NOSTRA INTERVISTA ESCLUSIVA A
VITTORIO SGARBI
© Mart, Jacopo Salvi
ANNO 3° - N° 03 - Marzo 2022 - Supplemento del periodico Valsugana News - www.feltrinonews.com
Periodico GRATUITO di Informazione, Cultura, Turismo, Attualità, Tradizioni, Storia, Arte
18 MARZO 2022
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L'Italia allo specchio di Franco Zadra
NEGAZIONISMO e paura della morte “Negazionismo” è una di quelle parole chiave per cercare di capire la storia contemporanea e la complessità della trama degli eventi ormai trascorsi, perché non appaia come un bizzarro elenco di avvenimenti casuali. Un termine utilizzato per indicare quelle correnti “pseudostoriografiche” che minimizzano o, addirittura, negano lo sterminio degli ebrei da parte del regime nazista, rappresentate per esempio da l'Institute for Historical Review, la principale organizzazione negazionista del mondo, anche riconosciuta come neonazista e antisemita, che opera con il dichiarato intento di «promuovere (sic!) una maggiore consapevolezza pubblica della storia», tanto da aver redatto una lista di 66 domande con risposta su varie tematiche dell'Olocausto, volte a smentirlo o ridurlo.
L
a storica sentenza, pronunciata dall'Alta Corte londinese nell'estate del 2001, contro David Irving, un saggista britannico, specializzato nella storia militare della seconda guerra mondiale, confermò una volta di più l'inattendibilità delle tesi negazioniste. Irving fu arrestato in Austria l'11 novembre 2005; il 20 febbraio 2006 fu riconosciuto colpevole, e condannato a tre anni di reclusione, da un tribunale per «aver glorificato ed essersi identificato con il Partito Nazionalsocialista Tedesco dei Lavoratori», cosa che in Austria è punita, secondo il Verbotsgesetz, la legge per la denazificazione del 1947 che vieta qualsiasi «attività in senso nazionalsocialista», modificata nel 1992 per introdurre il divieto di negazione, minimizzazione, approvazione, e giustificazione del «genocidio nazista o degli altri crimini nazisti contro l'umanità». Compare del negazionismo è poi il “riduzionismo delle foibe” con il quale, esponenti del movimento di liberazione jugoslavo e del governo comunista di Belgrado, considerarono le stragi del 1943 e del 1945 come atti di giustizia contro criminali di guerra, fascisti e collaborazionisti, riducendo in genere il numero degli uccisi. In senso lato, “negazionismo” è utilizzato in modo corrente per indicare quelle obiezioni, del tutto o in parte infondate, alimentate perlopiù da
paura e ignoranza, che taluni “esperti” aspiranti “capopopolo”, armati da una ipercritica che finisce per negare credibilità a tutte le fonti che contraddicono l'interpretazione preferita, muovono nei confronti di conoscenze condivise dalla comunità scientifica internazionale, e per questo divulgate dalle testate giornalistiche più autorevoli (ma proprio per questo sospettate di collusione con il potere), mietendo numerose vittime tra gli orfani, consapevoli o meno, delle vecchie ideologie, adottati all'ultimo dalla pseudoscienza che dilaga in Rete, per non parlare del Deep Web dove a certe bufale si accede pure a suon di bitcoin. La complessità del mondo contemporaneo rende per altro molto faticosa quella revisione delle interpretazioni consolidate che è invece fisiologica nella ricerca storica, per aggiustare il tiro, chiarire meglio, proseguendo nel solco intrapreso e, molto più di rado, invertendo la direzione della ricerca. Una revisione che richiede studio, riflessione, e confronti interdisciplinari spesso di non facile divulgazione. Encomiabile, al di
là dei concreti benefici per l'opinione pubblica, è in questo particolare contesto storico lo sforzo mediatico del virologo, immunologo, accademico, e divulgatore scientifico, Roberto Burioni. Uno sforzo che cozza tuttavia contro un muro di diffidenza verso i vaccini che falcidia persino famiglie intere, convinte che il covid non esiste. La paura della morte sta forse giocando un brutto tiro a molti, approfittando dello smarrimento indotto dalla pandemia fa credere che il pericolo sia nel vaccino piuttosto che nel virus. Sembra purtroppo dimenticata quella cultura cattolica che, fino a un paio di generazioni or sono, ancora insegnava ad avere un rapporto più sereno, meno ambiguo e orrorifico con la nostra ineluttabile dipartita.
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Sommario DIRETTORE RESPONSABILE Prof. Armando Munaò - 333 2815103 direttore.feltrinonews@gmail.com CONDIRETTORE dott. Walter Waimer Perinelli - 335 128 9186 email: wperinelli@virgilio.it REDAZIONE E COLLABORATORI dott.ssa Katia Cont (Cultura, arte, cinema e teatro) dott.ssa Elisa Corni (Turismo, storia e tradizioni). dott. Emanuele Paccher (politica, economia e società) Laura Paleari (moda e costume) - dott.ssa Laura Fratini (Psicologa) Veronica Gianello (Storia, arte,cultura e tradizioni) dott.ssa Alice Vettorata - dott.ssa Francesca Gottardi (Esteri- USA) dott.ssa Laura Mansini (Cultura, arte, tradizioni,attualità) dott. Nicola Maschio (attualità, politica, inchieste) Patrizia Rapposelli (attualità, cronaca) dott.ssa Alice Rovati (Responsabile Altroconsumo) dott. ssa Chiara Paoli (storia -cultura e tradizioni) Francesco Zadra (Attualità) - dott. Zeno Perinelli (Avvocato) dott.ssa Sonia Sartor (Cultura, arte, attualità) Ing. Grazioso Piazza - dott. Franco Zadra (politica, attualità) dott.ssa Monica Argenta - dott.ssa Erica Zanghellini (Psicologa) dott. Casna Andrea (Storia, cultura, tradizioni) Francesco Scarano (Attualità, storia) Caterina Michieletto (storia, arte, cultura) dott.ssa Beatrice Mariech (Cultura, arte, storia) dott.ssa Daniela Zangrando (arte, storia e cultura) Alex De Boni (attualità e politica) dott.ssa Erica Vicentini (avvocato) CONSULENZA MEDICO - SCIENTIFICA dott. Francesco D’Onghia - dott. Alfonso Piazza dott. Marco Rigo . dott. Giovanni D’Onghia RESPONSABILE PUBBLICITÀ: Gianni Bertelle Cell. 340 302 0423 - email: gianni.bertelle@gmail.com IMPAGINAZIONE E GRAFICA : Punto e Linea di Alessandro Paleari - Fonzaso (BL) Cell. 347 277 0162 - email: alexpl@libero.it
Marzo 2022
L’Italia allo specchio
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Guerre, montagne e uomini
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Sommario
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Gaetano Guastella: moda e creatività
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Parla Paolo Perenzin, sindaco di Feltre
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Tra passato e presente: l’Orient Express
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In filigrana
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Tra Storia e Letteratura
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54 articoli della Costituzione
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Società oggi: il nutri-score
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Russia, Nato e Ucraina in cronaca
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La National Gallery di Londra
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Il personaggio: Carlo Budel
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La musica ai giorni nostri
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La giornata dello spreco alimentare
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Ipogeo srl: Premio Industria Felix 2022
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Chi sono stati i primi No vax
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Le successioni e le divisioni ereditarie
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Stefania e Amos…medaglie d’oro
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I matrimoni nel mondo
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Il futuro virtuale
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In Vino Veritas: i vini frizzanti
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William Shakespeare
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Le difese immunitarie
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Feltre citta romana
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La giornata mondiale del sonno
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Sanremo, il crogiuolo delle voci
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Il nespolo dimenticato
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Autonomia Ladina, il modello trentino
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Lo sviluppo della vista nei neonati
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Una farfalla di nome Loie Fuller
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Le macchine tagliacuci
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Feltre, noi e la storia …Hitler e Mussolini
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Non solo animali: il maniscalco
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Il senso religioso
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Il personaggio: Luca Cargnel
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Il personaggio: Lorenzo Luzzo
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Girovagando in USA: Filadelfia
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Intervista a Vittorio Sgarbi
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I ciclomotori: bollo e passaggio di società
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Le interviste impossibili: Cicerone
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EDITORE E STAMPA GRAFICHE FUTURA SRL- Via Della Cooperazione, 33- MATTARELLO (TN) FELTRINO NEWS Supplemento al numero di Marzo di VALSUGANA NEWS Valsugana News – Registrazione del Tribunale di Trento: n° 5 del 16/04/2015. COPYRIGHT - Tutti i diritti riservati Tutti i testi, articoli, intervista, fotografie, disegni, pubblicità e quant’altro pubblicato su FELTRINO NEWS, sono coperti da copyright GRAFICHE FUTURA srl - PUNTO E LINEA, quindi, senza l’autorizzazione scritta del Direttore Responsabile o dell’Editore, è vietata la riproduzione e la pubblicazione, sia parziale che totale, su qualsiasi supporto o forma. Gli inserzionisti che volessero usufruire delle loro inserzioni pubblicitarie, per altri giornali o pubblicazioni, posso farlo richiedendo l’autorizzazione al Direttore Responsabile o all’editore. Quanto sopra specificato non riguarda gli inserzionisti che utilizzando propri studi o agenzie grafiche, hanno prodotto in proprio le loro grafiche e quindi fatto pervenire alla redazione o all’ufficio grafico di FELTRINO NEWS, le loro pubblicità, le loro immagini, i loro testi o articoli. Per quanto sopra GRAFICHE FUTURA srl, si riserva il diritto di adire le vie legali per tutelare, nelle opportune sedi, i propri interessi e la propria immagine.
L’intervista Paolo Perenzin Pagina 7
Promuovere crescita è stato il volano del nostro 2021. Siamo felici di affermare la riuscita del nostro intento.
Medicina & Salute Le difese immunitarie Pagina 79
Il personaggio Luca Cargnel Pagina 88
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La politica di casa nostra di Armando Munaò
Parla Paolo Perenzin, Sindaco di Feltre Perenzin, nel 2012, si candida come sindaco alle elezioni comunali di Feltre ed è eletto al primo turno con 5.361 voti pari al 52,04%. L'11 giugno 2017 i cittadini di Feltre lo riconfermano, sempre al primo turno, alla carica di primo cittadino con 5.125 voti pari al 52,33% In base alle vigenti normative, avendo Paolo Perenzin ricoperto per due mandati consecutivi la carica di sindaco, non potrà essere rieletto per un suo terzo mandato.
L’intervista Mentre si avvia alla chiusura del suo secondo e ultimo mandato, quali sono i risultati della sua Amministrazione che ritiene maggiormente significativi, soprattutto con riferimento a questo ultimo periodo? I risultati sono stati tanti, ma quelli che in questi due mandati ci hanno interessato e maggiormente impegnati, con un lavoro intenso e continuativo, sono stati almeno cinque. Uno studio e un lavoro programmato, il nostro, iniziato nel 2012 e che dovrebbe ultimarsi, come termine ultimo, alla fine del 2023. Un insieme di progetti che hanno avuto e hanno, come obiettivo, un investimento sulla città di Feltre e che
nello specifico riguardano sia quello che è il suo patrimonio artistico, storico e culturale e sia paesaggistico e naturalistico, non tralasciando, però, il meraviglioso centro storico di Feltre e le sue frazioni. Non dimentichiamoci che le nostre comunità fanno parte del “Patrimonio Dolomiti Bellunesi UNESCO”. Nostro precipuo e qualificato intento è stato, e ancora è, la costruzione di una città turistica, Feltre, che possa incidere, in tutti gli aspetti e nel migliore dei modi, allo sviluppo socio economico della nostra comunità. E per turismo, mi permetta di sottolinearlo, intendo quello culturale, cicloturismo e naturalistico, anch’esso mirato a dare un fattivo supporto al settore economico cittadino. Feltre è stato il centro urbano di gran lunga più colpito dagli effetti devastanti della tempesta Vaia del 2018 (si sono contati, stando solo alla prima stima, danni per oltre 20 milioni di euro). Eppure la città si è
risollevata in breve tempo. Qual è stata l'arma in più della comunità feltrina? La vera arma è stata la forza di tutta la comunità feltrina con una grandissima volontà di coesione per fare fronte ai devastanti accadimenti che ci hanno colpiti. Mi permetta di aggiungere che anche a Feltre, come in tutte le comunità bellunesi, ci possono essere momenti di verifica, di confronto e a volte anche di scontro per le posizioni diverse, ma nel momento del bisogno la comunità, nessuno escluso, si unisce, come un corpo solo, per fare fronte ai numerosi aspetti negativi e trovare quindi le opportune e migliori soluzioni. E una particolare doverosa citazione
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La politica di casa nostra
deve essere indirizzarla non solo a tutti i nostri cittadini per il loro indefesso impegno, ma anche a tutto l’associazionismo della nostra citta, una risorsa veramente determinante ed encomiabile che ci ha permesso di superare le difficoltà e i danni che Vaia ha causato. Il grosso del lavoro per ridare giusta vivibilità è stato fatto in sei mesi ma già dopo due mesi si notava una città diversa. E ciò non sarebbe stato possibile senza la fattiva collaborazione di tutti sia dal punto di vista istituzionale, sia da parte dei cittadini, sia da singoli e sia da associati. Si è di fatto concretizzato il famoso “l’unione fa la forza” che ha permesso a Feltre di ripartire e nel migliore dei modi. E lo steso spirito si è visto e si è concretizzato per fronteggiare l’esigenza covid e tutto ciò che la pandemia ha comportato. Feltre e il suo comprensorio sono impegnati da alcuni anni in una corposa operazione di promozione culturale e turistica. Che giudizio dà dei risultati raggiunti? Senza essere tacciato di falsa modestia credo che in questo particolare aspetto abbiamo ottenuto validi risultati grazie, per esempio, al corposo investimento di oltre 10 milioni di euro 8
che abbiamo destinato, nell’ultimo quinquennio, al piano d’interventi per migliorare e rendere più vivibile il nostro centro storico. E quest’anno siamo anche riusciti a vedere i primi risultati grazie agli arrivi di nuove presenze turistiche, seppur ostacolati dal covid. Risultati che hanno permesso la crescita della “vitalità” economica e sociale. Basti pensare che nel 2021 siamo tornati agli stessi livelli di arrivi e presenze in città del 2019 quindi pre-covi. Credo che gli investimenti che sono stati fatti in questi ultimi anni, sia dal punto di vista infrastrutturale sia delle politiche
della cultura, delle varie attività, del tempo libero e dei vari eventi organizzati, hanno dato e stanno dando un’immagine di Feltre come uno dei più dinamici poli di tutto il Veneto. Come ha vissuto, sul piano amministrativo e personale, la difficile crisi legata alla pandemia da Covid-19 di questi ultimi due anni? Purtroppo la pandemia covid ha colto tutti di sorpresa e quindi l’urgente necessità di organizzarci, in tutti i modi e in tutti i sensi per fare fronte alle indubbie a concrete difficoltà che hanno interessato sia la programmazione istituzionale-amministrativa nonchè un continuo dinamico supporto alle esigenze di tutto comparto socio-sanitario. Un particolare momento che ha visto tutta la comunità, nessuno escluso, scendere in campo, unirsi e operare con una dinamica e quanto mai fattiva comunione d’intenti. A tal proposito mi permetta ancora una volta di ringraziare tutti i feltrini, le forze dell’ordine, gli operatori sanitari, nessuno escluso, le varie associazioni di volontariato, perché sono stati veramente encomiabili nel loro impegno continuo. E mi creda non è stato facile per nessuno rimodulare le proprie abitudini di vita. Quale progetto tra quelli in animo e non conclusi le spiace maggiormente di non aver portato a termine? Quando si lavora in una pubblica am-
La politica di casa nostra ministrazione, quasi sempre è più quello che resta da fare che quello che si è fatto. Una cosa cui tengo particolarmente sarebbe quella di essere io ad inaugurare il restaurato Teatro di Feltre. E’ il mio piccolo sogno nel cassetto. Magari non sarà possibile, ma qualche volta, come qualcuno diceva…i sogni si possono avverare. Le cronache nazionali e locali ci raccontano di una progressiva e grave disaffezione dei cittadini alla gestione della “cosa pubblica”. Da giovane amministratore come, secondo lei, è possibile riavvicinare le persone alla passione politica nel senso più autentico del termine. Credo che a livello locale questo fe-
nomeno si senta, ma decisamente meno che a livello nazionale. E ciò è forse dovuto al fatto che nelle piccole realtà c’è e si concretizza una certa vicinanza con tutte le varie istituzioni. Un modo di operare che permette un sicuro confronto quotidiano e grazie al quale si può subito verificare se l’impegno preso dall’amministratore è stato mantenuto oppure disatteso. Purtroppo lei ha
ragione quando evidenzia una certa e motivata disaffezione da parte dei cittadini nei confronti della politica nazionale, che nel corso degli ultimi decenni è decisamente cambiata. A mio modesto avviso non ci sono veri e concreti punti di riferimento politico come una volta e non sempre esiste un vero dialogo e confronto con gli eletti a livello nazionale. Ciò avviene in rare, rarissime occasioni per cui le esigenze della comunità quasi mai trovano la desiderata concretizzazione. Per quanto sopra è necessario, anzi indispensabile, che la politica, specialmente quella nazionale, si impegni e si adoperi per riconquistare la sua credibilità e quindi la fiducia degli italiani.
Chi è Paolo Perenzin
Nato a Feltre il 27 settembre 1978, dopo gli studi classici presso il liceo cittadino «P. Castaldi-G. Dal Piaz», ha studiato filosofia all’Università degli Studi di Padova, dove si è laureato nel 2004. Ottenuta nel 2006 l’abilitazione all’insegnamento in filosofia e storia, è stato ammesso al corso di dottorato in filosofia presso l’Università di Padova, conseguendo nel 2011 il titolo di dottore di ricerca in filosofia politica e storia del pensiero politico, con una tesi sulla Rivoluzione francese e i giacobini, parzialmente pubblicata. E’ stato insegnante di filosofia e storia e di sostegno nei licei della Provincia di Belluno. Ha studiato musica (violino), conseguendo la licenza in teoria e solfeggio presso il Conservatorio «C. Pollini» di Padova e praticato, con discreti risultati, l'atletica leggera (mezzofondo). Nel corso degli studi universitari ha compiuto alcuni periodi di ricerca all’estero (Tubinga e Parigi), imparando il tedesco e il francese. Fin da giovanissimo è stato attivo nel mondo dell’associazionismo culturale e sportivo di Feltre. Nel 2002, a 23 anni, viene eletto consigliere comunale di Feltre e, nel 2004, consigliere provinciale di Belluno, carica da cui si dimette nel 2005 per la verificata impossibilità di conciliare i due incarichi e gli impegni di studio. Riconfermato in consiglio comunale nel 2007, segue in particolare le vicende urbanistiche della città. Nel 2012 viene eletto sindaco di Feltre ed è riconfermato l’11 giugno del 2017.
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In filigrana di Nicola Maccagnan
L'elezione del Presidente della Repubblica:
se la politica diventa un gioco...
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'è la Politica e la politica. E poi, di quest'ultima, ci sono declinazioni - o se preferite degenerazioni - che la trasformano in “politichetta”. Non vale nemmeno qui la pena di enumerare esempi, fatti o personaggi che ben si prestano - non solo in Italia, ma particolarmente nel nostro Paese - a rappresentare questa situazione. Vorrei però soffermarmi in queste righe su un aspetto specifico di quelle che vorrei definire le fondamenta, ovvero l'ABC della questione. Evitando cioè di addentrarci nell'annoso dibattito, spesso con degenerazioni qualunquiste, sulla perdita di valore e valori della politica nostrana, sul decadimento della moralità e dei principi, sullo spessore sempre più discutibile di alcuni tra i suoi interpreti, vorrei parlare dei “gesti” che rivelano molto più di quanto sembra anche i contenuti. Se infatti, come diceva un noto attore e regista “Le parole sono importanti”, i comportamenti lo sono forse ancora di più. E così uno straordinario spaccato di come venga vissuto e interpretato da qualcuno il ruolo di rappresentante, anche di alto livello, delle istituzioni è venuto, una volta di più, dall'elezione del nuovo presidente della Repubblica che lo scorso 29 gennaio ha riportato al Quirinale, senza nemmeno passare dal “via”, Sergio Mattarella. Quello che è apparso nei giorni precedenti in diretta a reti, giornali
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e social unificati è davvero poco edificante. E non mi riferisco qui alle tattiche attendistiche, ai vertici e contro-vertici farciti di proclami e smentite, che fanno da sempre parte del rituale (anche se oggi, stante la situazione particolarmente delicata che il Paese attraversa, forse si sarebbero potuti snellire...). Non mi soffermerò nemmeno sul fatto, già abbondantemente sottolineato da più parti, che i 1.009 grandi elettori - o meglio le segreterie di partito che li “guidano” - non siano riusciti a fare il loro “lavoro”, ovvero trovare la mediazione politica necessaria a individuare il nuovo Presidente della Repubblica, dovendo alla fine tornare con la cenere sul capo da un signore di 80 anni che da tempo aveva manifestato la propria volontà di ritirarsi a vita privata. Penso invece, nello specifico, all'uso superficiale, giocoso e scriteriato che più di qualche “grande elettore” ha fatto della scheda elettorale. Come in passato, e più che in passato, sono emersi dalle urne i nomi di cantanti, attori, sportivi e persino di ignoti (al pubblico nazionale) amici di partito o conoscenti. Il tutto con grande indignazione delle folle (soprattutto sui canali social) e sorrisini di sberleffo, che svaniscono però nel tempo di un tweet. Forse vale la pena di fare una breve riflessione un po' più circostanziata. Ora, sul piano concreto della votazione, si tratta di scelte del
tutto ininfluenti e marginali, fatte quando si sa a priori che la partita non condurrà ad alcuni risultato. E più di qualcuno, infatti, anche tra i protagonisti, si è affrettato a liquidarle come tali. “Ma cosa vuoi che sia, è un gioco innocente!” E invece proprio per nulla! Davvero qualcuno pensa che usare la scheda elettorale come un bigliettino per lo scherzo ad un amico, per lo più in un momento tanto importante come quello della scelta del Presidente della Repubblica, sia un gesto così innocente e innocuo? Davvero qualcuno non si rende conto che, in un periodo storico che vede una costante e progressiva disaffezione dei cittadini dalla gestione della Cosa Pubblica, comportamenti di questo tipo siano giustificabili o ininfluenti? Qual è il messaggio che passa implicitamente, se non che “laggiù” giocano sulla nostra pelle? E che dire dei più giovani, che sembrano oramai quasi totalmente estranei e disinteressati al mondo delle istituzioni ad ogni livello? Salvo poi stracciarsi tutti le vesti (“noi” e “loro”) quando ad ogni tornata elettorale il numero dei votanti cala drasticamente e per racimolare il candidato sindaco o consigliere in qualche comune tocca fare i salti mortali, perché nessuno si fa più avanti per mettersi a disposizione. Che cosa dobbiamo chiedere ad un rappresentante del popolo se
In filigrana non, in primis, avere massimo rispetto delle istituzioni in cui è stato eletto e che si sono formate (qui basterebbe magari studiare un po' la storia) con guerre, forti contrapposizioni e grandi sacrifici dei nostri avi? Altro che scherzetto o goliardata. Le Istituzioni meritano un rispetto totale, quasi sacro. Perché rappresentano il baluardo della nostra democrazia che - per quanto fragile e perfettibile - è comunque il sistema che i nostri padri hanno scelto per proteggerci da rischi del passato. E il semplice cittadino, si chiederà qualcuno, che cosa può fare? Anzitutto tenere alta l'attenzione, non darsi per vinto, informarsi e fare la propria parte. E soprattutto non gettare la spugna, sopraffatto da quel senso di sconforto, talora qualunquistico e “comodo”, che inevitabilmente sorge davanti a certi spettacoli. La Politica e le Istituzioni (mi ostino a scrivere queste parole con la lettera maiuscola) meritano e reclamano oggi più che mai la nostra attenzione e il nostro impegno. Solo così potremo pensare di porre rimedio alle storture di uno specchio che, bene o male, rappresenta la società di cui è espressione.
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Accade in Italia di Cesare Scotoni
54 ARTICOLI COSTITUZIONALI
PER LA TERZA REPUBBLICA
N
ella seconda metà degli anni ’70, nel mezzo delle convulsioni generate dalla strategia della tensione e dal terrorismo armato di sinistra che prese allora ad imperversare il Paese si avviò quella trasformazione che ci ha malauguratamente condotto a quel rifiuto delle radici repubblicane che fu inopportunamente chiamato Seconda Repubblica. Dopo le Leggi Speciali, l’assassinio di Giorgiana Masi ( 19 anni, studentessa, uccisa il 12 maggio 1977 con un colpo di pistola durante una manifestazione a Roma) e quel mancato Compromesso Storico nato dagli indicibili segreti che accompagnarono ed ancora accompagnano il rapimento Moro, l’idea fondante di un Patto Costituzionale che, nato in una Nazione Divisa dell’immediato Dopoguerra postfascista, immaginava la capacità del Legislativo di Individuare e Perseguire un Interesse Nazionale più alto degli interessi più immediati rappresentati dai singoli partiti ed un Esecutivo in grado di volta in volta di concretizzarli al meglio, andò in crisi. Prima il Partito Radicale con la sua battaglia contro il “Consociativismo” che, per Pannella, emarginava alcune minoranze parlamentari e favoriva i movimenti extraparlamentari per poi fagocitarli e poi il PSI che dopo il MIDAS (Hotel di Roma dove nel 1976 iniziò l'ascesa di Bettino Craxi) aveva cercato di uscire dalla subalternità per giungere al Potere ed esercitarlo con spregiudicata decisione evidenziarono nei fatti come la dialettica maggioranza – opposizioni fosse essenziale perché la Sintesi cui era chiamato il Legislativo non fosse piegata a logiche meramente spartitorie.
Anziché però puntare sulla capacità dei Partiti di recuperare una rinnovata capacità di Elaborazione e di Innovazione dopo quel dilaniante quinquennio di confronto armato tra Stato ed Antistato si mutuò quella Logica di Contrapposizione spostandola con Tangentopoli ad uno scontro tra Poteri dello Stato che finiva per minare la Legittimazione dei Partiti ad esprimere quella Classe Dirigente in grado di Individuare e Perseguire l’Interesse Collettivo. Tra modifiche alle Leggi Elettorali ed ai Criteri di Rappresentanza, disordinati interventi sulla Costituzione, malpensati e maldigeriti progetti di Unione Europea costruiti alla fine solo su una Moneta Unica il Paese ha visto la bersaniana “Ditta” contrapporsi al Partito Azienda di Berlusconi senza capacità o volontà di ripartire dai primi 54 articoli di quella Carta Costituzionale per la quale sembrò più facile fare dei girotondi anziché affrontare le implicazioni della Modernità e della fine dell’Unione Sovietica sul modo di declinarli. Lo “spoil system” negli alti gradi dell’Amministrazione promosso da Fini e la Legge Bassanini restano monumentali nel danno che han portato alla Credibilità ed all’Autorevolezza dello Stato ed i promotori ancora girano a piede libero. Grazie alle pessime scelte del luglio 2019 ed all’ultimo biennio di cieco approccio ideologico alle sfide del governare oggi il Paese che conoscevamo è finito in un angolo. Più povero, più vecchio, meno
preparato e più debole. Ogni errore ha un nome ed un cognome e la decenza imporrebbe a tanti un passo indietro. Ora serve la Capacità di Perseguire un Progetto in grado di recuperare un’Unità di Intenti ed una Capacità di fare Sintesi tra Posizioni più distanti che certo non può nascere dall’Equivoco o dall’Ambiguità. 26 mesi in cui il Paese ha espresso il peggio di sé non si possono superare sperando che i Vincoli Esterni, la Geopolitica o un’Unione Europea mai nata possano supplire all’esigenza di una Volontà Forte e Diffusa di superare quei solchi che 30 anni di Cattiva Politica hanno Voluto e Saputo creare in un Tessuto Sociale sempre più usurato. Il come farlo è lì, in quei primi 54 articoli della Nostra Costituzione Repubblicana. Con chi farlo è scritto sulla Sabbia. Su chi NON fare affidamento per questo arduo compito invece è scritto sulla Pietra, tutti lo sanno e lo possono rileggere nelle cronache di un decennio da dimenticare anche nei suoi modesti protagonisti. Per ora una cosa abbiamo compreso che tra una DAD ed un Divieto ci siamo giocati una generazione apparsa supina e disarmata a chi del Diritto ha fatto strame
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Russia, NATO e Ucraina in cronaca di Francesco Scarano
La questione ucraina:
uno ‘’scontro tra titani’’ dalle radici molto profonde.
N
egli ultimi mesi la minaccia di un incombente conflitto di portata internazionale ha attraversato l’intero globo terrestre incutendo timore ed agitazione da Oriente ad Occidente, in ogni civile atto ad informarsi di attualità. Il dramma di una possibile guerra è di particolar peso anche nel Vecchio Continente perché questo potrebbe tradursi in un rincaro delle riforniture di gas (basti pensare che l’Europa importa dalla Russia il 40% del suo fabbisogno di metano) ed in eventuali minacce militari dovute alla vicinanza del fronte alla nostra penisola (la distanza chilometrica Italia-Ucraina è grossolanamente paragonabile a quella esistente tra Val d’ Aosta e Sicilia). In realtà quello che attraverso i media appare essere un evento del tutto nuovo risulta avere radici storiche molto profonde che traggono sostentamento dall’ ‘’humus’’ della storia medievale. Per la Russia, infatti, l ‘ Ucraina è una ferita aperta già da tempo per svariati motivi. Innanzitutto l’Ucraina, e la capitale Kiev, è storicamente considerata la culla del popolo russo, essendo stata la capitale del primo Stato russo della storia, una monarchia esistita da fine 800 ad inizio 1200. Fino al 1991 l’Ucraina ha fatto parte dell’Unione Sovietica, cioè quel titano che ha sfidato gli Usa durante la Guerra Fredda, lo scontro tra capitalismo e comunismo atto a far emergere una superpotenza dominante a livello globale. Ai nostri giorni, inoltre, è facilmente intuibile quanto Russia ed Ucraina siano affini storicamente e culturalmente: la
lingua russa e l’ucraino sono abbastanza simili per morfologia e sintassi ed il russo è largamente parlato in varie regioni ucraine. A ciò si aggiunga che quando l’Unione Sovietica cadde nel 1991, l’Ucraina fu una delle prime repubbliche sovietiche a diventare indipendente. Da quella data essa riveste il ruolo di ‘’ Stato-cuscinetto’’ tra due superpotenze, una nazione che dovrebbe rimanere estranea ai due contendenti (Russia e Nato) per mantenere un equilibrio tra i colossi militari. Nel 1949 gli Stati Uniti diedero vita alla Nato, l’organizzazione del Trattato del Nord Atlantico, ossia un insieme di Stati alleati di cui fa parte anche l’Italia, che hanno la funzione di difendersi reciprocamente nel caso in cui uno dei membri fosse attaccato da un nemico esterno. Prima degli anni ’90 la Nato comprendeva Usa, Canada e molti Paesi dell’Europa occidentale ed il confine geografico tra blocco occidentale e blocco sovietico, la cosiddetta ‘’ cortina di ferro ’’, passava poco distante dall’ Ucraina. Dopo la caduta dell’Unione Sovietica gli Stati Uniti, approfittando dell’evento storico, hanno invitato a far parte della Nato dal 1997 quasi tutti gli Stati dell’ Europa orientale, compresi quelli che facevano parte dell’ URSS, arrivando addirittura a delegare a questi Paesi il
controllo attivo della Russia, sostenendoli economicamente e negli armamenti. Questo non ha fatto altro che inasprire ulteriormente i rapporti tra USA e Russia, dato che quest’ ultima si è vista gradualmente occupare il proprio ‘’uscio di casa ’’. Giungiamo così agli inizi degli anni 2000, quando un partito filoccidentale ha vinto le elezioni in Ucraina attraverso quello che alla storia è noto come ‘’rivoluzione arancione’’. Di tutta risposta la Russia ha alzato i prezzi del metano destinato ad Ucraina, così il vecchio Continente è stato costretto a progettare nuovi gasdotti che bypassassero l’Ucraina per giungere in Germania. Nel frattempo, dopo varie vicende, in
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Russia, NATO e Ucraina in cronaca
Ucraina si è reinsediato un governo filorusso, quello del presidente Janukovych. Questi, nel Novembre 2013, si è rifiutato di firmare un trattato di maggiore collaborazione con l’Europa, scatenando feroci proteste che l’hanno costretto ad abbandonare il Paese. Fu così che, in tale caos, prese il potere un governo filoccidentale che provvide subito a firmare il suddetto patto. La Russia naturalmente non aveva la minima intenzione di perdere lo storico alleato: essa ha dichiarato che la rivoluzione era un colpo di Stato sostenuto da USA ed Europa ed ha occupato la Crimea. Questa regione era un territorio strategico per il controllo del Mar Nero, ceduta in dono dall’ URSS all’ Ucraina. Dopo aver occupato militarmente la regione, Putin ha indotto un referendum per annettere la Crimea alla Russia. Il risultato del referendum, anche grazie alla politica di violenza e di poca trasparenza adoperata, non poteva che essere positivo. Successivamente la Russia ha sostenuto la ribellione indipendentista di due regioni filorusse del Sud dell’Ucraina, Donets’k e Luhans’k, note congiunta-
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mente alla cronaca con il nome di ‘’Donbass’’. Esse se da un lato sono riconosciute dalla Russia come territori indipendenti, dall’ altro sono considerate dagli Usa territori occupati dai Russi. L’Ucraina ha chiesto l’appoggio occidentale, per la sua entrata nella Nato (proposta non del tutto lecita secondo il Trattato del Nord Atlantico, trattandosi di un paese occupato). L’ obiettivo di Putin, dunque sarebbe quello di recuperare l’Ucraina sia per la sua importanza storico-culturale ed economica ( data l’ abbondanza di giacimenti di cui il Paese dispone), sia per contrastare il rivale storico statunitense, sia per evitare che l’est Europa si occidentalizzasse e che anche i Russi chiederebbero maggiori diritti. Così la Russia ha iniziato a fare agli Usa e all’ Europa richieste molto forti, come una garanzia scritta che la Georgia e l’Ucraina non entrassero mai a far parte della Nato. Gli Stati Uniti, d’ altronde, trovandosi in una posizione di forza, non mostrano alcuna intenzione di cedere al nemico. La tensione estrema ha trovato il proprio punto di rottura in queste notti, quando l’esercito della ‘’ terra degli zar’’ ha bombardato varie città e porti ucraini. Non si può negare che, oltre alle dinamiche storiche, dietro ogni conflitto si celano sempre corposi interessi economici, come l’‘’appetibile piatto’’ costituiti dai giacimenti petroliferi apparsi
dopo i recenti scioglimenti della calotta polare nelle aree geografiche contese tra le due superpotenze. Al di là delle varie ragioni, quel che è certo è che non possiamo adoperare termini di giudizio come ‘’ giusto’’ o ‘’sbagliato’’ a proposito di un conflitto: non esistono ragioni che tengano dinnanzi ad uno scenario apocalittico come quello vissuto dalla popolazione ucraina nelle ultime ore. Lo stato d’ animo che sembra dominare il Mondo è quello di delusione e paura, perché non si è riusciti ad evitare quel termine che solo a pronunciarlo fa rabbrividire, quell’ erbaccia infestante nutrita dal Dio danaro che può produrre solo frutti amari: la guerra. Oltre tutti i rischi economici, politici, civili, ed i dubbi in merito alla natura di tanta ferocia e tanto egoismo, resta un’amara certezza: che nel 2022 non siamo in grado di imparare dagli errori ed orrori della storia e che gli ucraini, prima di essere unità della Nato o della Russia, sono persone esattamente come tutte le altre pullulanti sul globo, con lo stesso esatto diritto alla vita!
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Personaggi del nostro tempo di Caterina Michieletto
Carlo Budel e l’ascesa alla Marmolada:
“la Regina che mi ha salvato” Il cambiamento è un’esigenza che proviene dal più profondo di sé stessi, è una chiamata urgente che non può essere ignorata e posticipata. Ci sono cose che si possono rimandare, la gioia di vivere non è tra queste. La storia di Carlo Budel vuol essere un invito a vivere la vita qui ed ora e ad abbracciare i cambiamenti che arrivano per aprire noi stessi alla bellezza che ci circonda e alla felicità autentica fatta di piccole e semplici cose. “..Le cose più belle non costano niente. Basta saperle vedere. Ma quando sei dipendente non riesci ad apprezzare nulla, sei sempre alla ricerca di un miraggio che non otterrai mai, sei condannato all’infelicità. La montagna è stata la mia via di fuga…”da “Le montagne che vivo. Racconto per immagini delle uscite con Paris sulle Dolomiti e della vita sulla Marmolada”.
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ei cresciuto tra Lavis (trentino) e San Gregorio nelle Alpi (bellunese). La tua infanzia è trascorsa soprattutto nella casa dei nonni paterni a San Gregorio nelle Alpi. Dopodiché la vita di porta lontano, con tante esperienze, anche forti e travolgenti. Quale significato ha avuto ritornare nel bellunese? Quando sono ritornato a Belluno
avevo 22 anni e mia mamma aveva bisogno di un aiuto per assistere mia nonna che era gravemente malata. Ero contento di trasferirmi nei luoghi che mi avevano dato tanti momenti di gioia di cui avevo sempre avuto nostalgia. Penso alle estati a raccogliere fieno, le avventure nei boschi con i miei cugini, i pomeriggi nella natura e con gli animali. I miei nonni, come quasi tutte le altre famiglie di questi paesi, non avevano tanto, ma avevano un cuore grande e ci riempivano di ogni golosità, quasi per dare a noi il benessere che loro non avevano vissuto. Bisogna pensare che in zone rurali come San Gregorio nelle Alpi solo da poco si cominciava a stare meglio economicamente. Passando dall’infanzia all’adolescenza cresceva in te il bisogno urgente di fare, quell’irrequietezza che per molto tempo non ti ha dato pace. Quando e come pensi abbia avuto origine questa ricerca di continue emozioni di andare oltre il limite?
Così si nasce. Sono sempre stato irrequieto. La mia idea è sempre vivere la vita, guardare il mondo. Due anni fa sono stato bloccato in Birmania per colpa del covid. Aspetterò ancora un po' e poi mi partirò per altre destinazioni. Un po' l’energia vitale che premeva dentro un po' l’insofferenza per la vita in fabbrica ti spingono alla ricerca di modi per “sfogare la frustrazione cre-
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Personaggi del nostro tempo
scente”. Arrivi al punto in cui senti che la vita non ti appartiene più perché la dipendenza dall’alcol giorno dopo giorno ti stava consumando… Ero sull’orlo di un abisso quando una carissima persona mi ha aiutato a rialzarmi e ad interrompere questo circolo vizioso. È stata il mio “angelo custode”. E poi è arrivata anche Paris, la mia cagnolina che è stata una vera e propria benedizione. Con Paris hai riscoperto e rinsaldato il tuo legame con la montagna. Quanto la montagna ti ha forgiato come persona? Guardando le montagne ho ritrovato me stesso. Era il 15 febbraio 2016 e come ogni lunedì mattina sarei dovuto andare allo stabilimento. Dopo 18 anni di lavoro in fabbrica la monotonia e il grigiore che mi circondavano avevano soffocato il mio carattere energico e dinamico e la vita era diventa insostenibile. Quel giorno avevo smesso di rimuginare sui discorsi della sicurezza economica e del posto fisso che mi avevano sempre frenato dal prendere il coraggio di fare una scelta e avevo
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deciso che quello doveva essere il giorno della mia ripartenza Quel lunedì per me non era l’inizio della nuova settimana, era l’inizio di una nuova vita. Cambiai direzione e con la macchina raggiunsi Roncoi di San Gregorio Nelle Alpi: la meta era il Pizzocco, la prima montagna che avevo conosciuto quando avevo solo 3 anni. Avevo spento il cellulare per qualche giorno, puoi immaginare una volta riacceso quante chiamate e messaggi per convincermi a tornare in fabbrica, ma ormai avevo deciso: la mia strada doveva cambiare. I successivi venti mesi ero tutti giorni in montagna con Paris. Dopo questi mesi di stacco avevo scelto di tornare a lavorare nei rifugi come quando ero giovane. Il mio sogno era avere un rifugio tutto mio e il proprietario di Capanna Punta Penìa, Aurelio, cercava qualcuno che fosse disponibile a gestirla. Così mi sono fatto avanti e ad oggi ho trascorso 400 giorni a 3343 mt esattamente quattro stagioni: un’esperienza incredibile che mi ha dato e mi sta dando tanta soddisfazione e gioia. La Marmolada l’avevi conosciuta già da giovane, però allora non era scattata la scintilla solo dopo sei riuscito a conquistarla ed arrivare dove sei: Punta Penìa La montagna che più di tutte mi ha forgiato è la Marmolada. Lassù la vita non è facile e si fanno tanti sacrifici. A luglio e agosto possono esserci tormente di neve se penso al 1° giugno 2021, quando si è aperta la stagione, Capanna
Punta Penìa era immersa in 8 metri di neve. Lassù c’è l’essenziale come stile di vita: il bagno è di fuori e sotto ci sono 100 mt di volo; oppure se voglio lavarmi prendo il pentolone sciolgo la neve e con l’acqua tiepida calda mi faccio la doccia fuori. Diciamo che è come vivere sessanta/settanta anni fa. Nell’era in cui siamo che è l’immagine superficiale che punta tutto all’apparenza, la tua collezione di fotografie dalla Marmolada, le istantanee della tua vita con Paris sono immagini autentiche, sincere, senza filtri, forse è proprio questo che piace tanto alle persone. Quando posto delle immagini non condivido solo fotografie, ma condivido emozioni. Penso sia proprio il fatto di vedere rappresentate la gioia delle cose semplici e la bellezza della natura che colpisce le persone. Per tutti noi la vita è un continuo aprirsi e chiudersi di parentesi, di capitoli, c’è un prima e un dopo. Tu hai racchiuso la tua storia in due libri
Personaggi del nostro tempo
(e hai messo in ordine tutti questi frammenti della tua vita). Come ti ha aiutato questa esperienza? L’idea del libro è stata di una casa editrice che aveva intercettato la mia storia su tanti giornali e programmi televisivi. Mi sono cimentato in questa
impresa affiancato da una scrittrice, Elisa Cozzarini e insieme è venuto alla luce il primo libro “La sentinella delle Dolomiti” (2019) che è la storia della mia vita. L’anno scorso ho pubblicato “Le montagne che vivo” che è un racconto per immagini di questi ultimi anni. La cosa bella è che un libro rimarrà per sempre, tra cento anni magari qualcuno lo prenderà in mano e troverà parole di aiuto, parole giuste al momento giusto. I libri resistono al tempo? Esatto proprio così e questo mi fa tanto piacere. L’esperienza del libro mi ha dato tanta soddisfazione, alcune persone mi hanno scritto ringraziandomi per aver dato loro la spinta a cambiare. La mia biografia ha toccato tante persone, in particolare chi nella mia storia si è rivisto e sono contento che abbiano ritrovato la speranza e la forza di un cambiamento positivo.
È possibile seguire Carlo nelle sue avventure in montagna su Facebook e su Instagram
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Attualità di Nicola Maschio
La Giornata contro lo spreco alimentare: lo scenario in Italia e nel mondo
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all’ITT Buonarroti di Trento in cui, oltre alle autorità, i protagonisti sono stati i giovani studenti. La ricorrenza, che ormai da nove anni si sussegue tra speranze e timori per il futuro, è stata infatti l’occasione per fare il punto rispetto al tema dello spreco e dell’alimentazione, ma anche per discutere di altri elementi quali sostenibilità, cambiamenti climatici ed
i è celebrata lo scorso 5 febbraio la nona Giornata nazionale di prevenzione contro lo spreco alimentare, con un appuntamento Logo con colori quadricromia applicati
obiettivi ambientali. E ciò che è emerso sembra essere un’attenzione maggiore a questi aspetti da parte delle nuove generazioni, che in molti casi “trainano” gli adulti nei comportamenti corretti da adottare. <<Per noi è fondamentale che questa sensibilità faccia parte dei cittadini del domani – ha spiegato Laura Zoller, dirigente dell’istituto in cui, sottolinea, si affrontano numerose materie inerenti ambiente e tecnologia. – Trattiamo spesso temi riguardanti la transizione ecologica, ma in generale trasmettiamo anche l’idea del “non-spreco”, che deve far parte del nostro dna>>. Proprio dagli studenti,
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Attualità come anticipato, sono arrivate alcune idee innovative: è il caso ad esempio della classe 5aB della sezione Informatica, che si è posta come obiettivo la realizzazione di un’applicazione smartphone per prenotare il cibo nella mensa scolastica, dosando in questo modo le quantità e limitando dunque al minimo lo spreco degli alimenti. “In questo modo anche quelle minime parti che prima andavano buttate verranno conservate” hanno aggiunto i ragazzi, “si tratta di una app gratuita e semplice, che con un semplice click consente la prenotazione del cibo”. Un progetto, quello di Foob (così si chiamerà l’applicazione), che se dovesse rivelarsi funzionante potrebbe poi essere applicato anche ad altri servizi mensa, ad esempio nelle comunità di valle. Insomma, l’attenzione rispetto allo spreco di cibo rimane alta e anche il Trentino vuole (e deve) giocare un
registrato nel 2019 e nel 2020. Ma a questi primi numeri se ne sono aggiunti altri, che devono far riflettere: ad esempio, mediamente ogni settimana gli italiani buttano circa 595,3 grammi di cibo (529,3 nel 2020), ovvero 30,956 chilogrammi annui. L’alimento che maggiormente finisce nella spazzatura è la frutta fresca (25,5 grammi), poi le insalate (21,4), pane fresco (20), verdure (19,5) ed infine cipolle, aglio e tuberi (18,7). Ancora, negli ultimi dodici mesi solo nel nostro Paese è stato sprecato un valore di cibo pari a 10 miliardi e mezzo e oltre 7 miliardi (più di un milione e 800 mila tonnellate in tutto) nell’ambito famigliare e nelle mense. Il dato più preoccupante è legato allo spreco per persona, circa 74 chili a livello mondiale e va considerato anche che circa il 40% delle emissioni di CO2 nell’atmosfera è causato proprio dagli sprechi alimentari.
ruolo da protagonista. Ha concluso l’assessore provinciale all’ambiente, nonché vicepresidente, Mario Tonina: <<Questa Giornata, come altre, ci ricordano i grandi temi ambientali. Pensiamo ad esempio ai cambiamenti climatici, con i ragazzi partiti per COP26 che, ricordo, hanno dimostrato una passione e un impegno veramente incredibile. Se fino a qualche anno fa non era facile parlare di temi legati all’ambientalismo, oggi questi argomenti sono sostenuti ed i giovani sono assolutamente protagonisti: con la raccolta differenziata siamo passati in vent’anni dal 15% al 77% e il merito è in larga parte loro>>. Uno sguardo però va dato anche ai numeri: dopo due anni di segnali incoraggianti infatti, nel 2021 il livello di spreco alimentare è tornato a preoccupare. Un +15% infatti che, nel secondo anno di pandemia, ha interrotto il trend al ribasso
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La storia dei vaccini di Armando Munaò
Chi sono stati i primi NO VAX? Oggi, come ieri, coloro i quali rifiutano, per i più diversi motivi, la vaccinazione o il Green pass ripropongono un comportamento già visto in passato, non di rado sostenuto da molti politici e da intellettuali di ogni tipo, di Destra, di Sinistra e di Centro, e purtroppo anche da moltissimi cospirazionisti o approfittatori della situazione che cercano un momento di visibilità.
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econdo documentazioni storiche già ai tempi delle scoperte di Edward Jenner, i vaccini e le vaccinazioni furono oggetto di accese discussioni tra i sostenitori e gli oppositori. E le motivazioni che spingevano gli oppositori erano spesso di carattere ideologico o religioso. Una continua lotta che alla fine del 1800 causò in Inghilterra, per effetto della posizione dei NO VAX di allora, la cancellazione della obbligatorietà della vaccinazione. E ciò causò non solo una notevole diminuzione dei vaccinati, ma anche e soprattutto l’aumento dei casi di contagio e di morte per malattie infettive. E la posizione dei sostenitori della “non vaccinazione” ebbe un consenso così alto che nel 1863 a Londra fu fondata la"Societas Universa contra Vacci-
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num Virus". Secondo gli oppositori di allora la vaccinazione “oltre a essere inutile, dannosa e pericolosa, era una violazione della libertà di scelta e all’etica della responsabilità individuale personale, paragonabile a un crimine intollerabile che lo Stato, in nome della salute pubblica e della salvaguardia della comunità, non aveva il diritto di imporre ”. E a volta il pensiero degli allora contrari alla vaccinazione concretizzava opinioni che avevano dell’incredibile. Per esempio, in Italia, e secondo testi di allora, nel 1898 Carlo Rauta, forse il pioniere dei No vax, professore di medicina all'Università di Perugia, a dispetto dei risultati e dei certi e verificati progressi delle pratiche immunizzanti e di vaccinazione, fondo’ la prima Lega italiana anti vaccinazione per contestare apertamente e duramente l'obbligatorietà della vaccinazione antivaiolosa. Secondo quanto riportato da alcuni testi di allora, Rauta esprimeva questi concetti sulla vaccinazione: “non dà il minimo vantaggio, mentre i danni che essa produce sono assai maggiori
[...]. Moltissimi sono i casi di bambini sani e robusti che dopo la vaccinazione diventano macilenti, sparuti, e che non soltanto non riacquistano la salute, ma talora deperiscono fino alla morte”. E sempre da documentazione d’epoca si scoprì che i “complottisti” adducevano, a volte, motivazioni veramente illogiche ed irrazionali. Nel 1917, in mancanza di generi alimentari dovuta alla guerra affermavano e sostenevano che il vaccino conteneva del veleno ed era un mezzo usato dal governo per sterminare i bambini, in modo da ridurre i sussidi alimentari alle famiglie dei soldati impegnati al fronte. In conseguenza di ciò sembrerebbe che moltissime madri, appartenenti ai ceti più bassi, ritiravano i figli da scuole e asili per non doverli vaccinare. E nel 1918 lo sviluppo di veri tumulti e insurrezioni, il ministro degli Interni Vittorio Emanuele Orlando ordinò ai Prefetti di svolgere "un'azione attivissima e decisa per combattere l'insana propaganda". E anche oggi, coloro i quali sono contrari alla vaccinazione, non solo adducono molti dei motivi di allora, ovvero la violazione della libertà di scelta e della responsabilità civile personale richiamandosi la nostra Costituzione, ma aggiungono altre “discutibili” considerazioni che, secondo l’Istituto Superiore di Sanità, il Comitato Tecnico Scientifico, i virologi, gli esperti del settore e molti
La storia dei vaccini scienziati, non hanno un reale riscontro e una effettiva dimostrabilità e quasi sempre sono delle vera fake. In chiusura pubblichiamo il testo dell’Art. 32 della nostra Costituzione che esattamente recita: “La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti. Nessuno può essere obbligato ad un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana”. A parere, però, di molti costituzionalisti, se ci si trova in presenza di rischi per la salute della collettività, è possibile emanare una legge per un trattamento sanitario obbligatorio, quale la vaccinazione. Cosa che in Italia è già avvenuta
con la legge Lorenzin. E per la cronaca il 5 gennaio 2022 il governo Draghi, all’unanimità, ha imposto la vaccinazione obbligatoria alle persone dai 50 anni in su, integrata da altre specifiche restrizioni per contrastare la diffusione del covid. In ogni caso, e a prescindere dalle posizioni dei Pro vax e dai No vax, è indiscutibile e incontrovertibile che le vaccinazioni di massa obbligatorie non solo hanno debellato ed eradicato patologie che, nel tempo,
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Le Olimpiadi invernali in cronaca
Stefania e Amos... MEDAGLIE D'ORO
S
tefania Costantini e Amos Mosaner hanno riscritto la storia del Curling italiano conquistando una meravigliosa medaglia d'oro nel doppio misto alle olimpiadi invernali di Pechino. Il sorriso della ragazza bellunese ha conquistato tutti e rappresenta il miglio spot immaginabile per i prossimi giochi olimpici di Milano-Cortina 2026, comune dove Stefania risiede e che la accolta con tutti gli onori di una campionessa olimpica. Al suo arrivo a Malpensa è stata accolta dal fidanzato e da alcuni familiari, per lei uno striscione enorme con tutte le foto delle sue vittorie a Pechino, in un torneo segnato da 11 vittorie su 11 partite e l'oro conquistato in finale contro la Norvegia. "In realtà non me l'aspettavo, non mi aspettavo tutto questo supporto ed è stato meraviglioso", ha affermato la Costantini ai giornalisti che la aspettavano al suo rientro in Italia. "Già vivere l'Olimpiade è un sogno, vedere l'Italia intera che che ti supporta è pazzesco. Penso sia una cosa importante per il curling italiano, spero che il nostro movimento possa crescere sempre di più e quindi ridurre al minimo gli allenamenti in 1 o 2 e farli arrivare a essere sempre più numerosi". Questa disciplina
conta solo un centinaio di tesserati a livello nazionale e ha cominciato a farsi conoscere in patria in occasione delle olimpiadi di Torino 2006. "Dopo aver finito il round robin da imbattuti, nove partite nove vittorie, ci siamo veramente guardati in faccia e ci siamo detti 'qua è il momento di cambiare l'obiettivo'. Inizialmente volevamo raggiungere le semifinali ma visto il gran lavoro che abbiamo fatto, sembrava giusto scalare fino alla cima e prenderci quello che ci meritiamo e così abbiamo fatto". Ed ora tutto cambierà nella vita di Constantini: "Mi svegliavo presto la mattina per allenarmi a secco, per poi andare a lavoro e tornare la sera ad allenarmi. Invece adesso grazie alle Fiamme Oro ho questa nuova opportunità di fare della mia passione il mio lavoro ed è fantastico. Si sono interessati al nostro sport ancora prima di tutto questo. E' bellissimo perché adesso io ho potuto restituire qualcosa, loro mi hanno dato questa grande opportunità io sono contenta di aver portato questo oro anche per questo gruppo sportivo". Cortina ha accolto con una grande festa i due medagliati, in testa il sindaco Ghedina che non ha nascosto il suo entusia-
smo: "«che emozione ci avete regalato, che orgoglio per Cortina! Siete una coppia leggendaria entrata nell'olimpo del curling". La federazione sportiva di pertinenza da l'esatto valore di cosa oggi rappresenti il curling in Italia: "sarà che richiama la tradizione e quei pomeriggi d’estate trascorsi da nonni e papà giocando a bocce sulla spiaggia. O sarà che dalle Olimpiadi Invernali di Torino 2006 nulla è stato più come prima. C’è che in Italia, oggi, il curling lo conoscono davvero tutti. Quattro contro quattro, con le squadre che si sfidano facendo scivolare sul ghiaccio pesanti pietre di granito levigate, dette “stone”, verso un’area di destinazione, la “casa”, contrassegnata da tre anelli concentrici. Un gioco di tattica e strategia a cui aggiungere precisione chirurgica ed altissima sensibilità: non bastano infatti le capacità del singolo, ma serve una perfetta intesa di squadra per riuscire a coniugare al meglio, con una comunicazione efficace, mente fredda e braccia caldissime. I nervi saldi e il polso fermo, prima e durante il lancio; l’occhio attento e i movimenti rapidi, quando c’è da menare la scopa. Sport completo: per tutti, ma non da tutti". 27
Il futuro virtuale di Patrizia Rapposelli
Sulle ceneri di Facebook nasce il Metaverso, business milionario
È
l’era del Metaverso, un universo virtuale pensato da Zuckerberg. Una reincarnazione di internet, dove la realtà digitale si intreccia a quella fisica. Un mondo dove ognuno dovrebbe poter esistere quando e dove vuole. È la piattaforma del futuro. Chi avrebbe pensato ad un mondo popolato da avatar. Universi virtuali e reali interconnessi. Ciò che poteva essere improbabile è diventato possibile. È il Metaverso. Un modello futuristico di business su cui i grandi colossi dell’hi-tech puntano come nuova forma di comunicazione, divertimento e lavoro. Meta, la società fondata sulle
ceneri di Facebook, si è lanciata in una campagna acquisti di sviluppatori e manager per promuovere e consolidare il Metaverso. E da Microsoft e Google i progetti non tardano in questo verso. È il trend principale del mondo digitale ed eccitazione per milioni di persone. Si tratta di un grande spazio virtuale immersivo in cui si possono vivere le stesse esperienze della vita reale. Basta un device di realtà virtuale, occhiali Oculus, cuffie Cambria e tutto può essere trasformato in forma digitale. Pensiamo al business legato attorno ai gadget hi-tech necessari al fine di un’esperienza con l’internet del futuro.
Occhialini e smartwatch, occhiali Apple in arrivo, in progetto le novità Google, gli Oppo Air Glass; secondo gli analisti di Idc la spesa per l’acquisto di questi dispositivi crescerà fino a 542,8 milioni di dollari entro il 2025. Se Fortnite (videogioco) è arrivato ad attirare fino a 15 milioni di giocatori online, nel 2022 la sfida per Meta, Nvidia, Microsoft & co è aperta. Concerti, cene, fiere, meeting di lavoro, incontri con gli amici, attività sportive, shopping, etc. Un nuovo ambiente 3D da casa. Per certi versi inquietante sotto molti punti di vista psicologici e sociologici. Dall’ annuncio del ceo di Facebook,
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Il futuro virtuale anche il mondo dei social network potrebbe subire dei cambiamenti. “Il metaverso è il prossimo capitolo di internet, è fatto per connettere le persone e Horizon è la piattaforma che stiamo costruendo”, dice Zuckerberg. Quando Neal Stephenson nel libro Snow Crash (del 1992) usa la parola metaverso per descrivere l’ambiente virtuale in cui far vivere l’avatar digitale del protagonista del romanzo, forse, non pensava che questo scenario di fantascienza potesse essere possibile nel 2022. Il Metaverso è un sistema in cui non esiste barriera tra vita reale – digitale e gli investitori non mancano. Mirano ai suoi prodotti: dalle criptovalute alle azioni collegate ai colossi dell’hi-tech, dai sistemi fondati sulle blockchain ai giochi di nuova generazione. È un sistema che si sviluppa in rete, ma che ha contatti con la realtà di tutti i giorni. È possibile guadagnare sia giocando, che investendo negli stru-
menti finanziari. Si tratta di possibili rendimenti futuri investendo in azioni che fanno riferimento ad aziende come Facebook, Microsoft e Nvidia Corporation. Acquistare criptovalute legate al Metaverso e molto altro. Le opportunità di diversificare il portafoglio sono significative, ma il percorso è nuovo e ci sono dei rischi. Al di là del business milionario che si ha tra le mani, siamo di fronte ad una società che ha imboccato una nuova strada. La realtà virtuale è stata progettata in modo che la mente e il corpo non distinguono le esperienze digitali da quelle reali. È ancora una piattaforma sviluppata senza controllo. Non studiare ed educare ai nuovi mondi virtuali potrebbe fare disastri ed esporre a patologie sociali- dal bullismo digitale alla difficoltà di trovare l’identità personale e costruire rapporti interpersonali equilibrati- molto insi-
diose rispetto a quelle conosciute fin qui nell’era web. Metaverso tra scetticismo ed eccitazione è il futuro.
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Il teatro del mondo di Laura Mansini
SHAKESPEARE ITALIANO FORSE VENETO
Questa riflessione, che avrebbe fatto inorridire gli inglesi, ce la pose Fabio Storelli (Roma 1937-Trento 2011) autore, sceneggiatore regista della Rai; fra le sue regie più apprezzate ci piace ricordare lo sceneggiato televisivo dei primi anni 70, “Le sorelle Materassi” di Aldo Palazzeschi. Eravamo ad una Castagnata fra amici e Fabio, personaggio quanto mai interessante e divertente, grande affabulatore, al ritorno da una trasferta teatrale nel Veneto se ne uscì con questa riflessione. Naturalmente tutti fummo sorpresi e divertiti dalla sua uscita, fatta con molta serietà. Iniziò col dirci che, tradotto dall’inglese, Shakespeare vuol dire “Scuoti scene” o “ Scuoti lancia”; potrebbe essere stato, quindi, un soprannome dato ad una compagnia di Attori della commedia dell’arte italiani andata in Inghilterra. Forse una compagnia veronese, vista la conoscenza dei luoghi, la descrizione dei castelli delle colline. Certamente la provocazione di un amico innamorato come noi di
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Shakespeare. Fu infatti una serata divertente ed interessante dove contrapponemmo le nostre teorie che lo accusavano di essersi fatto influenzare dalla cultura romantica del ‘700 e ‘800 , la quale aveva costruito varie storie attorno alla figura di Shakespeare; si diceva infatti che dietro questo nome si celassero nobili come Lord Southampton che lo presentò alla regina Elisabetta, oppure attori italiani, come Florio. La tesi Romantica del genio che si era fatto dal nulla e che poteva avvallare le ipotesi più bizzarre come appunto essere un fenomeno senza radici, scoppiato all’improvviso miracolosamente,
che addirittura venisse dalla commedia dell’Arte italiana si infrange contro la grandezza della sua genialità. Gli storici hanno, infatti, affermato con sicurezza che William era nato a Stratford-on-Avon nel 1564 da famiglia benestante. La madre, Mary Arden discendeva da un’antica famiglia di proprietari terrieri, di fede cattolica come il padre, commerciante e coltivatore di orzo e legname. Il giovane Shakespeare dapprima condusse una vita agiata e frequentò la Grammar Scool locale, studiando grammatica e latino, ma a quindici anni dovette abbandonarla, causa dissesti finanziari del padre, probabilmente dovuti alla fede cattolica. A 18 anni sposò Anna Hathaway, di otto anni più grande di lui, dalla quale ebbe tre figli.
Il teatro del mondo Si racconta che per difficoltà finanziarie verso il 1586 si sia trasferito a Londra. I più maligni dicevano per liberarsi del peso famigliare, in realtà andò a Londra per cercare un lavoro che lo aiutasse sia psicologicamente che finanziariamente. Le notizie dicono infatti che non fece mai mancare aiuti alla famiglia. Si racconta che fu garzone di macellaio ed è stato tramandato l’aneddoto della sua grande eloquenza nel rivolgere agli animali macellati una sorta di rituale elogio funebre. Il suo primo lavoro a Londra lo trovò presso l’impresario teatrale James Burbage, proprietario del “Theatre”. Dopo l’inizio, come servo di scena, ben presto cominciò a recitare ed a cercare copioni adatti ad essere rappresentati dimostrando immediatamente le sue immense capacità. Come spiegare allora la conoscenza di Verona, delle sue chiese, delle colline e Castelli, di Venezia, di Padova, furono le prime domande che ci rivolse Fabio, riferendosi a “La Bisbetica domata” (1590/91), ”I due gentiluomini di Verona” (1590/91), “Romeo e Giulietta” (1594/95), lo straordinario “Mercante di Venezia, (1596/98) o la tragedia della Gelosia per eccellenza, l’”Otello” (1602). Sappiamo che molti autori dell’età Elisabettiana ,come Marlove, King, e Shakespeare amavano la cultura
italiana, leggevano le storie, le cronache, le novelle, non esclusi copioni della Commedia italiana (classica e dell’Arte). In realtà Shakespeare non inventò nulla. Col suo lavoro d’attore e di regista si impadroniva del lavoro altrui per rielaborarlo, ridurlo e trasformarlo a suo modo. Il risultato ? Opere o storie mediocri, divengono in mano sua opere d’arte e capolavori. L’originalità della tecnica, dello stile, che ancora ci affascina ed offre ai registi contemporanei la possibilità di sviluppare gli intrecci anche con tecniche, attualissime era quella che tutti i drammaturghi elisabettiani ed i loro predecessori avevano ereditato dal teatro medievale. Lo stile di Shakespeare è tuttavia inimitabile e personalissimo tanto da farcelo apparire straordinario anche ai nostri giorni. Il Bardo, ad esempio in “Romeo e Giulietta” dramma giovanile, costruito con una certa inesperienza, ci racconta una storia d’amore fra due adolescenti, figli di famiglie rivali , che nasce da uno sguardo durante un ballo e che si sviluppa in poche ore, costruendo e donandoci la più
romantica e straziante storia d’amore di tutti i tempi. Nulla è infatti comparabile alle scene sul balcone fra i due innamorati, che ha reso famosa Verona nel mondo. Come straordinaria e la figura del mercante Schylock , o Catina e Petruccio, senza dimenticare la folle gelosia di Otello e la perfidia di Jago. Su una cosa eravamo tutti d'accordo: Shakespeare può stare al Teatro, alla poesia, come Michelangelo alla scultura ed alla Pittura.
LA PAROLA AI LETTORI COMUNICATO DI REDAZIONE
Chi fosse interessato alla pubblicazione di uno scritto o un articolo riguardante una opinione personale, un fatto storico, di cronaca o di un qualsiasi avvenimento, può farlo indirizzando una email a: direttore.feltrinonews@gmail.com. Il testo, di massimo 3.500 battute, dovrà necessariamente contenere nome e cognome dell’articolista l’indirizzo di residenza e un recapito telefonico per la verifica. Il direttore si riserva la facoltà della non pubblicazione in caso l’articolo non dovesse rispettare l’etica giornalistica o d’informazione.
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Storie di casa nostra di Beatrice Mariech
FELTRE, CITTÀ ROMANA
C
he la città di Feltre abbia vissuto un periodo florido in epoca romana non è di certo un mistero e sicuramente non deve stupirci. Ma quali furono i momenti salienti e quali sono le tracce che la grande Roma ha lasciato sul territorio? Innanzitutto non è completamente chiaro quando, e attraverso quale modalità Feltre, secondo Plinio il Vecchio città fondata dalla popolazione tirrenica dei
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Reti, divenne dominio romano, è però quasi sicuro che ciò avvenne nel 172 a.C. Feltre prese in principio il nome di oppidum, ed è interessante sottolineare il fatto che venisse chiamata forum oppidum, molto probabilmente perché grazie alla sua posizione strategica – un luogo di confine tra i territori germanici e quelli romani – era zona di scambi commerciali, dunque un vero e proprio forum, ovvero piazza di mercato. In età repubblicana, tra il 49 e il 42 a.C., la città divenne un municipium, che per i romani stava a indicare un centro cittadino legato a Roma che però poteva mantenere la sua autonomia giuridica e amministrativa; perché un centro potesse essere considerato municipium, i cittadini dovevano far parte di una delle tribù romane, così i feltrini vennero inscritti all’interno delle tribù Publicia e Menenia, come confermano alcune iscrizioni ritrovate in città e in seguito trasferite a Padova. Una leggenda vuole che Giulio Cesare, giunto a Feltre per controllare in prima persona l’operato all’interno del municipium, avesse lasciato la città dopo un soggiorno particolarmente breve a causa dell’inverno troppo rigido. Celebre è il distico che ne sarebbe derivato: “Feltria perpetuo niveum damnata rigore, atque mihi posthac haud adeunda, vale”, che po-
tremmo semplicisticamente tradurre con “Ti saluto Feltre, condannata dalla neve al rigore perenne, in futuro non sarai più visitata nemmeno da me”. Sembra che queste parole fossero anche state riportate, come scrive Pietro Bembo nel suo libro “Storia Veneta”, su di una lastra in marmo che si trovava nei pressi di un’antica porta, andata distrutta durante l’incendio del 1509, che costituiva l’ingresso principale della città. Si narra inoltre che il fiume Cordevole debba il suo nome proprio al console romano: durante lo spostamento tra Feltre e Belluno, rimasto bloccato dal fiume ingrossatosi a causa delle forti piogge, per rispondere ai suoi che gli chiedevano se avesse intenzione di guadarlo, diceva: “Cor dubium habeo”, “Ho il cuore dubbioso”, attribuendo così al corso d’acqua il nome di “Cordubbio”, che con il tempo si trasformò proprio in Cordevole. La maggiore eredità di epoca romana che ad oggi possiamo ancora apprezzare sul suolo feltrino è l’area archeologica
Storie di casa nostra situata al di sotto del Duomo. All’interno dell’area archeologica, un ambiente ipogeo di novecento metri quadrati, è possibile ammirare le tracce di un’antica strada romana provvista di marciapiedi che si snoda tra diverse strutture, tra le quali edifici residenziali, una bottega e uno stabile con funzione pubblica, molto probabilmente sede di associazioni professionali. Nel 1974 all’interno dell’area venne rinvenuta la celebre statua di Esculapio, il più grande esemplare del centro e del nord Italia a rappresentare la divinità greca della medicina. Databile al II secolo d.C., è priva della testa e dell’arto destro, con il quale molto probabilmente impugnava il bastone sacro che da tradizione iconografica identifica la divinità, sul quale è avvolto un serpente. Tuttavia l’apporto storicamente più influente durante la dominazione romana è sicuramente la via Claudia Augusta,
strada romana che si estendeva per 518 chilometri e che doveva collegare i territori sotto il dominio di Roma alle zone germaniche e in particolare l’Adriatico al Danubio. Venne iniziata nel 15 a.C. da Druso Maggiore, generale di Augusto, che per primo definì l’itinerario e portata a termine nel 46 d.C. dal figlio, l’imperatore Claudio. La scoperta della via Claudia Augusta avvenne in seguito al ritrovamento di due cippi miliari identici, il primo a Merano nel 1552, mentre il secondo presso Cesiomaggiore nel 1786. Alcune discrepanze riguardo la località presso
la quale la via doveva iniziare hanno fatto sì che si arrivasse alla conclusione che con ogni probabilità esistevano due strade omonime, la Claudia Augusta Altinate che da Altino passava per Trento e raggiungeva il Danubio e la Claudia Augusta Hostilia, la quale partendo a Ostiglia si congiungeva alla prima presso il capoluogo trentino per poi terminare in terra tedesca. Certo è che la città di Feltre costituiva un importante snodo viario e soprattutto ricopriva un evidente ruolo di mediatrice tra il mondo latino e quello germanico, ruolo che ha mantenuto e che continua a mantenere nel tempo.
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SANREMO
IL CROGIUOLO DI VOCI E NOTE
“
Chi vince festeggia, chi perde spiega”. Il motto inventato dal guru del volley, Julio Velasco lo possiamo applicare a questo festival di Sanremo dai numeri panciuti. Già, cinque serate che hanno fatto segnare picchi di ascolto da capogiro per i vertici Rai e per tutti coloro, Amadeus in primis, che lo hanno confezionato. Certo, qualcuno potrà obiettare e dire che la quantità non fa la quantità, anche ciò è vero, ma per coloro che vendono gli spazi pubblicitari durante la settimana, poco importa. I profitti legati al festival fanno sorridere fino alla paresi gli economi della tv di stato (si dice ancora?). Poi c'è la musica ovviamente. Non dobbiamo più ragionare nei termini di bella o brutta, ma di target. Oggi il target, il bersaglio in italiano, conta tantissimo e il festival, da anni direi, cerca di colpirne il maggior numero possibile. Ecco perché non dobbiamo stupirci di trovare Gianni Morandi e Iva Zanicchi, al fianco di Rkomi o Tananai. Si cerca di spaziare in un raggio anagrafico il più ampio possibile. Ami il cantautorato? Nessun problema! Ecco Giovanni Truppi, ti piace il reggaeton di Ana Mena, romanticismo che cola? Via di Moro/ Elisa/Ferreri. Il tormentone è assicurato da La rappresentante di lista. La loro “ciaociao” ci farà compagnia molto a lungo. I giovani non ci sono più, o meglio, lo sono anagraficamente, ma tutti sanno già come si muove il carrozzone. Sangiovanni, Tananai, Yuman, Matteo Romano,
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sono coloro che viaggiano nelle classifiche. Che effettivamente hanno il tempo che trovano. Lo dimostra ampiamente il “caso” Tananai. Ultimo al sabato sera, ma suonatissimo tra radio e spotify. Togliendo la classifica delle “nuove proposte”, può stridere l'accostamento tra Akaseven e Massimo Ranieri. Ma a pensarci bene, forse male non fa. Se la musica è davvero la forma di democrazia più genuina, perché inscatolare in categorie gli artisti? Certo, la bellezza sta nel commentare ogni serata, anni fa accadeva al mattino di fronte al caffè, ora sui social ovviamente, ma siamo tutti in quella settimana critici musicali, come all'occorrenza siamo allenatori e qualunque categoria venga chiamata in causa. Fermo restando quei duri e puri che “mai visto il festival, è brutto”, senza pensare allo strano ragionamento che lega le due cose. A me è piaciuto molto Rkomi, il suo pezzo è davvero “potente”, gira benissimo in radio e si muove bene anche in classifica. Poteva anche aspirare al podio, ma per quello ci sono altri discorsi da fare e non tutti sono eticamente corretti. Di solito, dopo la gara si raccolgono i frutti, che vuol dire serate e concerti. Il clima di
pandemia tiene tutti con il fiato sospeso, sarebbe un peccato non poter andare a ballare con D'argen D'amico o la strana accoppiata Rettore/Ditonellapiaga. Il festival però ha un vincitore, o meglio, una vincitrice assoluta. Drusilla Foer. Una signora agè, elegantissima, ironica. Portata al successo da un attore intelligente come Gianluca Gori, nella sua serata ha preso pieno possesso di tutto il suo talento. Lo dimostra come la sua tourneè, nei giorni successivi, ha preso un picco pazzesco. Sold out ovunque, anche a Trento. Ora, a conti fatti, Amadeus dovrebbe fare come la Pennetta. Vinse gli open di New York di tennis e nel discorso post vittoria, diede addio allo sport. Immagino che non sia facile ma un quarto festival monogestionale potrebbe essere fatale. Mi piacerebbe un nome davvero fuori dagli schemi, Gepi Cucciari, Favino... artisti che magari poco hanno a che fare con la musica, ecco perché Ama potrebbe fare da direttore artistico, ma che porterebbero linfa nuova. Chiudo con una triste annotazione per noi addetti ai lavori. Per il secondo anno, le interviste sono state fatte in remoto, togliendo il gusto di avere di prima mano le emozioni che indubbiamente Sanremo ancora regala. So che ci sono categorie che hanno sofferto, che hanno perso tanto se non tutto. Ma il ritorno alla normalità per noi vuol dire anche continuare a fare il nostro mestiere nel migliore dei modi. Guardiamo avanti imparando dal vissuto.
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AUTONOMIA LADINA IL MODELLO TRENTINO
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opo 70 anni torneranno a Cortina d'Ampezzo i giochi olimpici. L'annuncio è stato fatto anche dal sindaco Giampiero Ghedina che ha salutato gli ospiti e i giornalisti presenti alla conferenza stampa in inglese, italiano e... ladino: " sia bona rute " ha detto. Il ladino è la lingua parlata e scritta da qualche migliaio di bellunesi ma si calcola che i discendenti dagli antichi ladini delle vallate del Cadore, Comelico Ampezzano... residenti in 36 comuni, siano almeno 60 mila ovvero quattro volte quanti ne possano contare i cugini della vicina Regione Trentino Alto Adige con le due Province di Bolzano e Trento, dove oltre alla cultura, la tradizione e il cuore o senso di appartenenza, la lingua ladina, assieme alla minoranza sud tirolese, giustifica in buona parte l'Autonomia speciale. Su questo tema la Provincia d Belluno si è addormentata in un sonno agitato da cui si è recentemente risvegliata riscoprendo il valore di questa cultura complementare e non alternativa. Un
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dato di fatto che vede i ladini separati in casa: da una parte tre comuni che vogliono stare per proprio conto facendo riferimento all’Istitut Cultural Ladin Cesa de Jan di Colle Santa Lucia (sono gli ex tirolesi Cortina d’Ampezzo, Livinallongo del Col di Lana e Colle, con una “finestra” aperta per Rocca Pietore); dall' altra tutto il restante “mondo ladino” della parte alta della provincia di Belluno, che vuol dire Cadore (con il Comelico, che è Cadore), Agordino e Zoldo, che dall'inizio del nuovo Millennio aveva trovato un punto di incontro, confronto e sintesi nell’Istituto Ladin de la Dolomites di Borca di Cadore, attuatore delle politiche provinciali sul ladino, ma esperienza da considerarsi oggi conclusa. Da questo mondo così piccolo e pur diviso arrivano due notizie, una bella, l'altra cattiva. Partiamo da quest'ultima, già nota ai più, ma sconfortante. Cinque anni fa, dopo 17 anni di attività, è stato chiuso L'Istituto Ladin de la Dolomites di Borca che
era ospitato nel palazzo dell'Unione montana della Val Boite. Nato nel 2003 su iniziativa delle Unioni ladine delle vallate dell'Agordino, Zoldo, Cadore e Comelico in accordo con la Provincia, l'Istituto ha iniziato a operare con i finanziamenti della legge statale sulle minoranze linguistiche, la 482 del 1999, facendo riferimento alla normativa che prevede l'apertura di sportelli linguistici nei Comuni di minoranze linguistiche. "Problemi economici," dice Franco De Bon confermato lo scorso dicembre in Consiglio Provinciale di Belluno, a cui sono state assegnate competenze specifiche. "L'Istituto, spiega De Bon, aveva una sua autonomia di carattere finanziario e contava su contributi per le spese correnti di funzionamento; era un istituto autonomo e alla fine la situazione sia dal punto di vista finanziario che amministrativo era insostenibile. Erano anni che non facevano più bilanci che si erano attestati sui 100 mila euro all'anno, e il deficit si era accumulato dal 2010 perché erano venuti a mancare i finanziamenti per le spese correnti..E allora capolinea." Uno scivolone che la Provincia stessa ha impedito diventasse caduta disastrosa acquistando il patrimonio librario dell'istituto. Valore 100 mila euro che, dice De Bon " serviranno per mettere a disposizione questo patrimonio per la consultazione. Le funzioni dell’Istituto di Borca verranno riassorbite all’interno della Provincia, con strutture proprie». Nel frattempo si procede in ordine sparso e ci sono le Unioni Ladine che
Veneti ma autonomi prendono soldi da una legge regionale. Sono associazioni che promuovo la lingua e la cultura attraverso eventi, teatro, pubblicazione. Una proposta unitaria viene dal Presidente della Federazione delle Unioni Ladine di Belluno, Lucio Clare Eccher , che ha chiesto di mantenere una sede presso la Provincia per raccordare tutte le Unioni. Veniamo ora alla buona notizia. Federco D’Incà, Ministro per i rapporti con il parlamento, nato a Belluno nel 1976, ha incontrato ufficialmente Denni Dorigo, direttore dell’«Istitut Cultural Ladin Cesa de Jan», ente di riferimento delle comunità ladine di Cortina d’Ampezzo, Colle Santa Lucia e Livinallongo del Col di Lana e ha assicurato la propria disponibilità a sostenere i ladini nella loro richiesta di ottenere maggior tutela e attenzione, al fine di avvicinarsi il più possibile al grado di tutela di cui godono altre valli ladine (Fassa, Badia e
Gardena). "L' attenzione per tutelare i valori della minoranza ladina rimane molto alta – ha sottolineato il ministro – e l’incontro con il direttore Dorigo è stato utile per confrontarsi su un tema così importante: deve essere nostro compito salvaguardare e valorizzare la storia e la cultura ladina». Tra i temi affrontati, dalla possibilità di dichiararsi ladini nel censimento nazionale, alla carta d’identità in lingua ladina, passando per gli ostacoli che dopo vent’anni non permettono una piena applicazione della legge nazionale 482/1999: in primis quelli rela-
tivi all’insegnamento del ladino nelle scuole, aspetto fondamentale per la sua conservazione. Lo scorso anno è stata data attuazione alle legge statutaria regionale 25 del 2014 che prevede una particolare autonomia alla Provincia di Belluno che ha specificità montane, che, con legge regionale del 2020 di attuazione comprende le minoranze linguistiche e concede autonomia nei settori caccia e pesca
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UNA FARFALLA DI NOME LOÏE FULLER
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arzo è il mese dell’equinozio di primavera. Un mese un po’ bizzarro, in cui si dice che l’inverno si difenda dagli attacchi della primavera con gelate, capricci, piogge, venti, perturbazioni. Ma lo sa da solo che inalberarsi è inutile, e che dovrà arrendersi. È solo questione di tempo. Qualche giorno fa ho visto la prima farfalla. Giallissima ed elegante, ha svolazzato tra i grappoli di inflorescenze dei noccioli. Impossibile non notarla. Mi ha fatto ripensare all’opera di cui voglio parlarvi oggi, che, lo vedrete subito, è piena di primavera. Vi porto indietro nel tempo, e vi racconto la Danse Serpentine di Loïe Fuller.
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Siamo alla fine dell’Ottocento, a Parigi, nel locale Folies-Bergère. Guardate le immagini. C’è una donna, su un palco. Sola. Non c’è altro oltre a lei: né oggetti di scena, né scenografia. Indossa un vestito ampissimo, una sorta di grande tunica, che fa vorticare sul palco, ottenendo movimenti fluidi e estremamente sinuosi. La sua danza serpentina. È farfalla, fata, essere svolazzante, quasi un pipistrello. Ecco che ora è un uccello notturno, e poi cerchio, ellisse, fiore, calice, disegno rapidissimo e sempre diverso, colorato. È pura leggerezza. Impermanenza. Credo non avreste nulla in contrario se usassi la parola bellezza. Sì, perché è un essere bellissimo e lieve, in grado
di sorprenderci ancora, oggi, a distanza di più di un secolo, esattamente come quella farfalla che ho visto io. Ne conserva la naturalezza e la grazia. La dignità e il temperamento. Facciamo un salto “dietro le quinte”. Da dove arriva una così ampia veste? E come mai è colorata? E chi è questa donna? Un’attrice? Una danzatrice? Partiamo a ritroso, da lei. Mary-Louise Fuller nasce in Illinois nel 1862. È donna, e omosessuale. Inizia a lavorare giovanissima, autodidatta, come attrice teatrale, danzatrice in spettacoli di folklore, operette, vaudeville, circhi, burlesque e teatro di varietà. Fa anche la manager, l’autrice teatrale e la coreografa, muovendosi tra
Racconti d'arte
Parigi, Londra e New York. Il suo nome comincia a cambiare e prendere la forma di quel nome d’arte con cui oggi la ricordiamo. Prima La Louie, gioco tra la forma elisa del suo nome e il termine “l’ouïe” che in francese indica l’udito, e poi La Loïe, per corruzione dell’espressione medievale “l’oïe” che significa comprensione e ricettività. E la ricettività in lei è totale, massima. Assorbe tutto, dalla più piccola intuizione alle grandi scoperte scientifiche. Lei non risponde ai canoni di bellezza cui siamo abituati rivolgerci quando pensiamo ad una danzatrice: è robusta, e anche fortemente miope. Non è nemmeno una ballerina in senso stretto, perché non ha mai studiato danza. Eppure trasforma il mondo della danza. Nella sua autobiografia dice che questa rivoluzione è nata quasi dal caso. Un giorno, ballando davanti ad uno specchio, si rende conto di come i riflessi dorati del sole «si rincorrevano tra le pieghe di seta luccicante» del suo abito. E continua così: «in quella luce il mio corpo veniva appena rivelato sotto forma di una sagoma oscura. […] Avevo creato una nuova danza. Perché non ci avevo mai pensato?». E da questa intuizione crea davvero una nuova danza. Ingrandisce sempre di più il vestito, arrivando fino a 350 metri di stoffa che per
fluttuare necessita di duri e costanti allenamenti. Tiene la stoffa allacciata al collo e usa delle bacchette come prolungamento delle braccia, per rendere ancora più ampia la possibilità del movimento. È vorace di tutto quello che sta accadendo nel mondo culturale e scientifico. Sfrutta le conoscenze degli studi sulla luce e il passaggio dall’illuminazione a gas a quella elettrica, e approfondisce le ricerche sull’influenza dei colori sugli or-
ganismi. Quegli enormi tessuti diventano per lei schermi, sui quali punta proiettori con vetrini colorati e utilizzando gelatine. È inarrestabile. Nel 1890 i coniugi Curie scoprono il radio e Loïe Fuller chiede loro di aiutarla a fabbricare delle ali di farfalla fosforescenti, dipinte con una vernice ricavata proprio dal radio. Dietro la leggerezza delle immagini che guardate e dei movimenti che state immaginando, c’è dunque tantissimo: allenamento, studio, connessione con una tecnologia in continua progressione, e la grande capacità di respirare e appropriarsi degli accadimenti del proprio tempo. Quello che vedete, ovviamente è “solo” arte. Un’arte che i suoi contemporanei non fanno a meno di notare. Di Loïe Fuller parla Stéphane Mallarmé, le rende omaggio Marinetti nel suo “Manifesto della Danza Futurista”, la ritrae Henri de Toulouse-Lautrec. E ne subiscono il fascino registi e grandi scenografi come Adolphe Appia e di Edward Gordon Craig. Niente male per una ragazzotta ritenuta piuttosto brutta e a cui probabilmente non avreste dato un centesimo… alla prossima farfalla, fateci un pensiero. Buona primavera!
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Noi e la storia di Waimer Perinelli
FELTRE: QUANDO GLI ALPINI DOVEVANO UCCIDERE HITLER E MUSSOLINI
A
dolf Hitler e Benito Mussolini dovevano morire a Feltre il 19 luglio del 1943. Quel giorno nella villa del senatore del regno Achille Gaggia a San Fermo, si svolse fra i due dittatori di Germania e Italia quello che è passato alla storia come “l'Incontro di Feltre” e gli alpini erano pronti ad ammazzarli. Tre fattori rendono storicamente e umanamente importante quell'evento. Il primo è che in questa casa nota anche come villa Socchieva dal latino “Sub clivo”, situata in una località isolata fuori Belluno a venti chilometri di Feltre, un centinaio di alpini era pronto, a costo della vita, ad eliminare Mussolini ed Hitler. A confermare il progetto dell'attentato è Armando Bettiol che, intervistato nel 2003 da Roberto De Nart, autore del libro Belluno ieri e oggi, racconta le riunioni che precedettero quel 19 luglio del ’43 quando il maggiore De Vecchio fece da tramite con l'antifascismo bellunese. “Il progetto dell'attentato, probabilmente a conoscenza dello 40
Stato Maggiore dell'esercito italiano, racconta Bettiol, prevedeva il coinvolgimento di un centinaio di alpini alloggiati in una caserma di Feltre”. Militari reduci dalla Russia tornati carichi di avversione per chi li aveva mandati a farsi massacrare per mancanza di armi, preparazione e logistica. Il sergente degli alpini Nino Piazza negli atti del Convegno “Alpenvorland 1943-45” dichiara :” Eravamo partiti in 1.800 per la Russia e tornammo in 117 (…) nella caserma l'insofferenza per la disciplina era totale. Si sentiva gridare vina Lenin, viva Stalin morte al Duce”. Fra questi uomini, mandati al macello a 40 gradi sotto zero nelle steppe russe, era facile trovare uomini disposti a
tutto pur di eliminare il Duce. Al coordinamento dell'attentato partecipavano il Comitato d'Azione antifascista che faceva capo al Partito d'Azione e la rete del Partito Comunista, due organizzazioni presenti a Belluno fin dal 1942. L'organizzazione prevedeva che il picchetto d'onore, spettante per tradizione agli Alpini, al momento della presentazione delle armi, scariche per regolamento, lanciasse delle bombe a mano contro i due dittatori. Un'azione kamikaze visto che erano presenti e di scorta anche le SS di Hitler. Il secondo elemento importante dell'Incontro di Feltre è il pesante “rimprovero” che Mussolini subì da Hitler a causa delle molte sconfitte inflitte dagli alleati agli italiani, l'ultima, in quei giorni, lo sbarco in Sicilia. Racconta Paul Schmidt, interprete-traduttore di quasi tutti i diciassette incontri che dal 1933 al 1944 si svolsero fra i due dittatori, che “Mus-
Noi e la storia
solini visibilmente afflitto … era seduto con le gambe incrociate sul bordo della sua poltrona, troppo vasta e profonda....Di tanto in tanto tirava un grosso sospiro come a sopportare un fastidioso monologo e guardava Hitler che con voce sempre più stridula continuava a a rovesciare un flotto di rimproveri e recriminazioni, un lungo inventario di cose che l'Italia non aveva fatto o aveva fatto male”. Fu durante questo incontro che Mussolini lesse al Fuerer un messaggio che informava dell' Operazione Crosspopint o Notte di San Lorenzo, ovvero il bombardamento di Roma che causò tremila vittime. Con questa catastrofica notizia alle 15 si chiuse, con un nulla di fatto l'incontro. Il terzo elemento è che l'attentato ai due dittatori non ebbe luogo perché all'ultimo momento ci fu un cambio di programma e il picchetto degli alpini venne
cancellato. Viste le accresciute difficoltà, l'attentato fu sospeso per ordine delle direzioni nazionali del PCI e del Partito d'Azione, sebbene le armi per l’operazione fossero pronte. C’era una cassa di bombe a mano nascosta in casa di Armando Bettiol, pronta ad essere trasportata all’interno della recinzione di Villa Gaggia. Cosa non facile perché le SS vigilavano nel parco e nella villa, ma tuttavia praticabile. Cos'era accaduto perché i nazisti allontanassero gli alpini e scegliessero come guardie della villa le sole SS? Forse qualcuno aveva avvertito i tedeschi e fascisti. Questo non lo sapremo mai, ma è certo che l'annullamento dell'attentato favoriva il complotto che sei giorni dopo, lo storico 25 luglio, a Roma avrebbe sfiduciato Mussolini e ridato il potere al Re. Secondo alcuni storici l'attentato fu
annullato anche perché non era gradito nemmeno al Vaticano preoccupato dal predominio comunista in caso di caduta del Fascismo e favorevole all'arrivo degli anglo americani. Il risultato fu che la guerra continuò per altri due anni causando altre sofferenze e migliaia di morti. La decisione di non uccidere i due dittatori è stata paragonata a quella di Stalin che per non avere rivali nella “liberazione” di Varsavia lasciò che questa venisse distrutta dai tedeschi in ritirata. Con lo stesso cinismo l'Italia di Mussolini aveva iniziato questa guerra attaccando la Francia morente. “ Qualche morto, disse il Duce, come scrive anche Bruno Vespa, per sedere al tavolo delle trattative di spartizione dei territori francesi”.
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Il senso religioso di Franco Zadra
Di quella ingenua baldanza...
L'incidenza della moralità sulla dinamica del conoscere.
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orse è più complicato oggi parlare di moralità rispetto a quando, sul finire degli anni Sessanta, don Giussani scrisse il capitolo terzo del suo testo “Il senso religioso” che stiamo seguendo passo passo in questa rubrica. Però si rimane meravigliati della freschezza e semplicità con la quale il fondatore di CL ha ampiamente anticipato, cogliendone l'ossatura di fondo, quelle che sono state poi vere scoperte nell'ambito delle neuroscienze riguardo a come funziona il processo del conoscere che investe la persona – diremmo oggi – in senso olistico, nella sua totalità. Rimando quindi coloro che ci stanno seguendo in questo percorso a una lettura attenta di quel capitolo che qui terremo sotto traccia, poiché pensiamo valga la pena un incontro personale con il genio comunicativo di Giussani, al di là del vissuto di ciascuno e delle convinzioni
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che alimentano il nostro proprio gusto del vivere. Parliamo quindi di come funziona il nostro “conoscere”, una funzione sempre attiva nella persona e che ha poco a che fare con quello che intendiamo con “intelligenza”, almeno molto meno di quanto coinvolga la “moralità”. Ma che cosa dobbiamo intendere per moralità? L'arte del comportarsi bene? No! Lo stare alle regole? No! Moralità è più un gusto, un senso, che una capacità. È la meraviglia della scoperta che la realtà è buona e che la natura ci ha fornito di tutti gli strumenti, il sentimento, per riconoscere “i valori”, ciò che ci fa dire «ne vale la pena!». Moralità è una potenza che i bambini sanno gestire più degli adulti, alla quale non possiamo resistere se non tacitando parti importanti del nostro essere, che sperimentiamo per esempio quando siamo innamorati di qualcuno o di qualche cosa. Una forza che ci fa superare ostacoli che a tavolino avremmo potuto giudicare impossibili. Il sentimento, quando Giussani scriveva, era percepito piuttosto come un ostacolo alla conoscenza, una sorta di distorsione della realtà, qualche cosa da escludere dal metodo della ricerca scientifica o matematica. Oggi comprendiamo meglio la portata profetica dell'immagine che ha usato il “Gius” per dirne la funzione nella dinamica conoscitiva, soprattutto in relazione a quei valori che sentiamo più vitali, la stessa che ha la lente di un cannocchiale che si frappone di fatto tra
la ragione che indaga e l'oggetto allo studio, ma per avvicinarlo e renderlo più chiaro e comprensibile. Cogliamo meglio la verità di quel proverbio napoletano «ogne scarrafone è bell'a mamma soja», o dell'aforisma di Pascal «il cuore ha ragioni che la ragione non conosce» e, come quando apriamo le finestre per dare aria ai locali di casa, possiamo rendere più respirabile-agibile, scoprendo che davvero ne vale la pena, quel lavoro ineluttabile e che ci occupa costantemente di guardare al destino universale, ma anche personale, sperimentando una gioia inaudita che già faceva cantare all'antico Israele col salmo 4, «Hai messo più gioia nel mio cuore di quando abbondano vino e frumento». Moralità è questa possibilità di sperimentare quella gioia che non dipende dai beni che possediamo, o dalle circostanze che affrontiamo, ma Dio stesso – da agnostici, diciamo pure la natura – ci mette nel cuore. Un mondo affascinante e positivo che, come fa Gioconda Belli nel suo “L'infinito nel palmo della mano” edito da Feltrinelli, ci restituisce alla cultura giudaico-cristiana sulla quale si fonda tutta la storia dell'Occidente.
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Il personaggio di Alice Vettorata
Lorenzo Luzzo Il morto da Feltre
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el precedente articolo di questa rubrica è stato presentato Carlo Goldoni, una personalità di spicco nel mondo teatrale molto legata alla città di Feltre, dato che debuttò al Teatro de la Sena. Usciti dalla nostra visita virtuale presso il Teatro proseguiamo verso la maestosa piazza Maggiore e ci incamminiamo in direzione di Port’Oria, uno degli accessi al borgo verticale. La via che stiamo percorrendo è intitolata a Lorenzo Luzzo, il pittore nato a Feltre nel 1480 con una biografia
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incerta, la quale ha sollevato diversi dubbi tra gli studiosi del settore. Infatti, causa testimonianze discordanti, rare o poco attendibili alcune biografie possono non essere molto complete. Per questo motivo si va a creare un alone di mistero attorno ad alcune identità, come è avvenuto nel caso di Lorenzo Luzzo, noto anche come “Il morto da Feltre”. Si guadagnò questo soprannome forse a causa del suo temperamento un po’ malinconico, ma sono possibili anche altre interpretazioni, come quella che deriva dalla volontà da parte di Luzzo di studiare le grottesche. Ciò vale a dire, le pitture parietali situate nelle località sotterranee, come ad esempio le grotte risalenti all’Impero Romano, che ritraggono un amalgama di creature mostruose, componenti naturali e arte decorativa. Non solo. Negli scritti del critico d’arte Giorgio Vasari troviamo l’appellativo “morto da Feltre” per delineare le gesta di Lorenzo Luzzo, ma in altre fonti è possibile trovare ulteriori nomi che ci permettono di capire altri tratti distintivi del pittore. Come il termine Zaroto, per associarlo alla città di Zara, luogo del suo deces-
so ma anche sede di lavoro di suo padre. Lorenzo visse entrambe le realtà, quella italiana e quella dalmata e riuscì a sfruttare questa condizione affiancandosi, in tutti e due gli Stati, ad alcuni dei nomi più rilevanti della storia dell’arte tra il Quattrocento e il Cinquecento. Collaborò con i pittori Andrea di Cosimo, Pintoricchio e Giorgione, quest’ultimo affiancato durante la realizzazione delle parti ornamentali del Fondaco dei Tedeschi a Venezia. Tra le sue opere osservabili nelle nostre vicinanze possiamo trovare la pala d’altare della parrocchia di Villabruna, rappresentante San Giorgio e San Vittore e quella esposta al Museo Civico di Feltre. Inoltre è possibile ammirare l'affresco raffigurante la Resurrezione, che ritrae Cristo tra Santa Lucia e Sant'Antonio abate datato 1522 presso la sagrestia d'Ognissanti, a Feltre, il quale è considerato una delle sue opere di spicco. Si ricorda un’ulteriore pala realizzata da Luzzo destinata alla chiesa feltrina di Santo Stefano, opera che si credeva fosse stata perduta nel corso degli scontri avvenuti durante la seconda guerra mondiale, ma che ora è conservata presso Staatliche Museen di Berlino. Nonostante le attribuzioni riferite a questo pittore siano spesso controverse, sono state inserite nel suo repertorio anche due opere di altra fattura, due tempere su pergamena. Queste ultime fanno parte di un manoscritto del 1519 ora custodito
Il personaggio nell'Archivio dell'Ospedale feltrino. Ulteriori testimonianze del passaggio di Lorenzo Luzzo a Feltre sono visibili camminando tra le vie del centro, osservando le pareti degli edifici. Oltre alle decorazioni di suo pugno che ornano il Castello di Feltre è possibile trovare altre testimonianze che evidenziano la formazione del pittore legata alle grottesche di matrice romana. Un esempio è presente in via Tezze, dove troviamo una facciata di un edificio ritraente Curzio e Giuditta con la testa di Oloferne. Un altro affresco appartenente al palazzo Crico, situato in piazza Trento e Trieste, è interamente attribuito a Luzzo proprio perché riporta le repliche delle pitture interrate nella Domus Aurea romana, oggetto dei suoi studi. Dopo questa parentesi artistica che ha lasciato un segno nella pittura veneta e non solo,
Lorenzo Luzzo a soli quarantacinque anni abbandonò il mondo artistico. Si arruolò nell’esercito mercenario della Repubblica di Venezia. Qui la sua vita torna a collegarsi all'altra città rilevante nel corso della sua esistenza, dato che venne investito della carica di comandante di una truppa che si recò a Zara. In questa circostanza però Luzzo non arricchì le proprie conoscenze, bensì trovò la morte durante la battaglia, probabilmente nel 1527. La città natale di Luzzo lo celebra quotidianamente con le testimonianze che ha lasciato, con una libreria che prende il nome dal suo appellativo, da un complesso scolastico e da una via, intitolata a Lorenzo Luzzo.
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Il personaggio di Marco Nicolò Perinelli
Sgarbi
Trentini © Mart, Jacopo Salvi
L’incontro con il Presidente del Mart
S
i possono scrivere tante cose su Vittorio Umberto Antonio Maria Sgarbi. Volto noto al grande pubblico per le sue intemperanze che tanto fanno fama in televisione, è uno storico e critico d’arte, un politico, un opinionista, un saggista. Tanto spregiudicato quanto abile nel suo modo di comunicare, le sue intemperanze sono parte di un personaggio che sa attrarre simpatia ed antipatia in egual modo, certamente un protagonista del nostro tempo. Probabilmente non sopporta l'indifferenza. Nato a Ferrara l’8 maggio del 1952, parlamentare, sindaco del paese di Sutri, in provincia di Viterbo, oggi, tra le altre cose, è Presidente del Mart, il Museo d’Arte Moderna che ha sede a Rovereto, della Fondazione Canova di Possagno e, da poche settimane, anche del Museo Alto Garda. Incontrarlo non è facile, le interviste preferisce farle al telefono. Fa un'eccezione e riceve al Mart di Rovereto, cui tutte le foto si riferiscono, la delegazione
Museo d’Arte Moderna di Trento e Rovereto e del Mag
composta da me, il direttore Armando Munaò ed Eleonora Mezzanotte nel salotto- mostra della sua ultima ideazione, la Mostra “Canova tra innocenza e peccato”, visitabile al Mart fino al 18 aprile. Ci accoglie circondato dai suoi collaboratori, mentre si prepara ad un collegamento televisivo con una nota trasmissione nazionale, seduto tra i gessi dell’artista veneto provenienti dalla Fondazione di Possagno che lui stesso presiede e le fotografie di Helmuth Newton. Un po' di preliminari, un complimento come da copione, alla nostra collaboratrice, e poi l'intervista. La prima parte a Sgarbi politico, quello che ha iniziato molto presto: nel 1990 la prima esperienza come consigliere comunale e quindi Sindaco a San Severino Marche, a Salemi e oggi a Sutri; Assessore alla Cultura della Regione Sicilia, parlamentare dal 1992, ha militato con il Partito Socialista, con il Partito Liberale, con Forza Italia. Ha fondato diversi movimenti, tra cui i Liberal Sgarbi e, nel 2017, “Rinascimento”, con Giulio Tremonti.
C
i può parlare di questo ultimo esperimento? “L’obiettivo era quello di andare alle elezioni nel 2018, dove non abbiamo potuto partecipare perché un gruppo che si chiama Noi con l’Italia mi ha scippato le firme e abbiamo avuto poi in Senato un gruppo di Senatori e ho dovuto attuare una federazione con Forza Italia. Abbiamo fatto una fase di sperimentazione, senza congressi ma semplicemente presentando delle liste, per le elezioni del Comune di Roma dove abbiamo avuto quasi il 2%. E questo ci conforta perché in un momento di crisi, in cui ho avuto una posizione molto riconoscibile, la mia visibilità politica e non solo personale. Ho pensato che una delle prime cose da fare contro il Governo, i dpcm di Conte, fosse quello di andare da quei ristoratori legati a questo gruppo che si chiama “Io apro” e mi sono sembrati così semplici e umani, da prenderli come elementi di diffusione di una visione che non può essere solamente poetica, legata ai temi della cultura, ma che invece riguarda la vita dei cittadini, nel loro agire quotidiano. Il concetto è “io apro rinascimento, io apro una 47
Il personaggio cosa nuova”. E questo, secondo me, nella decadenza di partiti che si sono comportati in modo vigliacco o che hanno avuto potenti contraddizioni anche nel proprio seno con posizioni più genuine, ci darà uno spazio notevole. In questi giorni si parla della necessità di rifondare il centro destra. La sua opinione? Ovviamente va rifondato. C’è un pezzo che va verso il centro, Forza Italia; la Lega che è dentro il Governo e Fratelli d’Italia che è fuori. Se noi guardiamo questa attrazione verso il centro, che in un sistema bipolare non ha possibilità di vittoria, stante questa legge elettorale, dobbiamo immaginare due poli che abbiano un centro forte ma da una parte e dall’altra. Non che ci sia qualcuno che, come diceva l’amico Calenda, debba essere demonizzato. Non si capisce perché una ragazza di quarant’anni debba pagare quanto fatto da Mussolini settant’anni fa. Dall’altra parte l’idea sempre di Calenda di non avere commercio con i Cinque Stelle è giusta in quanto i Cinque Stelle sono una realtà inesistente. Però in realtà i Cinque Stelle, nelle loro individualità, sono persone per bene, dei bravi ragazzi, almeno la metà di quelli che sono lì e hanno visioni non particolarmente ideologiche. Non voglio avere commercio con Conte, non voglio avere commercio con Grillo, ma non devi considerare i Cinque Stelle, come partito di rottura quale è stato, come ensortable.
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Io dialogo, con quelli che ci sono, e ti aspetti che ti dicano cosa hanno in mente. E così anche la Meloni. Queste posizioni centriste astratte non corrispondono al vero. Finirà che il PD farà alleanza con i Cinque Stelle e il Centro Destra manterrà le componenti che ha avuto fin qui. La rifondazione del centro destra si rimetterà nell’alveo in cui è sempre stata da quando c’è Berlusconi”. E della riforma Cartabia, cosa ne pensa? Devo cercare di capirla. In generale il tentativo di impedire che un magistrato decida il bello e cattivo tempo della politica italiana come è stato ed è. E’ quello che succede per esempio in Calabria,
dove tutto ciò che accade è dominato da Gratteri. Gratteri si convince che un tal Tallini è mafioso e allora questo Tallini non può fare politica. Poi si arriva al processo e si scopre che Tallini non è mafioso. E’ insopportabile questa ingerenza della magistratura. Che la Cartabia riesca a correggerla, limitando la carcerazione preventiva, limitando la presunzione di colpevolezza, è il minimo di una civiltà giuridica che presuppone che uno sia colpevole se è condannato. Cambiamo argomento e veniamo a quello che è certamente uno dei più cari, dato anche il contesto in cui ci troviamo, in una mostra che è figlia di una sua idea che fa dialogare il
Il personaggio passato con la contemporaneità. Se dovessimo analizzare il panorama complessivo, dal punto di vista di chi l’arte la vive quotidianamente, qual è lo “stato” oggi in Italia? L’arte è sempre in salute anche in tempi difficili perché è l’espressione degli uomini e della loro necessità di creare. Il problema vero dell’arte oggi in Italia, ma nel mondo, è che essendo uscita dall’ambito delle accademie e dei luoghi dove si preparavano gli artisti che, senza quella esperienza non erano tali, da circa cento anni l’avventura e la ricerca possono prescindere dalla tecnica. Mentre ogni espressione artistica ha il suo ubi consistam, ovvero la letteratura con la scrittura, il cinema con le immagini, il teatro con le persone che recitano, la musica con i suoni; l’arte può essere dei vetri rotti, una scatola di patate, un orinatoio. Si è creato un momento di frattura così larga che chiunque può pretendere di essere artista concettuale. La qualità della tecnica degli artisti è così vasta che non sai come fare a definirla. Se fossi stato Sgarbi negli anni venti, trenta o quaranta, avrei dominato la scena conoscendo tutti gli artisti. Oggi non saprei dire quanti ce ne sono e quanti entreranno nella storia dell’arte con piena legittimità. La realtà italiana non patisce rispetto ad altre realtà. Com'è cambiato il concetto di bellezza in arte e ce n’è ancora nell’arte oggi? Il concetto della bellezza è mutato, certamente. Possono cambiare le mode, ma la percezione della bellezza è da un lato legata all’istinto, all’emozione, come un bel tramonto; dall’altra è legato alla cultura. Una persona che ha equilibrio tra emozione e conoscenza, individua la bellezza in modo certo. Poi può esserci uno squilibrio tra emozione e conoscenza e viene fuori la formula grottesca che è bello ciò che piace. In realtà non è bello ciò che piace, ma ciò che ha requisiti per riscontrare una emozione e l’emozione la producono quelle cose che sono fatte secondo qualcosa che 49
Il personaggio
deve colpire quella miscela di emotività e sensibilità e di conoscenza che comunque importante. La bellezza richiede soprattutto una disponibilità in chi la prova. E questo mi fa venire in mente quella bellissima risposta di Gramsci a Benedetto Croce, quando scrisse “ciò che è vivo e ciò che è morto di Hegel” e Gramsci rispose: “il problema non è ciò che è vivo e ciò che è morto di Hegel, ma ciò che è vivo e ciò che è morto di noi rispetto a Hegel”. Il problema non è della bellezza, ma il problema è nostro. L’insufficiente capacità di capire è un limite della persona: la bellezza c’è, puoi non avere gli strumenti per capirla. I
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nostri tempi non hanno dato un grande esempio di eduzione in questo senso, ma non sono affatto scettico o preoccupato per l’integrità della bellezza. Venendo al Mart, quella di Sgarbi Presidente è una storia di successo a livello di pubblico, nonostante critiche negative come quelle del Giornale dell’arte. Ma è Sgarbi che rende popolare l’arte o Sgarbi che porta il popolo all’arte? Io sono di mia stessa natura popolare. Ho una idea dell’arte abbastanza articolata da predisporre un programma che non mortifica l’arte contemporanea, ma che cerca di intendere le connessioni con la grande arte, quindi Caravaggio, Raffaello. Perché devo provocare il pubblico facendo in un museo come questo una mostra di Artschwager, un autore americano che non conoscevo, costata 750 mila euro, dicendo vieni a vederlo perché ti dico io che è bella? Canova lo puoi mettere con Newton. Al di là della mia popolarità, o di quella degli artisti, ritengo che ci debba
essere una formula per cui una mostra deve stabilire delle connessioni. D’altra parte i grandi momenti della nostra arte sono il Rinascimento e il Neoclassico: due espressioni di grandi modernità che si sono fondate sul passato. L’arte è un continuo riguardare l’arte. Non è che nasci dal nulla: questa è la mia idea. Questo, indipendentemente dalla mia popolarità, ha restituito i cittadini qualche cosa di cui avremo percezione. La prossima mostra vedrà protagonista Giotto. Che Giotto sia stato importante per il 900 non serve che lo dica io. Se uno poi vuole dire che cosa c’entra Giotto con il Mart, ti dico vada a vedere Carlo Carrà, uno dei grandi maestri del ‘900 ha fatto una monografia su Giotto. Devo far finta di niente? Le mie formule, le mie intuizioni sono sempre riuscite!
Un sentito ringraziamento alla dott.ssa Susanna Sara Mandice - Ufficio stampa e comunicazione per la gentile e preziosa collaborazione
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Le interviste impossibili di Waimer Perinelli
CICERONE
DA HOMO NOVUS A PATER PATRIE
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re giorni di viaggio da Roma a Formiae, circa 100 miglia percorse senza fretta, fortunatamente senza pioggia ma con una punta di freddo. Non mi posso lamentare siamo al 6 dicembre nell'anno 710 dalla fondazione di Roma. La temperatura è tollerabile tanto che il mio ospite Marco Tullio Cicerone mi riceve seduto sulla cattedra,la sedia dallo schienale alto e ricurvo, direttamente sul grande terrazzo della villa affacciata sul golfo del Sinus Formianus. Il senatore ha 63 anni, è nato il 3 gennaio dell'anno 746 dalla fondazione di Roma, ad Arpino. Italico ma già cittadino romano. Il viso largo è segnato dalle rughe, il naso importante, la fronte alta spaziosa, racchiusa da grigi capelli raccolti a caschet-
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to, gli occhi penetranti, indagatori. Non ci siamo mai incontrati. Cicerone è un uomo famoso, ha attraversato il secolo segnando la vita militare e politica di Roma. E' celebre oratore e filosofo. Io uno scriptor, historical apprezzato e nulla più, ma ho buoni rapporti con tanta parte del Senato. Ho chiesto udienza un mese fa inviando un messaggio nel quale ho scritto che partivo per Patavium e da lì mi sarei recato a nord nel territorio dei Reti attraverso un sentiero che costeggia dall'alto un piccolo fiume e costeggia due laghi. Una valle paludosa dove potrò studiare alcune tradizioni religiose e commerciali che mi saranno utili per futuri commerci. Conoscere i popoli ci aiuta a sottometterli. Il senatore è stanco. Ha lasciato Roma da non molto tempo cercando di sfuggire alla vendetta di Marco Antonio che, a poco più di un anno dall'assassinio di Giulio Cesare, alle Idi di Marzo, lo vuole vendicare o usare la sua morte per soddisfare la propria sete di potere. Cicerone mi accoglie come un vecchio amico. “Benvenuto che notizie mi porti da Roma”. Nulla di buono purtroppo. Antonio ha delle lunghe liste di proscrizione e in accordo con Ottaviano insegue Bruto,
Cassio e gli altri congiurati. La Repubblica è salva ma forse Cesare non la minacciava proprio. “Giulio Cesare era una minaccia seria. Aveva espropriato il Senato di ogni autorità. Devo ammettere che nella vittoria non era vendicativo. Roma ha avuto tempi ben peggiori. Tu non ricordi perché sei giovane le vendette di Caio Mario, di cui Cesare era nipote, e quelle di Silla, ma ti posso assicurare che il sangue scorreva come un torrente nelle vie della città.” Senatore, non sono poi così giovane e mi sono chiesto spesso chi fosse il più spietato “Nulla può misurare la crudeltà: il numero di morti o l'efferatezza degli omicidi. Erano tempi crudeli e Roma attraversava un periodo di cambiamenti epocali. La guerra civile insanguinava il territorio italico, il Toro assaliva la Lupa e la cosa singolare è che gli italici, dominati da Roma, altro non chiedevano che di diventare cittadini romani a tutti gli effetti”. E lei da che parte stava? “Non era facile scegliere per me. Sono un Homo Novus, il cui padre apparteneva ad un ordine equestre con pochi diritti nell'Urbe dove dominavano gli Optimates. Io mi trovai a soli 18 anni ufficiale di grado inferiore al servizio di Gneo Pompeo e di Silla, all'assedio di Pompei. Ma ero un pacifista come testimoniano le lettere inviate all'amico Attico con le cui statue, e gli argenti, come hai visto, ho adornato la mia villa." E poi ha scelto. "Ho scelto la Repubblica salvandola dal disegno eversivo di Lucio Sergio Catilina" E' vero, ancora riecheggia in Senato il suo " quo usque tandem abiutere Catilina pa-
Le interviste impossibili
tientia nostra? per quanto abuserai ancora della nostra pazienza Catilina? Perché tanto rancore contro quest'uomo? "Non parlerei di rancore, era solo politica. Catilina era un nobile, era un uomo crudele. Ne avevo osteggiato molti. All'inizio faceva parte della mia formazione piegata all'ambizione perché, come mi aveva insegnato mio padre, dovevo eccellere su
tutti. Contro Catilina, costretto a fuggire, mi guadagnai l'onore di pater patriae. Da avvocato dopo avere sostenuto gratuitamente la causa del poeta Archia che chiedeva solo di essere riconosciuto cittadino romano, avevo fatto condannare il propretore Verre che aveva sfruttato la Sicilia in modo vergognoso. Quando ero questore della città siciliana di Lilibeo avevo raccolto testimonianze della sua avidità e ferocia." Contro di lei c'erano i migliori avvocati di Roma e fra questi Quinto Ortensio Ortalo. "Che poi divenne mio amico ed estimatore perché il merito era allora riconosciuto e io percorrevo la via del cursus honorum anche se gli antichi nobili furono sempre diffidenti.". E poi arrivò Gaio Giulio Cesare. "Già, uomo intelligente, astuto, stratega militare. Ha dato a Roma tutta la Gallia e la città era pronta a sottomettersi alla sua dittatura. Non ostacolai i congiurati, non li denunciai, ma non ero neutrale e i miei scritti, oratorie, lettere, parlavano per me. Condannavo ogni dittatura e per questo avevo già pagato con l'esilio. Confesso, fui felice della sua morte". Senatore, lei crede nella vita oltre la vita, negli dei? "Con il dovuto rispetto per ogni pensiero filosofico, credo negli dei e che, come ho scritto in De Senectute, nell' al di là ritroverò parenti ed
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amici e con loro discuterò di filosofia e poesia. Spero di avere vissuto in modo tale da poter dire che non ho vissuto invano." Il sole tramonta e rientriamo nella splendida villa, una delle udici di proprietà di Seneca. Ci soffermiamo ancora una volta a guardare il mare. "Devo lasciarti, dice il filosofo, stanno arrivando alcuni uomini di Marco Antonio, spero mi portino l'atteso perdono ed il rientro a Roma". Io rientrato a Roma e solo all'arrivo ho saputo che la mattina successiva al nostro incontro, il 7 dicembre, Cicerone era stato assassinato dai sicari di Antonio. Moriva così l'ultimo repubblicano; dopo di lui, la guerra fra Antonio ed Ottaviano e il vincitore divenne Augusto, il primo imperatore di Roma. La Repubblica era morta e sepolta.
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Ieri avvenne di Davide Pegoraro
Guerra, Montagne, Uomini
LA BATTAGLIA DEL MONTE ASOLONE Il 4 agosto del 2021, nel centesimo anniversario della ferita arrecata alla statua della Madonnina del Grappa da una granata d’artiglieria, Alessandro Bernardi ed io pubblichiamo “14”, un libro di fotografie artistiche ed emozionanti racconti attraverso i cippi che costellano la Via Eroica sul Grappa. Quattordici come i monti che da quelle pietre stagliate verso il cielo oggi sono ricordati. Monti di guerra, di odio, di morte. Oggi monti di pace, quella che solo la natura con i suoi silenzi sa donare. Quella pace per la quale quegli uomini cent’anni fa hanno dato la vita. Conoscere la storia ed alcuni dei protagonisti di quei tempi può aiutarci ad onorare degnamente quel sacrificio.
Monte Asolone In uno dei principali libri storici sul tema, l’autore dice: “la battaglia per il Grappa è la battaglia per il monte Asolone”. Questa affermazione trova molti sostenitori soprattutto se riferita alla fase degli scontri più importante per il massiccio ovvero la Battaglia d’Arresto. Dopo la sconfitta del Regio Esercito a Caporetto e la successiva ritirata attraverso la pianura friulana e veneta, il fronte si attesta lungo il corso del fiume Piave ed il monte Grappa diventa la naturale cerniera di collegamento con il fronte dell’Altopiano di Asiago. L’avanzata austroungarica prosegue seppure con difficoltà e trova l’esercito italiano capace di una insperata reazione, grazie anche ad
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un cambio di atteggiamento da parte dei comandi nei confronti dei combattenti che per risparmiare il prezioso materiale umano, concedono maggiori attenzioni alle esigenze fisiche e mentali di questi ultimi. Dopo una prima fase di parziale arretramento, i soldati, sotto la nuova guida del generale Armando Diaz (succeduto alla guida dell’esercito al generale Luigi Cadorna), riescono a fermare il nemico sulla linea di monti prossimi alla pianura; tra questi, il perno ad ovest di cima Grappa è il monte Asolone con i suoi 1520 metri. La principale arteria di rifornimento italiana, la strada Cadorna appunto, passa subito a ridosso della valle che conduce proprio alla sua cima e pertanto la
minaccia di uno sfondamento in quota, rappresentava un concreto pericolo per tutto il settore affidato alla Quarta Armata. Proteggere la strada, ed i suoi vitali trasporti, era perciò di primaria importanza, così come per gli austroungarici raggiungerla e sfruttarla per tentare di scendere a Bassano con truppe, traini d’artiglieria, carri ed automezzi. Fallito il primo tentativo nel tardo autunno del 1917, l’occasione si ripresentò con la Battaglia del Solstizio, iniziata il 15 giugno 1918. Le trincee della sommità erano realizzate per lo più con dei semplici muretti a secco e la parte sopraelevata rispetto allo scavo, a volte, era di soli 30 centimetri. Martellata dalle cannonate da ogni direzione (dalla regione Pertica e Cima Grappa su tutte, grazie al definitivo completamento della Galleria Vittorio
Ieri avvenne Emanuele), la cima del monte Asolone aveva assunto un aspetto lunare; crateri si alternavano ad altri crateri e una landa desolata costellata di armi e cadaveri si estendeva su quelli che un tempo erano stati dei placidi pascoli. Gli eroi di quei giorni furono molti; l’esistenza stessa di un combattente in tali condizioni ne giustifica l’appellativo. Tuttavia alcuni ebbero l’occasione di salire agli onori della Storia grazie ad alcune gesta di raro coraggio. Il portabandiera del IX Reparto d’Assalto Ciro Scianna, analfabeta palermitano, venne decorato postumo di Medaglia d’Oro al Valor Militare per aver saputo incitare i suoi compagni ad avanzare verso le mitragliatrici nemiche che li avevano inchiodati sulla sella sotto la vetta. Morì colpito proprio da queste con il drappo tricolore tra le braccia il 24 giugno. Questa furiosa battaglia è ben descritta nel diario di guerra di un ufficiale austriaco del battaglione Strurmtruppen del 99° reggimento. Otto Gallian, questo il suo nome, ha
lungamente combattuto contro gli italiani, lasciandone però una descrizione carica di rispetto e adempiendo al suo dovere con raro cameratismo nei confronti dei sottoposti. Fu incaricato di coprire la ritirata dei reparti schierati nella zona occidentale del massiccio e vi riuscì cadendo però prigioniero quel 30 ottobre 1918. Sopravvisse al primo conflitto e verrà dichiarato disperso nel 1945 durante la battaglia delle Ardenne. Una stele posta nella vicina “Ei Position” o posizione a uovo (una trincea di primissima linea posta nella vicina quota 1476) ne ricorda le gesta e un’altra nella nuova area sacra creata in cima all’Asolone porta il nome dell’ardito siciliano. Proprio lì, trova posto anche una lapide in rosso ammonitico col nome di Giovanni Lipella, giovane irredento, originario di Riva del Garda, caduto in
dalla riva Paola Antoniol
quelli stessi giorni e anche lui decorato con la massima onorificenza militare italiana. Tre valorosi soldati, tre destini diversi, spesi per la propria nazione. A più di cent’anni di distanza gli echi di quelli scontri si sono spenti e i loro paesi fanno parte di un'unica grande Patria, chiamata Europa. Foto: archivio Piccolo Museo della Grande Guerra Rifugio Val Tosella – Monte Grappa
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Il personaggio di Armando Munaò
GAETANO GUASTELLA...
...MODA E CREATIVITÀ
U
no dei settori quanto mai dinamici è sempre stato quello della moda, Un particolare universo che nella normalità basa i suoi fondamenti sulla creatività dello stilista e su tutto ciò che concorre a rendere la donna un essere “unico” e irripetibile. E sono i grandi stilisti che nel tempo e con il tempo hanno saputo concretizzare il concetto del fare moda. E sebbene la moda, nella normale concezione, sia da molti considerata un concetto astratto, così non è perchè le sue numerose sfaccettature la rendono concreta e palpabile.
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E per avere un completo disegno di ciò che è e rappresenta la moda, abbiamo aperto un dialogo con Gaetano Guastella, uno stilista di “casa nostra” che di moda è un vero esperto. E lo è, sia per la sua provata esperienza e per i numerosi riconoscimenti che ha ottenuto, sia per il suo curriculum che in zona non ha eguali e sia perchè nel suo atelier, in quel di Caldonazzo, riesce a sintetizzare il vero concetto di moda realizzando e dando vita a creazioni che attirano e coinvolgono l'interesse di chi, anche per la prima volta, visita il suo atelier. “Come lei ha affermato, ci precisa, la moda, da concetto astratto quale è per molti, può assumere, invece, diversi significati, connotati e sfaccettature. Più che di moda, infatti, io parlerei di stile e di concetto moda, per dare la possibilità alle persone, attraverso la realizzazione di abiti pensati, studiati e creati su misura e a sua dimensione, di riappropriarsi della propria identità e della sua reale personalità, indossando un qualcosa di unico, non standardizzato e non rinunciando al suo stile e alla sua praticità. Quindi abiti “per tutte le occasioni”. Abiti e creazioni da “sartoria”, termine questo inteso nella più alta accezione del termine. E badi bene che creare
un particolare abito, essenzialmente significa dialogo conoscitivo con chi l’abito deve indossare, studio e attenzione per i dettagli, qualità dei materiali accuratamente scelti e selezionati, l'unicità delle stoffe che devono diversificarsi da quelle che normalmente si trovano nei negozi, ma soprattutto significa dare vita ad un qualcosa che miri alla valorizzazione della figura e della fisicità della persona. E a proposito di stoffe il “nostro” Gaetano ci confida che lui usa materiali di altissima qualità e pregio, quasi sempre acquistati nelle grosse produzioni sia come giacenze
e sia perché, a volte, non possono essere più utilizzate e quindi sprecate. E questo suo “modus operandi” è a tutto vantaggio della cliente che in questo modo può usufruire di un qualcosa di veramente originale e qualitativamente importante, contenendo, nel contempo, quei prezzi che altrimenti sarebbero proibitivi.
Il personaggio Una vocazione, la sua, che nasce in giovane età e che con il passare degli anni è cresciuta, si è maturata e potenziata grazie agli studi specifici nella moda, nella pellicceria e all’esperienze vissute all’estero, ma soprattutto grazie alle continue verifiche che lo hanno portato a raggiungere standard creativi e innovativi che continuamente lo proiettano nel grande universo “moda”. Il suo, ci specifica, è un operare con amore e dedizione rivolta al soddisfacimento di quelle che sono le richieste ed esigenze della “sua” clientela, anche le più particolari, perché, come lui stesso sottoli-
nea, “chiunque indossi una mia creazione indossa una parte di me e porta con sè un messaggio d’amore per la vita” La collezione Meduse è stata ispirata, ci dice Gaetano, a questi animali incredibilmente eleganti, cacciatori ferocie abili che fluttuano nell’acqua con una finezza inimitabile. Il loro movimento è etereo, sensuale, divino. E’ proprio il movimento, oltre alla forma di queste creature, che ha ispirato le linee di questa collezione. Un omaggio alla bellezza della natura soprattutto nelle sue forme ed esistenze più particolari.
Gaetano Guastella Riceve su appuntamento Nel suo atelier a Caldonazzo Tel: 392 4848 205 Le foto sono tratte dalla collezione “Meduse”.
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Tra passato e presente di Alvise Tommaseo
Viaggiare con l'Orient Express IN TRENO DA SOGNANDO L'ORIENTE
Il viaggio sul leggendario Orient Express poteva passare anche da Feltre e la vallata del Piave. Agatha Christie vi ha ambientato un noto romanzo giallo.
N
ell’immaginario collettivo l’Orient Express è stato un maestoso e lussuoso treno passeggeri che, per vari decenni, ha attraversato l’Europa centrale collegando direttamente Parigi a Costantinopoli, il mondo e la cultura occidentale a quella orientale. Certamente questa definizione ha un suo fondamento, ma, in realtà, la storia dell’Orient Express è stata molto più articolata. E’ bene chiarire subito che non si è trattato di un unico treno, ma di vari e diversi convogli, i quali, nel corso del tempo, hanno seguito percorsi tra loro molto differenti. Di sicuro si è trattato sempre, di mezzi passeggeri che coprivano lunghe tratte, al fine di collegare città, popoli e nazioni tra loro lontani, spesso lontanissimi.
L’iniziativa partì, nel lontano 1883, grazie alla società ferroviaria francese “Compagnie Internazionale del Wagons – Lits” che varò il collegamento tra Parigi Gare de L’Est e Istanbul, l’antica Costantinopoli. Questa straordinaria ed affascinante avventura iniziò il 4 ottobre. . Il percorso originario prevedeva una sosta di rilievo a Vienna, dove solitamente salivano molti viaggiatori, per poi proseguire verso la Romania. I passeggeri erano, quindi, costretti a scendere alla stazione di Giurgiu per poi essere trasportati, via nave, lungo il Danubio, fino alla Bulgaria, dove venivano fatti salire in un altro treno che li conduceva alla meta finale: Istanbul. Si trattava di un viaggio avvincente ed affascinante, di grande interesse paesaggistico e culturale attra-
verso il cuore dell’Europa. A quei tempi, ovviamente, il treno era trainato da una locomotiva che funzionava a carbone e la sua velocità era ridotta. L’Orient Express, trainato dalla locomotiva rumorosa e fumante, nel suo lunghissimo tragitto, attraversava e lambiva fiumi dalle acque limpidissime, laghi più e meno estesi dove si intravedevano le imbarcazioni dei pescatori; e poi tante città, paesi e villaggi caratterizzati, per un lungo tratto, dai campanili delle chiese cristiane, sostituiti poi dagli slanciati minareti delle moschee. Nel 1885, con l’allungamento del percorso, l’Orient Express cominciò ad attraversare la Serbia ed a fermarsi oltre che nella sua capitale, Belgrado, anche nella città di Nissa. Risale al 1889 il primo 59
Tra passato e presente l’aveva diviso nettamente in due. Gli spostamenti dai Paesi democratici a quelli caduti sotto la sfera sovietica diventarono molto complicati, in alcuni casi quasi impossibili. Atene non era più raggiungibile dall’Orient Express in quanto la frontiera fra la Jugoslavia di Tito e la Grecia era stata chiusa. Fra tante difficoltà nel 1962 sopravvisse una linea chiamata Direct Orient Express che, due volte alla settimana, partiva da Parigi per raggiungere Atene ed Istanbul. Nel 1971 la Compagnia Wagon – Lits cessò di gestire i treni Orient Express. viaggio effettuato continuativamente con lo stesso treno da Parigi ad Istanbul. Il tragitto a quell’epoca durava una decina di giorni. Progressivamente si velocizzò, ma non al punto di potere vincere la competizione e la concorrenza con i nuovi voli aerei di linea che, il 22 maggio 1977, decretarono la fine di questa gloriosa avventura. Ma non furono solo gli aerei i nemici dell’Orient Express. Le due guerre mondiali sconvolsero l’Europa e portarono inevitabilmente alla sospensione di questo servizio ferroviario. Certamente la fama di questo treno era già notevole a cavallo del Novecento, durante la Belle Epoque, ma furono gli anni Trenta del secolo scorso a consacrarlo alla Storia. L’apice del successo coincise con la realizzazione, in contem-
poranea, di ancora più belli, confortevoli e lussuosi. Vennero realizzate carrozze ampie, luminose, finemente lavorate nei minimi particolari, arricchite di raffinate stoffe, quadri di pregio e preziosi lampadari. I vagoni più gettonati erano quelli adibiti a sale da pranzo dove venivano offerti, a qualsiasi ora del giorno e della notte, pietanze gustosissime e raffinate che si consumavano con posate d’argento. Per tutte queste ragioni, i viaggi sui vari Orient Express costavano molto. Di conseguenza, la clientela che ne usufruiva era costituita da una elite di primissima qualità: Re, principi, nobili, diplomatici, uomini di affari e di cultura, ricchi borghesi. E arrivò la Seconda guerra mondiale che sconvolse, con i suoi orrori, il cuore dell’Europa. Alla fine la “cortina di ferro” Cinque anni dopo fu sospeso il servizio diretto Parigi – Atene ed, il 19 maggio 1977, partì l’ultimo triste e malinconico viaggio dell’ Orient Express. Non a tutti è però noto che, in un lontano passato, si era immaginato, ipotizzato e sperato, di fare transitare l’Orient Express addirittura per la vallata feltrina. Già nel 1867 tale prof. Vecellio scriveva su un giornale vicentino “Feltre avrà finalmente la più grande e la più invidiata delle ferrovie che si possa mai augurare”, linea che, anni dopo, fu individuata dal Vecellio stesso proprio nella Parigi - Costantinopoli.
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Tra passato e presente
In precedenza, nel 1865, tale ing. Locatelli aveva ventilato l’idea della costruzione di una ferrovia lungo la vallata del
Piave per collegare Venezia e Treviso all’Austria, ma poi, la presa d’atto della consistenza delle montagne del Primiero e dell’Agordino, fecero naufragare sul nascere quel sogno. Una decina d’anni dopo, con l’apertura della linea ferroviaria Padova – Bassano, si parlò di un allacciamento di questo tratto alla linea austriaca Trento – Grigno con il concreto ed auspicato coinvolgimento della vallata feltrina. Ma fu il geografo trentino Matteo Thunn a scrivere, alla fine dell’Ottocento, un articolo secondo il quale sarebbe stato possibile aprire un alternativo percorso Parigi – Costantinopoli che passasse per la vallata del Piave. Il nuovo tratto ferroviario sarebbe dovuto partire da Tezze in Valsugana, che si trova a nord di Primolano, per salire ad Arten e per poi scendere verso Feltre, Sanzan e Conegliano, con un risparmio, rispetto a percorsi alternativi,
di almeno 20 chilometri. Tutte utopie che si concretizzarono molti anni dopo, ma che mai coinvolsero l’Orient Express. Rispetto a questa leggenda tutta feltrina, appare più realistico il famosissimo e fortunato romanzo di Agatha Christie dal titolo “Assassinio sull’Orient Express.” La bravissima scrittrice di gialli, fu costretta con tutti gli altri passeggeri, ad interrompere un viaggio in treno, verso Istanbul, a causa di un’abbondantissima nevicata. In quell’occasione immaginò un assassinio a bordo del convoglio, la vittima era un boss della mafia in precedenza coinvolto con il rapimento e l’uccisione di un bambino di due anni, figlio dell'aviatore Charles Lindbergh. Un fatto di cronaca nera che, effettivamente, si era verificato nel 1932 negli Stati Uniti e che aveva avuto, all’epoca, un grandissimo risalto mediatico.
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Tra storie e letteratura di Alice Vettorata
ROMANZO GOTICO
I
l grottesco e l’ignoto sono due caratteristiche che intuitivamente potrebbero sembrarci sgradevoli. Ci viene spontaneo pensare che l'essere umano, come qualsiasi essere vivente, voglia tenere l’orrore ben distante da sé. Invece, com’è stato confermato da più correnti artistiche o più semplicemente da ciò che viviamo quotidianamente, la sfera cupa di ciò che non conosciamo è quasi una calamita per noi. I temi del mistero e dello sconosciuto hanno trovato un ampio consenso a partire dalla metà del millesettecento, in Inghilterra. Questa fiorente ideologia, che abbracciò i campi della letteratura, delle arti scultoree e di quelle pittoriche viene spesso denominata con il termine pre-romanticismo. Caratterizzata da una spiccata nota di irrazionalità, di propensione per il mondo mostruoso e fantastico, fece innamorare i lettori dell’epoca e ha la capacità di ammaliare anche noi, secoli dopo. Uno dei primi scrittori a cimentarsi nella produzione di opere di questo tipo, dando
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vita alla corrente fu Horace Walpole con il suo romanzo più celebre pubblicato nel 1764, Il castello di Otranto. Un’opera che ha tutte le ragioni di essere considerata l’emblema del romanzo gotico, poiché racchiude in sé molti degli archetipi che l’hanno reso celebre. Il testo sin dal principio evidenzia un legame con l’Italia, che insieme alla Francia condivide il fascino di ambientazioni gotiche medievali e misteriose che attrae gli scrittori, ma non solo. Sono entrambe due nazioni che hanno un legame molto stretto con l’istituzione della Chiesa, che durante il secolo dei Lumi non godeva di buona fama. Per questi motivi Il Castello di Otranto infatti, viene introdotto al pubblico come una finzione letteraria in quanto traduzione di un antico scritto italiano, ambientato nella Puglia medievale nel Regno di Sicilia del re Manfredi. Altra peculiarità legata all’ambientazione nella letteratura gotica è la costante presenza di scenari notturni nei quali si stagliano rovine, abbazie e castelli organizzati in cunicoli, stanze segrete e misteri celati da tempi antichi. Un insieme di caratteristiche che si alleano per destare nel lettore un terrore misto a piacere; quella paura della quale non possiamo fare a meno di voler sentire ancora. Un sentimento complesso che in letteratura viene riassunto e identificato con la parola sublime, termine sul quale è stato basato un vero e proprio fenomeno. I romanzi gotici non arrestarono la loro diffusione in Inghilterra e questo fu anche grazie ai numerosi scrittori che aderirono alla realizzazione di questo tipo di letteratura. Nomi come quelli di Ann Radcliff e Horace Walpole, furono ispirazione per alcuni noti
scrittori del XIX secolo provenienti da oltreoceano come Edgar Allan Poe e H.P. Lovecraft. Questi ultimi introdussero delle novità importanti. Nel caso di Poe troviamo la ricorrenza del tema della morte e la repulsione delle spiegazioni razionali degli avvenimenti insoliti, tratto distintivo dell’Illuminismo. In Lovecraft invece si introducono nuovi ambienti che diedero vita al filone fantascientifico. Un’opera nota ai più, Frankenstein o l’eterno Prometeo di Mary Shelley, pubblicato nel 1818 divise la critica, poiché per alcuni aspetti rientra nel filone gotico, ma altri lo proiettarono nel Romanticismo. Come avvenne per Poe e Lovecraft, la Shelley introdusse questioni bioetiche facendo riferimento ai progressi scientifici in atto nei primi dell’800. Con questo volume si iniziò dunque a concludere l’epoca definibile come “gotica” per cedere il passo alla chiave romantica.
Società oggi di Caterina Michieletto
Nutri – score:
l’inganno dell’etichetta alimentare a semaforo
I
mmaginiamo nei prossimi mesi di trovare sugli scaffali dei negozi di alimentari e dei supermercati molti dei tipici prodotti alimentari italiani, gli immancabili ingredienti delle nostre cucine, contrassegnati da un bollino arancione o rosso. Un po' disorientati andremmo a documentarci sul significato di questo simbolo per scoprire che le eccellenze gastronomiche che da sempre hanno fatto del nostro Paese l’emblema dell’alimentazione sana ed equilibrata, sono state stigmatizzate e declassate ad alimenti meno consigliati. Quali sarebbero gli alimenti destinati ad essere incriminati? Il “principe” dei formaggi, il Parmigiano reggiano, il prosciutto crudo di Parma, l’olio extravergine di oliva e sostanzialmente molti prodotti gastronomici che sono il fiore all’occhiello dell’Italia nel mondo, con l’esclusione (per il momento) dei prodotti a marchio DOP, IGP e STG. Il metodo Nutri-score si inserisce nell’ambito della cosiddetta “Farm to Fork Strategy” un progetto di ripianifi-
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cazione sostenibile del sistema alimentare che prende avvio dal “Patto Verde europeo”, il piano di azione elaborato della Commissione UE per raggiungere la neutralità climatica entro il 2050. La Francia è stata apri-pista nell’adozione del Nutri – score, saldamente appoggiata dalla Germania, sull’onda di una corrente di pensiero che ritiene che i consumatori debbano essere accompagnati nelle scelte. Presentata in questi termini tale filosofia appare lodevole nei suoi principi, salvo poi entrare in evidente contraddizione nella sua applicazione. Tutto dipende da come si interpreta quell’ “accompagnati”: informati o condizionati? Tutela del consumatore o operazione politico-commerciale (scorretta)? Il Nutri – score assegna un colore ed una lettera, in una scala cromatica divisa in 5 gradazioni dal verde al rosso ed in una scala alfabetica comprendente le cinque lettere dalla A alla E. Con il bollino verde vengono contrassegnati gli alimenti ritenuti migliori dal punto di vista nutrizionale e gradual-
mente scendendo il giallo, l’arancione fino all’ultimo gradino: rosso. L’algoritmo che determina l’incasellamento degli alimenti nella piramide dei colori è una formula che contiene come elementi discriminanti i grassi, gli zuccheri, i sali e le proteine calcolati sulla base di riferimento di 100 g di prodotto. Inoltre, l’algoritmo dà un punteggio aggiuntivo se il prodotto contiene frutta o frutta secca e se la natura dei grassi non è di fonte animale. Già da queste poche informazioni si colgono delle imprecisioni nel sistema di classificazione alimentare a semaforo. In primo luogo, l’assenza di proporzione: il parametro dei 100 g di prodotto è idoneo per le comparazioni merceologiche, ma nessuno mangia 100 g di ogni prodotto; di alcuni prodotti mangiamo pochissimo, la porzione dell’olio e del formaggio sono di circa 10 g e 30 g. Il risultato che si ottiene è evidentemente distorto e scompensato. In seconda battuta, questo sistema potrebbe discriminare anche alimenti prodotti senza additivi, come per esempio il Parmigiano Reggiano, creato solamente nel momento in cui il latte è perfetto sia dal punto di vista microbiologico che organolettico. Ad essere “condannato” dal Nutri – score potrebbe essere anche un alimento incensurato ed anzi premiato per le sue proprietà medicamentose: l’olio extravergine di oliva. Infatti, l’olio extravergine di oliva è qualificato come un “grasso buono” perché ricco di polifenoli, sostanze antiossidanti che in oli di qualità sono presenti in quantità talmente elevate da essere considerati quasi nutraceutici, sostanzialmente veri e
Società oggi propri farmaci. Preme poi sottolineare come il Nutri – score tenda ad appiattire la scelta dei consumatori ad una cerchia ristretta di alimenti, sconfessando la regola cardine che da tempo i nutrizionisti invocano: la varietà dei prodotti a tavola. Una dieta equilibrata non è mai escludente, al contrario valorizza la rotazione degli alimenti come ricetta migliore per il benessere della persona. Infine, il cibo è per tutti noi molto più della risposta ad un bisogno primario: è cultura gastronomica, è arte con passione, è scienza dell’alimentazione. Appare dunque riduttivo condensare la complessità nutrizionale e la profondità culturale di un alimento in un colore ed in una lettera. In Italia l’opposizione al Nutri – score raccoglie il consenso unanime dell’intero mondo della politica e delle associazioni di categoria per tutelare le attività pro-
duttive e i consumatori da una penalizzazione della filiera non solo economica, ma anche culturale e storica. Dal canto suo l’Italia nel 2019 aveva lanciato un sistema di etichettatura differente basato sulla porzione media del cibo consumato, per offrire un’informazione completa non vincolata alla porzione di 100 g (Nutrinform battery). Qualunque sia il futuro dell’etichettatura alimentare nell’UE un dato è certo: il Nutri – score privilegia lo stile dell’informazione, piuttosto che l’informazione stessa, punta alla massima
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semplificazione comunicativa a scapito di un’informazione nutrizionale accurata e disinteressata. Si investe sull’efficacia persuasiva ed accattivante di un colore ma si trascura il dato più rilevante per la salute dei consumatori: la sostanza che racchiude la verità.
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Arte e società di Sonia Sartor
La National Gallery di Londra e i Girasoli di Van Gogh
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a National Gallery rappresenta uno dei simboli della città di Londra, meta amata dai turisti di tutto il mondo, italiani inclusi. Ho trascorso un lungo periodo presso la capitale britannica e ammetto di aver colto l’occasione per visitare svariate volte il museo. L’edificio affacciato su Trafalgar Square, che spesso rappresenta la cornice dei numerosi selfie scattati dai visitatori, fu realizzato dall’architetto William Wilkins (che terminò l’operazione nel 1837) al fine di ospitare il progetto collezionistico avviato nel 1824, anno in cui la Camera dei Comuni acquistò la collezione composta da 38 dipinti appartenente al banchiere, commerciante e conoscitore d’arte russo John Angerstein. L’essenza della National Gallery è dunque segnata dalla passione collezionistica della borghesia che spinge il governo a costituire un museo nazionale rendendosi responsabile di alimentarne la raccolta attraverso donazioni e acquisti. Tra i capolavori annoverati dal museo londinese spicca la collezione di opere provenienti dall’Europa del Nord, qualificata come una delle più ricche al mondo. In modo particolare, in virtù dei floridi rapporti commerciali che intratteneva con L’Olanda, la Gran Bretagna ebbe sempre un occhio di riguardo per la pittura del paese citato, alla quale appartiene un’opera universalmente
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conosciuta: Girasoli di Vincent Van Gogh. Vi sarà sicuramente capitato, sfogliando le pagine di un giornale o apprezzando la visione di un documentario, di imbattervi nella contemplazione dei Girasoli dell’artista olandese. Tuttavia, ciò che non tutti sanno è che non si tratta di un unico quadro quanto piuttosto di una serie di tele, precisamente sette, realizzate ad olio tra il 1888 e il 1889, indubbiamente molto simili ma rese uniche dalla centralità di alcuni dettagli. Le opere, con
i loro colori accesi e vibranti, secondo l’artista dovevano rappresentare un elemento di decoro per la sua Casa Gialla ad Arles in previsione dell’arrivo dell’amico Paul Gauguin. La National Gallery, che come anticipato espone una rappresentazione dei Girasoli non è in realtà la sola a detenere questo privilegio: considerando che sfortunatamente due delle sette tele non sono attualmente visibili al pubblico, è invece possibile ammirare le altre varianti dell’opera presso il Van Gogh Museum ad Amsterdam, la Neue Pinakothek a Monaco di Baviera, il Philadelphia Museum of Art e infine il Sompo Japan Museum of Art di Tokyo. Veniamo dunque ai Girasoli esposti a Londra: quindici fiori gialli, simbolo di una tensione costante verso la luce, rappresentati nelle diverse fasi del ciclo di vita a narrare l’evoluzione dell’esistenza umana. Nell’angolo in basso a sinistra un bocciolo che non ha ancora raggiunto il fiore pieno, comunica l’idea di vita in crescita. Ad esso si accompagnano fiori maturi e altri oramai appassiti, in decadenza. Nello specifico però, quali sono gli stati d’animo che l’artista intende comunicare con la realizzazione di un mazzo di fiori gialli? Le spesse pennellate di colore evocano speranza e ottimismo o, al contrario, disillusione e malinconia? Se la forma tortuosa dei petali è stata
Arte e società interpretata da una parte della critica come segno del tormento interiore di cui soffriva l’artista, la scelta del colore è invece la cifra sulla quale i critici convergono quasi all’unanimità: il giallo è espressione della gioia. Quest’impronta di ottimismo è confermata dalle parole stesse di Van Gogh impresse entro le lettere destinate al fratello Theo, con le quali descrive la sua casa ad Arles: “Al mattino, aprendo la finestra, si vede il verde del giardino, il sole che sorge […] Ma poi vedrai quei grandi quadri con dei mazzi di dodici, di quattrodici girasoli.” Da queste parole emerge in maniera trasparente una carica di energia positiva che accompagna la creazione dei Girasoli. In fondo, ciò che suscita dalla visione dell’opera non è altro che pura bellezza capace di lasciare lo spettatore senza fiato. Può essere difficile conciliare questo tipo di visione con il gesto estremo che nel
1890 portò Van Gogh, dominato dal disturbo mentale che gli recava stati di depressione e ansia, a porre fine alla sua esistenza. Forse però la complessità e la tragicità degli eventi che segnarono la vita dell’artista possono divenire le cifre per riuscire ad apprezzare i Girasoli nella loro maestosità. Certamente, lo stato psicologico con cui Van Gogh realizzò le sue opere rimane una questione ampiamente dibattuta; indiscusso è invece il genio artistico che lo caratterizzò, in virtù del quale egli continua ad essere ricordato tra i maggiori artisti della storia.
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La musica ai giorni nostri di Monica Argenta
Gods of Mel:
molto più che un Festival Musicale
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ontinua anche nel 2022 l'oramai consolidato appuntamento con Gods of Mel, iniziativa che da qualche anno vede indaffarata l'Associazione Time Farm nell'organizzare a fine giugno un evento che è molto più di un semplice festival musicale. “Gods of Mel” - mi spiega Michele De Gan - “è un nome che un po' ironicamente allude al ben più famoso Gods of Metal, festival che fino a qualche tempo fa era di riferimento delle band heavy metal
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e dei fan di questo genere a livello nazionale. Omar era un ragazzo di Mel appassionato di metal e quando nel 2009 la sua vita è stata falciata da un male incurabile, io ed alcuni amici abbiamo pensato che il miglior modo per ricordarlo fosse organizzare qualcosa che lo rappresentasse”. Primo punto quindi: Gods of Mel è la risposta costruttiva di un gruppo di giovani che vogliono dare un senso a qualcosa che è difficile da accettare con semplici strumenti razionali e logici: la morte prematura per malattia di un caro amico. “Nel 2011 – continua Michele- “grazie alla collaborazione con la Pro Loco è stata organizzata una prima serata di spettacolo, dopo di che abbiamo capito che avremmo potuto fare di più. Da li, l'organizzazione su più giorni di musica, performance e intrattenimento presso Pian del Toro di Farra al fine di raccogliere fondi destinati alla ricerca sul cancro”. E di soldi, in effetti, l'iniziativa ne ha raccolti durante le varie edizioni: più di 13mila
euro destinati a Airc e IOV, l'Istituto Oncologico Veneto, a dimostrazione che il Festival si proietta oltre al ricordo e al passato ed intende essere strumento utile per le battaglie presenti e future contro una delle malattie più temute. Ma non basta. Gods of Mel si propone anche come luogo di inclusione a tutto tondo. Realtà del Terzo Settore che si occupano di disabilità vengono puntualmente coinvolte per la realizzazione di istallazioni artistiche e durante il Festival si svolgono laboratori e iniziative pensate anche per i più piccoli. Non solo spettacoli e palloncini ma veri e propri “Rock Camps”, occasione per i bambini di avvicinarsi alla musica e alla conoscenza degli strumenti musicali sotto la guida di insegnanti provenienti dagli istituti locali. L' opportunità di vivere su più giornate un' esperienza condivisa con tutta la famiglia è una realtà per nulla scontata ma certo è anche questo uno degli obiettivi di Gods of Mel. La determinazione dei pirotecnici organizzatori è implacabile e anche l'immobilizzazione imposta dal Covid non ha avuto la meglio in questi due ultimi anni. Michele e i suoi amici dell'Associazione Time Farm non si son certo spaventati, anzi tutt'altro. Stimolati loro malgrado dalle restrizioni anti assemblamento, sono riusciti a trasformare il festival in un punto di incontro sui social, portando avanti sul web tutta una serie di attività a cui forse prima non avevano neppure pensato prima. Ed è così che ora si approcciano all'edizione 2022, un mix tra attività “in presenza” e attività “sul web”, un'edizione sempre più ricca e perfezionata. Pandemia permettendo, il cuore del festival sarà costituito dalle giornate previste per la fine di giugno presso Farra
La musica ai giorni nostri dove il palco verrà montato e ospiterà gruppi locali, nazionali ed internazionali. Il genere sarà dei più vari, perché al di là del nome mutuato da un evento metal, l'evento ha sempre ospitato e ha fatto da vetrina per gruppi che “spaziano” tra le diverse correnti musicali. Ci saranno tutti i generi di conforto necessari al caso, dalla possibilità di parcheggio, a proposte di cibo e bevande. Le attività di propedeutica musicale per bambini si intrecceranno all'intrattenimento per i genitori e anzi i Rock Camp incominceranno ben prima delle serate a Farra, essendo pensati come veri e propri percorsi didattici su più lezioni. Via web, principalmente tramite il gruppo Facebook, sono in programma interviste a produttori discografici o altri esperti del settore. Non manca nulla quindi se non l'augurio di una sempre maggiore affluenza e una sempre maggiore generosità nella la raccolta fondi. Sarà solo grazie all'acquisto
di gadgets o alle offerte libere che anche quest'anno si potrà staccare un assegno da destinarsi alla ricerca contro il cancro. Gli organizzatori ce la stanno mettendo tutta e, ricordiamolo, sono tutti volontari, spesso operai che dopo le ore di fabbrica imbracciano motoseghe o altri strumenti per la realizzazione di un qualcosa di importante. Forse ad un avventore capitato lì per caso l'evento appare come una delle tante sagre, o tuttalpiù un Festival di musica per ragazzi scapestrati che si ritrovano tra i boschi ma
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Gods of Mel, e oramai lo sapete anche voi, è molto di più. Per aggiornamenti consultare la pagina FB di GodsofMelVietato Mancare
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Industria e commercio in cronaca di Alex De Boni
IL PREMIO INDUSTRIA FELIX 2022 I nostri complimenti a Ipogeo SRL
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ra le 52 imprese selezionate tra Veneto, Trentino Alto Adige e Friuli Venezia Giulia premiate con le Alte Onorificenze Industria Felix 2022 spicca la realtà bellunese Ipogeo SRL con sede a Rasai di Seren del Grappa. E’ stata riconosciuta come "Migliore piccola impresa per performance gestionale e affidabilità finanziaria con sede legale nella provincia di Belluno”. Da ventidue anni questa impresa opera nel settore della geotecnica, consolidamenti e sottofondazioni. Perfezionatasi in lavori di consolidamento dei terreni, di iniezione di diaframmi per il costipamento dei terreni da costruzione, nel consolidamento di fabbricati e nell’iniezione di materiali per il consolidamento dei terreni, l'impresa di opere speciali di Seren del Grappa si avvale di personale qualificato, composto da ingegneri, geologi, architetti, tecnici per collaudi esterni, tecnici per collaudi di laboratorio e altri esperti in grado di fornire soluzioni per qualsiasi genere di problematica. Ipogeo effettua interventi speciali anche
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all'interno dell’area portuale di Venezia e fa parte del Consorzio Venezia Nuova e della Rete di Imprese Interbau, partner con cui ha partecipato a gare d'appalto per lavori sia in Italia che all'estero. Una storia iniziata "nel sottotetto di casa" come piccola impresa gestita dall'A.D. Graziano Miglioranza in collaborazione con la moglie Loretta Vettorel, che oggi conta oltre quaranta dipendenti e cantieri in tutto il Nord Est. Da poco il gruppo si è aperto all'entrata della nuova generazione, con Elisa Miglioranza (la figlia) a direzione tecnica. "Siamo grati e felici di questo ambito premio" - commenta Graziano Miglioranza - "Ipogeo è una grande squadra, un'impresa forte, che si distingue perchè gestita da persone competenti, efficienti ed appassionate volte all'alta produt-
tività. Ringrazio la mia famiglia che da sempre ha creduto negli scopi di questa azienda e naturalmente tutti i dipendenti, valore aggiunto di Ipogeo SRL". Il premio Industria Felix - L'Italia che compete è organizzato dall'omonimo magazine, supplemento de Il Sole 24 Ore, ed è un evento itinerante alla sua 38 edizione. Dal 2015 un Comitato scientifico composto da esponenti Luiss, Confindustria, docenti universitari e commercialisti, enti pubblici e partner di progetto, attraverso un algoritmo che prende bilanci sintetici di diverse aziende, rilascia un riconoscimento alle aziende che nel territorio di una determinata regione, si distinguono per performance gestionali e affidabilità finanziaria. "Il futuro di Ipogeo è roseo" - conclude Miglioranza - "Una riconoscenza così importante, ci aiuta a tenere chiaro il nostro obiettivo! Siamo sempre attenti alla risoluzione di nuove problematiche sui territori dove operiamo, adoperando nuove tecnologie e macchinari d'avanguardia per ottenere risultati sempre migliori".
I nostri
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· centro assistenza fiscale, CAF
· tariffe e qualità servizi banche, finanziarie, assicurazioni
· richiesta SPID · firma digitale, attivazione PEC · contenzioso tributario e fiscale · diritto bancario e tributario · analisi bancarie, finanziarie, crif · servizio di patronato, centro raccolta epas · mediazione civile e familiare · mediazione volontaria ed obbligatoria
· mediazione finanziaria creditizia · malasanità · divisioni e successioni · contratti, clausole vessatorie e locazioni · lavori artigianali · incidenti domestici · acquisiti fuori dai locali, televendite, vendite a distanza
· mediazione corecom, agicom, arera
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Conosciamo le leggi in collaborazione con A.E.C.I.-FELTRE
SUCCESSIONI E DIVISIONI EREDITARIE
O
ltre a costituire un evento triste, la morte di un congiunto pone una serie di obblighi e complessi incombenti in capo a chi risulta chiamato alla successione, ovvero a coloro che a diverso titolo vantano diritti sul lascito ereditario. Le tematiche giuridiche che si aprono interessano vari profili e vanno a intrecciarsi conducendo a problematiche differenti. In primo luogo, un dato: al momento dell’apertura della successione, vale a dire alla data della morte del decuius nel luogo di suo ultimo domicilio (art. 456 c.c.), va fatta risalire l’individuazione dei soggetti chiamati all’eredità, ovvero coloro che potranno vantare il diritto di accettare o rinunciare il lascito ereditario. Costoro sono tutti i soggetti nati e concepiti al momento della morte del congiunto (art. 462 c.c.): non soltanto, dunque, i soggetti già nati e viventi, ma
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anche coloro che sono soltanto stati concepiti e la cui nascita avvenga entro 300 giorni dall’apertura della successione. La devoluzione dell’eredità, poi, può svolgersi essenzialmente in due modi: essa può avvenire per testamento o per legge, come disposto dall’art. 457 c.c. Il primo caso si verifica quando il decuius lascia ai chiamati all’eredità un testamento, ovvero un atto ove sono contenute le sue ultime volontà, dettate per il tempo in cui avrà cessato di vivere (art. 587 c.c.). Il testamento, che può essere olografo (art. 602 c.c.), ovvero scritto completamente a mano dalla persona, oppure pubblico o segreto, quale atto notarile (art. 601 comma 2 c.c.). Esso può riportare i contenuti più diversi, anche andando al di là di strette disposizioni economiche, ma deve rispettare, dal punto di vista patrimoniale, quelle che il codice civile disciplina come quote
di riserva dell’asse ereditario ai c.d. soggetti legittimari: vi sono infatti specifiche categorie di soggetti (ascendenti, discendenti e coniuge) che vantano per legge il diritto di vedersi riservata una quota del patrimonio del decuius e possono agire in giudizio per vedere riconosciuta eventualmente la lesione della quota di legittima. Nel caso in cui non sia stato redatto testamento o esso non vada a coprire, con il suo contenuto, l’intero asse ereditario (magari perché, ad esempio, il testatore ha voluto disporre soltanto dei beni immobili, lasciando fuori tutto il resto delle sue possidenze), devono trovare applicazione le norme del codice civile che regolamentano la successione legittima, ovvero le disposizioni che prevedono le quote di spettanza di ciascuno degli eredi sulla massa ereditaria. Il codice civile è molto dettagliato nel disciplinare tutte le ipotesi (art. 566 ss c.c.) di successione legittima, considerando le quote differentemente nel caso, ad esempio, di eredi coniuge con un figlio solo, coniuge con più figli, solo figli, concorso di ascendenti. La divisione della massa ereditaria è istituto che si affianca alle norme che disciplinano la successione e può con esse intrecciarsi: ma non necessariamente. Ciò in quanto trattasi di momento diverso e (spesso) successivo all’espletamento della successione, salvo l’ipotesi di divisione della massa ereditaria contenuta direttamente nel testamento e, quindi, disposta dallo stesso testatore-decuius. Va premesso che, di regola, quando gli eredi succedono al decuius nella titolarità dei beni costituenti l’asse ereditario (che possono essere attività o passività), costoro diventano parte della c.d.
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comunione ereditaria: in sostanza, salvo dell’asse ereditario, per poi giungere se si vuole dividere ciò che è oggetto · divisioni e successioni appunto la citata ipotesi di divisione tea ripartirlo in pari misura fra gli eredi di comunione, bisogna attivarsi, con gli diritto bancario e tributario stamentaria, gli eredi diventano titolari intervenuti in giudizio. oneri che ne conseguono. · contratti, clausole vessatorie e locazioni analisi bancarie, finanziarie, crif in comune – per quote – su tutto l’asse La legge prevede il diritto dei coeredi ereditario. Si ringrazia l’Avvocato Erica Vicentidi chiedere lo scioglimento della comu· lavori artigianali servizio di patronato, nione ereditaria "in ogni momento", con ni, del Foro di Trento, Studio legale Facendo un esempio, se il decuius Tizio, incidenti domestici centro raccolta la conseguenza ·che spetta al singolo coin Pergine Valsugana, Via Francesco proprietarioepas di 2 terreni e un’immobile, erede la scelta di provocare la divisione Petrarca n. 84) per la gentile e preziosa decide di non disporre per testamento · acquisiti fuori dai locali, mediazione civile e familiare dei beni ereditari. consulenza. dei suoi averi, gli eredi Caio, Mevia e Il coerede è libero Sempronio succederanno suo patritelevendite, vendite a distanza mediazione volontaria ednel obbligatoria monio diventando titolari di una quota di scegliere se e · concorsi e operazioni a premi mediazione corecom, agicom, arera quando chiedere del tutto, da gestire quindi in comune. Per fare in modo che ciascuno degli la divisione della · vigilanza, controllo, sicurezza, responsabilità civile, medica, eredi divenga titolare (proprietario) comunione: l'azione investigazioni automobilistica di uno specifico cespite ereditario è che può decidereI.G.S.S. di necessario procedere alla divisione instaurare, propo· saldi, pubblicità ingannevole, superbonus 110%, decreto rilancio nendo in giudizio la dell’asse, che può avvenire in maniera sicurezza sui prodotti consensuale attraverso un atto notarile, professionisti in sede su appuntamentodomanda di divisione, è imprescrittibile. laddove nel patrimonio del decuius Nessun coerede· èalimentazione, salute, frodi commerciali constino beni immobili; altrimenti, diservizi per immigrati venta necessario un giudizio in Tribucostretto a rimanere · rifiuti e ambiente, sanità e farmaci nale, nell’ambito del quale il giudice è comproprietario chiamato dapprima a definire il valore dei beni ereditari; · gestione infortunistica,
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Girovagando di Laura Paleari
I matrimoni nel mondo
I
l matrimonio è una delle pratiche religiose e civili più importanti fin dall’antichità; un patto stretto tra due
persone, una promessa che dura tutta la vita. Proprio per questo, le usanze, i riti e i costumi, variano da nazione a nazione, dopotutto, basti solo pensare alla nostra penisola, dove da regione a regione cambiano tradizioni e interpretazioni di questo rito. In questi casi gli abiti, come i gioielli e gli accessori, costituiscono una parte fondamentale dell’esprimersi di una cultura e sono indicativi dei valori di cui è costituita. In questo articolo non vengono raccontati i cerimoniali di tutto il mondo, ma quelli più famosi e particolari, un viaggio per immergersi in tradizioni diverse e lontane ma altrettanto speciali e uniche. Uno dei riti più simili al nostro è, senza dubbio, quello americano; una delle cose più importanti è che la sposa indossi qualcosa
di vecchio, qualcosa di nuovo, qualcosa di prestato e qualcosa di blu (“something old, something new, something borrowed, something blue”); come è intuibile il vecchio rappresenta la famiglia, il nuovo la coppia, quello che viene prestato è generalmente il velo, appartenuto alla madre della sposa, mentre il blu è simbolo di purezza. Particolare importanza rivestono i testimoni degli sposi; in particolare lo sposo ne sceglierà almeno tre, di cui uno sarà il “Best Man” , l’uomo, o meglio il testimone, per eccellenza, il quale si occuperà di curare tutti i particolari della cerimonia oltre ad organizzare il famosissimo addio al celibato. Spostandoci in Cina, possiamo dire che il matrimonio segue i cambi d’abiti della sposa, che sono ben tre. La mattina viene indossato l’abito tradizionale cinese, dove non può mancare la presenza del colore rosso, simbolo per eccellenza, in oriente, di buona fortuna, a cui si aggiunge un copricapo ornato da frange e pietre preziose. La cerimonia del te, è una delle parti più importanti e antiche, la coppia infatti servirà questa bevanda ai genitori, per
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Girovagando dimostrare l’affetto e la gratitudine per averli cresciuti. Durante il rito matrimoniale, che si svolge all’interno di un ristornate, la sposa indossa un abito bianco, in stile occidentale, mentre vengono serviti, in un sontuoso banchetto, cibi della tradizione; per poi arrivare alla sera, dove l’abito sarà lungo ed elegante per gli ultimi festeggiamenti. Volando in India, non possiamo non citare una delle tradizioni matrimoniali più diffuse e importanti: il Mehndi; il tatuaggio applicato sulla pelle tramite henné, in particolare sulle mani e sui piedi, il cui disegno non è permanente ma dura al massimo una quindicina di giorni; un augurio di benessere per il futuro della coppia. I colori degli abiti indossati sono sempre accesi e vividi, in particolare vengono scelti il giallo, il rosso e l’arancione. In Africa la proposta di matrimonio viene fatta a casa della sposa: il padre della stessa verserà il "Mmai ngwo”, il vino loca-
le, in un bicchiere. La figlia dopo averne bevuto un po’, lo passerà al futuro marito, stabilendo di fatto l’ufficialità dell’unione. Tuttavia, se questo non avverrà, l’unione non sarà valida e non avverrà il matrimonio, cosi come se lo passerà ad un altro uomo, dimostrerà la sua intenzione a sposare quest’ultimo. A seconda dei paesi dove viene celebrato, i colori degli abiti cambieranno. Nella cultura araba, invece, la famiglia è una parte, se non la parte, fondamentale del matrimonio. La proposta di matrimonio, infatti, prevede che lo sposo, con tutta la sua famiglia o, almeno, con i i familiari più stretti, si rechi a casa della futura sposa, la cui famiglia gli accoglierà, presentandosi formalmente. Qui, i genitori dello sposo chiederanno la mano della donna a suo padre o, in assenza, all’uomo più anziano della casa. Subito dopo avverrà un piccolo ricevimento e il matrimonio verrà
in seguito celebrato da un prete, con gli sposi che indosseranno un abito dello stesso colore, scambiandosi gli anelli e leggendo una parte del Corano; in seguito avverrà la cerimonia e la festa potrà durare parecchi giorni, non caso i cambi d’abito della sposa possono arrivare fino a 7! E, infine, spostandoci più a nord, possiamo trovare tradizioni ancora più particolari: in Svezia, ad esempio, la sposa porta nella scarpa destra una moneta d’oro e in quella sinistra una moneta d’argento, donati rispettivamente dalla madre e dal padre per portare ricchezza alla nuova vita della figlia, mentre lo sposo non può allontanarsi troppo (neanche andare in bagno) onde evitare che altri invitati bacino la sposa. In Danimarca i promessi sposi si scambiano i vestiti per confondere gli spirito maligni e assicurati la felicità di coppia.
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la differenza tra il metodo Classico (Champenoise) e il metodo Martinotti (Charmat) Ferrari fu uno dei pionieri di questo metodo in Italia, nel 1902 portò dalla Francia delle barbatelle di Chardonnay e per primo intuì la straordinaria vocazione della nostra terra per la sua coltivazione, cominciò a produrre poche selezionatissime bottiglie, con un culto ossessivo per la qualità, quello che per molto tempo fu definito appunto uno “Champagne italiano”.
METODO CLASSICO
M
i capita spesso (purtroppo) al bar di chiedere un bicchiere di Spumante Metodo Classico e ricevere un bicchiere di Prosecco, non tutti hanno la “cultura enologica” di sapere la grande differenza che esiste tra i due sistemi di produzione, ancorché sempre di bollicine si parli, ma profumi, aromi e “perlage” sono senz’altro a vantaggio del primo metodo. Iniziamo col dire che il Metodo Classico non è altro che il Metodo Champenoise solo che il nome Champenoise si può utilizzare esclusivamente per i vini prodotti nella zona della Champagne (quelli prodotti nel resto della Francia prendono il nome di Crémant), il sistema di produzione è identico. Giulio
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Il Metodo Classico o Champenoise, ha inizio con una pressatura dolce delle uve (in genere Chardonnay e/o Pinot Nero vinificato in bianco), seguita dalla fermentazione. La base degli spumanti è solitamente costituita da una cuvée, cioè una miscela di vini di tipologie e/o annate diverse (non nel caso dei millesimati, che sono i vini prodotti con un solo vino di un'unica annata), che viene imbottigliata con l'aggiunta di una selezione di zuccheri e lieviti (il “tirage”). Il vino effettua una seconda fermentazione riposando in posizione orizzontale per una durata media di due tre anni ma si possono raggiungere anche i dieci anni. Dopo questa fase inizia il “remuage”, ovvero il delicato posizionamento in
verticale per eliminare le impurità formatesi, in modo che le stesse vadano a finire nel collo della bottiglia. Ogni bottiglia viene ruotata di 1/8 e leggermente inclinata con il tappo verso il basso per far depositare nel collo i residui della fermentazione, quando la bottiglia raggiunge una posizione verticale, il collo della stessa viene immerso in una soluzione che lo congela, la bottiglia viene così stappata (questa fase si chiama “sboccatura” o “degorgement”) e le fecce ghiacciate vengono espulse in un cilindro ghiacciato grazie alla pressione presente all’interno della bottiglia. Successivamente si procede con il dosaggio, ovvero l'aggiunta di una miscela di zuccheri e vino per ripristinare la parte di vino espulsa (la cosiddetta “liquer d’expedition”), fanno eccezione i metodi “Pas Dosé” dove viene solo aggiunto spumante dello stesso tipo. Ultima fase è l’inserimento del tappo. Quando viene aggiunta la “liqueur d’expedition” le bottiglie devono essere agitate per omogeneizzare correttamente la stessa in quanto ha la tenden-
In Vino Veritas za a depositarsi sul fondo della bottiglia. La “liquer d’expedition” riveste un ruolo molto importante nella produzione di uno spumante metodo classico, in quanto una “liqueur” non adatta allo spumante specifico, può snaturare il prodotto, pensate ad una “liqueur” con troppi zuccheri ad esempio.
METODO MARTINOTTI O CHARMAT
I vini prodotti con questo metodo (dai nomi dell'astigiano Federico Martinotti, che inventò il metodo e di Eugéne Charmat, che brevettò l'attrezzatura per metterlo in pratica) nascono da vini bianchi fermi con una tecnica di produzione caratterizzata da costi più contenuti e tempi di produzione molto più brevi. Questo metodo implica la fermentazione in massa del vino base in contenitori in acciaio inox sotto pressione (autoclavi) a temperatura controllata. La velocità del processo e la sua econo-
micità permette inoltre la produzione di spumanti di qualità ad un costo molto più contenuto. In questo caso dopo aver subito una prima fermentazione dopo la pressatura delle uve, il vino ne subisce una seconda in autoclavi di acciaio, a temperatura e pressione controllate, con l'aggiunta di lieviti e zucchero. Durante questa fase, che dura da un minimo di 20/30 giorni (Charmat corto) fino a 15 mesi (Charmat lungo), i lieviti "mangiano" gli zuccheri e li trasformano in alcol e anidride carbonica, dando vita alle caratteristiche bollicine. Successivamente il vino viene filtrato, avviene poi il dosaggio con l'aggiunta di una miscela di vino e zucchero, e infine l'imbottigliamento. Il Metodo Charmat si utilizza quindi generalmente per produrre vini perlopiù leggeri,
freschi e dalle note fruttate, un tipico esempio è il Prosecco. Foto “Archivio Cantine Ferrari”
di Adriano Bertelle & C. s.n.c.
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LE DIFESE IMMUNITARIE possibile sviluppo di malattie cardiache e riduce notevolmente lo stress e i sintomi di ansia e depressione. Particolare importanza deve essere anche dedicata al benessere della flora batterica, detta anche microbiota (che è l’insieme di tutti quei microrganismi che vivono nel nostro intestino) e che non sono svolge una importantissima funzione per il benessere generale dell’organismo, ma è proprio all’interno del nostro intestino che si forma circa il 90% del nostro sistema immunitario.
I
l sistema immunitario è un insieme di cellule e organi altamente specializzati, sparsi in diverse parti del corpo umano e che hanno il precipuo compito di difendere il nostro organismo da agenti esterni. Di fatto rappresenta un vero e proprio apparato difensivo, un efficiente scudo, utile e indispensabile per la protezione da tutti quei microorganismi, quali batteri, funghi, protozoi e virus che sono o possono essere la causa di moltissime patologie, a volte anche gravi. Quando si parla di difese immunitarie ci si riferisce a quel grande universo che ha il precipuo compito di proteggere il nostro organismo dall’aggressione di germi e molti agenti patogeni. Il loro funzionamento è molto semplice: quando un microorganismo, di diversa natura, penetra nel nostro corpo le nostre difese immunitarie, in molti casi, riescono a bloccarne l’attecchimento, lo sviluppo e la crescita e quindi la diffusione nel nostro corpo. In mancanza o carenza di tale difese gli “intrusi” prevalgono e noi rischiamo di ammalarci in maniera anche grave. Ovviamente se le difese immu-
nitarie sono sempre efficaci, il nostro organismo si mantiene in “salute” e in ottimale equilibrio fisico e mentale. E quando si evidenza una diminuzione di queste difese la scienza medica e farmacologica, per fortuna, ci vengono in aiuto per integrare e potenziare la loro specifica funzione. E’ importante sapere che un non corretto stile di vita, un evidente stato di stress psicofisico, una patologia non ben curata, indeboliscono, nei diversi gradi, il nostro sistema immunitario, in quanto è sottoposto a un maggior carico di lavoro. E maggiori ed efficaci saranno le nostre difese immunitarie minori saranno le possibilità di affaticamento e di contrarre possibili malattie. Importante ruolo rivestono sia il dormire (almeno 7-8 ore) perchè durante il sonno il corpo rielabora e sintetizza le proteine e gli alimenti introdotti con l’alimentazione e sia l’attività fisica. Attività, che se svolta continuamente, previene il rischio di ammalarsi di diabete tipo 2, di ipertensione, evita l’aumento del colesterolo e il
Oggi, grazie alla ricerca farmacologia e per supportare il nostro sistema immunitario, possiamo ricorrere a elementi che svolgono un importante ed essenziale ruolo nel mantenere e potenziare le nostre difese immunitarie contribuendo, nel contempo, a farci sentire bene. E tra questi ci sono le vitamine (in particolare la A, quelle del gruppo B, la vitamina C, la D e la E, alcuni minerali quali il Ferro, il Rame, il selenio, lo Zinco, i probiotici e altri particolari specifici integratori. Ovviamente, per il giusto utilizzo di queste elementi e di un qualsiasi integratore, ci si deve sempre rivolgere al proprio medico o al proprio farmacista, gli unici in grado di dare le appropriate indicazioni. Quindi è sempre da evitare il famoso “fai da te”.
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Attualità di Nicola Maschio
La Giornata mondiale del Sonno: perché è così importante dormire bene?
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on tutti lo sanno, ma il prossimo venerdì 18 marzo ricorrerà la Giornata mondiale del Sonno. Un appuntamento che, per certi aspetti, arriva quasi inaspettato dato che ognuno di noi, al sonno, ci è ovviamente abituato. Ma quello che non si sa probabilmente è quanto sia importante il riposo per ogni essere umano, quali benefici comporta e, di contro, quali possono essere le conseguenze negative di un modo e ritmo di dormita scorretto. È il Centro di Medicina del Sonno a spiegare alcuni dettagli di questa importantissima pratica: “Il sonno è coinvolto in molte funzioni fondamentali per la nostra vita. Durante il sonno avvengono diverse azioni fisiologiche necessarie
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Attualità per il nostro organismo che se non si esplicano possono portare a complicazioni. Il sonno regola la rigenerazione di corpo e cervello, l’eliminazione delle tossine del metabolismo e il riordino dei conflitti emozionali. Agisce su consolidamento della memoria, controllo dell’infiammazione, regolazione ormonale, metabolica e cardiovascolare”. Insomma, per prima cosa dormire sembra essere quasi una “pratica medica”, in grado di regolare non solo il corpo ma anche la mente dell’individuo, giocando inoltre un ruolo decisivo anche nello sviluppo cognitivo dei bambini nella loro più giovane età. Ma quanto dobbiamo dormire per poterci definire davvero riposati? “Dormire almeno 7-8 ore a notte è indispensabile per mettersi al riparo da possibili rischi – prosegue il Centro. – Ma di contro, si stima che il 20% della popolazione adulta sia affetta da disturbi del sonno, mentre nei bambini la percentuale sale al 25%. Inoltre una grossa quota di questi
disturbi è costituita dai problemi respiratori del sonno, che comprendono soprattutto l’apnea ostruttiva, di gran lunga la più rilevante: questo fenomeno colpisce fino al 14% degli uomini e il 7% delle donne all’interno dell’Europa. In Italia si stima che sono almeno 13 milioni i cittadini colpiti da apnea notturna, bruxismo, sonnambulismo e altre forme di disturbo”. I fattori che possono disturbare i nostri sonni tranquilli sono comunque i più diversi: dall’ansia all’agitazione, dallo stress alle preoccupazioni lavorative o personali; ancora, una cena troppo pesante oppure il digiuno dal cibo, ma anche ovviamente uno stato di malattia o ad esempio un problema fisico di altra natura. Altrettanto evidenti sono le conseguenze del “dormire male”: cattivo umore, difficoltà a rimanere concentrati, ma anche problemi relazionali o nell’apprendimento, così come una minor capacità di reazione e, in generale, un progressivo “rallentamento”
di quelli che sono i ritmi di vita quotidiani. In sintesi, una miglior qualità del sonno è sinonimo di una altrettanto ottima qualità della vita. In questo contesto si cala la Giornata Mondiale del Sonno (anche nota come World Sleep Day), istituita nel 2008 per sensibilizzare su tutti i disturbi sonno e che lo scorso anno ha coinvolto più di 90 Paesi in tutto il mondo e centinaia di iniziative. Se pensiamo infatti alla panoramica generale, proprio nell’intero globo ben il 45% della popolazione soffre di un qualche disturbo del sonno, motivo per il quale l’AIMS (l’Associazione Italiana di Medicina del Sonno) ha ideato per quest’anno un’iniziativa assolutamente speciale: “Tutti i principali esperti italiani della Medicina del Sonno – si legge proprio sul sito AIMS, – faranno una staffetta ideale dalle 8.00 del mattino alle 20.00 della sera, presentando al più largo pubblico un quadro articolato di conoscenze sulla qualità del sonno”.
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Il giardino d'inverno di Niccolò Sovilla
Il Nespolo dimenticato
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arzo è il mese in cui orde di appassionati di orto e giardino ricominciano a riversarsi nei vivai in cerca di nuove piante. Nelle nostre zone, le piante da frutto sono ancora un must, e così si fa a gara per la varietà più produttiva di melo, per il pesco più resistente, per il ciliegio che prometta i frutti più grossi. Ma che ne è del nespolo? Così come il corniolo, il giuggiolo e il cotogno, il nespolo europeo è progressivamente finito nel dimenticatoio. Nella tradizione contadina i suoi frutti, le nespole, erano considerati ricchi di proprietà; una sua buona fioritura preannunciava un raccolto abbondante; esso aiutava la gente a scandire il passare delle stagioni, in quanto ultimo tra gli alberi i cui frutti sarebbero maturati. “Col tempo e con la paglia maturano le nespole” si diceva infatti, suggerendo che nella vita ci vuol pazienza. Forse il lento processo di post-maturazione delle nespole, detto più propriamente “ammezzimento”, ha fatto sì che le persone se ne stufassero. Non sono frutti “da fast food”: non commestibili appena raccolte, causa l’alto contenuto di tannini, le nespole vanno deposte su paglia e lasciate fermentare a lungo in un locale fresco. In questo modo, diminuisce il contenuto di tannini e aumenta quello dei glucidi. La polpa, ammorbiditasi, risulta pastosa, dolciastra, gradevole, ideale come dessert. Non solo: dalle nespole si ottengono marmellate, gelatine, salse, brandy, liquori (tra i quali il Nespolino).
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Il nespolo è originario di Caucaso, Iran, Turchia e Grecia. Perché allora venne classificato da Linneo col nome scientifico di “Mespilus germanica”? E com’è che oggi lo troviamo in tutta Europa, anche come pianta spontanea o rinselvatichita? Merito dei Romani, che apprezzando le nespole ne favorirono la diffusione. La coltivazione prese piede in particolar modo in Germania. Il nespolo europeo, o germanico, o comune, è perfetto tanto per il frutteto familiare quanto per il giardino, dove viene spesso utilizzato come pianta ornamentale grazie al portamento grazioso, alla gradevole fioritura e alla folta fronda ombreggiante. Albero deciduo di medie dimensioni, si sviluppa più in larghezza che in altezza (può crescere fino ad un massimo di 5 o 6 m). È una pianta molto rustica, che può resistere senza problemi a temperature molto basse, anche fino a -15°C. La fioritura tardiva, che avviene all’inizio dell’estate, la rende ideale per la coltivazione nelle nostre zone, dove molte piante da frutto soffrono a causa delle gelate primaverili.
La miglior esposizione è in pieno sole, dove si ha la massima resa nella produzione di frutti; tuttavia, il nespolo può vegetare anche in mezz’ombra, se al riparo dai venti. In quanto a suolo è molto adattabile, ma preferisce terreni drenanti e non calcarei, l’umidità dei quali è fondamentale per la produzione di nespole qualitativamente buone e per la salute generale della pianta. Meglio, insomma, non far patire la siccità al nespolo, se non si vogliono ottenere frutti piccoli e inconsistenti. Da evitare le irrigazioni a spruzzo sulle chiome e i ristagni idrici, poiché favoriscono l’instaurarsi di patologie fungine. La crescita della pianta e la produzione di frutti sottraggono al terreno molti nutrienti, che è opportuno reintegrare con concimazioni primaverili: lo stallatico animale maturo ben decomposto è un’ottima scelta. Ai meno esperti piacerà sapere che, se allevato con forma libera, il nespolo non necessita di particolari interventi di potatura, se non le solite semplici manutenzioni: basterà rimuovere di tanto in tanto i rami secchi, vecchi o improduttivi. Un ultimo consiglio: se deciderete di cimentarvi nella coltivazione del nespolo, specificate al vostro vivaista di fiducia che siete alla ricerca del nespolo europeo! Potreste altrimenti facilmente ritrovarvi con un nespolo giapponese (Eryobotrya japonica), una pianta appartenente a tutt’altra famiglia e che non c’entra proprio nulla con quanto avete letto in queste pagine…
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Medicina & Salute di Elisa Corni
Lo sviluppo della vista nei neonati Esiste un senso senza il quale ci sentiamo persi: è la vista. Preziosa per capire dove ci troviamo, quali sono i pericoli che ci circondano, come interagire con l’esterno e con gli altri esseri umani ma anche per definire la nostra essenza.
Ebbene, quando siamo nati eravamo tutti “orbi”: la vista, infatti, è un senso che si sviluppa soprattutto dopo la nascita. La cosa non deve certo stupirci: prima di “venire al mondo” i bambini passano il tempo in un ambiente chiuso e buio, la pancia della mamma, nel quale gli stimoli visivi sono ben pochi. Però già nel grembo materno gli occhi di un bambino sono sensibili alla luce. Lo prova il fatto che al settimo mese di gravidanza, se si fa lampeggiare una luce potente sull’addome della mamma durante un esame ecografico, il feto risponde a questa stimolazione socchiudendo le palpebre. Una lieve luce rossa filtra attraverso pelle e organi, ma non è certo sufficiente a stimolare i nostri occhi. Ma anche una volta usciti, i bambini rimangono per lungo tempo incapaci di 84
vedere determinate cosa. Sì, perché nasciamo tutti miopi. Del resto tutto ciò che interessa un bambino appena nato si trova a pochi centimetri dal suo naso: il seno della madre e, al massimo, il suo volto. Tutto il resto è irrilevante per le prime settimane di vita. Per questo motivo i bebè mostrano interesse per gli oggetti di forma tonda e molto contrastati (i capezzoli hanno esattamente queste caratteristiche!); i neonati vedono in bianco e nero. Negli ultimi anni si è sviluppata l’attenzione per questo aspetto e sempre più case produttrici vendono giocattoli in bianco e nero per le prime interazioni del bambino con il mondo che lo circonda. Con il passare dei giorni, lentamente, accadono due processi che, simultaneamente, danno l’avvio a un processo inarresta-
bile e che porterà il bambino a vedere chiaramente. Da un lato l’esposizione alla luce stimolerà l’attenzione del bambino che, finalmente, non vedrà solo buio e rosso, ma anche oggetti in movimento e fermi. Dall’altra coni e bastoncelli, i ricettori all’interno del nostro occhio, si attiveranno permettendogli di distinguere sempre più dettagli e particolari. Contemporaneamente il cristallino, la parte dell’occhio in grado di mettere a fuoco ciò che vediamo, sviluppa la sua mobilità permettendo una messa a fuoco sempre più ampia. A un mese di vita il bebè è in grado di riconoscere un volto: l’ovale con gli occhi sono per lui collegati a chi si occupa di lui: la mamma, il papà, un adulto in generale. Bisognerà però aspettare i due mesi di vita perché anche gli altri dettagli del volto assumano interesse per il nuovo arrivato. Nel frattempo, però, ha iniziato a interessarsi anche agli oggetti che lo circondano: segue il loro movimento, li fissa, li osserva. Prima di riuscire ad afferrarli, coordinando occhio e mano, deve aspettare di raggiungere i 4-6 mesi, età nella quale lo spettro dei colori percepiti si arricchisce notevolmente. A 10-12 mesi finalmente i bambini sviluppano il senso di tridimensionalità: il mondo non è più piatto e gli oggetti possono essere scoperti ed indagati: la vista si affina sempre di più e ormai il bambino ci vede. Solo attorno all’anno di età si può considerare terminato il processo di sviluppo della vista.
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LA MACCHINE TAGLIACUCI
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n questo nostro articolo poniamo l’attenzione su quelle che sono le differenze sostanziali tra una macchina per cucire e una macchina tagliacuci e dal loro diverso utilizzo anche se, da un punto di vista prettamente sartoriale, sono decisamente complementari e quindi sarebbe utile averle entrambe in modo da poter svolgere più agilmente ogni tipo di lavoro.
La prima è l’ideale strumento per cucire, unire due tessuti, per realizzare una varietà di punti, siano essi doppi, dritti, a zig zag, fare ricami di ogni tipo e genere, cucire cerniere e tanto altro. Ed è questo il primo e utilissimo acquisto da fare. La tagliacuci, invece, merita un discorso a parte perché ha di fatto una diversa e più completa funzionalità perché permette non solo di cucire e unire i tessuti , ma anche tagliare e fare tutte le rifiniture in un unico passaggio ottimizzando, quindi. sia i tempi di lavorazione sia i risultati. Con la tagliacuci si possono lavorare e rifinire stoffe anche impegnative dal punto di vista della lavorazione, data la loro consistenza, per esempio quelle elastiche o con particolare trama, quelle di maglina oppure le delicate quale la
seta. Inoltre questa macchina non solo cuce con più fili (da 3 a 5) e questo fa sì che tutte le cuciture eseguite siano pulite, ma una sua ulteriore caratteristica è quella del trasporto differenziale, che consente di non tirare la stoffa e di non stropicciarla durante le varie fasi della cucitura. Un ideale e appropriato consiglio per chi si avvicina al mondo del cucito è quello prima di fornirsi della macchina per cucire e imparare a utilizzarla bene e nel migliore dei modi. Di poi, a esperienza acquisita ci si può munire anche di una tagliacuci per concretizzare particolari desideri sartoriali. E come diciamo sempre, è bene rivolgersi agli esperti del settore per avere i giusti consigli e i suggerimenti del caso per potersi muovere in maniera appropriata ed ottimale in questo grande universo che è la sartoria domestica.
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Non solo animali di Monica Argenta
Il Maniscalco e l'antica Arte della Mascalcia
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uello del maniscalco è un antico e importante mestiere che in mondo moderno dominato dalle automobili e da altri mezzi meccanici rischia di rimanere sconosciuto ai più. Chi vive nei centri urbani e non ha direttamente a che fare con cavalli, muli od asini, raramente pensa che esista ancora qualcuno che ferra i cavalli o, a mala pena, ha una rappresentazione di questa attività molto approssimativa e limitata. La ferratura del cavallo invece è una vera e propria arte che assieme alle abilità tipiche del fabbro va a braccetto con i saperi della scienza veterinaria e della podologia. Per saperne di più ho incontrato Damiano Prizzon, affermato giovane maniscalco della Valbelluna.
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Damiano, come è accaduto che sei diventato maniscalco? E' un lavoro che si tramanda nella tua famiglia? No, è un mestiere a cui sono arrivato quasi per caso. Sono sempre stato un amante degli animali ed ho sempre desiderato vivere e fare un lavoro in mezzo a loro. Quando ero studente dell'Istituto di Agraria, mi mandarono a fare uno stage in una malga e lì, essendoci diversi asini, conobbi un anziano maniscalco che per primo mi svelò i rudimenti di questo mestiere. Quello fu solo l'inizio di un fortunato percorso. Quindi tutti gli equini hanno bisogno di ferrature, anche gli asini tenuti al semplice scopo di pascolare e brucare l'erba? Non sempre la ferratura è necessaria ma diciamo che per tutti gli equini ci sarà prima o poi la necessità di un intervento del maniscalco per pareggiare l'unghia o occuparsi di altri problemi legati al piede. Per quanto riguarda la ferratura, sempre più si sta accreditando una “scuola naturalistica” che limita l'uso del ferri ma tutt'ora per un animale da lavoro o impiegato nello sport la ferratura rimane “ un male necessario”. Male tra virgolette perché in realtà un bravo maniscalco lavora solo su quella parte dell'unghia insensibile al dolore. L'intervento del maniscalco protegge dalle patologie, interviene e
corregge problematiche insorte da trauma o postura. Quella della mascalcia è una vera e propria arte che si è evoluta nei secoli, utilizza tecniche sempre nuove e materiali innovativi che spaziano dal ferro, all'alluminio, dalla gomma alle plastiche a seconda delle necessità. Il maniscalco è dunque sia calzolaio che podologo degli equini e non si può certo improvvisare, Damiano tu dove ti sei formato? Dopo aver capito che quella era la mia strada, ho frequentato un corso specifico presso il Centro Militare Veterinario di Grosseto dove si offre l'opportunità di frequenza anche ai civili. E' un corso impegnativo che oltre alla pratica affianca nozioni di storia e medicina veterinaria. A proposito di storia, cosa ci sai dire sulla nascita della ferratura? A quando risale? Chi furono i primi ad usarla? In epoca antica si proteggevano le unghie degli equidi con delle particolari calzature
Non solo animali conosciute con il nome di ipposandali: realizzate con materiale vegetale e impregnate di unguenti venivano semplicemente indossate e fissate con dei lacci alla caviglia dell'animale. Tuttavia, gli ipposandali avevano dei forti limiti e si dice addirittura che Alessandro Magno non potè mantenere la supremazia sui territori asiatici anche a causa del deserto che mangiava le unghie dei suoi cavalli. Già presso i Romani probabilmente gli ipposandali vennero sostituiti da mezzelune di ferro che però venivano ancora semplicemente “allacciate”, o così sembra rivelarci un importante reperto rinvenuto a Taormina. Tuttavia, la pratica della mascalcia, ovvero dei ferri fissati con chiodi, si deve presumibilmente attribuire ai Celti e ai Cimbri che attraverso i Longobardi la diffusero in Italia durante il Medioevo. L'origine celtica della pratica sembra esser supportata anche dall'etimologia del nome “maniscalco” che si compone dal germanico “marh” (cavallo)
e “sckalch” (servo, addetto) indicando quindi il servitore responsabile dei cavalli. Durante il Medioevo e soprattutto nei secoli successivi si svilupparono vere e proprie scuole di mascalcia in tutta Europa. Famosa fu ad esempio quella di Lione o di Pinerolo fino a giungere all'attuale realtà di Grosseto di cui parlavo prima. Consiglieresti ad un giovane questa attività? Essere maniscalco è una attività complessa e richiede una vera e propria passione. Certo, il lavoro non manca se pensiamo che un cavallo montato necessita di un intervento ogni 45-60 giorni. Io mi ritengo fortunato, sono richiesto da molte realtà anche fuori regione e, burocrazia a parte, ho trovato in questa antica arte il mio futuro. Si ringrazia Damiano Prizzon, maniscalco
professionista e titolare assieme ad Elisa dell'Az. Agricola “La Fattoria del Piave” per la loro disponibilità.
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Il personaggio di Alex De Boni
Luca Cargnel
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gnuno di noi ha dei sogni nel cassetto che coltiva sin da quando era bambino, i più determinati spesso riescono a realizzarli. Luca Cargnel ha sempre avuto la passione per la cucina, prima un passatempo con cui deliziare familiari ed amici, poi un vero e proprio lavoro iniziato con la prima esperienza in Birreria Pedavena nel lontano 2005 e poi proseguita fino al 2016 in vari Hotel della valle del Primiero. I piatti del Cuoco Luca, (non chiamatelo Chef che si offende) conquistano la clientela e la sua fama inizia a circolare tanto che il 22 Aprile 2016 decide di riaprire La Caliera a Lamen insieme al socio e Chef mentore. Scelta che segna la svolta nella carriera di Luca che con questo locale trova la definitiva affermazione nel campo ristorativo diventando uno dei cuochi più giovani ed apprezzati del panorama feltrino. Col passare del tempo il lavoro andava sempre meglio, meno il rapporto tra i due soci, tanto da portare Cargnel ha lasciare La Caliera e prendere in gestione La Locanda
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a Feltre. Questo famoso locale, in disuso da tempo, era stato negli anni 2000 il punto di riferimento di tantissimi giovani e la sua riapertura rappresentava un evento importante per tutta la comunità feltrina. Il 6 Dicembre 2017, venne inaugurata la gestione Cargnel, finalmente Luca coronava il sogno da bambino di aprire un ristorante proprio, dopo tanta gavetta e molti sacrifici, in questo modo diventa titolare di un locale ed è il capitano di un gruppo di giovani volenterosi di contribuire a trasformare in realtà il sogno di una vita. Il lavoro non mancava e le recensioni premiavano La Locanda facendola diventare in poco tempo uno dei ristoranti più ambiti della zona. In uno dei momenti più delicati e difficili dell’era recente nel bellunese, la Tempesta Vaia, Luca Cargnel si rese protagonista di un gesto di grande solidarietà: offrì infatti un pasto caldo a tutti i volontari che giunsero nel feltrino per aiutare la cittadinanza nelle opere di sistemazione dei danni causati dal violento maltempo. Per questo motivo l’amministrazione comunale si complimentò con lui. Purtroppo, la notte di capodanno del 2019, esattamente alle 3.45 del 1 Gennaio 2020, la sfortuna colpì La Locanda, infatti un violento incendio la distrusse quasi completamente. Sembrava la fine di tutto, migliaia furono i messaggi di solidarietà che Luca ricevette in quei giorni, ma l'ipotesi di ripartire sembrava un utopia. Un bel segnale di vicinanza la diedero gli amici di Cargnel che a Nemeggio nel capannone del campo sportivo organizzarono una raccolta fondi attraverso
una serata di degustazione dei piatti tipici del Locale, con Luca dietro ai fornelli e tutti i suoi ragazzi insieme a lui, chi al bar, chi alle pizze, chi al lavaggio. L’affluenza fu da record e contribuì a dare un messaggio di speranza, il sogno di Luca non era finito, la ricostruzione era possibile. Passò quasi un anno, durante il quale Luca prese lavoro in un supermercato e con il suo immancabile sorriso trovo la forza e il coraggio per portare avanti l’opera di ricostruzione della Locanda. Il 12 Dicembre 2020 neanche un anno dopo, ci fu la seconda inaugurazione della Locanda. I sogni son desideri e perpetuandoli possono avverarsi anche due volte! Intervista a Luca Cargnel Che periodo è stato il post incendio della locanda? Mi ritengo fortunato, dopo l'incendio ho avuto una risposta meravigliosa della gente, che con la loro vicinanza mi ha aiutato a rialzarmi. Ho capito quante persone apprezzano me stesso ed il mio lavoro, è stato bellissimo aver ricevuto tutto questo affetto, manifestato anche nelle serate che abbiamo organizzato per raccogliere fondi. Nel male sono stato fortunato se penso
Il personaggio
che poco dopo l'incendio è scoppiata la pandemia da Covid che ha messo in ginocchio tante realtà ristorative e non solo. Nella mia sfortuna in quel periodo non ho subito anche questo tremendo impatto. Hai mai pensato di mollare tutto? Sinceramente si, ci sono stati momenti in cui ho pensato di mollare la spugna. Però in fondo al mio cuore c'era il desiderio e la voglia di prendere in mano una pentola e cucinare. Mi sento nato per fare questo e anche quando a maggio 2020 ho iniziato a lavorare in un supermercato sapevo dentro
di me che in realtà volevo tornare dietro ai fornelli e stare in mezzo alla gente. Mi mancava tutto e mi mancavano i miei colleghi e i miei clienti. Per tutte le persone che hanno creduto nel mio sogno dovevo riprovarci
fanno sentire solo, io per fortuna mi sono sempre sentito sorretto e supportato da tanti. Gente di cuore che mi hanno sempre dato tutto e anche oggi ci sono in ogni momento. L'amicizia è un valore unico, io in questo sono molto fortunato, a tutti loro dico grazie per questo sogno che continua.
assolutamente. Amici e familiari ti hanno sempre sostenuto. Posso tranquillamente dire di avere una famiglia e degli amici straordinari, non mi hanno mai abbandonato e anche quando tutto sembrava perso erano lì per sostenermi e aiutarmi. Quel primo gennaio, la notte dell’incendio, erano al mio fianco ad asciugarmi le lacrime. Penso che una delle cose peggiori nella vita sia circondarsi di persone che ti
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Girovagando in USA di Francesca Gottardi*
Filadelfia:
La capitale storica degli Stati Uniti statunitense nel 1880. Questo giorno è spesso accompagnato da celebrazioni pubbliche ed è una festività osservata da molte scuole ed istituzioni federali.
La città
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l 21 febbrario scorso si è tenuto negli Stati Uniti il Presidents’ Day, il Giorno dei presidenti USA. Per l’occasione, sono volata a Filadelfia, la prima capitale statunitense e la sede delle prime istituzioni governative e presidenziali degli Stati Uniti d’America.
Il Presidents’ Day
Il Giorno dei presidenti è una festività USA che commemora il compleanno di George Washington, il primo presidente degli Stati Uniti D’America. Washington è considerato il Padre della Patria e uomo di grandi virtù morali e pubbliche. Basti pensare che ad oggi è l’unico Presidente USA ad essere stato eletto all’unanimità dal collegio elettorale. Il Presidents’ Day si celebra in tutto il Paese il terzo lunedì di febbraio, che cade attorno al 22 febbraio (nascita del presidente Washington) e al 12 febbraio (nascita del presidente Lincoln). La festività fu istituita dal governo federale 90
Filadelfia (dal greco antico “amore fraterno”) è la città più importante dello Stato della Pennsylvania e tra le più antiche degli USA. È conosciuta informalmente dagli americani come “Filly.” La sua importanza è ben rappresentata dall’imponente City Hall, che è la sede del comune della città. Fondata nel 1682 dal quacchero William Penn su principi di libertà e tolleranza religiosa, Filadelfia conta ben due milioni di abitanti e la sua area metropolitana raggiunge una popolazione di sei milioni di persone. Dal 1790 al 1800 fu la capitale degli Stati Uniti. A Filadelfia furono redatti due dei documenti più importanti della storia USA: la dichiarazione di Indipendenza (1776) e la Costituzione Statunitense, in vigore dal 1789.
La storia
Prima dell'arrivo degli europei, nell’area di Filadelfia sorgeva un nucleo abitato da
nativi americani della tribù dei Delaware (o Lenape), nota come Shackmaxon. I primi colonizzatori europei arrivarono nella zona a metà del diciassettesimo secolo, guidati dal missionario svedese Johannes Campanius. Per questo l’area fu inizialmente nota come Nuova Svezia, anche se presto passò sotto il controllo britannico. Il fondatore di Filadelfia William Penn era infatti un ammiraglio inglese. Una curiosità: il progetto urbanistico seguito con successo da Penn lasciava ampi spazi fra le costruzioni, allo scopo di controllare meglio gli incendi e le epidemie (che all'epoca erano ricorrenti). Oltre al suo importante ruolo storico,
Girovagando in USA Filadelfia fu anche uno dei principali centri mondiali dell’industria ferroviaria.
I monumenti
A Filadelfia vi sono alcuni tra i monumenti istituzionali più significativi della storia americana moderna. Degni di particolare nota sono quelli racchiusi nell’Independence National Historical Park. Questo comprende in primo luogo il complesso dell’Independence Hall, risalente al 1753. Il complesso comprende la prima residenza presidenziale e l’Old City Hall, che ha ospitato la prima Corte Suprema USA. Comprende inoltre l’Independence Hall, conosciuto per essere il luogo dove venne discussa e ratificata la Dichiarazione d’Indipendenza USA. Con la dichiarazione, le tredici colonie britanniche della costa atlantica nordamericana dichiararono la propria indipendenza dall’impero britannico, e nacquero così gli Stati Uniti d’America. Il documento originale della
Dichiarazione è oggi conservato a Washington DC. L’Independence Hall è stato anche sede del Parlamento USA, ed il luogo dove venne inoltre firmata la Costituzione degli Stati Uniti. È per questo riconosciuto come Patrimonio dell’Umanità UNESCO. La torre dell’Independence Hall ospitò un tempo la Liberty Bell (la “Campana della libertà”), oggi conservata in un museo adiacente. La campana ha un importantissimo significato storico. È emblema della Rivoluzione americana ed ogni anno attrae oltre un milione di visitatori. È inoltre simbolo di unità,
tolleranza, e del movimento abolizionista USA contro la schiavitù. Suonò per la prima volta il 22 febbraio del 1846 (il Giorno dei Presidenti), in occasione del compleanno di George Washington. *Francesca Gottardi è nostra corrispondente USA
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CICLOMOTORI
BOLLO E PASSAGGIO DI PROPRIETÀ
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utti i ciclomotori, per poter circolare, devono essere muniti di targa e del relativo certificato di circolazione che è il documento contenente tutti i dati necessari all’identificazione del mezzo e del proprietario. Documento che deve essere, necessariamente, rilasciato dalla Motorizzazione Civile o dalle agenzie pratiche auto abilitate “Centro Servizi Motorizzazione”. La targa, invece, che è personale e serve a identificare il proprietario è costituita da 6 caratteri alfanumerici di colore nero su sfondo bianco. Per il codice della strada tutti i ciclomotori, con cilindrata massima fini a 50cc o fino a 4 kW (se a motore elettrico) devono possedere una targa associata a un certificato di circolazione, è legata a una sola persona fisica e giuridica e non può essere MAI ceduta a terzi. E la targa, in caso di cessione, furto o rottamazione del ciclomotore, deve sempre seguire il proprietario e potrà essere associata a un nuovo mezzo e registrata nel nuovo certificato di circolazione. Come dire targa e proprietario non
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possono essere separati. E nel caso il proprietario possegga più ciclomotori dovrà richiederne una per ciascuno di essi che sarà associata ai rispettivi documenti di circolazione. Per giusta informazione è da aggiungere che i ciclomotori 50cc possono essere guidati da conducenti minorenni, già dall’età di 14 anni. In caso di passaggio di proprietà di un ciclomotore usato è necessario rivolgersi all’ufficio locale della Motorizzazione Civile oppure a un centro specializzato o a un’agenzia di pratiche auto che saranno in grado di fornire le giuste informazioni, anche sulla necessaria documentazione da presentare. Nello specifico: Il venditore deve comunicare la sospensione dalla circolazione del ciclomotore per passaggio di proprietà e richiedere il relativo certificato. Chi acquista, invece, deve richiedere una nuova targa o utilizzarne una di sua proprietà, purché non sia già associata a un altro ciclomotore.
Se la richiesta di sospensione della targa è fatta in contemporanea all’intestazione a una nuova persona del ciclomotore non è previsto il pagamento di diritti e bolli alla motorizzazione, mentre se la richiesta di sospensione non è propedeutica a nessuna operazione l’utente sarà costretto a pagare diritti e bolli al Ministero dei Trasporti. Per quanto riguarda invece il bollo, ovvero la tassa di circolazione dei ciclomotori con cilindrata fino a 50cc, che è diversa dalla tassa automobilistica e per i motocicli, è previsto il pagamento di una tassa forfettaria annua (dal 1° gennaio al 31 dicembre) ma solo se il veicolo è utilizzato su strada pubblica. Se invece il mezzo non si utilizza mai o se si usa su strade private, non è dovuta nessuna tassa. E anche se il pagamento avviene successivamente non sono applicate sanzioni amministrativa a condizione che il pagamento venga effettuato prima della messa in circolazione del mezzo. La validità del bollo resta sempre con scadenza il 31 dicembre a prescindere da quando si è fatto il pagamento.
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