti fosse, in realtà, di nazionalità italiana. «Non è semplice coordinare le risposte di Paesi che hanno normative diverse», dice Patrizia Corona, vicepresidente del Cnf e coordinatrice della commissione per i rapporti con i consigli distrettuali di disciplina e giurisdizionale: «Spesso gli interessi economici in gioco non incentivano la collaborazione. Il caso di Pavia dimostra che talvolta persino tra i nostri Consigli dell’Ordine ci possono essere difficoltà di comunicazione o possono saltare i controlli. A ogni modo, riscontrata l’irregolarità dell’iscrizione, si deve procedere alla cancellazione. Le pratiche come quella dell’Unbr “Bota” rappresentano un abuso del diritto».
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IL TITOLO OTTENUTO A BUCAREST RISULTA RILASCIATO DA UNA SORTA DI ORDINE PARALLELO DICHIARATO FUORI LEGGE. MANCA PERÒ UNA NORMATIVA UNIFORME EUROPEA
Riscoperte
La versione di
Franca Chi fu davvero Donna Florio? La risposta nella sceneggiatura di un film firmato da Gesualdo Bufalino. E rievocato dall’autrice che ha trasformato la saga dei Leoni di Sicilia in un bestseller mondiale di Stefania Auci illustrazione di Andrea Calisi
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Riscoperte
Al centro: riprese a Palermo, in piazza Pretoria, per il film tratto da “I Leoni di Sicilia”; la scrittrice Stefania Auci; uno scatto storico di Franca Florio, con le figlie
uante Franca Florio sono esistite? C’è stata la donna, con le sue gioie e le sue sofferenze. C’è stato il mito, fatto di sussurri e di perle. C’è stata l’icona, la musa di pittori e scrittori (d’Annunzio su tutti). C’è stata la maschera, forse autoimposta, di certo vissuta sino in fondo, d’inarrivabile eleganza, di perfezione mondana. E il tutto sullo sfondo di una realtà imprevedibile come quella dell’inizio del Novecento, un’epoca troppo veloce per salvare il passato e troppo lenta a capire il futuro. Di certo, Gesualdo Bufalino aveva davanti a sé tutte queste immagini – e forse molte altre – mentre, nel 1994, scriveva la sua sceneggiatura sulla vita di Franca Florio – «Io, Franca Florio» – commissionatagli dall’americano Edward R. Pressman, produttore, tra l’altro, di «Wall Street» e «Talk Radio» di Oliver Stone, ma anche del «Cattivo tenente» di Abel Ferrara e del «Corvo» di Alex Proyas. Un film grandioso nelle intenzioni, ma poi scomparso nel nulla. Un po’ come la memoria della vera Franca Florio. Scorrendo le pagine ritrovate di quella sceneggiatura (curata con sensibilità e precisione da Andrea Traina e pubblicata dalla casa editrice Archilibri), si è portati a immaginare il tormento che Bufalino deve aver provato nel confrontarsi con la figura di Franca Florio, anzi nell’entrare direttamente in lei, come quell’audace titolo – «Io, Franca Florio» – suggerisce. La ricerca della «versione di Franca» appare tormentata e incerta: appunti, notazioni, rimandi, battute di dialogo alternate a commenti personali… Bufalino non era nuovo al cinema, non soltanto perché, fin da giovanissimo era stato uno spettatore assiduo (con tanto di «voto» a ogni film), ma anche perché aveva fatto da consulente a Sandro Bolchi e a Lucio Mandarà per l’adattamento televisivo dei «Viceré» di Federico De Roberto e aveva iniziato a scrivere la sceneggiatura di un film basato sul suo romanzo «Argo il cieco». «Bufalino sa pensare visivamente. Sa narrare per immagini», ci ricorda Gianni Canova nella sua
Donna di fascino dolorosamente umano e tragicamente concreto. Forse entrambi abbiamo sentito che di lei non si poteva cogliere altro che il riflesso 86
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illuminante prefazione al volume. Eppure qui sembra rassegnato (costretto?) a dar ragione a Jean-Luc Godard quando dice: «Una storia deve avere un inizio, un centro e una fine, ma non necessariamente in quest’ordine». Già, perché dove comincia davvero la storia di donna Franca? Quando va sposa, ingenua diciannovenne, allo sciupafemmine Ignazio Florio? E qual è il suo punto centrale? La gloria mondana, l’ammirazione dell’Europa intera o la morte dei figli? E il finale dov’è? Ma c’è davvero un finale, per una donna così complessa? Forse proprio per questo Bufalino ci mostra in primo luogo una Franca quasi sessantenne, che però «conserva sotto le rughe un bagliore dell’antica bellezza». E ci fa ascoltare la sua voce mentre gli operai portano via mobili pignorati e suppellettili, svuotando fisicamente una casa già privata dell’anima. Ma non completamente: «come soldati morti», Franca allinea infatti sulla scrivania i relitti della sua vita, dagli scrigni vuoti di gioielli, ai «vassoi colmi di fatture e conti non pagati» da un ventaglio a un carnet di ballo. E proprio come in «Carnet di ballo» di Julien Duvivier, delicato film sulla maledizione nel tempo perduto, Franca allora torna indietro, vertiginosamente: «sullo schermo sfilano in specchi d’ogni forma-
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Foto: I. Carmina, L. Cendamo – GettyImages, Archivio GBB – Archivi Alinari
QUEL FILM MAI REALIZZATO
to immagini di Franca, bambina, adolescente, donna, con acconciature varie e abiti vari, come in una galleria di ritratti che riassume la sua vita». Ecco, gli specchi: «Lo sai quanto io ami gli specchi. Quando mi guardo e mi ammiro, sono quelli i soli istanti in cui credo di esistere», dice Franca a Ignazio in una sera a Venezia, poco prima che lui consumi l’ennesimo tradimento con Vera Arrivabene. E ancora: «Mi guardavo allo specchio per non essere sola, per amarmi», commenta Franca, guardandosi nell’ultimo specchio rimasto dopo il sacco di Villa Florio. E Bufalino avrebbe voluto chiudere il film con una voce fuori campo (o con un cartello) che, tra l’altro, dice: «(Franca) evitava gli specchi per non vedersi disfatta e vinta dagli anni». Devo confessare che anch’io, nell’«Inverno dei Leoni», ho messo molte volte Franca davanti a uno specchio. Forse sia Bufalino sia io abbiamo distillato questo particolare da una fonte comune e cioè dall’unica, vera biografia di Franca Florio, scritta da Anna Pomar che, negli anni Ottanta aveva raccolto la testimonianza di Giulia, la figlia di Franca e Ignazio… Forse invece abbiamo sentito entrambi che, di questa donna, non si poteva cogliere altro che il riflesso, che nessuno poteva arrogarsi il diritto di pre-
Ritrovata tra le sue carte autografe, la sceneggiatura intitolata “Io, Franca Florio” di Gesualdo Bufalino è pubblicata da Archilibro (pp. 93, € 12). Il testo fu commissionato all’autore da Edward Pressman nel 1993. Soggetto: il racconto della vita di una donna, simbolo di un mondo ricco ed elegante
sentare al mondo una versione a tutto tondo di Franca Florio. E non perché il fascino di Franca sia sfuggente, ma proprio perché è un fascino dolorosamente umano e tragicamente concreto, fatto di lacrime e tradimenti, di umiliazioni e assenze. Non trascura, Bufalino, la concretezza della vita siciliana del tempo, la sua durezza: descrive, per esempio, l’omicidio di Joe Petrosino e racconta in modo diretto le connivenze tra la famiglia Florio e la mafia. E quando la durezza avvolge Franca, la imprigiona nel suo ruolo, le chiede di continuare a vivere dopo che suoi tre figli sono morti nel giro di poco più di un anno, non può fare a meno di raccontarla. È in questa tensione tra il riflesso di Franca nello specchio – prima desiderato e alla fine respinto – e il peso inevitabile della realtà che emerge la forza di Bufalino, la sua intima connessione con la storia che sta sceneggiando: anche qui, come sempre nella sua narrativa, l’impossibilità di conoscere la verità ha come inevitabile conclusione una poco rassegnata soggettività: «Io, Franca Florio», appunto. Titolo di un’esistenza che, come tutte le esistenze, è inafferrabile, forse addirittura indicibile. Di certo, purtroppo, di un film che non vedremo mai.
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Sarò sempre un bracconiere
Un ritratto dello scrittore Gesualdo Bufalino
Fantasmi nel cassetto Comiso, 25 marzo 1979 Caro Venturoli,
di Sabina Minardi
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n carteggio durato circa 20 anni tra lo scrittore Gesualdo Bufalino e il critico d’arte Marcello Venturoli. Uno scambio di lettere rimaste inedite, che la studiosa Giulia Cacciatore ha riportato alla luce durante ricerche presso l’Archivio della Fondazione Gesualdo Bufalino di Comiso e alla Fondazione Primo Conti di Fiesole, e che la casa editrice ArchiLibri ha appena pubblicato. Un confronto cominciato nel 1979, prima di “Diceria dell’untore” (e proseguito fino al 1996, l’anno della morte dello scrittore), indispensabile per ricostruire sia l’attività letteraria sommersa che i tratti peculiari dell’uomo. Esordiente a 61 anni e vincitore di un premio dopo l’altro: il Campiello nel 1981, lo Strega nel 1988 con “Le menzogne della notte”. Tra «dubbi, reticenze, pulsioni di obliterazione, di escamotage, di camouflage», come sottolinea Mario Andreose in prefazione. E questo saggio conferma.
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Lei è veramente (e tautologicamente!) una cara persona. Dal momento che non esita a rubare qualcosa alla propria giornata, che immagino facilmente gremita di impegni, per prolungare un colloquio non obbligatorio con uno sconosciuto di provincia. Io Le sono assai grato di questo; e dell’affettuosa radiografia che mi tenta addosso, in buona misura fedele. Anche se (ma questo Lei non poteva saperlo) la spinta a dar corpo narrativo a quelli, o ad altri più insoliti fantasmi, non è che in me sia stata rattrappita o frenata per difetto di “modo” o “coraggio”. Né ho eluso quella che da molti anni da me stesso ho riconosciuto, a ragione o a torto, come una vocazione. Creda dunque che conservo i miei bravi cadaveri nel cassetto. Solo che – ma a questo punto il discorso rischierebbe di farsi patetico – ogni mio tafferuglio con la pagina scritta (come certi amori che il possesso estingue) è stato a termine e volutamente privato. Sarà stato un precoce contatto col pensiero della morte (in gioventù ho sofferto per due anni di un male, certo di morirne); sarà un abito di
Idee La mia vita è sconvolta
Più dell’arte il calore umano
14 settembre 1981 Carissimo Marcello, … in effetti il mio proposito di silenzio s’è già incrinato, un pezzo mio comparirà sul prossimo «Espresso». Quello che comunque mi terrorizza è l’idea d’un impegno assiduo e con scadenze precise. Fra l’altro m’impedirebbe di scrivere a modo mio e secondo i miei tempi lunghi e pensati. Certo la mia vita è sconvolta. Il postino e il telefono sono i miei nuovi carnefici, me ne salverò i prossimi giorni con la fuga (un giretto di una settimana attorno all’Isola). Scusa la fretta maleducata di queste righe e credimi se rimpiango i tempi in cui potevo sedermi al tavolo e dirmi: stamattina scrivo per tre ore di lettere ai miei amici più cari (Sì, enfatizzo un po’, ma è anche vero che in questo momento stanno suonando insieme il citofono e il telefono). Insomma, parleremo a voce quando (se) verrai, passeggiando. Per ora un abbraccio Dino
Foto: G. Giovannetti – Effigie
disincanto acquistato frequentando i cataloghi d’antiquariato librario, veridici camposanti di ambizioni e commozioni sbagliate; sarà l’avarizia un po’ narcisa di conservarmi lettore unico, privilegiato, non contestabile, delle mie cose; oppure, più umilmente, la difficoltà di accesso alle segrete macchine editoriali… certo finora ho cercato meno ascoltatori che complici. Pensi che per quello stesso volumetto che Le ho fatto avere e di cui Sellerio avrebbe voluto attribuirmi la piena paternità d’autore in copertina, ho preteso il contrario, abdicando a pro’ dei due benemeriti e defuntissimi fotografi. Che voglio dire con questo? Che la pubblicazione delle mie cose, per il poco che valgono, lascio che nasca dalle occasioni, son troppo vecchio per cercarla impetuosamente. Ma ho parlato sin troppo di me (benché per Sua amichevole provocazione…) e me ne scuso. Ringraziandola dunque per l’umana simpatia che mi dimostra e che rigorosamente ricambio, Le stringo la mano e Le auguro buon lavoro. Gesualdo Bufalino
20 febbraio 1981 Caro Marcello, grazie delle parole incoraggianti, amiche. Ho proprio bisogno, di tanto in tanto, di essere contraddetto da qualche “avvocato dell’angelo” nel perpetuo e irritante processo che mi intento ogni mattino da me. D’altronde, comunque vada, convinto come sono che si scrive soprattutto per non morire, per rinviare cioè (come Sheherazade) un’esecuzione, non starò troppo a badare alle liturgie laudatorie o stroncatorie, di cui, perfino da questo mio remoto “buco nero” di provincia, intravvedo i perversi e obbligati ingranaggi. Conta di più qualche legame e calore umano: la vita, tutto sommato, importa più dell’arte, finché si vive. (...) Un abbraccio Dino (senza data) Chissà, Marcello carissimo, cosa avrò detto nella mia ultima lettera o cosa avrai creduto tu di odorarci, spaventato dalle mie querimonie, se adoperi, parlando di un tuo viaggio eventuale quaggiù, l’espressione “venirmi tra i piedi”. Ma via, Marcello. Se vieni a Comiso, sarò io a starti, per quel che mi consente la mia disgraziata condizione di neofamoso, alle costole. Tu sei un poeta e un amico. Dei buoni, dei buonissimi. E allora non temere un istante d’essere indiscreto, non copiarmi il vizio, basta uno solo, fra noi due, a peccare di “délicatesse” (Ricordi Rimbaud: par délicatesse /j’ai perdu ma vie…). Bene. Ho deciso (ma ci riuscirò?) di rifiutare tutto per tre mesi: interviste, conferenze, collaborazioni, presentazioni, inviti a cena e a letto. Ho bisogno di tirare il fiato per vedere cosa mi conviene fare della mia vita. Cioè del pezzetto che mi resta. Certo la società letteraria, per il po’ che ne ho visto, non mi spinge a nessuna militanza regolare. Farò il franco tiratore, il bracconiere… (da “Fra i miei occhiali e i tuoi occhi”, Gesualdo Bufalino e Marcello Venturoli, Archilibri)
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Luoghi magici
Dove il mondo èa
casa
Santa Maddalena, una residenza in Toscana, stracolma d’arte e di bellezza. Una straordinaria proprietaria. Una cerchia di ospiti speciali: i più grandi nomi della letteratura contemporanea di Sabina Minardi 90
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Foto: P. Agosti – Oplae / Bridgeman Images
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on diventare mai una vedova lugubre... Per amore di Grisha. Per passione per l’arte. Per gusto della letteratura, Beatrice Monti della Corte, vedova dello scrittore Gregor von Rezzori, ha mantenuto la promessa. «Ho la stessa età della regina», esordisce appena ci incontriamo, e come la sovrana è circondata dai suoi cani. Da regina assoluta si muove a Santa Maddalena, la dimora in Toscana che ha trasformato in residenza d’artista. Una culla di estro e di bellezza che stordisce il visitatore: non per sfarzo, ma per il lusso di quell’eleganza antica e intramontabile fatta di cura, storia, armonia, profumo di edera e di rose: che qui crescono arrampicate in mezzo agli ulivi. Soprattutto, è l’ombra di tante presenze ad accogliere chi arriva: ricordi di viaggio, tracce di amici, frasi e risate sospese nell’aria, e un’atmosfera dove libri, quadri, piastrelle bianche e verdi, letti siciliani,
mobili viennesi del primo Novecento e ritratti di famiglia, sembrano sul punto di animarsi, e raccontare: di un nonno italiano, in foto con la giacca da tennis a righe bianche e blu; di un avo armeno con il tradizionale fez. Di un cane più amato di altri. Di una madre bellissima, persa troppo presto. «Mia nonna era inglese, mia madre armena, morì a 25 anni di tifo, io ero piccolissima. A dieci anni andai a vivere a Capri con mio padre. Ma prima
eravamo stati in Etiopia, lui era a capo dell’ufficio studi delle rovine di Lalibela e Gondar. È lì che ho conosciuto Curzio Malaparte, amico di una vita», racconta, mostrando una foto che li ritrae in Africa insieme. Tra ceramiche di Iznik, calligrafie coraniche, tavolini intarsiati in madreperla, manufatti sopravvissuti a pagine terribili della storia, la baronessa riprende a parlare: «Vivo nel mio organizzato disordine. Fino a qualche anno fa trascorrevo l’inverno a New York. Da sinistra: Villa Viaggiavo, poi tornaMaddalena, vo qui». a Donnini, a Qui è Valdarno, una ventina terra dei Guicciardidi chilometri ni, un susseguirsi di da Firenze; lo colline alle spalle di studio di Gregor Firenze alle quali si von Rezzori; giunge, una ventina Beatrice Monti di chilometri dopo, della Corte con il marito dalla stazione di Sant’Ellero, poi via verso Donnini. «Io e Grisha arrivammo la prima volta qui nel 1967. Fu amore a prima vista. Mio marito era di origine austriaca, la sua famiglia si era trapiantata in Romania. Da quando aveva lasciato la sua terra aveva sempre vissuto da nomade. In questo luogo sentì di poter mettere le radici. Abbiamo comprato il vecchio rudere, ci siamo rimboccati le maniche». «Quando la rilevammo la casa era quasi completamente distrutta, circondata da erba alta fino al ginocchio sotto una pioggia di fiori d’acacia», scrive lo scrittore Gregor von Rezzori nel memoir “L’attesa è magnifica” (Guanda): «Le rondini sembravano aver preso possesso di tutto. Quando finimmo di sistemarla i nidi erano stati distrutti e le rondini se ne erano andate, lasciandoci con un dedalo di stalle locali corridoi e stanze». È a quel punto che 30 ottobre 2022
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Luoghi magici interviene la capacità di immaginare di un grande architetto amico della coppia, Marco Zanuso, che ridà vita ad aie, cortili, granai, a una torre del Trecento. «Ogni fine settimana partivo da Milano, per cercare di riportare alla luce quella casa. Arredare è una parola che non mi piace molto. A me sembra che si crei complicità tra chi occupa una casa e la casa stessa, con le sue pareti, i suoi spazi. E alla fine è la casa a dirci di che cosa ha bisogno», ricorda Beatrice Monti nel libro pubblicato da La nave di Teseo, “I miei scrittori e altri animali”, con le foto di François Halard e i contributi di tanti amici. «A Milano avevo la mia galleria, L’Ariete, erano anni di grande effervescenza. Li ho esposti tutti: Francis Bacon, Joan Miró, David Hockney, Antoni Tàpies, Robert Rauschenberg. Ma non volevo vivere lontano da mio marito. Lasciai la città. Il mio amico Leo Castelli si infuriò: “Ma come, molli proprio ora? Tra sei mesi saremo miliardari”». L’arte contemporanea sbuca ovunque a Santa Maddalena, tra cuscini di Tangeri, tappeti di Kabul, figure indiane, pitture secente-
“Cos’è la solitudine? Una benedizione! Sono sempre circondata da così tanta gente. E l’ironia è indispensabile alla sopravvivenza” sche di cortigiane veneziane: una scultura di Pietro Cascella, due donne nude che ballano in salotto opera di Michelangelo Pistoletto, due enormi dipinti bianchi di Enrico Castellani: minimalismo assoluto, che trasmette purezza e presenza. Inizia una stagione nuova per la coppia. Scrittura, amicizie, viaggi: dal Rio delle Amazzoni all’Afghanistan: «Sono andata due volte da sola, non c’era pericolo. Il mondo era più scomodo ma molto più sicuro di oggi». E la casa si apre a scrittori e intellettuali. «Ho sempre vissuto tra libri di tutte le lingue, ma nessuno mi ha mai detto cosa leggere: ho avuto un’educazione un po’ 92
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sgangherata. Scelgo quello che mi piace. Mi colpisce un libro, scrivo all’autore, lo invito». E gli scrittori accorrono: per settimane, mesi, ogni anno, avvolti da una grande, cosmopolita, famiglia allargata: «Ecco il mio trisnonno Pasquale Stanislao Mancini: abolì la pena di morte in Italia un secolo e mezzo prima del resto d’Europa». E lo zio, ultimo governatore del Libano. Uomini in uniforme, donne a cavallo, burattini turchi, locandine di mitici toreri. «Come abbino gli ospiti? Metto insieme persone molto simili o molto diverse: così nascono belle sorprese». A tavola specialmente, racconta l’habi-
tué Edmund White: «All’ora di cena, col vino nel decanter, i candelabri d’argento e una cena toscana, ci si incontra. Gli scrittori hanno l’aspetto stralunato e quasi extraterrestre dei guerrieri in lotta con gli angeli. Dopo qualche bicchiere di vino partono a raccontare di infanzie in Alabama o in Lettonia». Ralph Fiennes arriva qui nel 1995, con Michael Ondaatje, Antony Minghella e Kristin Scott Thomas. Isabella Rossellini è amica di lunga data. Da Colm Tóibín a Emanuele Carrère, da John Banville a Michael Cunningham («un amico vero: adora giocare a scacchi cinesi. L’ultima volta però è scivolato in cantina», dice ridendo) è un andirivieni continuo. Come conferma il libro degli ospiti: Andrew Sean Greer, Gary Shteyngart, Adam Thirlwell, Tash Aw, Dany Laferrière, Hisham Matar. A ognuno di loro, «rigorosamente non accompagnati», Santa Maddalena offre una camera e uno studio. E la possibilità di frugare tra i pensieri di chi è passato prima: lettere, appunti, cartoli-
Idee
Da sinistra: la stanza in cui amava soggiornare Bruce Chatwin; la scrittrice Maylis De Kerangal; Michael Cunningham e Andrew Sean Greer; Zadie Smith; Beatrice Monti della Corte con la Nobel Annie Ernaux
ne, i libri allineati da Cunningham, mentre scriveva “Giorni memorabili” nella stanza che fu di Bruce Chatwin: «Dormo nella sua ex camera in cima alla torre di avvistamento. Il suo spirito impalpabile abita ancora in questa stanza, qui sono io il fantasma». Di Santa Maddalena Chatwin diceva: «è il posto migliore al mondo in cui scrivere». Cunningham prosegue: «Una stanza piuttosto femminile, con le pareti a righe bianche e rosa e figure indiane ingioiellate che suonano il flauto. Una via di mezzo tra la cameretta di un’eccentrica ragazzina e un serraglio». Colori, incontri, viste spettacolari: di genius loci, saggio e selvaggio, ha parlato Maylis de Kerangal. Di casa qui è Zadie Smith: «Una figlia adottiva, l’ho conosciuta a 25 anni quando aveva pubblicato “Denti bianchi”, due milioni e mezzo di copie: era sconvolta dal successo. Le ho scritto, è rimasta tre mesi. Spero diventi lei la presidente della Fondazione Santa Maddalena», che promuove il premio von Rezzori al mi-
glior libro straniero tradotto in italiano: nel 2022 è stato assegnato a Javier Marìas: «Siamo stati molto amici. Un mese prima di morire mi ha detto: “Bisognerà pensare a un altro re per Redonda”, il regno di fantasia sulla sua isola nelle Antille. Non è mai venuto, temeva di non stare bene con gli altri. “E cosa faccio, se li odio tutti?”, rideva». Sarà pur capitato: «Pochissime volte. Ricordo una scrittrice cinese che si pacificava solo facendo incetta di prodotti in farmacia. E mi dispiacque “I miei scrittori e altri quella volta che animali” di Beatrice un’importante Monti della Corte scrittrice fu catcon François Halar e Michael Cunningham tiva con la gio(La nave di Teseo) vane Elif Batuman. Se sono
nati amori? Tendo a non saperlo. Di certo, molte amicizie». Di qui sono passati Olga Tokarczuk. E Annie Ernaux, premiata nel 2019, racconta la padrona di casa, seduta nello studio del marito, tra enciclopedie e curiosità: come una copertina del New Yorker che ritrae Tomboy, il suo primo carlino, nel disegno di Barry Flanagan. «Ho ospitato tanti traduttori: fanno da ponte tra mondi, fondamentali. Avrei voluto conoscere più botanici, per scoprire meglio la natura». E quel coltivare, così centrale nella sua vita: relazioni, bellezza. E talento: «Amo i giovani. Ogni tanto li segnalo a Edwin Frank della New York Review of Books. L’ho fatto con Bernardo Zannoni. E vi dico un altro nome da tenere d’occhio, un georgiano, Leo Vardiashvili». Un nuovo ospite arriva mentre la salutiamo: è Mateo Garcia Elizondo, nipote di Gabriel García Marquez. «La solitudine? È una benedizione, sono sempre piena di gente. E l’ironia è indispensabile alla sopravvivenza». 30 ottobre 2022
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Arte / 25 anni di Guggenheim
Bilbao, cielo e acciaio I
l modo migliore per accedere a Bilbao è percorrere la strada che dall’aeroporto arriva fino al ponte La Salve, così chiamato perché fu costruito nell’ansa dell’estuario del fiume Nervión dove i marinai che rientravano in porto vedevano per la prima volta la Basilica de Nuestra Señora de Begoña, pregando il Salve Regina alla Vergine. Superato l’Arcos Rojos di Daniel Buren, il Museo Guggenheim vi apparirà davanti avendo la meglio su tutto: sguardi e ambiente, paesaggio e sensazioni. Fu Frank Gehry a progettarlo e a volerlo in quella parte settentrionale della città dopo aver osservato il panorama dal monte Artxanda. È lì dal 1997 e da allora qualcosa è cambiato. Per la città, per la gente di Bilbao e non solo. «Il progetto del Museo è basato sul porto che era in passato Bilbao e la città che è oggi», ha spiegato l’archistar nordamericano, oggi 93enne. Il Guggenheim è l’elemento centrale dell’incredibile processo di trasformazione di cui è stata protagonista la città basca alla fine del secolo scorso in risposta alla crisi industriale ed economica che stava attraversando. Nel 1988 era una città in crisi, ingombra dei resti del porto fluviale, inquinata e degradata. C’è un articolo di giornale a cui si fa sempre riferimento che titolava: “O ci si dà una mossa, o si muore”. La mossa c’è stata eccome. Alcune reminiscenze del cosiddetto periodo di acciaio sono racchiuse in questo tempio dell’arte contemporanea che oggi – 25 anni dopo - è in perfetta sintonia con il nuovo tracciato urbano di Bilbao e con il verde Paseo de Abandoibarra come sua porta d’accesso. Il museo abbraccia il pon94
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La meraviglia di Frank Gehry ha trasformato un’oscura città industriale in una capitale mondiale del turismo e dell’arte. Un modello di rigenerazione urbana che fa scuola di Giuseppe Fantasia te dal basso e nel suo insieme è una scultura su grande scala che, a seconda del punto di osservazione e immaginazione dell’osservatore, può assomigliare a un fiore, a una nave o a un pesce senza pinne, mantenendo un dialogo con il fiume che scorre accanto. Offre sempre qualcosa di nuovo e di inaspettato e il suo colore cambia a seconda delle luci del giorno e della notte, grazie a lamine in metallo che alludono al passato industriale e portuale della zona. Durante questi 25 anni, il museo ha arricchito significativamente Bilbao con il suo apporto di valore estetico e patrimoniale e l’ha potenziata con un formidabile dinamismo culturale ed artistico, facilitando l’accessibilità e la
divulgazione dell’arte. «Ci sentiamo artefici della radicale innovazione che negli ultimi decenni ha avuto luogo nella Biscaglia nell’ambito socioculturale, in particolare per quanto riguarda la creazione e la diffusione delle conoscenze, il fomento del talento, l’integrazione e il riconoscimento di tutte le persone, così come la valorizzazione dello sforzo del lavoro di squadra», ci hanno spiegato all’unisono, durante la visita, il direttore generale Juan Ignacio Vidarte e Xabier Sagredo, Presidente di BBK che dà il patrocinio alla mostra commemorativa “Sezioni/Intersezioni”. Un vero e proprio “effetto Guggenheim” su Bilbao che ha portato a tante e ad altre costruzioni: dal nuovo
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Foto: A. Gillenea – Afp / GettyImages (2)
In senso orario: Fuente de Fuego, Yves Klein; Arcos Rojos, Daniel Buren; L’uomo di Napoli, Basquiat; Tulipani, Koons; The Matter of Time, Richard Serra; Cápsula flamenco, J. Rosenquist
terminal aeroportuale realizzato nel 2000 da Santiago Calatrava al gigantesco Puppy di Jeff Koons all’esterno del museo, che con i suoi quasi 13 metri di altezza riempiti da piante e fiori, ha avuto la meglio sui container arrugginiti che soffocavano il quartiere Indautxu. E la nuova piscina di Philippe Starck, il nuovo stadio San Mamés di César Azcárate e il futuro quartiere nella penisola di Zorrozaurre che ha lasciato nei suoi progetti Zaha Hadid, area industriale di 600mila metri quadrati a est della città il cui masterplan ne prevede la trasformazione in un quartiere urbano con 15mila residenze, uffici e laboratori per 6mila persone. Le stesse abitazioni saranno costruite a 4,7 me-
tri sul livello dell’acqua per prevenire le alluvioni, un modello esemplare che piace perché persegue la sostenibilità offrendo una qualità della vita (secondo una classifica di Ocu, Organisation of Consumers and Users) superiore a quella di Madrid e Barcellona. Qui ogni cosa parla di riconversione ecologica e di rigenerazione urbana e se si è arrivati a ciò è per la forte volontà politica e per l’orgoglio dei cittadini. Da un lato la creazione di Bilbao Ria 2000 - società pubblica finanziata al 50 per cento dal governo centrale e per il resto dalle autorità basche - dall’altro quella di Bilbao Metropoli 30 – associazione di università, organizzazioni, enti pubblici, banche e fondazioni. Il Guggenheim –
poco amato inizialmente dagli artisti, contenitore che attrae e disorienta più delle opere stesse - ha fatto il suo. Il progetto ha convinto negli anni tanti architetti, tra cui Norman Foster. È stato lui - il “creatore” dei londinesi St. Mary Axe (The Gherkin) e Millenium Bridge, del Reichstag a Berlino e di molti altri lavori - ad aprire le porte al Guggenheim e stravolgere Bilbao, progettando nel 1995 la scenografica metropolitana cittadina. Lo incontrammo ad aprile, all’inaugurazione della mostra “Motion: autos art architecture”; lo abbiamo ritrovato per questo compleanno speciale, festeggiato con una mostra che espone per la prima volta la collezione intera del Guggenheim. I curatori, Lekha Hileman Waitoller, Manuel Cirauqui, Geaninne Gutiérrez Guimarães, Lucia Agirre e Maite Borjabad, l’hanno concepita come un trittico espositivo nei tre piani dell’edificio, dedicati ad accogliere opere iconiche. L’enorme labirinto in ferro di Richard Serra (“The Matter of time”) è in pole position, così come le grandi tele di Rothko e Basquiat, le sculture di Louise Bourgeois, Anish Kapoor e Chillida, l’ipnotico paesaggio marino di Gerhard Richter e “Installation for Bilbao” - le nove colonne a luci Led di Jenny Holzer su cui vengono proiettate frasi che sembrano raggiungere il cielo - poco distante da “Sonnenschiff ”, la scultura con cui Anselm Kiefer ha raffigurato i devastanti effetti dei bombardamenti aerei della Seconda Guerra Mondiale sulla campagna tedesca. C’è “L’albero dei desideri per Bilbao” di Yoko Ono, “La grande Antropometria blu” di Klein, “L’uomo di Napoli” di Basquiat, l’ipnotico disegno di LeWitt, poco distante dalla stanza con la serigrafia della Monroe di Warhol, dal mondo colorato di Gilbert&George e dai Tulipani di Jeff Koons. Sarà un piacere entrare nella White Bubble di Ernesto Neto o nella scenografica Stanza degli specchi di Yayoi Kusama, “infiniti” come le possibilità di cambiamento e di miglioramento che ha offerto e continuerà a offrire. Perché, ripete Gehry, «l’acciaio non somiglia al cielo di Bilbao».
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Vita sul palcoscenico
Facciamo teatro per carità Un ritrovo per homeless ed emarginati. Che lottano contro la sua chiusura. Il “Ken Loach del teatro” anticipa il suo nuovo spettacolo. In arrivo a Romaeuropa Festival colloquio con Alexander Zeldin di Francesca De Sanctis
E
ccoli i piccoli grandi eroi del nostro tempo. Si chiamano Hazel, Bernard, Beth, Mason, ma potrebbero avere qualunque altro nome, perché quella sala fatiscente ricostruita sulla scena dal regista e scrittore inglese Alexander Zeldin fotografa ciò che succede in una periferia urbana del Regno Unito, ma anche quello che potrebbe accadere in ogni Paese colpito dalla crisi economica in corso: persone di ogni età in cerca di un pasto caldo, di un luogo in cui trascorrere le giornate, di uno spazio in cui vivere. «Ma non sono persone deboli, o fragili», ci tiene a precisare subito Zeldin, «sono persone forti. E non sono neanche una minoranza, perché il 25 per cento della gente che vive nel Regno Unito è al di sotto della soglia di povertà». Sono degli eroi moderni, è vero. Basta osservare il modo in cui vivono lo spazio - che ormai fa acqua da tutte le parti ed è a rischio chiusura - tra gesti semplici e slanci di fede, speranza e carità, come suggeri-
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sce il titolo stesso dello spettacolo: “Faith, Hope and Charity”, in arrivo al Teatro Argentina per il Romaeuropa Festival, dal 3 e il 6 novembre. Lo spettacolo, co-realizzato con il Teatro di Roma, chiude la trilogia “The inequalities”, composta da “Beyond Caring” (dedicato al tema del lavoro), “Love” (incentrato sulla famiglia, lo scorso anno al Romaeuropa Festival) e “Faith, Hope and Charity”, che ci racconta la vita quotidiana di una comunità capace, nonostante tutto, di ritrovare la forza per andare avanti. Zeldin - che è stato assistente di regia per Peter Brook ed è considerato il Ken Loach del teatro - lo fa a modo suo, con uno spettacolo ad alta dose di umanità e poesia. Alexander, cos’è per lei il teatro? «Il teatro è un bisogno umano essenziale, come il linguaggio, come il fuoco, come l’acqua. Il teatro per me è un modo di essere al mondo, di far vivere le mie emozioni, di stare con le altre persone e rendere visibile l’invisibile. Il teatro è una necessità».
Il suo spettacolo, “Faith, Hope and Charity”, ci porta in un luogo abitato da persone diverse che diventano comunità. Ci racconti cosa accade. «“Faith, Hope and Charity” è una commedia sulla fine di un’era. In questo centro comunitario la gente arriva e si riunisce per mangiare una zuppa, per cantare insieme. Ma il centro è minacciato dal rischio di chiusura. E questa situazione - quella di un luogo comunitario che viene chiuso per far largo al business - è un grande emblema del nostro tempo. È una storia epica di una donna che cerca di combattere contro il potere del denaro. Ed è anche la storia della ricostituzione di una famiglia di persone che si aiutano a vicenda per ritrovare ciò che avevano perso. Parliamo di intimità in tempi di austerità. Non sono storie di povertà, ma sono storie sulla fibra morale e spirituale del nostro tempo». I suoi lavori sono sempre il frutto di esperienze dirette. Ha frequentato a lungo questi luoghi? «Frequento alloggi di emergenza e
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Foto: J.M. Osorio – Chicago Tribune / GettyImages
Una scena di “Faith Hope and Charity” di Alexander Zeldin in arrivo al Romaeuropa Festival. A destra: il regista inglese (al centro della foto)
centri sociali da almeno 15 anni. E per questo spettacolo in particolare la mia ricerca è durata 18 mesi. Faccio teatro con un gruppo di persone che hanno diverse origini e prospettive, spesso sono senzatetto o persone che hanno vissuto situazioni simili a quelle che descrivo nello spettacolo, accanto ad altre che hanno scelto di diventare attori o attrici. Il mio teatro consiste nel creare un luogo di sperimentazione radicale sulle differenze. Non si può fare nella società, solo nel teatro possono incontrarsi persone che nella vita quotidiana non potrebbero. Per 18 mesi, come dicevo, ci siamo offerti come volontari e abbiamo preparato del cibo per le persone che poi abbiamo invitato in teatro per molte settimane. Ecco il mio modo di fare teatro, il mio modo di vivere la vita». Professionisti come Llewella Gideon e dilettanti, dunque, condividono lo spazio teatrale. Ma come ha scelto i suoi attori? «Per me sono tutti professionisti. Da 15 anni più o meno faccio teatro in di-
versi contesti, non vedo differenza fra un posto e l’altro. Per me il teatro si trova in diversi luoghi del mondo, è un modo per mettere insieme delle persone e per raccontare una storia nuova. Il processo creativo tradizionale (attore, regista, testo) è morto. Bisogna cercare un nuovo modello teatrale e questo include la questione dell’attore, che è al centro del teatro. Per questo ho sempre cercato di chiedere a chi partecipa: perché avete bisogno del teatro? Ho avuto la fortuna di incontrare gente di diverse origini e prospettive. La ricetta sta nella diversità». Ma di fronte alla realtà che lei racconta, di una quotidianità ai margini della società, che atteggiamento hanno le istituzioni inglesi? «Le istituzioni non capiscono, perché il governo inglese punta sull’austerità e questo vuol dire penalizzare la gente perché bisogna fare economia. Ma è una visione della società che non condivido, un’idea ereditata da Margaret Thatcher. Ma anche in Italia avete appena eletto una persona che mi pare abbia un’idea molto aggressiva della società». A questo proposito, avrà visto The Economist. Ha fatto molto discutere la prima pagina con il titolo “Welcome Britaly” che ritraeva Liz Truss con pizza e spaghetti, per indicare la decadenza della politica inglese, assimilata a quella italiana... «Ho molto amato l’Italia, la vostra cultura e i vostri artisti, e anche la vostra fibra sociale. Il sistema britannico sta arrivando ad un punto tale in cui trova solo il vuoto, servono invece nuove idee della società. Anche la monarchia
trovo che sia un’illusione, pazza, antica. Giorgia Meloni potrebbe essere il primo ministro dell’Inghilterra, sì. I due Paesi non sono molto diversi». Lei ha avuto problemi a lavorare dopo la Brexit? «Sì, molti più problemi. Per questa ragione ora vivo a Parigi. Sono artista associato all’Odéon di Parigi e al National Theater di Londra e lavoro anche in Australia, America, per me è importante per far circolare le idee. Per arrivare in Italia è stato fatto un enorme sforzo e ringrazio per questo Romaeuropa». Ha vissuto anche in Russia all’inizio della sua carriera, cosa ne pensa di questa guerra? «Putin sta dimostrando semplicemente di avere un comportamento fascista. Poi devi sapere che mia nonna e mio nonno si sono incontrati in Ucraina, negli anni Venti. Quindi una parte di me è con quel Paese. Mio nonno era ebreo, come mio padre, come me. Mio padre era un rifugiato russo, è morto quando avevo 15 anni. A 30 anni sono andato in Russia perché volevo sapere cosa succedeva là. Io sono sempre con gli artisti, ma oggi in Russia non è possibile fare arte, c’è troppa violenza politica». Sta già lavorando a nuovi progetti immagino... «In questo momento sono molto occupato con la creazione di un nuovo gruppo di lavoro internazionale, a Parigi. Il prossimo spettacolo racconterà la storia di una donna, dall’infanzia alla morte. Debutterà a Vienna. Spero possa arrivare anche in Italia».
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Tendenze letterarie
Romanzo proletario O
tto, nove ore di fabbrica. Brevi pause, caffè e sigarette. Cercare un passaggio da e per. Le telefonate dell’agenzia interinale, sempre mentre si sta riposando dopo il turno di notte. Sgusciare gamberetti. Grattare il grasso dal mattatoio. Gesti, mani, schiene, muscoli, sangue, e parole, rade, ché nel fracasso delle macchine andrebbero a vuoto. Tutto quanto, anche passare un’intera nottata a scolare tofu o succhiare una caramella Arlequin perché il tempo passi più in fretta - «come i personaggi di Beckett succhiano sassi» - è materia. Materia della letteratura, materia della poesia. Scrittore-operaio, operaio-scrittore, Joseph Ponthus, morto a 42 anni per un tumore nel 2021, ci ha lasciato “Alla linea”. Fogli di fabbrica, capolavoro e pietra miliare della letteratura working class, genere, dopo gli anni Settanta, non particolarmente di moda in Italia, un po’ meglio in Francia, Svezia e Gran Bretagna - qualche nome contemporaneo: il britannico D. Hunter, l’americana Stephanie Land e l’italiano Alberto Prunetti, che Ponthus lo ha conosciuto e raccontato, e che ha da poco pubblicato un importante lavoro seminale sulla letteratura working class, “Non è un pranzo di gala. Indagine sulla letteratura working class” (minimum fax). “Alla linea” è il resoconto, in una prosa poetica di straordinaria limpidezza, dei due anni trascorsi dall’autore «alla linea» espressione che ha sostituito quella, forse più esatta, di «catena» - nella cittadina portuale bretone di Lorient. In fabbrica, che pure diventa il suo oggetto letterario, Joseph Ponthus (un mix tra San Giuseppe, 98
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Catene di montaggio, turni disumani, lo sfruttamento dei nuovi precari. Da Ponthus a Prunetti, sempre più spesso la narrativa mette al centro il lavoro di Laura Pezzino illustrazione di The Sando patrono dei lavoratori, e Pontus de Tyard, poeta del ‘500 tra i fondatori del gruppo della Pléiade) non ci arriva per questioni ideologiche o sociologiche: «Non ci andavo per fare un reportage / Men che meno per preparare la rivoluzione / No / La fabbrica è per i soldi / Un lavoro per campare». Baptiste Cornet, il suo nome di battesimo, nasce a Reims, Francia nord orientale, in una famiglia popolare. Studia grazie alle borse perché è uno bravo, merita. Uscito dai «banchi delle élite», al posto della «carriera» sceglie di fare l’educatore di ragazzi in difficoltà al comune di Nanterre. Nel 2015 incontra Krystel, educatrice pure lei ma in un paesino della Bretagna. Un grande amore, in cambio, chiede sempre grandi scelte, così Ponthus si trasferisce a Lorient dove gli unici lavori te li offre l’agenzia interinale e, in un posto con cinque porti, il set-
Idee
Foto: G. Ippolito – Rosebud2
Da sinistra: Stephanie Land, autrice del romanzo “Donna delle pulizie” (Astoria); Alberto Prunetti
tore è per forza l’agroalimentare, prima pesce poi carne. Eppure, lavorare si deve, per pagare l’affitto, comprare i croccantini al cane. Per due anni, sfrutterà ogni momento libero per scrivere questo libro, che è diario, cronaca e poesia. Quando, nel 2019, esce nelle librerie, ne porta una copia al capo del mattatoio: il contratto, come immaginabile, si interrompe. Quello che Ponthus non avrebbe mai potuto immaginare è che quei suoi «fogli di fabbrica» sarebbero diventati un caso letterario, sparati su nelle classifiche non tanto dai critici, che ne apprezzano la qualità letteraria, ma soprattutto dai lettori. “Alla linea” è un oggetto ibrido, come solo può esserlo qualcosa che nasce negli interstizi del poco tempo liberato dalla fatica. Dentro, anche la lingua è scompaginata e multiforme: c’è quella delle canzoni di Carla Bruni e Trenet («In fabbrica canti / Cazzo se canti / Canticchi mentalmente / Urli a squarciagola coperto dal rumore delle macchine»), c’è quella della letteratura con gli amati Apollinaire e Dumas, ma c’è, anche, quella delle mense. La forma sono i versi liberi, ossa di un ritmo che è proprio la fabbrica a dettare: «In una linea di produzione, tutto si svolge molto rapidamente. Non c’è tempo per le subordinate carine. I gesti sono meccanici e i pensieri vanno in linea», dice a Libération. E, per rimanere fedele a una linea che mai va interrotta, via anche la punteggiatura. Alla linea è un lungo monologo il cui motore primo è «il bisogno di scrivere [che] si ficca tenace come una lisca in gola / Non la desolazione della fabbrica / Ma la sua paradossale bellezza». Tra i suoi modelli c’è Thierry Metz, il poeta-operaio autore di “Diario di un mano30 ottobre 2022
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Tendenze letterarie
LA VOCE DELLA WORKING CLASS
“ALLA LINEA”
Joseph Ponthus Bompiani, pp. 256, € 17
Joseph Ponthus
“NON È UN PRANZO DI GALA”
Alberto Prunetti Minimum Fax, pp. 240, € 15
“MELANCONIA DI CLASSE”
Cynthia Cruz Blu Atlantide, pp. 245, € 18
“TUTE, TRAUMI E TRADITORI DI CLASSE”
D. Hunter Alegre, pp. 144, € 15
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vale” di cui Ponthus dice: «Ricevuto oggi / Uno schiaffo», e di cui ammira: «Solo l’essenziale / Questa lingua / Ciò verso cui vorrei tendere / Queste parole / Questo silenzio del lavoro». Nato a Parigi nel 1956, campione di sollevamento pesi e autodidatta nelle lettere, Metz si era trasferito con la moglie in un paesino sulla Garonne, Agen. Qui aveva fatto l’operaio e, quando riusciva, scriveva, e tutta quella fisicità, che sembrava così in contrasto con la vocazione della scrittura, aveva finito per connotare prepotentemente i suoi scritti: «Scrivere non è che toccare» e, rivendicava, «Scrivo nell’ortica, non nella rosa». Dopo la tragica morte di un figlio, aveva attraversato la depressione, l’alcol e i manicomi e aveva finito per uccidersi nel 1997, a soli 41 anni, uno in meno di Ponthus a tutti gli effetti erede di quella scrittura manuale ed evocativa, esorcismo ma anche riscatto. In “Alla linea”, opera visceralmente politica che, raccontando la realtà in maniera consapevole, supera di fatto l’ideologia e la «politica dei partiti», Ponthus punta il dito: «Ehi Manu / Non verresti mica con noi domani mattina a spingere un po’ di carcasse che ci facciamo quattro risate insieme». Manu è Emmanuel Macron: nel 2019, i Gilets Jaunes si riunivano ancora ogni sabato per rivendicare, anche violentemente, mi-
gliori condizioni di vita. Lui stesso, Ponthus, vorrebbe esser vicino ai colleghi che scioperano, ma non può: gli interinali come lui, «esercito industriale di riserva», si collocano ancora un gradino sotto quegli operai che un contratto da dipendenti almeno ce l’hanno. Impossibile, quindi, rifiutare delle chiamate così come scioperare. Ma aggiunge: «Sarei stato felice di essere tra questi “illetterati che / Macron disprezza / Tra quelli che non lavorano per pagarsi un vestito ma un pile da Decathlon visto il freddo in cui lavoriamo». Non mancano tuttavia gli squarci di tenerezza, riservati ai colleghi, alla madre, alla moglie, al cagnolino Pok Pok. A un certo punto, paragona la fabbrica alla psicoanalisi (sperimentata in passato): da quando ha iniziato quella vita, infatti, gli attacchi di panico sono scomparsi. «La fabbrica mi ha calmato come un lettino», scrive, ma poi mette meglio a fuoco la cosa: a salvarlo, non sono stati né la fabbrica né l’analisi ma
“In una linea di produzione tutto si svolge molto rapidamente. I gesti sono veloci, meccanici, uguali. Non c’è tempo per le subordinate carine” qualcos’altro. Innanzi tutto, la scrittura. «Sono fortunato ad avere le parole», dice in un’intervista. «Se non fossi stato in grado di scrivere ogni giorno di quello che stavo passando, mi sarei schiantato sulle rive della fabbrica». Ma non solo. In questa sua parabola, così breve eppure così luminosa, Ponthus riesce pure ad afferrare una verità: «Mi rendo conto che no / Non devo nulla alla fabbrica e nemmeno all’analisi / Lo devo all’amore / Lo devo alla mia forza / Lo devo alla vita».
Foto: P. Matsas – Opale / Bridgeman Images
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Protagonisti
La mia musica per il pianeta
L’
epopea dei migranti, le guerre, l'emergenza ambientale. Sente l'urgenza dei temi del nostro tempo Ludovico Einaudi e la sua musica, anche se meditativa, sognante, strumentale, a suo modo è impregnata di passione civile. Pianista e compositore tra i più noti al mondo, 66 anni, Einaudi ha firmato oltre ottanta colonne sonore tra cui quella del film “Nomadland”, Leone d’oro a Venezia nel 2020, Golden Globe e tre premi Oscar. Il compositore non viene da una famiglia qualsiasi: figlio dell’editore Giulio e della pianista Renata Aldrovandi, nipote dell’ex presidente della Repubblica Luigi, è cresciuto a Torino e ha studiato al conservatorio di Milano con Luciano Berio, uno dei grandi maestri dell’avanguardia europea. Oggi spopola su YouTube e TikTok. Per concludere l’anno musicale, il pianista ha in programma quindici concerti quasi sold out, dal 1 al 18 dicembre al Teatro Dal Verme a Milano, assieme a lui sul palco Redi Hasa al violoncello, Federico Mecozzi al violino e Francesco Arcuri, elettronica e percussioni. Negli stessi giorni nel teatro si terrà “Climate Space”, la terza edizione della rassegna di cortometraggi d'autore sulla crisi climatica, selezionati da Francesco Cara. Storie provenienti da ogni parte del mondo sulla relazione tra natura e città, raccontate da giovani attivisti di ogni parte del mondo. «Non è vero che se hai un impegno ecologista la tua mu102
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Le colonne sonore da “Nomadland” a “La tresse”. L’impegno ambientale. Gli amici musicisti in Iran e Ucraina. “Il mio piccolo contributo per l’umanità” colloquio con Ludovico Einaudi di Emanuele Coen sica debba essere dissonante. Non avevo previsto che le mie composizioni potessero avere un rapporto con la meditazione. La musica è come un romanzo, appartiene a chi l’ascolta, ciascuno a modo suo», dice su Zoom Einaudi, cappello di feltro marrone, panciotto blu scuro, lunghe basette bianche. Abita a Torino ma in queste settimane si ferma spesso a Dogliani, nella casa di famiglia nelle Langhe, dove si trovano i suoi pianoforti e lo studio di registrazione. A quale progetto sta lavorando? «Entro novembre devo ultimare la colonna sonora del film francese "La tresse”, diretto da Laetitia Colombani e tratto dal suo omonimo romanzo tradotto in 45 lingue (edito da Nord col titolo “La treccia”, ndr). La storia di tre donne di tre diversi continenti che si ribellano alla sorte loro assegnata e decidono di lottare». Cosa significa scrivere musica per il cinema? «Devo trovare un colore che si adatta alla mia visione artistica ed è in sintonia col film. Sono tenuto a rispettare
le costrizioni dettate dalla storia, ma riesco ad esplorare atmosfere che non avrei esplorato altrimenti. Sono obbligato a uscire dalla mia comfort zone». Lei ha composto la colonna sonora di “Nomadland” di Chloé Zhao, film pluripremiato. Come è nata l’idea? «Le musiche sono basate integralmente sul mio repertorio esistente. Eravamo in pieno Covid, non c’è stato neanche modo di incontrarci con la regista. Ho visto come erano stati inseriti i brani e ho approvato le scelte. Per altri film il lavoro è stato molto più complesso». Quali ad esempio? «“Fuori dal mondo” di Ludovico Giuseppe Piccioni, parec- Einaudi, chi anni fa, una bellissima 66 anni
Idee collaborazione anche con la montatrice, Esmeralda Calabria, molto brava nel dare un ritmo al film costruito sulla musica. E poi “This is England” di Shane Meadows, un’altra esperienza memorabile. I miei brani erano legati alle parti più drammatiche del film, funzionava tutto molto bene». Come emerge dal film "Ennio" di Giuseppe Tornatore, Morricone aveva un certo complesso di inferiorità rispetto ai compositori di musica colta. Le colonne sonore sono musica di serie B? «Credo che la sua convinzione fosse il frutto della sua visione personale. Le musiche che Morricone ha scolpito, quei colori così forti li ha tirati fuori nel cinema. Le sue composizioni più seriose risentono di un aspetto accademico che forse le rendono meno interessanti». Esistono film che ha molto amato di cui avrebbe voluto scrivere le musiche? «Certo. Film epocali come “Blade runner”, con la colonna sonora di Vangelis. E molte pellicole di fantascienza, da “2001 Odissea nello spazio” a “Interstellar”. Poi ammiro molto lo studio sul suono in “Dunkirk”, film di guerra di Christopher Nolan. Mi intriga il rapporto tra musica e suono in generale, il desiderio del regista di creare un affresco sonoro che mescola rumore d’ambiente e musica». Cosa ascolta nel tempo libero? «Sono onnivoro, ascolto musica con libertà, senza pregiudizi. Mi appassiona una nuova registrazione dell’Arte della fuga di Bach, ma
anche le canzoni di Jon Batiste o Harry Styles: ho una figlia quasi teenager che lo ascolta e dunque lo ascolto con piacere. E poi ho amato molto i Radiohead. Non mi piace ascoltare i compositori che fanno cose analoghe alle mie, preferisco avere la mente sgombra». Per l'Underwater Tour ha fatto decine di concerti in tutto il mondo, in Italia sono stati ospitati in riserve naturali, parchi, anfiteatri. Non è pericoloso portare il pubblico in spazi incontaminati? La scorsa estate Jovanotti è stato duramente criticato dagli ambientalisti per il Jova Beach Party. «Abbiamo raccomandato agli spettatori di arrivare a piedi, con un accesso contingentato. Ogni volta che si organizza un concerto bisogna porsi la questione dell’impatto ambientale. I concerti vengono organizzati da associazioni locali che rispettano il territorio, per far scoprire al pubblico luoghi da valorizzare». Tra le 2.500 proposte in risposta al vostro bando per la rassegna di cortometraggi “Climate Space” sulla piattaforma FilmFreeway, una su cinque viene dall'Iran, dove lei ha suonato nel 2018. Cosa pensa della situazione attuale? «Siamo rimasti sorpresi dalla quantità di risposte, la gente cerca un’occasione creativa per andarsene, con lo spirito o fisicamente. Dei concerti ho un ricordo fantastico, un pubblico caloroso come poche volte ho visto nella mia carriera. Oggi mi scrivono in tanti dall’Iran, vorrebbero scappare, sono in contatto con alcuni amici musicisti. E mi scrivo anche con amici musicisti in Russia e in Ucraina. Sono diversi i fronti aperti, nel mio piccolo sono pronto a offrire aiuto». La musica può fare qualcosa per avvicinare i popoli? «Forse è un’ambizione troppo alta. Mi fa piacere sapere che la mia musica è di conforto in situazioni drammatiche, che possa lasciare qualcosa nell’animo delle persone. È questo il mio piccolo contributo per l’umanità».
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Bookmarks/i libri A CURA DI SABINA MINARDI
BIOGRAFIA DEL MEDITERRANEO In una vita, nell’arco di un giorno, l’intreccio di lingue, commerci, fedi della culla della civiltà. “La Triomphante” DI CHIARA VALERIO
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l 26 luglio 1956 il presidente Nasser avrebbe pronunciato ad Alessandria un importante discorso per annunciare la nazionalizzazione del canale di Suez... Quel giorno avrebbe avuto fine ufficialmente una realtà anomala e fragile come la società cosmopolita alessandrina... La storia de “La Triomphante” di Teresa Cremisi si racconta in breve: una bambina piena di curiosità e appassionata di ricci di mare e battaglie navali nasce ad Alessandria d’Egitto, decide in giovanissima età di battezzarsi perché stanca di trascorrere l’ora di religione a guardare formiche sola in giardino, in seguito alla nazionalizzazione del canale di Suez si trasferisce in Italia con i genitori, per lei è più facile per loro meno, studia, si innamora, si sposa, intraprende una favolosa carriera, e torna a contemplare i ricci di mare in una piccola scogliera nel Sud Italia, anzi, il riccio è l’animale in cui si identifica. Il romanzo è scandito in cinque capitoli che seguono l’arco del giorno. Mattina presto, Tarda mattinata, Pomeriggio, Nove di sera, Mezzanotte e mezza. L’ultimo è una poesia di Kavafis. Anche l’Iliade, d’altronde, si racconta in breve, un uomo parte dall’isola di cui è re, incontra dei, semidei, donne e uomini, si innamora di alcuni e uccide altri e quando torna sull’isola lo riconosce
solo il cane. Dal che si capisce che i romanzi non sono una trama ma almeno tre cose: l’invenzione di una lingua, l’invenzione di un tempo, l’invenzione di una storia. La voce narrante è spavalda come solo i malinconici, curiosa quanto solo i freddi fatalisti, noncurante solo come chi ha vissuto una infanzia straordinaria. Ossimori, quiete, avventura. Non è interessante sapere, per chi legge, quali memorie appartengano a Cremisi, e quali – aneddoti, parole, fastidi, amori – ad altri, è appassionante l’insieme, navigare o solo galleggiare sul meticciato di fatti e invenzioni e rendersi conto che questo meticciato è ciò che per secoli è stato il Mediterraneo. Incrocio, ragionato e occasionale, di lingue e umori, povertà e ricchezza, intellettualità e commercio, religioni e ateismi. La soffusa luce dorata riverberata da molte appartenenze e nessuna identità. “LA TRIOMPHANTE” Teresa Cremisi Adelphi, pp. 185, € 12
Il lungo viaggio clandestino dei file di Edward Snowden ricostruito attraverso una rete di persone che utilizzava il servizio postale statunitense. Un paradossale cammino, nell’epoca digitale e per una vicenda che scoperchiava la sorveglianza capillare dei cittadini da parte del governo statunitense, raccontato proprio attraverso gli sforzi di chi ha portato i leaks alla luce. Perché nell’era del controllo è la fiducia nei rapporti umani il vero patrimonio di libertà. Trad. G. Diano.
Il postcolonialismo e la rilettura critica di pagine orrende della storia, l’umanità spesso cancellata, raccontati attraverso il faccia a faccia tra l’autrice, giornalista peruviana, e un suo prestigioso avo: l’esploratore Charles Wiener. Si parte alla vigilia dell’Esposizione universale di Parigi, nel 1878, con un vero e proprio zoo umano tra le sue attrazioni. Si approda a oggi, nel museo che riunisce la collezione Wiener. In viaggio nell’identità, nel senso di colpa, nella cultura.
Ritrovare la penna secca, caustica, vitale e necessaria di Vitaliano Trevisan nella sua opera postuma. Affondare in questo nuovo romanzo-reportage, sguardo che scava e accoglie per comprendere, senza rimandare al futuro (“non ho mai saputo né vederlo né ritrovarlo”). Appassionarsi ai suoi “giri di frase che ricordano Escher”, per una storia che mette al centro la tratta delle nigeriane, “effetto concreto, sul marciapiede, della globalizzazione”. E sentirne la mancanza.
“SNOWDEN’S BOX” Jessica Bruder-Dale Maharidge Edizioni Clichy, pp. 219, € 17
“SANGUEMISTO” Gabriela Wiener (trad. E. Tramontin) La Nuova frontiera, pp. 182, € 17,90
“BLACK TULIPS” Vitaliano Trevisan Einaudi, pp. 221, € 17 30 ottobre 2022
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Spese e risparmi
Una donna prepara la vendita online di alcuni oggetti di seconda mano da esporre online
COMMERCIO
Per il clima e per la tasca La battaglia contro gli sprechi fa volare il mercato dell’usato Dall’hi-tech alla moda, tornano in auge gli scambi di oggetti di seconda mano. Online e nei negozi. Affari per 24 miliardi di euro. E nella lotta a ridurre gli scarti alimentari spopolano i box con gli avanzi di giornata di Maurizio 106
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Di Fazio
Storie
Foto: Getty Images
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ome cambiano, come tornano i tempi. Ricordate i mercatini delle pulci, le bancarelle rionali, i bric-àbrac di paese non per vezzo ma per bisogno radicato di massa? Quando l’arte quotidiana dell’arrangiarsi significava una semi-povertà diffusa, un micro-capitalismo informale e il retaggio di antimoderne consuetudini rurali. Fotogrammi di un lungo dopoguerra che sembrava essere archiviato alle nostre spalle. E invece oggi l’economia di seconda mano si va riprendendo il centro del palcoscenico, complice, mutatis mutandis, l’egemonia digitale. Vi si ricorre
per l’inflazione, la corsa dei prezzi, i rincari vertiginosi dell’energia e delle bollette. Nonché per l’esigenza sempre più stringente di smetterla di inquinare il pianeta. Bando ai rifiuti e allo spreco, ai consumi ridondanti e impattanti. Allungare la vita degli oggetti inutilizzati allunga anche la nostra vita: migliora la salute e il sentimento civico. Non possiamo più far finta di essere sani, direbbe Gaber. Il discorso si iscrive nel più vasto fronte dell’economia circolare e sostenibile. Riciclare, recuperare, riparare. Secondo un’inchiesta di Altroconsumo relativa al giugno di quest’anno, il 70 per cento degli interpellati ha acqui-
stato o venduto articoli di seconda mano: elettrodomestici, tecnologia, vestiti o mobili. La tendenza decolla tra i 35-44enni e tra i giovanissimi: il 65 per cento degli appartenenti alla cosiddetta generazione Z si dichiara, infatti, un habitué. Ma questa forma alternativa di e-commerce riscalda pure il cuore dei boomers e di una platea indistinta dominata dai laureati (68 per cento). L’anno scorso ha radiografato lo stato dell’arte un osservatorio ad hoc condotto da Bva Doxa. Sono quasi 23 milioni gli italiani attivi nella second hand economy, e il 66 per cento di loro ha puntato direttamente sull’usato. Per il 15 per cento era il debutto. Un modo etico, pulito e smart di fare spazio in garage e nel guardaroba, riconferire un valore a merci obliterate, guadagnare qualcosa in una congiuntura storica non certo favorevole. Nel 2021 il fenomeno ha generato nella penisola un valore economico di 24 miliardi di euro, trainato da sempre più fulminei e semplificati affari online. Le motivazioni soggiacenti sono, in primis, il risparmio (56 per cento) e la contrarietà agli sprechi (49 per cento). Se guardiamo al guadagno pro-capite, la stima media ammonta a 1.121 euro. Ed è alto il livello di fidelizzazione: oltre il 70 per ceto afferma di avere comprato almeno lo stesso numero di oggetti dell’anno precedente. L’eldorado dell’economia di seconda mano si è spostato su Internet. Sterminata la lista dei siti e delle app dedicate. A cominciare dalle piattaforme generaliste, l’equivalente elettronico dei mega-centri commerciali votati al discount. Una delle più importanti, anche per anzianità, è Depop, ex startup tricolore fondata nel 2011 da Simon Beckerman nell’incubatore veneto H-Farm. Oggi vale oro: l’anno scorso ne è stato annunciato l’acquisto da parte dell’americana Etsy. Interfaccia grafica simile a Instagram, le sue specialità sono gli indumenti e poi i prodotti di bellezza, i libri, i film. Subito.it resta il mercatino nazionale dell’usato per anto30 ottobre 2022
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Spese e risparmi
In vendita indumenti e accessori online con tanto di prova a beneficio degli acquirenti
nomasia, dove vendere e acquistare qualsiasi cosa grazie a un catalogo alimentato perpetuamente da milioni di annunci, ramificati in 37 categorie differenti. È stato stimato (l’equazione può essere estesa all’intero comparto) che i 26 milioni di oggetti smerciati su Subito nel 2020 abbiano innescato un risparmio di 5,4 milioni di tonnellate di Co2. Sulla stessa falsariga, sin da giorni pionieristici, eBay, il portale americano di vendite e aste online lanciato nel remoto 1995 da Pierre Omidya (in Italia è cliccabile dal 2001). Come noto, si possono attraversare oceani di inserzioni di articoli usati (e nuovi) e acquistarli immediatamente, buttare lì una proposta d’acquisto o metterli all’incanto. Quindici milioni in assoluto, un milione gli utenti nel Belpaese dove è sbarcata nel settembre del 2021: creata in Spagna nel 108
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2013, Wallapop si fregia di un magazzino virtuale e post-fordista da 180 milioni di prodotti caricati. Mentre Amazon Warehouse è la succursale del colosso di Jeff Bezos consacrata allo shopping scontato di merci di seconda mano, con la confezione aperta.
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ostiene Coldiretti che nei nostri bidoni della spazzatura finiscano 31 chili di cibo per persona. Ben 31 miliardi di euro l’anno. Per non dire delle pietanze scartate senza posa dalla grande distribuzione organizzata per mere questioni estetiche, come il packaging danneggiato. O dei piatti rigettati dai ristoranti a fine serata. Lo spreco alimentare è uno dei 17 obiettivi per lo sviluppo sostenibile previsti dall’Agenda 2030 dell’Onu. Si battono per questo traguardo
istituzioni del terzo settore come il Banco alimentare, mense pubbliche e strutture caritative e dal 2016 è in vigore una legge, la 166. Ma non basta. Spesso viene perciò in soccorso l’eterogenesi dei fini online. Incarnata per esempio dall’applicazione danese TooGoodToGo, in Italia dal 2019. Nel tardo pomeriggio o a inizio serata, pasticcerie, panetterie e supermercati mettono in vendita a prezzi stracciati (la riduzione è di circa il 70 per cento) un pacco a sorpresa con le eccedenze di giornata. A settembre sono stati circa 500 mila i pasti preservati così dal macero. E il difficile quadro socio-economico aiuta. Deesup è un marketplace made in Italy (a Milano) specializzato nella compravendita dei prodotti di arredamento per la casa. Disponibili pezzi usati di ogni tipo, «il principio del resale applicato all’arredo di
Storie
Abiti esposti in uno dei mercati dell’usato di catene in franchising
gamma. Il nostro intento è di rendere il design più democratico», si legge nel sito. In base alle stime, soltanto negli Stati Uniti il mercato second hand nella moda varrà 64 miliardi di dollari nel 2024. L’app del momento in materia è Vinted, nata nel 2008 a Vilnius, la capitale della Lituania, ma divenuta à la page ultimamente.
Foto: Getty Images, Shutterstock
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ono sei milioni e mezzo i nostri concittadini che hanno incassato fin qui un po’ di euro supplementari svuotando armadi e cassetti e si sono permessi il lusso di una borsa, un paio di scarpe, un trench, un maglione o una camicia firmata a prezzo di fabbrica. La spedizione è a carico dell’acquirente, con zero costi di commissione per chi vende; le transazioni (come accade nelle principali applicazioni) sono tutelate dalle frodi più invalse.
Comprare hi-tech ricondizionato è una mossa virtuosa specialmente in questo periodo di de profundis degli approvvigionamenti di semiconduttori e chip vari. A parte qualche eventuale e trascurabile usura, si risparmia fino al 50 per cento, la garanzia minima è di un anno e pazienza se non ci si mette in tasca l’ultimo strombazzato modello (imperdibile fino all’ulteriore e imminente uscita). Una delle stelle polari è Refurbed, fondata a Vienna nel 2017. Se non disdegnate uno smartphone, un pc portatile, un tablet rigenerato “come nuovo” e più vantaggioso del 30 o del 40 per cento dell’originale (e di per sé più sostenibile), è questo uno degli indirizzi che fa per voi. Con una vetrina che supera i 18 mila prodotti, arricchitasi adesso di strumenti riplasmati per la cucina e l’abitazione come le macchine da caffè
e gli aspirapolvere. Per ogni acquisto effettuato viene promessa la messa a dimora di un albero per la riforestazione dei Paesi più afflitti dai cambiamenti climatici. Intanto ritrova smalto e slancio anche il caro e vecchio universo della seconda mano offline, riveduto e corretto. Da un lato il passaparola, gli annunci sui muri, le bacheche sui giornali, le fiere e i negozietti di provincia; dall’altro l’inesauribile vague del vintage, le boutique metropolitane che sfornano vestiti pagabili al chilo e i grandi festival ammantati di concept contro l’obsolescenza programmata e l’apocalisse ecologica ed economica altrimenti in agguato. Tirando giocoforza la cinghia, forse i nostri nonni e bisnonni avevano capito tutto. Sgravarsi del passato per proiettarsi nel futuro.
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Il suono delle città IL REGOLAMENTO
Com’è triste Venezia Al macero gli strumenti degli artisti di strada Pugno di ferro in Laguna. Avviate in discarica le attrezzature degli abusivi. E scoppia il caso. “Doniamole a scuole e comunità”
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hissà che cosa ne penserebbe la compositrice Lucia Ronchetti, direttrice della Biennale Musica, che per la rassegna di quest’anno, intitolata Out of stage, ha dato spazio a lavori e progetti concepiti fin dall’inizio lontano dai palchi tradizionali, per trovare ospitalità in biblioteche e forti militari, al conservatorio e in teatri nei parchi di periferia, a Mestre così come a Venezia. Chissà cosa può pensare nello scoprire che a Venezia a chi suona per strada, a chi si inventa un palco in cui esibirsi tra le calli e i campi della città, spesso viene resa la vita difficile, vengono inflitte multe e sequestrati gli strumenti. E, ancora peggio, questi strumenti vengono distrutti. Solo negli ultimi cinque anni, sono più di cento gli strumenti musicali mandati al macero. Chitarre, violini, mandolini, fisarmoniche, sequestrati agli artisti di strada e poi inviati in discarica. La notizia è emersa alla fine di agosto, dopo che il consigliere comunale di opposizione (in quota Partito Democratico) Paolo Ticozzi ha chiesto un accesso agli atti, scoprendo il triste destino degli strumenti confiscati, almeno un centinaio distrutti tra il 2017 e il 2022. È questo ciò che prevede il regolamento comunale che norma l’arte di strada a Venezia. La distruzione degli strumenti è solo l’extrema ratio, la sanzione applicata a quei musicisti di strada che hanno ripetutamente infranto il
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De Vidi regolamento comunale senza pagare le multe. Ma è certamente inquietante il valore simbolico di un provvedimento del genere, in una città come Venezia che vive anche della sua fittissima relazione con l’arte e la musica. «È barbaro sequestrare gli strumenti, però una cosa del genere non si è mai vista, peggio che distruggere gli strumenti musicali c’è forse solo la distruzione dei libri», osserva Ticozzi. «Piuttosto doniamoli alle scuole, oppure diamoli alle varie comunità di minori stranieri non accompagnati». Cita il progetto di un’associazione locale, Voci dal Mondo, un coro multietnico che ha sede a Mestre, che nell’estate del 2021 ha ideato una carovana della musica giunta fino a Sarajevo, con l’intento di portare strumenti musicali donati ai richiedenti asilo bloccati lungo la rotta balcanica, nei campi della Bosnia Erzegovina. «Possono esserci dei modi belli per riutilizzare questi strumenti, anche se non sono di particolare pregio». Marco Agostini, comandante della polizia locale a Venezia, spiega che «a volte questi strumenti sono collegati a figuranti», autori di truffe, «molti dei loro strumenti sono poco in pessimo stato, dunque l’unica destinazione che possono avere è l’inceneritore, insieme a tutte le altre merci che noi sequestriamo per diverse ragioni». Tra i musicisti di strada, in una città come Venezia, esistono tipologie di-
Foto: Peter Delius / Alamy / IPA
di Marco
Storie
Musicisti di strada tengono un concerto a Venezia
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Il suono delle città versissime. Da professionisti che suonano strumenti antichi, a studenti del conservatorio, fino a visitatori stranieri e turisti che provano a racimolare qualche soldo strimpellando. L’autorizzazione per l’esercizio dell’arte di strada da parte dell’amministrazione comunale è obbligatoria: non averla comporta sanzioni, che aumentano con la reiterazione delle violazioni. «Il regolamento è molto restrittivo e sanzionatorio», osserva Ticozzi. «È un regolamento che vieta. Ed è per questo che va completamente rivisto. Credo che l’espressività vada tutelata, così come il diritto del cittadino alla quiete e al riposo. Per com’è fatta la città, dove soprattutto il centro storico è un palcoscenico naturale, tutto questo va gestito meglio».
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Venezia ad esempio è vietato qualsiasi tipo di amplificazione per gli strumenti. I limiti orari sono molto rigidi: il musicista di strada può restare fermo a suonare nello stesso posto per un periodo massimo di due ore, solo tra le 9 e le 20, con tre ore di stop obbligatorio durante la pausa pranzo. Sono imposte delle distanze minime da luoghi come ristoranti e bar, chiese, banche, difficili da rispettare a causa della conformazione della città. I permessi rilasciati dal Comune sono solo una decina al mese, tutti gli altri sono costretti ad aspettare i round di approvazione successivi. Tra le categorie di artisti permesse, oltre ai pittori, ci sono «suonatori, cantanti, burattinai, giocolieri, madonnari», cioè quegli artisti che disegnano per terra soprattutto immagini sacre, ormai scomparsi, almeno tra i campielli veneziani. Il regolamento andrebbe sicuramente aggiornato. Quello in vigore risale al 2007, approvato durante l’ultima amministrazione del sindaco Cacciari dall’assessorato alle politiche giovanili, rifacendosi alle legge numero 689 del 1981, sulla depenalizzazione del procedimento sanzionatorio amministrativo. Ed è solo qui che si parla della possibile distruzione dei beni sequestrati. Con il mandato di Giorgio Orsoni e il 112
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commissariamento del prefetto Zappalorto, dopo il maremoto dello scandalo Mose, il tema è passato decisamente in secondo piano. Oggi la competenza sul regolamento sull’arte di strada è dell’assessore Paola Mar, con delega al Patrimonio (che ha comunicato di non essere disponibile per un’intervista sull’argomento con L’Espresso). Già, perché la competenza sul regolamento ricade sotto questo assessorato, dato che l’assessore alla Cultura ad interim è lo stesso sindaco Luigi Brugnaro, che con l’avvio del secondo mandato nel settembre del 2020 ha comunicato che avrebbe mantenuto la delega per sé. A tutto ciò va aggiunta la singolare situazione dell’amministrazione vene-
ziana: qui, dato che l’attività della nuova giunta ha preso il via in piena pandemia, solo il primo Consiglio di insediamento si è svolto in presenza. Da allora, dopo più di due anni, le assemblee comunali e le riunione delle commissioni continuano a svolgersi a distanza, condizione anomala che rende più frequenti ritardi e slittamenti rispetto a determinati argomenti da affrontare proposti dalle opposizioni. «L’assessore alla Cultura, che sarebbe il sindaco, non l’abbiamo mai visto in una commissione consigliare dedicata alla cultura. Dopo che è stata convocata la commissione sulla mia interrogazione con l’assessore Mar è stato chiaro più o meno a tutti, anche agli esponenti della maggioranza, che
Storie
Foto: Slawek Staszczuk / Alamy / IPA, Grant Rooney / Alamy / IPA
Una band di sudamericani al carnevale di Venezia. Sopra, musicisti a Campo San Geremia
fosse necessario mettere le mani sul regolamento. Da tempo tuttavia ci dicono che ci siamo quasi, che manca poco, che ci stanno lavorando. Poi più nulla», riporta Ticozzi. Per il rinnovo del regolamento si dovrà dunque aspettare. A livello più generale, per quanto riguarda le politiche culturali a Venezia, Ticozzi osserva che «c’è sostanzialmente una non gestione, non c’è una regia, non ci sono temi su cui lavorare». Manca una direzione, una visione complessiva in cui la cultura e la musica diventino leve fondamentali in grado di indirizzare la Venezia del futuro. La musica di strada può diventare infatti un’opportunità di rigenerazione, in una città svuotata dei suoi abi-
tanti e sempre più a misura di turista. È quello che è accaduto durante l’estate appena trascorsa con Palcoscenici metropolitani, rassegna di eventi organizzati dal Comune e dalla Città Metropolitana (la vecchia Provincia) di Venezia. Tra i vari concerti e spettacoli organizzati, c’era anche la presenza di diverse marching bands invitate a suonare in alcuni dei parchi periferici di Mestre, per rivitalizzare zone della città che si trovano più lontane dal centro. La presenza dell’amministrazione tra gli organizzatori rivela un atteggiamento schizofrenico, che da un lato ostacola la musica di strada, soprattutto nelle sue espressioni più spontanee, e dall’altro la utilizza come strumento per rianimare la città.
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icozzi, che per molti anni ha organizzato eventi e festival e conosce bene il mondo dell’associazionismo, fin dall’inizio del suo mandato insiste su molti temi legati al mondo dei più giovani. «A differenza di una volta mancano ad esempio i bandi dedicati ai gruppi informali», cosa che potrebbe favorire il lavoro di associazioni e gruppi di persone che poi portino avanti progetti che siano davvero espressione delle esigenze di un territorio. E che diano spazio anche a chi
finora ne ha avuto poco, come le molte comunità straniere che difficilmente trovano luoghi e occasioni in cui riunirsi, con un’idea di città più inclusiva. Oltre al rinnovo del regolamento sull’arte di strada, qualche mese fa il consigliere Ticozzi ha lanciato la proposta di istituire un «sindaco della notte», una figura che amministri e si prenda cura della vita notturna, in una città che è molto estesa (dal centro storico di Venezia, fino a Marghera e Mestre, dove si trovano la maggior parte dei locali notturni) e che in molte zone sembra abbandonata a se stessa. Spesso si verificano risse e aggressioni tra gruppi di giovanissimi, soprattutto di notte. Mentre la città da qualche anno detiene il triste record di morti per overdose da eroina: solo nel 2022 sono stati otto i decessi. «L’idea è quella di governare alcuni fenomeni» riflette Ticozzi, «di favorire la vita culturale in città, di agevolare i trasporti. Secondo me c’è molto da lavorare sul tessuto sociale, per andare verso un’idea di città in cui si vive bene, dove ci sono proposte culturali, dove uscire la sera sia sicuro». Che sia la musica la formula magica in grado di spezzare l’incantesimo che ha reso Venezia una città smarrita? Forse, ma per prima cosa deve salvare i suoi strumenti musicali.
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Paesaggio italiano
CASTELNUOVO DEI SABBIONI
La miniera, la strage nazista, il lago La seconda vita del borgo che ora rinasce dal suo passato In Toscana la frazione di Cavriglia che ha ottenuto 20 milioni del Pnrr. Per far rivivere una comunità simbolo: dai cavatori di lignite, alla deportazione forzata dell’industrializzazione. Passando per le atrocità tedesche di Donatella
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Chiappini
Storie Panorama della miniera e della centrale di Santa Barbara. A sinistra, il bacino minerario di Castelnuovo, frazione del comune di Cavriglia, nelle foto del Mine, il museo delle miniere e del territorio
Foto: cortesia MINE museo delle miniere e del territorio, Fondo E. Polverini
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a Grande Bellezza non c’entra. E neppure l’attrattiva turistica. Ciò che ha fatto la differenza, cambiato il paesaggio, la gente e perfino il nome dello spopolato borgo toscano in provincia di Arezzo, piazzato nella Valdarno proprio a ridosso del Chianti, è la sua tragica e specialissima storia. Con quella, Castelnuovo d’Avane - ribattezzato Castelnuovo dei Sabbioni - ha cominciato una second life di “rigenerazione culturale” da venti milioni di euro, messi a disposizione dal Mibac grazie al Pnrr. Perché qualche mese fa il paese (una frazione di Cavriglia) ha vinto il Bando dei borghi, opportunità delle misure post Covid-19. Il denaro l’aiuterà a far riemergere, di qui al 2026, il passato e a trasformarne il futuro. Ma l’urgenza ora è realizzare il progetto di recupero che ha tanto convinto i funzionari dell’ex ministro della Cultura,
Dario Franceschini, da surclassare ben 42 proposte presentate dalla Regione Toscana per rianimare altrettanti luoghi. «Il piano si chiama Avane Centrale di creatività e include una Casa della memoria, un albergo diffuso, botteghe artigiane, due ristoranti, un nuovo sacrario, abitazioni per il cohousing sociale, spazi per artisti contemporanei, un centro documentazione. Stiamo lavorando con il sindaco Leonardo Degl’Innocenti o Sanni all’iter delle gare: a settembre 2023 si parte con i lavori», racconta Filippo Boni, vicesindaco di Cavriglia che alle disgraziate sorti del villaggio abbandonato ha dedicato anni di studi ed energie, nonché un bel libro edito da Longanesi (Muoio per te, pubblicato nel 2021). Un passo avanti guardando indietro, per ricucire strappi e abbandoni, silenzi e affossamenti bellici. Per sanare ferite, per ricomporre identità e cancel-
lare voragini lasciate da oltre un secolo di sfruttamento del suolo. Quando, sotto il sole di ottobre, si arriva in cima alla salita, dove restano le mura slabbrate, qualche facciata, il museo, la targa commemorativa con i nomi delle vittime e i tetti di Castelnuovo, si capisce perché la mattina del 4 luglio del 1944 i nazisti fermarono i camion in fondo all’abitato. Le stradine erano troppo ripide. Salirono a piedi, sfondarono porte, irruppero di casa in casa, rastrellarono tutti gli uomini che trovarono: settantacinque. Tra loro c’erano contadini, minatori, sfollati da luoghi già martoriati. C’erano ragazzi terrorizzati, il macellaio, il barbiere, il panettiere, gli artigiani e il parroco Bagiardi. Don Ferrante implorò i tedeschi, si offrì in cambio della liberazione dei compaesani. Non se ne fece nulla. Le donne furono cacciate, si nascosero nel cimitero più a monte. Gli adulti 30 ottobre 2022
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Paesaggio italiano
che erano impegnati a lavorare nelle gallerie di lignite, militarizzate fino al 1944, non furono prelevati. I nazisti della divisione Hermann Göring spinsero in massa i prigionieri sotto la chiesa. Li addossarono al muro. Alle nove del mattino, da una mitragliatrice MG 42 partirono le prime raffiche, seguite da una sequenza di fucilate. I colpi mortali sui sopravvissuti che giacevano a terra. Gli uomini si accasciarono uno a uno. Solo un ragazzo di 17 anni, Aldo Dini, ultimo della fila dei prigionieri riuscì a scappare. «Si salvò perché andando verso il muro dalla parte sinistra vide il portone del palazzo attiguo semi aperto e s’infilò dentro. È ancora vivo, è mio zio, ha 95 anni», racconta oggi l’assessore al Turismo e all’Istruzione, Paola Bonci del Pd. Quel porto116
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ne, dell’ex palazzo Zanuccoli ancora miracolosamente integro, sarà l’ingresso della Casa della memoria. Per completare “il lavoro di bonifica” disumana del capitano Wolf, che interessò diversi comuni del Valdarno e non solo, quell’afoso giorno del 1944 i tedeschi ammucchiarono i settantaquattro corpi, li cosparsero di benzina e li bruciarono. «Dopo una settimana mio padre Mario e altri paesani caricarono sul barroccio i resti del massacro per seppellirli in una fossa comune ai Camonti», sussurra a testa bassa Alfonso Biagioni, 84 anni, ex insegnante che si è arrampicato fin qui con il suo bastone per condividere il dolente racconto. Per l’eccidio nessuno ha mai pagato, né si è celebrato alcun processo perché poco si seppe delle stragi toscane fino
a metà degli anni Novanta, quando grazie anche al ritrovamento di documenti nascosti e alla collaborazione di un soldato alleato (Maurice Goran Nash, cittadino onorario di Cavriglia morto per Covid-19 a 96 anni) fu fatta luce sull’orrore di quei giorni.
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a c’è un altro dramma che ha segnato la storia di Castelnuovo d’Avane, uno stillicidio arrivato dalle viscere della terra con la lignite xiloide, carbone fossile su cui da metà Ottocento si è fondata l’economia del borgo. E che ne ha decretato la fine. A raccontare con foto, video, testimonianze e oggetti l’epopea delle miniere e del paese è il Mine (Museo delle miniere e del territorio: www.minecavriglia.it), struttu-
Storie
Foto: cortesia MINE museo delle miniere e del territorio, Fondo E. Polverini
L’escavatore nel bacino minerario di Castelnuovo. A sinistra, la miniera di Castelnuovo dei Sabbioni
ra comunale ospitata da una decina di anni negli spazi dell’ex chiesa di San Donato. Sette sale e una direttrice appassionata, Paola Bertoncini, che documentano l’origine preistorica del materiale fossile, le tecniche di scavo, gli strumenti usati, i suoni delle gallerie, la dura vita dei minatori, le lotte sindacali, i guai geologici. «Abbiamo circa 3000 visitatori l’anno, una rete di scuole con cui organizziamo attività ma soprattutto conserviamo la memoria. Se non fosse stato per Emilio Polverini, ex tecnico delle miniere, che per decenni ha archiviato migliaia di foto oggi non avremmo niente», racconta la direttrice. «Qui tutto è cominciato nel 1861 quando si decise di sfruttare la lignite e i contadini si trasformarono in mi-
natori. Lo scavo in galleria fino alla Seconda Guerra Mondiale impegnò anche seimila persone arrivate dal circondario. Nacque il paese di San Barbara per dare loro alloggio», prosegue lo scrittore-vicesindaco eletto nella lista civica “Insieme per Cavriglia”, Filippo Boni. La fatica, il buio del lavoro a 130 metri sottoterra, la miseria, la Grande Guerra, le malattie, la strage nazista, la Società di mutuo soccorso e la metamorfosi geologica che ha creato un lago dove c’era la cava e modellato colline mai viste prima. Ultimo evento degno di nota: il film Ivo il tardivo, girato nel borgo abbandonato da Alessandro Benvenuti nel 1995, di cui restano alcuni cruciverba-murales tra i ruderi. «Alla Dispensa, il quartiere costrui-
to per i minatori, eravamo 120 famiglie, c’erano gli operai e i tecnici. Io da ragazzino abitavo nella parte bassa. Molti alloggi degli anni Venti avevano il pavimento in terra rossa, altri erano tirati su in laterite. Si stava insieme. Una comunità forte. Divisa nel Dopoguerra tra comunisti e democristiani, le tensioni non mancavano ma neppure la solidarietà. Codeste case basse erano tuguri. Poi fu impiantata la centrale termoelettrica a Santa Barbara, a pochi chilometri dal giacimento (un’opera avveniristica di Riccardo Morandi, ndr). E quando a inizio anni Sessanta ci trasferirono - chi a Camonti e chi altrove - per il rischio di crolli. Noi eravamo contenti per le comodità moderne», ricorda lentamente Alfonso Biagioni. La zampata della modernità, e del successivo sfollamento di Castelnuovo d’Avane, si era manifestata già nel 1956. Quando, per far ripartire l’Italia, con il piano Santa Barbara si avviò l’estrazione della lignite a cielo aperto: 450 milioni di metri cubi di terra furono sbancati da Enel, titolare della concessione, per estrarre carbone. «E il paese fu mangiato dalle ruspe», aggiunge Alfonso: «L’Ater ci diede le case e una pioggia di 49 milioni di lire. Arrivò qui anche Fanfani. Negli anni Settanta nel villaggio c’erano solo un paio di famiglie. L’ultimo ad andarsene fu Rambaldo Macucci. Poi l’Enel mise il filo spinato». Una recinzione rimasta lì fino al 2003 quando il Comune di Cavriglia ha riacquisito dall’azienda elettrica il borgo, per poi trasformare la Chiesa di San Donato in auditorium annesso al museo Mine inaugurato nel 2012. «Fu l’inizio di un piccolo Rinascimento grazie a un fondo regionale e a uno comunale», spiega il sindaco Leonardo Degl’Innocenti o Sanni: «Ora si aspetta il completamento. Siamo felici del finanziamento del Pnrr. Ne beneficerà tutto il territorio e sei milioni di euro da dedicare all’attività culturale sono una conquista e una sfida. Entro giugno 2026 sarà tutto pronto. Ma, visti i tempi della burocrazia, bisogna essere ottimisti».
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Ho visto cose/tv
#musica
BEATRICE DONDI
GINO CASTALDO
LA SOLITUDINE DEI NUMERI PRIMI Anziché restare un gigante nella memoria anche “Boris 4” cade nella trappola dell’eterno ritorno
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icesi mostro sacro quel qualcosa che per il suo passato illustre incute un timore reverenziale al punto che diventa intoccabile. La divina Greta Garbo per esempio, a cui si ispirò Cocteau per l’omonima commedia. O frugando nei nostri giorni, la serie “Boris”, ri-
conosciuto monumento della satira televisiva, fontana d’ispirazione inesauribile, paniere di citazioni e risate, luogo in cui dal 2007 a oggi si è sgomitato per conquistare un posto nella prima fila dello spettatore fedele. Eppure la tendenza ostinata a voler rimettere mano alle cose ben fatte è una tentazione irresistibile a cui sembra impossibile sottrarsi. “Boris 4” (Disney +), la quarta stagione più attesa che memoria seriale italiana ricordi, parte di slancio: il cast originale ricostituito praticamente per intero, stessa ambientazione, stessi personaggi questa volta al lavoro su una rivisitazione della vita di Gesù con le mollette in testa, in cui le comparse con il crocifisso tatuato sono tacciate di spoiler. Come si dice, dif118
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ficile che qualcosa vada storto. Invece la frenata è dietro l'angolo. Perché più che una semplice scommessa, si trasforma in un puro azzardo che si poteva evitare con serenità, a dimostrazione una volta tanto che l'effetto nostalgia da solo è un po’ pochino. Non tanto perché la storia è smarmellata, le battute sono poche, i tormentoni due (“Non lo famo, lo dimo” e “Pepperoni”), gli ammiccamenti troppi e gli sprazzi contemporanei a caso, come un compito a crocette, dall’algoritmo al politicamente corretto. Quello che si digerisce a fatica è proprio il ritorno, che formalmente non tocca le fondamenta originali ma in realtà le svuota e trasforma un colosso in una blanda figurina bidimensionale. In sintesi “Boris 4” regala perle sparse, a partire dalle battute al contagocce del sempre inaudito Corrado Guzzanti (di cui basterebbe «Gesù moltiplicava pani e pesci, tutto a mente»). Ma più che una sberla satirica è un buffetto che ricorda “Gli occhi del cuore”, la fiction caricaturale sul cui set si rispecchiava il pressappochismo di un intero Paese. Quel che resta, al di là di momenti alti e struggenti su cui aleggia lo spirito indimenticabile di Mattia Torre, è un pesce rosso di diciassette anni, che se non fosse stato costretto a ricomparire nessuno avrebbe sentito il peso del tempo passato, bastava lasciarlo lì, fermo nella memoria. Come un mostro sacro.
Dalla tarantella ai Måneskin, petrolio d’Italia In un Paese sempre alla ricerca di risorse, economiche, energetiche, metallurgiche, pare assurdo che nessuno dei governanti degli ultimi 100 anni si sia accorto che in Italia abbiamo un preziosissimo petrolio da estrarre e, volendo, esportare. Il nostro petrolio si chiama musica. Potenzialità enormi, interesse istituzionale zero, da sempre. Altri Paesi, più intelligenti lo hanno capito subito e questo speciale tipo di petrolio lo hanno sfruttato al massimo, fino all’ultima goccia. Vi siete mai chiesti come mai nel 1965 la regina conferì ai Beatles, ancora giovanissimi, l’alta onorificenza MBE, ovvero venerati membri dell’impero britannico? Il motivo era molto semplice: le canzoni dei Beatles avevano contribuito notevolmente al miglioramento dell’economia del Paese. Può sembrare strano che la musica possa avere un peso nella bilancia dei pagamenti, ma è così. E non è solo una questione di denaro, ma anche di immagine, di cultura, di possibili concatenazioni. L’Italia ha un patrimonio musicale non secondo a nessuno, una ricchezza e una varietà di stili dal melodramma alla tarantella, passando per i Måneskin, sconosciuta o quasi al resto del mondo. Ma poi si dice è “musica leggera”, come ancora la chiamavano i recenti ministri della cultura, pesa poco, e con questa idiozia nella testa siamo riusciti ad esempio a non avere nelle scuole la storia della musica, la storia dell’arte sì, quella della musica no, e non esiste alcuna giustificazione plausibile a una discriminazione del genere, e per di più in un Paese musicale come il nostro. I nostri governanti hanno lasciato che nel più totale silenzio morisse l’industria discografica italiana, hanno lasciato senza neanche un singhiozzo di facciata che si spegnesse un marchio storico
Scritti al buio/cinema FABIO FERZETTI
NEL FOLLE LABIRINTO DI PIRANDELLO Tre grandi attori, Ficarra, Picone e Servillo. Un regista colto, Andò. Per un film da non perdere
C come la Ricordi, che si spegnessero la Durium, la Cgd e perfino la Fonit Cetra che era collegata istituzionalmente alla Rai ma lo ignoravano anche quelli che lavoravano alla Rai. Abbiamo lasciato che in Italia operassero solo società discografiche multinazionali. Eppure basta poco, bastano iniziative individuali che aprono finestre gigantesche, bastò a suo tempo che Pavarotti facesse un metaforico fischio e cominciarono ad arrivare a Modena star planetarie in ginocchio davanti al Maestro, è bastato che Bocelli mettesse il muso all’estero per diventare una star internazionale. È bastato che l’algoritmo del dominio anglosassone si distraesse per pochi secondi e nella fessura aperta sono passati i Måneskin, facendo saltare il banco. Non ci vorrebbe molto, basterebbe solo pensarci, basterebbe che si aprisse un piccolo ufficio in qualche ministero con la dicitura “promozione della musica italiana all’estero”, basterebbe farlo e potremmo avere risultati straordinari. Potremmo scoprire che una grande quantità di denaro comincerebbe ad affluire in Italia senza consumare materie, senza inquinare, con in più la soddisfazione di invadere pacificamente Paesi stranieri con un battaglione di cantanti.
Foto: S. Legato - GettyImages
Damiano dei Måneskin
i voleva un regista colto come Roberto Andò per fare uno dei film più divertenti degli ultimi anni, e non solo. Ci voleva un uomo di teatro e di cinema, un palermitano sensibile da sempre ai giochi del caso e agli incroci beffardi tra realtà e finzione (ricordiamo almeno “Viva la libertà” e “Una storia senza nome”), per coniugare la genesi di “Sei personaggi in cerca d’autore” alle imprese di due becchini col pallino del palcoscenico. Ci volevano, infine tre attori meravigliosi come Ficarra e Picone, i due becchini filodrammatici, e Toni Servillo, un Pirandello di poche parole e molti sguardi, per dare a questa farsa labirintica la leggerezza di una commedia, la precisione di un vaudeville, la densità (mai ostentata) di un trattatello filosofico. Che fondendo fatti storici (la “prima” tumultuosa al Valle) ad altri del tutto immaginari, riesce a gettare una luce diversa su un monumento come i “Sei personaggi”. In una cascata di invenzioni che lavora su tutti i piani del racconto, dal semplice intreccio, con i suoi esilaranti equivoci, al lavoro sugli spazi (le scenografie sono di Giada Calabria); dai dialoghi, in cui il dialetto più sanguigno si mescola all’italiano “strettissimo”, a un sottotesto pulsante anche se affidato a pochi sapienti dettagli: la moglie folle di Pirandello, la balia morta con la bocca spalancata, la gelosia persecutoria nutrita da Ficarra nei confronti di sua sorella (un’insolita ed efficacissima Giulia Andò). Fino a quel gran fina-
le in cui ogni cosa paradossalmente sembra tornare al suo posto, in una confusione forse definitiva tra realtà e finzione, vita e rappresentazione. Anche se conviene non insistere sui significati, che ci sono e, soprattutto, sono accessibili a chiunque. A brillare sullo schermo sono il ritmo, l’inventi-
va, il piacere, la generosità dimostrata da Andò (con Ugo Chiti e Massimo Gaudioso alla sceneggiatura) e dagli attori, numerosissimi e straordinari fino al più piccolo ruolo. Come se questa “Stranezza” così inattesa aspettasse in certo modo di vedere la luce da sempre. A risarcire, sull’onda di altri film importanti ispirati al teatro (“Qui rido io” di Martone, ma anche il trascurato “La stoffa dei sogni” di Cabiddu), un cinema che troppo spesso, misteriosamente, sembra anzitutto ansioso di dimenticare di cosa può essere capace. “LA STRANEZZA” di Roberto Andò Italia, 103’ 30 ottobre 2022
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Noi e Voi N. 43 - ANNO LXVII - 30 OTTOBRE 2022
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30 ottobre 2022
MELONI AL GOVERNO, DI CHI È LA COLPA Cara Rossini, devo confessarle che Giorgia Meloni mi è piaciuta. Mio malgrado, ho trovato incisivo il suo discorso programmatico e coinvolgente il tono con cui lo ha pronunciato. Sempre mio malgrado ho preso per buone le rassicurazioni sulla sua distanza dal fascismo, che ha relegato a un periodo storico, a suo dire distante e condannabile. Quel “mio malgrado” riguarda noi, cioè me, lei, le persone di sinistra che, ci scommetto, ora si chiedono: come è potuto accadere? E che cosa abbiamo fatto, o non fatto, perché ciò accadesse? Isabella Foschini Mi meraviglia la meraviglia di chi sta criticando un governo di destra pura. Cosa rappresentasse questa destra era chiaro anche prima delle elezioni. Davvero qualcuno si aspettava un governo espressione di una destra moderata e liberale? È proprio il caso di dire: avete voluto la bicicletta meloniana? E adesso pedalate! Maurizio C. Emblematico, o forse conferma di una sconfortante situazione, che il “tetto di cristallo” venga infranto dalla destra, con la sinistra che mai e poi mai in passato ha osato candidare una delle sue donne a tale carica. Cosa fatta capo ha, ora il lungo deserto che l’attende la farà riflettere su tante cose, compresa questa, se ne sarà capace. Fabrizio Antilici La premier Meloni, dietro quella faccia severa nasconde una grande fifa (paura), sa di dover governare con l’Armata Brancaleone. Si è già resa conto che stare all’opposizione è molto più rilassante perché nessuno le farebbe rilevare la pochezza dei suoi fratelli d’avventura.Salvatore Monaco E la “Resistenza” dov’era quando il Pd faceva strame della scuola, dei diritti del lavoro, quando affossava l’aumento del salario minimo? Questo tipo di resistenza è figlia di un’ipocrisia di fondo che tace quando le stesse cose, se non peggio, le attua la propria parte politica o affini. Alessandro Rizzi
Accendete un cero a Letta, a Calenda, a Renzi, a Fratoianni e soprattutto a Conte (prima ha fatto saltare il tavolo e poi lo ha distrutto definitivamente) se Meloni ha potuto afferrare il campanellino dalle mani di Draghi. Nadia Rota Il primo governo di destra della storia repubblicana spinge i nostri lettori a cercarne le cause e i responsabili. E a individuarle nei partiti del centrosinistra e nelle persone che li hanno guidati. C’è del vero e si spera che questo induca l’attuale opposizione a ritrovare il senso di sé e ad affrontare il compito che l’aspetta nei prossimi anni. Anche perché nel fiume di parole spese per autoincensare la propria vittoria, una cosa è certa: Giorgia Meloni, più che governare l’Italia, vuole cambiarla. Come lo farà, e se lo farà, dipenderà anche da tutti noi.
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Massimo Cacciari
Parole nel vuoto
Opposizione divisa e senza radici
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i è così formato il primo governo italiano presieduto da una don- ni, di confondere dappertutto res publica na, e da una giovane donna. E questo è un fatto storico, piaccia o no. e res privata. L’arrendersi agli effetti della Meditino coloro che di successi simili non sono stati capaci. Per ora globalizzazione in termini di aumento delle il “sovranismo” ha partorito un forte incoraggiamento per la dieta disuguaglianze, della “distanza sociale”, ilmediterranea e il “made in Italy”, e un vetero-paternalismo il solito, ludendosi di poterli correggere con qualche retorico appello al Dovere e al Merito. I grandi rischi per la nostra democrazia placebo. Nessuna efficace azione nell’ambito non mi sembrano proprio venire da questa destra. Ne vedo piuttosto per que- dell’Unione europea perché valessero i pilasta destra stessa quando dovrà affrontare debito e tasse. Se poi volesse metter stri della solidarietà e sussidiarietà accanto, mano a diritti ormai acquisiti dal comun sentire salterebbe per aria seduta almeno, al dogma della stabilità - e ciò fino stante. Ma non mi pare che il/la Presidente sia persona poco perspicace. all’emergenza Covid. È stata perduta la sfida Mi appassionerebbe maggiormente sapere che cosa intendano fare le oppo- di una sinistra europea all’altezza della nuosizioni. Attendere lungo il fiume il cadavere dell’avversario, magari nell’attesa va epoca inaugurata con la fine della terza che ci pensino “potenze alleate”? O piuttosto su alcuni problemi-chiave nu- guerra mondiale. Le sue macerie un po’ in trono la virtuosa intenzione di tentare un accordo? Quali siano è noto a tutti: tutti i paesi europei sono lì a dimostrarlo. la difesa dei redditi più bassi soffocati nella morsa di inflazione e recessione, Ma sfide di questo genere si perdono sempre senza dover incidere ulteriormente sul debiquando si smarrisce il “filo buono” del proto; quindi una manovra fiscale fortemente prio passato. Quel passato era anche penredistributiva; una profonda revisione dei siero critico, capacità di interpretare le conmeccanismi del reddito di cittadinanza, protraddizioni del sistema economico e sociale prio allo scopo di difenderlo dagli attacchi del proprio tempo, prassi volta a liberare che certamente subirà da parte del governo; classi e individui da ogni subalternità politiuna politica attiva dell’immigrazione, se voca alle “leggi” che questo sistema vorrebbe gliamo salvare migliaia e migliaia di imprese imporre quasi come naturali. All’assenza di e settori della nostra economia. E infine alquesto sforzo critico si è rimediato, anche meno un minimo comun denominatore in durante la campagna elettorale, e oggi anpolitica estera: la coscienza del tremendo pecora, col mantra patetico del pericolo fasciricolo che si corre se continua la guerra e se sta. Eppure già quel Pasolini che qualche lequesta finisce col diventare a tutti gli effetti ader o ex leader della sinistra nostrana finge una guerra tra Nato e Russia. Le attuali optanto di amare diceva mezzo secolo fa che il posizioni avrebbero il dovere di formare una fascismo attuale non è quello archeologico opposizione con proposte concrete su tutti del saluto romano e della camicia nera, ma questi temi; ma come potrebbero riuscirvi quello della normalità omologante, del neo-capitalismo senza patrie, del fesenza “federatore” tra loro? Anzi, esse sono ticismo consumistico. Un pericolo, dunque, ammesso lo si ritenga tale, che apparse dopo la batosta elettorale ancora non ha più alcun senso chiamare fascismo. È il dominio concertato delle più divise di prima. E il dramma è che queste grandi potenze tecnico-economiche per la gestione della perenne emergendivisioni non hanno motivi tattici, ma sono za prodotta dalla loro stessa logica di indefinito sviluppo. I totalitarismi nol’effetto di una crisi culturale e politica che le vecenteschi non servono più. La domanda di sicurezza, ansiosa di soffocare affligge tutte e viene da molto lontano. ogni parola che ci suoni straniera, che ci sembri mettere a rischio la nostra Essa è parte di quella crisi che ha colpito casa, viene fatta emergere con prepotenza dall’individuo stesso, nella sua tutte le forze della sinistra europea dopo la perfetta solitudine fatta di infinite connessioni. Lo sgretolamento della sicaduta del Muro. Una rincorsa spesso affan- nistra europea deriva logicamente dall’impotenza critica nei confronti di nosa a mascherare con un po’ di pensiero questo stato di cose, dall’ignorare perfino la domanda sulla sua possibile liberale il liberismo neo-conservatore pro- trasformazione. Se il Pd non porrà questa domanda alla base del suo conveniente dal Campidoglio americano. Con fronto congressuale, questo non segnerà che l’atto finale della storia della conseguenti “liberalizzazioni” giunte fino al sinistra italiana in quanto forza politica. limite di “metter sul mercato” beni comu-
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Illustrazione: Ivan Canu
Se il Pd non riparte dalla critica dell’esistente e dalla necessità di cambiamento il suo destino sarà segnato
ALTI STANDARD SEMPRE IN CRESCITA Le sfide dei tuoi investimenti non si fermano mai, quindi nemmeno noi lo faremo.
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ETF = Exchange Traded Fund Capitale a rischio. Il valore degli investimenti e il reddito che ne deriva possono crescere così come diminuire, e non sono garantiti. Gli investitori potrebbero non rientrare in possesso dell’importo inizialmente investito. Messaggio Promozionale: Prima dell’adesione leggere il Prospetto e il KIID disponibili su www.ishares.com/it, che contengono una sintesi dei diritti degli investitori. Informazioni importanti. Predisposto da BlackRock (Netherlands) B.V.. BlackRock (Netherlands) B.V. è autorizzata e regolamentata dall’Autorità olandese per i mercati finanziari. Sede legale Amstelplein 1, 1096 HA, Amsterdam, Tel: 020 – 549 5200, Tel: 31-20-549-5200. Numero di registro commerciale 17068311. A tutela dell’utente le telefonate potranno essere registrate. La politica di gestione dei reclami di BlackRock è disponibile in italiano e consultabile al sito www.blackrock.com/it/investitori-privati/ literature/investor-education/politica-gestione-reclami-sito-retail-italia-maggio2022.pdf. © 2022 BlackRock, Inc. Tutti I diritti riservati. 2402286