Introduzione
Giovanni Silvano
Assistenza e clinica nell’ospedale S. Francesco a Padova (secoli XVII-XIX)
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Prima edizione: novembre 2012 Ristampa: luglio 2013
ISBN 978 88 6129 972 6
© 2012 by CLEUP sc “Coop. Libraria Editrice Università di Padova” via G. Belzoni 118/3 – Padova (t. 049 8753496) www.cleup.it www.facebook.com/cleup Tutti i diritti di traduzione, riproduzione e adattamento, totale o parziale, con qualsiasi mezzo (comprese le copie fotostatiche e i microfilm) sono riservati. Impaginazione e grafica di copertina: Patrizia Cecilian. In copertina: Pablo Picasso, Scienza e carità (1897), Museo Picasso, Barcellona.
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Introduzione
Indice
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Dal S. Francesco al nuovo nosocomio I poveri e l’ospedale La professione medica La finanza del S. Francesco, l’ospedale vecchio della città e dello Studio L’ospedale, il suo patrimonio e le imposte L’ospedale, lo Studio e l’edificazione del nuovo nosocomio
L’ospedale nuovo dal Regno italico al Lombardo-Veneto La salute pubblica, l’ospedale nuovo e la Congregazione di carità La Deputazione comunale di sanità, l’ospedale e il suo funzionamento Ospedale e cliniche: i primi accordi Suore, preti e legati pii a servizio dell’ospedale Il vaiolo
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Verso la grande riforma: l’ospedale istituto pubblico di assistenza
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Il profilo pubblico dell’ospedale Ospedale e cliniche a Padova di fronte alla riforma Un bilancio dell’ospedale prima della riforma Un bilancio dell’ospedale dopo la riforma L’ospedale e la Grande Guerra L’ospedale e i suoi fornitori L’ospedale e i suoi pazienti Ospedale e cliniche dopo la riforma Epilogo
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Appendice A Appendice B
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Indice dei nomi
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Le forme dell’assistenza furono davvero molte lungo tutta l’età moderna a Padova, nello stato veneto e negli antichi stati italiani. Pur mantenendosi differenze anche significative, una risposta alle esigenze delle moltitudini di bisognosi non si fece mai attendere. Soprattutto nelle città furono organizzate da gruppi di laici e di ecclesiastici, talvolta pure tra loro affiliati, associazioni che ci si attendeva avrebbero dato una risposta meno improvvisata e più duratura nel tempo ai bisogni della popolazione1. Tra gli enti sorti per la cura dei bisognosi, gli ospedali giocarono un ruolo essenziale nel tardo medioevo e in età moderna, quando erano ancora un luogo di ricovero piuttosto indifferenziato, pronti ad accogliere chiunque avesse bisogno di assistenza, non necessariamente dipendente da uno stato morboso2. Tradizione e innovazione hanno caratterizzato la vicenda del maggiore ospedale padovano, il San Francesco e, in seguito, dalla fine del Settecento, il Nuovo Ospitale degli infermi, noto come Giustinianeo, dalla fondazione a oggi3. Se la sua 1 Nelle campagne operavano associazioni legate alle chiese locali e soprattutto a insediamenti monastici che furono in molte occasioni vere e proprie agenzie di sviluppo locale, come ha mostrato Giovanni Silvano, Il patrimonio dell’abbazia padovana di S. Maria di Praglia in età moderna (secoli XVIXIX), Palermo, Associazione no profit “Mediterranea”, 2012. 2 La più recente ricerca sul tema si deve ai contributi di Francesco Bianchi, Walter Panciera e Giovanni Silvano nel volume «Custode di mio fratello». Associazionismo e volontariato in Veneto dal medioevo a oggi, a cura di Francesco Bianchi, Introduzione di Giorgio Cracco, Venezia, Marsilio, 2010. 3 L’ospedale nuovo, appunto quello edificato a fine ’700, conosciuto come ospedale giustinianeo, nei documenti continuò a essere chiamato S. Francesco. Sulla questione ospedaliera a proiezione regionale è importante il contributo di Gian Maria Varanini, Per la storia delle istituzioni ospedalie-
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mission è rimasta fondamentalmente nei secoli la stessa, almeno da quando esso è esclusivamente luogo di cura, è tuttavia molto mutata, nel corso delle tante epoche storiche, la situazione culturale, economica e istituzionale di riferimento. Sorto in età medievale, ha attraversato poco meno di un millennio, fino a essere oggi una realtà al tempo stesso diversa e simile a quella delle origini. Allora, come oggi, l’importanza sociale di questa istituzione è legata o al recupero della salute o al sollievo dalla sofferenza, sia somatica sia psichica. Inoltre il S. Francesco fu anche qualcosa d’altro: un ospedale, in ciò simile a moltissimi altri, ma toccato dalla presenza in città dello Studio generale, che aveva annoverato, tra i suoi maestri più insigni, medici e scienziati di fama internazionale4. Anche se non è agevole prere nelle città della Terraferma veneta nel Quattrocento, in Ospedali e città. L’Italia del Centro-Nord, XIII-XVI secolo, a cura di Allen J. Grieco e Lucia Sandri, Firenze, Le Lettere, 1997 (Atti del convegno internazionale di studio, Firenze, 27-28 aprile 1995), pp. 107-155. In particolare le vicende che hanno portato alla fondazione a Padova dell’ospedale di S. Francesco sono state oggetto di accurate ricerche di Silvana Collodo, Religiosità e assistenza: l’ospedale e il convento di San Francesco dell’Osservanza, in Una società in trasformazione. Padova tra XI e XV secolo, Padova, Antenore, 1990, pp. 473-538; Claudio Bellinati, Ospitale Sancti Francisci. Contributo alla storia della carità e dell’assistenza religiosa nell’ospedale di San Francesco a Padova (XV-XVIII secolo), in Il complesso di San Francesco Grande in Padova. Storia e arte, Padova, Signum, 1983, pp. 13-24 e Francesca Fantini D’Onofrio, Le origini dell’ospedale di San Francesco di Padova, «Padova e il suo territorio», 109, 2004, pp. 13-17. Su questa vicenda ancora F. Bianchi, Il governo della carità. L’ospedale di San Francesco e il patriziato di Padova nel XV secolo, in Sanità, amministrazione e cura. La ricerca della salute a Padova tra pubblico e privato (sec. XVXX), a cura di Claudio Maddalena, Maurizio Rippa Bonati, G. Silvano, Milano, FrancoAngeli, 2013, pp. 11-43. Sull’ospedale nuovo, nello stesso volume, è da considerare M. Rippa Bonati, Carità privata e pubbliche virtù. Aspetti economici della realizzazione dell’ospedale «Giustinianeo», pp. 283-312. 4 Tra questi devono essere ricordati almeno Pietro d’Abano, Realdo Colombo, Girolamo Fabrici d’Acquapendente, Giovanni Battista da Monte, Gabriele Falloppio, Girolamo Fracastoro, Girolamo Mercuriale, Andrea Vesalio, Prospero Alpini, Galileo Galilei, Santorio Santorio, Johann Wiesling, Johann Georg Wirsung, Leopoldo Marco Antonio Caldani, Andrea Comparetti, Giovanni Battista Morgagni, Bernardino Ramazzini, Antonio Vallisneri, Edoardo Bassini, Achille Breda, Valeriano Luigi Brera, Achille De Giovanni, Francesco Luigi Fanzago, Pietro Gradenigo, Filippo Lussa-
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cisare i rapporti tra il luogo pio e lo Studio, tuttavia è del tutto ragionevole pensare che una qualche relazione dovette pur esserci anche prima dell’intervento veneziano che istituì, nella seconda metà del Settecento, gli insegnamenti di clinica medica e di clinica chirurgica5. I professori dello Studio, nella loro attività scientifica e assistenziale, erano verosimilmente entrati in contatto con l’ambiente propriamente ospedaliero di Padova, anche prima che il rapporto tra ospedale e Studio si formalizzasse in accordi stipulati tra le parti, già verso la fine del Settecento6. L’ospedale di Padova e le cliniche universitarie hanno sempre cercato di rispondere alle necessità assistenziali della cittadinanza, offrendo una cura figlia di un sapere medico e scientifico frutto di esperienza e, soprattutto, di ricerca clinica e di base. L’avventura quasi millenaria dell’ente imboccò un cammino nuovo proprio quando iniziò a stipulare accordi di stretta cooperazione con le cliniche, dilatando enormemente le proprie competenze e gli interessi d’origine. Questa storia, economica e istituzionale anzitutto, lambisce spazi di ricerca quali l’evoluzione dell’arte medica e dell’assistenza nosocomiale, il miglioramento delle pratiche di gestione, di bilancio e di controllo, l’imporsi di un modello di assistenza sanitaria che considera la salute un diritto della cittadinanza. È un passato di sofferenze, di relazioni umane profonde, di delusioni e succesna, Francesco Marzolo, Vincenzo Pinali, Bartolomeo Signorini, Arrigo Tamassia. Un primo importante orientamento sul significato della presenza di tali personalità a Padova e nella storia del sapere medico più in generale si deve a Giuseppe Ongaro, Medicina, Farmacia, Veterinaria, in L’Università di Padova. Otto secoli di storia, a cura di Piero Del Negro, Padova, Signum Padova Editrice, 2001, pp. 241-249. 5 Gaetano Thiene, La medicina patavina nel Giustinianeo, in Nicolò Antonio Giustiniani vescovo di Padova nel terzo centenario dalla nascita (17122012), Padova, Grafica Veneta, 2012, pp. 175-198. 6 G. Ongaro, La riforma della didattica clinica e dell’assistenza ospedaliera a Padova tra Settecento e Ottocento, in Sanità, amministrazione e cura, pp. 235-281. Inoltre sulla nascita della clinica a Padova si sofferma C. Maddalena, Dal S. Francesco all’ospitale civile: trasformazioni e continuità tra XVI e XIX secolo, in Sanità, amministrazione e cura, pp. 45-126.
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si terapeutici e di scoperte scientifiche, nonché di conflitti tra poteri e competenze7. Ma cos’era l’ospedale del passato? Ente pubblico o privato? Oppure realtà privata sottoposta a controlli pubblici o, ancora, istituzione laica o religiosa? Sono questioni di grande rilievo dalla cui definizione dipende il significato di questa storia. Pubblico e privato in età moderna evocavano realtà e confini assai più mobili di quelli che si vennero definendo in modo particolare durante e dopo il processo d’industrializzazione del Paese. Se, da una parte, la titolarità di un potere o di una giurisdizione avevano da sempre identificato l’esercizio di una funzione pubblica, perché avallata da un potere posto a monte, non importando la natura o laica o religiosa, riconosciuto come superiore, diverso, da quello esercitato a valle, dall’altra, la natura di enti che non potevano vantare lo stesso grado di dipendenza da un altro potere, fu sempre di difficile definizione. Essi, come gli ospedali, tuttavia, espressero sempre una forte valenza pubblica, in quanto trovarono la propria ragione sociale nell’essere sorti per soddisfare bisogni diffusi, appunto, pubblici. Le opere pie o i luoghi pii erano intesi come istituzioni pubbliche o private? Considerando gli atti di fondazione, per la maggior parte voluti da privati, si sarebbe dovuto trattare, appunto, di enti privati, ma tenendone presente la mission, allora, la loro natura assunse senza dubbio caratteri pubblici. Nella storia, per limitare l’analisi agli enti ospedalieri, molti tra questi erano stati il frutto di precisi interventi di privati cittadini, anche se non pochi ospedali furono fondati dal potere pubblico o da quello religioso, oppure da entrambi. Spesso il potere pubblico si limitava a controllare la gestione di enti privati che fornivano servizi pubblici. L’ospedale, insomma, il più delle volte, era nato da una volontà privata, che assunse immediatamente carattere pubblico poiché erogava servizi pubblici, fi7
Delinea assai efficacemente il profilo dell’ente ospedaliero Giorgio Cosmacini, Storia della medicina e della sanità in Italia. Dalla peste europea alla guerra mondiale 1348-1918, Roma-Bari, Laterza, 1995, pp. 293-310.
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nanziati da patrimoni privati e non attraverso il ricorso al prelievo fiscale. Privati furono assai di sovente gli atti di fondazione e i patrimoni posti alla base dell’impresa, ma pubblici furono funzione e servizi. E a complicare ulteriormente il quadro sta pure la difficoltà di tracciare una linea precisa di confine tra l’esercizio del potere civile e quello religioso sugli ospedali. Questi furono in molte occasioni in competizione o, addirittura, in conflitto tra loro, non solo nel momento della fondazione di una nuova istituzione, ma pure nella gestione degli enti già attivi. L’ospedale fu per secoli un luogo pio o un’opera pia e, come tale, sottoposto alla vigilanza e all’autorità religiose; solo alla fine dell’età moderna esso iniziò ad attirare l’interesse del potere politico che faticò non poco ad assumerne il controllo. Entro questi spazi si snodarono la vicende del S. Francesco e dell’ospedale nuovo: un caso paradigmatico di una storia che portò l’ente dalla dimensione privata a quella pubblica, grazie soprattutto, alla fine del tragitto, all’opera riformatrice di Francesco Crispi.
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I poveri e l’ospedale L’ospedale di Padova, come ogni altra simile struttura, era un’opera pia o un luogo pio e, come tale, sottoposto alla normativa veneziana in materia. All’interno di esso i poveri, certi poveri, potevano trovare rifugio; della sua organizzazione se ne erano occupati il vescovo o suoi incaricati fino a quando il concilio di Vienne ne trasferì l’amministrazione ai laici. Al servizio dei più poveri, era spesso in difficoltà finanziare, tanto da indurre a scrivere in uno stato ben governato non vi devono essere poveri, se non quelli che nascono nell’indigenza o che vi cadono per accidente. Non si devono mettere nel numero dei poveri quei giovani oziosi e robusti, che trovando nella carità mal intesa soccorsi più facili e più grandi di quelli che si procurarebbero colla loro fatica, riempiono le strade, le chiese, le città, le campagne. Il rendere la condizione dei mendichi per professione eguale a quella dei veri poveri è lo stesso che dimenticarsi esservi terre incolte da ridurre1.
A Venezia l’istituzione di ospedali era stata regolata da magistrature particolari, attente soprattutto a monitorare l’uso delle commissarie che furono disposte o per fondare un nuovo ospedale, o per dotarne uno già esistente o semplicemente per sostenerne le spese d’esercizio. Nel 1724 nella città lagunare operavano 33 ospedali, tutti destinati all’accoglienza dei poveri, moltissime case concesse agli indigenti, l’ospedale della pietà per i bambini abbandonati, dei mendicanti per i poveri affet1 Marco Ferro, Dizionario del diritto comune e veneto che contiene le leggi civili, canoniche e criminali, VIII, Venezia, Modesto Fenzo, 1780, p. 48.
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ti dalla lebbra, degli incurabili aperto a uomini e donne e dei derelitti per raccogliere affamati e infermi. C’era poi l’ospedale del soccorso per le donne che avevano condotto una vita discutibile2. A Padova a metà ’600 erano attivi 19 ospedali e 15 nel territorio3. Gli ospedali possono essere considerati, almeno fino al XIX secolo, prevalentemente impegnati nell’accoglienza e cura dei poveri; erano stati istituiti per contrastare le paure che i poveri suscitavano tra la popolazione e il loro ruolo risentì dei dibattiti che la povertà non cessò mai di provocare nella disputa politica e nell’elaborazione culturale dell’età moderna4. Di poveri, 2
Con ciò non si esauriva la casistica: l’ospedale dei catecumeni per accompagnare ebrei e infedeli alla conversione, delle zitelle per aiutare le fanciulle a mantenersi estranee a comportamenti riprovevoli e delle penitenti per le donne dal passato non proprio esemplare. «Tutti li nominati luoghi, benché siano governati da laiche interne congregazioni, sono però, ad eccezione di alcuni di giuspatronato di Dogi, resi dipendenti nella sovraintendenza in ragione di principato della magistratura sopra gli ospitali» (M. Ferro, Dizionario, p. 53). 3 Fondamentale su questo tema rimane il saggio di Sante Bortolami, «Locus magne misericordie». Pellegrinaggi e ospitalità nel Veneto medioevale, in I percorsi della fede e l’esperienza della carità nel Veneto medioevale, a cura di Antonio Rigon, Padova, Il Poligrafo, 2002, pp. 81-131. Lo studio analizza la relazione intercorrente tra le principali mete dei pellegrinaggi medievali e il sorgere di ospedali lungo queste vie. Osserva inoltre che una rete ospedaliera capillare coprì pure territori marginali a tale fenomeno, mettendo in luce una serie di motivi diversi alla base di progetti di edificazione di istituti ospedalieri. 4 Ancora nel 1805 l’ospedale era considerato luogo di accoglienza di malati poveri, se non di meramente poveri. Ci sono molte richieste rivolte al nosocomio da parte di bisognosi di tutto. Da Venezia il primo settembre 1805 si scrisse un biglietto indirizzato alla nobile e magnifica presidenza del sacro ospitale di Padova alla quale: «ricorre l’infelice [...] che trovasi ridotto a una estrema miseria, per cui non ha modi di potersi medicare dal funesto malore da cui è compreso di un morbo gallico dolorosissimo. La ben nota pietà di questi nobili presidenti dà coraggio al supplicante di rivolgersi ad essi, per impetrare il benigno rescritto a questa umile supplica, che tanto più è costretto a porgerla ed avanzarla a codesto pio luogo quanto che non ha potuto reggere alla cura che tentò avere per alcun tempo in questo pio luogo degli incurabili della sua patria, dove fu quasi abbandonato. Grazie», Archivio di Stato di Padova (ASPd), Ospedale S. Francesco, b. 1057.
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in verità, si era parlato anche in epoca medievale e si continuò a farlo anche quando l’ospedale divenne esclusivamente luogo di cura, dopo l’età napoleonica. Il confronto politico e culturale sui poveri si era acceso particolarmente già in epoca tardo medievale, evidenziandosi la necessità, se non addirittura la convenienza, di organizzare una qualche forma di risposta pubblica alla minaccia che i poveri costituivano per il resto della popolazione. Se non si giunse certo a istituire un vero e proprio sistema pubblico di contrasto della povertà, ma meglio sarebbe dire dei poveri, si pervenne tuttavia all’istituzione di un’ampia varietà di istituzioni e organizzazioni che nell’insieme offrivano una risposta ai bisogni dei poveri o alle paure dei ricchi. La storia dei poveri e delle reazioni al loro status percorse tutti i secoli della storia europea dal medioevo all’età contemporanea, mettendo in evidenza profili comuni e peculiarità molto marcate, soprattutto nella predisposizione delle misure di riduzione e contrasto della povertà stessa5. Sia per la virulenza del fenomeno sia per la volontà di trovarvi un rimedio, il fenomeno sociale della povertà nel ’500 diede origine a un riflessione e alla sperimentazione di rimedi, che rimasero un punto di riferimento obbligato per le politiche sociali che nel corso dei secoli vennero poste in essere in tutta Europa a partire proprio dall’inizio dell’età moderna. Guerre, epidemie e carestie avevano percorso l’Europa senza risparmiare 5 Ampie e approfondite ricerche sono state condotte anche molto recentemente sul tema dei poveri. I pregevoli saggi raccolti nel volume Povertà e innovazioni istituzionali in Italia. Dal Medioevo ad oggi, a cura di Vera Zamagni, Bologna, il Mulino, 2000 sono centrati sul tema. Una sintesi storica, basata anche su nuove ricerche, focalizzata su un’area geografica corrispondente, anche se non totalmente, con lo stato veneto, della storia dell’associazionismo laico e religioso a carattere sociale e perciò orientato a contrastare le diverse forme di povertà che si sono succedute nei secoli, è stata compiuta da F. Bianchi, L’associazionismo nel medioevo, da W. Panciera, Carità, ospedali e confraternite in età moderna e da G. Silvano, L’organizzazione della solidarietà in età contemporanea, in «Custode di mio fratello». La ricerca che ha segnato in profondità questo campo di analisi si deve a Bronislaw Geremek. Tra i suoi molti contributi si segnala La pietà e la forca. Storia della miseria e della carità in Europa, Roma-Bari, Laterza, 1986.
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quasi alcun territorio e il problema di masse sempre più minacciose di poveri ai margini delle città costituiva un’emergenza, che sembrò non venire mai meno. Molte città, interpreti di direttive più o meno aderenti alla volontà delle autorità superiori, sperimentarono diverse soluzioni, tra le quali la più efficace, si rivelò essere la costruzione di case di lavoro coatto dove trattenere vagabondi e poveri idonei al lavoro. Venezia fu tra i primi centri in Europa a sperimentare questa misura di contenimento della povertà. Non si trattò di arricchire i poveri con il lavoro, ma di tenere il povero lontano dai luoghi della vita civile. L’impiego coatto poteva realizzarsi anche in contesti diversi da una casa lavoro, come accadde spessissimo presso l’Arsenale o le galere della Serenissima6. Il 2 aprile 1529 era stata presa una parte in senato «riguardante ai poveri questuanti, il modo per aiutarli e provederli con saggio regolamento»7. Dopo avere fatto un richiamo alla carità che sempre doveva essere usata nei confronti dei bisognosi, il documento elencava alcune misure specifiche che dovevano essere adottate per il decoro e la sicurezza della città. Quando mendicanti stranieri fossero stati trovati a girovagare a Venezia o in altre città, questi dovevano essere mandati nei loro luoghi di provenienza, muniti di lettera commendatizia per i rettori del territorio di destinazione, affinché trovassero loro una più accettabile sistemazione8. I poveri, 6 G. Silvano, Origini e sviluppi del Terzo settore italiano, in Società e Terzo settore. La via italiana, a cura di G. Silvano, Bologna, il Mulino, 2011, pp. 13-34. In queste pagine si discute anche l’importanza fondamentale del trattato De subventione pauperum pubblicato nel 1526 e scritto dall’umanista spagnolo Ludovico Vives. La ricetta stava tutta nell’affidare poveri e vagabondi all’autorità civile che doveva assicurare loro un’occupazione all’interno di strutture appositamente allestite. Solo i cosiddetti poveri meritevoli potevano essere accolti e aiutati dalla comunità civile. L’autore faceva inoltre preciso riferimento ai patrimoni degli ospedali per trovare le risorse necessarie alla custodia dei poveri non meritevoli. 7 ASPd, Ufficio di sanità, b. 186, c. 1. Si tratta di una raccolta di provvedimenti in tema di povertà e marginalità adottati da Venezia dagli inizi del ’500 fino al 3 maggio 1792. 8 ASPd, Ufficio di sanità, b. 186, cc. 3-4. Il testo usa il termine «fabrica» per indicare il luogo di ricovero del vagabondo.
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invece, provenienti dalle campagne del dominio, infermi o impossibilitati ad acquistare il vitto «debbano esser posti et distribuiti per li hospedali» o presso proprie abitazioni; questi poveri «impotenti», con a disposizione un’abitazione, dovevano essere segnalati ai loro parroci per essere aiutati. Quelli invece privi di domicilio e maldisposti verso il lavoro si trovavano obbligati a imbarcarsi nelle galere veneziane. Quanto ai poveri che si trovavano nella città di Venezia, qualora il loro numero si fosse rivelato molto elevato, bisognava impedire loro di questuare «non sia concessa licentia andar mendicando» e imporre l’obbligo a scuole e mestieri di accoglierli per avviarli al lavoro9. Nei confronti delle donne e dei loro bambini poveri doveva essere usata ogni possibile attenzione, soprattutto quando queste donne non erano in grado di lavorare proprio per la presenza della prole. A loro spettava quanto ogni contrada poteva donare, in generi e in numerario. Un richiamo venne fatto ai monasteri, alle scuole e agli ospedali, per aiutare i bisognosi, distribuendo ai Provveditori le elemosine disponibili. Si stabilì di concedere ai predicatori durante i periodi di festa religiosa di richiamare nei loro sermoni la questione dei poveri e di sollecitare i parrocchiani a essere generosi. Inoltre, ogni mese il parroco e i Provveditori dovevano ritrovarsi per valutare i risultati dell’applicazione delle misure adottate, cercando di mantenere vivo l’interesse per i poveri: «debbino ogni festa nelle chiese loro parlar di tal poveri et scaldar li petti delli abitanti nelle contrade a sovvenirli et farli elemosine»10. In ogni contrada si stabilì di sistemare una cassetta per la raccolta di elemosine, che dovevano tassativamente servire al sostentamento dei poveri e in ogni chiesa, pena il pagamento di una multa di dieci ducati, in occasione di ogni festa, correva l’obbligo di commentare 9 10
ASPd, Ufficio di sanità, b. 186, c. 5. ASPd, Ufficio di sanità, b. 186, c. 7. Altre incombenze pesavano sui
parroci che dovevano sempre tenere desta l’attenzione ai poveri e spingere gli abili al lavoro a trovarlo, allontanando per sempre dalla comunità quelli che, pur abili, avessero preferito non trovare occupazione alcuna. Questo è quanto prescrive il tredicesimo punto della parte: la distinzione tra poveri meritevoli e poveri immeritevoli qui è diventata palese.
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il Vangelo facendo un qualche riferimento all’istituzione della cassetta per i poveri. Su tutto ciò i Provveditori alla sanità esercitavano lo stesso potere «che hanno in le cose del morbo, acciocché accadendo di giorno in giorno nova provvisione, possino proveder a quanto sarà bisogno»11. Infine i deputati erano tenuti a controllare i bilanci delle scuole piccole e della Congregazione del Santissimo Corpo di Cristo per verificare la possibilità di assegnare ai poveri quote delle loro risorse. Il contrasto del vagabondaggio fu organizzato anche nelle città del dominio che, sulla scorta di quanto Venezia aveva dichiarato di voler fare, si affrettarono a emanare proclami volti a dissuadere i mendicanti a rimanere in città de ordine delli clarissimi signori rettori et magnifici signori provveditori alla sanità fanno intendere a tutti li furfanti et mendicanti forestieri così maschi como femmine che in termini di giorni quattro proximi futuri debbano partirsi fora di questa città sotto pena di esser frustati12.
Mendicare in prossimità delle chiese era stato proibito; solo i ciechi, gli orfani e chi era impegnato a raccogliere offerte a favore dei poveri poteva chiedere l’elemosina, oltre a chi avesse avuto dall’Ufficio di sanità un permesso scritto13. Il fatto stesso che molti proclami si siano susseguiti uno dopo l’altro, nel giro di alcuni anni, tra la fine del ’500 e i primi anni del secolo successivo, dimostra l’inefficacia di simili provvedimenti che, pur inasprendo le pene a carico o dei mendicanti medesimi o di chi in qualche modo li avesse aiutati, erano fondati tutti sull’idea che il povero forestiero dovesse essere allontanato dalla città. Per i poveri della città e del territorio la prospettiva poteva essere migliore, se il magistrato alla sanità avesse dichiara11
ASPd, Ufficio di sanità, b. 186, cc. 8-9. Si chiese ai monasteri femminili di accogliere le donzelle bisognose di «honesta vita» che gli stessi deputati dovevano individuare all’interno della contrada. 12 Proclama del 17 gennaio 1562 (ASPd, Ufficio di sanità, b. 186, c. 13). 13 Proclama del 19 gennaio 1569 (ASPd, Ufficio di sanità, b. 186, cc. 1718).
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to il loro stato di povertà che avrebbe dato loro la possibilità di alloggiare presso la casa dei poveri all’uopo edificata. In fondo rimase sempre ben forte la convinzione che solo il povero ritenuto meritevole dovesse essere aiutato. I provvedimenti di contrasto del vagabondaggio colpirono anche chi avesse dato loro ricovero e, nell’occasione, si cercò pure di regolamentare il lavoro di osti e locandieri obbligati a tenere registri di presenza degli ospiti. All’interno di simili deliberazioni, si arrivò a prevedere misure per l’igiene pubblica, come l’obbligo di tenere pulite le strade e di non buttar immondizie dalle finestre di casa, e provvedimenti contro ciarlatani dediti alla vendita di preparati dalla dubbia efficacia14. Poco più di un anno dopo, ancora Podestà e Provveditori emanarono l’ennesimo proclama riguardante i poveri. Il provvedimento si basava sul fatto che, esistendo a Padova una casa per i poveri mendicanti, tutti quelli che non vi potevano essere accolti, erano obbligati a lasciare la città. In particolare ogni povero, di qualsiasi condizione, che non fosse «terriero» o sottoposto alla città o in grado di procurarsi da vivere onestamente, era tenuto a lasciare Padova e a non farvi più ritorno. Tutti i poveri «terrieri» della città che per impotentia o per altro rispetto vanno mendicando alle porte o per le strade o chiese di questa città [...] in quanto non vogliono applicarsi a qualche arte debbano fra il termine suddetto di giorni tre haversi dati in nota nell’officio nostro15. 14 Costoro vendevano prodotti «per diversi mali che molte et molte volte partorisce contrario effetto come si ha veduto in quelli che gli adoperano [...] non ardisca qualsivoglia ciarlatano cantinbanco o altra simil sorte di persone vender publicamente o privatamente materie tali se non saranno prima state vedute da signori medici deputati dall’eccellentissimo Collegio degli Artisti et giudicato che haverano esser sufficienti et possino con una fede dall’officio della sanità dispensarle» (Proclama del 5 dicembre 1617 del podestà di Padova e dei Provveditori alla sanità. ASPd, Ufficio di sanità, b. 186, c. 42). Il tema è di grande interesse storiografico come ha mostrato G. Cosmacini, Ciarlataneria e medicina. Cure, maschere, ciarle, Milano, Raffaello Cortina Editore, 1998. 15 Il proclama è del 9 marzo 1618 (ASPd, Ufficio di sanità, b. 186, c. 57).
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Solo i ciechi, gli «impotenti» e i vecchi non in grado di entrare nella casa dei mendicanti potevano procurarsi il vitto mendicando, in virtù di una particolare licenza dei governatori della casa dei mendicanti, approvata pure dai Provveditori di sanità, che li autorizzava a chiedere elemosine non in chiesa, ma fuori, sulla porta16. L’emergenza poveri fu continua: il loro numero era costantemente in aumento, nonostante le misure che da quasi un secolo lo stato veneto aveva predisposto. Addirittura nel 1629 erano giunti dal Friuli a Padova poveri mendicanti ai quali fu imposta, preliminarmente, la registrazione presso l’Ufficio di sanità17. Molti anni dopo, il 2 maggio 1652, i Provveditori emanarono «ordeni necessari per la buona e compita esecutione de proclami in materia de mendicanti»18. I poveri che, a un approfondito esame della loro situazione, fossero stati dichiarati idonei a entrare nella casa dei mendicanti, muniti di un documento attestante tale decisione, dovevano recarsi presso il ricovero. Se, per un qualche motivo, non fossero stati accettati, essi dovevano tornare presso l’Ufficio di sanità che avrebbe rilasciato un permesso temporaneo per poter chiedere l’elemosina, mai in chiesa, ma fuori di essa. Solo ai ciechi si doveva rilasciare licenza di mendicare, trovandosi essi nell’impossibilità di procurarsi il necessario per vivere. Tale licenza era pure concessa a forestieri e «terrieri» che erano in ogni caso tenuti a lasciare la città entro 8 giorni dal provvedimento. Anche l’internamento in ospedali cittadini era limitato a soli 3 giorni. Gli istituti destinati a tale scopo erano il S. Giacomo, il S. Violino, S. Croce e il S. Antonio di Vienna19. 16
Al fine di essere ammesso in questa casa dei mendicanti di Padova, il povero doveva disporre di una sorte di certificazione attestante il suo stato (ASPd, Ufficio di sanità, b. 186, cc. 61-65). 17 ASPd, Ufficio di sanità, b. 186, cc. 99-100. Non ci sono altre precisazioni riguardanti questo affare. 18 ASPd, Ufficio di sanità, b. 186, cc. 101-102. 19 Erano tutti luoghi pii. Il primo era governato da un’arciconfraternita soppressa nel 1771; il secondo ospedale aveva 21 letti ed era affidato alla fraglia spirituale del Buon Gesù. Fu anche sede della scuola delle mammane, 12 donne formate per l’esercizio dell’ostetricia. L’ultimo era stato tenuto dai fra-
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Nel 1694 un altro proclama del Podestà e dei Provveditori cercò di porre rimedio all’impiego di fanciulli nella ricerca dell’elemosina e perché s’intende che alcuni huomeni e donne nolegino li loro fanciulli o fanciulle a tali cercanti, il che serve di maggior pretesto e fomento a tale dannata questuatione per ciò terminano che tal sorte di donne o huomeni ritrovati in trasgressione siano condannati in ducati dieci applicati al denontiante, che sarà tenuto secreto, e anco in berlina o frusta20.
A fine secolo era ormai assai chiara la consapevolezza che non molto poteva essere fatto per limitare il numero dei poveri; da una parte, si continuò a intimare a tutti i poveri forestieri di abbandonare la città e, dall’altra, si cercò di identificare al meglio i poveri degni della pubblica commiserazione, i ciechi, i decrepiti e i veri storpi, nati o vissuti in città per almeno un decennio, attraverso fascette di riconoscimento che dovevano essere poste sulla manica21. Nel 1707, in considerazione del gran numero di poveri esistente in Terraferma, si decretò che tutti i vagabondi, i mendicanti e i «pitocchi» dovessero abbandonare lo Stato senza farvi mai più ritorno. Solo chi aveva trascorso almeno 10 anni all’interno della Repubblica, esercitando un mestiere, poteva questuare, una volta ottenuto il permesso di farlo, esattati ospitalieri di S. Antonio di Vienna e in seguito dai canonici lateranensi che restaurarono l’ospedale nel 1570. Giuseppe Toffanin, Cento chiese padovane scomparse, Padova, Editoriale Programma, 1988, pp. 86-87, 186-187, 35-36. A S. Croce esisteva una chiesa con annesso ospedale dove in seguito si insediarono i padri somaschi. 20 ASPd, Ufficio di sanità, b. 186, c. 107. Lo stesso proclama proibiva, inoltre, come tutti i precedenti il vagabondaggio e ogni tipo di questua che poteva essere praticata solo da chi fosse stato autorizzato dall’Ufficio di sanità. Questo beneficio spettava ai ciechi e ai poveri vecchi storpi. 21 ASPd, Ufficio di sanità, b. 186, c. 118. Il proclama dei Provveditori era del 10 giugno 1699. In esso compare l’importanza della residenza del povero quale requisito per l’assistenza. Questo continuerà per secoli a essere un titolo essenziale per poter accedere a ogni servizio assistenziale. Diventò il domicilio di soccorso in età crispina.
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mente come era concesso ai nativi22. Nulla di nuovo nemmeno nel proclama di Giovanni Correr, vice podestà di Padova e dei Provveditori, compresi gli aggiunti, che l’11 febbraio 1713 si limitò a proporre le consuete misure contro la presenza di vagabondi in città: non erano tollerati né nativi né residenti, i quali sottraevano ai veri poveri le elemosine a essi destinate23. C’era inoltre grande preoccupazione per il continuo vagabondare di poveri che, passando di casa in casa, da boaria a boaria, da una comunità ad altra, potevano diffondere la «maligna influenza sopra la specie de’ bovi» usando essi stalle e fienili come ricovero. Lo stesso proclama venne emanato nuovamente 6 mesi dopo, il 24 luglio 1714, e ancora nell’anno seguente. In questi documenti il povero viene definito anche dal lemma «birbante o pitocco» per definire una figura particolare che era soprattutto un furfante. Chi non abbandonava la piazza, poteva essere condannato alla frusta, alla berlina, alla corda, al bando o alla galera. Potevano anche verificarsi situazioni incresciose che vedevano i poveri come protagonisti. Durante le diverse celebrazioni, la chiesa di S. Antonio era presa letteralmente d’assalto da vagabondi e poveri che arrecavano molto fastidio ai fedeli. Molti proclami vietarono le questue all’interno delle chiesa affinché «non resti punto divertita l’adoratione alle gloriose ceneri di sì gran taumaturgo»24. 22 23
ASPd, Ufficio di sanità, b. 186, c. 117. ASPd, Ufficio di sanità, b. 186, c. 123. Un anno dopo un proclama del
tutto simile uscì dall’Ufficio di sanità che usò parole molto efficaci per descrivere tale fenomeno: «La laida vita, che viene per il più artificiosamente usata dalla moltitudine dei cercantoni forestieri i quali si sono in questa città e territorio ridotti ad importunar, insopportabilmente mendicar e estorquer elemosine, può essere in causa di qualche pregiudizio alla universal salute che (lode a Dio) si gode». 24 Proclama di Nicolò Erizzo II, podestà e vice capitano di Padova del 16 febbraio 1730 (ASPd, Ufficio di sanità, b. 186, c. 142). Qualche giorno dopo lo stesso Erizzo II con i Provveditori emanò altro proclama che metteva in luce tra gli effetti negativi causati dalla presenza di vagabondi forestieri in città anche il fatto che essi costituivano un cattivo esempio anche per i sudditi. Si parlò di «viziosa imitazione oltre tutte le altre pessime conseguenze di sanità che si devono temere» (c. 144).
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Negli anni successivi proclami del medesimo tenore continuarono a essere emanati dai rettori della città. Un provvedimento, approvato anche dal senato il 19 agosto 1734, dei Sopra Provveditori e dei Provveditori alla sanità del 31 luglio, affrontò l’argomento in modo assai articolato, frutto di una matura cultura politica e sociale. Invece di usare le consuete formule di condanna del vagabondaggio, che da anni si ripetevano in ogni proclama, il punto di partenza fu l’individuazione del vero povero e del vero indigente, non bastando un abito cencioso per identificarlo, «non ascondendosi il Signore sotto tutti li cenci»25. Si trattava dunque di affidare la cura di trovare il vero povero a qualcuno che potesse farlo meglio di altri. Questi era senza dubbio il parroco di ogni contrada, in ciò coadiuvato dal cappellano e da chiunque altro avesse utili informazioni da dare. Si dovevano scegliere i poveri per disgrazia e non per volontà o scelta individuale, considerati professionisti dell’elemosina, truffatori e soprattutto peccatori, perché sottraevano il frutto della carità a chi ne aveva una giustificata necessità sotto mentite spoglie di mendici non venga da altre bande gente infingarda, vagabonda e sempre perniciosa a usurpare quel pane che non per altro dà la Divina Provvidenza a ricchi abbondante, se non acciò serva di nutrimento a poveri, quali fa nascere sempre tra loro.
Non è facile trovare un compendio di dottrina cristiana così efficace che avallò la decisione dei Provveditori a minacciare la pena di bando perpetuo nei confronti di tutti quelli che non fossero poveri sudditi meritevoli di aiuto. In un proclama del 7 gennaio 1746 dei Sopra Provveditori e Provveditori di sanità di Venezia, constatato un insopportabile numero di questuanti in città e nelle chiese, si ingiunse ai parroci delle contrade di preparare una lista dei poveri sudditi al fine di poter bandire tutti gli altri, che si riteneva fossero la 25
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maggior parte. L’ordine fu di redigere tre liste: nella prima andavano trascritti i poveri infermi, nella seconda i poveri vergognosi e nella terza i poveri questuanti. Solo ai veneziani poteva essere rilasciato dall’Ufficio di sanità, sulla base di una dichiarazione del parroco, un’autorizzazione a poter ricercare l’elemosina26. Il 9 febbraio 1754 un proclama prese in considerazione il caso degli ebrei poveri e forestieri. A costoro fu concesso di rimanere in città per non più di 3 giorni presso l’ospizio del ghetto, sempre dopo che fossero stati registrati presso l’Ufficio di sanità27. Il 5 maggio 1755 ancora una volta si ripropose un proclama valido a Venezia e nel dominio nel quale i poveri meritevoli furono definiti poveri naturali. Sempre e solo a questi era dovuto il permesso di questuare, affidando, come era sempre avvenuto, tutta la materia e soprattutto il monitoraggio dell’efficacia delle norme, all’Ufficio di sanità. Questa scelta si ispirò all’idea che il problema dei poveri era solo in parte delegabile a magistrature preposte al mantenimento dell’ordine pubblico. L’inosservanza dei proclami che avevano vietato il vagabondaggio dava luogo a problemi di sicurezza pubblica, quando invece il povero naturale o nativo e meritevole era in qualche maniera accettato nella società in cui viveva. Più che un problema di custodia, emergeva, in tutti questi atti dell’autorità civile veneziana e del dominio, la preoccupazione di assicurare ai veri poveri cura e assistenza, escludendo da tali benefici tutti quelli che non ne avevano titolo, in base a una solida cultura civile e religiosa. L’idea di fondo, largamente condivisa, era di privilegiare, tra i poveri, nativi e residenti e quanti avessero lavorato e guadagnato il tanto per vivere quando erano stati in grado di farlo, come se la licenza di questuare fosse quasi simile a una pensione: «così sarà abilitato ad ottenere il bollettone col S. Marco ogni benemerito soldato e marinaro che per detto tempo si fosse trattenuto in pubblico servizio, godendo dello stesso privilegio gli ebrei, turchi ed eretici venuti al grembo di Santa Ma26 27
ASPd, Ufficio di sanità, b. 186, c. 184. ASPd, Ufficio di sanità, b. 186, c. 206.
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dre Chiesa ed usciti da questa Casa dei catecumeni»28. Il medesimo privilegio toccava anche a chi poteva provare di avere svolto una professione in città o di essere stato iscritto presso un’arte. Insomma, il vero problema era, e sempre rimase, individuare i poveri meritevoli di aiuto, escludendo dal beneficio tutti quelli che non avevano titolo per pretenderlo. Le risorse, le elemosine, certo non sarebbero mai state sufficienti a sfamare tutta la indistinta folla dei poveri. La certificazione di povertà era anche necessaria per essere accolti in un ospedale. Il divieto più volte reiterato fatto a osti, locandieri o affitta camere comprendeva pure l’ospedale29. Il Provveditore Giovanni Paolo Baglioni, il 12 agosto 1784, emanò un proclama per regolamentare le questue, molto simile ai precedenti, con la sola aggiunta, tra i luoghi proibiti, delle botteghe di caffè30. Con sempre maggiore insistenza nella seconda metà del ’700, affiorò la consapevolezza che il povero forestiero potesse essere pericoloso affermando, senza mezzi termini, che per impedire li furti ed altri attentati contro la pubblica sicurezza, che vanno succedendo con inquietudine e scontento universale degli abitanti e forastieri, per opera di gente oziosa e vagabonda, resta risolutamente comandato, che in termine di ore 24, dopo la pubblicazione del presente proclama, debbano uscire da questa città e territorio tutte le persone oziose, sfaccendate e vagabonde, particolarmente estere che senza verun mestiere, senza rendite né alcun altro provento vanno girando per la città31.
Inoltre in più occasioni i poveri forestieri sottraevano ai poveri meritevoli il «bollettino», arrecando in tal modo un danno di grande proporzione all’intera comunità. Più volte l’Ufficio di sa28 ASPd, Ufficio di sanità, b. 186, c. 214. La medesima normativa, prima approvata per la città di Venezia, era estesa anche alle città di Terraferma (c. 218). 29 Per tutti vale il proclama di Andrea Memmo, Provveditore e dei Provveditori alla sanità del primo giugno 1775 (ASPd, Ufficio di sanità, b. 186, c. 226). 30 ASPd, Ufficio di sanità, b. 186, c.. 236. 31 Proclama del 5 settembre 1772 di Domenico Condulmer, podestà di Padova (ASPd, Ufficio di sanità, b. 186, c. 138).
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nità fu costretto a validare «bollettini» già emessi. Il problema, senza ombra di dubbio, c’era, ed era della massima importanza. Tanto che tra la metà del ’700 e la metà del secolo successivo si consolidò una riflessione in materia molto ricca, forse non particolarmente innovativa, ma di certo ben più consapevole della precedente sulla portata politica, sociale e morale del problema. In questo periodo non si dette luogo a particolari innovazioni istituzionali, ma più modestamente a nuove forme di coordinamento di quelle tradizionali32. Il dibattito sulla povertà e sui possibili rimedi coinvolse tutta Europa e si contarono migliaia di interventi sul tema33. Da questo momento anche il confronto tra Stato e Chiesa, tra responsabilità pubblica o privata, tra scelta politica o morale, si fece più acuto: non ci furono un vincitore e un vinto, come se lo Stato fosse divenuto quasi improvvisamente il titolare esclusivo di ogni pratica o politica di assistenza o d’istruzione; piuttosto le agenzie della felicità pubblica o del benessere sociale continuarono a ispirarsi a motivazioni sia religiose sia di etica sociale, affidandosi a privati o alla mano pubblica per la loro realizzazione. Nei casi più fortunati si esplorarono vie di collaborazione. L’assistenza domiciliare ai bisognosi coinvolse energie sia pubbliche sia private34. Nello 32 «In Continental Europe the institutional changes that appeared so radical in the years of Napoleonic domination and, in good part, been reabsorbed during the years of the Restoration; and even in England, the impact of the New Poor Law (1834) on the well established tradition of voluntary denominational philanthropy remains open to debate. A change in mentality leading to institutional innovations as profound as that of the sixteenth century, heralded by Juan Louis Vives’ De subventione pauperum (1526) was not to occur until long after Bismarck’s innovative social legislation in the 1880s, which is conventionally considered as marking the origins of the welfare state», John Stuart Woolf, The «transformation» of charity in Italy, 18th and 19th centuries, in Povertà e innovazioni, p. 421. 33 Giovanni Gozzini, Il segreto dell’elemosina. Poveri e carità legale a Firenze 1800-1870, Firenze, Leo S. Olschki, 1993. 34 Già nella Repubblica di Venezia era stato avviato un programma assai interessante di assistenza ai bisognosi presso le proprie abitazioni attraverso una sinergia tra organizzazioni private e magistrature cittadine, come ha mostrato Andrea Vianello, Assistenza a domicilio a Venezia nel XVIII secolo. L’uso del denaro da parte delle fraterne dei poveri, in L’uso del denaro. Pa-
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stato veneto, come pure negli altri della Penisola, escludendo lo stato pontificio, forme di aiuto a domicilio incontrarono minore fortuna di quelle offerte a livello istituzionale; proprio in età napoleonica tale profilo delle pratiche assistenziali venne ulteriormente potenziato. In questo momento di passaggio, guadagnò molto terreno anche la convinzione che il compito di coordinare le organizzazioni dell’assistenza dovesse essere pubblico. Depositi di mendicità si diffusero nelle città europee; non tutte funzionarono e da quando in Inghilterra la New Poor Law del 1834 ebbe il mal celato proposito di spingere tutti gli abili al lavoro a cercare un impiego nel mercato, piuttosto che nelle workhouses, sostenute da risorse provenienti da una specifica imposta sulla proprietà, qualcosa cambiò anche nella Penisola.
La professione medica Anche in Italia il dibattito tra i sostenitori di un sistema basato sulla carità legale o sulla pubblica beneficenza si concentrò principalmente sulla scelta tra un sistema pubblico, tenuto in piedi da denaro pubblico, e un’organizzazione della beneficenza che continuava a gestire risorse private a fini pubblici. Il punto di passaggio stava tutto nel riuscire a concepire la possibilità che un servizio pubblico potesse essere frutto di risorse private e, soprattutto, di un’iniziativa privata. Questo passaggio fu molto evidente proprio in ambito ospedaliero: spesso fondazioni private, come quella di Padova, guadagnarono posizioni nella sfera pubblica, anche a causa dell’epidemie di colera che avevano colpito la Penisola nei primi decenni del XIX secolo35. Fu in questo preciso contesto che la professione trimoni e amministrazione nei luoghi pii e negli enti ecclesiastici in Italia (secoli XV-XVII), a cura di Alessandro Pastore e Marina Garbellotti, Bologna, il Mulino, 2001, pp. 231-261. Su simile tematiche si è soffermata Angela Groppi, Il welfare prima del welfare. Assistenza alla vecchiaia e solidarietà tra le generazioni a Roma in età moderna, Roma, Viella, 2010. 35 Paolo Preto, Epidemia, paura e politica nell’Italia moderna, Roma-Bari, Laterza, 1988.
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del medico assunse uno spiccato carattere pubblico, in quanto promotore di progresso scientifico e responsabile dell’igiene pubblica36. Il processo di definizione della professione medica fu particolarmente lungo e tortuoso: in età veneziana si cercò sempre di esercitare uno stretto controllo sull’esercizio della professione di medico e di chirurgo. I Deputati e aggiunti alla provision del denaro in Venezia avevano chiesto il 9 agosto 1743 una «catasticazione» dei medici e chirurghi che esercitavano la professione a Padova, avvalendosi, operativamente, dei Provveditori di sanità, a loro volta comandati a ciò dal podestà della città. L’intento dei magistrati veneziani era di natura fiscale: si intendeva sottoporre a tassazione anche l’esercizio delle arti liberali e per questo motivo tutti, avvocati, notai, ingegneri, medici e chirurghi furono suddivisi in tre classi secondo i diversi oggetti che essi trattavano nelle loro professioni37. L’Ufficio lavorò su dati forniti dai parroci che elencarono medici e chirurghi residenti all’interno della loro parrocchia. L’operazione aveva lo scopo di classificare gli impegni professionali dei professionisti padovani e pure l’ambizione di fissare un ruolo, un albo, di medici e chirurghi che fossero stati in qualche modo abilitati alla professione e fossero, pertanto, iscritti nella matricola del Sacro Collegio dei medici e filosofi. Nemmeno il cancelliere conosceva l’identità di tutti i medici entrati in Collegio, ma con il tempo si impegnò a stamparne la lista, comprendente anche i pubblici professori dello Studio che esercitavano la professione di medico pratico affermando che
36 L’ospedale abbandonò per sempre la tradizionale fisionomia di luogo di ricovero dei poveri spesso ammalati, in termini ottocenteschi un deposito di mendicità, per assumere la veste tutta nuova di luogo di cura, come hanno mostrato G. Cosmacini, Medicina, ideologie, filosofie nel pensiero dei clinici tra Ottocento e Novecento, in Storia d’Italia. Annali 4. Intellettuali e potere, a cura di Corrado Vivanti, Torino, Einaudi, 1981 e Claudio Pogliano, L’utopia igienista (1870-1920), in Storia d’Italia. Annali 7. Malattia e medicina, a cura di Franco Della Peruta, Torino, Einaudi, 1984. 37 ASPd, Ufficio di sanità, b. 141, cc. 677-682.
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nel rolo che presenterò saranno descritti anche li pubblici professori di questo Studio quali furono dalla maestà del prencipe abilitati a poter entrare nel Sacro Collegio, stante che non tutti li professori dello Studio vengono nel Sacro Collegio, ma solamente quelli che con ducali del serenissimo prencipe sono al medesimo abilitati. Io non so poi dire se tutti li professori di questo Studio ch’entrano nel Sacro Collegio s’esercitino come medici pratici anzi so che molti d’essi punto non s’esercitano in ditta professione di medicina38.
La situazione era dunque piuttosto confusa ma, in ogni caso, il cancelliere dell’Ufficio di sanità riuscì a costruire un ruolo di medici e di chirurghi comprendente sia chi era stato ammesso al Collegio sia chi ne era fuori. Alcuni medici furono identificati come ebrei e si indicò pure chi era professore presso lo Studio39. Il fatto che le magistrature sia veneziane sia padovane si siano non preoccupate troppo di sapere con assoluta precisione chi tra i professori dello Studio esercitasse o meno la professione e fosse o non fosse membro del Collegio evidenzia che tra lo Studio, l’ospedale e la professione non esisteva ancora un rapporto di formale collaborazione, sebbene sia del tutto verosimile che i professori di materie mediche, specialmente cliniche, abbiano esercitato anche in ospedale e con ogni probabilità pure con finalità didattiche. Tutto un universo si andava velocemente sviluppando, lasciandosi alle spalle un vecchio ospedale e un vecchio Studio; ormai la necessità di una relazione assai più stretta tra le due istituzioni della città era sotto gli occhi di tutti. La modernità fu anche questo: l’esplorazione di nuove forme di collaborazione tra enti e persone. Guardando così alla situazione sociale nello stato veneto, l’offerta assistenziale veneziana e la platea dei poveri che a essa faceva tradizionalmente riferimento, trovarono riscontro anche nelle città del dominio. L’ospedale inteso genericamen38 39
ASPd, Ufficio di sanità, b. 141, cc. 763-764. ASPd, Ufficio di sanità, b. 141, cc. 765-770. Nove medici apparteneva-
no alla prima classe, 16 alla seconda e 26 alla terza; i chirurghi di prima classe erano 5, 8 di seconda e 30 di terza. Questa era la situazione in città nel 1744.
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te come luogo di ricovero per i bisognosi era capillarmente diffuso nella Repubblica, mentre ospedali in qualche modo specializzati erano attivi solo nelle città più popolose40. A Padova furono attivi ospedali per le necessità più varie, anche se il loro numero, rispetto a quello di Venezia, era inferiore. Inoltre, a Padova, il nosocomio poté far buon uso della scuola medica che nello Studio aveva da sempre trovato il luogo più adatto per potersi esprimere ai più alti livelli scientifici. Sebbene una relazione stabile, di carattere formale, tra ospedale e Studio poté essere raggiunta solo nell’ultimo periodo della millenaria storia della Serenissima, anche precedentemente non si possono escludere fecondi contatti tra la Scuola e il S. Francesco. La Deputazione e ufficio alle cause pie di Padova era l’organo amministrativo preposto al controllo dell’assai variegato universo di enti che insieme costituivano l’espressione più matura della società civile della città. Di questo esiste un prezioso catastico, compilato da Antonio Marchettani nel 1815 e definitivamente sistemato 4 anni dopo quando l’interessato era archivista generale dell’Imperial regia direzione del demanio della provincia. Lo strumento è particolarmente utile poiché fotografa la precisa nomenclatura di un mondo altrimenti difficilmente comprensibile. Luoghi pii erano considerati tutti gli ospedali, il S. Francesco e la Casa di Dio a Padova e quelli situati in provincia a Cittadella, S. Daniele a Ponte di Brenta, Monselice e Teolo. Tra i luoghi pii figuravano anche il Monte di pietà, la Congregazione dei poveri vergognosi e la Scuola della carità41. Quest’ultima fu registrata anche tra le scuole. Ognuna di queste realtà poteva contare su un patrimonio, più o meno cospicuo, dal quale 40 David D’Andrea, Santa Maria dei Battuti di Treviso. L’ospedal Grando secc. XIII-XX, I, Profilo istituzionale. Dal Medioevo all’età moderna, a cura di Ivano Sartor, Treviso, Terra Ferma Edizioni, 2010. 41 Il catastico elenca nell’ordine abbazie, l’Arca del Santo, Caneva e Canevetta del Duomo, canonicati e capitoli, Capitolo del Duomo, canonicati e cappellanie diverse, chiese, chiericati, collegi, collegiate, commissarie, congregazioni, conventi, fraglie, luoghi pii, monasteri, oratori, scuole, seminari (ASPd, Corporazioni soppresse. Deputazione alle cause pie. Catastico, b. 1).
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si attingevano le risorse per raggiungere i fini che erano stati indicati nelle tavole di fondazione, in atti di ultima volontà o inter vivos. Tale complessità rispondeva a un’organizzazione sociale e assistenziale tipica di una società dell’età moderna, che aveva lasciato amplissimi spazi di aggregazione a organizzazioni socialmente meritevoli. Se nessuno poté mai, verosimilmente, mettere in dubbio l’utilità, se non addirittura, l’assoluta necessità, di ospedali, scuole e congregazioni, non furono nemmeno molte le voci critiche verso altre realtà che svolgevano una funzione sociale in maniera meno immediata. Col tempo, soprattutto negli ultimi decenni della Repubblica, alcuni di questi enti entrarono decisamente in crisi, come gli istituti e i benefici ecclesiastici, mentre altri sperimentarono una nuova e più vigorosa vitalità. Questo fu il caso, appunto, degli ospedali.
La finanza del S. Francesco, l’ospedale vecchio della città e dello Studio Ciò che accomunò questi enti, dalla mission così diversa, ma tutti definibili, pur in modo generico, come ospedali, fu il fatto di essere sottoposti a un ordinamento omogeneo che Venezia si preoccupò sempre di perfezionare. I luoghi pii furono oggetto di particolare attenzione da parte veneziana, nella consapevolezza del ruolo essenziale che essi giocavano nella vita sociale dello Stato. E non vi è neppure dubbio sul fatto che la città lagunare trattò tali organizzazioni, soprattutto sotto il profilo fiscale, applicando prelievi tributari omogenei, anche se talune particolarità, che si esprimevano soprattutto nelle esenzioni di parti consistenti di patrimoni ecclesiastici, furono sempre riconosciute, come peraltro sempre era accaduto negli ordinamenti tributari dell’età moderna, quando la fiscalità era stata lo strumento principale per sottolineare le disuguaglianze tra i contribuenti42. Osservare e analizza42 In generale, senza addentrarsi nei particolari, nella Repubblica di Venezia era vigente un ordinamento fiscale basato sulle differenze di stato del
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re le obbligazioni tributarie dei luoghi pii in età moderna nello stato veneto consente di verificare la presenza di questi istituti nel tessuto sociale ed economico dei diversi territori. Attorno ai luoghi pii una fitta rete di relazioni, contratti e interessi si era nel tempo sviluppata, in grado di garantire loro operatività e presenza nella vita quotidiana dei centri urbani e rurali della Serenissima. Patrimonio e tributi furono per secoli gli indicatori essenziali ai quali Venezia faceva costantemente riferimento per monitorare presenza e funzioni dei luoghi pii nello Stato. Alcuni di questi, attivi sia a Padova sia nel territorio, erano stati invitati dalla Deputazione alle cause pie a presentare un sintetico documento che ne attestasse la storia, descrivendone contemporaneamente la condizione finanziaria e patrimoniale. Risposero in 22 e, tra questi, la Scuola della Santissima Annunziata che, a fronte di una rendita pari a £. 1287.1, sborsò a titolo di gravezze della città e redecima £. 119.15.643. L’ospedale di S. Lazzaro, non troppo distante dalla porta Portello, assisteva 4 povere vedove e poteva contare su una rendita di £. 4452 contribuente, che poteva essere laico o ecclesiastico, veneziano, del Dogado, del dominio o delle città del dominio. Inoltre valeva pure l’ubicazione del bene sottoposto a estimo. Dalla combinazione di tutti questi fattori risultava un assetto fiscale assai complicato che certo non contribuì alla concordia sociale. Nemmeno la normativa sui dazi fu esente dal causare proteste e malcontento sociale. In età napoleonica i dazi furono in molte occasioni definiti «odiosi». Molti beni fondiari, inoltre, sulla base di antichi privilegi, godevano del beneficio dell’esenzione fiscale per cui spesso accadeva che enti cospicuamente dotai pagassero imposte assai contenute, come hanno mostrato Claudio Maddalena, Fisco statale e fisco locale nei domini di terraferma. La Repubblica di Venezia e il dibattito sulle gravezze de mandato dominii nel ’700, «Archivio veneto», 140, 2009, pp. 31-74 e G. Silvano, Fisco e società. Dalle riforme veneziane alla rivoluzione del 1797, in L’area alto-adriatica dal riformismo veneziano all’età napoleonica, a cura di Filiberto Agostini, Venezia, Marsilio, 1998, pp. 199-212. 43 La redecima era un’imposta. La Scuola faceva estimo con la Città, uno dei tre corpi allibrati; gli altri erano il Clero e il Territorio. Il documento non dice quali tra le gravezze imposte alla Città erano accollate anche alla Scuola (ASPd, Corporazioni soppresse. Deputazione alle cause pie. Catastico, Capsula A, b. 44). Tutti i documenti contenuti furono redatti nel 1788.
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conteggiate per un quinquennio. Circa un quinto di esse veniva speso a titolo d’imposta: per la decima ecclesiastica, per le gravezze del Clero, per il campatico dell’Adige e per le gravezze della Città. Le obbligazioni tributarie di questo assai piccolo ospedale cittadino erano diverse da quelle gravanti sulla Scuola dell’Annunziata. Assai leggeri erano poi i prelievi a carico della confraternita di S. Giovanni evangelista di Padova. Antichissima, essa aveva scelto, tra i propri adempimenti, l’assistenza ai condannati a morte «l’altra singolare obbligazione [...] è quella di assistere ai condannati all’ultimo supplicio dal momento dell’intimazione della sentenza». Inoltre era impegnata ad assicurare alcune doti a fanciulle bisognose. Pagava gravezze con la Città e la redecima per poco meno di £. 300 all’anno. Queste forti disparità di trattamento tra enti si giustificavano sulla base della natura della rendita e dell’ubicazione dei beni che ne costituivano la base patrimoniale. In questa interessante raccolta di documenti riguardante i luoghi pii nel Padovano nel 1788 non c’è il fascicolo del S. Francesco poiché è andato perduto. Trattandosi di luogo pio situato in una città del dominio, oltre al quartese e alla decima, dovute a enti ecclesiastici di varia natura, esso era pure tenuto a fare estimo e a pagare le imposte con la Città e con il Territorio sui beni allibrati in questi estimi. Gli enti ecclesiastici, ai quali l’ospedale era a tutti gli effetti equiparato, erano tenuti al pagamento delle gravezze de mandato dominii, che appunto colpivano i proprietari del dominio veneto. Gli istituti veneziani, anche sui beni posseduti in Terraferma, non furono mai soggetti alle gravezze de mandato dominii. Queste furono introdotte proprio per sottolineare la differente condizione cui erano soggette le proprietà dei veneziani e degli altri contribuenti. Inoltre ogni singolo fondo era sottoposto a specifiche imposte, dando luogo in tal modo a ulteriori differenze. Proprietà dell’ospedale erano obbligate al pagamento dei campatici, altre al sussidio, altre ancora a entrambe44. Anche gli enti ecclesiastici contribuirono in 44 La natura del fisco in vigore in età moderna nella Repubblica di Venezia è stata al centro di molte pregevoli ricerche. Tra queste si segnalano il
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modo continuativo al gettito fiscale dello Stato e contribuirono pure al fisco ecclesiastico che poteva essere centrale o periferico, ma sempre piuttosto esigente. Non si contano i casi di richieste di contribuzioni, denominate genericamente decime, che molti pontefici delegarono a Venezia e che, in un secondo momento, giungevano a colpire gli enti del dominio. La catena del prelievo era sempre stata piuttosto lunga e giungeva a coinvolgere anche il contribuente più povero. In un’epoca di fragili legami tra gli apparati pubblici e la popolazione, il fisco tenne uniti i contribuenti dello Stato non solo a Venezia, alla propria città, al territorio e a tutti i luoghi pii di riferimento, ma pure a Roma, collettore finale di un prelievo capillare per sua natura extraterritoriale45. Per conoscere il trattamento fiscale al quale fu sottoposto il più importante ospedale cittadino si può fare ricorso alle poste contabili presenti nella serie dei libri dell’entrata e della spesa che, senza soluzione di continuità dal 1552 fino al 1808, registrarono ogni movimento contabile che interessò l’ospedale. Si tratta di 144 registri di grande formato, a carte contrapposte: a sinistra sono scritte le partite in dare, a destra quelle in avere e la numerazione delle carte è la medesima. In ogni registro compaiono migliaia di registrazioni riguardanti tutti i soggetti a vario titolo coinvolti in un qualche rapporto di natura finanziaria con l’ospedale. Esaminando questa serie di libri contabili, emerge che essi furono tenuti come se fossero i veri e propri quaderni: ci sono le poste, ognuna intestata a un ente o persona fisica, e ogni valore è nuovamente scritto all’interno del concontributo di Michel Knapton, Il fisco nello Stato veneziano di Terraferma tra Trecento e Cinquecento: la politica delle entrate, in Il sistema fiscale veneto. Problemi e aspetti, XV-XVIII secolo, a cura di Giorgio Borelli, Paola Lanaro, F. Vecchiato, Verona, 1982, pp. 15-57, il saggio di G. Gullino, Considerazioni sull’evoluzione del sistema fiscale veneto tra il XVI e il XVIII secolo, in Il sistema fiscale, pp. 59-91 e G. Silvano Padova democratica. Finanza pubblica e rivoluzione (1797), Venezia, Marsilio, 1996, pp. 66-127. 45 Enrico Stumpo, Il capitale finanziario a Roma fra Cinque e Seicento. Contributo alla storia della fiscalità pontificia in età moderna (1570-1660), Milano, Giuffrè, 1985, pp. 184-218.
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to intestato alla cassa dell’ospedale. Tra tutte queste scritture vi sono gli opportuni rimandi alle carte dei quaderni ove possono essere rintracciate e seguite. Mancano conti riassuntivi intestati a singoli intestatari delle poste, ma attraverso il conteggio della cassa contadi ogni movimento riguardante il vecchio e nuovo ospedale può essere seguito e controllato. Questo metodo contabile, che di certo presuppone la scrittura di un giornale o di una prima nota, è testimonianza di una pratica contabile raffinata che nello stato veneto aveva trovato ampia diffusione già agli albori dell’età moderna46. Questi registri di grande formato erano siglati con una lettera dell’alfabeto e riposti in modo che tali sigle potessero essere facilmente viste dal contabile, così da poter rintracciare rapidamente un conto o una scrittura sintetica. In modo molto simile, ma ancor più articolato, erano stati scritti i quaderni del Monte di pietà di Padova. Nel fondo archivistico del S. Francesco la serie dei giornali, ai quali pure molte poste dei quaderni fanno preciso riferimento, non è stata trovata. Tali scritture generalmente non contengono informazioni aggiuntive rispetto a quelle registrate nei quaderni, ma avrebbero potuto dare qualche indicazione circa le motivazioni delle diverse disposizioni. Una serie di giornali esiste nell’archivio dell’ospedale, ma questa registra unicamente gli introiti a titolo di dozzina; si riferiscono all’età austriaca e a i primi anni del Regno d’Italia. Osservando la contabilità che va dal 1699 ai primi anni del ’700 si nota che l’introduzione del conteggio della cassa dell’ospedale avvenne il primo aprile 1699 in una scrittura che fa riferimento a un precedente saldo scritto nel quaderno B del
46 Sono più volte intervenuto su questo tema, appassionante e al tempo stesso così tecnico. G. Silvano, A beneficio dei poveri. Il Monte di pietà di Padova tra pubblico e privato (1491-1600), Bologna, il Mulino, 2005, pp. 73129 e Far di conto in Età moderna: interessi pubblici e privati nella contabilità del Monte di pietà a Padova e dintorni, in I conti dei monti. Teoria e pratica amministrativa nei Monti di Pietà fra Medioevo ed Età Moderna, a cura di Mauro Carboni e Maria Giuseppina Muzzarelli, Venezia, Marsilio, 2008, pp. 173-195.
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169547. Nella carta di sinistra sono elencati in ordine cronologico i movimenti finanziari in dare, gli incassi dell’ospedale; in quella di destra, l’avere, le spese incontrate, anch’esse disposte in ordine cronologico. Le poste che indicano una riscossione sono introdotte da una «A», quelle che attestano una spesa da un «Per». Le uscite dell’ospedale furono imputabili a una grande varietà di bisogni: approvvigionamento alimentare, mantenimento dello stabile, personale di servizio e altro ancora. Ogni carta termina con un saldo parziale che si riferisce alle poste registrate nella carta in questione e un saldo generale delle entrate e delle uscite che si riferisce invece al conteggio generale della cassa. Era questo il modo attraverso il quale il contabile riusciva a esercitare un certo controllo sulla correttezza delle scritture. Almeno sulla carta, il pareggio tra entrate e uscite costituiva la prova che il bilancio, se non altro sul piano formale, era in ordine. Naturalmente nessun controllo di merito poteva essere esercitato disponendo di questa documentazione. La somma parziale in dare veniva poi trascritta in avere in una carta successiva del quaderno. Il 21 maggio 1699 fu scritta una posta in dare «per spese di gravezze lire 4.10» non meglio specificate48. Il 30 maggio un’altra posta attesta una spesa per gravezze pari a £. 130.4. Altre simili poste furono registrate l’11 giugno, il 16 ottobre, il 13 novembre, il 2 gennaio 1700 e il 31 marzo49. L’ospedale pagò a titolo generico di gravezze in un anno una somma pari a £. 1007.12. Il contabile incaricato della tenuta di questo 47 ASPd, Ospedale S. Francesco, b. 1211, c. 298 «Cassa de contadi di ragione del pio hospedale di San Francesco nelle mani del nobil signor Nicolò di Tessari priore di detto pio loco, deve dare a se medesmo lire 1087.13.2. Sono per tante restò in cassa per tutto il mese di marzo 1699, tratte dal quaderno B intitolato 1695 per saldo di quella». Segue l’indicazione della carta ove trovare detto importo 48 ASPd, Ospedale S. Francesco, b. 1211, c. 304. Tra le altre uscite molto si spese per spese di palazzo, di fabbriche, per salariati, per il riso, per i poveri, per prodotti di «speciaria» e di «medicaria». 49 ASPd, Ospedale S. Francesco, b. 1211, c. 306 per un importo di £. 14; c. 329 per un esborso di £. 701.16; c. 334 per £. 57.2; c. 341 per £. 52.1; c. 346 per £. 47.19.
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libro ritenne inutile aprire un conto particolare intestato appunto alle gravezze che furono semplicemente registrate nei movimenti della cassa dell’ente. Asciutte informazioni si trovano nella sezione del dare, quando talvolta si nomina l’imposta specifica. Il 30 maggio 1701 si dovevano dare poche lire per gravezze, quando il 5 ottobre dello stesso anno l’ospedale risultò obbligato per una somma di £. 52 al pagamento del campatico50. In una scrittura successiva si registrarono £. 44 spese per argini e «chiaveghe», calcolate su 22 campi a £. 2 il campo. Altra interessante scrittura prova che furono sborsate al Territorio per gravezze per tutto il 1698, su particolari beni, £. 430.8.6. Altre somme si contarono alla vicaria di Conselve per l’estimo reale e il 20 maggio 1703 ben £. 4209.4 furono contate in camera fiscale a titolo di campatico 1701, senza don e senza pena e con bonifico del don per il 170251. Molte poste attestavano il pagamento da parte dell’ospedale di diversi dazi su generi che l’ente comprava. Anche a questi non fu mai aperto un conto particolare, se non molto tardi. Dal 1796 al 1801 fu conteggiato il dazio macina in un conto intestato a questa imposta e alle spese del granaio. Si tratta di poste interessanti perché danno la misura dell’imposta: 125 moggia di grano e 4 staia comportavano £. 1269 di imposta, grano macinato per poveri e famiglia dal dicembre 1800 a ottobre 180152. Ancora una posta del 1710 prova che l’ospedale fece estimo e pertanto pagò gravezze con la Città e con il Clero «spese di gravezze della magnifica Città, reverendissimo Clero et altre devono dare a dì 7 aprile 1710 a cassa £. 30»53. Molti anni dopo, le obbligazioni tributarie dell’ospedale erano rimaste le stesse, ma l’importo da corrispondere era notevolmente aumentato: a titolo di campatici straordinari dal 9 novembre 1775 al 26 mar50
ASPd, Ospedale S. Francesco, b. 1211, c. 362.
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I dati sono alla stessa c. 362.
52
ASPd, Ospedale S. Francesco, b. 1233, c. 318. ASPd, Ospedale S. Francesco, b. 1213, c. 273. L’ospedale pagò pure
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diversi campatici, Brentelle e Conselve per una somma superiore a £. 1000. Inoltre pagò le gravezze dell’estimo reale su ancora altri beni e il sussidio su quelli acquistati a Bovolenta.
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zo 1777, l’ospedale sborsò £. 11625.18.6, per pubblici campatici dal 17 ottobre 1777 al 24 marzo 1778 £. 2975.17, per redecime e campatici, nello stesso periodo, £. 7100.4. Allo stesso titolo il S. Francesco corrispose per un periodo d’imposta dal 27 aprile 1778 al primo febbraio 1779, £. 6890.1.6 e dal 19 maggio all’11 gennaio 1780 £. 8538.854. Molte altre poste subirono il medesimo trattamento; solo alcune furono anche scritte in specifici conti. Nel conteggio della cassa contadi appare solamente a fianco di alcune poste l’indicazione della carta ove il medesimo movimento viene registrato due volte. Nel caso delle gravezze ciò non accade mai. Ancora all’interno di questo quaderno, scritto l’ultimo movimento del 31 marzo, fu predisposto un ristretto «delli dinari scossi come appare in questo alle carte come segue [e] delli dinari spesi». Complessivamente dal mese di luglio furono riscosse £. 57733.16.8 scritte in dare e spese 59402.19.2 poste in avere; l’ente attestò uno sbilanciamento di cassa pari a £. 1669.2.6. Secondo il quaderniere Francesco Redolfi, l’ospedale era creditore della stessa somma che fu girata «dal qual credito si dibate £. 530.6, £. 186 et £. 296.15 che devono avere il becaro, speziale et casolino per tutto il mese de marzo 1700. Sono in tutto £. 1013.1 avendo avuto credito in cassa sino a detto tempo»55. Questo ristretto fu firmato dai due «calcoladori» Gaspare Scovin, Annibale Saviolo e dal priore Crescenzio Camposampiero. Il resto fu portato in avere «a se medesma £. 656.1.6 porto avanti in questo per saldo della contro scritta summa c. 402». Tutto ciò di cui l’ospedale fu responsabile dal punto di vista finanziario, per un periodo di dodici mesi, da marzo 1699, è racchiuso in queste carte del quaderno; il ristretto, invece, faceva riferimento a un periodo più breve. Considerate nel loro complesso, tali scritture consentono di esplorare non solo quantitativamente gli impegni del nosocomio padovano, ma soprattutto qualitativamente, in quanto la predisposizione di 54 55
ASPd, Ospedale S. Francesco, b. 1213, c. 334. ASPd, Ospedale S. Francesco, b. 1211, c. 347.
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un certo numero di conti particolari attesta uno specifico interesse dell’ospedale per l’andamento di ben determinate partite. Le spese per i poveri, sebbene ricorrenti, ma mai troppo onerose, furono trascritte anche in un conto particolare, forse più per la ragione che si celava dietro tali esborsi, che per altro motivo. L’ospedale era sempre tenuto a mantenere viva la propria mission originaria, consistente appunto, nell’assistenza dei poveri. Nemmeno degne di particolare attenzione furono le spese in conto salari: queste ricorrono spesso, talvolta con l’indicazione del nome, più spesso con la dicitura generica di salariati. Nel caso del Monte di pietà padovano, il conteggio dei salari fu sempre assai analitico. La Serenissima ebbe rapporti finanziari rilevanti con l’ospedale padovano: si trattò di un livello censuario di 80.000 ducati presi a censo La serenissima signoria di Venetia deve dare a dì 30 giugno 1696, ad entrade a dinari dell’hospedale di S. Francesco di Padova, ducati tre mille sei cento all’anno, sono per suo livello francabile per capitalle de ducati ottanta mille ricercati a questo pio loco, in vigor de ducali di sua serenità de dì 10 maggio 1696. Per li quali ducati 3600 doverà corrispondere questa magnifica ducal camera di Padova, in ragione di quattro e mezo per cento liberi et immuni da gravezze, di sei mesi in sei mesi, che sono per ogni ratta ducati mille otto cento, sono il livello assegnato sopra il dacio della macina [...] dovendo principiare a correre il prò di detto livello il giorno 30 giugno 1696 e così di sei mesi in sei mesi e di anno in anno [...] deve dare dalli 30 giugno 1699 sino 30 giugno 1700 £. 2232056.
Una posta così complessa per attestare un debito di 80.000 ducati che comportò un impegno a corrispondere un certo interesse, quantificato in 3600 ducati all’anno. Il prestito era stato accordato dopo che era stato preso in garanzia il dazio macina; 56
ASPd, Ospedale S. Francesco, b. 1211, c. 250. In questa stessa carta la contabilizzazione giunge fino al 30 giugno 1704, riportando una somma complessiva di £. 133487.12.
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in altri livelli affrancabili veniva generalmente dato in garanzia un bene fondiario che era fittiziamente venduto al prestatore, il quale, a sua volta, affittava lo stesso bene al debitore. Il canone pagato era pari agli interessi sul denaro avuto. In tal modo si aggiravano i condizionamenti morali e culturali che si opponevano al prestito a interesse57. Ottenere un credito così cospicuo dovette essere impresa non facile anche per un ente come l’ospedale cittadino, titolare di un vasto patrimonio immobiliare, tanto che alla fine la garanzia per l’erogazione, fu presentata dalla città di Padova che impegnò, appunto, i proventi del dazio macina. Alla contabilizzazione particolare degli interessi corrisposti su tale prestito nel 1731 fu tenuto un quaderno specifico della cassa contanti situata in piazza, nelle mani del fattore Ludovico Donadoni, tenuto a dare una certa somma, proveniente dalla camera fiscale cittadina, per pagare gli interessi sul debito dell’ospedale58. Considerando la natura medesima dell’ospedale cittadino, nel primo ’700 ancora luogo di cura e di generica accoglienza per i più poveri, fu deciso di contabilizzare separatamente il «granaro de formento di raggione del pio hospedale di San Francesco» che ad aprile 1699 contava 104 moggi e 8 stari di grano. Il prezzo di vendita del prodotto era pari a £. 68 il moggio, secondo quanto scritto in una posta attestante la vendita di 23 moggi del 23 maggio. Secondo il ristretto che va a tutto marzo 1700 la situazione era che in granaio rimanevano 915 moggi e 4 stari di frumento a fronte di una quantità ricevuta superiore a 2.875 moggi59. Stesso trattamento per il vino, conteggiato in un conto della caneva di proprietà dell’ospedale consistente, a fine marzo 1699, in 913 mastelli e quarti due. 57 L’uso del livello affrancabile fu assai diffuso in età moderna e fu molto praticato dai monasteri femminili, spesso veri e propri depositi di risorse finanziarie, come suggerisce Gigi Corazzol, Fitti e livelli a grano. Un aspetto del credito rurale nel Veneto del ’500, Milano, FrancoAngeli, 1979. 58 ASPd, Ospedale S. Francesco, b. 1243. Il registro consta di 78 carte e giunge fino al 1761. Dal 1747 il debito si assestò a 59.000 ducati. 59 ASPd, Ospedale S. Francesco, b. 1211, c. 339. Il moggio era costituito di 12 stari di 20/23 chili ciascuno.
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Del vino fu presentato il solito ristretto che certificò come a fine marzo 1700 ne restavano in caneva poco più di 779 mastelli, che erano 614 al 30 giugno dell’anno precedente60. Alle spese di «medicaria» fu pure aperto un conteggio come anche a quelle di «speciaria»61. Questi computi, molto più oneroso il secondo del primo, danno informazioni solo molto generiche sul tipo di merce che l’ospedale era solito comprare62. Notizie molto precise sulla farmacopea della seconda metà del ’700 erano invece presenti in diversa documentazione prodotta dall’Ufficio di sanità di Padova, braccio esecutivo di quello veneziano, destinatario di un ordine del senato veneziano del 3 settembre 1768 inteso a impedire la continuazione di un mercimonio sì scandaloso, che oltre l’essere direttamente contrario al prescritto da sacri canoni e da bolle de’ pontefici, viene pure ad offendere li gelosi riguardi di salute e ferir l’interesse e la facoltà privativa de spetiali da medicine che devono perciò sottostare a pubblici aggravi ed essere responsabili di ogni difetto o disordine che derivar potesse dalle loro medicinali composizioni63.
Le ispezioni che furono in tal modo autorizzate coinvolsero le spezierie dei monasteri, dei conventi e degli ospedali. I Provveditori potevano e dovevano recarsi dove ci fosse maneggio di preparati e accertarsi della qualità dei semplici, impedendo pure il commercio dei composti se non nelle forme autorizzate. Era stato fatto divieto agli enti ecclesiastici di aprire nelle città 60 ASPd, Ospedale S. Francesco, b. 1211, c. 331. La vendemmia dell’ospedale dal 25 settembre al 21 ottobre 1699 produsse 402 mastelli di vino. Altri 71 ne comprarono. Inoltre in ottobre l’ospedale acquistò 90 mastelli di mosto al quale aggiunse una generosa quantità d’acqua ottenendo in tal modo la somma complessiva di 1.670 mastelli di vino. 61 ASPd, Ospedale S. Francesco, b. 1211, c. 325 e c. 328. 62 La farmacia ospedaliera del nosocomio non era l’unica; anche il monastero di S. Maria di Praglia ne gestiva una a Padova in piazza del vino all’insegna dell’Agnus Dei per la quale corrispondeva £.12 l’anno di affitto al S. Francesco (ASPd, Ospedale S. Francesco, b. 1233, c. 143). 63 ASPd, Ufficio di sanità, b. 144, c. 3.
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spezierie anche se gestite direttamente da laici. Fu controllato tutto il territorio padovano e redatto un inventario di quanto fu trovato. Sciroppi, estratti, conserve, acque, droghe, tinture, unguenti, pillole, sali, balsami, estratti furono le principali categorie entro le quali si elencarono i diversi componenti: centinaia di semplici che opportunamente preparati costituivano il farmaco allora in uso. Non ci sono in questo interessante documento riferimenti alla spezieria ospedaliera, anch’essa sottoposta alle regole generali riguardanti l’esercizio della professione. Nei documenti di bilancio non c’era differenza alcuna tra i conteggi e, pertanto, il calcolo della spesa per farmaci non era, sotto questo profilo, diversa dalle altre. Le somme legate all’uso della cucina, dell’olio, del sapone, della sacrestia furono tutte ritenute meritevoli di appositi conteggi. Curiosamente l’ospedale intestò molti conti a diversi monti che si identificavano nel quaderno per essere il monte dei pollami, del miglio, del mais, delle uova, della carne di maiale e di manzo, degli stracci, della paglia, delle galline, dei capponi, dei legumi. La preoccupazione di poter mantenere gli ospiti del nosocomio traspariva anche dalla contabilità dell’ente che, appunto, monitorò costantemente la spesa per alimenti e, più in generale, per il miglior funzionamento possibile dell’istituzione. L’ospedale fu anche ente economico, una particolarissima specie di proto azienda, intenta a valorizzare il proprio patrimonio poiché da ciò dipendeva largamente la possibilità di perseguire i fini statutari ai quali doveva ispirarsi la sua azione. Da questo punto di vista, allora, ben si comprende l’enorme lavoro impiegato dall’ente per predisporre e conservare la documentazione finanziaria. Questa, e questa sola, svela ogni aspetto dell’operatività e delle molteplici relazioni dell’ospedale di Padova. I medici del nosocomio nel secondo decennio del ’700 furono pagati £. 434 l’anno, al qual compenso si dovevano aggiungere galline, oche e 25 uova64. Fino alla 64
ASPd, Ospedale S. Francesco, b. 1213, c. 398. Tre sono i medici elencati in questo registro. Il chirurgo percepiva un salario inferiore pari a £. 372 l’anno. Anche a lui spettavano galline, oche e uova (c. 392).
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fine del secolo questo salario rimase costante almeno a tutto il 1798, passando a £. 648 l’anno successivo e a £. 672 nel 180065. L’ospedale fu pure molto coinvolto nella vita finanziaria cittadina: parecchi monasteri intrattenevano con questo pio luogo rapporti debitori o creditori attraverso contratti di livello censuario, lo strumento più adatto per il mercato del denaro. Il Monte di pietà non era un ente nato per erogare prestiti cospicui e pertanto, in età moderna, il livello affrancabile divenne il mezzo per poter elargire prestiti elevati. I monasteri di S. Marco e di S. Maria erano creditori nei confronti dell’ospedale di 1.000 e 2.500 ducati che comportavano una spesa annua per interessi pari a £. 279 e a £. 697.10. L’interesse era stato determinato nella misura del 4,5%66. Le procedure contabili rimasero immutate per decenni, fino a quando, saltuariamente, si iniziò a corredare i quaderni di un indice, strumento assai utile all’uso dei registri medesimi. In più, se nei documenti del primo ’700 compariva, accanto a ogni posta, il riferimento a una carta di un giornale di cassa, tale annotazione in seguito non fu più mantenuta. Si tratta di un’anomalia importante. La serie dei giornali risulta non disponibile nel fondo del S. Francesco; potrebbe essere stata perduta oppure semplicemente non conservata, dopo che il quaderno era stato scritto. Una prima nota dovette pur essere stata fatta dal momento che, senza questa, mai un quaderno si sarebbe potuto redigere. Ancora più problematico è poi il fatto che nei quaderni di fine ’700 scomparve del tutto il riferimento al libro giornale. In questi registri i riferimenti sono tutti interni, dal conto individuale a quello della cassa generale dell’ospedale e, pur non rimandando a precedenti scritture, tuttavia di queste, non se ne poté fare a meno. Non avendo l’ospedale per sua natura maneggio quotidiano di denaro, è verosimile pensare che i preposti alla contabilità, «calculadori» e quaderniere, disponendo di un certo tempo per compilare i 65 66
ASPd, Ospedale S. Francesco, b. 1233, c. 286. ASPd, Ospedale S. Francesco, b. 1213, cc. 349-350. Molti titolari di li-
velli affrancabili erano persone fisiche.
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mastri, abbiano deciso di scartare ogni documento, giornali inclusi, che in realtà nulla di più fornivano in termini di informazione rispetto a quelli da loro redatti in un secondo momento. È del tutto inverosimile pensare che i quaderni siano stati scritti quando accaddero i movimenti finanziari appunto certificati; essi appartengono necessariamente a un secondo momento del procedimento contabile quando, sulla base di note di spesa e di entrata, esse possono essere trascritte all’interno di alcuni conti, spesso riferiti a più esercizi finanziari. Tra le uscite che meglio qualificavano l’attività del S. Francesco vi furono quelle per la farmacia; dal 31 agosto 1775 al 31 marzo 1777 complessivamente si impiegarono £. 7282.19.6 e dal 13 aprile fino al 31 marzo 1778 £. 5043.-.6. L’anno successivo, fino al 31 marzo la spesa fu di £. 6917.1667. Tra maggio 1784 e aprile 1789 le spese furono ogni anno pari £. 7402.7, 2926.12, 2953.13.6, 2469.9 e 2773.14, evidenziandosi una diminuzione e poi un assestamento su valori simili nel quinquennio68. Per il medesimo periodo di tempo si dispone pure di un conteggio, appunto su base annuale, del conto dei salari. Dal mese di maggio 1784 fino al 30 aprile dell’anno successivo si impiegarono £. 5668.14 e poi per ogni successiva annualità £. 5705, 5727.16, 6070.8, 6541.8. Complessivamente si trattò di un esborso pari a £. 29713.6, in aumento rispetto ai conteggi riguardanti esercizi precedenti69. Un’ulteriore particolarità sta nel fatto che le spese, genericamente intese, furono scritte in questo quaderno senza tenere conto delle norme comunemente applicate e riguardanti l’iscrizione dell’importo nelle sezioni del dare e dell’avere. Tale fondamentale distinzione fu mantenuta nel conteggio della cassa dell’ospedale all’interno del quale ogni voce di spesa fu posta nella sezione dell’avere. Le uscite, divise in titoli, furono trascritte una dopo l’altra. Semplicemente queste sono scritte a cassa. Per i salari dal 30
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ASPd, Ospedale S. Francesco, b. 1227, cc. 372, 471. ASPd, Ospedale S. Francesco, b. 1229, cc. 575-576. ASPd, Ospedale S. Francesco, b. 1229, cc. 578-580.
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aprile 1778 al 31 marzo 1779 l’importo fu pari a £. 5546.1470. Per il funzionamento del pio luogo, soprattutto per assicurare il vitto ai tanti poveri che vi si affollavano, le uscite furono ben più elevate rispetto a quelle sostenute per le cure ai pazienti, se queste possono essere messe in relazione con le uscite per la farmacia. Dall’ottobre 1775 a marzo 1777 per una quantità di riso ignota si spesero £. 2876, per l’ortolano si spese di più, poco meno di £. 3000 l’anno e per acquistare olio, burro e sapone in sette mesi si contarono uscite per £. 1294.271. Il mantenimento della caneva costava molto, quasi £. 2500 l’anno, pressappoco tanto quanto l’acquisto di uova, che ammontò a £. 2475.10.6 dal 30 aprile 1777 al 31 marzo 177872. Per il grano si pagò meno: dal 26 agosto 1775 al 19 febbraio 1777 £. 2048.17.6 e dal 22 aprile 1777 al 19 aprile 1779 £. 120373. Molti altri impegni finanziari costrinsero l’ospedale a un sempre attento uso delle risorse disponibili, provenienti da affitti, livelli, donazioni e da molti livelli affrancabili. Secondo il ristretto firmato da Giuseppe Classer, quaderniere dell’ospedale, da aprile 1779 ad aprile 1780 entrarono in cassa £. 84424.5.6 e ne furono spese 81804.7.6. Il risultato fu in tal modo positivo e in cassa, maneggiata dal fattore Antonio Crivellari, restarono più di £. 260074. Durante l’esercizio precedente erano rimaste in cassa £. 508.10, ammontando le entrate a £. 71383.11.6 e le uscite a 70815.1075. Spesso accade che nella prima carta di questi quaderni si trovi scritto «Ospitale di S. Francesco fu fondato da madona 70 ASPd, Ospedale S. Francesco, b. 1213, c. 471. Nel conto generale talvolta è specificato il profilo professionale dell’interessato al pagamento. Le informazioni sono davvero essenziali. 71 ASPd, Ospedale S. Francesco, b. 1213, c. 374; 375; 373. 72 ASPd, Ospedale S. Francesco, b. 1213, c. 369; 368. 73 ASPd, Ospedale S. Francesco, b. 1213, c. 367. 74 Introiti e uscite oscillavano molto di mese in mese. A ottobre si incassò e si spese molto. In agosto e febbraio le uscite furono limitate e a febbraio e marzo anche le entrate furono assai modeste (ASPd, Ospedale S. Francesco, b. 1213, c. 490). 75 ASPd, Ospedale S. Francesco, b. 1213, c. 461.
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Sibilla Bonifaria che morì l’anno 1421 li 15 dicembre. Con suo testamento 20 novembre di detto anno nodaro Zuanne Borghese come si vede in cattastico vecchio a c. 1»76. E ciò come a ricordare il soggetto diretto o indiretto delle partite descritte di seguito. Si elencavano per primi gli affittuari di fondi o case situati a Padova o nel territorio padovano ove l’ospedale possedeva beni. A ognuno si aprì un conto particolare che certificava il pagamento dell’affitto o del livello e la quantificazione dei beni in natura che il fondo produceva. Figuravano anche le obbligazioni a favore del nosocomio che gravavano o su altri luoghi pii, come l’ospedale della Casa di Dio, la pia Casa dei catecumeni di Venezia o la pia Casa del soccorso, mansionerie, fraglie, enti e benefici ecclesiastici77. Il quaderniere preparò poi il conteggio della cassa dell’ospedale che, a fine aprile 1780, contava £. 2634.11.6. Da maggio 1780 a marzo 1781, le entrate di cassa furono pari a £. 68287.1.4 e le uscite a £. 67663.12.6 per un avanzo di £. 623.8.1078. La rimanenza fu ancora maggiore l’anno seguente, quando ascese a ben £. 4459.13.479. Il trend fu positivo incrementandosi sia le riscossioni sia le spese, un fatto quest’ultimo, positivo per un ospedale che verosimilmente impiegava le risorse per provvedere ai bisogni dei più sfortunati. Nel ristretto annuale che giunge ad aprile 1784 gli introiti erano ascesi a £. 119832.1 e l’avanzo di cassa a £. 2299.580. Anche il bilancio dei costi per garantire ai poveri e loro famiglie grano sufficiente fu in questi anni in attivo. Non fu un conteggio in numerario, ma l’ospedale preferì tener conto dei moggi di grano entrati in granaio e di quelli impiegati per uso caritate76 77 78
ASPd, Ospedale S. Francesco, bb. 1233 e 1228. ASPd, Ospedale S. Francesco, b. 1228, cc. 287, 159, 151. ASPd, Ospedale S. Francesco, b. 1228, c. 363. G. Classer era il quader-
niere e Antonio Crivellari il fattore. 79 ASPd, Ospedale S. Francesco, b. 1228, c. 378. Le riscossioni erano state pari a £. 70570.12.4 e le spese a £. 66110.19. L’anno seguente l’avanzo fu un poco inferiore attestandosi a £. 3617.1.4. Durante l’anno erano lievitati i ricavi ma con essi anche gli esborsi. L’ospedale incassò ben £. 88397.19.10 (c. 393). 80 ASPd, Ospedale S. Francesco, b. 1228, c. 408.
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vole e di assistenza81. L’ospedale continuò a tenere conto delle uscite per altri generi alimentari e per accudire gli ammalati e i poveri. Si quantificarono le spese per fabbriche non meglio specificate che, da maggio 1780 ad aprile 1784, sommarono a £. 20155.2, per la farmacia a £. 37460.16.6 e per salari a £. 22679.682. Per la legna si spese una somma maggiore di quella impiegata per i salari. Nel quinquennio seguente la situazione finanziaria generale non cambiò e l’ospedale continuò a contare avanzi di cassa di un qualche rilievo. Secondo il ristretto presentato a fine aprile 1785, restarono in cassa £. 3831.13.6 e ne erano state incassate 96095.9.683. Era allora fattore Stefano Ghisleri. Ad aprile 1786 in cassa c’erano ben £. 8555.18.8, a fronte di esborsi pari a £. 69712.9.6; un anno dopo l’avanzo era sceso a £. 3769.7.8, lievitando a £. 5360.10.2 ad aprile 1788, avendo introitato risorse per £. 94550.19.2 e assestandosi a £. 2964.1.8 nell’aprile del 1789, avendo speso complessivamente la somma di £. 83629.384. Non si può certo dire che le condizioni del S. Francesco fossero poi così critiche, almeno stando ai bilanci presentati annualmente che pure, come ogni bilancio, consentono di mascherare almeno in parte situazioni anche difficili85. Il 30 aprile 1790 in cassa rimasero poche lire solamente 543.13.6 poiché gli esborsi furono quasi pari alle entrate di £. 94665.19.686. L’anno seguente l’avanzo migliorò sensibilmente, assestandosi a £. 3427.15, a fronte di esborsi pari a £. 72493.13, nel 1792 fu di 81
Tutti i dati necessari per fare un conteggio assai preciso sono in ASPd, Ospedale S. Francesco, b. 1228, cc. 445-457. Ci sono anche i ristretti anno per anno. 82 ASPd, Ospedale S. Francesco, b. 1228, cc. 604, 633, 636-637. 83 ASPd, Ospedale S. Francesco, b. 1229, c. 344. 84 ASPd, Ospedale S. Francesco, b. 1229, cc. 359, 374 (gli introiti erano stati pari a £. 84172.12.2), 389, 404. 85 Sul bilancio come fonte della ricerca storica Gaia Petroni, I bilanci degli ospedali di San Luca e di Fregionaia, in Dal monastero allo Spedale de’ Pazzi. Fregionaia da metà Settecento al 1808, a cura di Renzo Sabatini, Roma, Donzelli, 2012, pp. 169-180. 86 ASPd, Ospedale S. Francesco, b. 1231, c. 425. Segnalo che questo quaderno inizia a c. 391.
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£. 4903.6.6, nel 1793 addirittura di £. 13359.13, avendo riscosso $ 102220.14, dimezzandosi quasi l’anno successivo ascendendo a £. 5562.11, ma avendo speso £. 103127.11.6; nel 1795 il risultato fu pari a £. 4838.17.7 con una spesa di £. 95170.14 e nell’anno successivo si erogarono £. 96122.1 e l’avanzo si fermò a £. 3031.12.187. Considerando le uscite per i salari nello stesso periodo, da maggio 1789 ad aprile 1794, esse aumentarono lievemente rispetto ad esercizi precedenti. Anche questo è un segno di disponibilità finanziaria del nosocomio padovano: nel primo periodo, fino al 30 aprile 1790, la somma fu pari a £. 6762.5, poi a £. 7173.18, ad aprile 1792 a £. 6939.6 e nell’anno successivo a £. 7090.788. Un capitolo di spesa particolare intestato alla fabbrica del nuovo ospedale non compare in questo quaderno: c’è solamente il tradizionale conteggio intestato genericamente a fabbriche, ma gli importi registrati, mediamente meno di £. 4000 l’anno, non possono riferirsi agli interventi, ben più onerosi, per l’edificazione del nuovo ospedale. Nessuna crisi finanziaria colpì il S. Francesco prima che questo fosse abbandonato per il nuovo ospedale. Non fu una congiuntura finanziaria negativa a spingere la città a edificare un nuovo ospedale, quanto la coscienza che le condizioni del vecchio stabilimento erano ormai tali da non consentire più un adeguato esercizio né della cura né dell’assistenza. I beni che per secoli avevano sostenuto il S. Francesco continuarono a farlo, onorando così la mission originaria, in un ospedale nuovo e moderno. Dopo la contabilizzazione della cassa seguono diversi conteggi dei generi più importanti: grano e vino, lasciando in bianco un gran numero di carte del quaderno stesso. Le condizioni finanziare del S. Francesco, proprio quando si stava pensando di avviare l’edificazione di un nuovo ospedale erano in buona salute. L’arrivo dei francesi in città e la caduta della Repubblica di Venezia non hanno dato luogo nei li87
ASPd, Ospedale S. Francesco, b. 1231, cc. 441, 457 (gli introiti furono di £. 94643.3.6), 473, 488, 502, 519. 88 ASPd, Ospedale S. Francesco, b. 1230, cc. 333-334.
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bri contabili dell’ospedale a particolari innovazioni. Solamente si nota che alcuni titolari di poste erano ora chiamati cittadini o cittadine, quando non nobili. Sembra che nulla fosse avvenuto: molte poste continuarono a registrare movimenti finanziari avvenuti prima e dopo la rivoluzione del 1797. E in effetti non c’era proprio motivo per mutare procedure consolidatesi nei secoli e nemmeno vennero meno le ragioni di tante partite che avevano attraversato tutta la storia del S. Francesco. La Scuola della carità con continuità aveva da sempre gestito le risorse provenienti da un livello disposto attraverso un legato voluto da Sibilla Bonafari e destinate all’approvvigionamento di cera89. In molti altri casi, poi, contratti stipulati anche nei primi decenni di vita dell’ente si perpetuarono attraverso gli eredi, che avevano considerato vantaggioso non risolvere i vecchi patti, come nel caso degli eredi di Pietro Foscarini, che continuarono a pagare l’affitto per una casa presso la chiesa degli Eremitani, in base a un contratto stipulato nel 1539. Giunta la rivoluzione in città, la vecchia posta contabile non subì alcun mutamento, i municipalisti scelsero di non marcare l’avvenuto mutamento istituzionale. Addirittura molti introiti arrivavano al S. Francesco sulla base di contratti stipulati anche prima che il nosocomio fosse stato costruito. Alcuni beni giunti in proprietà di Sibilla, già dalla seconda metà del ’300, continuarono a costituire il patrimonio dell’ospedale per secoli90. Quando l’ospedale al pari di tutti gli altri enti ecclesiastici della città e del Padovano fu richiesto di presentare una polizza d’estimo attestante proprietà e rendite dell’ente, Francesco Saetta quaderniere, compilò tale documento certificando solamente i capitali censuari a credito del pio luogo. Si trattava complessivamente di 18 contratti, stipulati di recente, per una somma complessiva di 27.632 ducati91. Diversa fu la po89 90 91
ASPd, Ospedale S. Francesco, b. 1233, c. 127. ASPd, Ospedale S. Francesco, b. 1229, c. 187. ASPd, Estimo 1797, Ecclesiastici, b. 30, polizza n. 592. La pia Casa di
Dio aveva 14 contratti di livello affrancabile.
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lizza del pio ospitale di S. Maria della carità che denunciò più di 200 contratti di livello tra i quali solamente 14 affrancabili. Nessuno di questi coinvolgeva il S. Francesco. A favore di quest’ultimo, alcuni dei beni della scuola erano obbligati a corrispondere annualmente una contribuzione, descritta come aggravio alla rendita. Finanziariamente la Scuola fu molto più impegnata a rispettare le proprie obbligazioni nei confronti della Casa di Dio piuttosto che nei confronti del nosocomio cittadino92. Nemmeno il conservatorio delle zitelle gasparine di Padova doveva alcunché al S. Francesco93. Tra enti ecclesiastici, e in particolare tra enti dediti all’assistenza, circolava denaro attraverso aggravi su quanto si riscuoteva a diverso titolo da ogni ente e questo dipendeva dalla volontà dei testatori che spesso affidando un bene a un ente ecclesiastico imponeva pure che parte della rendita fosse girata a un ente terzo. Così, un ente come la Casa di Dio, pur in possesso di un patrimonio inferiore a quello del S. Francesco, poteva godere di risorse provenienti da beni di proprietà altrui. Il S. Francesco fece sempre conto sulle risorse proprie delle quali era stato investito cospicuamente già dal momento della fondazione94. Dopo più di tre secoli di attività, l’ospedale intratteneva ancora un elevato numero di contratti d’affitto della propria vasta proprietà fondiaria. Ogni contratto fu raccolto in un registro, numerato e redatto seguendo un modello a stampa riportante in alto il logo dell’ente e l’intestazione Ospitale di S. Francesco. Ogni contratto iniziava il giorno di S. Giustina e durava tre anni in modo tale che ogni conduttore avesse la possibilità di effettuare tre raccolti e potesse così pagare tre affitti interi. Il patto era stipulato tra il priore dell’ospedale e due membri, scelti tra i più vecchi del sacro Collegio degli eccellentissimi si92
ASPd, Estimo 1797, Ecclesiastici, b. 28, polizza n. 317. Gli aggravi furono quasi pari alla rendita lorda che ascendeva a £. 49497.4. L’imposta si calcolò su poco più di £. 14000. 93 ASPd, Estimo 1797, Ecclesiastici, b. 28, polizza n. 333. 94 La dotazione iniziale del S. Francesco risulta dalla trascrizione di Francesca Fantini D’Onofrio, MCCCCXIIII Primo libro delle proprietà dell’Ospedale di San Francesco di Padova, Padova, Stampa Offset Invicta, 2002.
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gnori dodici, i quali davano esecuzione a una precedente decisione adottata dal Collegio riguardante la proprietà da affittare e il nome dell’affittuario. Si fissavano le obbligazioni che generalmente prevedevano numerario e generi, all’interno di un obbligo più generale di custodia e di miglioramento del fondo concesso. Questo tipo di accordo era molto gravoso per il conduttore che, oltre a conferire generi e pagare l’affitto, era pure tenuto a portare presso il granaio dell’ospedale i grani e a pagare il dazio. Soprattutto egli era tenuto al rispetto delle clausole contrattuali indipendentemente dall’andamento del raccolto, che era strettamente legato a condizioni assolutamente non dipendenti dalla volontà dell’affittuario. Si trattava del tradizionale contratto «a terra e fuoco» tipico nella campagna veneta. Non poteva tagliare alberi e nemmeno costruire alcunché, ma nel caso di interventi edilizi voluti dall’ospedale, egli era tenuto a portare il materiale occorrente a sue spese e fornire prestazioni d’opera come manovale. Era pure tenuto a seminare a grano due terzi dell’intera proprietà. Talvolta al contratto si aggiungevano altre obbligazioni, come il pagamento di un debito pregresso95. Il contratto era preparato dal quaderniere e in alcuni casi compariva anche un garante. Dal 7 giugno 1785 al 26 febbraio 1796 furono perfezionati 128 contratti che attestano l’esistenza di un cospicuo patrimonio fondiario dell’ospedale. La medesima procedura fu seguita per ordinare gli affitti di case di proprietà ospedaliera. In questo caso il formulario era assai più semplice, limitandosi a definire il canone d’affitto, l’obbligo di consegna dell’immobile a scadenza nelle condizioni in cui era stato locato e l’impossibilità di sublocare ad altri. Dal 26 febbraio 1796 al 25 maggio 1802 furono stipulati 96 contratti di locazione. L’ultimo atto dell’età veneziana fu perfezionato il 31 agosto 1796, il primo della Padova democratica, il 30 agosto 179796. Il quaderniere F. Saetta mantenne l’im-
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ASPd, Ospedale S. Francesco, b. 1256, contratto numero 153.
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Così denominata da G. Silvano, Padova democratica. Finanza pubblica e rivoluzione.
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piego97. Nella raccolta successiva, che in parte copre le medesime annualità, si contano altri 52 atti dal 29 ottobre 1800 al 17 febbraio 1804. A questa fu allegato un altro contratto di locazione molto importante, stipulato il 21 aprile 1805 tra la Deputazione militare di Padova e la presidenza del S. Francesco. La Deputazione era obbligata a corrispondere 350 fiorini pari a £. 1750 l’anno al pio ospitale dei poveri infermi «per la casa denominata ospital vecchio attualmente destinata a caserma, eccettuato i granari, luogo del gastaldo e sottoscala alla corte luoghi tutti che non ebbero mai a proprio uso le truppe»98. L’occupazione militare dello stabile era iniziata il 6 aprile 1801 e la Deputazione si impegnò al pagamento degli arretrati. Rimanevano a carico della presidenza la manutenzione del tetto e della provincia l’ordinaria manutenzione dello stabile, fintantoché durava la locazione.
L’ospedale, il suo patrimonio e le imposte Il S. Francesco era un luogo pio che, per onorare la mission per la quale era stato fondato, doveva gestire il proprio patrimonio con particolare accortezza. L’asse patrimoniale era davvero considerevole. G. Classer preparò il primo gennaio 1791 una polizza d’estimo completa, che faceva riferimento a quelle precedenti del 1548 e del 1627, per correggere errori e per verificare ancora una volta gli esenti e gli aggiunti, i beni sottoposti al pagamento di gravezze e quelli, invece, esonerati da tale obbligazione. Questo documento consente di fotografare lo stato patrimoniale del pio luogo e, elemento ancora più nodale, di vedere all’opera i meccanismi fiscali cui erano sottoposti questi beni. Ne viene un ritratto dai contorni assai nitidi del profilo sia del patrimonio di un luogo pio sia del trattamento fiscale cui fu obbligato in età moderna. La descrizione inizia 97 98
ASPd, Ospedale S. Francesco, b. 1262, contratti numero 24 e 25. ASPd, Ospedale S. Francesco, b. 1263, segnato come Affittanza 21 apri-
le 1805 dell’ospitale vecchio.
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facendo riferimento all’estimo del 1694, che era stato concluso con la Città di Padova, intesa, in questo caso, come uno dei tre corpi, con il Territorio e il Clero, allibrati all’estimo. Si trattava di quei beni sui quali l’ospedale pagava le gravezze con la Città. Anzitutto ci sono 38 proprietà situate in città: la prima è la casa dominicale del pio luogo adibita ad abitazione dei poveri infermi, del priore, dei salariati e inservienti. Questa era, inoltre, servita da botteghe, magazzini e abitazioni, in numero di dieci, occupate da diversi operatori: un fornaio, un fabbro e altri artigiani99. Questi pagavano l’affitto, mentre il fattore, il quaderniere e l’ortolano non erano tenuti a pagamento alcuno per l’occupazione di case dell’ospedale. Tutti gli altri locatari, compresa anche qualche fraglia, corrispondevano il canone. Queste proprietà il 12 gennaio 1729 erano state dichiarate esenti. Insieme assicuravano al S. Francesco una rendita pari a poco più di £. 4474 l’anno, una somma considerevole. Assai interessante è l’analitica descrizione del patrimonio fondiario del luogo pio perché essa precisa anche il regime fiscale al quale tali proprietà erano sottoposte. Nei «termini» di Padova, fuori S. Croce, alcuni campi pagavano il quartese a una chiesa, altri il quartese e la decima ai canonici della cattedrale e altri ancora non pagavano né decima né quartese. Nella stessa località c’erano tre proprietà, una delle quali di 58 campi, affittata a generi e a £. 152 l’anno. Le terre a S. Croce erano tenute al pagamento della decima ai canonici e del quartese alla chiesa della Volta. Tali esborsi si configuravano come vere e proprie imposte, che si aggiungevano a quelle civili. Insieme contribuivano a diminuire la rendita netta del S. Francesco100. Alcune proprietà a S. Croce erano gravate dal pagamento del quartese a favore della chiesa di Voltabarozzo e questa era a 99
ASPd, Ospedale S. Francesco, b. 1273, c. 1. Il documento è scritto su carte numerate come se si trattasse di un registro contabile, a carte affrontate. Lo stesso numero compare sulla carta di destra e di sinistra. 100 ASPd, Ospedale S. Francesco, b. 1273, cc. 4-6. Una medesima proprietà poteva anche essere gravata in parte dal quartese e per il resto dalla decima.
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sua volta soggetta allo stesso prelievo a favore della chiesa di S. Nicolò. Altri campi erano a Salboro e fuori porta S. Giovanni. A Piove di Sacco, esistevano due proprietà inferiori a 10 campi esenti dal pagamento di imposte. Anche a Polverara la proprietà era minima, mentre a Brugine i campi erano 57, divisi in tre distinte proprietà; solo la prima di 32 campi pagava la decima ai canonici di Piove di Sacco101. A Legnaro l’ospedale vantava una proprietà di 40 campi, a Fossò di 30, divisi in ben 8 parcelle minori. Altri 30 campi a Fossò erano gravati dalla decima a favore del vescovado di Padova102. Nella vicaria di Conselve e precisamente a Polverara, l’ospedale possedeva molte proprietà: una di 98 campi tutti in un pezzo con fabbriche di muro a coppo e parte a paglia con casoni tre [...] e pagano decima alli reverendissimi canonici di Padova di soli campi n. 22. Erano tenuti ad affitto da Francesco Bonato e pagavano ogni anno formento moggi 36.4, vino colato mastelli 62, legumi stari 6, carne porcina, lino spolato, descritti all’estimo 1694, alla partita al n. 98. Ora affittati al signor Giovanni Zorzi.
Mancano i confini e la scrittura è completa. Essa, come tutte le altre, contiene importanti informazioni: la misura e la localizzazione della proprietà, il regime fiscale al quale era soggetto, il tipo di coltura e di produzione che questi campi permettevano e i nomi degli affittuari. Inoltre si rintraccia la rete dei beneficiati, spesso i canonici del Duomo di Padova, che traevano la decima o il quartese. In questo caso, poi, si tratta di una proprietà esentata dal pagamento delle gravezze103. Qualche vol101 102
ASPd, Ospedale S. Francesco, b. 1273, cc. 8-9. ASPd, Ospedale S. Francesco, b. 1273, cc. 10-11. Altre proprietà era-
no a Villatora e a Camin dove c’erano più di 66 campi. Anche a Pontelongo e a Bovolenta l’ospedale vantava alcune possessioni. 103 ASPd, Ospedale S. Francesco, b. 1273, cc. 14-15. A sinistra della scrittura vera e propria ci sono due altre preziose informazioni: la prima esprime il valore, espresso in numerario, della proprietà in questione, la seconda attesta che tale bene il 12 gennaio 1729 è stato traslato tra gli esenti. Con indubbio beneficio per le casse dell’ospedale.
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ta la polizza attesta la trasformazione di un contratto di livello in uno d’affitto, secondo una linea di tendenza tipica anche di altri luoghi pii. A Pernumia, a Vanzo, a Bertipaglia e a Ponte S. Nicolò, il S. Francesco poteva contare su proprietà perlopiù di modeste dimensioni che in ogni caso garantivano entrate in generi e denari non trascurabili. A Este la proprietà era di 50 campi, in quella di Teolo di oltre 270, distribuiti tra Rubano, Mestrino e Teolo stesso. Anche in questo caso si tratta di «beni liberi et esenti da ogni e qualunque gravezza»104. I campi ubicati a Mestrino non pagavano né decima né quartese, quelli a Rubano, invece, erano tenuti a tale contribuzione. La descrizione del patrimonio immobiliare del S. Francesco continua elencando i beni situati nella vicaria di Arquà, ad Abano, a Camposampiero e in quella di Cittadella. Si tratta nella maggioranza dei casi di assai piccole proprietà costituite da appezzamenti spesso di qualche campo. Alcune sono assai vicine alla città a Chiesanuova, a Camin, a Montà e all’Arcella105. La stessa frammentazione si riscontra pure a Piove di Sacco, a Legnaro, a Ronchi, a Vigonovo, a Camin, a Bolzani. Solo a Cervarese c’era una proprietà di 29 campi dati a livello, poi venduti poiché il livellante non pagava il dovuto, pari a £. 421.12 l’anno all’ospedale106. Tutto o quasi si ripete: proprietà descritte nell’estimo del 1694 compaiono anche nell’estimo del 1791, salvo alcune necessarie modifiche riguardanti i nomi dei più recenti livellari o affittuari. Un mutamento importante intervenne ad Abano, in relazione a un’assai piccola proprietà di un campo che nel 1694 era affittato a £. 14 l’anno e nel 1791 concesso a livello «unitamente al loco detto dell’ospedaletto con l’obbligo di pagar le pubbliche gravezze, ora possesso dal nobil signor marchese Franceschin e Dondi Orologio»107. Questa piccola realtà assistenziale era stata voluta da Giovan104 105
ASPd, Ospedale S. Francesco, b. 1273, cc. 17-20. ASPd, Ospedale S. Francesco, b. 1273, cc. 25-26.
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ASPd, Ospedale S. Francesco, b. 1273, c. 29. ASPd, Ospedale S. Francesco, b. 1272, c. 52 (Estimo del pio hospital di S. Francesco di Padova 1694) e b. 1273, c. 29. 107
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ni Antonio Dondi Orologio nel suo testamento scritto il 3 gennaio 1788 e pubblicato alla sua morte avvenuta il 27 settembre 1789. Con esso egli aveva istituito erede universale il fratello Francesco, libero di disporre a piacere dei beni lasciati, ma in quanto poi alli bagni di Abano, con tutti i fabbricati annessi e beni posti, tanto in Abano, quanto nella contrà di Montaon, istituisce una commissaria da essere diretta dal sacro collegio dei legisti, affinché le rendite tutte provenienti da quei beni, debbano servire a benefizio dei poveri infermi dell’ospitale di S. Francesco; dichiarando che questi bagni sono stati da lui eretti sopra alcune fabbriche, che col testamento 1538, 18 maggio, in atti Giovanni Battista Talamazzo, del fu Alessandro Vitaliani, in unione ad altri beni ad Abano, nel luogo chiamato di Santa Maria di Montaon, erano state lasciate al predetto pio ospitale, a benefizio dei poveri e che per vari atti successivi, passarono nella di lui famiglia, con titolo di permuta108.
L’iniziativa del testatore trovò largo favore tra i poveri della città e del territorio circostante, tanto che si dovette procedere a regolarne l’accesso. A tal fine ci pensò l’amministrazione del Lombardo-Veneto che dopo un primo regolamento del 1822 ne preparò un secondo nel maggio 1835. Nell’ospedaletto, chiamato di Santa Maria di Monteortone, presso i bagni Orologio ad Abano, ogni anno potevano recarsi 50 poveri da giugno a settembre, tra maschi e femmine, per accedere alle cure termali gratuitamente. Il povero, ricoverato presso l’ospedale nuovo, oppure ancora residente a casa propria, doveva, per fare domanda di ammissione alla cura, ottenere una dichiarazione del proprio parroco attestante lo stato di miserabile, i buoni costumi dell’interessato e la sua residenza; il medico doveva invece certificare la necessità della cura termale. Il regolamento precisò pure che sarebbero stati ammessi alla cura solo i poveri affetti da malattie recentemente diagnosticate, per la 108
ASPd, Ospedale S. Francesco, b. 1278, carte sciolte, Atto del notaio Girolamo Traversa. La località cui il testamento fa cenno è l’attuale Monteortone.
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cura delle quali poteva essere ritenuto importante l’uso dei bagni e del fango termali. Erano tassativamente esclusi dal beneficio i malati cronici e quelli per i quali, il sollievo eventualmente provato per i fanghi, si fosse dimostrato verosimilmente di breve durata. A ogni povero veniva garantito il vitto e l’alloggio. Il regolamento non si limitò a definire le procedure di ammissione all’ospedaletto, ma intervenne pure nel definire con precisione gli obblighi di natura morale e religiosa cui gli ammessi dovevano assolutamente sottoporsi. Si prescrisse che i poveri nella prima festa dopo il loro arrivo in Abano, onde impetrare la grazia da Dio Signore, dovranno fare nell’oratorio dei bagni la confessione e comunione; ed in ogni sera, potendo muoversi, concorrere alla recita, che si farà nell’oratorio, delle litanie ed altre preci, non che di cinque Pater ed Ave per conseguire la plenaria indulgenza concessa dal sommo pontefice Leone X nell’anno 1516, 14 giugno, all’oratorio suddetto [...] essendo stato prescritto tutto ciò dal suddetto Signor marchese Orologio col suo testamento 27 settembre 1789109.
Altre proprietà erano soggette alle pubbliche gravezze che in alcuni casi furono addossate all’affittuario e non all’ospedale. Nel complesso esse costituirono una porzione assai limitata del patrimonio fondiario disponibile nel 1791. Precisamente i campi soggetti al pagamento delle gravezze de mandato dominii erano poco più di 255, a fronte di una proprietà complessiva ascendente a poco meno di 2.000 campi. Quest’ultimo dato è stato calcolato sull’estimo 1694, avendo potuto verificare che la situazione patrimoniale del S. Francesco cambiò assai poco tra le due rilevazioni. Ciò che mutò fu il trattamento fiscale di questo grande e significativo patrimonio. Inoltre bisogna pure 109
Ci sono ancora altre prescrizioni di natura sia religiosa sia di comportamento, come quella che proibì di frequentare osterie. Un religioso era sempre presente all’ospedaletto in base ad accordi con la chiesa parrocchiale di Abano (ASPd, Ospedale S. Francesco, b. 1278, Regolamento per le cure termali gratuite solite istituirsi in Abano dipendentemente da beneficio Orologio come da testamento del marchese Giovanni Antonio Dondi Orologio 1789).
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tenere presente che in molte singole località, l’ospedale possedeva oltre la terra anche le case di diversa tipologia erette sulle medesime. Traeva profitto dall’affitto della terra e della casa. Il pio luogo continuò nel tempo ad attrarre risorse: prima del 1535 il patrimonio fondiario superava di poco i mille campi e quasi raddoppiò in un secolo e mezzo110. Non si può certo dire che il S. Francesco fosse partito male, anzi la dotazione della quale poté godere dal momento stesso della sua istituzione era già piuttosto cospicuo, analogo a quello dei maggiori insediamenti religiosi padovani e del territorio, esclusi quelli benedettini che possedevano patrimoni di dimensione maggiore111. Altri beni immobili, case e botteghe, l’ospedale aveva denunciato all’inizio del documento per un totale di 38 poste, alle quasi se ne aggiunsero 182 riguardanti ogni singola possessione fondiaria. Molti erano anche i livelli in essere che l’ente riscuoteva su case poste a Padova e che erano liberi da ogni gravezza. Anche in questo caso si tratta di proprietà e di contratti già presenti nell’estimo del 1694 che nel 1729 furono dichiarati esenti. Fino alla posta 299 la numerazione non presenta anomalia alcuna, ma quella che sarebbe dovuta essere la polizza 300 è invece la 200112. L’errore, causato probabilmente dal cambio pagina, non fu corretto e pertanto ci sono poste che 110
Il noto Giuseppe Classer in un «foglio dimostrativo dei beni del pio ospitale di S. Francesco pervenuti in esso prima dell’anno 1531 spalleggiati da documenti e titoli» attesta che il numero dei campi era pari a 1023.3.52.½. Parte di questi erano di proprietà di Sibilla ad Arsego, a Legnaro, ad Arquà, a Fossò, a Camin, a Legnaro, a Brugine, a Polverara e a Santa Croce a Padova e pervenuti all’ospedale grazie al suo testamento del 14 aprile 1421. Altri beni ubicati a Mestrino e Rubano erano giunti nel patrimonio ospedaliero in virtù di un testamento del 14 aprile 1421 perfezionato addirittura nello stesso giorno di quello di Sibilla, mentre ulteriori lasciti testamentari furono disposti dopo quello di Sibilla. Ancora altri erano considerati beni antichi dell’ospedale e un buon numero di campi furono semplicemente acquistati, come era accaduto nel 1482, il 23 marzo (ASPd, Ospedale S. Francesco, b. 1273, foglio allegato firmato dal quaderniere). 111 Il riferimento è alle abbazie di Santa Giustina e di S. Maria di Praglia dotate di patrimoni fondiari che si assestarono nell’ordine a ben oltre i 10.000 campi e a poco più della metà. 112 ASPd, Ospedale S. Francesco, b. 1273, cc. 41-42.
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hanno lo stesso numero di repertorio, pur indicando valori diversi. In questa sezione dell’estimo compaiono anche, sebbene in misura assai minore, casoni, mulini e ancora campi. Segue dalla scrittura 402 la descrizione di ogni tipo di contratto che fu stipulato dopo la compilazione dell’estimo del 1694. Dieci su 24 erano livelli affrancabili che assicuravano all’ospedale gli interessi sui denari dati a prestito. Il bilancio dell’ospedale era gravato da una serie di aggravi che andavano da esborsi per la celebrazione di messe, al conferimento di generi a enti religiosi o a privati cittadini, a uffici pubblici, a fraglie cittadine e del territorio, a mansionerie e ad altri benefici ecclesiastici113. Il quaderniere Classer terminò il proprio lavoro di scrittura notificando che altre due riscossioni erano da tenere in conto generate da due livelli censuari contratti con la città lagunare per un importo complessivo pari a £. 12824.10 da distribuirsi tra chi aveva concorso a mettere insieme la somma richiesta a Venezia. Alla fine del conteggio generale, l’ospedale si trovò obbligato a pagare gravezze calcolate su £. 14.2.3 d’estimo, dopo che ne erano state detratte 12.6 a fronte di aggravi stimati in £. 24648. La rendita complessiva del S. Francesco era stata determinata in £. 52837.3.6114. Ancora altre polizze d’estimo del S. Francesco ne chiariscono ulteriormente il profilo patrimoniale e finanziario. Molto interessante è il documento che l’ospedale preparò rispondendo al proclama del 4 aprile 1769 in materia di una nuova redecima dei luoghi pii voluta unilateralmente da Venezia, senza l’intervento di rappresentanti pontifici ed entrato in vigore nel 1773. I Sovraintendenti alle decime del clero coordinarono l’operazione di questa nuove redecima alla quale il S. Francesco prontamente obbedì. Si tratta di un documento essenziale che 113
Poteva trattarsi di disposizioni che andavano indietro nel tempo come il pagamento alla mansioneria Turchetto in Duomo per la celebrazione di 77 messe come aveva stabilito un decreto del 16 agosto 1666 di Gregorio Barbarigo vescovo di Padova (ASPd, Ospedale S. Francesco, b. 1273, c. 79). 114 ASPd, Ospedale S. Francesco, b. 1273, c. 82. La lira d’estimo era la misura dell’obbligazione tributaria.
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tuttavia non tralasciò alcunché. Per affitti riscossi su immobili situati a Padova, il ricavato fu pari a £. 6150115. Questi beni ospedalieri facevano estimo con la Città, nello stesso modo in cui lo facevano le proprietà del territorio circostante. Di questa porzione del patrimonio non esiste ristretto che ne indichi sinteticamente la consistenza. Si trattò in ogni caso di un documento giurato dal quaderniere Classer che così assumeva pure ogni responsabilità derivante da denunce incomplete o, peggio, fraudolenti. E ancora con l’estimo della Città erano elencati i livelli esatti dall’ospedale secondo quanto richiesto dal proclama di aprile. Ci sono anche livelli perpetui che certo assicurarono all’ente una rendita piuttosto modesta116. Chiude questa sezione la lista degli obbligati al pagamento di livelli a favore dell’ospedale che non erano più rintracciabili e verso i quali il S. Francesco intese in ogni caso non agire, anche in considerazione del fatto che a fatica si sarebbero potuti rintracciare i fondi oggetto dei contratti. Seguivano i livelli a grano, anch’essi obbligati a fare estimo con la Città, molti dei quali, come nel caso precedente, risultavano inesigibili117. Anche l’elenco degli aggravi fu piuttosto nutrito e numerò ben 74 beneficiati: chiese parrocchiali, monasteri e conventi, altri benefici ecclesiastici, fraglie, come quella dei battuti di Este, dei colombini, del Santissimo Sacramento a Padova o dei pellicciai, luoghi pii come la Casa di Dio di Padova, i poveri prigionieri o la Congregazione di S. Filippo Neri. Complessivamente la rendita così calcolata ammontò a ducati 5.790.22, che comportarono una decima pari a 579.2 ducati. Si trattò di un’imposizione assai rilevante che non poté essere trascurata e che determinò una tale diminuzione della rendita del S. Fran115 ASPd, Ospedale S. Francesco, b. 1272, c. 6. Questo registro di piccolo formato è scritto su carte numerate progressivamente. 116 ASPd, Ospedale S. Francesco, b. 1272, cc. 36-37. Si tratta di case situate a Padova. Due poste (numeri 54, 55) attestano riscossioni a titolo di tasse genti d’arme e di dadia dalla città di Padova. Sono due delle gravezze de mandato dominii cui l’ospedale era tenuto al pagamento in relazione a cetre proprietà fondiarie appunto gravate da tali prelievi. 117 ASPd, Ospedale S. Francesco, b. 1272, cc. 59-61.
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cesco che anche i servizi del nosocomio dovettero risentirne118. In coda al registro, l’estensore di queste copie pensò di aggiungere un importante documento del 1772 dei Sindaci inquisitori in Terraferma che attestava privilegi, esenzioni da dazi e gravezze su beni ospedalieri situati a Padova e nel Padovano119. Il pio ospitale di S. Francesco di questa città gode l’esenzione per tutti li suoi beni da tutte le dazioni, gravezze et angarie, sussidi e decime e da tutti li dazi fuorché li quattro sopradetti e da quello delle carni per la somma solo di ducati 6 all’anno in virtù della ducale dell’eccellentissimo senato 1413, 7 ottobre, 15 dicembre 1490, 28 febbraio 1539 e 25 luglio 1571, coll’approvazione dell’eccellentissimo Inquisitor Bondumier di 25 novembre 1626 liquidati essi beni con l’estimo autentico 1694 e sono
esattamente quei beni che si erano denunciati, appunto nell’estimo 1694, e che nuovamente comparivano, con qualche modifica negli estimi successivi. Secondo tale rilevazione, l’ospedale poteva contare su 1.622 campi120. La consistenza patrimoniale del S. Francesco oscillò notevolmente in epoca moderna, non scendendo però mai sotto i mille campi e, anzi, incrementando nel tempo la dotazione, per così dire, originaria. Non mancò mai al nosocomio quel patrimonio necessario per poter fare fronte alle innumerevoli sfide con le quali ogni ente assistenziale a favore dei poveri doveva confrontarsi. Il S. Francesco operò sempre in modo da tutelare il patrimonio avuto in dote, cosciente di essere stato investito di una grande responsabilità, etica e sociale insieme, alla quale quotidianamente si poteva trovare una risposta. Questo ospedale, non troppo diverso da molti altri nosocomi dell’epoca moderna, per poter continuare a es118 ASPd, Ospedale S. Francesco, b. 1272, c. 71. Si tratta di un documento in copia. L’originale era stato depositato in filza presso l’ufficio del magistrato alle decime del clero. Il ristretto fu calcolato il 29 febbraio 1770. 119 ASPd, Ospedale S. Francesco, b. 1272, c. 73. 120 ASPd, Ospedale S. Francesco, b. 1272, c. 79. Le indicazioni dalla b. 1272 sono state tratte dal registro privo di numero, identico a quello, con ogni probabilità scritto in seguito, che invece lo riporta. Appartengono alla medesima unità archivistica.
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sere sempre al servizio dei poveri infermi, si trovò costretto ad amministrare nel modo migliore possibile il patrimonio che gli era stato affidato in dote all’atto della fondazione. E per questo, agì come fecero altri luoghi pii, dando a livello, affittando, talvolta acquistando beni, che avrebbero prodotto una rendita necessaria per la beneficenza. In alcune occasioni l’ospedale fu coinvolto anche nel mercato finanziario caratteristico dell’età moderna che si avvalse largamente di livelli affrancabili per poter prestare denaro su garanzie reali.
L’ospedale, lo Studio e l’edificazione del nuovo nosocomio Qualche anno prima, qualcosa di molto importante si era modificato proprio all’interno dell’organizzazione dell’ospedale e dello Studio di Padova. Qualcosa che perfezionò anche dal punto di vista finanziario e formale la pratica, da qualche decennio invalsa a Padova, di insegnare la medicina anche in ospedale. Ci aveva pensato la Repubblica a emanare due ducali distinte, l’una per la medicina, l’altra per la chirurgia, per avviare l’insegnamento di dette materie all’interno del S. Francesco. Con ogni probabilità e, anzi, quasi con certezza, tale pratica clinica era da tempo già praticata a Padova, anche se non è agevole stabilire con ragionevole sicurezza il momento preciso della nascita di tale metodo didattico. Molto è stato scritto su questo punto, accreditando troppo studi condotti molto tempo fa che talvolta non sono affatto basati su ricerche affidabili121. In una posta del 1793, intestata all’eccellentissimo magistrato de riformatori, si annotò con inusuale ricchezza di particolari che lo 121 Al fine di non ripercorrere inutilmente tutta quest’ampia letteratura sottolineo che il recentissimo saggio di C. Maddalena, Dal S. Francesco, rende conto delle ricerche fatte e attesta che una pratica clinica modernamente intesa a Padova è descritta in documenti dello Studio a partire dagli anni 60 e 70 del ’700.
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Studio di Padova deve dare a entrada di denari lire mille e seicento sono per solievo delle spese incontratte e che continuamente incontra il pio ospitale, per mantenimento delle due erette infermerie inservienti alle pubbliche scuole d’istruzione di signori scolari artisti, ora dirette dall’illustrissimo signor dottor Comparetti, publico professor, come da terminazione et decreto si scode dalla magnifica ducal camara122.
Nei libri degli anni precedenti una scrittura simile almeno nel contenuto non si trova. La somma sborsata fu pari a £. 1600 ogni anno dal 1796 al 1801 per un importo complessivo di £. 8000. Il professore riscosse il salario in due momenti, il 13 aprile e il 6 settembre del medesimo anno. Quanto era avvenuto in passato presso il S. Francesco, ora, nel nuovo ospedale, poteva realizzarsi compiutamente attraverso la formalizzazione di un rapporto di reciproca collaborazione tra lo Studio e l’ospedale. La spesa per il compenso al Comparetti era in tal modo addossata a Venezia, che con ogni evidenza pensò che le spese di istruzione dovessero essere pagate con i frutti di quanto allora poteva a buon diritto considerarsi fiscalità generale. E questo in base alla convinzione che l’insegnamento universitario fosse un bene pubblico, sostenuto almeno in parte dalla camera ducale, che ridistribuiva le risorse provenienti anche dal dominio. La medesima riflessione fu anche alla base di scritture che accreditarono all’ospedale risorse per il ricovero di soldati Magnifica ducal camara sive cassa milizie deve dare a entrada di danari soldi quattro per soldato che viene in questo Ospitale giusto alle terminazioni 1626, 15 febbraro dell’eccellentissimo signor Francesco Erizzo procurator e proveditor generale in Terra Ferma, 1674, 3 marzo delli eccellentissimi inquisitori che sono registratte123.
122 Si tratta della clinica medica e della clinica chirurgica; è il primo esempio a Padova di perfetta sinergia tra la scuola di medicina e l’ospedale (ASPd, Ospedale S. Francesco, b. 1230, c. 332). 123 ASPd, Ospedale S. Francesco, b. 1229, c. 217. Il conto risulta attivo senza soluzione di continuità.
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In questi anni, dal 1796 era attivo un conto intestato alla Fabbrica del nuovo ospedale nel quale affluirono risorse lasciate da Girolamo Trevisan mentre era ancora in vita. Morto, tali importi dovevano essere usati per pagare l’onorario di un medico dell’ospedale124. Un altro conto che perseguiva le medesime finalità era intestato ad Andrea Maldura, Marc’Antonio Lenguazza e Girolamo Trevisan come presidenti della fabbrica, appunto, del nuovo ospedale. Costoro raccoglievano le questue fatte per sostenere l’impresa e le loro speranze non furono disattese. Nel 1798 raccolsero oltre £. 3550 nette grazie a una colletta organizzata dai parroci della città e consegnate dal vicario alle raccolte Francesco Scipione Dondi Orologio. In realtà si sommarono £. 4675, ma se ne dovettero spendere più di 1100 per il trasporto dei poveri dal vecchio al nuovo ospedale. Dalle cassette per le elemosine, nella stessa occasione, si rastrellarono £. 1505 e altre £. 1457.10 furono racimolate durante la serata organizzata a tal fine presso il nuovo teatro cittadino125. La contribuzione volontaria all’edificazione del nuovo ospedale della città è verosimilmente tra i segnali più forti di una cosciente partecipazione cittadina alla realizzazione di un’opera destinata ancora largamente ai poveri. Pure un altro conteggio riguardò la costruzione del nuovo ospedale. Si trattò del conto spese fabbriche che registrò abbastanza accuratamente le uscite di denaro. Si pagarono muratori, «marangoni», addetti vari al cantiere, tornitori, falegnami, terrazzieri, forniture di materiali per l’edilizia, per un impegno finanziario davvero notevole126. In questi anni difficili si spesero complessivamente £. 72672.17. All’interno di questo importo erano conteggiate anche le lire calcolate in altri 124 125
ASPd, Ospedale S. Francesco, b. 1233, c. 286. ASPd, Ospedale S. Francesco, b. 1233, c. 300.
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Molte cifre sono riportate nel quaderno che copre il periodo intercorrente dal 30 maggio 1796 al 30 aprile 1802. Fino alla fine di febbraio 1797 la somma fu pari a £. 4600.12, fino al 23 aprile 1798 a £. 5682, fino al 30 aprile 1799 a £. 15099.2, fino alla fine di aprile 1800 a £. 14334.10, fino al 30 aprile 1801 a £. 18518.8 e fino al 30 aprile 1802 £. 14438.5 (ASPd, Ospedale S. Francesco, b. 1233, cc. 310-313).
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conti sempre pertinenti alla fabbrica del novo ospedale. Se le spese per la fabbrica furono elevate, non indifferenti furono anche gli esborsi per procurare legna che veniva consumata in grande quantità. La spesa oscillava in relazione ai mesi presi in considerazione e annualmente si contarono molte migliaia di lire: da maggio 1796 ad aprile dell’anno successivo la spesa fu pari a £. 6799.7, fino ad aprile del 1798 a £. 12080.14, l’anno seguente a £. 5796.17, ad aprile del 1800 a £. 9493.2.6, ad aprile 1801 a £. 11133.11 e, alla stessa data dell’anno successivo, a £. 10672.16127. L’impegno finanziario su questo fronte fu particolarmente forte e comportò esborsi superiori a qualsiasi altra voce di spesa. Durante questi anni di grandi cambiamenti in città, le imposte che si pagavano durante il dominio della Serenissima continuarono a essere corrisposte anche dopo la sua caduta. Fino a qualche giorno prima del Natale del 1800, gravezze, campatici e redecima furono contabilizzati e gli importi complessivi risultarono di tutto rispetto. Fino a ottobre 1797, dopo qualche mese dall’occupazione francese, la somma corrisposta superò £. 13000, mentre nelle annate seguenti il pagamento si assestò a poco più di £. 1200128. La fiscalità introdotta dai francesi nel 1797 non sostituì, ma si affiancò a quella veneziana in vigore. Tutti subirono un doppio prelievo. Il governo centrale del Padovano, Polesine di Rovigo ed Adria, attraverso il dipartimento economico, finanza commercio, il 3 gennaio 1798, pochi giorni prima della caduta, emanò un proclama volto a modificare radicalmente gli assetti finanziari del S. Francesco. Fu presa la decisione di intervenire sui livelli censuari che vedevano, appunto, coinvolto l’ospedale. Il provvedimento era stato pensato per venire incontro a una difficile congiuntura finanziaria nella quale il S. Francesco si era trovato, nonostante i bilanci dei decenni precedenti avessero sempre certificato un attivo di cassa. Il governo della città decise allora di girare al pio luogo una serie di livelli affrancabili fino a poter soddisfare 127 128
ASPd, Ospedale S. Francesco, b. 1233, cc. 327-328. ASPd, Ospedale S. Francesco, b. 1233, c. 299.
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il debito verso l’erario nazionale quantificato in £. 197336.18. Questi capitali furono letteralmente espropriati ai legittimi titolari e consegnati al S. Francesco che promise di non farne alcun uso contrario, o semplicemente non in stretta relazione, alla propria mission. Nemmeno gli interessi potevano essere spesi per ragioni diverse dal mantenimento del pio luogo o dei poveri in esso accolti. Si trasferirono in tal modo 35 contratti di livello affrancabile: i debitori rimanevano gli stessi, i creditori invece persero il loro diritto sul proprio capitale che fu appunto girato all’ospedale. I democratici padovani intesero in tal modo sottolineare che le esigenze anche di carattere finanziario di un ente responsabile dell’erogazione di un bene pubblico, com’erano sia la cura dei malati sia l’assistenza dei poveri, potevano e anzi dovevano prevalere sugli interessi, pur legittimi, o di singoli o di enti meno coinvolti nella vita sociale cittadina129. Erano gli ultimi anni di vita del S. Francesco, dopo che per più di tre secoli aveva servito Padova e, in particolar modo, i suoi poveri. Nell’assai ricca contabilizzazione del S. Francesco emerge il fatto che nei registri riguardanti gli anni della costruzione dell’ospedale nuovo non vi sia, a quest’impresa, riferimento alcuno. Segno inequivocabile che l’edificazione di un nuovo ospedale a Padova fu affare non del S. Francesco, ma di altre agenzie interessate al progetto. Ci volle qualche tempo perché potesse considerarsi conclusa la scommessa: si partì da lontano, dalle sventure cui andò incontro la Compagnia di Gesù, già scacciata dallo stato veneto agli inizi del ’600, riammessa dopo alcuni decenni e soppressa da papa Clemente XIV il 21 luglio 1773, che pertanto abbandonò Padova. Lasciò alla città la vasta area occupata dal convento e la chiesa di S. Maria Maddalena che in fretta furono considerati il luogo più idoneo alla costruzione di un nuovo ospedale cittadino, stante una situazione logistica piuttosto critica del S. Francesco. Non che i bilanci avessero evidenziato una situazione di grave sofferenza, piut129 ASPd, Ospedale S. Francesco, b. 1278, carte sciolte. Del provvedimento esistono due copie.
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tosto, il vecchio ospedale era ormai in condizioni tali da non poter assicurare né assistenza al sempre più alto numero di richiedenti né un favorevole ambiente di cura e scientifico per la crescita della scienza medica che proprio a Padova era sempre stata particolarmente viva. Ospedali erano attivi in tutte le città europee e Padova non poteva sfigurare nel confronto con le più prestigiose istituzioni degli stati europei dell’età moderna. Le condizioni generali per procedere alla realizzazione del progetto c’erano e il percorso per dare il via ai lavori veri e propri fu relativamente breve. Serviva l’avallo di Venezia, che autorizzasse l’occupazione dell’area, nel frattempo divenuta proprietà demaniale. Il provveditore Andrea Memmo ottenne dal senato veneziano la facoltà di procedere e l’architetto Domenico Cerato assunse l’impegnativo incarico di costruire il nuovo edificio. La costruzione iniziò il 4 marzo 1778, ma meglio sarebbe dire la demolizione del convento, poiché la prima pietra fu posta solo il 20 dicembre dello stesso anno.
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La salute pubblica, l’ospedale nuovo e la Congregazione di carità L’inizio del XIX secolo, nella Penisola e in Europa, segnò l’avvio dell’ospedale luogo di pratica nosocomiale frutto di saperi consolidati e nuovi. Da una parte, i luoghi della carità legale si andavano differenziando da quelli preposti all’assistenza medica, dove la cura del malato era diventata faccenda assolutamente prevalente e, dall’altra, la clinica, svolta anche come studio della malattia, aveva contribuito a influenzare fortemente la fisionomia dell’ospedale ottocentesco, ormai orientato alla specializzazione: cliniche universitarie, sifilocomi, pellagrosari, manicomi, ospedali antimalarici e per scrofolosi costituivano la migliore offerta d’assistenza possibile1. Alle settecentesche cliniche medica e chirurgica se ne erano intanto affiancate altre: l’ostetrica, la dermatologica per le malattie veneree, l’ortopedica e, prima tra tutte, l’oculistica, che a Padova iniziò ufficialmente a operare nel 18202. Irruppe in ospedale un sapere scientifico sempre più complesso che già annunciava l’avvento di una nuova pratica clinica sempre più attenta alle indagini di laboratorio. Il nosocomio padovano non fu un’eccezione. Assolse per secoli molteplici funzioni sociali e solo assai lentamente emerse il suo profilo di ente dedicato al recu1 Si deve alle pionieristiche ricerche di Foucault la caratterizzazione dell’attività propriamente clinica in rapporto a quella assistenziale, Michel Foucault, Nascita della clinica una archeologia dello sguardo medico, Introduzione e traduzione di Alessandro Fontana, postfazione di Mauro Bertani, Torino, Einaudi, 1998. 2 Edoardo Midena, Mario Angi, Cesare Bisantis, L’occhio e le sue malattie nelle raccolte dell’università di Padova. Note storiche, Feltre, Graphic Group, 1995, p. 9.
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pero della salute del malato da raggiungere in perfetta sinergia con le cliniche universitarie3. Parallelamente allo sviluppo dell’istituzione ospedaliera, era crescita pure una forte consapevolezza sociale in modo particolare nell’affrontare alcune patologie. Tra il 1802 e il 1803, fu condotta un’indagine completa sulle case di postribolo attive a Padova con il dichiarato intento di verificare lo stato di salute delle malcapitate. Le malattie veneree erano sempre state una minaccia implacabile alla salute pubblica che, ormai, era evidente a molti, essere un bene pubblico da tutelare e, addirittura, da promuovere. Più che i risultati del monitoraggio, conta soprattutto sottolineare il metodo adottato per controllare lo stato di salute delle donne. A Padova erano attive 10 case, ognuna diretta da un impresario, di grandezza diversa tra loro. Il numero delle donne impiegate era molto variabile. I postriboli furono identificati in base all’ubicazione urbana e al nome del capo posto o impresario. Spesso le donne provenivano da città diverse da Padova: nella contrada Man di Ferro, la visita effettuata il 14 giugno rilevò la presenza di tre donne di Vicenza, Venezia e Udine di età tra i 18 e i 24 anni. Due apparivano sane, l’altra sofferente di gonorrea e ulcere. Il 7 luglio le donne si erano ridotte a due, una delle quali già nella lista precedente. Le visite si susseguirono il 24 luglio, il 9 agosto, il 27 settembre, il 19 e 24 ottobre e l’8 novembre. Alcune donne guarirono4. A giugno 1803 si contarono ben 6 donne provenienti da Brescia, Trieste e dall’Olanda. Qualche donna fu ricoverata in ospedale, altre furono semplicemente diagnosticate sofferenti delle solite alterazioni, qualcuna con sospetta scabbia. La maggior parte delle donne incontrate furono ritenute sane; solitamente rimanevano nella stessa casa poco tempo e provenivano spesso da città lontane. Questo libro non riporta il nome del chirurgo incaricato della visita e nemmeno l’ufficio al qua3 Il contributo scientifico offerto dalla facoltà medica padovana in questo tempo è delineato da Giampietro Berti, L’università di Padova dal 1814 al 1850, Treviso, Antilia, 2011, pp. 177-263. 4 ASPd, Ufficio di sanità, b. 521. Libro delle case di postribolo, c. 15.
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le tale documentazione doveva essere inoltrata. Ma in altro fascicoletto, incluso nel registro, il chirurgo incisore che visitò le donne ha un nome, trattandosi di Domenico Menato, in servizio presso l’Ufficio di sanità. La procedura e i dati raccolti furono i medesimi. Nello stesso periodo, l’ufficio di sanità fu pure impegnato in altre assai rilevanti questioni di sanità pubblica: il controllo dell’epizoozia che aveva colpito un numero imprecisato, ma sicuramente molto elevato, di animali destinati al macello, l’accertamento delle condizioni igieniche di strade, marciapiedi e piazze e, non ultimo il monitoraggio continuo della presenza dei vagabondi in città. Questa era certo la funzione più antica, che da tempo ormai ricadeva nelle competenze dell’Ufficio di sanità. Il 18 settembre 1800 dall’Imperial regio supremo tribunal di sanità fu approvato un proclama che ribadiva la normativa già in vigore circa la possibilità di chiedere l’elemosina, sulla base delle attuali circostanze di sempre più riflessibile aumento di pitocchi, birbanti, vagabondi e questuanti forastieri in questa città [...] a danno de’ poveri nazionali ed a molestia delle persone sulle strade, chiese e piazze pubbliche, questo Imperial regio supremo tribunale, cui è dipendente la grave materia e cui sta sempre a cuore il miglior ben essere de’ propri nazionali5.
Come era avvenuto in passato, il contrasto alla povertà passava attraverso l’identificazione dei poveri meritevoli d’aiuto e di quelli immeritevoli, da allontanare dallo Stato. Qualche problema l’Ufficio incontrò pure nel vigilare l’attività dei farmacisti e delle farmacie e per qualche caso di contraffazione, come nel caso dell’olio di S. Giustina. Era un prodotto da tempo riconosciuto utilissimo che fu spesso contraffatto e venduto anche in mercati lontani. A tutela del composto, il Regio ufficio di sanità di Padova il 16 agosto 1799 stabilì che il vero olio potesse essere commercializzato solo dalla spezieria del monastero, munito dei 5
ASPd, Ufficio di sanità, b. 524, Avviso ai pitocchi nazionali.
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sigilli governativi e dell’abbazia. Peccato non si dica nulla degli effetti miracolosi del composto6. Molti altri interventi furono fatti per regolare le tumulazioni che dipendevano strettamente dai parroci, come era consuetudine anche nello stato veneto. Un monitoraggio continuo l’Ufficio di sanità portò a termine sull’andamento delle malattie insorte nelle carceri e nell’annessa infermeria. Nominato il carcerato si procedeva a definirne il quadro clinico e talvolta anche la terapia. Qualcuno soffriva di febbre lenta continua che «con l’uso delle decozioni amare antifebbrili e purgazione iterate va migliorando di molto»7. Un altro, affetto da tosse e raffreddore, emetteva sangue, ma ben curato anche con olio di lino, non stava peggio. Un carcerato obeso e pletorico, grazie a due prelievi di sangue e a purghe, guarì completamente. Qualche altro soffriva per percosse ricevute, per un dolore reumatico a un ginocchio; molti erano affetti da febbre terzana o semplice. C’era pure un epilettico che rifiutava ogni intervento terapeutico. Una donna era stata colpita da rogna che sembrò rispondere a speciali unguenti a giorni alterni. Questa attività non solo rinvia a una particolare sensibilità pubblica nei confronti di persone ammalate, ma pure a una preoccupazione assistenziale. La nota era invero indirizzata al protomedico Francesco Fanzago «per quelle riflessioni e suggerimenti che credesse opportuni». In altra simile nota del mese di aprile, ancora indirizzata al Fanzago perché esprimesse il proprio parere, il numero degli ammalati aumentò. Un paziente affetto da epilessia era curato con valeriana silvestre e china. Altri soffrivano di febbre gastrica, di forte raffreddore di petto e molti di rogna. Si stabilì che nessuno era colpito da febbre gialla e si chiese che fossero trattati i materassi di lana perché i pidocchi erano davvero molti8. Chi era malato di gonorrea era curato con qualche purgante e decotto di malva. Non in ogni nota compare l’indica6 ASPd, Ufficio di sanità, b. 524. Proclama dell’Offizio in proposito dell’olio detto di S. Giustina. 7 ASPd, Ufficio di sanità, b. 398. 30 gennaio 1805, Padova. 8 ASPd, Ufficio di sanità, b. 398. Primo aprile 1805, Padova.
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zione che la medesima era da sottoporre al Fanzago; in una firmata da Francesco Gagliardi, medico fisico delle carceri e della casa d’arresto, tale precisazione, appunto, è assente. Costante fu invece la dichiarazione che dei «mali epidemici ed attaccatizi non vi è alcun sospetto nella infermeria». Chi soffriva di febbre doppia terzana trovava un qualche beneficio dall’uso di decotto di china. Le occasioni nelle quali l’Ufficio di sanità fu chiamato a intervenire furono ancora molte, in particolare in tutti quei casi nei quali l’attività di un privato nuoceva al benessere collettivo. L’Ufficio aveva il potere di proibire o di permettere l’accesso a beni come l’acqua, che nessuno per qualsivoglia attività poteva mettere in serio pericolo. Insomma, l’Ufficio era molto concentrato nella tutela dell’ambiente e della salute pubblica9. Infine seguiva con grande attenzione il diffondersi del vaiolo soprattutto nelle campagne circostanti la città. Molta attenzione fu invero prestata anche per altre patologie ritenute a torto o a ragione infettive. Nell’occasione di un soggetto affetto da febbre nervina, uscito dal carcere e trasferito in ospedale, la Congregazione di carità, organo non competente in materia strettamente sanitaria, notò che il trasporto di simili infermi può fatalmente diffondere la malattia ed introdurla specialmente nello spedale, che ne è finora fortunatamente immune, tanto più che ne può essere responsabile la Congregazione verso i militari francesi e italiani. È meno male che tali infermi rimangano nella infermeria delle carceri, come avrebbe potuto rimanervi l’antedetto [...] fino alla sua guarigione10. 9 Non si può stabilire con certezza se l’Ufficio di sanità lavorasse nella consapevolezza di una qualche relazione tra ambiente e salute, ma si può verosimilmente credere che specialmente dopo l’opera e le riflessioni di Ramazzini, qualcosa del genere fosse pur entrato nel bagaglio scientifico e culturale di chi operava in ambito sanitario. Sulla celeberrima figura del Ramazzini si vedano gli atti del convegno Clinica e sperimentalismo nella medicina di Bernardino Ramazzini, Roma, 2012 e gli atti del Simposio Bernardino Ramazzini e il suo tempo, a cura di Vito Terribile Wiel Marin, M. Rippa Bonati, Padova, La garangola, 2001. 10 ASPd, Prefettura, b. 21, fasc. VI. Beneficenza pubblica. Ospitali civili, lettera al prefetto del Dipartimento della Brenta, 30 aprile 1808.
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Il modo di precedere prevedeva che l’ufficio di Sanità di Padova, una volta in possesso del vaccino, lo trasferisse poi ai medici attivi nelle comunità rurali circostanti perché dessero avvio all’operazione di vaccinazione. Ancora nel 1805 uno dei tanti medici impegnati in questo, scrivendo all’Ufficio di sanità, dichiarò per quanto sarà possibile procurarò che sia praticata la vaccinazione, ma è incredibile la renitenza che si trova nell’universale; per persuader molti, tanto da minaciarle il sequestro nelle proprie case al caso di sopravvenienza di vaiuolo naturale11.
Nella piccola comunità di Arzergrande 12 persone erano risultate affette, anche bambini di pochi anni e uno solo adulto di 26. Di questi, due morirono; tutti gli altri migliorarono e guarirono. Furono i parroci, in molti casi, a informare l’Ufficio di sanità che il male contagioso del vaiolo si era manifestato nella loro parrocchia. Autorità civile e religiosa combatterono insieme il contagio, anche attraverso un’opportuna informazione che, partendo dagli altari, aveva di certo un’efficacia tutta particolare. Dal punto di vista istituzionale, fino agli anni Venti dell’Ottocento, gli enti assistenziali, comunemente denominati opere pie, erano sottoposti alla Congregazione di carità, istituita nel 1807 sul modello francese dei bureaux de bienfaisance. Questa, a sua volta, era soggetta al controllo della prefettura e del Ministero, prima del Culto e poi dell’Interno12. Il 31 dicembre 1825, la Commissione liquidatrice dei crediti e debiti della pubblica beneficenza ebbe cura di preparare una Distinta delle spese sostenute dalla Congregazione di Carità in Padova, ricca d’informazioni sull’intero universo assistenziale attivo in cit11
ASPd, Ufficio di sanità, b. 398. 27 aprile 1805. Padova.
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Il significato politico della riforma del 1807 è analizzato da G. Silvano, Origini e sviluppi del Terzo settore italiano, pp. 36-39. La Congregazione doveva stendere un bilancio annuale, tenere i libri contabili e gestire un protocollo unico, indipendentemente dal numero di enti amministrati.
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tà13. Di questo facevano parte nove realtà, ridotte a sette per ragioni contabili: l’Ospedale degli infermi, la Casa degli esposti o Casa di Dio, l’Orfanotrofio delle grazie per orfani e mendicanti, le Zitelle gasparine, il Soccorso, il Soccorsetto, i Poveri vergognosi, le Venti commissarie e il Monte di pietà14. Dapprima si determinarono gli oneri sostenuti dalla Congregazione per spese d’amministrazione da giugno 1808 alla fine del 1822 e poi le riscossioni di ogni ente, classificate secondo il titolo: affitti, livelli, interessi, legati, dozzine dei militari, dozzine dei civili, proventi straordinari, ricavi dei lavori, prodotti dei beni per economia. Non ogni istituto poteva contare su ciascuno di questi introiti. Facevano seguito un riparto delle quote a carico di ciascun organismo di pubblica beneficenza per i costi generali d’amministrazione della Congregazione e un riepilogo delle quote dovute da ciascun istituto. Limitando l’analisi all’ospedale, dal 1808 al 1822 esso aveva accumulato un debito verso la Congregazione pari a complessive 9.717,190 lire italiane. Tale somma doveva essere girata a credito della Casa di Dio per 4.085,712 lire, che in tal modo risultava non più debitrice nei confronti della Congregazione; ai Poveri vergognosi per 1.396,295, che così pure annullavano il proprio debito; alle Venti commissarie per 495,527 lire che, dopo avere detratto il debito accertato fino al 1817 dal credito contabilizzato dal 1818 al 1822, si trovava a poter con13 ASPd, Ospedale civile, b. 1278, Atti relativi alla liquidazione e riparto delle spese d’amministrazione di tutti gli stabilimenti di beneficenza dal 1808 usque 1822, mazzo XLI. 14 Si tratta di opere pie orientate a fini diversi: elemosinieri, educativi e ospedalieri. La Casa di Dio era un ospedale per neonati abbandonati trasferito nel 1784 a S. Giovanni da Verdara e poi dal 1808 in via Ognissanti; le Zitelle gasparine era un conservatorio per fanciulle poverissime; il Soccorso era destinato a fanciulle abbandonate. Su questi luoghi pii sono utilissime le informazioni contenute nell’archivio della Prefettura. La mission di ciascun ente fu assai ben delineato in ASPd, Prefettura, b. 615, 1851, Beneficenza. Ricovero ed industria. Inoltre è molto utile l’ampia introduzione al tema dell’assistenza di Giorgetta Bonfiglio Dosio, Pianeta emarginazione: gli archivi degli Istituti di assistenza e beneficenza della provincia di Rovigo, Rovigo 1999 (Archivi della provincia di Rovigo, 1).
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tare su una somma, nei confronti della Congregazione, pari a quanto l’ospedale doveva girare e, infine, al Monte di pietà per 3.739,656 lire, che andavano a compensare un credito più elevato a favore della stessa Congregazione15. Si posero in essere tante partite di giro da assicurare, agli enti padovani di pubblica beneficenza, un chiaro e ben determinato equilibrio finanziario. Più complessa fu la procedura per determinare la quota che ogni ente doveva alla Congregazione per sostenerne l’attività amministrativa, che costava 1.721,855 lire il mese16. Si stabilì dapprima l’ammontare complessivo della spesa che era passata da 4.280,496 lire nel 1808 a poco meno di 25.000 nel 1822, per poi assegnare la quota spettante a ogni realtà, a sua volta corrispondente all’ammontare degli introiti. Dall’analisi dei dati si comprende che l’ospedale era responsabile nei confronti della Congregazione di una quota oscillante tra poco più del 40% a poco meno del 30%, rispetto all’intero ammontare di quanto dovuto. Per ciascun ente fu anche determinata la composizione degli utili, che serviva da base di calcolo della contribuzione. L’ospedale poteva contare su un’ampia gamma di ricavi, alcuni dei quali di natura finanziaria. C’erano anzitutto gli affitti sia d’immobili sia di fondi, che avevano assicurato negli anni un incasso assai rilevante. Meno significative erano le entrate da li15
Dopo molti anni dalla chiusura dei conti, il 21 gennaio 1835, l’Istituto degli esposti, o Casa di Dio, reclamò dall’ospedale la somma spettante «mancante tuttora quest’ufficio dei riscontri che si sono richiesti a cotesta spettabile direzione e amministrazione [...] sull’argomento dei creditori questo istituto dal civico spedale per conguaglio di spese di amministrazione durante il tempo in cui tutti gli stabilimenti di beneficenza erano concentrati nel corpo della già cessata congregazione di carità» (ASPd, Ospedale civile, b. 1272, fasc. 299). 16 L’organico comprendeva un segretario centrale, un archivista generale, un protocollista generale, tre aggiunti alle sezioni, un assistente alla segreteria, un capo ragioniere, un cassiere generale, il primo aggiunto alla ragioneria, il secondo aggiunto alla ragioneria, un protocollista della ragioneria, un giornista, tre gastaldi di città e Piove di Sacco, di Este e di Camposampiero, un giornista in servizio alla ragioneria, un giornista scrittore e un portiere. Il più pagato era il ragioniere capo che guadagnava 183,333 lire il mese. Cessata la Congregazione, le spese di amministrazione del nuovo organismo si ridussero a 712,218 lire il mese, avendo proceduto a ridurre sia il personale sia alcuni salari (ASPd, Ospedale civile, b. 1272, fasc. 367).
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velli, decime e interessi da capitale. Anche i legati a favore dell’ospedale non erano trascurabili. Infine incassava dozzine da militari e civili, lucrava su livelli censuari e godeva pure di ricavi straordinari. I grafici seguenti illustrano, appunto, questa particolare dinamica di spesa. Il grafico 1 evidenzia l’incidenza delle spese d’amministrazione in relazione ai ricavi: più erano elevati tanto minore era la spesa in termini percentuali. 25.000
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Grafico 1
Il grafico 2 chiarisce il rapporto tra ricavi e costi di amministrazione. 250.000
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Grafico 2
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Il grafico n. 3 evidenzia la quota della spesa d’amministrazione dell’ospedale sulla spesa complessiva d’amministrazione. 30.000 25.000 20.000
Spesa generale amministrazione % sul totale
15.000 10.000 5.000 0 08
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Grafico 3
Sebbene, dopo la cessazione della Congregazione, fosse stato preparato un bilancio che sanciva, almeno sulla carta, il raggiungimento di un accordo con gli enti sottoposti al suo controllo, tuttavia rimanevano sul tappeto molte controversie, riguardanti anche il riparto delle quote da assegnarsi a ciascuno per il pagamento degli amministratori. In particolare la Casa degli esposti, il 21 novembre 1823, aveva rilevato che l’ospedale civile, se aveva potuto contare su maggiori trasferimenti di risorse, perché tenuto alla cura e mantenimento di militari ammalati sia francesi sia italiani – si trattava delle cosiddette «dozzine» – doveva per ciò stesso fronteggiare maggiori spese di amministrazione; queste si sommavano a quelle per «maniaci, sifilitici e cliniche. Queste ultime, sotto l’attuale governo, aumentate, mercé le benefiche cure del nostro Augusto Sovrano, dal di cui erario viene esatto il relativo compenso» e dovevano essere conteggiate tra le attività dell’ente17. Questo ci informa di un passaggio importante per la storia delle relazio17 ASPd, Ospedale civile, b. 1272, fasc. La direzione e amministrazione dell’Orfanotrofio di S. Maria delle Grazie, n. 108.
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ni tra ospedale e università, alla quale le cliniche facevano riferimento. Inoltre, ancora a proposito delle stime operate dalla Commissione liquidatrice dei debiti e crediti degli istituti amministrati dalla Congregazione, il 12 marzo 1845, l’ospedale si dette la briga di rifare i calcoli per sé e per gli altri enti coinvolti. Da questi risultarono differenze apprezzabili: il debito dell’ospedale pari a 9.717,182 lire si era trasformato in un credito di 967,555 lire, non avendo modificato i trasferimenti effettivamente avvenuti, ma aggiustando l’entità delle uscite a favore della Congregazione18. L’ospedale, istituto di beneficenza, opera pia soggetta alla normativa vigente, aveva un ampio margine di autonomia, sia gestionale sia operativa, e poteva contare su introiti pubblici e privati dei quali doveva rendere conto annualmente in documenti contabili redatti con grande cura e professionalità. La Congregazione di carità aveva svolto i propri compiti amministrativi e contabili creando una ricca documentazione di natura finanziaria riguardante lo spedale civile, che aveva assunto tale denominazione il 29 marzo 1798, quando la nuova sede si era aperta agli infermi. La contabilità disponibile è molto ricca: in una serie di «libri della entrata e della spesa», senza soluzione di continuità dal 1488 si trova la registrazione di ogni movimento finanziario che abbia interessato l’ente. Si tratta di 150 quaderni di cassa, di grande formato, organizzati a facciate contrapposte19. Non risulta che vi sia la serie dei giornali corrispondenti, ma che si tratti di quaderni, si comprende dalla natura delle scritture, sebbene, formalmente, questi abbiano solo in parte le caratteristiche contabili di un mastro20. Sono spe18 ASPd, Ospedale civile, b. 1272, fasc. Commissione di pubblica beneficenza. 19 L’ultimo della serie copre gli anni durante i quali l’ospedale fu amministrato dalla Congregazione di carità (ASPd, Ospedale civile, b. 1236). Altri libri contabili si riferiscono agli anni dalla fondazione al 1552. La serie è completa dal 1569. 20 Manca ogni riferimento al giornale di cassa e le poste registrate non sono organizzate secondo il metodo della partita doppia o alla veneziana. Altri enti considerati allora di beneficenza, come il Monte di pietà, tenevano
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se per il personale, come nel caso di Francesco Antonio Trevisan, segretario, che aveva prestato servizio straordinario nel 1816 e per quest’occupazione gli erano state riconosciute 400 lire21. Molte scritture addebitano alla cassa della Congregazione i salari degli addetti: al gastaldo del distretto di Padova andarono, nel 1816, 62 lire il mese, a quelli dei distretti di Este, Piove di Sacco e Camposampiero poco più di trentotto22. Nel medesimo quaderno sono contabilizzate le spese minute e diverse. Nella sezione del dare sono elencati i beneficiari dei trasferimenti giustificati sulla base di specifiche note di spesa approvate dalla Congregazione. A ogni beneficiario era intestato un conto immediatamente rintracciabile in quaderno seguendo la segnalazione della carta, scritta a fianco dell’indicazione dell’importo, nella scrittura generale intestata alle spese minute e diverse23. Anche il percorso contrario era reso possibile dall’indicazione, nel conto particolare dell’interessato, della carta ove la posta era trascritta nel conto generale. Molto importante fu il conto intestato ai depositi, a loro volta contabilizzati nel conteggio generale della cassa depositi della Congregazione di carità, sempre all’interno dello stesso quaderno. La tipologia delle poste è davvero assai varia e sta a indicare come questa giocasse ruoli finanziari tipici dell’attività bancaria. A favore dell’ospedale e di altri enti di beneficenza fu organizzata a Padova una raccolta fondi attraverso una «tombola» in Prato della Valle. Le somme raccolte furono una contabilità a partita doppia, come ha posto in rilievo G. Silvano, A beneficio dei poveri. Il Monte di pietà di Padova tra pubblico e privato, pp. 73-129 e Far di conto in Età moderna, pp. 173-195. 21 ASPd, Ospedale civile, b. 1236, c. 44. 22 ASPd, Ospedale civile, b. 1236, cc. 104, 106, 108, 110. 23 Tra i molti fornitori della Congregazione, compare anche tal Giacomo Varotto, al quale vengono accreditate 19.420 lire per spese sostenute nel mese di settembre 1816 (b. 1236, c. 218). Al medesimo è intestato un conto «per le spese minute occorrenti per gli uffizi interni della congregazione». Complessivamente esse ammontarono per l’intero 1816 e per i primi tre mesi dell’anno successivo a 360.250 lire (c. 388). Tra i compiti assolti risulta anche il pagamento della tassa di registro su contratti di affitto di beni di proprietà dell’ospedale, ma amministrati dalla Congregazione.
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piuttosto elevate, tanto che a luglio 1813 si distribuirono addirittura 1.998,100 lire, ricavate dall’iniziativa del marzo precedente24. Moltissimi depositi erano stati fatti a titolo di cauzione, da chi intendeva affittare case o terreni dell’ospedale. Si trattava, nella maggioranza dei casi, d’importi non troppo elevati, oscillanti da alcune decine a qualche centinaio di lire. Ancora a titolo di cauzione era necessario depositare una determinata somma di denaro da parte di chi voleva partecipare alla vendita all’asta di beni di proprietà dell’ospedale o di altri enti di beneficenza. Il Monte di pietà non fu per nulla coinvolto in questo genere di procedure: la Congregazione amministrava e tutelava gli interessi degli istituti di pubblica beneficenza cittadini e, per operare, svolgeva di fatto anche funzioni d’intermediario finanziario. A ogni depositante fu aperto un conto personale, in quello della cassa depositi erano contabilizzate tutte queste transazioni. Dell’elezione del marchese Galeazzo Dondi dall’Orologio a cassiere, il 31 maggio 1816, rende conto il quaderno, che accredita alla cassa, il primo giugno 1816, una somma pari a 1.120,850 lire, qual era stata certificata, il 4 gennaio 1816, dal notaio Gaetano Zabeo, dopo la morte del cassiere in carica25. Ben più consistente era l’attività finanziaria della cassa della Congregazione che movimentava somme pari a 20.341.349 lire per far fronte al pagamento di onorari, spese minute e, in generale, di ogni altra somma dovuta26. Alcuni anni dopo, il primo gennaio 1817, il saldo di cassa era pari a poco meno di 7.500 lire27. In questo calcolo, i fondi erano accreditati da ognuno degli enti di pubblica beneficenza, com’era avvenuto il 13 dicembre 1809, quando si certificò, attraverso una scrittura con24 25
ASPd, Ospedale civile, b. 1236, c. 230. ASPd, Ospedale civile, b. 1236, c. 273. Nella sezione dell’avere risulta-
no contabilizzate tutte le restituzioni delle cauzioni prestate in precedenza. 26 ASPd, Ospedale civile, b. 1236, c. 282. L’anno di riferimento è il 1814. 27 Questo non significa che i pagamenti effettuati fossero stati, in questi anni, inferiori o di minore entità rispetto a qualche anno prima. Sembra piuttosto che gli impegni di spesa fossero notevolmente aumentati, almeno nel numero (cc. 291, 292).
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tabile, l’avvenuto pagamento da parte del nosocomio cittadino: «il pio ospitale degli infermi lire mille pagate a conto della quota semestrale di giugno per le spese di amministrazione»28. Questa somma era fissata dal Ministro dell’Interno e pertanto nel bilancio di ciascun ente si dovevano accantonare risorse a tal fine; l’ospedale civile, per spese di amministrazione, da accreditare alla cassa della Congregazione, impegnò per il triennio 1809-1811 una somma complessiva maggiore di 28.000 lire, la Casa di Dio si obbligò per meno di un terzo di quanto assicurato dall’ospedale29. La Congregazione non era responsabile per il salario dei dipendenti dell’ospedale. Altre scritture attestano molti esborsi sostenuti per la manutenzione generale degli uffici della Congregazione o per altri piccoli interventi; più consistente era la rata per l’illuminazione e il riscaldamento, per il quale si adoperavano legna, carbone e carbonella30. Essa era anche tenuta al pagamento d’imposte, come risulta da una posta che certifica la spesa di 200 lire a titolo di liquidazione del contributo Brenta per l’anno 181331. Nel complesso anche il funzionamento dell’ufficio risultò essere piuttosto oneroso, tanto da assorbire quote non trascurabili degli introiti del nosocomio. Una funzione assai importante, svolta dalla Congregazione, fu la gestione dei ricchi lasciti e commissarie, che avevano dotato l’ente ospedaliero di un patrimonio che ne assicurava l’operatività. Tra le altre, la responsabilità legata alla gestione della ricca eredità Rubiani Carteri, risalente alla fine del 28 Questa scrittura contabile si trova nella sezione del dare del conto intestato alla cassa della Congregazione di carità. Nella sezione dell’avere risultano i singoli pagamenti effettuati agli aventi diritto. Ogni posta è accompagnata da un numero di carta che consente il rinvio ai singoli conti (ASPd, Ospedale civile, b. 1236. c. 303). 29 ASPd, Ospedale civile, b. 1236, c. 365. 30 ASPd, Ospedale civile, b. 1236, c. 318. La spesa si aggirava tra le 400 e le 500 lire per anno. Più elevate erano le uscite per carta, libri e penne (c. 320). 31 ASPd, Ospedale civile, b. 1236, c. 362. L’ente pagava inoltre la tassa di registro su ogni atto riguardante i beni immobili che lo vedevano coinvolto.
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XV secolo, impegnò tanto l’ente amministratore, da affidare tutta la materia a uno specifico quaderno contabile. Le rendite assegnate all’ospedale, e amministrate dalla Congregazione, provenivano da fonti diverse tra le quali c’erano affitti di case e botteghe situate a Verona, che complessivamente rendevano 1467,16 lire l’anno32. Molti erano i fondi rustici e le annesse case coloniche che, nel loro complesso, assicuravano all’ospedale introiti di tutto rispetto, ascendenti a diverse migliaia di lire, come nel caso di una proprietà situata a Malcesina che, garantiva oltre 5.000 lire ogni sei mesi33. Tanti erano i contratti di livello che, se complessivamente rendevano meno degli affitti, tuttavia davano garanzia di una buona conduzione dei fondi rustici che, altrimenti, con buona probabilità, sarebbero rimasti incolti. Infine, non potevano certo mancare introiti a titolo d’interesse su somme date a credito attraverso il tradizionale contratto del livello censuario. Su 18.420,444 lire al 6%, l’ospedale incassava 1.105,226 lire, pagabili in due rate il 30 aprile e il 30 ottobre di ogni anno34. Gli interessi erano pagati anche su cambiali, al tasso del 5 o del 6%. A carico delle eredità disposte a favore dell’ente a volte si trovarono alcuni aggravi a beneficio d’istituti ecclesiastici, come la mensa vescovile o la caneva canonicale o di alcuni privati, che potevano vantare qualche livello attivo. L’ospedale, da una parte, beneficiava di rendite che, dall’altra, in parte era tenuto a corrispondere ad aventi diritto. La composizione della rendita del luogo pio ne assicurava soprattutto la stabilità economica e finanziaria, così da poter assicurare il raggiungimento degli obiettivi prefissati35. Le rendite finanziarie costituivano una quota assai inferiore rispetto agli introiti derivanti dal patrimonio fondiario. E questo anche allora era un indice di stabilità. 32 33
ASPd, Ospedale civile, b. 1240, cc. 1, 4, 7. ASPd, Ospedale civile, b. 1240, c. 19. Tra le produzioni figura anche
il riso. Una risaia di quasi 35 campi, ancora a Malcesina, rendeva ogni anno mediamente oltre 6000 lire (c. 26). 34 ASPd, Ospedale civile, b. 1240, c. 61. 35 Appendice A.
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La Deputazione comunale di sanità, l’ospedale e il suo funzionamento Nei primi decenni dell’Ottocento l’ospedale, che ormai ospitava stabilmente reparti clinici, dipendeva strettamente, per quanto riguardava l’amministrazione, dalla Congregazione di carità. Di questo stretto rapporto sopravvive una documentazione piuttosto ricca, sebbene spesso costituita da fascicoli molto scarni che, comunque, consentono di disegnare il profilo di un ente, l’ospedale nuovo, che aveva assunto caratteri innovativi rispetto al vecchio nosocomio S. Francesco. La documentazione copre il periodo dal 1817 al 1821. Prima di questa data, parallelamente all’amministrazione ospedaliera, operava pure una Deputazione comunale di sanità di Padova, che ebbe cura di preparare un bilancio completo delle proprie spese a partire dal primo gennaio 1808. La Congregazione entrò in attività qualche anno dopo, senza interferire con la Deputazione che, invece, era impegnata a stanziare risorse per tutte quelle attività extraospedaliere concernenti la salute della popolazione. Più di 1350 lire venete erano in cassa contanti della deputazione il 31 dicembre 180736. Le attività registrate in dare contarono anche il frumento conservato nel granaio e presso il monte; un moggio di frumento valeva 77 lire e poteva arrivare anche a £. 92. Tra le spese si annotarono i salari degli impiegati della Deputazione, ascendente a £. 551.19 il mese e vari trasferimenti a diversi aventi diritto. La Deputazione spese per il campatico annuale l’assai esigua somma di £. 2.7, allorquando per la rata di maggio dell’imposta prediale fu costretto a spendere £. 829.17. A marzo si erano spese solo £. 813.6.6 e a gennaio 706.19. I festeggiamenti in occasione della solennità di S. Rocco, il 16 agosto, costò poco meno di 40 lire. Tra i costi si scrisse anche quello a favore di un certo dottor Salmaso «per l’innesto della vaccina». La somma fu spesa il 15 settembre 1808. In cassa contadi si registrarono movimenti per un totale di £. 8625.19.4 fino alla 36 ASPd, Ufficio di sanità, b. 524. Bilancio dello scosso e dello speso per conto della Deputazione di sanità in Padova. Cassa contanti.
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fine di settembre 1808. Una contabilità separata fu tenuta per il monte frumento che complessivamente, comprese le rimanenze 1807, contò 62 moggi di frumento che furono venduti a prezzi variabili tra maggio e la fine di agosto e i primi di settembre. In primavera il grano costava più che in autunno. Questo bilancio di cassa è accompagnato da molti altri documenti contabili generalmente su base mensile. Nel mese di dicembre 1809, la Deputazione introitò più di 1030 lire e ne spese solamente 723.12.637. Nel mese precedente ricavi e spese furono maggiori, attestandosi a oltre 4000 lire. Tra le spese talvolta si trova la generica indicazione di pagamenti per oggetti sanitari. Ben si comprende che la Deputazione era tenuta a monitore la spesa sanitaria assiduamente, nella certezza che il compito assunto era della massima importanza. Simili spese, che potrebbero definirsi di minuto mantenimento e per il funzionamento dell’ufficio, erano a carico, in età veneziana, del Magistrato di sanità, che di queste ha lasciato molta documentazione38. In seguito, l’amministrazione dell’ospedale ricorse sempre alla Congregazione per fare fronte a tutti i pagamenti di generi e servizi che si rendevano necessari per il mantenimento dell’ospedale nuovo. La procedura prevedeva che l’ospedale inviasse alla Congregazione i mandati di pagamento emessi a favore dei fornitori per chiedere l’avallo dell’ufficio di ragioneria della Congregazione stessa, che conseguentemente disponeva anche il trasferimento delle necessarie risorse39. In moltissime 37 ASPd, Ufficio di sanità, b. 524. Foglio delle esazioni e pagamenti fatti dalla cassa della Deputazione comunale di sanità di Padova. 38 ASPd, Ufficio di sanità, b. 524. Filza Polizze e conti diversi. Si comprarono filo, tela, fustagno e altri simili generi. 39 Esempi di tale procedura sono molti, anzi moltissimi. Ciò che importa sottolineare è la procedura amministrativa: presentati i mandati «si sono trovati a dovere e quindi sono staccati gli analoghi mandati di saldo il primo per la somma». In tal modo il maneggio delle risorse da parte dell’ente ospedaliero era sottoposto a uno stretto controllo da parte di un ufficio incaricato della gestione di quasi tutte le risorse destinate alla beneficenza (ASPd, Ospedale Civile - Congregazione di carità, b. 1323, numero 2806 del 6 luglio 1819).
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occasioni poteva trattarsi di generi, come nel caso significativo del fornaio incaricato di somministrare il pane quotidianamente ai pazienti dell’ospedale. Attraverso l’amministrazione del nuovo ospedale, si chiedeva alla Congregazione il conferimento di 5 moggi e 4 stari di grano, avendo egli già consumata la somministrazione precedente40. In Congregazione arrivarono anche questioni di natura assai diversa, come l’aspra controversia tra il primario della chirurgia ospedaliera e il direttore della clinica chirurgica, occorsa nel mese di giugno 1819, riguardante un paziente deceduto. Visitato dal primario, fu diagnosticato «un poco d’aneurisma alla gamba»41. Ritenendo che il caso potesse essere utile anche in clinica per scopi didattici, il primario stesso, Lorenzo Fabris, chiese al Ruggeri di visitare il paziente. Dopo la visita, la diagnosi fu confermata e «trovai che questo aveva un vasto aneurisma popliteo all’arto inferiore sinistro, occupante anche il terzo inferiore della coscia ed associato a varici di tutta la gamba». Il caso fu ritenuto non così interessante dal clinico e per questo motivo non fu trasferito nelle sale cliniche. Fu curato con una stretta fasciatura dell’arto, avendo egli rifiutato di sottoporsi all’intervento chirurgico ma, visitato nuovamente dal Ruggeri, quest’ultimo trovò la terapia del tutto inadeguata. Di questo parlò e discusse con gli studenti, ma mai al letto del malato. L’opinione del clinico giunse anche al primario che, chiamato l’assistente della clinica, lo pregò di riferire al professore che egli non aveva bisogno di maestri e che nel suo reparto faceva quello che riteneva più opportuno. La disputa non si fermò allo scambio di lettere tra i due chirurghi coinvolti, ma fu chiesto un parere a Luigi Brera, cesareo regio consigliere di governo, professore e direttore dello spedale civile di Padova, che inviò alla Congregazione una lettera 40 ASPd, Ospedale Civile - Congregazione di carità, b. 1323, numero 2431 del 23 giugno 1819. 41 ASPd, Ospedale Civile - Congregazione di carità, b. 1323, lettera di Cesare Ruggeri, direttore della clinica, del 9 giugno 1819, indirizzata alla Congregazione.
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basata su una precisa analisi dei disciplinari in vigore. In base ai quali risultava che tutti gli ammalati, inviati in chirurgia, fossero di pertinenza del professore della disciplina il quale era tenuto a visitarli entro un giorno, per decidere «se gli convengono per lo stabilimento clinico»42. I pazienti, per così dire scartati dall’attività clinica e trasferiti in ospedale, erano così sottoposti alla cura esclusiva del chirurgo primario e, solo nel caso in cui si fosse ravvisata la necessità di un intervento così impegnativo da richiedere la competenza del professore, solo allora il paziente poteva essere trasferito in clinica. Ma a questo punto, se il clinico avesse ritenuto di non procedere all’operazione, il paziente stesso poteva essere operato dal primario ospedaliero. In realtà già «durante il corso delle vacanze scolastiche, cioè dai 15 agosto ai 15 ottobre, al solo chirurgo primario dello spedale sono esclusivamente devolute tutte le operazioni di alta chirurgia e d’ostetricia, che si devono eseguire nello spedale». Secondo Brera, il chirurgo ospedaliero aveva sempre seguito questa procedura, anche nel caso dell’ammalato di aneurisma popliteo. Inoltre aggiunse che il Ruggeri è «in errore credendosi in diritto di sorvegliare tutta la chirurgia dell’ospedale». Di certo si trattò di una disputa di basso profilo, ma altamente indicativa di una difficile relazione tra l’assistenza e la clinica che ha tante volte contrassegnato le relazioni tra lo Studio e l’ospedale, nonostante l’approvazione e sottoscrizione di tanti documenti d’intesa tra i due. Nei primi decenni del secolo, l’attività clinica stava allargandosi molto in ospedale e non stupisce che proprio per questo possano essere nate molte controversie. Qualche giorno dopo, lo stesso Fabris fu incaricato dell’insegnamento di clinica ostetrica dal rettore dell’università, dopo che il governo di Vienna aveva stabilito che «l’insegnamento pratico da darsi al letto delle partorienti [...] tanto agli studenti che alle levatrici, deve essere affidato esclusivamente al solo professor provvisorio Lorenzo Fabris»43. 42
ASPd, Ospedale Civile - Congregazione di carità, b. 1323, lettera del 26 giugno 1819. 43 ASPd, Ospedale Civile - Congregazione di carità, b. 1323, fasc. n. 2841.
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Ancora in piena età napoleonica, l’ospedale di Padova e tutti gli altri enti di beneficenza della città ebbero a soffrire un sensibile calo delle risorse che tradizionalmente riscuotevano dai propri capitali a causa dell’obbligo imposto dal governo francese di trasferire presso il Monte Napoleone a Milano l’amministrazione di quei beni che erano stati demanializzati. In base a un «foglio dimostrativo le somme annue competenti alla Congregazione di carità di Padova, in causa d’interessi dovuti dal Monte di Milano sui capitali regolarmente inscritti di ragione delli sotto segnati stabilimenti di pubblica beneficenza» la diminuzione degli introiti fu pari a £. 8.096,76, considerando che gli interessi che si incassavano prima dell’avocazione erano pari a £. 17.185,71 e quelli riscossi dal monte milanese a £. 9.088,9544. L’ospedale degli infermi disponeva di 4 capitali sui quali il Monte Napoleone corrispondeva un interesse oscillante tra 1,4 e 2%, mentre prima dell’avocazione l’interesse andava dal 3,5 al 7%. Gli interessi complessivi erano stati pari a 9.443,66 lire e, dopo le avocazioni, a 4.566,38. Gli altri enti di beneficenza, coinvolti in questa procedura, furono, la Casa di Dio, gli Orfani nazareni, le zitelle gasparine, il Soccorsetto delle vergini, il Soccorso per le donne e i Poveri vergognosi45. L’organo padovano che dovette fare i conti con questa nuova sfavorevole congiuntura fu la Congregazione di carità, che era diventato il corpo principale di coordinamento e di gestione delle risorse destinate alla pubblica beneficenza, come allora si definivano le spese per l’assistenza. La finanza ospedaliera, inoltre, fu costretta ad affrontare la questione delle risorse provenienti da enti, soprattutto ecclesiastici, che erano stati soppressi, ancora in età napoleonica ed erano obbligati a corrispondere generi o numerario all’ospedale stesso. Dopo le avocazioni, se qualche reddito poteva ancora reclamarsi, questo doveva transitare tutto alla Congregazione di carità, che si 44 ASPd, Ospedale Civile - Congregazione di carità, b. 1323, fasc. n. 3. In questo fascicolo ci sono documenti diversi. 45 Di quest’ultima congregazione fu scritta una sintetica storia in epoca democratica che ne attesta la nascita nel 1558 (ASPd, Ufficio di sanità, b. 429).
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sostituì non solo all’ospedale, ma anche ad altri istituti di pubblica beneficenza, nel godimento di questi interessi. Le risorse che in tal modo si accumulavano nella disponibilità della Congregazione, potevano essere, in un secondo momento, impiegati anche a favore degli enti di beneficenza. Il mutamento stava tutto nella perdita di autonomia da parte di questi istituti, che nei secoli precedenti erano soliti amministrare autonomamente le proprie risorse. I monasteri di S. Caterina, di S. Anna, di S. Maria di Praglia, di S. Matteo, di S. Maria del Carmine, degli Ognissanti e l’Università dell’arte della lana erano stati tutti toccati dai provvedimenti napoleonici che ne avevano decretata la soppressione, colpendo in tal modo anche tutti quei soggetti che da tali enti, a titolo o di livello o di censo o di legato, qualche risorsa pur traevano. Furono colpiti l’ospedale, la Scuola della carità, la Casa di Dio, le congregazioni dei poveri orfani nazareni, delle zitelle gasparine, del soccorso per le donne, dei poveri vergognosi, la Commissaria Volpe, il Monte di pietà e altri ancora46. L’ospedale fu molto coinvolto nel mercato finanziario che si era aperto nel Lombardo-Veneto. In molti casi, obbligazioni, certificati di deposito e altri strumenti continuarono a garantire una certa rendita anche dopo l’annessione del Veneto al Regno d’Italia. Presso il Monte Lombardo-Veneto dal 12 luglio 1862 erano attive obbligazioni «in ditta Spedale civile di S. Francesco in Padova, procedenti dal concambio dei due certificati del Monte regio Lombardo Veneto di luglio e settembre 1833 e coll’aggiunta di capitale nell’importo di fiorini 93.405 pari ad italiane 230,62 come da mandato»47. Nonostante i mutamenti radicali intervenuti in ambito politico e istituzionale, obbligazioni di natura finanziaria passarono senza soluzione di 46
ASPd, Ospedale Civile - Congregazione di carità, b. 1323 «Stato dei livelli, censi, e legati in titolo a credito di congregazione e stabilimenti di pubblica beneficenza ed a debito di corporazioni avocate al demanio». Praglia non fu soppressa, sebbene figurasse tra gli enti destinati a questo fine. In questo documento, il riferimento all’abbazia euganea coinvolse un monaco soltanto. 47 ASPd, Ospedale Civile, b. 1594, c. 2.
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continuità dall’età veneziana al Regno d’Italia. Alcune cartelle dell’ospedale, depositate presso il Monte Lombardo-Veneto dal primo aprile 1823, attestavano una rendita perpetua a favore del nosocomio padovano derivante da un capitale in Zecca a debito dell’ex Repubblica veneta «liquidato e consolidato dal fu governo italico sotto il titolo cartelle del Monte napoleonico, a cui venne surrogata la presente cartella. Li fiorini 637.70 sono pari a £. 1574,57»48. Il mercato finanziario e i capitali in esso investiti sopravvissero a ogni rivoluzione. L’ospedale fu anche attivo nel mercato dei titoli del debito pubblico che liquidavano in genere un interesse attorno al 4%, un punto percentuale in meno di quanto fruttavano i capitali di livello. Il S. Francesco, così continuò a essere chiamato, sebbene ormai la sede fosse stata da tempo trasferita, comperò obbligazioni dello Stato che fruttavano 168 fiorini pari a 414,82 lire italiane, pagabili in due rate il primo aprile e il primo ottobre; l’investimento proveniva da una precedente operazione che era stata perfezionata il primo maggio 182349. In altri casi, l’ospedale incassava interessi su capitali che erano stati acquistati dalla Commissione di pubblica beneficenza istituita dal Lombardo-Veneto50. Molto significativa è una cartella depositata presso il Monte Lombardo-Veneto il 30 settembre 1851, in grado di assicurare una rendita perpetua, che veniva accreditata sul monte versamenti mensili degli impiegati dell’ospedale per il proprio fondo pensioni51. Ancora un esempio di continuità, tra i regimi che si susseguirono in Veneto, sta nel 48 49 50 51
ASPd, Ospedale Civile, b. 1594, c. 4. ASPd, Ospedale Civile, b. 1594, c. 6. ASPd, Ospedale Civile, b. 1594, c. 11. ASPd, Ospedale Civile, b. 1594, c. 18. Dovevano passare ancora mol-
ti anni prima che l’Italia potesse dotarsi di un sistema pensionistico degno di questo nome. Prima dell’introduzione dell’obbligatorietà della cassa nazionale vecchiaia istituti particolari cercarono autonomamente di porre rimedio a tale grave lacuna. L’ospedale fu tra questi e operò in modo non troppo dissimile da quanto era stato fatto dalle casse di risparmio attive nel LombardoVeneto dal 1822 come ha mostrato Luigi De Rosa, Storia delle casse di risparmio e della loro associazione, 1822-1950, Roma-Bari, Laterza, 2003.
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fatto che il Regno d’Italia continuò a onorare le obbligazioni a favore dell’ospedale, che, in precedenza, aveva acquistato cartelle del prestito nazionale 185452. L’ospedale non cessò di investire nel debito pubblico anche dopo l’annessione e, già il 7 novembre 1866, sottoscrisse una cartella, appunto, del debito pubblico del Regno d’Italia per una rendita annua di 500 lire. La somma impiegata in tale investimento proveniva dall’incasso delle obbligazioni del prestito 185953. L’ente era anche titolare di depositi fruttiferi presso la Banca del popolo di Padova che dal 1872 pagava un interesse pari al 4,5% annuo, mezzo punto in meno di quanto remunerava lo Stato le obbligazioni sul consolidato italiano «tutte in data di Firenze primo luglio 1871»54. A pagare interessi sul debito fu coinvolta anche la Cassa depositi e prestiti che aveva sede a Firenze e che custodì alcuni certificati di deposito anche del S. Francesco, dopo che Roma era diventata la capitale del Regno. Anche in questi casi, i capitali necessari provenivano dall’affrancazione di livelli censuari che aveva messo nelle mani dell’amministrazione ospedaliera ingenti risorse da poter investire prontamente. Erano mutati gli strumenti finanziari, ma la strategia del nosocomio era rimasta la stessa: garantirsi una rendita finanziaria sicura i cui proventi potevano essere investiti nuovamente, come spesso accadde, oppure essere spesi liberamente secondo le molteplici necessità dell’istituto. 52 ASPd, Ospedale Civile, b. 1594, c. 20. Ciò si ripeté anche nel caso del prestito 1859 che vide il S. Francesco particolarmente attivo nell’acquisto di titoli. 53 ASPd, Ospedale Civile, b. 1594, c. 23. La finanza ospedaliera durante i primi anni del Regno doveva essere in buona salute se l’amministrazione dell’ente pensò di poter investire utili derivanti da precedenti investimenti finanziari. Anche in occasione dell’affrancamento di livelli censuari, l’ospedale spesso credé di dovere investire il capitale che in tal modo si era reso disponibile in certificati di rendita italiana che assicuravano un interesse pari al 5%. Ciò si verificò nel caso del principe Augusto d’Arenberg che saldò il proprio debito con l’ospedale pari a 32.100 lire italiane (ASPd, Ospedale Civile, b. 1594, c. 26). Casi di questo genere furono numerosi e coinvolsero, tra altri, il comune di Padova e l’università. 54 ASPd, Ospedale Civile, b. 1594, cc. 71-72.
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L’ospedale fu interessato meno a incrementare il proprio patrimonio immobiliare e fondiario. Quanto ai salari, qualche anno prima dell’annessione al Regno d’Italia, a Padova in ospedale i primari della medicina e della chirurgia guadagnavano 490 lire l’anno, il becchino 137, il capo infermiere 272,69, il medico assistente 42055. Gli stipendi subirono un incremento a decorrere dal 1867, quando al medico primario fu riconosciuto un salario di poco più di 1200 lire italiane. Anche gli altri salari furono aumentati56. I cappellani in servizio presso l’ospedale guadagnavano 734,57 lire l’anno, più dei medici chirurghi secondari e degli assistenti che si fermavano a salari oscillanti attorno alle 500 lire, e pressappoco tanto quanto un computista del nosocomio. Le suore non arrivavano a 400 lire. Un infermiere di sala percepiva nel 1872 un salario inferiore alle 500 lire l’anno. Non vi erano differenze di trattamento degli infermieri in base al reparto di assegnazione che poteva essere quello medico, il chirurgico, quello dei cronici, dei maniaci, dei sifilitici o per le meretrici. E nemmeno grandi differenze esistevano nel conteggio delle competenze spettanti a infermieri in servizio presso una delle quattro cliniche universitarie, la medica, la chirurgica, l’oculistica e l’ostetrica. Le spese di beneficenza erano ben superiori a quelle in conto salari. Sotto questo titolo erano compresi tutti gli esborsi che avevano a che fare con la cura del paziente e con la gestione dell’ospedale stesso. Dal mese di gennaio 1832, alcuni decenni dopo l’apertura dell’ospedale nuovo, le spese per riparazioni ai locali dell’istituto furono piuttosto modeste, anche se il numero degli interventi fu molto elevato. Le spese per il vitto furono sempre elevate: solo per vino puro e annacquato, uova, grano e carne, in un anno come il 1832, potevano essere spese poco meno di 50.000 lire57. Nello stesso anno per la farmacia si stanziarono 21.792,94 lire e 15.918,25 per biancheria, letti, 55 56 57
ASPd, Ospedale Civile, b. 2413, c. 42. L’anno di riferimento è il 1863. ASPd, Ospedale Civile, b. 2413, c. 45. ASPd, Ospedale Civile, b. 1589, c. 12.
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mobili e utensili vari58. Furono conteggiate anche le spese per la manutenzione dei letti, per il bucato, per i lumi e per combustibili per somme non trascurabili, attestandosi a poco più di 12.500 lire. Per oggetti di culto si spesero solo 274,55 lire nel corso del 1832. Si trattò di cera, di piccole riparazioni alla chiesetta dell’ospedale e dell’acquisto di quanto necessario alla celebrazione della messa. L’ospedale si curava pure della sepoltura di morti le cui famiglie non potevano provvedere alle spese delle esequie. A tale titolo gli esborsi furono davvero molto contenuti, attestandosi a poche decine di lire l’anno59. Tra le elemosine e i sussidi assicurati dall’ospedale c’era pure il vestiario per gli ammalati ricoverati in nosocomio che ne fossero risultati sprovvisti60. Furono poi calcolati i denari anticipati dall’ospedale per «spese straordinarie per gli ammalati delle regie cliniche che devono essere indennizzate dal regio erario a tenore del nuovo contratto»61. Pietro Macri, imprenditore o appaltatore della somministrazione di medicinali, secondo il contratto del 16 giugno 1835, doveva fornire al nosocomio medicinali per un importo pari a una somma oscillante attorno alle 15.000 lire l’anno. Per questo, considerata l’entità del contratto, l’ospedale aveva ottenuto dallo stesso 3.000 lire a titolo di cauzione. L’ospedale anticipava pure le risorse per sovvenzioni ai praticanti infermieri in ospedale, che si sarebbero poi impegnati con gli affetti da colera62. L’amministrazione ospedaliera aveva 58 59 60
ASPd, Ospedale Civile, b. 1589, cc. 16, 21. ASPd, Ospedale Civile, b. 1589, c. 38. ASPd, Ospedale Civile, b. 1589, c. 41.
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Ormai era in vigore un vero e proprio accordo tra ospedale e cliniche che regolava il rapporto tra i due enti soprattutto per quanto concerneva gli impegni finanziari di ciascuno (ASPd, Ospedale Civile, b. 1589, c. 45). Su questo tema fu anche in seguito stipulato ogni accordo tra ente ospedaliero e cliniche universitarie. Le somme impegnate a questo titolo furono assai modeste. 62 ASPd, Ospedale Civile, b. 1589, c. 59. Altre anticipazioni l’ospedale onorava per tutti quei pazienti poveri provenienti dai comuni della provincia o da altre province. Anche in questo caso le somme messe a disposizione furono basse (ASPd, Ospedale Civile, b. 1589, c. 64).
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poi previsto di anticipare 2 lire a ogni malato povero che usciva guarito dal nosocomio: dal primo gennaio 1836 al 10 luglio 1837 si impegnarono poco meno di 2.000 lire. Toccò poi a fornitori diversi di beni e servizi all’ospedale: tra questi figuravano la tipografia del seminario e molti venditori di legna63. Muratori e capomastri erano in gran numero impiegati alla manutenzione dell’ospedale e a ognuno di loro fu aperto un conto separato. Anche ai venditori maggiori fu riservato lo stesso trattamento, come nei casi di Giovanni Rinaldi o di Mosè Pincherle di Venezia64. Pizzicagnoli, fornitori di olio per uso dell’istituto, di carbone, di sapone affollavano la schiera dei già molti rivenditori dell’ospedale nuovo. Nel caso del mugnaio Giacomo Pinton si contabilizzarono sia il costo di macina sia quello del dazio. Per poco più di 30 moggi di frumento, l’operazione costava complessivamente 413,30 lire, 309,81 delle quali per l’imposta, nel mese di febbraio 183265. Tela canepina e lana erano procurate da Fuà Isach, da Basevi Isach o da Levi Aronne. Leone Wollemburgh forniva all’ospedale telerie e coperte in base a un contratto dell’aprile 1835 che comportò impegni finanziari molto elevati, diminuiti assai nel 1836 essendosi ridotti a 2.151,45 lire66. I marinai veneziani e altri residenti dei comuni limitrofi, se ricoverati a Padova, venivano poi, dopo le dimissioni, trasportati al domicilio d’origine con una 63
ASPd, Ospedale Civile, b. 1589, cc. 80-81. Il primo era un macellaio che intrattenne rapporti con l’ospedale per somme davvero ragguardevoli, che si aggiravano a pressappoco 25.000 lire l’anno, nei primi anni del 1830; il secondo somministrò il vitto agli ammalati secondo una tariffa diversa tra i ricoverati delle sale e delle cliniche. Il conteggio fu fatto ogni mese: a gennaio 1835 a fronte di 7.757 giornate di presenza in sala furono corrisposte 3.490,65 lire. Nello stesso periodo i giorni di ricovero in clinica furono 2.352 per una somma di 1.176 lire. In totale il costo del vitto nel mese di gennaio fu pari a 4.666,65 lire. A ottobre si spese molto meno perché i ricoveri in clinica furono assai pochi per le vacanze scolastiche (ASPd, Ospedale Civile, b. 1589, c. 86). 65 ASPd, Ospedale Civile, b. 1589, c. 100. Il fornaio Andrea Sandri si era impegnato a fornire 146 libbre di pane per ogni sacco di frumento daziato e macinato per l’anno 1832 (c. 102). 66 ASPd, Ospedale Civile, b. 1589, c. 116. 64
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spesa media annuale pari attorno alle 500 lire. In alcuni anni il costo del servizio fu molto più alto, come era accaduto nel 183667. Queste erano voci di spesa, corrispondenti a servizi assai diversi tra loro, che l’amministrazione dell’ospedale doveva monitorare con attenzione per riuscire a garantire il pareggio di bilancio. Molto scrupolo fu sempre usato nel conteggiare i costi dei giorni di degenza di pazienti residenti in comuni diversi da quello di Padova. Ogni amministrazione locale disponeva, o doveva disporre, della propria lista dei poveri che era il documento essenziale per poter procedere al pagamento della degenza di chi non poteva provvedervi personalmente.
Ospedale e cliniche: i primi accordi A mediare gli accordi tra università e ospedale intervenne sempre la Congregazione di carità. All’inizio i contratti furono annuali e il primo di questi regolò il periodo da novembre 1816 a tutto giugno 1817. Il resto dell’anno era di vacanza, coincidente con l’interruzione dell’attività didattica. Prima della firma dell’accordo, l’ospedale era intervenuto esclusivamente per fare fronte alle spese di vitto ma, dopo avere perfezionato l’intesa, al nosocomio furono addossate altri costi che fecero lievitare molto l’esborso complessivo. Due anni accademici d’esercizio erano costati alla Congregazione 10.686,535 lire e all’università 10.648,750. Dal 1818 due anni accademici importarono, in termini di trasferimento dal governo, 31.293,968 lire68. E proprio il 4 dicembre 1818 fu firmato un importante contratto che registrò l’accordo tra la delegazione provinciale, il rettorato, allora occupato da Antonio Marsand, il direttore della facoltà medica, chirurgica e farmaceutica Antonio Pimbiolo, la Congregazione di carità, il direttore dell’ospedale Valeriano Luigi Brera, il direttore della clinica medica Cesare Ruggeri, 67 68
ASPd, Ospedale Civile, b. 1589, c. 118. ASPd, Ospedale Civile, b. 1555, fasc. Sovvenzioni conseguite dal go-
verno avanti l’accordo in conto cliniche.
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della clinica chirurgica Francesco Fanzago e Giuseppe Montesanto, direttore provvisorio della clinica medica per chirurghi civili e provinciali. Questi ultimi formarono una commissione appositamente istituita per seguire le pratiche del contratto; a questa furono anche aggregati 2 assistenti69. L’accordo fu articolato in 15 punti: il mantenimento delle sale della clinica medica, chirurgica e medica per chirurghi era da ritenersi a carico della Congregazione di carità. A questa incombevano pure le spese per il vitto, la biancheria, i medicinali, le riparazioni dello stabile, legna, olio e di quant’altro fosse necessario al funzionamento delle cliniche. Inoltre si precisò che, sebbene l’accordo avesse previsto una dotazione di strumenti e di medicinali più costosi e di maggior prezzo, ritenute le avvertenze fatte [...], li illustri professori dirigenti le due sale cliniche medica e chirurgica, s’impegnano e promettono che non saranno per farne uso sennonché con tutta l’economia e nei soli casi d’assoluta convenienza e bisogno70.
Quando la Congregazione avesse ravvisato una richiesta di impegno finanziario, a un primo esame, esagerato, essa poteva chiedere l’intervento della Delegazione provinciale perché esprimesse un parere in merito. Lo strumentario chirurgico era a carico della Congregazione solo nel caso di fornitura a favore dell’assistente chirurgo; inoltre doveva provvedere alla pulizia delle sale adibite all’istruzione degli studenti. Gli strumentari di proprietà governativa dovevano essere perfettamente mantenuti ed eventualmente rimpiazzati, se necessario. Tutte le spese ordinarie erano, dunque, a carico della Congregazione; quelle straordinarie, per l’insegnamento, per diete particolari, per l’uso di farmaci e strumenti speciali erano pure da intendersi a carico della Congregazione alla quale 69
ASPd, Ospedale Civile, b. 1555, Cliniche contratto del 4 dicembre
1818. 70 ASPd, Punto quinto del contratto. Ospedale Civile, b. 1555, Cliniche contratto del 4 dicembre 1818.
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il governo accorda la diaria corrisponsione di £. 2 per ogni giornata di presenza degli ammalati nelle cliniche medica, chirurgica e centesimi 45 pure per ogni giornata come sopra degli ammalati nella clinica medica per istruzione de’ chirurghi civili e provinciali71.
Infine si pensò di mettere nel contratto anche l’impegno della Delegazione provinciale a chiedere un anticipo pari a 5.000 lire al Regio governo per poter mettere la Congregazione nelle condizioni di provvedere alle spese straordinarie necessarie per l’avvio delle attività cliniche. Parte integrante di questo importante accordo fu l’allegato A: Cattalogo dei rimedi semplici e composti, vitto ed altre spese straordinarie non compresi nell’ordinario trattamento che somministra l’ospitale agli ammalati poveri, li quali si ritengono a carico delle cliniche. Il vitto straordinario comprendeva pollami, castrati, burro, vitello arrosto, rape, cavoli, orzo, patate, mele, prugne, spinaci, frutta di stagione, pasta e frittura di cervella. Tra i semplici si contarono 145 elementi, tra i preparati 82 composti e tra i rimedi chirurgici se ne numerarono 34, oltre quelli che si fossero resi necessari ma inclusi negli elenchi precedenti. Infine si quantificò anche il consumo delle cliniche per l’illuminazione, il riscaldamento, la cancelleria, la manutenzione, per la biancheria usata soprattutto in gran quantità in chirurgia, per la servitù e per spese diverse tra le quali spiccano quelle per i bagni, il cui costo fu quantificato in una lira italiana, rimanendo a carico dell’ospedale i costi della legna necessaria per scaldare l’acqua e per il trasporto della medesima dall’ospedale di S. Mattia all’ospedale nuovo. Altri documenti sui quali fu costruito un vero e proprio accordo tra ospedale e cliniche risalgono a settembre 1822 e furono preparati per rispondere a una lettera, del 10 agosto 1821, indirizzata al direttore della facoltà medica dell’università di Padova, V. L. Brera, da parte del regio governo operante a 71 ASPd, Punto tredicesimo del contratto. Ospedale Civile, b. 1555, Cliniche contratto del 4 dicembre 1818.
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Venezia. Questo chiese di meglio articolare la richiesta di contribuzione, soprattutto tenendo presente che il mantenimento dei malati clinici doveva essere imputato all’ospedale, come era sempre avvenuto. La determinazione della somma da corrispondere per ogni giornata di degenza doveva, poi, essere determinata in base a una valutazione analitica dei costi del ricovero in clinica attraverso un’operazione che era previsto vedesse coinvolti entrambi gli enti sulla base dunque di questa idea sola ed unica da aversi presente, il signor direttore della facoltà medica si farà sollecito carico di procurarsi dalli signori professori clinici e dall’amministrazione dell’ospitale civico tutti i lumi occorrenti onde conoscere in ogni senso il vero ed effettivo costo non ristretto al disotto né largo al disopra del necessario del predetto mantenimento e questo diluito nei suoi vari rapporti72.
I calcoli si fecero tenendo conto del vitto, dei medicinali, di spese varie giornaliere e di esborsi per la biancheria, coperte e letti; poi bisognava tenere conto dei costi di riparazione dello strumentario e delle spese di cancelleria. Inoltre risultavano a carico dell’ospedale anche il compenso a un assistente chirurgo in servizio presso le cliniche medica e chirurgica e una gratificazione da parte della clinica medica a favore dei chirurghi di campagna. Infine era pure da calcolarsi anche il canone d’affitto per le sale cliniche. La ragioneria centrale di Venezia preparò un prospetto delle spese molto accurato: si contarono le presenze in ciascuna delle cliniche e si determinarono gli esborsi parziali e l’impegno complessivo. La gestione della clinica chirurgica costava poco più di quella medica; le altre, invece, pesavano meno non solo perché i giorni di degenza erano stati inferiori73. Questi 72
ASPd, Ospedale Civile, b. 1555, fasc. 25026/1924.
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Le somme indicate sono a consuntivo e servivano anche per costruire i bilanci di previsione. In clinica medica i giorni di degenza furono pari a 5.257 e la spesa complessiva a 12.215,647 lire, in quella chirurgica a 4.755 e l’esborso a 14.696,190. In ostetricia le giornate furono 2.051 e si spesero 3.948,818
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documenti contabili certificarono spese che erano da addossare al Tesoro. Qualche anno dopo, perché abbia ad aver luogo un nuovo più regolare contratto pel mantenimento delle regie cliniche nello spedale civico esistenti, dentro i limiti di reciproca convenienza onde siano garantiti gli interessi del luogo pio e quelli pure del regio tesoro,
si cercò di stipulare un accordo che fosse capace di bilanciare gli interessi dei contraenti. Si determinò l’operatività delle cliniche e si fissarono le regole generali per la somministrazione dei medicinali che, se nuovi o costosi, avrebbero necessitato di ulteriore autorizzazione. Per impiegati e inservienti delle cliniche si scrisse una spesa complessiva pari a 8.254 lire l’anno; per imbiancare due volte l’anno i locali clinici 830 lire e 920 per la manutenzione degli utensili e suppellettili diverse. Molto costavano la biancheria, le coperte e i letti, ascendendo la spesa 10.750 lire l’anno; l’illuminazione a olio e cera comportò un esborso di £. 1.106, il riscaldamento un costo di 1.970 lire, la cancelleria una spesa di 370. Il canone d’affitto era pari a 950 lire e in totale un anno di funzionamento delle cliniche padovane, nel corso dell’anno scolastico 1824-1825, comportò una somma di 23.400 lire italiane. Tale importo era tutto a carico del governo che attingeva a fondi erariali. All’erario si chiese pure di accollarsi i costi per i medicinali da distribuirsi agli ammalati ambulatoriali, dei quali si sarebbe tenuto un conto separato. Stessa procedura si indicò pure nel caso di quei malati inviati ad Abano per cure termali. Di tutto ciò che risultava essere presente nelle cliniche, ci si impegnò a redigere un inventario, che avrebbe tenuto conto degli oggetti appartenenti all’ospedale o di proprietà erariale. Il nosocomio si dichiarò disponibile a mantenere i propri strumenti chiedendo che «per tutti gli effetti di ragione dello spedale come sopra lire e in oculistica 2.051 per un importo di 3.822,810. (ASPd, Ospedale Civile, b. 1555, fasc. 25026/1924, Trassunto delle spese). Era stata contabilizzata anche una clinica provinciale con 2.091 presenze e poco più di 4.580 lire di costo.
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esistenti, venga ad esso accordato un compenso, attesa la differenza nella qualità e nel numero in confronto di quelli che appartengono alle sale comuni»74. In un foglio sciolto, che probabilmente era da considerarsi parte del contratto, anche se in questo non è mai nominato, ci sono i conteggi riguardanti il ricavato delle cliniche a fronte di 20.058 presenze all’anno. Variando l’importo giornaliero si modificava necessariamente anche la somma totale, in ogni caso ben superiore ai costi di funzionamento previsti nel contratto. In altri termini, l’amministrazione ospedaliera cercò di avere un certo margine attivo nella gestione delle cliniche, che avrebbero con facilità speso più di quanto stabilito. Negli importi, poi, non erano conteggiate tutte le uscite: a prescindere dagli stipendi di medici e infermieri, a carico del governo, non si contemplarono nemmeno gli esborsi per diete particolari, per nuovi medicamenti e in genere per tutto quanto concorreva alla cura del paziente e all’insegnamento clinico. Da un altro conteggio totale delle spese del 1822 da imputarsi al Tesoro, risultò che il costo effettivo di una giornata di degenza nelle cliniche poteva oscillare da un minimo di 1,010 lire in clinica provinciale fino a £. 1,481 in oculistica75. La somministrazione dei rimedi ordinari risultò più costosa di quella degli straordinari, almeno in clinica medica, secondo una «Dimostrazione dell’importo giornaliero delle somministrazioni farmaceutiche fatte alla clinica medica dal giorno 16 ottobre a tutto il 31 dicembre, dedotto dalla spesa approssimativa di costo dei medicinali, aggiuntevi le spese officinali»76. 74 75
ASPd, Ospedale Civile, b. 1555, contratto del 28 aprile 1824. ASPd, Ospedale Civile, b. 1555, Regno Lombardo-Veneto. Provincia
di Padova 15 novembre 1822. Prospetto delle spese che possono catalogarsi a carico del Tesoro per le cliniche nell’ospitale civile di Padova. In clinica ostetrica il costo era di £. 1,460, in quella chirurgica di 1,412 e nella medica di 1,044. Le spese che si potevano, secondo gli accordi, imputare all’erario erano per cibi e medicinali straordinari, combustibili, servitù, servizio chirurgico, biancheria, riparazioni e spese diverse non meglio definite. 76 ASPd, Ospedale Civile, b. 1555, Calcoli della dispensa e della farmacia intorno la spesa occorsa per la clinica medica nei due ultimi mesi e mezzo dell’anno 1822. L’amministrazione procedette pure a una verifica dei costi per medicinali comparando i dati del 1822 con quelli del 1823. Fu così rilevato un
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Dopo oltre un decennio, si stipulò un altro contratto per il mantenimento degli ammalati ricoverati presso le cliniche tra il governo a Venezia e l’ospedale civile: 24 letti furono assegnati alle cliniche medica e chirurgica e 12 alle altre, compresa la medica per i chirurghi, detta anche clinica provinciale. Si stabilì anche di ricoverare presso le cliniche, escluse l’ostetrica e l’oculistica, pure i malati cronici già in ospedale, quando ciò fosse necessario per occupare tutti i letti assegnati. L’erario saldava i costi del ricovero e anche gli esborsi per l’affitto dei locali a uso clinico dell’ospedale civile77. Negli anni successivi si stipularono molti altri accordi: l’impianto originario era rimasto il medesimo, ma si cercò di regolare il rapporto tra ospedale e clinica in maniera sempre più analitica. La durata dei contratti arrivò a coprire tre anni scolastici, ovviando in tal modo all’inconveniente di procedere alla stipulazione di un nuovo contratto ogni anno. Dal 1839 al 1842, oltre a richiedere l’occupazione permanente dei letti clinici, si concesse ai professori di ricoverare anche malati non accolti dall’ospedale, purché fossero ritenuti significativi per l’insegnamento. I costi furono calcolati secondo le consuete voci di spesa, che andavano dalla biancheria, agli strumentari, dal mobilio alla cancelleria, dai combustibili alle varie riparazioni e a spese diverse. Il prezzo di ogni giorno di degenza fu determinato in £. 1,30 per ricoveri in clinica medica superiore, chirurgica e medica per chirurghi e in £. 2,30 per le degenze in oculistica e ostetricia e per tutti quei pazienti considerati straordinari, necessari per l’insegnamento ovunque fossero stati ricoverati. Per i locali a uso clinico presso l’ospedale civile, l’erario si impegnò a corrispondere annualmente £. 1.878,25, in base a una perizia di Giuseppe Jappelli, incaricato dall’ospedale e dell’ingegnere Licini a servizio dell’Erario78. incremento della spesa farmaceutica, non in assoluto, ma per ogni giornata di degenza. Lo stesso procedimento fu usato per monitorare la spesa per il vitto. 77 ASPd, Ospedale Civile, b. 1555, Regio erario ed ospedale di Padova contratto da 1 aprile 1834 a tutto ottobre 1839. 78 ASPd, Ospedale Civile, b. 1555, Spedale di Padova. Nuovo contratto per le regie cliniche da primo novembre 1839 a tutto 31 ottobre 1842, II esemplare.
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Non per caso era stato disposto, in tutti questi contratti, che i letti clinici dovessero essere sempre occupati; l’idea era di poter in tal modo riscuotere contribuzioni erariali che, verosimilmente, non solo bilanciavano, ma in certa misura compensavano, l’ospedale. Dal 1839 al 1845 le presenze nelle tre cliniche medica superiore, chirurgica e medica per chirurghi, sarebbero dovute essere 18.540 l’anno per un totale di 129.780 giornate di ricovero. In realtà le giornate di degenza furono 122.987 e pertanto furono perse, per così dire, mediamente ogni anno 970 presenze. Il danno per il minor numero di presenze si calcolò in 0,30 lire, ascendendo la perdita complessiva a 2.037 lire79. In questi anni l’unico vero motivo di conflitto tra l’amministrazione ospedaliera e la facoltà medica ebbe a che fare con le ingenti somme impegnate per il lavaggio di biancheria presso la clinica ostetrica. Era stata istituita nel 1820 e, da allora, studenti di medicina e mammane erano state ammesse presso l’istituto, obbligatoriamente per almeno due mesi, affinché potessero apprendere nel modo miglior possibile la professione. Ciò comportava spese maggiori del previsto, che l’ospedale si era affrettato a segnalare e reclamare presso gli organi accademici. La risposta fu pronta e dal rettorato si rilevò che, poiché il corrispettivo assicurato dall’erario per ogni giornata di degenza era di una lira superiore a quello riconosciuto alle altre cliniche, oculistica esclusa, in tale somma era anche compreso il costo per la biancheria usata in ostetricia. Il ragionamento sembrò, a prima vista, non ulteriormente discutibile, ma l’amministrazione del nosocomio non rinunciò affatto a fare notare che ogni precedente contratto tra le due amministrazioni era sempre stato centrato sulla spesa per il mantenimento degli ammalati ricoverati e non per spese imputabili, direttamente o indirettamente, all’insegnamento. In base a questo punto, l’ospedale si ostinò a non farsi carico di costi che a suo avviso esulavano dalla conduzione della clinica ostetrica. 79
ASPd, Ospedale Civile, b. 1555, Regio erario ed ospedale di Padova. Apparecchio del nuovo contratto per le cliniche. Contestazioni 1846 ed atti successivi del 1847.
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Si era solo all’inizio di una serie mai interrotta di contenziosi più o meno acuti che in tante, forse troppe, occasioni segnarono il tenore degli accordi tra le due istituzioni. La materia del contendere fu, nella maggior parte dei casi, legata all’individuazione dell’ente responsabile di costi che l’ospedale insisteva a ritenere impropri e il rettorato, invece, a considerare necessari. Uno scontro in molte occasioni privo di ogni reale fondamento. A monte degli accordi, che tra ospedale e cliniche furono di volta in volta stipulati, stavano altri importanti contratti di fornitura al nosocomio e alle cliniche stesse. Furono stipulati contratti con vari fornitori che si configurarono come contratti d’appalto. Essi duravano generalmente 5 anni e comprendevano la fornitura della biancheria completa per 400 letti comprese le coperte. In tal modo venivano soddisfatte le esigenze delle sale ospedaliere e delle cliniche universitarie dal primo gennaio 1843 al 31 dicembre 184780. Il materiale oggetto della somministrazione fu descritto con assoluta precisione, tenendo conto anche delle esigenze cliniche e assistenziali: «siccome poi varie sono le malattie che richiedono più coperte, anche fuori della stagione invernale, e più di un cuscino, l’appaltatore è obbligato a somministrare il di più occorrente, in dipendenza di un ordine medicochirurgico»81. L’appaltatore era pure tenuto al lavaggio e alla stiratura di tutta la biancheria, precisando che le lenzuola usate per gli ammalati di colera dovessero essere immerse in speciali tini con una soluzione di cloruro di calce, prima di essere lavati. Toccava ancora all’appaltatore provvedere all’illuminazione del nosocomio e alla dieta dei pazienti, secondo precise indicazioni che avevano differenziato il regime alimentare dei ricoverati in clinica rispetto a quelli degenti in ospeda80 81
ASPd, Ospedale Civile, b. 1621, fasc. Contratti. ASPd, Ospedale Civile, b. 1621, fasc. Contratti, Contratto d’appalto
primo gennaio 1843, p. 3. Segnalo che in questa stessa collocazione archivistica si conserva un fascicolo intitolato atti relativi all’affitto dei locali ad uso delle regie cliniche, che quantifica sia la metratura effettiva sia il costo per l’anno 1833.
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le. Altre regole si imposero circa l’organizzazione della cucina e della dispensa attive all’interno dell’ospedale. Il vitto doveva essere di buona qualità, nella quantità definita. Il vino non era stato escluso dall’alimentazione dei pazienti. Contratti d’appalto di questo genere continuarono a essere sottoscritti almeno fino al 1866.
Suore, preti e legati pii a servizio dell’ospedale Un aspetto importante e assai significativo della vita del S. Francesco fu la costante presenza di un servizio religioso a favore di ricoverati. Questo non cessò affatto nell’ospedale nuovo, che continuò ad avvalersi di tale servizio. I religiosi chiamati a tale opera erano regolarmente salariati dall’amministrazione ospedaliera che non faceva, a tale riguardo, differenza alcuna tra laici ed ecclesiastici. Non fu mai messa in discussione la presenza di religiosi in ospedale che apparivano, nei libri contabili, come tutti gli altri impiegati dal nosocomio. Altra questione, finanziariamente assai più complicata, fu, invece, il coinvolgimento dell’ospedale nella gestione di lasciti testamentari che, spesso, comportavano anche taluni aggravi consistenti, appunto, nel sostegno di celebrazioni religiose. Contenziosi molto difficoltosi videro fronteggiarsi tra loro il vescovado cittadino, l’ospedale e il titolare di tali benefici. Si trattò quasi sempre di mansionerie, che si appoggiavano su risorse private, messe a disposizione, proprio per questo fine, da testatori particolarmente interessati alla salute dell’anima e non solo a quella del corpo. La loro storia svela un intreccio di interessi che si consumò per secoli dentro e fuori le mura dell’ospedale. Molto spesso a creare difficoltà erano cappellanie istituite nei primi decenni di vita del S. Francesco, che sostenevano con continuità l’esercizio della funzione religiosa in ospedale o in altri luoghi pii. Il 10 luglio 1439, Giovanna Beccaria, vedova di Raffaele Fulgosio, aveva fondato, attraverso propria disposizione testamentaria, una cappellania presso la chiesa par-
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rocchiale di S. Nicolò, che prevedeva la celebrazione di messe, l’alloggio e il sostentamento del sacerdote titolare di tale beneficio. In età austriaca, dopo molti secoli, era sorto un contenzioso riguardante il numero di messe da celebrare; la faccenda si era potuta risolvere solo grazie all’intervento del vescovo di Padova, Modesto Farina, che con proprio decreto aveva disposto la riduzione del numero di messe da celebrare può avere luogo la riduzione delle messe in origine prescritte, noi muniti dell’apostolica facoltà delegataci, ed a termini dell’enciclica nostra primo dicembre 1821, colla quale abbiamo portato la limosina normale delle messe a venete £. 2.10, ordiniamo che in adempimento degli obblighi inerenti alla cappellania stessa, la di cui annua rendita risulta in austriache £. 247,17, calcolate pari a ducati d’oro numero 30, disposti dalla testatrice, oltre l’uso di una casa pel cappellano, sieno complessivamente celebrate annue messe numero 180 con la limosina di austriache lire 1,44, salvo il diritto alla fabbriceria di esigere dallo stesso civico ospedale austriache lire 17,75 pel mantenimento di sacri arredi, ingiungendo al cappellano di assistere nella cura delle anime in dipendenza del parroco la detta parrocchia82.
L’intervento del vescovo fu risolutivo: il rispetto di disposizioni testamentarie vecchie di secoli dovette comportare non poche difficoltà, soprattutto dopo la caduta della Repubblica, quando tutto cambiò in modo piuttosto radicale. Il vescovo rispettò la volontà della testatrice e si limitò a riformulare gli obblighi legati alla cappellania nella Padova austriaca. E poi non erano mutati solo assetti istituzionali e vita sociale, ma lo stesso beneficio era transitato nel patrimonio dell’ospedale che, pertanto, si trovò obbligato alla sua esecuzione. Era stata da poco soppressa la Scuola della carità di Padova, che aveva curato il lascito di G. Beccaria e, così, alcuni dei beni già amministrati dalla Scuola, erano transitati nell’amministrazione dell’ospe82
ASPd, Ospedale San Francesco, b. 1247, carta sciolta data 4 luglio 1832, raccolta nel fascicolo identificabile col n. 1703.
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dale cittadino, che non era stato soppresso83. In un prospetto dei beni lasciati alla soppressa Scuola di carità, rappresentata dall’ospedale civile, da G. Beccaria in base all’estimo generale del 31 ottobre 1545 che è «unica traccia dimostrativa la presente facoltà» si certificò che la rendita complessiva era pari a lire italiane 1100,403 sulla quale pesavano aggravi per £. 482,125 e così restavano a beneficio dei poveri 618,275 lire italiane84. Nella stessa posizione archivistica, in base a un altro prospetto, redatto a legittimazione di quello preparato dalla ragioneria della Congregazione di carità, riguardante i beni lasciati alla Scuola della carità, passati all’amministrazione ospedaliera, da G. Beccaria, il reddito complessivo fu quantificato in 2464,242 lire, avendo preso in considerazione altri 48 campi a Polverara non conteggiati nell’altro documento. Gli aggravi erano pari a 1386,730 lire l’anno per cui a beneficio dei poveri avanzavano in cassa 1.077,512 lire. Tra gli esborsi, il maggiore fu per il pa83 Ciò era avvenuto in esecuzione dei decreti di soppressione voluti dall’amministrazione francese tra il 1806 e il 1810 che avevano colpito l’asse ecclesiastico in maniera sistematica. Se si trattò di razionalizzazione o di riordino della proprietà ecclesiastica oppure di un disegno strategico, mirante a ridimensionare per quanto possibile presenza e peso economico della Chiesa, non è facile dire. Che in questi anni si siano manifestati atteggiamenti francamente offensivi nei confronti delle istituzioni religiose è stato largamente dimostrato, ma tali isolate manifestazioni antiecclesiastiche poco o nulla ebbero a che fare con la politica ecclesiastica del tempo. L’asse ecclesiastico e il numero dei religiosi erano diventati sempre più un impedimento al progresso economico e sociale che già in età veneziana si stava sviluppando. Provvedimenti che possono avere suscitato riserve e che talvolta continuano a destare atteggiamenti assai critici, devono invece essere compresi all’interno di uno scenario più ampio che, in questo caso particolare, ne spiegano e per molti giustificano, l’attuazione. Così si è fatto da Mirella Calzavarini, La vendita dei beni nazionali nei dipartimenti veneti dal 1806 al 1814, in Veneto e Lombardia tra rivoluzione giacobina ed età napoleonica. Economia, territorio, istituzioni, a cura di Giovanni L. Fontana e Antonio Lazzarini, Laterza, Roma-Bari, 1992, pp. 133-163 e da G. Silvano, Dopo il crollo della Serenissima. Proprietà ecclesiastica e rivoluzione in area veneta, in L’età rivoluzionaria e napoleonica in Lombardia, nel Veneto e nel Mezzogiorno: un’analisi comparata, a cura di Antonio Cestaro, Edizioni Osanna, Potenza, 1999, pp. 203-228. 84 Il prospetto è senza data e appartiene a ASPd, Ospedale San Francesco, b. 1247, fasc. 1551 dell’amministrazione dello spedale civile di Padova.
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gamento delle imposte prediali e per il legato della messa quotidiana nella chiesa di S. Nicolò in ragione di £. 1,25 per messa cui se ne aggiungevano 15,23 per spese di manutenzione85. Il contenzioso era sorto nel 1818 e solo nel 1833 fu risolto in modo definitivo, avendo stabilito di gravare l’ospedale per 247,17 lire l’anno86. La commissaria istituita da Francesco Negri Varotari il 30 maggio 1502 ebbe una storia del tutto simile. Già nell’amministrazione dalla Scuola della carità, era anch’essa transitata in quella dell’ospedale, che si trovò in tal modo obbligato a corrispondere a un cappellano il compenso per la celebrazione di messe nella chiesa del Torresino87. Soddisfare queste obbligazioni era per l’ospedale un impegno soprattutto di carattere amministrativo, ampiamente compensato dal fatto che tali mansionerie erano dotate di una rendita ben superiore all’importo da impegnarsi per il pagamento di questi benefici. Altre questioni sorsero alcuni anni dopo, quando era vescovo della città Federico Manfredini. A occupare la cappellania Zoella istituita presso l’ospedale, era stata chiamata persona che per esplicita ammissione non era ancora entrata nell’ordine sacerdotale. Fu pertanto trovato un sostituto che poté assicurare il servizio fino a quando un altro religioso avesse potuto assumere il beneficio senza limitazioni. Il che avvenne il 22 maggio 1857. In precedenza gli obblighi della cappellania erano stati osservati con sufficiente continuità: dal primo gennaio 1837 al 19 settembre 1848, a fronte di un totale di 834 messe festive e di 1605 feriali, ne risultarono non officiate solo 154 festive. Due85 Quanto alla mansioneria i conti tornano. Le imposte erano con l’arrivo dell’amministrazione austriaca molto cambiate rispetto sia a quelle veneziane sia a quelle francesi. Per mettere a fuoco le modifiche più rilevanti è da vedere Giovanni Silvano, Profili della fiscalità austriaca dal 1814 al 1866, in Il Veneto austriaco 1814-1866, a cura di Paolo Preto, Padova, Signum Editrice, 2000, pp. 101-117. 86 C’è un prospetto di liquidazione della pratica firmato l’11 gennaio 1833 e preparato dalla ragioneria dell’ospedale (ASPd, Ospedale San Francesco, b. 1247, fasc. Imperiale regia delegazione). 87 Per l’ufficiatura di questa cappellania furono messe a disposizione 558 lire venete, corrispondenti a 371,479 lire austriache. Non risulta che vi sia stato contenzioso alcuno a riguardo.
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centotto erano le messe da celebrarsi ogni anno, con qualche piccola oscillazione, mediamente 70 festive all’anno88. Lo stesso direttore dell’ospedale il 24 dicembre 1852 aveva preparato un accurato mansionario che il cappellano avrebbe dovuto scrupolosamente seguire. Fissato l’orario estivo e invernale delle messe feriali, si precisò che la messa festiva doveva essere celebrata alle 11 esatte, perché officiata anche per gli impiegati dell’ente. Erano poi da considerarsi festive le messe ricorrenti in occasione di festività soppresse, come nel caso della Beata Vergine della Neve cui era intitolata la chiesa dell’ospedale. L’elemosina corrisposta dall’amministrazione era pari a 3 lire per la messa festiva e a 2,10 per quelle feriali. In caso di infermità o di impossibilità a celebrare la messa, il cappellano investito del beneficio era tenuto a trovare un sostituto, affinché la messa fosse in ogni caso celebrata, secondo la volontà di Lucrezia Bonato Zoella che aveva appunto istituito la mansioneria. Infine il cappellano era tenuto a tenere in sagrestia buona nota delle messe celebrate su un registro particolare, che in un secondo momento sarebbe servito per la liquidazione del dovuto89. Poco, quasi nulla, fu lasciato scritto della cappellania Tramarin. Il sacerdote aveva l’obbligo di celebrare 115 messe nei giorni festivi, secondo quanto aveva stabilito un decreto della curia vescovile del 29 ottobre 1800. Non poteva rinunciare per alcun motivo all’incarico e tantomeno non osservare scrupolosamente l’impegno, se non avesse trovato un sostituto; sarebbe stato liquidato trimestralmente dall’amministrazione ospedaliera sulla base di documentazione certa. Questo mansionario era stato predisposto in cancelleria della presidenza del pio ospitale il 20 giugno 180590. 88 ASPd, Ospedale San Francesco, b. 1247, fasc. Mansioneria Zoella. Il documento è una liquidazione delle messe che il reverendo cappellano pro tempore della mansioneria Zoella deve celebrare nel tempietto dell’ospitale. 89 ASPd, Ospedale San Francesco, b. 1247, fasc. Mansioneria Zoella, «Discipline da osservarsi dal cappellano pro tempore della mansioneria Zoella, consistente nella celebrazione di messe 208 all’anno nel tempietto dello spedale civico di Padova». 90 ASPd, Ospedale San Francesco, b. 1247, fasc. Cappellanie mansionerie.
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Il vaiolo Ancora prima dell’efficacissimo intervento in età napoleonica volto a contrastare il diffondersi del vaiolo, conosciuto dall’antichità, anche la Repubblica aveva adottato provvedimenti importanti per contenere l’epidemia91. Nella città di Venezia i Sopra provveditori e i Provveditori alla sanità il primo marzo 1769 emanarono un proclama, in obbedienza al decreto del senato del 29 dicembre dell’anno precedente, per avviare nuovamente le procedure di vaccinazione, termine indicante in passato l’inoculazione, della popolazione Compiutasi con esito il più felice ne’ scorsi mesi l’inoculazione del vaiuolo in questo pio ospitale de’ mendicanti, fu comandata con il decreto dell’eccellentissimo senato 29 dicembre 1768, in staggione opportuna la rinnovazione d’un tale esperimento, e fu incaricato questo magistrato di diffondere il pubblico comando nelle principali città dello Stato, perché in esse pure con il metodo qui tenuto abbiasi ad innestare il vaiuolo92.
Per procedere all’operazione, furono arruolati tutti i medici e i chirurghi praticanti in città e nel dominio e pure tutti i professori di medicina e di chirurgia, che erano obbligati a consegnare ai rispettivi uffici di sanità, ogni mese, l’elenco dei sottoposti al trattamento. Si trattava di una vera e propria campagna antivaiolosa, condotta seguendo criteri tipici delle più moderne e avanzate profilassi contro le malattie infettive. Seguendo le direttive veneziane, a Padova, Giulio Antonio Contarini, podestà con i Provveditori alla sanità, diffuse un proclama che, facendo riferimento ai positivi risultati dell’inoculazione registrati a Venezia e in Europa, ordinava
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G. Cosmacini, Storia della medicina dall’antichità a oggi, Roma-Bari, Laterza, 20064, pp. 293-297. 92 ASPd, Ufficio di sanità, b. 397, fasc. XXII.
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che inerentemente alle predette pubbliche sovrane deliberazioni, ciascun padre di famiglia di questa città, che intendesse di far innestare il vaiuolo a qualche suo figlio, debba nel termine di giorni 8 darlo in nota in questa cancelleria di sanità, con l’età del medesimo, quale riconosciuto prima da’ professori destinati, sarà ricevuto, mantenuto e trattato senza aggravio e spesa alcuna de’ suoi genitori, ed usate ad essi quelle caritatevoli convenienze, che saranno credute adequate93.
Tra il provvedimento adottato a Venezia e quello preso a Padova correva una differenza sostanziale: nel primo si faceva obbligo a tutti i medici di partecipare alla campagna, senza dire alcunché sui soggetti della campagna stessa; nel secondo, invece, si parlò di una volontaria adesione all’iniziativa. Venezia e le città di Terraferma non obbligarono, ma piuttosto invitarono con insistenza la popolazione a sottoporsi a ciò che venne chiamato un felice esperimento. E forse per incoraggiare sudditi e medici a procedere nell’impresa, il 5 ottobre 1770, i Sopra provveditori e Provveditori alla sanità di Venezia, decisero di rendere noto il metodo dell’intervento, secondo le direttive di A. Gatti, approvate dal senato e ritenute procedure assai semplici e sicure. La persona doveva essere sana e non bisognosa di alcuna specifica preparazione. La marcia da inoculare sia fresca possibilmente e si prenda da un vaiuolo innestato quando se ne attrovi, o da vaiuole naturali che siano di buona qualità non ancora totalmente marcite [...] l’innoculazione si faccia in un braccio, o in una mano tra l’indice e il pollice e consiste semplicemente nel pungere e sollevare la prima cute dall’altra che l’è di sotto con ago o lancetta di marcia intrisa, in modo che vi rimanga qualche minima porzioncella di marcia tra cute e cute, che debbono poi comprimersi con un dito, lasciando la puntura senza ripari94. 93 ASPd, Ufficio di sanità, b. 397, fasc. XXII. Il proclama porta la stessa data di quello veneziano. 94 Secondo l’Ufficio di sanità l’inoculazione era un’operazione non particolarmente dolorosa per il soggetto al quale, tuttavia, si dovevano assicurare generi di conforto quali buon cibo, bevande fresche, abiti e un buon let-
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Tra i successi più significativi della medicina in età napoleonica si deve annoverare la campagna di vaccinazione antivaiolosa. Pier Luigi Sacco, coordinatore dell’impresa e consulente del Magistrato centrale di sanità, nel mese di novembre 1807, consigliò di inviare ai medici coinvolti nella vaccinazione un questionario per conoscere gli effetti della vaccinazione medesima. Chiedeva, in altre parole, se si fossero verificati effetti collaterali avversi all’inoculazione del vaiolo, che egli continuò sempre a ritenere utilissima, come ebbe modo di attestare in una lettera indirizzata al prefetto e presidente della Commissione sanità del dipartimento del Brenta95. Si trattò di un intervento che ebbe forti implicazioni sociali, che coinvolse l’autorità sia civile sia religiosa e soprattutto la disponibilità della popolazione a sottoporsi a una procedura che, sebbene conosciuta e sperimentata, non mancò tuttavia di sollevare, specialmente tra i meno acculturati, qualche perplessità. Furono anni durante i quali si poté sperimentare direttamente quanto potesse essere utile alla società l’apporto di pratiche di medicina preventiva, frutto di empiriche intuizioni e di ricerca scientifica. Inoltre, in occasione della vaccinazione antivaiolosa, si acquisì definitivamente in ambito sia medico sia sociale, l’idea che la salute era una questione pubblica, degna della massima considerazione possibile. Proprio per tale conto (ASPd, Ufficio di sanità, b. 397. fasc. XXII). Sulla figura del Gatti è interessante Calogero Farinella, Angelo Gatti, in Dizionario Biografico degli Italiani, 52, 1999 con ricca bibliografia anche sugli aspetti sociali della vaccinazione. 95 ASPd, Ufficio di sanità, b. 379, fasc. Sanità, numero 574. Tra le moltissime risposte inviate il medico Marangoni di Cittadella, l’11 febbraio 1808, scrivendo alla Commissione dipartimentale di Sanità del Brenta scrisse «Non potendo sin’ora produrre neppur con sospetto alcuna malattia proceduta dalla vaccinazione anche nel mio esercizio esteso in moltissimi individui di parecchie agiate famiglie dei limitrofi dipartimenti Bacchiglione e Tagliamento, così non ho che ridire in soddisfazione delli due proposti quesiti. Mi giova anzi ridire che i ricorrenti rumorezzi dell’anno scorso, denominati dal volgo bruschi roversi qua e là apparsi in alcuni vaccinati, furono piuttosto un dominio costituzionale, che risultanza dell’innesto vaccino» (ASPd, Ufficio di sanità, b. 379, fasc. Sanità, numero 174).
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sapevolezza, il fenomeno fu studiato anche da un punto di vista di tipo epidemiologico. In una lettera del prefetto del Dipartimento del Brenta al Magistrato centrale di sanità a Milano dell’8 marzo 1808, si ricordò che «il convincimento delle innumerevoli sperienze costituì per base la persuasione generale dei professori dell’arte e a questa successe quella della popolazione la quale passo passo abbandona i pregiudizi in confronto della verità dei fatti»96. La stessa lettera conteneva anche considerazioni in ordine al prospetto generale che da Padova era stato inviato a Milano, riguardante lo stato della vaccinazione nel 1807. Senza fare un ragionamento troppo approfondito, il prefetto fece tuttavia accenno a una proporzione che si sarebbe dovuta trovare tra la numerosità della popolazione, sottoposta alla campagna antivaiolosa, e il numero effettivo dei vaccinati. Purtroppo non c’è modo di quantificare esattamente tale proporzione, ma questo accenno nella lettera è in ogni caso spia di una nuova cultura sociale, molto moderna, che investì l’ambito non solo della medicina preventiva, ma anche quella ospedaliera. Il numero dei vaccinati era basso e, per giustificare ciò che poteva sembrare un insuccesso della campagna, il prefetto suggerì di tenere conto anche degli innestati dal 1803 al 1807, da quando tale pratica era stata introdotta nel Padovano. Dal quadro medesimo risulta che il numero totale degli innestati assende a 17.885 nel numero di 284.066 abitanti nel Dipartimento. Sembrerebbe quindi che il numero degli innestati proporzionato non fosse a quello degli abitanti, ma è d’uopo riflettere che questo numero diviene maggiore, e si approssima ad una conveniente proporzione, qualora vi si aggiunga quello di 1.056 vaiuolosi naturali e l’altro degli innestati dal 1803 fino al 1807, epoca in cui ebbe la sua prima introduzione nella provincia padovana sì benefica scoperta.
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ASPd, Ufficio di sanità, b. 379, numero 425.
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Il prospetto era stato preparato con la massima cura, suddiviso per distretto, cantoni e comuni. Si segnarono il numero dei residenti in ogni comune e quello dei vaccinati, prima e dopo la presenza sul campo di Luigi Sacco. Non tutti i comuni risposero all’ordine di Sacco di inviare i dati della vaccinazione e, pertanto, a fini di calcolo, il compilatore aggiunse la cifra di 4.000 vaccinati, considerato un numero verosimile. Padova contava allora 43.110 abitanti: si ammalarono di vaiolo 790 individui dei quali 171 morirono e complessivamente furono innestate 3.586 persone. Considerando la proporzione tra numero di abitanti e innestati nei diversi comuni, non risulta alcuna misura media: a Vo’ si era vaccinato poco meno del 25% della popolazione, a Megliadino San Vitale meno del 2%. In questa occasione, il prefetto di Padova volle anche riconoscere il lavoro svolto da Luigi Sacco «al cui peculiare distinto merito è da attribuirsi il quasi totale compimento della benefica operazione»97. Sacco fu il Direttore della vaccinazione nel Regno Italico98. Non è agevole stabilire chi tra i professori esercitasse anche la professione e fosse membro del Sacro Collegio dei filosofi e medici della città. In base a un confronto tra i nominativi dei professori dello Studio, esercenti la professione, e quelli degli aggregati al Collegio, ancora in età veneziana nel 1776, si chiarisce che solo Giacomo Maggioni, Alberto Zaramellin e Antonio Pimbiolo appartenevano a entrambi i repertori. Tra i professori esercenti, non aggregati al Collegio, c’erano Leopol97 Sulla figura di Luigi Sacco è da vedere Lorenzo Federico Signorini, Bianca Ademollo, Rosa Donato, Mentre altrove si discuteva, nel Regno italiano si operava con profitto. L’introduzione della vaccinazione in Italia (17991822), in Il vaiolo e la vaccinazione in Italia, I, a cura di Antonio Tagarelli, Anna Piro, Walter Pasini, 2004, Consiglio nazionale delle ricerche, Istituto di scienze neurologiche; World health organization, Collaborating centre for travel medicine, Villa Verucchio, 2004, pp. 199-212. 98 Filippo Briguglio, Medici e vaccinatori prima e dopo Jenner, in Il vaiolo, II, pp. 523-537. Sul coinvolgimento della scuola medica padovana Giorgio Zanchin, Monica Panetto, Nella terraferma veneta tra vaiolizzazione e vaccinazione: Padova, in Il vaiolo, III, pp. 1305-1329.
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do Marcantonio Caldani, Giuseppe Bertossi, Omobon Pisoni, Luigi Calza, Giovanni Dalla Bona, Giovanni Sografi, Giuseppe Mingoni, Giovanni Lavagnolo e il professor Bianchini. Gli aggregati al Collegio praticanti la medicina erano complessivamente 2499.
99 ASPd, Ufficio di sanità, b. 403, c. 55. Durante il 1797, l’anno della democrazia, i titoli per esercitare la professione furono approvati nuovamente dal Governo centrale del Padovano, anche se non tutti i medici furono sottoposti a giudizio. Di tale operazione esiste una rubrica (ASPd, Ufficio di sanità, b. 404).
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Verso la grande riforma: l’ospedale istituto pubblico di assistenza
Verso la grande riforma: l’ospedale istituto pubblico di assistenza
Il profilo pubblico dell’ospedale Entrato a fare parte anche il Veneto del Regno d’Italia nel 1866, fu istituita una nuova Congregazione di carità in ogni comune, secondo quanto disposto dalla legge 3 agosto 1862, n. 753 che, inoltre, aveva avviato la prima importante indagine statistica sull’universo delle opere pie a livello nazionale1. Secondo quest’analisi, pubblicata tra il 1868 e il 1873, le opere pie ospedaliere erano 955; i rimanenti enti d’assistenza si dividevano all’interno di una varietà di opere non superiore a qualche decina2. La volontà di conoscere a fondo l’uni1 Per le opere pie furono rilevanti l’editto di Carlo Alberto del 24 dicembre 1836 sulla loro autonomia, la legge 1º marzo 1850, n. 1101, che ribadì l’autonomia di questi enti da determinarsi secondo statuto e la più nota legge Rattazzi del 22 dicembre 1859 sugli enti locali, presi in esame da G. Silvano, Servizi pubblici e sociali tra Stato, enti locali e società civile in Italia dall’Ottocento al Novecento. Profili del rapporto tra centro e periferia, in Le amministrazioni comunali in Italia. Problematiche nazionali e caso veneto in età contemporanea, a cura di Filiberto Agostini, Milano, FrancoAngeli, 2009, pp. 145-149. Dal primo gennaio 1863 le scritture sia pubbliche sia private dovevano tenersi in tutto il Regno in lire italiane di 100 centesimi. A Venezia ciò avviene dal primo agosto 1866 e a Roma dal 1871. 2 Si contavano 34 tipi di opere pie: congregazioni di carità (2.025), opere pie elemosiniere (4.215), sussidi per l’istruzione e posti di studio (501), scuole per l’istruzione elementare e superiore (268), istituti di dotazione (2.916), sussidi a favore di vedove (29), sussidi di latte e baliatico (28), sussidi a orfani e abbandonati (15), opere pie per cure a domicilio (1.995), sussidi alle puerpere (84), fondazioni di soccorso ai detenuti (28), istituti di patronato pei liberati dal carcere (3), ospedali (1221), ospedali per cronici e incurabili (62), ospizi marini (13), istituti a favore di fanciulli rachitici (2), trasporto di ammalati (1), seppellimento dei morti (31), opere pie di maternità (13), brefotrofi (91), asili per lattanti (10), asili infantili (773), orfanotrofi e collegi (903), riformatori pei giovani discoli (13), pie case d’industria (13), istitu-
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verso delle opere pie accompagnò anche i governi della Sinistra storica, tanto che nel 1880 iniziò a operare una Commissione coordinata da Cesare Correnti con aspirazioni assai ambiziose3. Di tale progetto, incompiuto, rimangono i dati riguardanti Padova4. Qualche anno dopo, un altro importante provvedimento, la legge 20 marzo 1865, n. 2248, nell’allegato C, assimilò la questione della salute pubblica a un problema di ordine pubblico, affidando al Ministero dell’Interno, ai prefetti e ai sindaci la tutela della salute dei cittadini. In seguito, la cosiddetta legge Crispi-Pagliani del 22 dicembre 1888, n. 5849 sulla tutela dell’igiene e sanità pubblica, istituì il Consiglio superiore di sanità con funzioni tecnico-consultive e, all’interno del Ministero dell’Interno, organizzò una Direzione generale della sanità pubblica. In periferia decretò la nascita degli uffici sanitari provinciali, alle dipendenze dei prefetti e di analoghi uffici presso i comuni. Determinò pure che le spese di ospedalizzazione dei poveri fossero a carico dei comuni e dello Stato e creò la figura del medico condotto, ufficiale sanitario dello Stato con funzioni di cura e prevenzione5. Inoltre unificò l’amministrazione sanitaria italiana, intervenendo su assistenza, proti per ricovero di vedove (7), case di ricovero e ricoveri di mendicità (246), manicomi (16), istituti pei sordo-muti (16), istituti per ciechi (10), ospizi per catecumeni (76), opere pie di culto e beneficenza (3.416), istituzioni di culto (2.368), opere pie con iscopi diversi (346), Atti parlamentari, Camera dei Deputati, Legislatura XVI, terza sessione. 3 Massimo Fornasari, Tra carità legale, pietas e filantropia: il fund raising degli istituti assistenziali dall’unificazione agli anni Cinquanta del Novecento, in Il fund raising in Italia. Storia e prospettive, a cura di Bernardino Farolfi e Valerio Melandri, Bologna, il Mulino, 2008, pp. 124-125. 4 Statistica opere pie del comune di Padova anno 1880, Padova, Tipografia Salmin, 1883 (Bibioteca Civica di Padova), BCPd, B.P. 5202. Queste sono classificate in elemosiniere, come la Casa d’industria, educative e ospitaliere, come lo spedale civile, la commissaria Orologio, la Casa di ricovero per maschi e femmine, l’Istituto centrale degli esposti, lo Spedale Fatebenefratelli, considerato un ospizio per soli maschi e la commissaria Marco Lando. 5 Il regolamento di esecuzione fu approvato dopo 13 anni con R.D. 3 febbraio 1901, n. 45. Esso disciplinò per la prima volta le professioni sanitarie.
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fessioni mediche e la profilassi delle malattie infettive. Stabilì che ogni comune dovesse adottare un proprio regolamento d’igiene e chiarì definitivamente che le spese per l’assistenza sanitaria dovessero ripartirsi tra Stato, province e comuni. Questa normativa, opportunamente raccolta in un Testo unico delle leggi sanitarie, fu approvata con R.D. primo agosto 1907, n. 603, che rimase in vigore fino al Ventennio. Infine intervenne la legge Crispi del 17 luglio 1890, n. 6972 a trasformare le opere pie in istituzioni pubbliche di beneficenza, in altre parole a modificarne la natura privata in pubblica. Crispi aspirava a eliminare dal novero di tali istituzioni le opere pie dedite esclusivamente al culto e a sottoporre all’autorizzazione del Ministero dell’Interno la costituzione di nuove opere. Così l’ospedale assunse la veste d’istituzione pubblica di beneficenza e non fu più opera pia, realtà privata, rivolta al bene pubblico. In questa nuova cultura giuridica, la beneficenza assunse un significato assolutamente particolare. Come in ambito previdenziale si erano individuati due pilastri: pubblico, il primo, costituito dalle assicurazioni contratte su base occupazionale, privato, il secondo, facente capo al mutualismo, così, in campo assistenziale, prevalentemente in ambito sanitario, operavano, da una parte, le istituzioni create dallo Stato o da altri enti, che costituivano la cosiddetta carità legale e, dall’altra, gli enti filantropici, le vecchie opere pie, che tenevano in piedi la beneficenza pubblica. Diversamente da altri paesi europei e, in particolare, dall’Inghilterra, l’Italia scelse di collocare l’assistenza sanitaria all’interno della pubblica beneficenza, piuttosto che della carità legale, proprio in considerazione del fatto che gli ospedali del Regno erano stati opere pie e che, anche dopo la riforma del 1890, essi continuarono a essere identificati nelle scritture contabili enti pubblici di beneficenza. Non si trattò per nulla di una questione meramente nominalistica, ma della sorte di una assai lunga tradizione che da secoli aveva considerato l’ospedale una realtà privata, sebbene tutta protesa al soddisfacimento di bisogni pubblici.
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Ospedale e cliniche a Padova di fronte alla riforma Quando fu emanato il provvedimento di Crispi in tema di assistenza sanitaria, l’ospedale di Padova operava secondo uno statuto del 1874, in virtù del quale si dovevano ammettere alla cura gratuita, nei limiti delle proprie capacità finanziarie, i poveri del comune di Padova affetti da malattie curabili, non croniche e nemmeno contagiose. Già negli anni precedenti l’ospedale prestava le proprie cure ai poveri della città, tanto che dal 1869 l’amministrazione tenne un registro specifico per conteggiare tali presenze. Considerando l’anno 1872 i poveri presenti presso il nosocomio erano stati complessivamente 2.009; anche se molti potevano essere stati dimessi e poi nuovamente ricoverati, tuttavia il numero degli indigenti accolto presso l’ospedale era molto elevato. Per molti di questi la durata del ricovero era stata assai lunga, talvolta anche l’intero anno, degenza interrotta quasi sempre dalla morte. Qualcuno soffriva di scabbia o di sifilide6. Ricoverava inoltre ogni infermo, senza tenere conto della residenza del medesimo, purché in grado di provvedere al pagamento della retta e, infine, ogni malato bisognoso di assistenza urgente7. Il nosocomio ospitava le cliniche, amministrava l’ospedaletto delle Terme ad Abano, funzionante grazie al testamento di Giovanni Dondi dall’Orologio del tre gennaio 1789, provvedeva all’allestimento di lazzaretti, infermerie provvisorie e alla somministrazione di medicinali a domicilio. La rendita proveniente dal proprio patrimonio ne garantiva l’operatività. A favore di malati contagiosi, sifilitici, scabbiosi, tignosi, vaiolosi, tifosi, colerosi, idrofobi, di mentecatti e di 6 ASPd, Ospedale civile, b. 2352. Registro degli ammalati poveri a carico dello Spedale. Anno 1872, 1873. 7 BCPd, B.P. 24 1595, Statuto organico dello spedale civile di Padova, Padova, Tipografia Penada 1875, artt. 1-3. Le circostanze che portarono alla nascita del Consiglio d’amministrazione dell’Ospedale civile sono chiarite da Donatella Corchia, Carte da riscoprire: l’archivio ottocentesco dell’Ospitale Civile di Padova, «Archivio Veneto», Anno CXXXVI, V serie, n. 200, pp.113137, Padova, Deputazione di storia patria per le Venezie, 2005. L’autrice traccia pure un’interessante storia delle carte dell’archivio dell’ospedale.
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donne gravide illegittimamente, il consiglio dell’ospedale e le autorità competenti potevano deliberare aiuti speciali8. In attesa che la Congregazione di carità entrasse nel pieno delle proprie funzioni, amministrava diverse commissarie e legati: Fontaniva, Dal Fiume, Capodilista, Volpe e Ceroni. Esso continuò a prestare soccorso anche ai poveri, secondo il proprio statuto, la volontà dei fondatori e la stessa legislazione nazionale9. Il provvedimento crispino era inteso non a variare la mission delle diverse opere pie attive nel Regno, ma a modificarne la natura giuridica che, diventando pubblica, apriva la porta a una pur blanda forma di controllo esercitata dello Stato. La Giunta provinciale amministrativa doveva controllare il funzionamento del nosocomio. Tale importante normativa riconfermava, all’art. 94, il diritto del comune, ove operava l’ospedale, al rimborso, da parte dei comuni di residenza dei pazienti, delle spese di ospedalizzazione di degenti poveri, come, peraltro, avveniva da qualche tempo. Il comune era tenuto alla copertura delle spese del ricovero, ma non a quelle della somministrazione di farmaci al domicilio dei poveri. Si riconosceva l’autonomia di ogni ente, senza esigere da ogni ospedale prestazioni sanitarie minime uniformi su tutto il territorio nazionale. La normativa, inoltre, forse con un certo grado d’inconsapevolezza, introduceva un elemento importante, ricorrente in ogni successivo accordo tra ospedale e università. L’art. 98 statuì l’obbligo da parte del nosocomio di fornire alle cliniche non solo i locali necessari, ma anche i malati e i cadaveri utili all’insegnamento e decretò che fosse dovuta all’ospedale un’indennità equivalente alla differenza fra le maggiori spese sostenute per tale servizio e quelle che avrebbe affrontato, se non avesse dovuto provvedere al servizio didattico, procurando, appunto, pazienti e cadaveri. In pratica all’ospedale era dovuto un indennizzo pari all’incremento delle spese derivante da questa pre8
Art. 10. Sulla legislazione crispina G. Silvano, Pathways to the Contemporary Italian Welfare State, in Reciprocity and Redistribution. Work and Welfare Reconsidered, a cura di Gro Hagemann, Pisa, Edizioni Plus, 2007, pp. 23-42. 9
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stazione aggiuntiva. Il titolo VII della legge fu pure considerevole, avendo definito il domicilio di soccorso. Tale istituto fissava le regole in base alle quali un cittadino poteva reclamare il proprio diritto a cure ospedaliere gratuite, o meglio, a carico del proprio comune di residenza. La legge determinò una certa competenza passiva del comune, tenuto al rimborso delle spese di degenza, o, nel linguaggio di fine Ottocento, all’obbligo di provvedere alla beneficenza, divenuta ormai obbligatoria. Questa normativa, che aveva stabilito di non noverare più tra le opere pie quelle a fine di culto, aprì un acuto contenzioso tra Stato e Chiesa, che trovò soluzione solo nel 1929, non avendo incontrato, per il resto, particolari ostacoli in fase di applicazione. Per oltre 60 anni dall’entrata del Veneto nel Regno, l’ospedale, che pure si era, per così dire, trasformato da opera pia a istituzione pubblica, continuò a godere di una certa autonomia amministrativa, gestionale e finanziaria, dovendo solo dare conto della propria attività, soprattutto finanziaria, alla Congregazione di carità e, in ultima istanza, al Ministero dell’Interno. Il ricovero era obbligatorio solo per i malati in fase acuta di malattia, per i pazienti affetti da patologie croniche, contagiose o curabili a domicilio, non era stata prevista alcuna ospedalizzazione. Ancora per molti anni si rimase fedeli a una logica di contrasto dei rischi derivanti da malattia legata allo stato del cittadino, non ancora a un contratto assicurativo obbligatorio, com’era avvenuto in altri paesi europei e come sarebbe avvenuto nelle politiche previdenziali del costituendo stato sociale italiano. La sicurezza sociale in campo sanitario non fu perseguita da Crispi seguendo l’esempio bismarckiano, che invece adottò contro i rischi connessi agli infortuni sul lavoro, alla vecchiaia e all’invalidità10. Un caso rilevante, notevole anche per la storia dell’ospedale civile, è la vicenda del Fatebenefratelli a Padova, anch’esso sottoposto alla normativa crispina11. L’istituzione della pia 10 Fulvio Conti, Gianni Silei, Breve storia dello Stato sociale, Roma, Carocci, 2005, pp. 39-54. 11 La storia della pia opera Fatebenefratelli a Padova si basa sul saggio di Pietro Borgonzoli, L’azione dello spedale Fatebenefratelli di Padova nelle
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opera si fa risalire agli anni 20 dell’800; riconosciuta il 12 giugno 1824, fu collocata nel convento dei padri ospedalieri, ove potevano essere ricoverati solo pochi ammalati. Per alcuni anni essa poté contare sulle rendite di questi ecclesiastici e sulla carità privata, ma dal 1862, quasi 40 anni dopo la fondazione, iniziarono a sorgere serie difficoltà soprattutto d’ordine finanziario. Fecero fronte alla situazione Silvestro Camerini e il comune cittadino per l’ente, evitandone la chiusura. Anche gli anni seguenti furono difficili per l’ente, ma si riuscì a evitarne la soppressione. Il punto di svolta venne con la pubblicazione nel 1890 della legislazione crispina sulle opere pie che, se si fossero trovate in difficoltà finanziarie rilevanti, tali da compromettere il raggiungimento degli scopi per i quali erano state istituite, potevano o rimanere autonome o fondersi nella Congregazione di carità, oppure, infine, unirsi con altra simile opera. Per fare fronte alle difficoltà del Fatebenefratelli si scelse di unirlo all’ospedale, dopo che i Padri furono allontanati dall’istituto. Con ciò vennero anche meno le rendite legate alla loro presenza, ma il Fatebenefratelli riuscì in ogni caso a disporre di un’entrata che ne consentì il funzionamento. L’ospedale era sue vicende. Cenni storico-critici e considerazioni sul futuro suo indirizzo, Padova, P. Prosperini, 1902. L’autore prestava con l’incarico di chirurgo primario la propria opera professionale presso l’ente che egli stesso descrive. Il suo intervento s’inserisce in un pubblico dibattito sulle sorti della pia istituzione. La provincia Lombardo-Veneta della Congregazione dei Fatebenefratelli aveva istituito un convento a Padova per ospitare i propri religiosi che studiavano medicina presso l’Università. Questa iniziativa era stata sostanzialmente imposta dalle autorità asburgiche che nel settembre del 1817 avevano vietato ai Fatebenefratelli di istituire autonomi corsi di medicina all’interno dei loro ospedali e avevano ordinato che tutto il personale sanitario della Congregazione frequentasse le due università del regno Lombardo-Veneto, Padova o Pavia. Il governo di Vienna aveva di conseguenza promosso l’istituzione del convento a Padova per favorire l’ospitalità di futuri studenti, appartenenti ai Fatebenefratelli, nel rispetto delle regole della Congregazione. Già nell’ottobre del 1817 era stato ordinato al governo centrale di Milano di reperire i fondi necessari a sostenere il nuovo convento, ma solo nel 1824 si arrivò alla concreta apertura del nuovo istituto. Per tutta questa vicenda si veda Adalberto Pazzini, Assistenza e ospedali nella storia dei Fatebenefratelli, Torino, Einaudi, 1956, in particolare pp. 97 e 482-485.
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inizialmente un vero e proprio luogo di ricovero e cura in particolar modo chirurgico, ma dopo l’intervento di Crispi si cercò di individuarne una mission alternativa, che non si confondesse con quella dell’ospedale civile e delle cliniche universitarie. Furono presentate diverse proposte di riforma e alla fine prevalse l’idea di ridurre il Fatebenefratelli a luogo di ricovero non specialistico, aperto anche alle esigenze dei convalescenti. Nei bilanci dell’ospedale civile, questo istituto continuò a comparire come ente preposto all’accoglienza di malati cronici e convalescenti, potendo erogare i propri servizi nei limiti imposti dalle risorse sulle quali poteva contare12.
Un bilancio dell’ospedale prima della riforma Ai sensi della legislazione sanitaria italiana, che Crispi aveva contribuito a riformare non solo con il provvedimento del 1890, ma soprattutto con quello di poco precedente del 1888, promulgando il Codice d’igiene e sanità pubblica, la presentazione del bilancio dell’ospedale cittadino aveva assunto il carattere di un avvenimento pubblico. Il documento doveva essere pubblicato nel registro degli Atti municipali ed esposto nei luoghi più frequentati. Ogni opera pia e, in seguito, ogni istituto di pubblica beneficenza, era tenuto a seguire questa procedura: veniva pubblicato un avviso generale contenente le informazioni essenziali per accompagnare il cittadino interessato a visionare il documento di bilancio, che, generalmente, rimaneva a disposizione per una settimana. Anche prima dell’entrata in vigore di tale normativa, l’amministrazione dell’opera pia, denominata Spedale civile, avvisava 12
Il Fatebenefratelli poteva, secondo le più diverse indicazioni, essere adibito «per le malattie causate da traumi o che si specializzi ancor più facendone un reparto per la cura radicale degli erniosi, o che se ne faccia un nosocomio misto per bambini e adolescenti d’ambo i sessi, o che si voglia adibirlo per il ricovero di quei fanciulli che, non potendo essere accolti nella clinica pediatrica, non devono essere ricoverati in sale comuni agli adulti», P. Borgonzoli, L’azione dello spedale, p. 27.
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che i bilanci presuntivi, tanto di questo Spedale quanto delle altre opere pie tenute sotto la stessa amministrazione, e qui in seguito specificate, rimarranno depositate presso la segreteria della locale direzione per giorni otto consecutivi, ossia dal primo all’8 ottobre p.v. inclusivo, dalle ore 9 antimeridiane alle 3 pomeridiane, con facoltà a chicchessia di prenderne visione e presentare alla scrivente i suoi eventuali reclami13.
Questo avvenne il 20 settembre 1871. L’ospedale, che amministrava e poteva contare sugli introiti di sei commissarie, era, a sua volta, sottoposto all’occhio vigile dalla Congregazione di carità. Il bilancio era un documento complesso, ricco d’informazioni sul profilo dell’ente. Il rendiconto consuntivo 1872 dello Spedale civile, detto Pubblico generale, di Padova fu preparato dal servizio ragioneria dell’istituto, che suddivise le entrate in tre titoli: rendite patrimoniali, avventizie, interinali e di giro e le uscite in spese d’amministrazione, di beneficenza interna, di beneficenza esterna, in partite interinali e di giro. Le rubriche riguardanti sia le rendite sia le spese erano numerose e nel complesso mostravano con precisione le funzioni del nosocomio cittadino. A fine 1872 la differenza tra entrate e uscite, calcolata tenendo conto dei residui dell’esercizio 1871 e delle somme in dare e in avere per competenza 1872, è pari a 48.414,34 lire, pure a fronte di un saldo attivo di 13.196,84 lire, se si considerano sia le somme esatte sia i residui pari a 13.196,84 lire14. Il consuntivo 1872 e lo stato della cassa mettono a disposizione i dati essenziali riguardanti l’ente. Le entrate complessi13
ASPd, Prefettura italiana, b. 939, fasc. Prefettura di Padova, I/26, anno 1871. Le opere pie amministrate dall’ospedale erano sei commissarie: Dal Fiume, Ceroni, Capodilista, Fontaniva, Orologio, Volpe. Qualche anno dopo, nel bilancio dell’ospedale del 1872, la commissaria Volpe risulta amministrata dalla Commissione di pubblica beneficenza. 14 I dati complessivi sono stati resi disponibili in Appendice B. Qualche utile apporto è pure presente nel saggio di Andrea Antonelli, Cenni storici sull’origine e sulle vicende dello spedale civile di Padova, Padova, L. Penada, 1885, pp. 71-96. Si tratta di un bilancio che esprime fedelmente attività e passività dell’ente e la sua mission.
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ve, insufficienti a far fronte a tutte le uscite, coprivano, tuttavia, onorari, spese d’ufficio, affitti, pensioni, salari, medicinali, combustibili e altro ancora; qualche ritardo si registrò nel pagamento d’imposte e d’interessi su capitali a mutuo. L’ospedale, opera pia, era tenuta al pagamento dell’imposta prediale sulla rendita imponibile degli immobili e su quella censuaria dei fondi rustici15. Nella provincia di Padova le partite erano complessivamente 82, e solo 6 erano immobili. Alcune tra queste proprietà erano anche gravate da una sovrimposta comunale. La somma era pari a poco meno di 28.000 lire e, di queste, rimanevano da pagare solo 22,26 lire16. Altre proprietà l’ente vantava nelle province di Venezia, ad Arino, Fossò, Vigonovo, Mellaredo, Pianga e di Verona a Zimella, Quinto, Cerea, Porto Legnago. Si trattava di altre 18 proprietà. L’ospedale saldava un’imposta consorziale agli esattori di 23 consorzi, Bacchiglione e Brentella, Tergola, Quinta Presa, Sesta Presa, Fossa Paltana, Colli Euganei e altri ancora. Pagava pure all’esattoria comunale di Padova la tassa di ricchezza mobile sul ricavato da obbligazioni sulle Valli veronesi; alla tesoreria provinciale le trattenute sul pagamento degli interessi posticipati sopra obbligazioni dello Stato e al ricevitore dell’Ufficio del Registro la tassa successioni e manomorta. L’ospedale onorò le non poche obbligazioni tributarie alle quali era sottoposto con puntualità e il debito si assestò a poco meno di 23 lire. Una somma così esigua non significa che il debito dell’ospedale a titolo d’impo15
Quando si rese necessario procedere all’unificazione del Regno sul piano degli ordinamenti, la Destra storica si era trovata costretta a omogeneizzare sistemi tributari diversi tra loro, giungendo all’approvazione, il 14 luglio 1864, del conguaglio provvisorio dell’imposta fondiaria. Fu un risultato importantissimo, conseguito lo stesso giorno in cui fu approvata la legge istitutiva dell’imposta sui redditi di ricchezza mobile. A proposto della fondiaria, Marco Minghetti ricordò alcuni anni dopo l’approvazione «Chiunque risalga col pensiero ai primordi del Regno d’Italia ricorderà facilmente come, non appena le diverse province della penisola si furono riunite, si manifestò universale e vivissimo il sentimento della perequazione nella imposta fondiaria che essi pagavano», citato in Gianni Marongiu, Storia del fisco in Italia, I, La politica fiscale della Destra storica (1861-1876), Torino, Einaudi, p. 77. 16 ASPd, Ospedale, Consuntivo 1872, Parte passiva, allegato IV.
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ste fosse realmente così basso, giacché a bilancio non risultano eventuali debiti d’imposta. Ben più consistente era l’importo non ancora pagato per interventi edilizi contabilizzati nel 1872 sulle proprietà dell’ospedale. Sono a bilancio 73 ordini di pagamento e, fra questi, uno a favore di un muratore, di un falegname e di un «finestraio» per lavori eseguiti in piccole abitazioni concesse gratuitamente a povere vedove della città. Per lavori eseguiti su altre proprietà dell’ospedale, non furono effettivamente pagate più di 1.000 lire e, per far fronte al debito, l’estensore del bilancio annotò che si sarebbe addebitata la commissaria Volpe17. Indicativo era anche il debito per interessi su somme prese a prestito grazie a due livelli censuari contratti, il primo, nel 1723 e, il secondo, nel 1755. Le somme mutuate erano originariamente conteggiate in fiorini, l’interesse fu calcolato sull’equivalente in lire al tasso del 5 e del 3%. Con ogni evidenza l’ospedale intese non affrancare il capitale mutuato18. Non pagò nel corso del 1872 gli interessi, pari a 2.351 lire, alla tesoreria provinciale di Padova, sulla metà del capitale dipendente dall’affrancazione di due legati, ma puntualmente liquidò gli interessi alla Banca del Popolo di Padova su capitali presi a prestito e regolarmente autorizzati dalla prepositura dell’ospedale. Sessantadue tra enti e persone fisiche erano titolari di un contratto di livello. Tra questi figurano l’ospedale Fatebenefratelli di Padova, creditore di 7,57 lire, S.A.R. ex arciduca di Modena di 53,64 lire, la commissaria Volpe, amministrata dal17 ASPd, Ospedale, Consuntivo 1872, Parte passiva, allegato V, partita 36. L’ospedale doveva oltre 600 lire al comune di Padova, che aveva provveduto a sistemare il porticato di via S. Francesco (partita 68), e poco meno di 6.000 lire per altri lavori eseguiti ma non specificati per il pagamento dei quali si obbligarono le rendite della commissaria Fontaniva per l’anno 1872 e 1873 (partita 70). 18 ASPd, Ospedale, Consuntivo 1872, Parte passiva, allegato VII, partite 1-2. I notai che rogarono gli atti furono Tommaso Festari e Francesco Fantuzzi. Le somme mutuate erano pari a fiorini 2.084.125, equivalenti a 5.145,99 lire e a fiorini 3.707.525 pari a 9.154,52 lire. L’importo annuo degli interessi era di 257,28 e di 274,63 lire.
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la Commissione di pubblica beneficenza di Padova, di 18,90 lire19. Molti erano gli enti ecclesiastici che godevano gli interessi su un livello censuario contratto dall’ospedale: la Congregazione dei parroci, benefici parrocchiali, cappellanie, il seminario, la mensa vescovile e fabbricerie diverse, ma non pochi erano anche i privati cittadini che riscuotevano somme: Pietro Selvatico, Arpalice Papafava, Moisè Vita Jacur, Antonio Dondi dall’Orologio, Giulio Mussato, Benedetto Giovanni Selvatico Estense, Francesco De Lazzara e molti altri ancora. Analogamente l’ente ospedaliero doveva sobbarcarsi gli aggravi che insistevano sui legati a suo favore, come accadeva da secoli nel caso della commissaria Volpe Giacomo, istituita con testamento 26 settembre 1423, in forza del quale, le cinque qui sotto descritte, oltre l’uso gratuito delle cinque casette poste in Padova, descritte in allegato fitti, percepiscono stara 6 frumento e lire 1,52 per cadauna20.
Tra gli enti beneficiari ci sono molte cappellanie e mansionerie, l’Istituto degli esposti e chiese della provincia. La tipologia delle spese contabilizzate era davvero assai articolata: tra queste si conteggiarono esborsi a favore del personale per prestazioni particolari e nell’allegato pensioni e vitalizi sono a carico dell’ospedale sei persone. Tali uscite furono regolarmente saldate e non dettero luogo a debito alcuno. Con la stessa puntualità l’ospedale pagò i salari al proprio personale. I dipendenti erano divisi in quattro sezioni: la prima raccoglieva tre primari, 10 medici e impiegati e due cappellani che percepivano mensilmente tra poco più di 100 e poco meno di 44 lire21. Il secondo gruppo di addetti era costituito dalle suore terziarie infermiere delle sale, 20 in tutto, che riscuotevano, ciascuna, 29,37 il mese. Gli infermieri di sala e i facchini erano 19 ASPd, Ospedale, Consuntivo 1872, Parte passiva, allegato VIII, partite 60, 58, 52. 20 ASPd, Ospedale, Consuntivo 1872, Parte passiva, allegato IX, partita 6. 21 ASPd, Ospedale, Consuntivo 1872, Parte passiva, allegato XIII, partite 1-21.
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37 e percepivano salari variabili, attorno a 40 lire mensili. Infine c’erano gli infermieri e i facchini in servizio presso le quattro cliniche universitarie: sette in clinica medica, sei in quella chirurgica, cinque in oculistica, due in ostetricia, gli uomini di fatica erano complessivamente due. Questi ultimi guadagnavano 40,18 il mese; l’infermiere in chirurgia e medicina 45,92 e in oculistica 42,86. Nel complesso per i salari l’ospedale spendeva annualmente 11.809,40 lire per medici e impiegati, 5.255,59 per le suore terziarie, 13.731,98 per gli infermieri e 9.412,65 per quelli delle cliniche universitarie. La contabilizzazione dei salariati dell’ospedale era piuttosto complessa. Mensilmente l’ente emetteva un mandato di cassa del valore dei salari dovuti e un documento riassuntivo suddiviso in categorie salariali: suore terziarie e laiche infermiere, infermieri di sala, personale sanitario, di cucina, di farmacia, di guardaroba e di lavanderia. Seguivano gli elenchi nominativi del personale, che riportavano il compenso annuale e mensile22. Se qualche debito l’ospedale pur si accollò per il pagamento d’interventi di manutenzione, assai puntuale si mostrò invece nel pagamento delle forniture di generi alimentari e, più in generale, di quanto era necessario al ricovero del paziente. Veniva fatto il conto delle presenze giornaliere in ognuna delle divisioni ospedaliere e a ogni giorno di degenza era riconosciuto un determinato importo. Nel 1872 ogni giorno di ricovero di maniaci, scabbiosi, sifilitici e di meretrici comportava un esborso di 1,30 lire; per i malati comuni la spesa era pari a 0,95 centesimi il giorno. Il costo totale per patologia era pari a 29.364,40 per i maniaci, a 240,50 per gli scabbiosi, a 15.217,80 per i sifilitici e le meretrici e a 77.035,50 per tutti gli altri23. Il grafico 4 riporta il numero dei giorni di degenza, suddivisi per patologia, su base mensile con riferimento al 1872.
22 ASPd, Ospedale Civile, San Francesco, b. 1555, 1885, titolo 4°, Spese di beneficenza, XVII, Salari. 23 ASPd, Ospedale, Consuntivo 1872, Parte passiva, allegato XV, partita 1. Complessivamente la spesa era pari a 121.858,20 lire.
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10.000 9.000 8.000 7.000
Maniaci
6.000
Scabbiosi
5.000
Sifilitici e meretrici
4.000
Malati comuni
3.000 2.000 1.000 0 aio
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Grafico 4
La seconda partita era parzialmente diversa: essa si riferiva ai degenti presso le cliniche universitarie ed è organizzata tenendo conto del costo del tipo di dieta dei pazienti. Queste erano quattro e a ciascuna corrispondeva un prezzo oscillante da 0,84 centesimi a 2,30 lire. Per ogni dieta, mensilmente, si conteggiavano le giornate di ricovero che erano state, nel 1872, 21.822, contro le 115.569 calcolate in ospedale. La spesa fu pari a 36.681,40 lire per l’intero anno. Quest’uscita figura a carico dell’ospedale in base all’accordo del 31 ottobre 1870 che aveva consentito la stipulazione di un contratto, il 6 giugno 1871, tra l’erario e l’ospedale. Questo aveva fissato il corrispettivo a favore dell’ospedale «i quali importi emergono in attivo nell’allegato X dozzine del R. Erario». Era operativo un vero e proprio protocollo d’intesa tra l’amministrazione dell’ospedale civile di Padova e le cliniche universitarie in base al quale l’ospedale si accollava le spese di degenza dei pazienti in esse ricoverati, potendo contare su un contributo erariale determinato per legge. Fu compito del Ministero dell’Interno attivare e perfezionare questo tipo di contratti. Per cassa l’ospedale pagò le spese riguardanti oggetti di culto. Si trattava di esborsi per cera, vino da consacrare, biancheria da usare per gli altari delle divisioni ospedaliere e per il tem128
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pietto dell’istituto, che, nell’insieme, ascesero a 613,30 lire24. Ben più consistente era la spesa per accogliere gli affetti da vaiolo presso il lazzaretto comunale agli Ognissanti. Anche in questo caso l’ospedale aveva stipulato una convenzione in base alla quale amministrava il lazzaretto ed era finanziariamente responsabile di 12 presenze giornaliere a una lira il giorno. Questo contributo era classificato come una «dozzina». Anche per i salari vigeva un accordo; il primario era a carico del comune e l’assistente dipendeva dall’ospedale. Cappellano, infermieri e inservienti erano salariati del comune, che pure provvedeva al vitto degli ammalati e degli infermieri «reclusi», al salario degli addetti alle cucine e alle spese di funzionamento25. L’ospedale distribuiva risorse anche a titolo di elemosina e di sussidio. In questo caso particolare, il contabile determinò anzitutto l’ammontare delle risorse disponibili a tal fine nel corso del 1872, per descriverne, poi, l’impiego. La somma era stata fissata in 915,85 lire che fu assegnata ai medici dell’ospedaletto di Abano, dove i poveri di Padova e di Abano potevano recarsi per cure termali gratuite, godendo anche delle risorse a ciò destinate da Giovanni Dondi dall’Orologio nel suo testamento del 1789. Altri fondi andavano al vetturale che trasportava, da Padova ad Abano e viceversa, pazienti poveri. L’ospedale non onorò prontamente queste obbligazioni, tanto che restarono da pagare 932,38 lire26. Il nosocomio era anche attivo nell’assegnazione di doti a fanciulle bisognose. La povertà di molte famiglie impediva alle figlie di contrarre matrimonio o di entrare in convento, poiché una dote, pur modesta, era condizione irrinunciabile per spo-
24
ASPd, Ospedale, Consuntivo 1872, Parte passiva, allegato XXI. Complessivamente la spesa fu pari a 2.852,53 e coprì il periodo estivo del 1872 (ASPd, Ospedale, Consuntivo 1872, Parte passiva, allegato XXIV). 26 L’ospedale amministrava anche fondi derivanti da atti di ultima volontà, come nel caso del legato di Antonio degli Ovetari del 1843 per «redimere i carcerati per debiti» o del testamento di Santa Bidella del 1446, a favore di prigionieri, a titolo di elemosina, per pane e vivande (ASPd, Ospedale, Consuntivo 1872, Parte passiva, allegato XXVIII). 25
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sarsi o per monacarsi27. L’ente poteva, a questo fine, contare su alcune commissarie che mettevano a disposizione mezzi da destinare a doti. L’ospedale amministrava tale ricchezza e garantiva la realizzazione delle finalità che i diversi testatori avevano espresso istituendo, appunto, le commissarie. Nel 1514 Marco Fontaniva ne aveva istituita una, che assicurava la possibilità di finanziare ogni anno 21 doti del valore di 153,82 lire ciascuna. Le fortunate appartenevano a diverse parrocchie cittadine28. Per le stesse finalità, l’ente poté contare sugli interessi derivanti da un deposito presso la Cassa di risparmio cittadina e dai fitti di un fondo che complessivamente, tenuto conto anche di un resto dell’anno precedente, avevano messo a disposizione la somma complessiva di 3.551,27 lire nette, dopo che erano state pagate varie imposte, tasse e quota d’amministrazione alla Congregazione di carità e con l’importo suddetto il consiglio d’amministrazione nella sua seduta del 20 febbraio 1873 deliberò la distribuzione a sole grazie n. 16, che a £. 153,82 per cadauna, danno l’importo di £. 2.461,12, limitando, anche in quest’anno, la beneficenza, onde formar il fondo per far fronte ai lavori di ristauro nelle fabbriche della commissaria Fontaniva, fondo che per l’anno 1872 ascese a 1.090,15 lire.
La seconda partita si riferiva alla commissaria istituita nel 1725 da Girolamo Dal Fiume per beneficiare due fanciulle residenti nelle parrocchie di S. Giorgio e di S. Agnese di Padova. In questo caso l’importo della dote era pari a 96,26 lire. La commissaria Ceroni, istituita dall’arciprete di Vigodarzere nel 1799, metteva a disposizione annualmente 9 doti del valore di 31,52 lire da mettere a disposizione di fanciulle residenti nel comune. Infine la commissaria Capodilista, istituita nel 1616, attribuiva annualmente 176,44 lire a una donna della parrocchia di S. Daniele e 56,72 lire a quattro fanciulle residenti nelle località 27
G. Silvano, A beneficio dei poveri, pp. 391-425. ASPd, Ospedale, Consuntivo 1872, Parte passiva, allegato XXIX. L’importo originario era pari a 50 ducati e a fiorini 62.30. 28
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di Montecchia, Tribano, Mandria e Castelnuovo. Le doti erano pagate per cassa. Nel bilancio 1872, infine, risultava ancora non pagata una somma pari a 465,58 lire, che l’ospedale doveva accreditare a un fornitore per somministrazioni avvenute nel 1866, a favore di militari italiani, ricoverati nei tre ospedali militari temporanei di S. Agostino, S. Giustina e Seminario29. Le passività dell’ospedale, come appaiono rendicontate in bilancio, mettono in evidenza una serie di obbligazioni, di diversa natura, che l’ente, nella maggior parte dei casi, onorò entro i termini fissati, con la stessa puntualità che si riscontra nella sezione delle attività. L’ente intratteneva, a titolo d’affitto di abitazioni e di fondi rustici, 166 contratti. Molti erano a titolo gratuito, come quelli che regolavano l’uso di alcune casette destinate a vedove indigenti30. L’affitto dei locali in uso alle cliniche universitarie, per un importo complessivo di 2.000 lire l’anno, era girato all’ospedale direttamente dall’erario regio. Tra i conduttori figurano il comando militare, che affittò i bagni termali di Monteortone, il comune cittadino, che locò gli spazi per un cimitero militare nel circondario esterno della città e molti privati cittadini. Assai importanti erano le entrate che l’ospedale fece proprie a titolo d’interesse su capitali dati a mutuo. Anche sotto questo profilo, l’ente, nel 1872, manifesta ancora caratteri tipici degli enti assistenziali ed ecclesiastici d’antico regime, da sempre attivi nel mercato dei livelli censuari. Trentanove mutuatari avevano complessivamente avuto dall’ospedale somme pari a 198.546,10 lire, che fruttavano, a titolo d’interessi, 10.045,98 lire l’anno31. Una somma ancora maggiore l’ospedale lucrava dallo Stato per interessi sul debito pubblico. Alcuni importi non sono contabilizzati perché l’accredito degli interessi era in scadenza dopo il 31 dicembre 1872. Tutti i certificati del debito pubblico sottoscritti erano stati emessi a un interesse del 5% e solo l’acquisto effettuato 29 30
ASPd, Ospedale, Consuntivo 1872, Parte passiva, allegato XXXV. ASPd, Ospedale, Consuntivo 1872, Parte attiva, allegato I. Via Filla-
stretta è il vicolo Caterina Davila. 31 ASPd, Ospedale, Consuntivo 1872, Parte attiva, allegato IV.
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in base all’offerta del 5 novembre 1869 assicurava un interesse del 3%. Alcuni certificati erano di proprietà della commissaria Ceroni e altri erano obbligazioni del prestito 1859 n. 23 che garantivano 2,46 lire per ciascun titolo posseduto. L’ospedale investì anche in cartelle del debito pubblico, che assicuravano il medesimo interesse e poteva contare su cinquantotto partite attive, che garantivano all’ente esazioni pari a 17.920,73 lire, tutte per cassa32. I livellari erano 150 che portavano all’ospedale generi e numerario per un importo complessivo pari a 11.089,44 lire33. Le cosiddette «dozzine» coprivano costi che, altrimenti, l’ospedale non poteva fronteggiare, le obbligazioni alle quali era tenuto, non solo per legge, ma in base allo statuto e alla propria mission. L’erario doveva regolare al nosocomio i costi per il trattamento dei «malati clinici», ascendente a 41.907,06 lire per tutto il 187234. La stessa fonte sosteneva pure la cura dei detenuti, quasi 2.400 lire nel 1872, delle meretrici sifilitiche, per un importo di poco inferiore a 17.000 lire, delle guardie doganali, di pubblica sicurezza e dei vaiolosi ricoverati presso il lazzaretto comunale. I comuni della provincia di Padova davano un contributo per il ricovero di propri residenti in ospedale a Padova, così come ogni comune di residenza del ricoverato era obbligato a finanziare l’assistenza dei propri ammalati dichiarati poveri, vigendo la regola della reciprocità. A questo titolo l’ospedale incassò oltre 100.000 lire, rimanendo in credito di un importo inferiore a 9.000 lire35. Una som32
ASPd, Ospedale, Consuntivo 1872, Parte attiva, allegato V. Il conteggio fu fatto tenendo conto del prezzo unitario per unità di frumento, pari a 80 lire e di granato a 24 lire. Galline, galli e capponi valevano poco meno di 6 lire. Inoltre, dalla somma così ottenuta, furono detratti i livelli passivi a carico dell’ospedale. Il numerario esatto per cassa fu pari a 7.182,28 lire (ASPd, Ospedale, Consuntivo 1872, Parte attiva, allegato VI). 34 Per i malati ricoverati in clinica medica 7.645,66 lire, in quella chirurgica 13.786,01, nell’oculistica 7.630,79 e in clinica ostetrica 12.844,60. Inoltre l’erario provvedeva all’affitto dei locali, al pagamento degli infermieri straordinari e ad altre spese non meglio specificate. Complessivamente l’attività clinica a Padova costava all’erario 49.888,58 lire (ASPd, Ospedale, Consuntivo 1872, Parte attiva, allegato X). 35 ASPd, Ospedale, Consuntivo 1872, Parte attiva, allegato XI. 33
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ma molto più contenuta risultò a carico dei cittadini assistiti: 116 ricoveri registrati che, nel complesso, comportarono un incasso di 6.309,30 lire36. Qualcuno donava all’ospedale o generi o denaro, che la ragioneria contabilizzava tra i proventi diversi. La Banca del popolo, per offerta spontanea, accreditò 500 lire all’ente e abbonò il pagamento d’interessi dovuti su un debito di 20.000 lire; alcuni privati donarono «acque catulliane, sciroppo di china ferruginoso e fernet febbrifugo»37. La stessa amministrazione comunale accordò un sussidio di 25.000 lire per coprire in parte la «deficienza» dell’anno 1872. Nel corso di questo esercizio finanziario, enti e persone fisiche restituirono o, meglio, rimborsarono all’ospedale somme che erano state anticipate. Molti comuni accreditarono ciascuno piccole somme, non superiori a 30 lire, «per rifusione spese di trasporto a domicilio di malati convalescenti nel corso dell’anno 1872»38. Per la gestione e il funzionamento degli ospedali militari, il nosocomio introitava contributi dal comune di Padova «per altrettante pagate a medici e chirurghi nello spedale militare di Santa Giustina e dal medesimo rifondibile, ritenendo a suo carico quel dispendio in £. 1.866,05»39. Inoltre l’Intendenza generale militare per cure e trattamento di militari infermi doveva una somma pari a 2.446,70 lire. All’interno di questo registro è pure rilegata la «dimostrazione dello stato patrimoniale fruttante, che si unisce a corredo del consuntivo 1872, in ordine al dispaccio dell’eccelsa con36
Molti ricoveri erano di breve durata (ASPd, Ospedale, Consuntivo 1872, Parte attiva, allegato XII). Anche l’Istituto centrale degli esposti pagò la dozzina per alcuni malati ricoverati in ospedale (allegato XIII). 37 ASPd, Ospedale, Consuntivo 1872, Parte attiva, allegato XIV. Virgilio Giormani, Girolamo Melandri Contessi, in Dizionario Biografico degli Italiani, 2009. 38 ASPd, Ospedale, Consuntivo 1872, Parte attiva, allegato XXII. La provincia di Padova pagava il trasporto presso il manicomio centrale di «maniaci pericolosi». L’ospedale vantava un credito ascendente a oltre 10.000 lire nei confronti dell’erario per somministrazioni straordinarie di medicinali, acqua e fanghi alle cliniche e al gabinetto patologico avvenute prima che il Veneto entrasse a far parte del Regno d’Italia. 39 ASPd, Ospedale, Consuntivo 1872, Parte attiva, allegato XXVII.
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gregazione centrale 29 novembre 1860». La prima rubrica stabilisce il valore degli immobili a Padova e dei fondi rustici nelle province di Padova, Verona e Venezia. Si determinarono imponibile e rendita censuaria che poi, secondo un determinato parametro, fungevano da base di calcolo per la determinazione del valore del patrimonio dell’ente. Al 31 dicembre 1872 possedeva fabbricati per una rendita imponibile complessiva pari a 22.131,82 lire e fondi rustici pari a una rendita censuaria di 29.268,72 lire. Tali importi erano poi «ridotti a capitale» che complessivamente si attestava a 1.074.985,27 lire. La proprietà fondiaria aveva un valore di 632.248,87 lire e quella immobiliare di 442.636,40. Il coefficiente di rivalutazione era più alto per la rendita censuaria. La seconda rubrica elenca i capitali prestati a privati cittadini e a enti, come l’Arca del Santo in debito di poco meno di 27.000 lire nei confronti dell’ospedale. In totale l’ente poteva vantare crediti per 205.953,51 lire. La terza registra i titoli del debito pubblico posseduti, pari a un valore di 387.283,66 lire. Il capitale impegnato in contratti di livello censuario era pari a 111.137,68 e il capitale sottostante alla rendita da legati attivi si attestava a 408,40 lire. L’ammontare complessivo del patrimonio dell’ospedale era di 1.779.768,52 lire. Da questa somma si dovevano sottrarre le passività; quelle a titolo di capitali a credito, come nei confronti della Banca del popolo, verso la quale nel 1872 l’ente era a debito per 50.000 lire, e quelle per livelli e legati passivi che, in totale, aggravavano il patrimonio attivo di un importo pari a 185.395,33 lire. Risultava in tal modo che l’ospedale poteva contare su un patrimonio netto pari a 1.594.373,19 lire. Completa il documento un giornale di cassa dell’ospedale che registra le partite in entrata e uscita durante l’anno in questione. Questo bilancio, meglio di ogni altro documento, mette a disposizione elementi assai significativi per ricostruire la complessa fisionomia dell’ente in questione che svolgeva, oltre alle funzioni proprie, inerenti alla cura dei malati, anche un’intensa attività economica e finanziaria che consentiva all’istituto di far fronte alle necessità del caso, pur alla presenza di un sostegno
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«pubblico» che, anche se presente e ben articolato, non copriva tuttavia che una parte delle spese incontrate. Durante l’anno successivo la città fu colpita dal colera e in tale circostanza il comune era l’ente finanziariamente responsabile del mantenimento di chi era sospettato di malattia e tenuto a disposizione presso la casa di osservazione in via S. Chiara o, se si trattava di famiglie, in via S. Gregorio Barbarigo. All’amministrazione comunale era addossata la spesa per far fronte all’epidemia, compito che coinvolse principalmente l’ospedale e marginalmente le cliniche40.
Un bilancio dell’ospedale dopo la riforma Ancora molti anni dopo la riforma crispina della beneficenza del 1890, l’ospedale civile di Padova continuò a presentarsi, nei documenti di bilancio, come opera pia e non come istituto di pubblica beneficenza, sebbene la documentazione fosse redatta secondo l’art. 19 della legge 17 luglio 1890 e l’art. 11 del regolamento di contabilità41. Poteva, certo, trattarsi di una questione meramente verbale, ma in realtà essa attestava la difficoltà incontrata dalle opere pie nel mutare pelle, costrette ad assumere natura di ente pubblico. Facendo ancora riferimento al documento di bilancio, l’impianto complessivo del consuntivo si allontana solo di poco da quello redatto più di 30 anni prima42. Spiccano, tra le spese, i contributi assicurativi che l’ente ospedaliero sborsò a favore dei propri addetti, seguendo in ciò le indi40
ASPd, Atti del comune, Colera 1873, fasc. 1552, 1614. Tra le più note pandemie europee di colera del XIX secolo non si conta questa del 1873. G. Cosmacini, Le spade di Damocle. Paure e malattie nella storia, Roma-Bari, Laterza, 2006, pp. 118-129 e Eugenia Tognotti, Il mostro asiatico. Storia del colera in Italia, Prefazione di Giovanni Berlinguer, Roma-Bari, Laterza, 2000. 41 ASPd, Ospedale, Conto finanziario-consuntivo 1905. 42 Il bilancio 1905 uscì, come sempre, dalla ragioneria dell’ente. Le entrate furono pari a 1.115.101,33, le uscite a 1.187.032,63 e il disavanzo a 71.931,3 lire.
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cazioni crispine e altre successive in materia previdenziale. Molta attenzione fu volta alla contabilizzazione dei residui attivi e passivi dell’esercizio finanziario appena trascorso, preceduta da un interessante «riassunto dell’inventario eretto dal commissario professor Pietro D’Alvise il 15 agosto 1905» del patrimonio mobiliare della pia opera. Gli oggetti furono catalogati in base al materiale di costruzione: legno, ferro, rame, ottone, latta, zinco, stagno, packfong (alpacca), pietra, ghisa, argento, bronzo, terraglie, vetro, osso, gesso, cuoio, piombo. Inoltre si registrò la presenza di due macchine per scrivere. In questi anni l’organizzazione dell’ospedale era notevolmente migliorata rispetto a quella del 1872 e i servizi messi a disposizione erano pure aumentati. Oltre le divisioni di medicina e chirurgia, erano in funzione anche quelle di psichiatria e di dermosifilopatia. In realtà si trattava, in entrambi i casi, di due cliniche universitarie sistemate in locali dell’ospedale. Ernesto Belmondo, professore di psichiatria a Padova, era direttore dell’istituto di psichiatria, denominato, nel 1904, istituto per le malattie nervose e mentali e poi, nel 1906, Clinica per le malattie nervose e mentali. L’istituto di clinica psichiatrica fu attivo dal 190943. Achille Breda, di43 Lo stesso Belmondo il 22 ottobre 1906 aveva indirizzato al rettore, perché la trasmettesse al Ministro, una richiesta basata sul nuovo regolamento per la facoltà di medicina e chirurgia che aveva soppresso l’insegnamento di Clinica psichiatrica, sostituendolo con quello di Clinica delle malattie nervose e mentali. Il Consiglio superiore della pubblica istruzione aveva decretato che l’insegnamento delle malattie nervose dovesse essere strettamente legato a quello delle malattie mentali «già prima d’ora, per successivi decreti reali, le antiche cattedre di psichiatria sono state trasformate in cliniche delle malattie nervose e mentali in quasi tutte le università del Regno e così i titolari delle rispettive cattedre hanno assunto la qualifica di professori di clinica delle malattie nervose e mentali» (Archivio generale d’ateneo di Padova AGAPd, Atti del Rettorato, b. 28, posiz. 24). Belmondo domandò questo cambiamento anche per ottenere dall’ospedale civile materiale per l’insegnamento ai sensi dell’art. 98 della legge Crispi del 1890. Il 22 settembre dello stesso anno aveva chiesto al Ministro un contributo straordinario di 5.000 lire per l’impianto di un laboratorio clinico psichiatrico e neuropatologico. Il rettore, Vittorio Polacco, appoggiò la richiesta di Belmondo tenendo anche conto della sua nomina a direttore del nuovo manicomio provinciale di Padova. Lo stesso Belmondo alla fine del 1907 aveva fatto spo-
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rettore della clinica dermosifilopatica, affinché la clinica fosse opportunamente dotata di materiale scientifico, una volta che essa si fosse trasferita nella sua nuova sede, s’impegnò personalmente a far dono di ben 5.000 lire44. Il Consiglio amministrativo dell’ospedale civile il 30 novembre 1906, scrivendo al rettore, assicurò di avere avviato le pratiche per la costruzione di una nuova clinica dermosifilopatica e annesso padiglione ospedaliero45. Sembra questo essere stato un momento particolarmente favorevole, almeno per prendere in considerazione ampliamenti, se non addirittura nuove costruzioni, di edifici ospedalieri. Anche Yervant Arslanian, nome troncato in seguito in Arslan, armeno di nascita ma già in possesso della cittadinanza italiana, allora libero docente di otorinolaringoiatria, disciplina nuova da lui appresa durante il suo soggiorno a Parigi negli anni immediatamente dopo la laurea, su carta semplice scrisse al rettore una nota, il 22 settembre 1906, affinché la inoltrasse all’amministrazione dell’ospedale, per l’attivazione di un ambulatorio, vale a dire per la messa a disposizione d’idonei locali per visitare e prestare cure ambulatoriali ai pazienti46. In questo torno di tempo l’ospedale si dotò di un regolamento per disciplinare le elargizioni a favore della pia opera. All’innovazione tecnologica erano diventati tutti attenti. Quando, nel 1904 Edoardo Bassini avviò le pratiche per sistemare un nuovo gabinetto radiologico presso la clinica chirurgica da lui diretta, ogni ente fece la propria parte: la Commissione provinciale di assistenza e beneficenza, che diede l’assenso all’uso dell’avanzo di bilancio 1903 della fondazione Vanzetti, la facoltà di medicina, che approvò il progetto di Bassini e l’ospedale civile che, il 26 luglio 1909, avallò l’iniziativa scrivendo al rettore che stare presso il manicomio il materiale scientifico necessario al suo lavoro, in attesa che una specifica convenzione potesse stipularsi con l’amministrazione provinciale, oppure con l’ospedale medesimo (AGAPd, Atti del Rettorato, b. 34, posiz. 24b). 44 Il plauso del ministro fu immenso (AGAPd, Atti del Rettorato, b. 28, posiz. 25). 45 AGAPd, Atti del Rettorato, b. 31, posiz. 59b. 46 AGAPd, Atti del Rettorato, b. 31, posiz. 59b.
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si sarebbe sperato di poter conciliare la richiesta del chiarissimo sig. direttore della clinica chirurgica con le necessità dell’istituto ospitaliero, ma nella considerazione che la cessione del locale venne fatta unicamente per appagare i desideri espressi dal chiarissimo direttore della clinica stessa, l’amministrazione, nell’intento di assecondare pienamente quanto la regia clinica esige, rinunzia ai vantaggi che avrebbe potuto ottenere, occupando un piccolo spazio di detta camera per una comunicazione col piano superiore47.
Fu decisione importante dell’ospedale cittadino adottare un regolamento, il 26 ottobre 1906, volto a regolare le elargizioni a favore della pia opera. In realtà il testo era necessario per disciplinare una raccolta fondi a favore di un erigendo padiglione per pazienti affetti da tubercolosi48. L’ente era in grado di accettare donazioni a incremento del proprio patrimonio oppure per scopi speciali, dettati dai benefattori, se rientranti tra i fini perseguiti dall’opera pia. Inoltre poteva accettare lasciti per la Cassa previdenza degli addetti all’ospedale e per la costruzione di nuovi padiglioni, secondo i dettami dalla più avanzata ingegneria sanitaria. In relazione alle risorse messe a disposizione si stabì il numero dei letti e agli oblatori sarebbe stato assicurato perenne riconoscimento attraverso l’incisione del nome su apposite lapidi commemorative. Le somme così raccolte erano da depositare presso la Banca cooperativa popolare di Padova che s’impegnava a versare l’ammontare degli interessi maturati a incremento del capitale ogni sei mesi. Una volta raggiunta la somma sufficiente alla costruzione di un padiglione per 48 letti, pari a 72.000 lire, si sarebbe dato inizio ai lavori di esecuzione, e 47
AGAPd, Atti del Rettorato, b. 46, posiz. 20b. Bassini intendeva sostituire una vecchia apparecchiatura Nitra e Leitz con una più nuova, offerta dalla Siemens-Schuchert con sede a Milano, per l’impianto di un gabinetto di endoscopia e di radioscopia radiografica. Il costo previsto era pari a 12.789,66 lire. 48 Sul tema è da vedere lo studio accurato di Tommaso Detti, Salute, società e stato nell’Italia liberale, Milano, FrancoAngeli, 1993, pp. 106-150 e il recentissimo saggio di Eugenia Tognotti, «Il morbo lento». La tisi nell’Italia dell’Ottocento, Prefazione di G. Cosmacini, Milano, FrancoAngeli, 2012, pp. 73-139.
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al mantenimento degli ammalati da collocarsi nei nuovi padiglioni ospedalieri provvederà l’amministrazione dello spedale civile con le risorse del proprio patrimonio e con le dozzine degli altri enti e comuni, a termine degli art. 1, 2, 3, 4, e 5 del proprio statuto49.
Questi nuovi padiglioni erano destinati ai poveri. Rispettando il senso di questo regolamento, per il nuovo padiglione tubercolosi, tra altri, M.M. Wollemborg offrì 18.000 lire, l’equivalente di 12 letti, 11 primari dell’ospedale lire 100 ciascuno, la Banca cooperativa popolare lire 4.300, Leonardo Emo Capodilista 2.000 lire50. Operavano, accanto alle cliniche maggiori, un dispensario celtico, una divisione tubercolosi, un reparto idroterapico, un padiglione d’isolamento, un reparto provvisorio per gli affetti da tifo e, dopo qualche tempo, una divisione pediatrica allora in costruzione. Più precisamente il 30 settembre 1907 furono inaugurati un nuovo reparto pediatrico e l’istituto scientifico a esso annesso. Nasceva in tal modo la clinica pediatrica, dopo 25 anni dall’attivazione dell’insegnamento stesso51. Un altro importante documento aggiunto al consuntivo è la situazione della Cassa di previdenza a favore del personale amministrativo e sanitario dell’ospedale, 14 impiegati, dal segretario capo agli applicati e aggiunti ai diversi uffici. A carico del nosocomio, secondo la normativa in vigore dopo le riforme dell’as49
AGAPd, Atti del Rettorato, b. 31, posiz. 59b.
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I primari erano A. De Giovanni, Napoleone D’Ancona, Giovanni Alessio, Giuseppe Zancan, Ettore Truzzi, Luigi Lucatello, Rodolfo Penzo, Giuseppe Albertotti, Achille Breda, Ernesto Belmondo e Vitale Tedeschi. Gli altri oblatori furono Ferruccio Squarcina, Guido e Giampaolo Tolomei, Giulio Cosma, Giovanni Grigolin, Umberto Wollemborg e il Sotto comitato di Padova di soccorso ai poveri affetti da tubercolosi. 51 L’inaugurazione avvenne in occasione del VI Congresso pediatrico nazionale che Vitale Tedeschi, direttore della clinica, aveva organizzato a Padova. Il giornale locale «La Provincia di Padova» del 30 settembre primo ottobre 1907 diede molto spazio all’evento. Il rettore Polacco ebbe modo di affermare pubblicamente, riscuotendo ampia approvazione, che l’evento riuniva in sé la carità alla scienza, l’ospedale e l’università (AGAPd, Atti del Rettorato, b. 34, posiz. 19b).
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sistenza volute da Crispi, perfezionate in seguito da Giovanni Giolitti, erano i contributi previdenziali, raccolti in un fondo trattenute e poi suddivisi in un conto previdenza e in un fondo vedove e orfani. La somma che veniva in tal modo accantonata era poi depositata presso la locale banca cooperativa popolare52. Dal consuntivo risulta che il patrimonio immobiliare dell’ospedale, rispetto al 1872, era ancora molto consistente. Inoltre l’ente continuava a giocare anche un ruolo finanziario rilevante sia come sottoscrittore di certificati del debito pubblico, sia come compratore di azioni della locale Banca cooperativa popolare, e di cartelle del prestito unificato della città di Napoli53. Sessantasei livellari e quattro obbligati alla decima assicuravano all’ente poco meno di 3.400 lire per anno. Il sistema di rimborso per spese di ricovero già denominato «dozzine», rimase invariato. Ancora l’erario pagava per i sifilitici, per i «detenuti maniaci» e per malati stranieri; nella stessa sezione si registrarono pure i pagamenti a carico delle Ferrovie dello Stato e del Comando del 14° reggimento fanteria54. Province, comuni, privati e altri enti continuarono a sostenere le spese di degenza di ammalati residenti nei propri territori di competenza. L’Istituto degli esposti di Padova, l’Ospedale militare principale, la Direzione delle strade ferrate meridionali e alcune congregazioni di carità assicurarono pure la «dozzina» all’ospedale di Padova. Tra le entrate straordinarie si registra52
Nel 1905 la somma complessiva era pari a 15.247,32 lire, 12.361,42 nel fondo previdenziale e 808,71 in quello vedove e orfani. Su questi temi legati alla previdenza Gianfranco Sabattini, Welfare State. Nascita, evoluzione e crisi. Le prospettive di riforma. Milano, FrancoAngeli, 2009, pp. 95-99. L’Italia non disponeva ancora di un’assicurazione obbligatoria per contrastare i rischi legati alla vecchiaia. Era invece obbligatoria dal 1898 l’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro. 53 ASPd, Ospedale, Conto finanziario-consuntivo 1905, parte I entrata, cap. 3. Nel capitolo successivo si attesta che l’ospedale possedeva ancora capitali a credito presso privati dai quali lucrava un interesse del 5%. 54 I sifilitici impegnarono 7.691 giorni di degenza a 2,50 lire ciascuno. Gli stranieri costavano 4 lire il giorno (Ospedale, Conto finanziario-consuntivo 1905, parte I entrata, cap. 6).
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rono 7,20 lire a titolo di dividendo 1904 riconosciuto dalla Società anonima italiana d’assicurazione contro gli infortuni55. I generi commestibili, i combustibili e i medicinali furono descritti nell’attivo dell’ente ospedaliero. A tale conteggio si unirono due allegati che descrivono dettagliatamente i costi per il vitto e il riscaldamento. S’impegnarono 114.370,36 lire per gli alimenti e 24.760,08 per combustibili e generi per la lavanderia. Solo il lardo, la crema e i fagioli erano banditi, il burro, il vino e il caffè erano presenti sulla mensa degli ammalati. Dalla pia opera Fatebenefratelli, l’ospedale incassava poco meno di 30.000 lire, che provenivano da affitti diversi, interessi su crediti concessi, rette di ricoverati e altro ancora56. Anche dalle cure idroterapiche somministrate, l’ente ricavava un introito che, nel 1905, fu pari a 4.631,10 lire. Completa la sezione delle attività l’eredità Enrichetta Luzzatto Dina, consistente in fondi e fabbricati già affittati57. Tra le uscite compaiono livelli, legati, decime e quartesi per un importo appena inferiore a 2.500 lire annue. Ne beneficiavano la Congregazione dei parroci di Padova, diverse mansionerie, fabbricerie e cappellanie, il seminario vescovile, il capitolo della cattedrale, la prebenda parrocchiale di Camin e alcuni canonicati58. Altre uscite l’ospedale sosteneva per spese postali e telefoniche, per il minuto mantenimento e per tenere in ordine i camini dello stabile, puliti dalla Società trentina degli spazzacamini. Assai oneroso era pagare lo stipendio e gli oneri previdenziali al personale amministrativo e ai medici. Anche i due cappellani in servizio comportavano un costo. Infine fi55
ASPd, Ospedale, Conto finanziario-consuntivo 1905, parte I entrata, cap. 12, n. 32. 56 ASPd, Ospedale, Conto finanziario-consuntivo 1905, parte I entrata, cap. 21. 57 ASPd, Ospedale, Conto finanziario-consuntivo 1905, parte I entrata, cap. 25. 58 ASPd, Ospedale, Conto finanziario-consuntivo 1905, parte II, uscita, cap. 2. L’importo complessivo che l’ospedale liquidava a titolo d’imposta era pari a 21.688,12 lire per imposte terreni e fabbricati, opere idrauliche, gettito consorziale, tassa manomorta e tassa di ricchezza mobile (cap. 4).
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guravano le spese per i farmacisti, cinque in tutto. In totale si spendevano 51.908,71 lire l’anno59. Le pensioni potevano essere «d’amministrazione» o «di beneficenza» e, tra queste, si contavano quelle di reversibilità al coniuge sopravvissuto o a personale dell’ospedale non altrimenti coperto. Queste erano a carico dell’ente, che era responsabile pure della tassa di ricchezza mobile gravante sulle medesime.60 Per i degenti nelle divisioni ospedaliere il costo dei farmaci era pari a 35.792,63, per i bagnanti poveri l’importo si assestò a 692 lire, per gli ambulatoriali si spendevano più di 350 lire e non si spendeva alcunché per l’ambulatorio otorinolaringoiatrico61. Tra le spese diverse di beneficenza non compaiono più le doti, che in precedenza tanta importanza avevano avuto nell’economia generale dell’ospedale. Ci sono invece molte disposizioni a favore di pazienti poveri, bisognosi di protesi ortopediche o di calzature particolari. Anche l’uso dell’acqua potabile rientra in questa rubrica, come pure una serie di spese minute, come il compenso a una levatrice che aveva assistito al parto di una donna ricoverata presso la divisione dei tubercolotici62. L’amministrazione dell’ospedale fu anche in grado di accantonare somme per il miglioramento dei propri servizi: stanziò 1.000 lire per un reparto ortopedico per i bambini, denaro da spendersi nel 1906, quando la divisione di pediatria, si pensava, sarebbe 59 ASPd, Ospedale, Conto finanziario-consuntivo 1905, parte II, uscita, cap. 16. Il compenso a infermieri e suore era calcolato in altro capitolo (cap. 17), considerato «basso personale». Vi si comprendevano gli addetti alla cucina, al guardaroba, alla farmacia e alla lavanderia. Tra i sussidi figurava un contributo di 1.000 lire per la scuola infermieri, che l’ospedale sosteneva, gli esborsi per assicurare contro gli infortuni sul lavoro i due portieri, infermieri, facchini e inservienti con la Società anonima d’assicurazione di Milano, altri con la Cassa nazionale d’assicurazione per i lavoratori addetti alle opere murarie e alla lavanderia o con la Cassa previdenza per la vecchiaia a favore del personale. Complessivamente si contavano più di 81.000 lire. 60 B. 1555, 1885, titolo 4°, Spese di beneficenza XV, Pensioni. 61 ASPd, Ospedale, Conto finanziario-consuntivo 1905, parte II, uscita, cap. 24. 62 ASPd, Ospedale, Conto finanziario-consuntivo 1905, parte II, uscita, cap. 26.
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stata pronta. Altre 800 lire furono stanziate per dividere la pediatria dalla lavanderia, 1.600 per allestire il forno d’incenerimento in locali annessi alla lavanderia e quasi 1.400 lire per migliorare la logistica dei servizi di lavanderia, essenziali al buon funzionamento dell’ente63. Il trasporto dei malati di mente era sempre a carico dei comuni che spesso li ricoveravano in ospedali locali, detti distrettuali. L’opera pia Fatebenefratelli era aggravata da vari costi, imposte sulla proprietà, la tassa di manomorta sui redditi netti patrimoniali, un premio assicurativo contro gli incendi pagato alla Riunione Adriatica di Sicurtà, e tutte le spese inerenti al funzionamento e al mantenimento della proprietà, che, in totale, arrivarono a oltre 27.000 lire l’anno. Rispetto a quanto emerge dal consuntivo 1872, il medesimo documento redatto nel 1905 rivela un ospedale civile meno impegnato in attività finanziarie e più concentrato nelle pratiche di cura e di tutela del proprio patrimonio. Anche la beneficenza cambiò pelle: gli esborsi elencati sotto questa voce indicavano spese sostenute prevalentemente a favore dei degenti; in precedenza era rivolta anche a un più ampio numero di categorie di bisognosi. Un altro passo era stato compiuto verso un ospedale luogo di cura e di ricerca scientifica. Tale processo di specializzazione continuò nei decenni seguenti. In questo torno di tempo era vivissima la consapevolezza che tra ospedale e clinica vi fosse, e dovesse essere sempre curata, una perfetta armonia. In occasione dell’accreditamento presso la tesoreria della Banca cooperativa popolare di Padova di quanto dovuto dal Ministero dell’Istruzione Pubblica per il mantenimento delle cliniche per l’anno 1904, il rettore, prendendo atto della nomina di Francesco Giusti alla presidenza del Consiglio amministrativo dell’ospedale civile, ebbe modo di scrivere le sono particolarmente grato per l’interessamento che manifesta in favor delle cliniche universitarie, le quali, oltre che mirar al progresso scientifico, sono vere officine ricche di mezzi, in cui gli 63
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cap. 30.
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allievi vengono addestrati nell’esercizio professionale con immenso vantaggio per l’umanità sofferente. Confido io pure che i rapporti fra l’amministrazione universitaria ed il pio luogo saranno sempre ottimi come lo furono fin qui, perché i due enti tendono in ultimo agli stessi scopi, che sono quelli di prestare agli ammalati le cure le più efficaci e di promuovere la collaborazione nei vari temi della medicina e della chirurgia64.
C’era perfetta sinergia tra gli enti che potevano vantare una qualche competenza in tema di assistenza e d’istruzione; tanto che in base alla Convenzione stipulata il 21 maggio 1903 tra i Ministri del Tesoro e dell’Istruzione Pubblica, il sindaco, il presidente della Deputazione provinciale di Padova e il rettore, si sottoscrisse l’impegno per il miglioramento dell’università e in particolare degli edifici del palazzo universitario, dei laboratori scientifici, delle scuole di medicina e delle regie cliniche. Si costituì un vero e proprio consorzio che comprese pure la provincia di Venezia e la Cassa di risparmio di Padova e Verona. Il secondo consorzio partì nel 1913, un terzo nel 1924 e il quarto nel 193365.
L’ospedale e la Grande Guerra Passò ancora qualche anno e leggendo il bilancio consuntivo del 1915, pronto nel luglio del 1917, si constata che la fisio64
AGAPd, Atti del Rettorato, 1905, b. 26, posiz. 59, lettera del 5 aprile 1905. Questa era la risposta a una più breve missiva, che lo stesso Giusti, il 30 marzo, aveva inviato al rettore, manifestando grande interesse e impegno nel mantenere il migliore rapporto possibile con l’ateneo, favorendo, «compatibilmente con gli interessi del pio luogo e nei limitatissimi mezzi economici di cui esso può disporre, la causa degli studi e non dubito che tra i due enti regnerà sempre il massimo buon accordo, cosicché si possa addivenire ad una sollecita e soddisfacente risoluzione di tutte le pratiche in corso». La somma messa a disposizione dal Ministero era pari a 7.694,20 lire, importo che veniva girato all’ospedale. 65 Vittorio Dal Piaz, «Il cantiere Università» durante il rettorato di Carlo Anti, in Carlo Anti giornate di studio nel centenario della nascita, Trieste, Edizioni Lint, 1992, pp. 241-285.
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nomia dell’ospedale era rimasta la stessa66. Il patrimonio immobiliare continuò a costituire la base delle entrate dell’ente e anche gli investimenti finanziari rimasero notevoli: certificati del debito pubblico italiano e livelli su capitali mutuati conferivano all’ente un profilo finanziario articolato e apprezzabile67. Continuò pure a riscuotere le dozzine dall’erario per malati celtici, esteri o ricoverati presso le cliniche, agenti ferroviari e guardie carcerarie. La degenza giornaliera costava 4 lire nella divisione tubercolosi, 3,15 in quella chirurgica e 2,65 nella medica. I medesimi importi pagavano il comune di Padova e gli altri comuni per i ricoverati a loro carico: diminuirono le degenze in medicina, aumentarono considerevolmente quelle in chirurgia e, seppure di poco, quelle nel reparto tubercolosi68. I privati tenuti al pagamento della dozzina potevano arrivare a pagare anche 15,50 lire giornaliere. Quote che giungevano a nove lire per ogni giorno di degenza di militari bisognosi di cure presso o l’Ospedale militare principale di Padova o il nosocomio cittadino, che iniziò ad accogliere militari impegnati in guerra dal 30 aprile 191669. Da altro documento si ricava, invece, che il primo ricovero a Padova risale al 4 gennaio 1915 e che gli ingressi si fecero numerosi solo dall’estate. Nel corso dell’anno i ricoverati furono 158 e solamente tre morirono. Durante l’anno successivo ne entrarono 835 e 15 scomparvero. Nel 1917, 626 militari furono ricoverati e di questi molti mo66 Rispetto a 10 anni prima, il disavanzo era enormemente cresciuto, pari a lire 285.079,49. Le entrate contavano 2.189.451 lire, e le uscite erano pari a 2.474.531,19. 67 ASPd, Ospedale, Conto finanziario-consuntivo 1915, parte I, entrata, capp. 1-4. Dai livelli lucrava poco meno di 4.500 lire, per interessi sul debito 26.534,60 lire. Molto meno incassava a titolo di affitto lungo, pochissimo a titolo di decima, meno di 76 lire, e ancora di meno per fitti per impianti elettrici a carico della Società elettrica di Bovolenta e della Società Adriatica di elettricità di Padova (cap. 5). 68 La differenza fu pari a quasi 8.000 giorni di degenza in più rispetto a quelle indicate nel preventivo del 1914 (ASPd, Ospedale, Conto finanziarioconsuntivo 1915, parte I, entrata, cap. 8). 69 ASPd, Ospedale, Conto finanziario-consuntivo 1915, parte I, entrata, capp. 9, 10.
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rirono, considerando l’assenza di indicazioni diverse. Per l’anno successivo mancano i dati e una lista separata di ammalati registra quelli «entrati nel centro psichiatrico»70. L’erario assicurava all’ospedale le risorse per pagare le degenze nelle cliniche universitarie che, intanto, erano state affiancate dall’istituto clinico pediatrico, attivato presso reparti ospedalieri, dove furono accertate, nel corso del 1915, 24.308 giornate di degenza, più che in ogni altra struttura, comprendendo gli istituti dermosifilopatico e di patologia speciale medica e chirurgica71. La scuola di assistenza sanitaria, attiva presso l’ospedale, beneficiava d’interessi e donazioni: la Cassa di risparmio di Padova aveva donato 20.000 lire che furono messe a frutto presso la locale Banca cooperativa popolare al tasso del 3,75%. La stessa banca donò alla scuola 100 lire perché si premiassero gli allievi migliori72. Sulle entrate gravavano diversi oneri finanziari, livelli, legati, interessi passivi e il pagamento d’imposte e tasse73. Altre spese riguardavano il patrimonio dell’ente e molte risorse s’impiegavano per il pagamento degli onorari al personale di amministrazione, importi che furono divisi in due partite, la prima per ¼ e la seconda per ¾ del totale dovuto tra spese di amministrazione e di beneficenza. Inoltre, l’ospedale liquidava 70
Si tratta di 187 pazienti, degenti dal 16 ottobre 1917 al 15 febbraio 1918. Molti furono riformati in famiglia, altri trasferiti presso diversi nosocomi a Volterra, Reggio Emilia o a Montegrotto in provincia di Padova. Gli idonei furono pochi, soprattutto ufficiali (ASPd, Ospedale, Soldati). Non ci sono altri dati identificativi del registro. 71 In oculistica le giornate furono 22.346, in chirurgia 17.493, in medicina 4.217 e in ostetricia 8.078 (ASPd, Ospedale, Conto finanziario-consuntivo 1915, parte I, entrata, cap. 14). Gli istituti sono presenti nella sezione uscite dello stesso bilancio al cap. 31. 72 ASPd, Ospedale, Conto finanziario-consuntivo 1915, parte I, entrata, cap. 18. La fondazione Giovanna Santini garantiva all’ospedale poco meno di 7.000 lire provenienti da fitti di fondi rustici, livelli, interessi da capitali investiti presso la banca popolare e da rendita dal possesso di buoni quinquennali del Tesoro al 4% (cap. 19). 73 Erano le imposte su fabbricati e terreni, su opere idrauliche, su consorzi idraulici, sui beni di manomorta, che si saldavano all’ufficio del registro (ASPd, Ospedale, Conto finanziario-consuntivo 1915, parte II, uscita, cap. 3).
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alla Cassa nazionale degli impiegati comunali ed enti locali un contributo pari al 14% dello stipendio, per un esborso complessivo pari a poco meno di 6.000 lire per il 191574. A carico dell’ente erano gli stipendi del personale sanitario, delle suore in servizio come infermiere e dei cappellani addetti all’assistenza religiosa. A bilancio figuravano pure uscite a favore della «Cassa risparmio di Padova, per la Cassa nazionale di previdenza per l’invalidità e vecchiaia degli operai, contributo 1915 dell’amministrazione spedaliera, a favore del personale di assistenza inscritto alla cassa stessa» e della Società anonima italiana contro gli infortuni di Milano, per premio di assicurazione 191575. Erano assicurati separatamente il personale di assistenza e di lavanderia; si pagavano, poi, un altro premio per la responsabilità civile e un superpremio per assicurare le polizze già sottoscritte. L’ospedale era cliente della Società adriatica di elettricità, dell’Azienda comunale del gas e di molte altre società che fornivano quanto necessario all’assistenza dei pazienti e dei servizi a questi correlati76. Infine, il 15 aprile 1915, il Consiglio d’amministrazione dell’ospedale stabilì di costituire un fondo speciale per sostituzioni personale, in caso di mobilitazione o guerra. Il personale dello Stato, al quale era equiparato quello in servizio presso opere pie e istituti di pubbli74
ASPd, Ospedale, Conto finanziario-consuntivo 1915, parte II, uscita, capp. 8, 12. L’ospedale era pure responsabile del pagamento di ¾ dell’importo della pensione al personale amministrativo. 75 ASPd, Ospedale, Conto finanziario-consuntivo 1915, parte II, uscita, cap. 15. 76 Le spese di lavanderia erano sempre state elevate e nel bilancio 1915 compare l’acquisto, oltre che di liscivia, di soda Solvay. La produzione industriale e il mercato erano molto cambiati nel Paese e in particolare in età giolittiana; anche in Italia si producevano quei beni che avevano caratterizzato la seconda rivoluzione industriale in Germania, come rileva Vera Zamagni, Dalla periferia al centro. La seconda rinascita economica italiana (1861-1990), Bologna, il Mulino 19932, pp. 116-146. Assai importante fu anche la municipalizzazione dei servizi pubblici che dal 1903 aveva interessato i comuni italiani, V. Zamagni, Introduzione alla storia economica d’Italia, Bologna, il Mulino 2007, pp. 96-98. In questo torno di tempo l’ospedale incassava molto dall’amministrazione militare, che sosteneva ricovero, spese funerarie e di riabilitazione come l’acquisto di occhi artificiali (cap. 29).
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ca beneficenza, se impegnato in guerra, continuava a percepire lo stipendio in godimento presso l’amministrazione di origine, per cui era necessario mettere a bilancio risorse aggiuntive per pagare il personale avventizio. Nel bilancio preventivo 1915, secondo il regolamento di contabilità delle opere pie, furono stanziate 27.451,45 lire che, alla fine dell’anno, risultano spese. Cinquemila lire andarono per compensi al personale avventizio, il resto per uscite diverse: interessi passivi, imposte e sovrimposte, illuminazione e riscaldamento, manutenzione straordinaria e mercedi a favore di personale fuori ruolo77. Nel corso del 1917, quando si badò a preparare il bilancio preventivo 1918, poco cambiò rispetto all’impianto complessivo del medesimo documento del 1915 e, anzi, l’ospedale continuò a fronteggiare l’incessante emergenza che la guerra causava. La natura delle entrate non cambiò: s’intensificò l’attività finanziaria con l’acquisto di certificati del debito pubblico e di obbligazioni del prestito nazionale di guerra 1916, che complessivamente, potevano assicurare all’ospedale poco meno di 29.000 lire a titolo d’interessi78. Le dozzine seguitarono a essere pagate dall’erario sulla base di ben determinate patologie o condizioni; a queste si aggiungono, ora, quelle dei profughi, liquidate da comuni, da privati e da altri enti, tra i quali, il comando militare. Nel corso del 1916 furono registrate complessivamente 181.191 presenze, 145.950 nell’anno successivo, «mentre per i militari lo stanziamento 1918 viene limitato ad un terzo di presenze previste pel 1917»79. Continuarono a essere a carico dell’erario le spese di degenza nelle cliniche e istituti universitari. Il finanziamento era più consistente per la medicina, la chirurgia e l’oculistica, un poco inferiore per l’ostetricia, pari a 24.287,07 lire e molto al di sotto per i quattro ri-
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ASPd, Ospedale, Conto finanziario-consuntivo 1915, parte II, uscita,
cap. 37. 78
ASPd, Ospedale, Bilancio preventivo, entrata 1918, cap. 3. Diminuì l’attività di prestito dell’ente, ormai ridotta a 4 mutuatari. 79 ASPd, Ospedale, Bilancio preventivo, entrata, 1918, cap. 10.
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manenti istituti80. Completa il documento l’elenco dei legati, delle entrate dalla pia opera Fatebenefratelli e di altri introiti ancora, tra i quali spiccano ben 500 lire da spendersi per rimborso spese varie per scopi scientifici. Nella sezione delle uscite, compare pure l’indicazione della farmacia dell’ospedale che chiese di modificare il normale approvvigionamento di farmaci domandando di acquistare quantità inferiori di glicerina, acido fenico, soda, olio di ricino, formalina, farina di lino. Si annotò pure che per i presidi della chirurgia si ha pure una sensibile diminuzione costante e in perfetta relazione col numero dei malati, che risulta nel consumo delle fiale per uso ipodermico. Con 200.000 presenze il consumo risultava di 60.000 fiale e nel corrente anno col doppio di presenze abbiamo un consumo doppio di fiale81.
L’ospedale e i suoi fornitori A bilancio furono scritti importi in uscita che bene illustravano la fisionomia dell’ospedale cittadino: migliaia di mandati di pagamento a favore di svariati venditori che procuravano al nosocomio ogni genere di bene, ritraevano l’ospedale nell’esercizio più specifico della propria mission. Da questo particolare punto di vista, molto si apprende anche sulle patologie più diffuse del tempo, che si credeva potessero trovare nel ricovero una qualche risposta. Tra i fornitori compariva la ditta padovana Pianeri e Mauro, alla quale il Consiglio di ammi80 Alla pediatria erano state assegnate 8.550 lire, alla dermosifilopatica 8.000, alla patologia speciale chirurgica 6.820,76 e alla patologia speciale medica 6.900 (ASPd, Ospedale, Bilancio preventivo, entrata, 1918, cap. 14). 81 Tante erano state le presenze nel corso del 1913; nel 1916 furono 381.000 e, nell’anno successivo, si attestarono a poco meno di 400.000. La lettera, firmata dal direttore generale sanitario e dal farmacista capo, è indirizzata al presidente dell’ospedale, porta la data del 4 dicembre 1917 ed è allegata al documento di bilancio sotto la rubrica delle spese per medicinali (ASPd, Ospedale, Bilancio preventivo, uscita, 1918, cap. 22).
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nistrazione dello spedale civile di Padova ordinò di accreditare 80,60 lire italiane per la fornitura di «cinti elastici semplici e doppi, somministrati ad ammalati ambulanti ed interni allo spedale»82. In totale furono fornite 54 cinture elastiche, tutte assegnate a bisognosi in stato di povertà. La pratica amministrativa constava di altrettanti certificati del comune di Padova, a firma dell’aggiunto municipale, attestanti lo «stato di miserabilità dell’infermo e dei parenti obbligati per legge al mantenimento». All’interno del medesimo documento «certificato per invio degli infermi realmente poveri allo spedale civile di Padova», il medico chirurgo verificava la diagnosi e l’impossibilità di curarsi presso il proprio domicilio. A questo punto, l’ospedale, divisione ambulanti, formulava la richiesta di quanto occorreva alla cura del caso in questione, vistata dal medico capo e dal presidente dell’ente. I poveri elencati in questa pratica soffrivano di ernia inguinale, per la cura della quale erano necessarie cinture specifiche. Molti erano pazienti ambulatoriali, altri, invece, erano ricoverati presso l’ospedale. Un’altra patologia assai diffusa tra i molti poveri della città erano le varici o vene varicose. In questo caso, le divisioni chirurgiche chiedevano stivaletti o calze contenitive, che Elisabetta Munarini confezionava a un prezzo oscillante tra le due e le cinque lire83. Ai poveri veniva anche riconosciuto il diritto a essere accompagnati presso il proprio domicilio, dopo le dimissioni dal nosocomio. Il Consiglio d’amministrazione dell’ospedale emetteva un documento, firmato dal medico o chirurgo di turno, attestante che il povero in questione «trovasi in grado di lasciare l’infermeria della sala medica II piano, quando sia provveduto di un mezzo di trasporto che lo riconduca al proprio domicilio»84. A questo punto, dall’ufficio protocollo dell’ospe82
ASPd, Ospedale civile, b. 1577, fasc. 190. Questi documenti sono stati raccolti all’interno della rubrica: titolo IV, Spese di beneficenza, spese minute, 1887. L’indicazione del fascicolo individua un insieme dei documenti all’interno dei quali si trova quello citato. 83 ASPd, Ospedale civile, b. 1577, fasc. 122. 84 ASPd, Ospedale civile, b. 1577, fasc. 100, documento del 16 dicembre 1886.
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dale, partiva un ordine a un vetturale, in questo caso a Valentino Franceschi, al quale s’ingiungeva di scortare i convalescenti nominati, «con cavallo e timonella coperta» fino al loro domicilio, incombendo al conduttore il farsi certificare le miglia percorse, tenendo conto anche del viaggio di ritorno. Molti si recavano presso la casa di ricovero di Padova e il viaggio costava all’ospedale una lira; per andare a Ponte di Brenta servivano 2 lire e 40 centesimi e a Voltabarozzo 3 lire. Il Franceschi era da anni in servizio, praticando le stesse tariffe almeno dal 187985. Tra le spese minute figurano anche le forniture di generi quali olio di lino e d’oliva, pietra pomice, gomma arabica, sapone nero, cerini, tela smerigliata, pennelli, tutti procurati dal negozio in Padova di Giuseppe Toboga, specializzato in coloniali, droghe, oli, vini e spiriti, premiata cereria. Alla divisione disinfezioni dell’ospedale, il negozio, tra il 23 giugno e il 3 luglio 1887, assicurò un quintale di solfato di ferro, per una fognatura in vicolo Gesuiti, e cloruro di calce, per le pareti di una casa nello stesso vicolo86. Anche la Società, per la lavorazione della gomma elastica e della guttaperca, Pirelli & C., accomandita per azioni, capitale sociale di lire 3.500.000, con sede a Milano, era tra i fornitori dell’ospedale padovano. Il 19 dicembre 1887 a favore dell’Istituto, la società procurò quattro grembiuli di tela gommata per operazioni al prezzo di sette lire e 50 centesimi l’uno87. Angelo Frescura, ottico, negoziante a Padova, Treviso e Vicenza, titolare di una fabbrica di occhiali a Calalzo di Cadore, procurò all’ospedale termometri chimici in astuccio di legno, per tre lire ciascuno, termometri centigradi da bagno, che costavano due lire e cinquanta centesimi, stetoscopi metallici snodati alla base, al prezzo di cinque lire e 50 centesimi l’uno e vetrini 85
ASPd, Ospedale civile, b. 1497, 1879, XX, Spese minute, n. 386. Mandati di questo genere sono molto numerosi. 86 ASPd, Ospedale civile, b. 1577, fasc. 154. Le diverse forniture di generi sono indirizzate a diverse divisioni dell’ospedale, da quella medica a quella chirurgica, al reparto dozzinanti o, in generale, all’Istituto. 87 ASPd, Ospedale civile, b. 1577, fasc. 159. La Pirelli procurava all’Istituto padovano anche tubi e tappi di gomma.
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copri oggetti in gran quantità88. Maggiormente legate a esigenze sanitarie erano le forniture della ditta Chiarotto-Carattoni di Verona che, nel corso del 1886, procurò beni per un importo complessivo pari a 35.295 lire. Questi erano destinati alle diverse divisioni dell’ente: sonde esofagee assortite e nelaton, vesciche di gomma nera e bianca, inalatori d’ottone, cotone e garze di vario tipo89. La ditta padovana G. Cuzzeri & C. forniva oggetti di vetro e terracotta: bicchierini per medicinali, bicchieri per acqua e da litro per orina, pappagalli di vetro verde, vasi e catini di misura diversa e per gli usi più vari, scodelle e pignatte di terra, orinali fini di Prussia, scatole per il sapone, bottigliette contagocce, lampade di vetro ad alcol90. Si tratta, nel complesso, di forniture necessarie al funzionamento dell’ospedale che ne evidenziano, seppure parzialmente, il livello tecnologico raggiunto. Orazio Valeggia, titolare di un negozio in via del Santo a Padova, era il rappresentante unico per il Veneto della Casa H. Galante di Parigi, specializzata nella fabbricazione di strumenti di chirurgia in acciaio, argento, packfong, di apparecchi medico-chirurgici in caoutchouc, di cinti erniari e di presidi ortopedici, gambe e braccia artificiali e di articoli per l’allatta88 89
ASPd, Ospedale civile, b. 1577, fasc. 440. ASPd, Ospedale civile, b. 1577, fasc. 223. Simili forniture erano assi-
curate anche dalla ditta pavese Hartmann & Guarneri, premiata fabbrica di medicazione antisettica, medaglia d’oro al merito all’esposizione generale italiana di Torino del 1884. Il cotone era venduto al chilo e per un’unità al 4% di cotone salicilico si spendevano 6 lire e 80 centesimi, all’11% lire 9,10. Il cotone fenicato al 10% costava 6 lire al chilo. La garza al sublimato corrosivo costava lire 1,40 il pacco. L’ospedale comprava anche aghi da sutura curvi e siringhe salivari (b. 1577, fasc. 616). In altro conto la stessa ditta fornì una siringa intrauterina Bokman e un’intrauterina di Braun al prezzo, rispettivamente, di 6,50 e di 5,00 lire (ASPd, Ospedale civile, b. 1577, fasc. 222). 90 Essa disponeva di un grande assortimento e deposito di oggetti di lusso e ordinari. Cristallerie, terraglie, porcellane, cornici, carte da parati, lampade, posaterie e articoli affini (ASPd, Ospedale civile, b. 1577, fasc. 338). L’ospedale si serviva anche presso la ditta Leonardi e Zambelli di Torino, costruttori e fornitori per laboratori chimici, istituti biologici e ospedali, che aveva conseguito dal 1880 al 1885 la medaglia d’argento presso le esposizioni a Torino, Milano, Modena, Genova, Perugia, Udine e Roma. Nel caso si trattava di due urometri Ivan (ASPd, Ospedale civile, b. 1577, fasc. 427).
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mento. Questa importante casa parigina era in corrispondenza diretta con i principali laboratori di Londra e della Germania. L’ospedale, tra il 1886 e l’anno successivo, si procurò augelli di vetro per inalatori, cannule vaginali di gomma, un occhio artificiale di vetro, siringhe nelaton, un apparecchio composto di una sonda di gomma e imbuto per lavare lo stomaco detto tubo di Foucher, tubetti di vetro (polverizzatori) con turaccioli per apparecchi vari e altro ancora91. L’ospedale spendeva non solo per le molte forniture di materiale e oggetti diversi, ma per pagare particolari prestazioni d’opera. Il Consiglio d’amministrazione dell’ospedale civile di Padova, presieduto dall’ingegnere Eugenio Maestri, alla presenza di due consiglieri, il cavaliere Giovanni Maluta e l’avvocato Edoardo Nalin, del medico capo e dal segretario amministratore, l’avvocato Antonelli, il 22 dicembre 1887, deliberò di liquidare una «gratificazione» dell’importo di 20 lire a favore di due inservienti «per assistenza ai primari dell’ospedale nelle sezioni cadaveriche presso la scuola patologica di San Mattia»92. Vi era poi la spesa di 400 lire a favore di due collaboratori del medico capo per avere partecipato al lavoro di raccolta dati e di stesura della Statistica sanitaria 1886, quando al sanitario non giunse alcun emolumento aggiuntivo93. La Casa d’industria di Padova, versione moderna delle più tradizionali case di lavoro coatto caratteristiche dell’antico regime, che si era da qualche anno separata dalla Casa di ricovero della città, fornì all’ospedale le stuoie da sistemare negli studi di alcuni medici, dei cappellani e delle suore ispettrici94. Assai curioso fu il caso del 91
ASPd, Ospedale civile, b. 1577, fasc. 336. Cotone in falda, fiammiferi, sapone, spugne, «spazzette da unghie», frontini verdi, tela americana, filo meneghino, erano garantiti dai magazzini L. Paveggio in Padova, negozio specializzato per «bazzaristi e girovaghi» (fasc. 444, 84). 92 ASPd, Ospedale civile, b. 1577, fasc. 722. Simili pratiche si trovano anche a favore di chi assicurava l’acqua alla divisione dozzinanti. 93 ASPd, Ospedale civile, b. 1577, fasc. 683. Fu proprio il medico a proporre all’amministrazione ospedaliera di gratificare i suoi due collaboratori. 94 ASPd, Ospedale civile, b. 1577, fasc. 753. Nel 1874 era stato approvato lo Statuto della Casa di ricovero in Padova, Padova, Tipografia Randi
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portiere dell’ospedale, Carlo Carturan, il quale chiese «a questo spettabile consiglio il rimborso di lire dieci, per altrettante spese nel far rivoltare il vestito di panno, dell’Istituto, che fatta quest’operazione, fa ancora la sua buona figura e può tirar avanti altro tempo»95. Naturalmente la richiesta fu accolta e il rimborso accordato. Infine l’ospedale talvolta assicurava un sussidio a chi, per motivi di salute, fosse venuto a trovarsi nelle condizioni più misere, simili a quelle nelle quali cadde Sante Bettella, che poté beneficiare di un contributo pari a 20 lire, riscosse il primo maggio 1887, secondo la testimonianza di due testimoni all’apposizione della croce. Egli era analfabeta96. In alcune occasioni, lo stesso ospedale faticava non poco a incassare quanto dovuto per il ricovero di pazienti bisognosi. Per qualche decina di lire, l’amministrazione ospedaliera padovana era pronta a interessare alla pratica anche la prefettura, com’era avvenuto il 25 settembre 1872. Era stato curato un cittadino di Brugine affetto da vaiolo e, poiché il sindaco del comune di residenza era poco propenso al pagamento della retta dovuta, pari complessivamente a 39.45 lire, il Presidente dell’ospedale chiese che la prefettura costringesse il comune a pagare il debito97. In altre 1875, che operava al fine di garantire accoglienza ai poveri della città e del territorio circostante. Quest’opera pia elargiva servizi gravando sulla rendita del proprio patrimonio che fu scorporato da quello della Casa d’industria (BCPd, B.P. 6, 1570). 95 ASPd, Ospedale civile, b. 1577, fasc. 102. 96 ASPd, Ospedale civile, b. 1577, fasc. 207. 97 ASPd, Prefettura italiana, b. 943, fasc. 2493/VII. Il contenzioso tra l’ospedale di Padova e diverse amministrazioni comunali fu piuttosto intenso. Curiosa fu la vicenda di una donna, più volte ricoverata tra il 1867 e l’anno successivo, di fatto residente a Padova, ma sposata con un uomo residente a Battaglia Terme. Nel primo caso la retta sembrava dovesse essere a carico dell’ospedale, nel secondo del comune di Battaglia. La vicenda si concluse con un pronunciamento del Segretariato generale del Ministero dell’Interno che ingiunse al Prefetto di Padova di procedere contro il comune di Battaglia, riconosciuto debitore nei confronti dell’ospedale sulla base del fatto che «in proposito dell’insorta vertenza il Ministero, sentito il Consiglio di Stato, ha considerato che per esplicita disposizione di legge le mogli devono seguire il domicilio del marito» (ASPd, Prefettura italiana, b. 943, Roma, 23 gennaio 1872).
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occasioni il debito nei confronti del nosocomio era molto consistente e, in questi casi, l’ospedale era autorizzato ad avviare le pratiche per potersi valere sul patrimonio del debitore. Così si comportò l’ospedale di Cittadella, in provincia di Padova, che nel 1873, poté acquistare all’asta una casa di proprietà di un debitore per un importo pari a 2.186 lire98. Spesso accadeva anche che i comuni si rifiutassero di dare ai farmacisti il dovuto per la somministrazione di medicinali ai poveri residenti. Alcuni casi si riferiscono ad ammalati di colera. Anche in questa circostanza la prefettura di Padova doveva intervenire, per ricordare ai sindaci dei diversi comuni gli obblighi che la normativa in vigore assegnava loro99. L’ospedale continuò a rendicontare con la massima accuratezza i costi sostenuti. Negli anni di guerra 1916/1918 fu redatto un registro di spese minute e di medicinali. Per l’acquisto di un’enciclopedia di chimica si sborsarono, nel 1916, 280 lire a favore dei Fratelli Drucker, librai di Padova100. Tra i fornitori del nosocomio figuravano la Carlo Erba di Milano, che procurò esclusivamente medicinali, la Lepetit farmaceutici di Milano, la Zambeletti della stessa città, che consegnò medicinali e fiale alla farmacia locale del dottor Pio Lami che, a sua volta, somministrò 100 sanguisughe nell’agosto 1919 per 35 lire101. 98
ASPd, Prefettura italiana, b. 974, fasc. div. III, n. 2369. Il decreto di autorizzazione di Vittorio Emanuele II fa esplicito riferimento al Regio decreto 5 giugno 1850, n. 1037 sulla capacità dei corpi morali di acquistare e alla legge 3 agosto 1867 sulle opere pie. 99 ASPd, Prefettura italiana, b. 974, fasc. div. III, n. 1376. 100 ASPd, Ospedale, Forniture di medicinali e poveri, 1916-1918, c. 4. 101 ASPd, Ospedale, Forniture di medicinali e poveri, 1916-1918, c. 16, 19, 24, 25. La Carlo Erba, la Zambeletti e la Lepetit segnarono l’inizio a Milano dell’industria farmaceutica italiana, decisa a svincolarsi dalla già affermata industria tedesca, come efficacemente suggerisce Vittorio Alessandro Sironi, La farmacologia a Milano dagli erbari alle biotecnologie, in Uomini e farmaci. La farmacologia a Milano tra storia e memoria, a cura di Ferruccio Berti, Enzo Chiesara, Francesco Clementi, Walter Montorsi, V.A. Sironi, RomaBari, Laterza, 2001, pp. 8-19. Recentemente Sironi è tornato a indagare questi temi in Ospedali e medicamenti. Storia del farmacista ospedaliero, Presentazione di Umberto Veronesi, Postfazione di Nello Martini, Roma-Bari, Laterza, 2007, pp. 87-100.
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Gaffi Francesco di Padova procurò presidi chirurgici, scarpe ortopediche e cinti erniari, Guarneri e C. di Milano guanti di filo per chirurgia, la Direzione di sanità del Corpo d’Armata di Verona bende e cotone102. La Star Oil Company di Cornigliano Ligure assicurò il 13 ottobre 1916 medicinali e l’Istituto sieroterapico e vaccinogeno svizzero di Berna medicinali e fiale di siero antidissenterico103. Ossigeno, disinfettanti, alcol denaturato, aghi per siringhe, chinino di stato erano assicurati da diversi altri fornitori. Si tratta di una pagina rilevate della storia dell’industria chimica e farmaceutica anche italiana, ormai avviata sulla strada dello sviluppo industriale, grazie soprattutto alla politica di Giolitti e all’attività di tanti imprenditori104.
L’ospedale e i suoi pazienti Oltre alla predisposizione dei bilanci, l’amministrazione attese pure alla compilazione di liste degli ammalati curati presso l’ospedale. In un registro generale dei pazienti poveri a carico dell’ente medesimo, erano stati annotati, per tutto il 1869, 2.144 ingressi, 168 pazienti erano già in stato di ricovero il primo gennaio105. Meretrici e sifilitici, sebbene registrati, erano irrilevanti nel conteggio delle giornate di degenza, come pure avveniva nel caso di alcuni ammalati a carico della provincia. Si trattava di pazienti affetti da sindromi psichiatriche. Una sola paziente monaca fu registrata nel corso dell’anno, senza che ciò fosse determinante per la definizione del numero complessivo delle presenze che, nel complesso, ammontarono a 57.329 giornate di degenza di pazienti poveri a carico dell’ospedale, 102
ASPd, Ospedale, Forniture di medicinali e poveri, 1916-1918, c. 30,
38, 55. 103
ASPd, Ospedale, Forniture di medicinali e poveri, 1916-1918, c. 127,
129. 104 Patrizio Bianchi, La rincorsa frenata. L’industria italiana dall’unità nazionale all’unificazione europea, Bologna, il Mulino 2002, pp. 15-32. 105 ASPd, Ospedale, b. 2351. L’organizzazione del registro è identica a quella del precedente.
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le giornate conteggiate come «dozzinanti senza obbligazione», da parte o del comune o dell’ospedale, furono 1.353106. Il grafico 5 disegna questa situazione anche con riferimento all’andamento mensile. Giornate 7.000 6.000 5.000 4.000 3.000 2.000 1.000 0
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Grafico 5
Con il tempo aumentò il numero dei pazienti poveri residenti nel comune di Padova a carico del nosocomio107. Complessivamente nel corso del 1881 furono ricoverati 2.201 pazienti. Nel mese di gennaio i degenti furono 422, le giornate di degenza furono a gennaio 7.846, a febbraio 5.689, a marzo 3.622, ad aprile 2.105, a maggio 1.456, a giugno 1.101, a luglio 932, ad agosto 698, a settembre 594, a ottobre 550. Questi dati si riferiscono a degenti o già ricoverati al primo gennaio o entrati in ospedale entro il mese. Gli ecclesiastici erano considerati dozzinanti, non a carico dell’ospedale. Medesima con106
Ricavo questi dati da un foglio sciolto che accompagna il registro (b. 2351), intitolato «presenze dell’anno 1869». 107 ASPd, Ospedale, b. 2355. Il registro è organizzato per anno, iscrivendo i degenti secondo un numero progressivo. I padovani appartenevano quasi tutti alla classe dei poveri. Si annotava il giorno d’ingresso, della dimissione, talvolta quello del decesso e i giorni di degenza mese per mese.
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dizione caratterizzò l’unico ammalato di sifilide ricoverato durante il mese e alcuni pazienti affetti da tigna, i pidocchiosi e gli scabbiosi. Questo genere di dati fu raccolto con maggiore accuratezza nel 1882, soprattutto con l’intento di chiarire lo stato del ricoverato al fine del pagamento della retta. Elevato fu il numero di giornate di degenza di persone accolte come poveri, ma che in seguito ad accertamenti furono dichiarate o dozzinanti, in grado di provvedere alle spese da sé, oppure a carico del comune, che sosteneva anche i pidocchiosi. Tra i dozzinanti continuarono a figurare gli ecclesiastici, taluni dei quali avevano assunto l’abito proprio durante il ricovero. In questi casi, piuttosto numerosi, le giornate di degenza erano conteggiate come se si trattasse di poveri, fino al giorno dell’acquisizione dello stato ecclesiastico. Alcuni «maniaci» erano considerati dozzinanti, altri semplicemente poveri. In un documento allegato al registro c’è l’elenco nominativo dei malati poveri dichiarati dozzinanti a carico della provincia. Complessivamente nel 1882 questi furono 65 pazienti. Furono contate quasi 80.000 giornate di degenza, una stima alla quale si giunse tenendo conto dei pazienti dichiarati poveri o dozzinanti in seguito ad accertamenti. A tale calcolo era poi da aggiungere il numero di giorni di ospedalizzazione in pediatria108. Il grafico 6 esprime tale dinamica su base mensile. Altri malati erano ricoverati presso le cliniche universitarie. In clinica medica durante l’anno scolastico 1878-79 i pazienti accolti erano stati 131 che «consumarono complessive presenze 4.741» e nell’anno successivo gli ammalati furono 106, ma le presenze 4.856109. Dal 22 novembre 1880 al 31 luglio 1881, quando era direttore Achille De Giovanni, che poteva contare su due assistenti, furono accolte 147 persone che «consumaro108
ASPd, Ospedale, b. 2355, fogli sciolti allegati al registro: malati poveri dichiarati dozzinanti 3.166; malati dichiarati poveri a carico dell’ospedale 655. 109 ASPd, Ospedale, b. 2358. Questi dati sono mensilmente raccolti in un registro a forma di rubrica che contiene pure le informazioni riguardanti le cliniche chirurgica, oculistica e ostetrica.
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Giornate di degenza 9.000 8.000 7.000 6.000 5.000 4.000 3.000 2.000 1.000 0
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Grafico 6
no complessive presenze 5.557»110. Tra le annotazioni, il compilatore del registro ebbe cura di segnalare se il paziente era povero, volontario, straordinario, dozzinante senza obbligazione, oppure il comune di provenienza, nel qual caso il soggetto era classificato semplicemente dozzinante. Nel successivo anno scolastico, dal 23 novembre al 31 luglio 1882, gli ammalati accolti furono ancora 147, le giornate di ricovero 6.126, tenendo conto di 359 presenze straordinarie. Dal 21 novembre 1882 al 30 luglio dell’anno successivo gli ammessi furono 170 e le degenze ammontarono a 3.100, 221 straordinarie. Medesima procedura fu seguita per i ricoverati in clinica chirurgica. Nell’anno scolastico 1880-81, iniziato il 22 novembre e terminato il 31 luglio, furono ricoverati 203 pazienti per un numero complessivo di presenze pari a 6.215, 850 delle quali straordinarie. Direttore della clinica era allora Tito Vanzetti, che poteva avvalersi di
110 ASPd, Ospedale, b. 2359. Le presenze ordinarie furono 5.100 e le straordinarie 457. Questo è il riassunto dell’anno scolastico 1880-1881. Tutti i dati che seguono sono ricavati da questo registro che, oltre alla clinica medica, rendiconta anche l’attività della chirurgia, dell’oculistica e dell’ostetricia.
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due assistenti111. Qualche anno dopo, quando in cattedra sedeva Edoardo Bassini, la clinica dovette attrarre un numero così elevato di pazienti che lo stesso Bassini, il 23 novembre 1891, chiese al prefetto di poter utilizzare un proprio appartamento in via S. Massimo al numero civico 3002, per curare quegli ammalati che per ragioni di spazio non poteva tenere in clinica. Il prefetto, in sintonia con il parere favorevole espresso dal Consiglio sanitario provinciale, ai sensi dell’art. 95 della legge sanitaria del dicembre 1888, e dell’art. 79 del regolamento per la sua esecuzione del 9 ottobre 1889, «autorizzò il professor cavalier Edoardo Bassini ad aprire per suo uso esclusivo una casa di salute per cure chirurgiche in Padova via S. Massimo n. 3002». L’autorizzazione portava la data del 2 dicembre 1891. Il prefetto aveva avvertito della richiesta di Bassini anche De Giovanni, ancora direttore della clinica medica e membro del Consiglio sanitario provinciale, perché la appoggiasse112. Nei mesi di agosto, settembre e ottobre non risultano pazienti ricoverati presso le cliniche. Per molti anni a seguire la consuetudine di sospendere l’attività di soccorso e didattica continuò. Da un punto di vista procedurale il rettore dell’ateneo chiedeva ai direttori delle cliniche di riaprire le attività da una certa data, spesso dopo la metà del mese di novembre. A tale richiesta ogni direttore rispondeva accettando l’invito. I pazienti in cura presso la clinica oculistica venivano in ogni caso curati «per conto e sotto la dipendenza dell’ospedale stesso durante le vacanze autunnali»113. Nell’anno scolastico successivo, gli am111 Dopo la morte, gli eredi istituirono una fondazione a suo nome e amministrata direttamente dall’università. L’atto di fondazione risale al 18 giugno 1890 e prevede sussidi a tre studenti poveri di medicina appartenenti alle province venete. Inoltre si sosteneva la frequenza di un laureato in medicina a corsi biennali di perfezionamento in chirurgia e altro ancora. L’attività della fondazione non fu di breve durata. 112 ASPd, Prefettura, I serie, anno 1891, cat. 15. Ermanno Ancona e Carlo Castoro, Edoardo Bassini docente e chirurgo, in Amministrazione, Sanità e cura, pp. 313-335. 113 AGAPd 1901, posiz. 59, lettera di Pietro Gradenigo al rettore Raffaello Nasini, 12 giugno 1901. De Giovanni assicurò il rettore che avrebbe aperto la clinica medica il 22 novembre «avendo la possibilità pertanto di inco-
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malati furono 131, le giornate di degenza 6.496 e quelle straordinarie 1.321. Tra il 1882 e il 1883, gli accolti furono 155, le giornate 3.359 e quelle straordinarie 516. Anche in clinica oculistica i ricoverati nell’anno scolastico 1880-1881 furono molti, 180 pazienti, che dettero luogo a 5.543 giornate di degenza, 1.254 straordinarie. Direttore della clinica era Pietro Gradenigo che aveva a disposizione un solo assistente. I dozzinanti provenivano da centri urbani anche lontani dalla provincia di Padova. Molti arrivavano da Asiago o da altri centri dell’Altipiano e in tutti questi casi l’onere del ricovero ricadeva sul comune di residenza. Nell’anno successivo gli ammessi furono 197 e le giornate di ricovero 4.916, 1.122 straordinarie. Il numero degli ammalati aumentò l’anno seguente, arrivando a 225, ma con un numero di giornate di degenza inferiore, pari a 2.671, 518 straordinarie. Era poi la volta della clinica ostetrica, diretta da Michele Frari, assistito da Marcellino Maggia e da Guido Bolzoni. Questa clinica operava dal primo novembre al 31 ottobre e, nell’anno scolastico 1880-1881, furono ammesse 162 donne per 5.665 giorni di degenza, ordinarie 165, straordinarie 5500. Riportando i dati dell’anno scolastico 1882-1883, il compilatore avverte che in seguito a trattative corse tra il locale municipio ed il rettorato di questa regia università fu tenuta aperta, come negli anni decorsi, durante le vacanze autunnali, la regia clinica ostetrica, per cui la decorrenza dell’anno scolastico corre da primo ottobre 1881 a tutto 31 ottobre 1882.
Non esisteva una divisione ospedaliera di ostetricia, che avrebbe potuto ricoverare le pazienti durante la vacanza estiva. Gli assistiti nelle altre tre cliniche furono sempre identificati come o poveri o dozzinanti o straordinari o volontari o in base alla località di provenienza, nel caso della clinica ostetrica si segnalarono meretrici, sifilitiche e povere, come degenza ordinaria, minciare le lezioni profittando di qualche ammalato della sala medica ospitaliera affidata alla mia direzione». L’amministrazione dell’ospedale assicurava pure alle cliniche la biancheria occorrente, assumendone le spese.
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volontarie o provenienti da altri comuni, come dozzinanti. Le degenze straordinarie non furono annotate, anche se potevano essere individuate. Alcuni giorni di degenza legittima o illegittima potevano essere straordinari.
Ospedale e cliniche dopo la riforma Un rapporto così intenso tra ospedale e cliniche dette luogo a una serie piuttosto cospicua di contratti o di convenzioni che ne regolarono, appunto, i rapporti. Il 16 marzo 1882 si era stipulato un accordo per il mantenimento delle cliniche destinato a durare per un decennio114. Si fissarono il calendario accademico e assistenziale, i locali dati in locazione all’università, i costi del vitto dei ricoverati e in generale tutto quanto concorreva alla conduzione delle cliniche considerate come reparti ospedalieri di cura. Per i medicinali, le cliniche dovevano attenersi a quanto stabilito nel Catalogo di medicinali e Formulario delle preparazioni in uso presso l’ospedale115. Il personale infermieristico presso le cliniche era fornito dall’amministrazione ospedaliera e da questa «pagato per conto erariale e verso rimborso». Si specificò pure il numero limite per anno di degenze presso le cliniche medica, chirurgica e oculistica e si suddivisero i pazienti in ordinari e straordinari. Tra i primi si contarono i già ricoverati in ospedale, sia poveri sia dozzinanti, chi si fosse presentato direttamente in clinica con obbligazione propria al pagamento o del comune di residenza e chi fosse stato accolto in clinica «in mancanza di documenti d’obbligo per l’urgenza del pericolo nel rimando»116. Molta attenzione fu anche po114 BCPd, B.P. 5507, Contratto per il mantenimento delle regie cliniche concordato il 16 marzo 1882 fra la R. Università e l’Ospedale civile di Padova, Padova, Tipografia Randi, 1886. 115 BCPd, B.P. 5507, art. VII. L’articolo in questione stabiliva pure che il prezzo dei medicinali era quello determinato nel listino della casa Carlo Erba di Milano. 116 BCPd, B.P. 5507, art. XXIX. Il numero delle degenze doveva rimanere entro 17.200 giornate: 15.500 erano di degenza ordinaria e 1.700 di straor-
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sta nel determinare l’ammontare dello scomputo a favore delle cliniche per i malati sia ordinari sia straordinari, sempre quando fosse stato possibile ottenere il rimborso della retta a favore dell’ospedale. Se tale rimborso fosse apparso inesigibile, l’ospedale non era tenuto a fare lo scomputo. Norme particolari regolavano la clinica ostetrica: si potevano accogliere donne per un totale di giornate di presenza non superiore a 3.400. Al contratto erano allegati una tabella dietetica, una dei prezzi del bucato della biancheria occorrente, un riepilogo degli oggetti di biancheria, da letto e di vestiario, una tabella dei letti di ferro e di noce, un prospetto del bilancio preventivo delle cliniche e altro ancora. Il 14 luglio 1892 si concordò un nuovo contratto sempre per il mantenimento delle cliniche tra l’università e l’amministrazione ospedaliera, che fu in seguito approvato dal governo il 18 novembre dello stesso anno, registrato alla Corte dei conti il 17 dicembre e all’Ufficio di Padova il 7 gennaio 1893117. Fissate le norme di apertura e chiusura delle cliniche, l’accordo stabilì che la sezione ostetrica era tenuta a osservare una tempistica diversa: essa doveva funzionare dal 21 novembre al 31 luglio a spese dell’università, dal primo agosto al 20 novembre poteva operare come ospizio di maternità, se comune e provincia ne avessero assunto l’intero onere. Il costo dell’affitto dei locali di proprietà ospedaliera, occupati dalle cliniche, era a carico dell’erario per una somma, provvisoriamente indicata, in 2.000 lire annue. La manutenzione di detti locali gravava sia sull’ospedale sia sull’erario, che doveva prendersi cura delle stufe. L’art. 4 è tra i maggiormente rilevanti perché mise in relazione il profilo del paziente con l’individuazione dell’obbligato al pagamento della retta. dinaria. Le degenze straordinarie erano decise direttamente dai direttori delle cliniche senza dichiarazione d’urgenza e in assenza di ogni obbligazione al pagamento. Si stabilì che in clinica chirurgica e oculistica il numero di queste degenze fosse pari a 750 giornate, rimanendone alla clinica medica solo 200. 117 Il testo di questo importante accordo di 34 articoli e 11 allegati è in AGAPd, Atti del Rettorato, b. 28, posiz. 19.
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Chi era accolto nelle cliniche universitarie poteva essere un malato ordinario, dozzinante o straordinario. Al primo gruppo appartenevano i pazienti poveri del comune di Padova, quelli che erano coperti da altro comune e chi pagava in proprio; al secondo quelli che per obbligazione propria o del rispettivo comune erano tenuti ad accreditare all’ospedale di Padova una somma giornaliera superiore a quella dovuta dagli appartenenti al primo gruppo. Infine, i pazienti straordinari erano i poveri o gli sconosciuti che, accolti in clinica, erano a totale carico dell’erario118. In quest’ultimo caso si trattava di donne malate, povere o sconosciute, accolte in ostetricia, o sconosciute ammesse in ginecologia. Anche in questo caso, l’amministrazione s’impegnava a ottenere il pagamento della retta da parte o delle interessate o dei rispettivi comuni, per procedere in seguito al previsto scomputo all’erario, secondo la tariffa prevista per i malati ordinari. Quest’accordo riconosceva ai direttori delle cliniche la facoltà di scegliere i propri pazienti, tenendo conto anche delle necessità didattiche. Il direttore della clinica ostetrica e ginecologica poteva pure incassare l’importo della retta ospedaliera, che in seguito avrebbe trasferito all’ospedale per lo scomputo. Molta cura fu posta nel determinare i costi delle diete dei pazienti suddivise in ordinarie e straordinarie: le prime comprendevano una dieta austera, fatta di solo brodo, una d’uscita e altri cinque tipi di regime alimentare; quelle speciali seguivano il medesimo schema119. Diete, medicinali e applica118
Per le prime due categorie di ricoverati il regolamento aveva proposto un meccanismo di riparto degli oneri in base al quale, fissata una tariffa giornaliera, quando fosse stata pagata all’ospedale o dal comune o dal paziente, allora l’ospedale abbonava all’erario, tenuto al pagamento della retta dei pazienti clinici, una certa somma corrispondente alla differenza tra la tariffa ospedaliera e quella che l’erario avrebbe dovuto assicurare. Nel primo caso la tariffa era pari a 1,88 lire, nel secondo a 3 lire. L’abbuono o lo scomputo era pari a 1,218 e a 2,338 lire (art. IV). 119 Tutte queste diete indicavano con precisione l’alimento, la quantità e il costo a carico dell’erario. Fanno parte integrante dell’accordo costituendo gli allegati A e B. Si prevedeva anche la preparazione di cibi particolari e in questo caso il riferimento era all’allegato C che fissava i costi unitari di ciascun alimento.
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zioni particolari erano a carico dell’erario. I farmaci erano stati posti in un elenco sulla base del listino della ditta Erba di Milano, chiarendo che «tutte le ordinazioni di sostanze non comprese nel predetto allegato D saranno fatte dai direttori clinici senza il concorso della farmacia dell’ospedale, prelevando la relativa spesa sulla somma assegnata alla rispettiva clinica all’art. 15»120. Il finanziamento erariale dell’attività clinica passava sempre attraverso la mediazione dell’ospedale che introitava i rimborsi statali. Una forte sinergia tra ospedale e cliniche fu sempre attiva sulla gestione del personale infermieristico e delle suore. L’amministrazione, su richiesta dei direttori, li forniva e li pagava, ma poi pretendeva di essere rimborsata dalle cliniche medesime. Alla fine questo personale era a carico dello Stato. Anche per i facchini delle cliniche la posizione non era diversa. L’ospedale incassava anche dall’erario una somma forfettaria per le spese di amministrazione, che esso sosteneva a beneficio delle cliniche. L’importo era pari a 3.100 lire l’anno. Inoltre l’amministrazione ospedaliera svolgeva il servizio di cassa per conto dell’università, non solo per il pagamento del personale infermieristico e assimilato, ma per tutto ciò che interessava l’ordinario funzionamento delle cliniche. Il nosocomio s’impegnava a trasmettere al rettore ogni mese due prospetti di spesa: il primo relativo ai medicinali, il secondo al numero delle presenze, spese di vitto, alloggio, biancheria, bucato e altro ancora. In tal modo l’ospedale figurava come creditore verso l’erario, obbligando al pagamento l’università medesi-
120 Art. IX. L’art. XV disponeva a carico dell’erario una dotazione per ciascuna delle quattro cliniche, oscillante tra 10.000 e 17.000 lire l’anno per le spese di vitto e cucina, di medicinali, di biancheria, di bucato, d’illuminazione, di riscaldamento e di oggetti minuti. Solo il numero delle presenze nelle cliniche rimaneva indeterminato. Dal 1892 vigeva una Farmacopea ufficiale del Regno alla quale l’ospedale di Padova intese riferirsi avendo approvato il 29 settembre 1896 il Catalogo dei medicinali e formulario adottati per le divisioni dell’ospitale civile di Padova (BCPd, B.P. 5482).
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ma121. In quest’accordo comparivano altre disposizioni miranti a contenere i costi dell’attività clinica entro limiti sostenibili. Non si poté superare la somma di 500 lire per i medicinali da somministrare presso l’ambulatorio della clinica dermosifilopatica, e le cliniche pediatrica e psichiatrica erano tenute a non reclamare contributi maggiori del normale per motivazioni scientifiche. Infine si stabilì che nelle cliniche medica, chirurgica e oculistica potevano essere accolti malati straordinari solo se la conduzione dell’anno precedente avesse dato luogo ad avanzi di gestione. Il rapporto tra l’amministrazione dell’ospedale civile e le regie cliniche non mancò di far registrare momenti di acuta tensione. Non era certo in discussione la funzione della clinica come luogo di studio, ricerca e assistenza, quanto la necessità di contenerne i costi di funzionamento, che andavano ben oltre la mera fornitura di locali o di materiale vario, comprendendo il pagamento della degenza dei malati, che non era a carico dell’università. Esisteva una vera e propria convenzione a questo fine, stipulata già il 23 febbraio 1898 sulla falsariga di quella del 1892, ma la costatazione di avere ricoverato un numero maggiore di pazienti di quello previsto presso la clinica oculistica, allora diretta da Giuseppe Albertotti, aprì un contenzioso con l’amministrazione ospedaliera. Dalle 16 presenze giornaliere concordate, si era passati a 20, con ciò causando un incremento delle giornate di ricovero pari a 7.811 unità, conteggiando dal momento della firma della convenzione a tutto il 1907. Per questo l’università dovette girare all’ospedale 11.716,50 lire, spingendo Albertotti a chiedere una nuova convenzione, in seguito stipulata e presentata al rettore il 6 agosto 1909122. Era già stata raccolta la deliberazione della Com121
«I pagamenti dei crediti derivanti all’amministrazione spedaliera verso il regio erario dal presente contratto saranno eseguiti dalla regia università o dal regio ministero con anticipazioni trimestrali di 12.500 lire cadauna, scadenti il primo giorno di ogni trimestre dell’anno solare» (art. XXX). 122 AGAPd, Atti del Rettorato, b. 51, posiz. 59b «io reclamerei a favore della clinica oculistica la reintegrazione della summentovata somma», lettera del primo giugno 1908 di Albertotti al rettore Polacco. L’amministrazione
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missione provinciale di assistenza e beneficenza e, quindi, toccava all’ateneo adoperarsi affinché il Ministero della Pubblica Istruzione approvasse il medesimo atto. Il 9 novembre, in altra lettera al rettore da parte dell’ospedale, ci si rammaricava non poco del fatto che a distanza di quattro mesi si fossero affacciate difficoltà tali da pregiudicare indubbiamente vitali interessi di questa opera pia, la quale dedicò particolare ed amorevole cura per non ostacolare dal canto suo il regolare funzionamento delle cliniche [...] non sarà in grado per primo gennaio p.v. di avere il contratto approvato e di poter di conseguenza esigere quanto di diritto le compete123.
Il Ministero rispose il 30 ottobre, osservando di avere bisogno della bozza del contratto e di una particolareggiata relazione circa l’aumento del 22%, inserito nella nuova convenzione, del costo delle diete, dei farmaci e di altro ancora, assicurando nel frattempo che si sarebbe arrivati a una rapida approvazione. Il 12 novembre il presidente dell’ospedale civile, Maurizio Moisè Wollemborg, inviò all’amico Polacco un biglietto riservato ove, profilando la necessità di dover sottoporre le quattro cliniche maggiori all’autorità tutoria, non mancò di osservare che tutto questo, illustre professore, ho desiderato comunicarLe perché Ella voglia far comprendere al Ministro della Pubblica Istruzione che la situazione è assai grave e che dopo tutto non noi, del Consiglio spedaliero, ma il Ministero stesso deve avere a cuore il normale e proficuo andamento degli studi.
Dieci giorni dopo, il ministro Luigi Rava, in un telegramma al rettore Polacco, dichiarava di attendere a breve l’approvazione ospedaliera si mostrò disponibile a sottoscrivere un nuovo contratto, senza dimenticare di annotare che «il prof. Albertotti si assume di curare tutti gli ammalati ospitalieri con il suo personale sanitario». 123 La lettera denuncia il ritardo ministeriale, senza però dire con chiarezza se tale indugio fosse almeno in parte imputabile all’ateneo padovano (AGAPd, Atti del Rettorato, b. 51, posiz. 59a).
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della maggior spesa per il mantenimento delle cliniche padovane da parte del Ministero del Tesoro. Con una certa reticenza Polacco, il primo dicembre 1909, quantificò il maggior aggravio sul bilancio dello Stato in una somma pari a 12.305,81 lire, mettendo in evidenza il caso particolare della clinica oculistica che con proprio personale assicurava le cure ad ammalati ricoverati in un reparto a uso ospedaliero. In tal caso le spese di degenza erano a carico dell’erario, tenuto a saldare il conto direttamente all’ospedale. Il 4 dicembre il rettore informò il presidente dell’ospedale di avere firmato lo schema del contratto e di averlo inviato al Ministero con la preghiera di perfezionarlo, dopo l’approvazione del Consiglio di Stato.
Epilogo L’ospedale dell’età moderna, luogo di ricovero per i più poveri, era stato un ente centro di interessi finanziari ed economici assai rilevanti nella vita sociale della città. Amministrava il proprio patrimonio come ogni altro luogo pio della Repubblica di Venezia. La strategia di gestione spesso ne individuò la mission. Alcuni si specializzarono nel mercato delle doti, altri nell’istruzione, altri ancora nell’assistenza alle vedove, ai fanciulli e agli anziani. Il S. Francesco servì i poveri infermi. Era stato dotato di risorse che ridistribuiva attraverso servizi di cura e di assistenza. Operò così per secoli, facendo affidamento su mezzi propri e organizzando l’assistenza secondo direttive autonome, non dipendenti da disposizioni esterne, fino a quando la riforma crispina delle opere pie trasformò l’ospedale in un ente pubblico di beneficenza. Ciò non avvenne traumaticamente; fu piuttosto un lento processo di allargamento della sfera pubblica a spese di quella privata. Trovare forme di collaborazione e di vera e propria sinergia tra pubblico e privato in età moderna, e nella storia del S. Francesco fino a Crispi, costituì sempre una sfida per un ente, luogo pio che si trasformò in istituto pubblico, che convertì ogni tipo di risorsa materiale e
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immateriale a sua disposizione in bene pubblico, come furono sempre considerate l’assistenza e la cura dei bisognosi. Questo fu un risultato straordinario, reso ancor più singolare dal fatto che l’ospedale, la Repubblica di Venezia e ogni altra amministrazione fino a quella del Regno d’Italia, cercarono sempre di combinare insieme, dalla seconda metà del ’700, l’attività assistenziale con quella delle cliniche. Così l’ospedale non poté più fare a meno delle cliniche e queste del nosocomio.
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Appendice A Composizione della rendita ospedale Affitti
1808 62.853,238
Affitti fondi
Livelli e Interessi decime da capitale dal 1811 11.345,648 6.034,341
Legati
Dozzine dei militari
Dozzine Proventi dei civili straordinari
60,341 130.698,917 1.556,976
1809 54.025,495
11.252,688 7.716,895
145,930 66.327,691
1810 88.848,999
14.038,188 7.933,004
685,288 90.413,487 1.991,666
1811 9.095,422 63.797,886 14.603,247 4.499,962
9.647,324 69.538,319
788,334
Censi
Somma
3.355,960
215.905,421
2.188,674
142.445,707
Ricavo Soprav- Pr dei venienze f lavori attive rif lo
3.287,583 1.589,990 208.788,205 23.037,791 2.453,155
171
1812 18.533,022 60.884,89 16.953,171 4.236,386
9.593,365 105.375,925
13.088,346 6.833,775
1813 11.989,720 54.486,996 9.291,429 2.756,797
9.555,297 68.630,900
22.121,791 5.724,660
967,164
1814 11.435,004 42.767,785 8.740,159 2.394,171
9.555,297
1.577,330
2.187,211
64,476
3.290,134
1815 8.994,140 76.630,482 11.852,134 4.428,947
9.338,068 12.851,845
6.837,579
1,401
3.650,509
1816 9.577,872 87.511,725 26.561,067 3.418,010
9.561,847
6,385
9.527,564
2.055,287 2.783,190
4.396,677
1817 22.813,141 84.345,061 14.884,385 13.308,857 9.604,750 18.073,755
6.666,231 5.566,380
1.957,408
1818 15.465,615 59.225,655 14.095,275 5.543,725
9.564,507 31.406,522
545,095 5.566,380
1819 20.867,834 48.950,042 9.069,161 4.659,609
9.659,679 33.825,468
2.969,530 5.566,380
1820 14.465,659 48.203,079 8.160,830 5.267,887
9.612,093 34.934,290
8.428,749 5.566,380
1821 19.777,560 49.384,291 11.263,966 2.861,648
94,864 39.032,470
3.537,093 5.566,380
1822 18.972,635 52.755,535 10.404,831 5.747,134
54,953 49.771,412
1.618,234 5.638,787
2 1.424,405
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Appendice B Bilancio dell’ospedale 1872
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Entrate patrimoniali 1872 fitti case e fondi interessi da capitali a mutuo interessi da obbligazioni dello Stato livelli censi e decime legati assegni e prestazioni totale Entrate avventizie 1872 dozzine dall'erario dozzine dalle comuni dozzine da privati dozzine da altri istituti prodotti diversi sussidi dalla comune generi in essere fine anno precede fondo cassa totale totale dei due titoli Partite interinali e di giro restituzioni di anticipazioni date crediti sechi depositi ricavo generi venduti
Restanze 1871 15405,11 14214,43 63,29 7608,23 95,98 37387,04 101,19 9410,69 57,94 84,79 10372,15 6561,98 26588,74 63975,78 25038,23 10771,3
Competenza 1872 97944,93 9466,5 17950,95 8578,3 20,42 133961,1
Totale 113350,04 23680,93 18014,24 16186,53 116,4 171348,14
61119,35 104187,19 6611,55 475,06 4124,3 25000
201517,45 335478,55
61220,54 113597,88 6669,49 475,06 4209,09 25000 10372,15 6561,98 228106,19 399454,33
14636,71 225599,51 4163,53 486,67
39674,94 236370,81 4163,53 486,67
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compensi attivi introiti pegli spedali militari totale totale generale Spese d’amministrazione 1872 onorari spese d'ufficio imposte e sovraimposte restauri a fabbriche fitti interessi di capitali a mutuo livelli, censi e decime legati, assegni e prestazioni pensioni e vitalizi spese diverse totale Spese beneficenza interna salari per servizio interno riparazioni al locale dell'istituto vitto e bucato medicinali biancheria, mobili ed utensili vestiario lumi e combustibili introd derrate in città e spese minute oggetti di culto tumulazioni
6830,94 4312,76 46953,23 110929,01 Restanze 1871
1874,95 847,77 1903,19 878,86 908,9 2518,98
204,65
4250
12 244898,42 580376,97 Competenza 1872 11181,22 1742,17 39594,5 20459,34 518,52 3450,1 1852,61 5957,18 6559,66 10492,73
6842,94 4312,76 291851,65 691305,98 Totale 11181,22 1742,17 41469,45 21307,11 518,52 5353,29 2731,47 6866,08 6559,66 13011,71
40209,62 14922,65 159773,82 18988,17 3160,48
40209,62 15127,3 159773,82 18988,17 3160,48
13904,3 10011,78
13904,3 14261,78
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dozzine e altri istituti spese per vaiolosi nel lazz comun di ognissanti totale Beneficenza esterna nutrici di campagna o baliatico esterno Corresponsione a famiglie e artisti per mant orfani ed esposti medici e medicinali elemosine e sussidi doti e grazie a donzelle totale totale dei tre titoli partite interinali e di giro anticipazioni date verso restituzioni debiti secchi depositi scarico generi venduti compensi passivi spese per gli spedali militari totale totale generale
2852,53
2852,53
2852,53
508,56 6400,37
1018,2 3441,17
1526,76 9841,54
20296,23
370704,05
391000,28
594,38 96644,12 1821,78
14636,71 225599,51 4163,53 486,67 12
15231,09 322243,63 5985,31 486,67 12 4769,34
615602,47
739728,32
4769,34 124125,85
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Indice dei nomi
Indice dei nomi
Ademollo B., 113 Agostini F., 32, 115 Albertotti Giuseppe, 139, 166, 167 Alessio Giovanni, 139 Alpini Prospero, 8 Ancona E., 160 Angi M., 69 Anti Carlo, 144 Antonelli A., 123 Arenberg Augusto di, 91 Arslan (Arslanian) Yervany, 137 Baglioni Giovanni Paolo, 25 Barbarigo Gregorio, 59 Basevi Isach, 94 Bassini Edoardo, 8, 137, 138, 160 Beccaria Giovanna, 104-106 Bellinati C., 8 Belmondo Ernesto, 136, 139 Berlinguer G., 135 Bertani M., 69 Berti F., 155 Berti G., 70 Bertossi Giuseppe, 114 Bettella Sante, 154 Bianchi F., 7, 8, 15 Bianchi P., 156 Bidella Santa, 129 Bisantis C., 69 Bolzoni G., 161 Bonafari Sibilla, 46, 49, 58 Bonato Francesco, 54 Bonato Lucrezia, 108 Bonfiglio Dosio Giorgetta, 75 Borelli G., 34 Borghese Zuanne, 46 Borgonzoli P., 120, 122 Bortolami S., 14
Breda Achille, 8, 136, 139 Brera Valeriano Luigi, 8, 86, 87, 95, 97 Briguglio F., 113 Caldani Leopoldo Marco Antonio, 8, 114 Calza Luigi, 114 Calzavarini M., 106 Camerini Silvestro, 121 Camposampiero Crescenzio, 38 Carboni M., 35 Carlo Alberto di Savoia, 115 Carturan Carlo, 154 Castoro C., 160 Cerato Domenico, 67 Cestaro A., 106 Chiesara E., 155 Classer Giuseppe, 45, 46, 52, 58-60 Clemente XIV, 66 Clementi F., 155 Collodo S., 8 Colombo Realdo, 8 Comparetti Andrea, 8, 63 Condulmer Domenico, 25 Contarini Giulio Antonio, 109 Conti F., 120 Corazzol G., 40 Corchia D., 118 Correnti Cesare, 116 Correr Giovanni, 22 Cosma Giulio, 139 Cosmacini G., 10, 19, 28, 109, 135, 138 Cracco G., 7 Crispi Francesco, 11, 117, 120, 122, 140, 168 Crivellari Antonio, 45, 46
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Indice dei nomi
Dal Fiume Girolamo, 130 Dalla Bona Giovanni, 114 Dal Piaz V., 144 D’Alvise Pietro, 136 Da Monte Giovanni Battista, 8 D’Ancona Napoleone, 139 D’Andrea D., 30 De Giovanni Achille, 8, 139, 158, 160 De Lazzara Francesco, 126 Della Peruta F., 28 Del Negro P., 9 De Rosa L., 90 Detti Tommaso, 138 Donadoni Ludovico, 40 Donato R., 113 Dondi dall’Orologio Antonio, 126 Dondi dall’Orologio Francesco, 55 Dondi dall’Orologio Francesco Scipione, 64 Dondi dall’Orologio Galeazzo, 81 Dondi dall’Orologio Giovanni Antonio, 56, 57, 118, 119 Emo Capodilista Leonardo, 139 Erizzo Francesco, 63 Erizzo Nicolò II, 22
Franceschi Valentino, 151 Frari Michele, 161 Frescura Angelo, 151 Fuà Isach, 94 Fulgosio Raffaele, 104 Gaffi Francesco, 156 Gagliardi Francesco, 73 Galilei Galileo, 8 Garbellotti M., 27 Gatti Angelo, 110, 111 Geremek B., 15 Ghisleri Stefano, 47 Giolitti Giovanni, 140, 156 Giormani V., 133 Giusti Francesco, 143, 144 Giustiniani Nicolò Antonio, 9 Gozzini G., 26 Gradenigo Pietro, 8, 160, 161 Grieco A.J., 8 Grigolin Giovanni, 139 Groppi A., 27 Gullino G., 34 Hagemann G., 119
Fabrici d’Acquapendente Girolamo, 8 Fabris Lorenzo, 86, 87 Falloppio Gabriele, 8 Fantini D’Onofrio F., 8, 50 Fantuzzi Francesco, 125 Fanzago Francesco Luigi, 8, 72, 73, 96 Farina Modesto, 105 Farinella Calogero, 111 Farolfi B., 116 Ferro M., 13, 14 Festari Tommaso, 125 Fontana A., 69 Fontana G.L., 106 Fontaniva Marco, 119, 130 Fornasari M., 116 Foscarini Pietro, 49 Foucault M., 69 Fracastoro Girolamo, 8
Jacur Moisè Vita, 126 Jappelli Giuseppe, 101 Knapton M., 34 Lami Pio, 155 Lanaro P., 34 Lando M., 116 Lavagnolo Giovanni, 114 Lazzarini A., 106 Lenguazza Marco Antonio, 64 Leone X, 57 Levi Aronne, 94 Lucatello Luigi, 139 Lussana Filippo, 8 Luzzatto Dina Enrichetta, 141 Maestri Eugenio, 153 Maldura Andrea, 64 Maluta Giovanni, 153
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Indice dei nomi
Manfredini Federico, 107 Marchettani Antonio, 30 Macri Pietro, 93 Maddalena C., 8, 9, 32, 62 Maggia M., 161 Maggioni Giacomo, 113 Marongiu G., 124 Marsand Antonio, 95 Martini Nello, 155 Marzolo Francesco, 9 Melandri Contessi Girolamo, 133 Melandri V., 116 Memmo Andrea, 25, 67 Menato Domenico, 71 Mercuriale Girolamo, 8 Midena E., 69 Minghetti Marco, 124 Mingoni Giuseppe, 114 Montesanto Giuseppe, 96 Montorsi W., 155 Morgagni Giovanni Battista, 8 Mussato Giulio, 126 Muzzarelli M.G., 35 Nalin Edoardo, 153 Nasini R., 160 Negri Varotari Francesco, 107 Ongaro G., 9 Ovetari Antonio degli, 129 Panciera W., 7, 15 Panetto M., 113 Papafava Arpalice, 126 Pasini W., 113 Pastore A., 27 Pazzini A., 121 Penzo Rodolfo, 139 Petroni G., 47 Pietro d’Abano, 8 Pimbiolo Antonio, 95, 113 Pinali Vincenzo, 9 Pincherle Mosè, 94 Piro A., 113 Pisoni Omobon, 114 Pogliano C., 28
Polacco Vittorio, 136, 139, 166-168 Preto P., 27, 107 Ramazzini Bernardino, 8, 73 Rava Luigi, 167 Rigon A., 14 Rinaldi Giovanni, 94 Rippa Bonati M., 8, 73 Ruggeri Cesare, 86, 87, 95 Sabatini R., 47 Sabattini G., 140 Sacco Pier Luigi, 111, 113 Saetta Francesco, 49, 51 Sandri Andrea, 94 Sandri L., 8 Santorio Santorio, 8 Sartor I., 30 Saviolo Annibale, 38 Scovin Gaspare, 38 Selvatico Pietro, 126 Selvatico Estense Benedetto Giovanni, 126 Signorini Bartolomeo, 9 Signorini L.F., 113 Silei G., 120 Silvano G., 7, , 15, 16, 32, 34, 35, 51, 74, 80, 106, 107, 115, 119, 130 Sironi V.A., 155 Sografi Giovanni, 114 Squarcina Ferruccio, 139 Stumpo E., 34 Tagarelli A., 113 Talamazzo Giovanni Battista, 56 Tamassia Arrigo, 9 Tedeschi Vitale, 139 Terribile Wiel Marin V., 73 Tessari N., 36 Thiene G., 9 Toboga Giuseppe, 151 Toffanin G., 21 Tognotti E., 135, 138 Tolomei Giampaolo, 139 Tolomei Guido, 139 Traversa Girolamo, 56
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Trevisan Francesco Antonio, 80 Trevisan Girolamo, 64 Truzzi Ettore, 139 Valeggia Orazio, 152 Vallisneri Antonio, 8 Vanzetti Tito, 159 Varanini G.M., 7 Varotto Giacomo, 80 Vecchiato F., 34 Veronesi U., 155 Vesalio Andrea, 8 Vianello A., 26 Vitaliani Alessandro, 56 Vittorio Emanuele II, 155 Vivanti C., 28 Vives Ludovico, 16, 26
Wiesling Johann, 8 Wirsung Johann Georg, 8 Woolf Stuart J., 26 Wollemborg Maurizio Moisè, 139, 167 Wollemborg Uberto, 139 Wollemburgh Leone, 94 Zabeo Gaetano, 81 Zamagni V., 15, 147 Zancan Giuseppe, 139 Zanchin G., 113 Zaramellin Alberto, 113 Zorzi Giovanni, 54
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Stampato nel mese di luglio 2013 presso la CLEUP sc “Coop. Libraria Editrice Università di Padova” via G. Belzoni 118/3 – Padova (t. 049 8753496) www.cleup.it www.facebook.com/cleup
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