Rivista Marittima Febbraio 2021

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FEBBRAIO 2021

RIVISTA

MARITTIMA SPED. IN ABB. POSTALE - D.L. 353/03 (CONV. IN L. ART. 1 COMMA 1 N° 46 DEL 27/02/04) - PERIODICO MENSILE 6,00 €

MENSILE DELLA MARINA MILITARE DAL 1868

L’Aviazione Navale italiana: risultati, stato dell’arte, prospettive Intervista al contrammiraglio Placido Torresi

Incidenza e attualità del Potere Aeronavale nel Potere Marittimo Giuseppe Lertora

La componente aerotattica dell’Aviazione Navale italiana Michele Cosentino



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Sommario PRIMO PIANO

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Antonello Rocco D’Avenia

L’Aviazione Navale italiana, risultati, stato dell’arte, prospettive. Intervista al contrammiraglio Placido Torresi a cura del Direttore della Rivista Marittima

Le bolle A2/AD. Negazione e conquista del Potere Marittimo

60 Compiti dei piloti di elicottero, carico cognitivo

e ruolo dei riferimenti visivi esterni durante gli appontaggi su unità navali

Andrea Pingitore, Luca Pietrantoni

PANORAMICA TECNICO-PROFESSIONALE

78 Due secoli di armi velici Maurizio Brescia

18 Incidenza e attualità del Potere Aeronavale nel Potere Marittimo Giuseppe Lertora

28 La componente aerotattica dell’Aviazione Navale italiana Michele Cosentino

STORIA E CULTURA MILITARE

90 Il Potere Aeronavale: strategie, dottrine e rivalità

istituzionali (1918-48) Fabio De Ninno

RUBRICHE

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Portaerei e aviazione imbarcata: un asset strategico irrinunciabile Gino Lanzara, Francesco Zampieri

44 Mediterraneo orientale: una disputa geoecono-

mica e geopolitica Giuseppe Gagliano

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Focus diplomatico

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Osservatorio internazionale

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Marine militari

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Che cosa scrivono gli altri

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Recensioni e segnalazioni

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MARITTIMA MENSILE DELLA MARINA MILITARE DAL 1868

PROPRIETARIO ED EDITORE

UFFICIO PUBBLICA INFORMAZIONE E COMUNICAZIONE DIREZIONE E REDAZIONE Via Taormina, 4 - 00135 Roma Tel. +39 06 36807248/54 - Fax +39 06 36807249 rivistamarittima@marina.difesa.it www.marina.difesa.it/media-cultura/editoria/marivista/Pagine/Rivista_Home.aspx

DIRETTORE RESPONSABILE Capitano di vascello Daniele Sapienza

CAPO REDATTORE Capitano di fregata Diego Serrani

REDAZIONE Capitano di corvetta Danilo Ceccarelli Morolli Tenente di vascello Raffaella Angelino Guardiamarina Giorgio Carosella Secondo capo scelto QS Gianlorenzo Pesola Tel. + 39 06 36807254

IN COPERTINA: La portaerei CAVOUR - impegnata nella campagna «Ready for operations» (RFO) - all’arrivo presso la Naval Station di Norfolk (Virginia, Stati Uniti), accolta dalle bandiere americana e italiana.

SEGRETERIA DI REDAZIONE Primo luogotenente Riccardo Gonizzi Addetto amministrativo Gaetano Lanzo

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FEBBRAIO 2021 - anno CLIV

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Ammiraglio di squadra (ris) Giuseppe Lertora

FOTOLITO E STAMPA

Capitano di fregata Gino Lanzara

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Contrammiraglio (ris) Michele Cosentino Professor Francesco Zampieri Dottor Giuseppe Gagliano Capitano di corvetta Antonello Rocco D’Avenia Capitano di fregata Andrea Pingitore Professor Luca Pietrantoni Dottor Maurizio Brescia

COMITATO SCIENTIFICO DELLA RIVISTA MARITTIMA

Professor Fabio De Ninno

Prof. Antonello BIAGINI Ambasciatore Paolo CASARDI Prof. Danilo CECCARELLI MOROLLI Prof. Massimo DE LEONARDIS Prof. Mariano GABRIELE Prof. Marco GEMIGNANI C.A. (aus) Pier Paolo RAMOINO A.S. (ris) Ferdinando SANFELICE DI MONTEFORTE Prof. Piero CIMBOLLI SPAGNESI

Ambasciatore Roberto Nigido, Circolo di Studi Diplomatici Dottor Enrico Magnani Contrammiraglio (ris) Ezio Ferrante Capitano di corvetta Danilo Ceccarelli Morolli

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E ditoriale

S

crivo questo editoriale mentre nave Cavour, la portaerei italiana, è in navigazione verso le coste degli Stati Uniti, precisamente verso la Naval Station dell’US Navy di Norfolk, in Virginia, la più grande base aeronavale del mondo. La campagna navale è denominata Ready for Operations (RFO): pronti per operare con i nuovi F-35B della Marina. Si tratta cioè di conseguire la certificazione all’impiego dei velivoli imbarcati, per poi proseguire con determinazione e raggiungere, entro il 2024, la «capacità operativa iniziale» della portaerei a operare con il Joint Strike Fighter (JSF) nella variante a decollo corto e atterraggio verticale (Short Take Off and Vertical Landing, STOVL). Il Capo di Stato Maggiore della Marina Militare, l’ammiraglio di squadra Giuseppe Cavo Dragone, nelle sue Linee guida per il 2021 l’ha definita: «un’impresa strategica per il paese». Dalla «plancia» della Rivista, secondo la nostra opinione, sono tre gli aspetti principali che caratterizzano e delineano la campagna di nave Cavour. Primo aspetto: come noto, il programma JSF è nato con l’obiettivo di sviluppare e produrre un velivolo da combattimento (o meglio, un sistema d’arma) di 5a generazione (per intenderci l’avanzatissimo Eurofighter è un aereo di 4a generazione) concretizzatosi nell’F-35 Lightning II, nelle sue tre versioni: F-35A a decollo e atterraggio convenzionale (CTOL, Conventional Take Off and Landing); F-35B (1) a decollo corto e atterraggio verticale (STOVL); F-35C per portaerei convenzionali (CATOBAR, Catapult-Assisted Take-Off But Arrested Recovery). Nella sostanza, lo stesso velivolo modificato in base alle esigenze e alla piattaforma di utilizzo. Grazie alla sua avanzatissima tecnologia stealth e al possesso di sensori, armi e apparati avanzatissimi di gestione delle informazioni (Information Superiority), l’F-35 è l’aereo più evoluto al mondo in termini di letalità, inter-connettività e livello di sopravvivenza agli ingaggi. In pratica, come sottolineato in precedenza, si tratta di un vettore strategicamente abilitante che permetterà a chi lo possiede di far parte di quel ristretto gruppo di nazioni che guideranno le azioni e le decisioni negli scenari futuri. Un assetto militare che permetterà all’Italia un indiscusso livello di supremazia tecnologica e di deterrenza convenzionale a disposizione dell’Autorità Politica in quelle che vorranno essere le azioni e le misure di stabilizzazione, proiezione e difesa degli interessi vitali del paese. SEGUE A PAGINA 4

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Proprio per questo la portaerei Cavour costituisce, insieme agli F-35B, la capacità militare abilitante per eccellenza, grazie alla sua intrinseca mobilità, autonomia e possibilità di operare nell’alto mare, senza bisogno del permesso di paesi terzi. Evolve così e si potenzia il Gruppo portaerei — il cosiddetto Carrier Strike Group — cioè quel complesso capacitivo che conferisce all’intero strumento militare un ineguagliabile contributo di flessibilità, interoperabilità, proiettabilità e scalabilità di intervento. Secondo aspetto: come sappiamo, l’Italia è una potenza regionale marittima con interessi economici a livello globale. Per difendere i propri confini e tutelare questi interessi nel complesso e insidioso contesto di riferimento, ha quindi bisogno di uno strumento militare e, in particolare, di una Marina Militare che sia efficace, efficiente, affidabile, flessibile e tecnologicamente avanzata, in grado di integrarsi adeguatamente nei dispositivi della NATO ed europei. L’arrivo oltremare della portaerei Cavour riveste un ulteriore significato che travalica i limiti e i significati finora trattati. Il Cavour ormeggiato a Norfolk racchiude l’espressione della più autentica amicizia e vicinanza tra i due popoli e tra le due Marine. Come si è espresso il Capo delle Operazioni Navali della Marina degli Stati Uniti, ammiraglio Michael M. Gilday, nel corso del Simposio delle Marine a Venezia, a ottobre 2019: «La Marina italiana e quella americana godono di una lunga storia di cooperazione e di reciproco aiuto (…) le nostre relazioni sono profonde e durature. Il contributo dell’Italia alla sicurezza della NATO sul fianco meridionale e negli schieramenti in tutto il mondo non è mai troppo poco per garantire la sicurezza della comunità internazionale. I nostri paesi sono molto più che semplici partner militari. Siamo amici!». Si tratta invero di una precisa attività diplomatica che genera fiducia e conoscenza reciproca. Un rapporto Italia-Stati Uniti che possiamo considerare saldo e privilegiato e che si sostanzia nelle condivisioni di avanzatissimi sistemi tecnologici come nel caso dell’F35B, che garantiscono un futuro di sicurezza sempre maggiore per il nostro paese. Terzo aspetto: l’«impresa» di nave Cavour come espressione di una «Marina di qualità», manifestazione e sintesi del più qualificato Potere Marittimo e Aeronavale nazionale. Generalmente, volendo sintetizzare, con l’espressione Potere Marittimo si intende la capacità di uno Stato di utilizzare il mare per i propri scopi, siano essi militari o commerciali e, contestualmente, essere capaci di impedire o limitare all’opponente di fare altrettanto mentre, nel caso del Potere Aeronavale, si intendono le capacità di proiezione a distanza del potenziale militare, sia navale che aereo, delle Marine da guerra. Giova quindi evidenziare, come già sosteneva l’ammiraglio Romeo Bernotti (1877-1974), forse il massimo pensatore di strategia navale italiana, come, per assicurare il controllo del mare e tenuto conto delle limitate risorse nazionali, occorreva una «Marina di qualità», armata da navi da battaglia veloci e ben protette, incrociatori di notevole tonnellaggio, sommergibili oceanici, ritenendo altresì la «capacità portaerei» unica per assicurare la tempestività di intervento e protezione della flotta anche lontano dalle coste e anche nell’ottica di influenzare gli eventi su terra. Cogliamo così l’occasione per evidenziare come la crescente rilevanza della componente anfibia, oltre a rafforzare l’intrinseco connotato joint delle Marine, stia determinando, soprattutto nel pensiero militare NATO, l’evoluzione del paradigma dottrinale delle forze da «aeronavali» in «marittime». Come sappiamo, la Forza armata sta procedendo all’ammodernamento e al rinnovamento delle sue forze in modo da bilanciare i limitati fondi a disposizione con la necessità di disporre di capacità che

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soddisfino anche gli obiettivi della NATO e dell’UE. Lo Strumento marittimo italiano deve quindi essere in grado di tutelare, anche nell’ambito di un approccio sistemico alla sicurezza collettiva, gli interessi del paese ovunque essi si manifestino, superando la visione geografica di intervento, in cui particolare rilevanza strategica assume, in aggiunta alla difesa dei confini nazionali, la caratteristica di una spiccata e rapida proiettabilità (concetto di Expeditionary) e di permanenza in mare (capacità Sea Based), per cui occorrono il Gruppo portaerei e il Gruppo anfibio, entrambi dotati di unità di scorta, sommergibili, supporto logistico e specialistiche di settore idrografiche e cacciamine. Il piano di ammodernamento e rinnovamento della nostra flotta prevede assetti di difesa integrata anti-aerea e anti-balistica (Integrated Air Missile Defence), di fuoco navale di supporto (Naval Fire Support), di ingaggio in profondità (Deep Strike) e asimmetriche, assetti strategici cosiddetti «trasversali» a tutte le dimensioni della Difesa, come i mezzi aerei e subacquei «unmanned» per la ricognizione e la sorveglianza, sottomarini e aerei da pattugliamento marittimo, una capacità di contromisure mine all’avanguardia, così come di armamento di nuova generazione quale quello a energia diretta e capacità avanzate per la difesa cibernetica e per l’accesso alla dimensione spaziale. In tale quadro si innesta l’impegno della Forza armata sempre più orientato alla valorizzazione della versatilità delle proprie componenti, finanche attraverso una spinta modularità di allestimento delle navi anche tramite container funzionali, che accrescano la possibilità di calibrarne la configurazione secondo la missione. Una «Marina di qualità» che vede la flotta italiana in una proiezione al 2035 composta da 1 portaerei completa di 15 velivoli F-35B, 8 moderni sommergibili, 4 navi anfibie, 4 cacciatorpediniere, 10 fregate multiruolo, 3 navi per il supporto logistico, 15 pattugliatori d’altura, 12 cacciamine di nuova generazione, 3 navi idrografiche, 86 elicotteri, 9 aerei da pattugliamento, oltre le capacità di proiezione dal mare rappresentate dal Raggruppamento anfibio San Marco e dalle Forze Speciali del COMSUBIN. Questa «Marina di qualità», di cui il Cavour è espressione tangibile nella sua «impresa» a livello internazionale, potrà agire nelle tre dimensioni fisiche e nei cinque domini operativi, oggigiorno divenuti un unicum che anche gli americani considerano tale nella recente strategia aeronavale «Tri-service Strategy», diramata a dicembre 2020, non a caso intitolata Advantage at sea, prevailing with integrated all-domain naval power. In definitiva, l’«impresa» strategica del Cavour negli Stati Uniti sostanzia un paese avanzato, all’avanguardia nella tecnologia e nella cantieristica nazionale, che deve credere negli investimenti, sul capitale umano, oltre che sui mezzi e sulle infrastrutture della Forza armata, affinché l’esercizio del Potere Marittimo possa continuare, oltre a difendere i confini della nazione, anche a tutelare i vasti interessi nazionali di un paese che, come il nostro, ha con il mare un legame indissolubile e dal quale trae straordinarie opportunità di crescita da cui dipende la prosperità e, quindi un futuro auspicabilmente ancora più florido. Buon vento nave Cavour! (1) F-35B STOVL è la versione sviluppata per l’USMC (United States Marine Corps) e per le Marine di vari paesi tra cui Gran Bretagna e Italia.

DANIELE SAPIENZA Direttore della Rivista Marittima

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PRIMO PIANO

INTERVISTA AL CONTRAMMIRAGLIO PLACIDO TORRESI

L’AVIAZIONE NAVALE ITALIANA, risultati, stato dell’arte e prospettive A cura del Direttore della Rivista Marittima

Le lezioni apprese in numerose operazioni reali hanno costantemente accresciuto il bagaglio di conoscenze operative dell’Aviazione Navale italiana, oggetto di una riorganizzazione che già nel 2000 ha portato alla creazione del Comando delle Forze aeree (COMFORAER) della Marina Militare. Per analizzare lo stato dell’arte dell’Aviazione Navale italiana in una chiave di lettura proiettata in avanti nel XXI secolo, la Rivista Marittima ha intervistato il contrammiraglio Placido Torresi, che secondo il concetto di total capability manager, è al vertice di COMFORAER e contemporaneamente capo del 6° Reparto aeromobili dello Stato Maggiore della Marina Militare.

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n linea di principio, una moderna Aviazione Navale comprende, fra l’altro, velivoli ad ala fissa ed elicotteri, macchine generalmente suddivise fra una componente basata a terra e una imbarcata. Queste risorse si possono inquadrare in un contesto sistemico di cui fanno parte ovviamente anche una o più portaerei, sviluppando quelle sinergie fra velivoli, elicotteri, assetti aerei non pilotati, piattaforma, sensori e sistemi imbarcati ed equipaggio indispensabili per massimizzare l’efficacia operativa di tutto il sistema. Assieme ad altre forze navali europee, la Marina Militare partecipa inoltre all’ECGII (European Carrier Group Interoperability Initiative), un’iniziativa finalizzata ad accrescere la capacità delle Marine a essa aderenti nel costituire un Task Group multinazionale incentrato sulle portaerei. Ammiraglio, ritiene che in una prospettiva militare europea con

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Elicotteri della Marina e dell’Esercito sul ponte di volo del GARIBALDI.

forte connotazione marittima e tenendo conto delle capacità esprimibili in tal senso, l’obiettivo sia concretamente perseguibile? I recenti eventi nella storia dell’Unione europea, non per ultimo l’attuale emergenza Covid-19, hanno messo in risalto la necessità di una profonda ed efficace coesione tra gli Stati membri, per potenziare e ottimizzare i singoli sforzi nel perseguire un obiettivo comune. Inoltre, l’austerità fiscale e i budget limitati che hanno caratterizzato quest’ultimi decenni rappresentano ormai un nodo cruciale ogni volta che vengano affrontate sfide future. E questo riguarda anche le Forze armate con le relative sfere del procurement e dell’output capacitivo che, per una nazione con forte vocazione marittima quale la nostra, si sintetizza nella volontà di dotarsi e impiegare strategicamente una portaerei con i suoi velivoli e sistemi d’arma integrati. L’ECGII è l’evoluzione naturale di tutto ciò. È nata per aumentare le capacità e l’interoperabilità nell’impiego di questi «aeroporti in movimento» da parte delle nazioni europee che ne sono dotate, promuovendone la cooperazione e potenziandone l’addestramento reciproco tramite esercitazioni congiunte di tipo combined. L’obiettivo comune è quello di consentire, nell’ambito delle operazioni UE o NATO, il dispiegamento di un Carrier Strike Group in maniera più rapida ed efficace. In tale ambito viene ricercata ogni possibile interazione tra i Gruppi portaerei — italiani, francesi, spagnoli, compresi quelli britannici — con l’obiettivo di raggiungere un livello elevato di reciproca conoscenza tattica e procedurale, oltre al potenziamento dell’interoperabilità con particolare riferimento al settore della difesa del Task Group e dell’impiego dell’Aviazione Navale. Sono inoltre convinto che questa postura sinergica sia l’arma vincente nei prossimi scenari in cui le Forze armate saranno chiamate a operare, oltre a rappresentare un moltiplicatore di forza intrinseco per le sfide che attendono le Marine del futuro e, più in generale, l’Alleanza atlantica. Nel corso delle missioni dei Gruppi navali costituiti negli anni Novanta dalla Marina Militare per le operazioni in Somalia furono creati anche reparti elicotteristici misti Esercito-Marina imbarcati sul Garibaldi. Nel 2015 è stato inoltre firmato un accordo fra gli Stati Maggiori della Marina Militare e dell’Esercito italiano per consentire ad alcune macchine dell’AVES (Comando Aviazione dell’Esercito) e ai relativi piloti ed equipaggi di operare dalle unità navali. Ammiraglio, come si sviluppano le attività in tal senso fra Marina ed Esercito? Come citato, le operazioni in Somalia degli anni Novanta hanno evidenziato il valore aggiunto per lo strumento militare nazionale di poter dispiegare una forza dal mare partendo da piattaforme mobili come le unità

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delle unità navali al fine di consentire a tutto il personale dell’Esercito e della Marina di affrontare in piena sicurezza ed efficacia qualsiasi scenario operativo e, soprattutto, le possibili situazioni di emergenza. La cooperazione e l’addestramento congiunto continuano, trovando la loro massima espressione nell’ambito delle esercitazioni interforze nazionali. Nei documenti programmatici della Marina Militare estesi fino a metà circa del prossimo decennio è prevista la realizzazione di nuove unità d’assalto anfibio — al momento identificate come LXD — per sostituire le tre unità classe «Santi», ormai in linea da lungo tempo. Ammiraglio, assumendo che queste nuove unità imbarchino unicamente macchine ad ala rotante, può indicare quali sono o potrebbero essere i requisiti delle future LXD? L’attuale capacità di proiezione anfibia, oggi basata sulle tre unità classe «Santi» e sul Garibaldi configurata come Landing Helicopter Assault (LHA), soffre d’importanti limiti capacitivi in termini di proiezione e sostentamento della Landing Force, principalmente riconducibili alle obsolescenze strutturali delle quattro unità e alla loro incipiente vetustà. Mentre il Garibaldi, nella sua «funzione anfibia», troverà naturale sostituzione nel 2022, con l’ingresso in linea della Landing Helicopter Dock (LHD) Trieste, per San Giorgio, San Marco e San Giusto, si è reso necessario l’avvio di un programma che ne preveda la sostituzione nell’ambito di una prospettiva programmabile di rinnovamento. Riguardo alla configurazione del ponte di volo delle nuove unità LXD non si è ancora pervenuti a un disegno definitivo e sono tuttora allo studio sia una versione LHD (con ponte di volo esteso per tutta la lunghezza dello scafo), sia un progetto con un ampio ponte di volo poppiero (LPD, Landing Platform Dock) con due spot per elicotteri pesanti. Ciò che invece sarà sicuramente presente, a prescindere dalla configurazione del ponte di volo, è un hangar di dimensioni adeguate per il ricovero e la manutenzione di elicotIl GARIBALDI e altre unità della Marina Militare defilano di controbordo al CAVOUR durante teri tipo MH-101A o MH-90A che, oltre a un’esercitazione della Squadra navale. garantire la protezione dei delicati materiali navali. In tale contesto, la capacità di ingaggio e protezione basata su assetti d’attacco ad ala rotante, configurati per poter operare da idonee piattaforme navali verso teatri operativi litoranei, può risultare un valido complemento alla già presente componente ad ala rotante e aerotattica organica alla Marina. Negli anni successivi, quindi, lo Stato Maggiore Esercito e lo Stato Maggiore Marina hanno continuato a studiare e ad approfondire le possibilità di collaborazione nello specifico settore, ampliando anche le tipologie di operazioni alle quali estendere l’interoperabilità a operare da bordo — cioè valorizzando le unità navali tuttoponte come punto di rifornimento avanzato per estendere il raggio d’azione degli elicotteri d’attacco eventualmente impiegati quale elemento di proiezione sea-based in supporto di una forza di estrazione/protezione nel caso di esigenza di evacuazione di personale — ed effettuando varie campagne di prove di sperimentazione, volte a determinare l’inviluppo di impiego dell’elicottero AH-129 da bordo delle predette unità navali e ad acquisire la necessaria certificazione tecnico-operativa. Da tali attività tecniche sono naturalmente scaturiti programmi addestrativi comuni per il conseguimento delle necessarie qualifiche/abilitazioni per operare da bordo, nonché i requisiti minimi per il mantenimento delle stesse in conformità con le procedure normalmente utilizzate a bordo

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compositi dagli agenti atmosferici marini, consentirà la diversificazione funzionale delle aree assegnate alla Sezione elicotteri imbarcata (hangar e ponte di volo) con quelle assegnate alla Brigata Marina «San Marco» (ponte garage). Dal punto di vista costruttivo, inoltre, il ponte di volo sarà geometricamente e strutturalmente dimensionato in modo da consentire attività di volo e di rifornimento, anche nella modalità Hovering In Flight Refueling (HIFR) diurna e notturna, anche con l’impiego di visori notturni (Night Vision Googles). Le nuove unità dovranno essere in grado di garantire anche la piena operabilità di sistemi T-UAS (Tactical Unmanned Air System) ad ala fissa e Elicotteri MH-101 della Marina Militare in azione dalla portaerei CAVOUR. rotante. Al pari delle unità classe «Santi», le mente indicate come irrinunciabili le capacità di nuove LXD potranno inoltre effettuare operazioni di repattugliamento marittimo a medio e lungo raggio. cupero di elicottero ammarato. La possibilità di imbarA similitudine di altre realtà aeronavali estere, a care, per lunghi periodi, elicotteri ed equipaggi di volo queste capacità dovrebbero essere associate quelle specificatamente orientati alle operazioni «eliassalto» di contrasto alle unità subacquee, quest’ultime evo(i già citati MH-101A e MH-90A), consentirà alle unità lutesi qualitativamente anche negli scenari maritdi condurre operazioni di proiezione anfibia a lungo timi d’interesse per l’Italia. I quattro pattugliatori raggio (Over The Horizon, OTH) e multidimensionale marittimi P-72A, inquadrati nel 41º Stormo Anti(superficie e aerea) nell’ambito di un Amphibious Task Som di base a Sigonella, con equipaggi misti Marina Group basato sulla Capacità Nazionale di Proiezione Militare-Aeronautica, sono sprovvisti di capacità dal Mare (CNPM), consentendo di schierare tutta la antisommergibili, una carenza significativa in virtù Landing Force e fornirgli il relativo supporto sea-based della massiccia presenza di sottomarini nelle Maanche attraverso la componente aerea imbarcata. In tale rine geograficamente parte del Mediterraneo allarquadro, le nuove LXD possederanno un’elevatissima gato. Tenendo sempre a mente gli interessi strategici flessibilità d’impiego che gli consentirà di operare, dell’Italia, si può ipotizzare qualche soluzione a queanche in supporto al Trieste, nell’intero spettro delle sta evidente lacuna operativa? missioni assegnabili alla Forza armata, sia nel bacino di L’evoluzione dello scenario geostrategico mondiale, prevalente gravitazione e interesse nazionale — il Menon limitata alla realtà regionale del Mediterraneo, diterraneo allargato — sia in funzione expeditionary vede un rinnovato generale interesse dei paesi a vocaovunque si possano configurare situazioni che ne richiezione marittima verso il dominio subacqueo. A testidano l’intervento. Infine, è importante evidenziare che monianza di ciò, oltre alla ormai consolidata e sempre queste unità, come tutte le nuove costruzioni navali più persistente presenza della componente subacquea della Marina Militare, nasceranno con una intrinseca cadella Federazione Russa nel Mare nostrum, molte Mapacità duale che consentirà loro di essere impiegate a rine dei paesi del Nord Africa insieme ad attori globali supporto della collettività in caso di necessità particolari e regionali quali Cina, Pakistan e India, stanno rinno(crisi sanitarie, calamità naturali, ecc.). vando e aggiornando le rispettive flotte subacquee, così Nelle linee d’indirizzo strategico formulate dalla come avviene in Turchia. Marina Militare per il periodo 2019-34 sono giusta-

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Un velivolo F-35B in azione sulla portaerei britannica QUEEN ELIZABETH, uno degli asset essenziali per la creazione di un task group multinazionale incentrato su questo tipo di unità (UK MoD).

La generale rinnovata attenzione verso questo tema, inoltre, è ulteriormente confermata dagli orientamenti della NATO che ha inserito l’Anti Submarine Warfare (ASW) tra i maritime target del NATO Defence Planning Process (NDPP), assegnato proprio all’Italia. Il velivolo da pattugliamento P-72A è stato scelto in sostituzione del datato Atlantic, giunto alla fine della sua vita operativa nel 2017, quale soluzione ad interim per un orizzonte temporale limitato, in ragione dell’economicità e della relativa velocità di acquisizione dei velivoli, di fatto già disponibili nella linea di produzione nazionale, sebbene privi di capacità antisommergibili. In questo contesto geopolitico molto complesso e in rapida evoluzione, l’Italia non può più fare a meno dell’aviazione antisommergibile: di conseguenza, su iniziativa proprio della Marina Militare, la Difesa ha iniziato il processo di analisi e selezione di un velivolo da pattugliamento marittimo con spiccate capacità antisom che possa garantire elevata autonomia oraria e adeguato raggio di azione per essere impiegato efficacemente nell’intero bacino mediterraneo e oltre, qualora necessario. In tale ottica, le soluzioni disponibili non mancano sia presso l’industria nazionale, sia estera: esempi di possibili candidati, non esaustivi, sono il C-27 in versione ASW di Leonardo, il P-8 «Poseidon» della statunitense Boeing (impiegato da Stati

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Uniti, Australia, India, Norvegia, Nuova Zelanda, Regno Unito e Corea del Sud) e il P-1 della giapponese Kawasaki. Il nuovo velivolo dovrà permettere allo strumento nazionale di assicurare una capacità e una rilevanza cruciali per tutelare gli interessi del paese e della NATO negli anni futuri. La Marina Militare, con COMFORAER in prima linea, è da tempo impegnata nella valutazione di diversi modelli di sistemi/mezzi aerei a pilotaggio remoto, meglio noti come UAS (Unmanned Aerial Vehicle), ad ala fissa e ad ala rotante. Ammiraglio, può illustrare quali sono le prospettive d’impiego e di sviluppo degli UAS nell’ambito della Marina Militare e le predisposizioni a bordo delle unità navali per permetterne l’imbarco e le operazioni? La Marina Militare è da tempo impegnata in un intensivo studio dei necessari requisiti e delle problematiche tecniche/operative per definire sistemi non pilotati (UAS), sia ad ala fissa che ad ala rotante, robusti, imbarcabili, con architetture scalabili, che coprano ogni esigenza della Squadra navale e che siano in grado di svolgere missioni come: — controllo delle aree marittime d’interesse e contrasto delle minacce alla sicurezza delle linee di comunicazione/rifornimento marittimo (contributo alla homeland security);

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l’introduzione degli stessi senza interferenze o limita— sopravvivenza e protezione delle forze; zioni all’impiego degli aeromobili convenzionali im— supporto al sistema C4-ISTAR dei comandi tattici; barcati. Inoltre, l’interesse della Marina copre anche — protezione degli interessi nazionali/alleati, proiedroni ad ala fissa con la possibile futura acquisizione zione di capacità; della più recente versione del collaudato velivolo — polizia dell’alto mare (constabulary role), in ope«Scan Eagle» della Insitu/Boeing. razioni di antiterrorismo, antipirateria, di sorveglianza e Recentemente, sono state rese note le caratteriinterdizione dei traffici illeciti (droga, armi, esseri stiche generali di due nuove unità ausiliarie, ma non umani), di sorveglianza sulle risorse della piattaforma per questo meno importanti affinché la Marina Micontinentale e di prevenzione e controllo dell’immigralitare assolva con professionalità tutti i suoi compiti. zione illegale; Si tratta dell’unità per il soccorso a unità subacquee — operazioni di supporto alla popolazione civile. sinistrate e per operazioni speciali in ambiente suL’utilizzo degli UAS a supporto di queste attività bacqueo (nota con l’acronimo inglese SDO-SuRS, permetterà una riduzione considerevole degli oneri per Special & Diving Operations/Submarine Rescue l’esecuzione delle missioni, ridimensionando il carico Ship) e dell’unità idro-oceanografica NIOM (Nave operativo degli aeromobili convenzionali, il cui utilizzo Idro Oceanografica Maggiore), destinate a sostipotrà essere focalizzato sugli interventi per cui è indituire rispettivamente l’Anteo e il Magnaghi. Enspensabile la disponibilità del mezzo pilotato. Una trambe le unità saranno prima sperimentazione in equipaggiate con un tal senso è stata effettuata ponte di volo, ma saranno con il «Camcopter S-100», sprovviste di hangar. Amcon capacità di decollo e miraglio, ci può spiegare appontaggio verticale, prole motivazioni di queste dotto dall’azienda austriaca scelte, che sembrerebbero Schiebel e sperimentato in precludere la presenza virtù di contratto di service, stabile di capacità elicottra il 2014 e il 2015. Il siteristiche imbarcate? stema è stato installato a Entrambi i programmi bordo del San Marco e imnascono dall’esigenza della piegato nell’operazione Difesa di colmare i gap caMare nostrum e sul Grecale pacitivi generati dall’obsoper l’operazione antipiratelescenza di nave Anteo, ria Atalanta. La Marina è al momento impegnata in un Un elicottero SH-90A viene movimentato a bordo della fregata LUIGI giunta a fine vita operativa dopo oltre quarant’anni altro progetto, questa volta RIZZO, appartenente alla classe «Bergamini». d’impiego, e di nave Maa livello europeo, denomignaghi, in servizio dal 1975, che soffre ormai d’impornato OCEAN 2020, teso alla dimostrazione dell’intetanti limitazioni in termini di efficacia operativa dei grazione di piattaforme senza pilota nelle missioni di sistemi specialistici imbarcati e problematiche legate sorveglianza e interdizione. Il progetto ha effettuato alla generale usura e vetustà della piattaforma. La nuova una prima dimostrazione navale nel golfo di Taranto SDO/SuRS, altamente specializzata nelle operazioni nel novembre 2019, con la partecipazione delle fregate speciali, subacquee e per il soccorso a unità subacquee Fasan e Martinengo, assieme ad altre unità navali strasinistrate, disporrà di un ponte di volo idoneo a operare niere; l’ingresso in linea nella Marina Militare dei primi con elicotteri delle linee EH-101/NH-90, mentre la UAS ad ala rotante è previsto nel 2021, perché al moNIOM, dedicata all’assolvimento dei compiti istituziomento sono in finalizzazione studi che permetteranno

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prolungato degli elicotteri, che si rischiereranno a bordo, presumibilmente per brevi periodi, in supporto alle operazioni specialistiche delle altre componenti imbarcate. In ambito progettuale, entrambi i programmi hanno dovuto cogliere l’avveniristica sfida tecnologica rivolta alla produzione di sistemi in grado di assicurare prestazioni elevatissime in numerosi ambiti, mettendo insieme le varie esigenze in termini di Key Performance Parameters (KPPs). Dopo accurati approfondimenti sono state individuate in maniera incrementale, tre opzioni corrispondenti ad altrettanti livelli capacitivi: la prima opzione senza ponte di volo né hangar, la seconda con la sola aggiunta del ponte di volo e una terza che prevedeva l’aggiunta di ponte di volo e hangar. Sebbene quest’ultima rappresentasse quella capacitivamente più performante, per dimensioni, dislocamento (prossimo a 10.000 t) e complessità, la stessa è risultata difficilmente sostenibile, anche alla luce dell’ineludibile necessità di rivisitare i KPPs. La seconda opzione, di contro, a fronte di un limitato impatto in termini di Un elicottero MH-101 sorvola il ponte di volo del CAVOUR, con un Harrier II Plus in primo piano. La riprogettazione della piattaforma per creazione di COMFORAER ha rivoluzionato il modo di gestire equipaggi di volo e aeromobili, sia dal l’aggiunta del ponte di volo, consenpunto di vista operativo sia tecnico-logistico. In alto: un velivolo a controllo remoto AW HERO rizzato sul ponte di volo della fregata VIRGINIO FASAN (Leonardo). tiva importanti vantaggi operativi nei profili d’impiego in bacini di gravitazioni lontani dalla madrepatria. nali del Servizio idrografico nazionale, sarà dotata di un Nel settore del naviglio minore combattente si ponte di volo per elicotteri NH-90. La scelta di dotare parla già di un programma di cooperazione avviato entrambe le unità di ponte di volo ma non di hangar è fra Italia, Francia e Spagna, cui si stanno aggrefrutto di considerazioni sia di carattere operativo, sia gando altre nazioni europee, per le future European tecnico/progettuale. Il concetto d’impiego delle unità Patrol Corvette, EPC. Tenendo conto dei requisiti vede prevalere l’utilizzo di specifici sistemi per la condella Marina Militare e della contestuale necessità duzione delle operazioni subacquee nel caso della SDOdi sostituire gli elicotteri destinati alle unità di miSuRS e idro-oceanografiche nel caso di NIOM (anche nori dimensioni, quale capacità elicotteristiche in ottica modulare e dual use), rispetto a un impiego

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avranno le EPC verosimilmente destinate alla Marina Militare? Il progetto relativo alle European Patrol Corvette è, al momento, l’unico a livello navale nell’ambito della Permanent Structured Cooperation (PeSCo) dell’Unione europea e nasce con l’obiettivo di definire una piattaforma comune per una nuova generazione di pattugliatori polivalenti leggeri per la sorveglianza e la protezione degli spazi marittimi di interesse nazionale e per la salvaguardia della vita umana in mare. In ambito nazionale la Marina ha definito tale classe di unità con la sigla PPX e ha destinato tale ambizioso programma — assieme a quello delle unità classe «Thaon di Revel» — al rinnovamento della linea di pattugliatori d’altura. Si tratta di unità in grado di reagire prontamente ad attacchi di tipo asimmetrico ma con limitate capacità di contrasto della minaccia di superficie, aerea e subacquea e conseguentemente la componente aerea imbarcata dovrà essere in grado di assolvere, qualora necessario, l’intero spettro di missioni assegnabili alla nostra componente ad ala rotante, da quelle di pattugliamento marittimo, alle Maritime Interdiction Operations (MIO) anche per periodi di tempo prolungati. Per soddisfare tali requisiti, è prevista la presenza di un ponte di volo con uno spot singolo e di un hangar per elicotteri tipo NH-90 e Naval Light Utility Helicopter, NLUH. Poiché nell’ambito dell’ultimo gruppo di programmi PeSCo, altre nazioni oltre a quelle prima citate hanno annunciato l’intenzione di supportare il programma di cui l’Italia è leader, sono fiducioso che tale progetto possieda tutte le potenzialità e i numeri necessari per proseguire nel suo iter di approvazione. Come noto, un nucleo di piloti e specialisti delle Forze aeree della Marina Militare si trova negli Stati Uniti per le attività propedeutiche all’ingresso in servizio degli F-35B «Lightning II» nella Forza armata. Può descriverci le attività condotte del personale della Marina Militare a tale scopo? La prima aliquota di personale della Marina Militare destinato a operare sui nuovi velivoli F-35B a bordo del Cavour è composta da piloti e manutentori attualmente rischierati nella base americana dei Marines di Beaufort, nello Stato della Carolina del Sud, sulla costa orientale degli Stati Uniti. Le attività in corso sono frutto di un

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accordo bilaterale tra l’Italia e l’US Marine Corps che prevede l’impiego congiunto di velivoli italiani e statunitensi (soluzione in «pooling») per l’addestramento dei piloti e la familiarizzazione da parte dei manutentori alle procedure manutentive (modalità on the job training). L’attività viene svolta con il supporto di istruttori di volo appartenenti allo squadrone addestrativo dei Marines (il VMFAT-501) e il personale tecnico della Lockheed Martin. Nello specifico, dopo la prima fase dedicata alla condotta basica del velivolo, l’addestramento si sta concentrando su tutte le principali missioni «aria-aria» e «aria-superficie» assegnabili ad assetti nazionali e NATO, in scenari progressivamente più complessi, dove un velivolo di quinta generazione riesce a svolgere al meglio le sue funzioni di moltiplicatore di forza. Dall’altro lato il personale manutentore si sta addestrando alla gestione del sistema d’arma attraverso l’apprendimento di tutte quelle competenze e funzioni che, dalla più semplice alla più complicata, rendono complessivamente possibile al velivolo di esprimere le tutte le sue potenzialità. Il culmine dell’attività si avrà quando il Cavour opererà al largo delle coste statunitensi durante la primavera del 2021 per la certificazione dell’inviluppo di volo operativo del nuovo velivolo, quando è in programma il primo impiego effettivo a bordo da parte degli F-35B della Marina Militare con la Carrier Qualification dei piloti. Il Capo di Stato Maggiore della Marina Militare, ammiraglio di squadra Giuseppe Cavo Dragone ha recentemente posto l’accento sulle forti criticità esistenti nella Forza armata in materia di personale e di cui le autorità politiche sono state rese partecipi. Alla luce di quanto sopra, qual è la situazione del personale assegnato a COMFORAER, in termini di consistenza, capacità e formazione? In termini di consistenza organica le Forze aeree della Marina registrano una situazione di sofferenza simile al resto della Forza armata, ma amplificata da un importante flusso in uscita di personale esperto per raggiunti limiti d’età. Tale assottigliamento organico rappresenta una criticità che impatta in maniera diretta sul personale che, in relazione a un immutato e sostenuto impegno delle unità della Squadra navale, deve coprire periodi di imbarco più frequenti e più lunghi per la man-

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considerevolmente superiori a quelle delle macchine legacy. Mentre l’impiego a terra di queste macchine non ha, di fatto, comportato importanti trasformazioni nella filosofia di gestione, diverso è quanto attuato a bordo delle unità navali, segnatamente su quelle dotate di spot singolo. Se da un lato il dislocamento per classe di unità è aumentato, dall’altro le dimensioni dei ponti di volo delle unità navali sono rimaste proporzionalmente pressoché invariate, così come le prestazioni richieste con stati del mare elevati. I differenti pesi/volumi e la natura dei materiali impiegati nella costruzione delle nuove macchine, hanno evidenziato l’esigenza di incrementare i margini di sicurezza nella conduzione delle operazioni di volo a bordo, minimizzando il personale addetto alle operazioni sul ponte di volo, in particolare nelle fasi di decollo, appontaggio, movimentazione e rifornimento degli elicotteri. L’obiettivo è di «remotizzare» tutte le attività che richiedono impiego di personale sul ponte di volo, spostandolo in posizioni ridossate e protette, pronto a intervenire su base di necessità. Le unità navali di più recente costruzione già consentono la gestione dei sistemi antincendio da postazioni protette, tuttavia è opportuno individuare soluzioni volte a incrementare ulteriormente la sicurezza e sono allo studio sistemi in grado di fornire indicazioni utili all’appontaggio del velivolo senza la necessità di presenza di personale sul ponte. Tale requisito, battezzato «No Man On Deck», sta rappresentando una filosofia verso la quale orientare il design/layout di ponti di volo, hangar e relative sistemazioni e su cui la Marina sta puntando da diverso tempo collaborando anche con altri centri di ricerca civili. In tale ambito spicca il progetto NUCLEON (User Centered Visual Landing Aids through Laser Projection), impresa finanziata dal ministero per gli Affari esteri e della cooperazione internazionale, che vede Il SAN MARCO in navigazione nel Mediterraneo orientale. La sostituzione delle ormai vetuste unità anfibie classe «Santi» è affidata a una nuova classe di LXD tuttora in fase di progetto e dotate di buone capacità la collaborazione tra il Centro aeronautiche. sperimentale aeromarittimo di canza di un adeguato turnover. Rispetto al recente passato, quindi, l’organico si è contratto ma è rimasto inalterato il contributo in termini di capacità operative che le Forze aeree sono in grado di fornire. La formazione e l’addestramento dei giovani militari in ingresso nelle Forze aeree sono costantemente al centro della nostra attenzione e rappresentano la base sulla quale costruire il nostro futuro e, a tal fine, viene sfruttata ogni opportunità formativa e addestrativa. Nonostante quest’attenzione dedicata alla preparazione del personale sarà necessario incrementare il personale delle Forze aeree, per consentire un miglior bilanciamento tra le esigenze di servizio/professionali e le necessità personali/familiari, nonché per aumentare il numero di coloro che dovranno raccogliere l’importante know-how accumulato dal personale più anziano. Le operazioni di decollo e appontaggio su unità navali, in particolare di notte, rientrano tra le attività più critiche per un pilota di Marina. Tali criticità si possono trasformare in rischi sia per l’equipaggio di volo, sia per la squadra di tecnici sul ponte. Ammiraglio, esistono, o sono allo studio, sistemi che possano mitigare i rischi di queste attività? Con l’introduzione in servizio degli aeromobili EH101 e NH-90, le Forze aeree della Marina si sono trovate a gestire elicotteri con pesi, volumi e tecnologie

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MARISTAELI Luni e la società italiana L3/Calzoni, l’israeliana Maradin, e l’Università di Bologna. Il sistema in fase di realizzazione effettuerà la misura di posizione e quota dell’elicottero rispetto al centro dello spot di appontaggio e la proiezione grafica di tali informazioni, insieme ad alcuni dati nave e vento, sul portellone dell’hangar in modo da essere ben visibili ai piloti, rendendo non necessaria la presenza sul ponte di volo di un Landing Signal Enlisted (LSE). Estremamente Un elicottero SH-90A in transito in un aeroporto italiano durante il trasferimento a Grottaglie. innovativo e al momento unico tato finale. Diverse di queste imprese sono risultate al mondo, tale sistema assicurerebbe una migliore sitalmente meritorie da passare alla storia quali tuational awareness e un workload decisamente ridotto esempi di impiego dello strumento aeronavale nella per i piloti, soprattutto in condizioni di Degraded Visual concezione più moderna e negli scenari geo-politici Environment (DVE). Fermo restando i criteri legati al più complessi. Qual è a oggi il bilancio di questa predimensionamento del ponte di volo, che seguono requistigiosa componente della Marina Militare? siti influenzati dalle dimensioni dell’elicottero e alle esiNonostante le difficoltà incontrate agli albori della cogenze imposte dall’introduzione dei sistemi di stituzione del Comando delle Forze Aeree, la rivoluzione movimentazione, l’applicazione della filosofia del «No apportata in seno alla Squadra navale è stata senz’altro Man On Deck» richiede, oltre all’impiego di sistemi audace ma vincente e, dall’anno 2000, la Componente come il NUCLEON, sistemi antincendio controllabili aeromobili della Marina ha operato utilizzando al meglio da zona protetta, in grado di assicurare il primo interle proprie risorse, uomini e mezzi. La partecipazione a vento sull’aeromobile, prima dell’azione diretta della ogni maggiore attività e operazione degli ultimi vensquadra di sicurezza e sistemi remoti di «rizzaggio» sul t’anni, ha permesso a questa Componente di crescere ponte e di movimentazione, sia a scafo (tipo TCmoltissimo e di poter esprimere al massimo i suoi valori ASIST), sia trasportabili (tipo MANTIS RAM). e il suo potenziale. Le operazioni Enduring Freedom e Nel 2000 le Forze aeree della Marina si sono riISAF in Afghanistan contro il terrorismo, Atalanta per configurate sotto il Comando delle Forze Aeree, la sicurezza e il contrasto alla pirateria, Leonte per la soCOMFORAER. Questa scelta coraggiosa ha rivovranità marittima nelle acque del Libano, Unified Proluzionato il modo di gestire gli equipaggi di volo e tector in Libia per garantire una indispensabile e gli aeromobili, sia dal punto operativo, sia da quello complicatissima cornice di sicurezza su un territorio faltecnico-logistico, rappresentando un importante cidiato da una violenta guerra civile, sono solo alcune cambio di passo. Dalla costituzione nel 2000 a oggi, tra le principali operazioni alle quali le Forze aeree della per più di vent’anni di considerevole storia operaMarina hanno partecipato in questi ultimi anni. Le strativa, COMFORAER ha servito la Squadra navale, ordinarie attività condotte durante il terremoto della Marina e il paese in tutte le maggiori operazioni l’Aquila del 2009, l’operazione White Crane durante il cui l’Italia ha preso parte, in un ruolo sempre deterremoto ad Haiti nel 2010, ancor oggi considerata terminante e con un significativo impatto sul risul-

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esemplare e non ultima l’impresa di mettere in salvo passeggeri ed equipaggio della motonave Norman Atlantic a bordo della quale si sviluppò un indomabile incendio del 2014, per arrivare alla grande ecletticità di impiego offerta durante la gestione dell’emergenza Covid-19, sono invece alcuni esempi di ciò che le Forze aeree della Marina hanno svolto e continuano a svolgere a favore della collettività e della popolazione civile. Grazie a questo impegno, flessibilità e perseveranza, la Bandiera delle Forze aeree della Marina a oggi si può fregiare di due Medaglie d’Oro al Valore di Marina che riassumono il significato profondo dello sforzo e dell’attaccamento

Piloti della Marina Militare in addestramento con gli F-35B negli Stati Uniti.

alla Patria di questa meravigliosa Componente, oltre che onorarne l’operato, di encomiabile rilievo. Le Forze aeree della Marina sono oggi uno dei fiori all’occhiello della Forza armata e, assieme e in piena sinergia con le altre Componenti, rendono la nostra Marina per molti aspetti leader nel mondo. Tradizione e modernità, un connubio che da sempre ha contraddistinto la Marina Militare e di conseguenza anche tutte le sue Componenti. Dunque le Forze aeree della Marina in costante adeguamento con le tecnologie e i moderni concetti di impiego e operabilità ma che non dimentica di preservare e

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far riferimento alla propria tradizione, alla propria esperienza, alla propria storia. Ammiraglio, come si fa a raccordare le generazioni di equipaggi preservandone il valore assoluto della tradizione quale denominatore comune? La storia dell’Aviazione Navale italiana ha compiuto un secolo di vita nel 2013, datando la sua nascita nell’anno della costituzione di una Sezione aeronautica all’interno del 1° Reparto dell’Ufficio del Capo di Stato Maggiore della Regia Marina. Tuttavia, il fermento pionieristico in questo affascinante settore era vivo già dalla fine del XIX secolo, con i primi studi effettuati sui dirigibili, cui hanno fatto seguito i primi esperimenti su mezzi che potessero avere un impiego diretto con le unità navali, effettuati nel 1906-07 dall’allora sottotenente di vascello Mario Calderara che di lì a pochi anni, nel 1910, riuscì a ottenere il primo brevetto di pilota rilasciato in Italia. È una storia che non ci stanchiamo mai di raccontare ai nostri giovani piloti e specialisti delle Forze aeree della Marina che scelgono la carriera in Aviazione Navale, attratti dall’idea di accostarsi al mondo aeronautico e, in un secondo momento, scoprono il valore aggiunto di poterlo fare a bordo delle avveniristiche navi della Forza armata. Per noi il mezzo aereo e la nave sono un tutt’uno e l’aeromobile senza il suo ponte di volo sarebbe un mezzo privo del suo scopo, così come una nave senza il suo velivolo verrebbe privata di una componente fondamentale per l’assolvimento di qualsiasi missione. E per far sì che questo racconto rimanga sempre impresso nelle nostre menti e in quelle di coloro che si accingono a cimentarsi in questo affascinante mestiere, è stato di recente inaugurato presso la Stazione aeromobili di Grottaglie un percorso di Sale Storiche dedicate alle nostre genti, ai mezzi che hanno operato negli anni, ai successi ottenuti. Lo annuncio con grande emozione e soddisfazione immensa, perché esso rappresenta un significativo tributo alla storia centenaria, alla tradizione dell’Aviazione Navale e a chi ne è stato protagonista. 8 Rivista Marittima Febbraio 2021


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PRIMO PIANO

Incidenza e attualità del Potere Aeronavale nel Potere Marittimo Giuseppe Lertora

Ammiraglio di squadra (ris). Dal 12 dicembre 2006 al 28 aprile 2009 ha ricoperto la carica di Comandante in capo della Squadra navale, e per quasi due anni, quella di Comandante della Forza Marittima Europea (EUROMARFOR) in UNIFIL, durante la crisi libanese. Precedentemente, da dicembre 2005 a dicembre 2006, è stato Comandante in capo del Dipartimento Militare Marittimo Alto Tirreno e nel periodo aprile-ottobre 2004, il Senior National Representative Italiano presso USCENTCOM (Tampa, Florida), per le operazioni Enduring Freedom e Iraqi Freedom. Comandante dell’Accademia navale, per un triennio, a cavallo del millennio; in precedenza ha svolto l’incarico di capo Reparto aeromobili della Marina Militare per oltre un lustro, gestendo i programmi internazionali relativi ai velivoli AV-8B, quello dell’elicottero EH-101 ed NH-90. Ha comandato fra l’altro la fregata Maestrale e il cacciatorpediniere Francesco Mimbelli e, in quanto pilota di Marina, è stato responsabile di diverse componenti di volo imbarcate.

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Elicotteri EH-101 della Marina Militare in volo di formazione con un passaggio sopra nave GARIBALDI.

Dal Potere Navale a quello Aeronavale Il pensiero e le idee illuminate del comandante Alfred T. Mahan, maturate ben oltre un secolo fa in un contesto sociale, marittimo, economico e tecnologico completamente diverso, esprimono ancora oggi l’indiscutibile validità e attualità nell’ambito di quel Potere Marittimo (qui di seguito abbreviato sempre con la sigla PM) per cui «una qualsiasi nazione può vincere su un’altra distruggendone la flotta e strangolandone i commerci attraverso un blocco navale?». Chiaramente tali idee si attagliavano bene agli scenari di quel tempo, di fine del 1800, con una

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visione corretta sul ruolo essenziale del PM e del correlato Potere Navale, entrambi determinanti, considerato che la potenza marittima esprimibile risultava assai più forte e incisiva di quella continentale-terrestre, nella positiva risoluzione dei conflitti. Da quel postulato discendono gli elementi fondamentali per la costituzione e l’applicazione del PM e soprattutto viene sentita la necessità di attuare una conseguente strategia marittima che presuppone il possesso di una flotta di navi commerciali e da guerra di una certa consistenza come condizione necessaria, ancorché non sufficiente. È inoltre indispensabile avere una posizione geografica favorevole, una disponibilità di porti e sorgitori adeguati sia interni che esterni, delle risorse naturali e produttive e, possibilmente, delle istituzioni stabili. Il Potere Navale, che da sempre fa parte significativa del PM, è invece costituito dalle sole navi da guerra, quindi dalla Marina Militare nel suo complesso e dalle sue capacità esprimibili in pace e in guerra, a protezione innanzitutto delle SLOC (Sea Lines of Communication), le linee di comunicazione commerciali. Entrambi quei poteri si basano sul mare, il loro elemento comune; essendo anche l’elemento più esteso nel nostro pianeta, è quindi il più trafficato da vari mezzi per svolgere scambi di vario genere e di beni essenziali lungo rotte commerciali sicure e libere; è pertanto comprensibile l’interesse di uno Stato a disporre di una cospicua flotta mercantile quale parte importante del proprio sviluppo e sicurezza, nell’ambito di una concreta declinazione del PM. In particolare, il nostro paese, al centro del Mediterraneo, dovrebbe avere, per affrontare in modo adeguato le sfide attuali e future, una specifica strategia marittima che, nell’ambito della politica estera, riesca a cogliere con l’oculato utilizzo del PM, l’interesse primario nazionale inevitabilmente legato al nostro mare. Infatti, qualora sussistano quelle condizioni basilari, il mare rappresenta l’unico mezzo per sviluppare la potenza e il benessere di una nazione. È pertanto essenziale che esista una dottrina navale nazionale ben definita, che gli Stati perseguono in campo marittimo, sia nella flotta mercantile, sia in quella militare, con un adeguato bilanciamento e in grado di conseguire da un lato obiettivi commerciali geopolitici di tutto

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rispetto, dall’altro quelli strategici militari attraverso il controllo e il dominio del mare, con capacità di protezione di quel traffico e di proiezione di forze anche ben oltre il Mediterraneo. Le teorie del Mahan hanno attraversato tutto il Novecento e hanno costituito sempre uno specifico riferimento per tutte le Marine, sia quelle occidentali che altre (per esempio quella indiana), ponendo la massima attenzione nel creare innanzitutto le capacità di controllo e protezione delle linee di comunicazione marittime, ma anche quelle di proiezione nell’alto mare e un sistema tecnicologistico di basi navali e di punti di appoggio. La scienza e le scoperte, quindi, hanno inciso notevolmente sull’evoluzione degli strumenti marittimi, considerata l’elevata tecnologia applicata e la modernizzazione delle odierne costruzioni navali; basti pensare che all’inizio il Potere Navale si basava su navi fortemente armate, su bastimenti maggiori come le corazzate per la proiezione di capacità e di unità minori per le esigenze costiere o interne del paese, mentre dai primi anni del XX secolo il Potere Navale incomincia ad avvalersi di piattaforme speciali, le «portaerei» che, al posto di ingenti armamenti convenzionali, portano notevoli quantità di aeromobili idonei sia per compiti di sorveglianza, sia di proiezione, anche a considerevoli distanze, con possibilità di «Sea Control» di grande rilievo. Pertanto, le portaerei sostanziano una diversa potenza navale esprimibile rispetto alle navi convenzionali e quindi da un potere pregresso tipicamente navale, con quella straordinaria aggiunta del Potere Aereo intimamente legato alle macchine volanti imbarcate; si concretizza così una nuova forma di PM che vede al proprio interno un potere combinato, il Potere Aeronavale con più estese capacità di proiezione di forze e quindi di protezione dei nodi strategici e delle vie di comunicazione commerciali, con una funzione di deterrenza unica. Se le statuizioni del Mahan in merito al PM potevano apparire inizialmente troppo ambiziose e difficili da realizzare, con l’avvento delle portaerei anche l’affermazione che: «Il Potere marittimo è la chiave del dominio globale e influenzerà sempre la storia dei popoli» diviene assai più concretamente realizzabile; in effetti quel Potere Aeronavale espresso dalle portaerei, o anche da unità portaelicotteri, è stato e sarà il plastico esempio di una forza

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integrata proiettabile a grande distanza che può cambiare drasticamente le sorti e le soluzioni dei conflitti, dando un contributo eccezionale al PM nel garantire in definitiva la libertà dei mari. Si ribadisce che, in particolare, nel PM delle nazioni mediterranee contano le dimensioni e la qualità delle flotte, ma innanzitutto il livello di protezione esercitabile nelle maggiori linee di comunicazioni marittime, in specie di quelle che interessano il trasporto di idrocarburi e altre materie pregiate che attraversano diversi chokepoints strategici, da Hormuz a Bab el-Mandeb, al Canale di Suez, allo Stretto di Gibilterra, ecc.: se non venisse garantita la sicurezza di quelle SLOC, gli effetti nel commercio e sviluppo industriale potrebbero essere fortemente compromessi. Avere il controllo del mare è importante anche per altri vari motivi; per le risorse di vario genere che racchiude, per le risorse alimentari che assicura in primis con la pesca e via dicendo; bisogna perciò valorizzare appieno l’attuale concetto della «Blue Economy» particolarmente in ambito europeo, quale ca-

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Incidenza e attualità del Potere Aeronavale nel Potere Marittimo Le portaerei sostanziano una diversa potenza navale esprimibile, rispetto alle navi convenzionali e quindi da un potere pregresso tipicamente navale, con quella straordinaria aggiunta del Potere Aereo intimamente legato alle macchine volanti imbarcate.

posaldo della crescita economica strettamente correlata alle potenzialità del mare. Sarà proprio dal mare che dovranno essere recepite e gestite anche le sfide più importanti; per quelle note (dalla sicurezza della navigazione alla pirateria, al terrorismo, all’immigrazione illegale, ai traffici illeciti di armi ed esseri umani, alla pesca indiscriminata) fino a quelle ignote che potranno emergere anche nel nostro Mediterraneo da conflittualità etniche, religiose, di abusi nei diritti umani, di pestilenze e pandemie naturali. In tal senso, nell’attuale precaria situazione mondiale, la temeraria azione di gruppi facinorosi e non statuali richiede, anche a livello di prevenzione, di implementare con urgenza i concetti basilari del PM con una opportuna strategia navale inclusa nella visione complessiva dei dicasteri della Difesa e degli Esteri in particolare, per fronteggiare situazioni anomale e proteggere gli interessi nazionali, ma anche quelli del diritto sottoscritti dalla comunità internazionale. E, per questo, non possiamo sempre confidare su «aiutini» altrui, sulla mutua solidarietà che spesso è divenuta

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solo di facciata; sta bene comunque continuare a essere presenti nelle diverse alleanze, dalla NATO alla UE, alle «Coalition dei volenterosi» create ad hoc in rapporto a specifiche crisi, in quanto lo impone la globalizzazione e la cooperazione nella comunità internazionale; ma il nostro paese — come molti altri — non può sempre accodarsi ai grandi, piuttosto dovrebbe essere responsabilizzato per affrontare con sufficiente efficacia interventi militari e diplomatici anche da solo confidando sul proprio PM, allorquando per ragioni diverse quelle alleanze non possono partecipare. Appare evidente che l’apporto del Potere Aereo è molto importante e spesso determinante per la tempestività nell’impiego del mezzo aereo da parte del comandante in mare, ma anche per la valenza che nella fase iniziale di un conflitto questi può significare; prima la capacità di piegare uno Stato avversario avveniva per esempio con un massiccio bombardamento controcosta, mentre oggi con i caccia imbarcati in numero consistente, l’azione combinata con missioni di attacco e di close air support, crea le condizioni per un più ampio successo delle operazioni: il «sea-power» o il PM nazionale, si coniuga quindi e si basa sull’innovativo complessivo Potere Aeronavale. Ne consegue che nella relazione con il Potere Navale, il Potere Aereo non può essere considerato un accessorio, ma assume un ruolo di complementarietà inclusiva di notevole valenza strategica, spesso decisivo nella condotta delle operazioni sul mare: gli scenari di una crisi iniziale presuppongono quasi sempre l’impiego di una aliquota di velivoli aerotattici senza ritardi e soprattutto nelle aree di interesse, partendo da una base Expeditionary, come la portaerei, senza mortificare la neutralità dei paesi coinvolti. In effetti lo strumento navale ne esce davvero rafforzato ed esteso nel suo braccio operativo con l’apporto del mezzo aereo disponibile e pronto in loco; si tratta quindi di un utilizzo che sfrutta le capacità di due poteri, di un assetto aeronavale combinato che massimizza e ottimizza entrambi i poteri, quello aereo in congiunzione con quello navale, una volta tanto in modo congiunto e non in contrapposizione come più volte accaduto nel corso della storia. Gli aspetti più vasti del PM nella sua accezione geopolitica, ma soprattutto della componente dell’aviazione navale intimamente connessa con il Potere Aero-

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navale, nello scenario complesso del Mediterraneo —o meglio nel c.d. Mediterraneo allargato — debbono costituire dei precisi riferimenti concettuali per affrontare delle situazioni critiche anche sul piano decisionale e quindi debbono far parte importante della cultura politica del nostro paese: conoscere ed essere coscienti di questa capacità, attuale e «spendibile» della Difesa, può costituire una scelta di grande rilievo a portata dei dirigenti governativi per la gestione di situazioni di crisi.

Il Potere Marittimo nel Mediterraneo allargato L’evoluzione del PM e di quello Navale nei vari conflitti e teatri di crisi, anche nelle situazioni relativamente recenti (dalle guerre del Golfo al conflitto Bosniaco per citarne solo alcune) occorse fra il primo dopoguerra e oggi, pongono in evidenza sempre più che chi controlla il mare e le correlate vie di comunicazione gioca un ruolo decisivo e spesso determinante su tutti gli scenari mondiali. Il mar Mediterraneo era e resta un’area di vitale importanza per il controllo e la gestione dei fenomeni con rilevanza e ricadute globali; quel mare che all’epoca romana era «nostrum» oggi lo è molto meno e le ragioni sono in qualche misura legate al PM esercitabile ed esercitato nel tempo, a causa di una sottovalutazione e scarsa conoscenza degli strumenti marittimi disponibili, soprattutto quelli impliciti nella Marina Militare che sarebbero preziosi nel calmierare certe situazioni critiche o di stallo, prima del precipitare delle situazioni, utilizzando dapprima lo strumento navale con la deterrenza tipica della «Naval Diplomacy» insita tradizionalmente nelle unità navali. Si tratta in sostanza di tutelare il proprio interesse nazionale e nel contempo la sicurezza nella crucialità del Mediterraneo e di quello allargato, nella conoscenza e prevenzione dei fenomeni che prima o poi interesseranno la nostra penisola. Serve quindi una risposta strategica e responsabile sia per recuperare quella credibilità e peso come nazione, sia per rafforzarci sul piano della considerazione della comunità internazionale: il PM deve rispondere a criteri di rispetto più che di dominio sul mare, e di prevenzione, di garanzia di libertà e di tutela della pace in genere; ciò significa anche dare il giusto peso e dimensionamento di uno strumento bilanciato e consistente delle Marine militari quale braccio fondamentale della diplomazia nella nostra politica estera.

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Anche i più agnostici non hanno bisogno di risalire il corso della storia fino a quella romana e all’arrivo dei profughi troiani guidati da Enea per capire che, fin dall’antichità imperiale, Roma ebbe una vocazione marittima per espandersi e occupare tutti i litorali del Mediterraneo, privilegiando le vie del mare anche per le conquiste europee, Britannia compresa, varcando addirittura le Colonne d’Ercole. L’esercizio del PM fu infatti determinante nel contenere e contrastare le minacce recate dalla rivale Cartagine e da Annibale nel corso delle Guerre Puniche, costringendo lo stesso a seguire l’impervia via terrestre verso l’Italia nella seconda di rivincita, considerato che la via marittima gli era preclusa dalla superiorità romana sul mare. D’altronde non appare superfluo rammentare quanto fosse ben compreso e utilizzato il PM dai Romani; «Navigare necesse est» stigmatizza la necessità dei Romani di sostenere un PM inizialmente concepito non per il dominio e la supremazia sul mare, ma quale necessità di sopravvivenza, atteso che la loro sicurezza dipendeva largamente dalla concreta possibilità di navigare per garantire il flusso sicuro dei traffici e il controllo delle coste e dei sorgitori di interesse: i Romani perciò mantennero sempre ben presente la valenza strategica del PM anche nelle più devastanti emergenze, cogliendo ogni occasione favorevole per consolidarlo. Per non parlare poi dell’Impero Romano d’Oriente che, sopravvivendo a quello d’Occidente per mille anni, è un altro facile esempio storico di tutto ciò. In piena età medievale, dopo il Mille, si assiste all’ascesa e all’affermazione delle Repubbliche marinare che fu certamente propizio per manifestare la eccezionale validità del PM, per tacere della sua estrema valenza durante le grandi scoperte geografiche, prima fra tutte quella di Colombo e del continente americano. Ma ci sono stati periodi anche particolarmente oscuri in cui il PM è stato negletto, come nel «Ventennio» in cui gli italiani hanno voltato le spalle al mare, e il Mediterraneo considerato «una pozzanghera» e «l’Italia una portaerei», per cui non ne necessitava un’altra fatta di lamiera; di conseguenza divenne naturale l’improvvida decisione di abbandonare la costruzione di navi portaerei, mutilando ulteriormente e quasi totalmente l’Aviazione navale, a fronte del rinnovamento delle corazzate. Ciò

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Nave ALPINO attraversa il Canale di Suez nell’ambito dell’operazione «Atalanta», missione europea di contrasto alla pirateria nel Corno d’Africa.

con un’evidente frattura fra la dottrina aero-navale portata avanti con determinazione da nazioni guidate da personaggi di diversa caratura, negli Stati Uniti da Roosevelt e poi nella Gran Bretagna da Churchill, con il connubio dei due poteri, quello tipicamente navale unito a quello aereo dei nuovi mezzi; da noi invece quei poteri sono rimasti decisamente separati, con l’effetto che ognuno è andato per la propria strada anche nel corso dei grandi conflitti con danni gravissimi, dovuti in larga misura a una singolare pianificazione operativa e carenza di cooperazione fra le due armi, navale e aerea, con menomazione e mortificazione del PM, per la mancanza della portaerei con i suoi assetti di volo imbarcati. Il ruolo strategico della Marina era allora assai condizionato, insieme al Potere Navale, da approcci politici miopi anti-aeronavali; molte attività svolte a favore della libertà del mare che hanno lasciato, quindi, poco spazio alla proiezione di forze e di capacità, finalizzata più che altro a contenere lo sforzo bellico dell’avversario che, invece aveva, come ben noto, il fulcro sulle portaerei posizionate agli estremi del Mediterraneo pronte a lanciare la propria aviazione imbarcata per intercettare tempestivamente e bombardare le nostre navi inermi, inevitabilmente quasi sempre prive della necessaria copertura aerea. Non solo; il Mahan postulava, nell’ambito del PM, la disponibilità certa di porti di appoggio sia in tempo di pace, sia in guerra per esprimerlo compiutamente e, nel teatro del Secondo conflitto mondiale, oltre ad alcuni porti commerciali, vi era la disponibilità certa di basi importanti, da Malta ad Alessandria, a Gibilterra,

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geograficamente ben collocate e strutturate per il supporto della loro flotta: certamente un uso oculato del PM da parte anglosassone e del tutto trascurato dal nostro governo di allora. I tempi cambiano e il Mediterraneo non è più il Mare nostrum dell’epoca romana e quel mare è attraversato da fenomeni geopoliticamente complessi: dall’immigrazione incontrollata, al terrorismo islamico, per non parlare di alcune tendenze «egemoniche» di alcuni Stati mediterranei rivieraschi, per giungere infine alla realizzazione del «sogno degli czar», ovvero la presenza di parte della flotta russa nel Mare nostrum. Nell’attualità, l’esercizio del Potere Aeronavale si esprime con priorità nella capacità di proiezione di forza e in parallelo nel controllo del mare per garantire le linee di comunicazione con particolare attenzione, in tale ambito, del rispetto del diritto internazionale nelle diverse aree al di fuori delle acque territoriali. In effetti, non possono essere escluse da tale esercizio e dal controllo anche le acque costiere, entro le acque territoriali per la prevenzione e contrasto dell’immigrazione clandestina; si va pertanto dalle acque litorali fino al controllo di mari e coste assai lontane dalla madrepatria per il contrasto della pirateria e di altri traffici illeciti, come accade da tempo sia nel Corno d’Africa e bacino somalo, sia nelle acque di fronte alla Nigeria, nel Golfo di Guinea. Il PM continua dunque a rappresentare la capacità di esprimere sul mare e, al di là di questo, sovranità, sicurezza, influenza, garanzia e tutela dei propri interessi politici, strategici ed economici ovunque, nel rispetto del diritto internazionale.

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Applicazione recente (e non) del Potere Marittimo, sua attualità e future potenzialità La realtà di oggi e la variegata natura degli attuali teatri di crisi consentiranno di esercitare ancora un Potere Marittimo credibile e incisivo? Di certo sussistono tutte le condizioni e i criteri affinché ogni singola nazione possa esercitare un PM dimensionato secondo le proprie possibilità, ma tutto dipenderà, come al solito, dalla volontà della classe dirigente, prima militare e soprattutto politica, di implementarlo sul campo; di certo lo stesso PM integrato e condiviso da diverse nazioni nell’ambito di una alleanza risulta ancora più rilevante e fattibile per la volontà condivisa fra le Marine e il peso relativo sarà l’indice dell’importanza di quel paese nel contesto mondiale. Deve essere comunque compreso che il PM ancora oggi rappresenta un mezzo e non un fine per il raggiungimento degli obiettivi strategici di una singola nazione ovvero della coalizione; richiede un’attenzione costante, con adeguati investimenti nel settore delle costruzioni navali, ma anche nei confronti delle infrastrutture portuali, con l’attuazione di politiche coerenti e convinto sostegno delle classi governative. La politica estera, in altri termini, non può essere estranea a una strategia marittima nazionale, né avere una scarsa conoscenza e capacità del proprio PM, dei propri interessi e obiettivi strategici e degli investimenti ineludibili del comparto; si deve esercitare un vero controllo e uso del mare per la protezione delle SLOC, della sicurezza energetica e, quindi, ai fini delle insostituibili funzioni della deterrenza e della dissuasione anche nelle situazioni più critiche e, in caso di necessità, bisogna essere pronti e capaci di sviluppare l’uso graduale e sensato della forza, in assenza del quale il paese, banalmente, perde di credibilità. L’Italia deve pertanto adeguare lo strumento militare con una coerente rispondenza qualitativa e quantitativa alla flotta mercantile affinché possa assolvere il ruolo primario che le compete nella difesa avanzata e nella sicurezza marittima, garantendo una presenza costante nei nodi più importanti, con una capacità di sorveglianza e di eventuale intervento. Se, di vero PM si tratta, questi deve costituire uno strumento valido ed efficace per affrontare anche da solo, seppure in casi davvero al limite, situazioni critiche e di improvviso contenzioso con paesi terzi, nonché minacce che possano annichilire la credibilità e il prestigio della

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nazione: chiaramente debbono esistere delle precise regole di ingaggio, che prevedano il comportamento e le misure da porre in atto a seconda delle situazioni ed evoluzioni delle crisi, senza pregiudicare comunque lo spirito di iniziativa, di fiducia e di responsabilità di fronte a decisioni immediate e improrogabili. Il rapporto fiduciario istituzionale deve «volare» al di sopra di ogni attività operativa, ma un inciso appare doveroso; significa cioè fare il possibile per disporre di uno strumento navale, e di una Marina Militare, con organici e mezzi del tutto adeguati per qualità e numero, ai futuri compiti da assolvere con una corretta ma audace rivisitazione nell’ambito della Difesa, per una congruente ripartizione delle risorse complessive allocate. Se la politica confida davvero nel PM, nella centralità e potenzialità del mare, essenziali per la prosperità e per la sicurezza nazionale del paese, allora bisogna mettere mano alle modifiche e riorganizzazioni necessarie perché così si possono creare le condizioni per migliorare nettamente le nostre capacità di intervento ma anche le condizioni economiche e reputazionali. Anzi, precisiamo ancora meglio: dare alla Marina Militare gli strumenti adeguati per assolvere i compiti di protezione e proiezione di capacità deve far parte di una giusta strategia marittima per la sicurezza e lo sviluppo del nostro paese. Non è raccomandato, né tanto meno salutare non esercitare il dovuto PM, specialmente quando siamo di fronte a scorribande nel Mediterraneo e assistiamo a palesi violazioni del diritto internazionale senza poter intervenire. Nonostante queste doverose riflessioni sulla valenza del PM e sulla sua futura ottimizzazione, come è tradizione, la nostra Marina, e con essa tutti gli equipaggi, hanno fatto il proprio dovere anche al di là delle ipotizzate possibilità, in diverse situazioni critiche e contingenti, quasi sempre nell’ambito di alleanze o «Coalition dei volenterosi» internazionali. Tra queste vale la pena menzionare quella costituita nell’autunno del 2001, all’indomani del proditorio attacco alle Torri Gemelle di New York, per combattere il terrorismo islamico di cui al-Qaeda ne era il promotore, e contro il regime dei talebani in Afghanistan. Non quindi una semplice esercitazione per l’applicazione di un PM teorico, ma la concreta e immediata partecipazione a un’operazione di RWO (Real World Operations), di reale missione di guerra, che

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zione. Non sempre tuttavia il PM ha avuto esiti soddisfaha visto l’adesione della Marina Militare con un Taskcenti e, nel tempo, sembra che ne sia sminuita la conoGroup bilanciato, centrato sulla portaerei Garibaldi, che scenza e la pratica attuazione; il riferimento riguarda ha potuto svolgere un ottimale Potere Aeronavale di prol’alterna partecipazione italiana alle problematiche della iezione di capacità ai confini del Mediterraneo allargato, Libia, una sponda che appare sempre più lontana, increcon i propri velivoli AV-8B STOVL imbarcati che hanno dibilmente, dal nostro interesse nazionale. Nella guerra battuto i santuari dei talebani nelle valli di Tora-Bora e contro la dittatura libica di Gheddafi, iniziata nel 2011 che, assieme alle altre unità portaelicotteri, hanno svolto (su cui non si esprimono valutazioni di merito politico), anche il compito di protezione delle SLOC in Mare Arabico, scongiurando traffici di armi e altre attività illecite: un concreto esempio di applicazione di PM integrato fra diverse Marine che ha avuto risultati di tutto rilievo. Degna di menzione è altresì l’attività di PM condotta per il contrasto del terrorismo e le attività illecite da parte di Gruppi navali «Standing» della NATO cui l’Italia partecipa con assiduità; inoltre dai primi anni del nuovo millennio e in corso tuttora, sono condotte operazioni di protezione del traffico mercantile contro attacchi di pirateria, nell’oceano Indiano, in particolare nelle rotte di accesso e di uscita da Suez, ma soprattutto nel Bacino somalo, a salvaguardia della vita umana dei nostri connazionali imbarcati su navi mercantili battenti la nostra bandiera, anche imbarcando team ad hoc di fucilieri del Reggimento San Marco. La Marina Militare è stata antesignana nell’iniziare quella attività a difesa e protezione delle nostre unità mercantili che storicamente hanno scambi e traffici verso i sorgitori del Bacino somalo, da Mogadiscio a Mombasa, ma che avevano subito attacchi da parte dei pirati rivieraschi sempre più organizzati nelle loro malevoli attività, con grave pregiudizio per la liVelivoli AV-8 Harrier II plus della Marina Militare su nave GARIBALDI, impegnati nella difesa bertà di navigazione in quelle acque. La Marina del Mediterraneo allargato. Militare è stata sempre presente in quell’area la Marina italiana con il suo strumento militare capacitivo con una o più navi, garantendo scorte dirette ovvero inha mostrato, ancora una volta, comunque di saper gestire dirette di quei bastimenti, con l’impiego di assetti navali e applicare quel PM, impiegando efficacemente l’assetto e aerei — spesso con elicotteri imbarcati — che, sostandi pregio della portaerei Garibaldi, rendendolo disponiziando fin dall’inizio il binomio nave-aeromobile, hanno bile dal marzo 2011 nell’ambito di un intervento della dimostrato quanto valida sia stata da sempre la scelta NATO. Il Potere Aeronavale espresso dall’aviazione imdella Marina Militare, di un approccio aeronavale, non barcata con un gruppo di aerei tutto sommato dimensiosolo per i compiti istituzionali operativi, ma anche per il nato ha saputo porre in risalto la loro capacità aero-tattica «sea control» e la protezione delle linee di comunica-

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in modo encomiabile, anche nei confronti di gruppi di volo di aeronautiche «complete», svolgendo un insieme considerevole di missioni «Combat» di rilievo e con grande economicità, tenuto conto dei brevi transit-time dei velivoli dalla nave madre che orbitava poco al di fuori delle acque territoriali: un esempio straordinario di efficacia e di attualità del Potere Aeronavale, espresso peraltro in operazioni reali di guerra. La caduta di Tripoli e del «Colonnello», con la sua uccisione il 20 ottobre 2011, non ha certo risolto i problemi della Libia, anzi; per molti versi ne ha accentuato la instabilità con la spiccata tribalità senza freni, con le liti e i contrasti più aspri, facendo riemergere le milizie assettate di potere, tenute fino allora a bada seppur con metodi piuttosto dittatoriali. Oggi la Libia è spaccata in due o più parti, di cui le principali forze sono attestate a Tripoli con al-Serraj e a Bengasi con il Generale Haftar, ma esiste ora una internazionalizzazione del conflitto in atto fra quelle parti che minacciano di scatenare una grave crisi nel Mediterraneo. L’Italia ha, per forza di cose, sensibili interessi in quella regione, ed è evidente come altre nazioni si muovano con una politica estera decisa e risoluta; la Turchia, insieme col Qatar, appoggiano apertamente Tripoli, mentre Russia, Egitto ed Emirati Arabi Uniti stanno a fianco di Bengasi. Soprattutto Erdogan, con il suo intervento a favore di al-Serraj, ha prodotto decisi cambiamenti, investendo molto in quella iniziativa, creando dissapori pure con l’alleato francese, mirando a conseguire — a prescindere — un caposaldo geopolitico nella sponda meridionale allo scopo, come molti analisti osservano, di far premio sulle ingenti disponibilità del petrolio e gas locale a favore della Turchia. I tentativi di Haftar di invadere e prendere Tripoli, sconfiggendo al-Serraj, sono risultati vani; anche gli approcci francesi per una mediazione non proprio disinteressata sono naufragati in quella situazione sempre più ingarbugliata. Roma ha tentato avvicinamenti a Tripoli

con vari meeting, coinvolgendo anche la parte avversa di Bengasi, al fine soprattutto di tentare di gestire l’immigrazione che da anni rappresenta una dolorosa spina nel fianco del nostro paese: tutto ciò senza tuttavia porre in atto un PM che avrebbe giovato a tutti gli attori in gioco, meno i prepotenti. Infatti, la nostra presenza proprio a partire dal mare sembrava imprescindibile sia in virtù della storia e dei rapporti pregressi con quella «sponda», sia per l’interesse nazionale anche in relazione alle nostre esigenze energetiche, ma soprattutto per gestire il fenomeno attuale di una migrazione che se incontrollata diventa preoccupante. Purtroppo bisogna riconoscere amaramente che negli ultimi lustri il Mediterraneo è diventato sempre più mare conteso e conflittuale. In definitiva, pare assodata l’elevata incidenza del PM sulle attività marittime e non solo, e il grave nocumento che ne subisce una nazione che non decide di implementarlo nei suoi molteplici aspetti; le idee del Mahan sono altresì di plastica attualità nei suoi concetti applicativi, seppure con gli adattamenti più opportuni, anche per crisi o conflitti che si sviluppano in scenari dei nostri mari, del Mediterraneo allargato e perfino degli oceani. Una metafora conclusiva forse più pertinente per capire il ruolo giocato dal Potere Aeronavale è quella del catalizzatore, cioè di quello strumento o dispositivo che interviene in una reazione che, nella fattispecie incide nel più vasto Potere Marittimo e vede interagire fattori marittimi, sociali, politici ed economici, facilitando un percorso reattivo che porta alla sintesi di specifici prodotti come sviluppo, libertà di navigazione, rispetto del diritto e tutela della propria credibilità: un catalizzatore, quello rappresentato dal Potere Aeronavale che confluisce e dà particolare forza al PM e che, quindi, se ben applicato, produce benessere, sicurezza e una importante reputazione statuale, comunque davvero da recuperare, senza ricercare facili soluzioni alchemiche. 8

BIBLIOGRAFIA Cavo Dragone G., Linee guida del Capo di Stato Maggiore della Marina Militare, 2021. Caffio F., Glossario di Diritto del Mare. Diritto e Geopolitica del Mediterraneo allargato, V ed., Supplemento Rivista Marittima, novembre 2020. Deccarelli Morolli D., Appunti di Geopolitica, Roma 2018, præsertim pp. 131 ss. Ceccarelli Morolli D., Per una geopolitica del diritto dell’Impero Romano d’Oriente, Roma 2020, pp. 94 ss. Flamigni A., Evoluzione del potere marittimo nella storia, Roma 2011. Mahan A.T., L’importanza del potere marittimo per gli interessi degli Stati Uniti, ed. it., Roma 1996. Ramoino P.P., Teoria generale della strategia marittima, Rivista Marittima, numero monografico (febbraio 2008), Roma 2008. Richmond H., Il potere marittimo nell’epoca moderna, Roma 1998. Zampieri F., Elementi di Strategia Marittima, Roma 2014.

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INFORMAZIONE PUBBLICITARIA


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PRIMO PIANO

LA COMPONENTE AEROTATTICA

dell’Aviazione Navale italiana Riflessioni e prospettive Michele Cosentino

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sattamente un secolo fa (30 settembre 1920), veniva formalmente creata la Forza aerea della Regia Marina, logico e ufficiale consolidamento di una realtà d’eccellenza nazionale creata qualche anno prima dello scoppio della Grande guerra e che durante quel conflitto avrebbe contribuito in maniera rilevante alla vittoria dell’Italia. Nell’ottobre 1920 alla Forza aerea della Regia Marina fu conferita la Medaglia d’argento al valor militare, con una motivazione di seguito riportata integralmente: «Per l’eroico e indomito valore dei suoi combattenti, dette, sempre e ovunque, magnifico contributo di ardimento, di tenacia e di sacrificio alla causa della patria, recando al conseguimento della vittoria il più fervido ausilio (1915-18)». Per valorizzare il patrimonio di esperienze e risorse umane e materiali accumulate durante la Prima guerra mondiale e consapevole dei potenziali progressi nel settore dell’Aviazione Navale, la Regia Marina — spronata dall’ammiraglio Paolo Thaon di Revel — intraprese lo studio dei mezzi navali e dei materiali aeronautici necessari a soddisfare le esigenze del paese nei mutati scenari internazionali e mediterranei. Contrammiraglio (r) del Genio Navale. Ha frequentato l’Accademia navale nel 1974-78 e ha successivamente conseguito la laurea in Ingegneria navale e meccanica presso l’Università «Federico II» di Napoli. In seguito, ha ricoperto vari incarichi a bordo dei sottomarini Carlo Fecia Di Cossato, Leonardo Da Vinci e Guglielmo Marconi e della fregata Perseo. È stato successivamente impiegato a Roma presso la Direzione generale degli armamenti navali, il segretariato generale della Difesa/Direzione nazionale degli armamenti e lo Stato Maggiore della Marina. Nel periodo 1993-96 è stato destinato al Quartier generale della NATO a Bruxelles; nel periodo 2005-11 ha lavorato al «Central Office» dell’Organisation Conjointe pour la Cooperation en matiere d’Armaments (OCCAR) a Bonn. Ha lasciato il servizio a settembre 2012, è transitato nella riserva della Marina Militare e nel 2016 è stato eletto consigliere nazionale dell’ANMI per il Lazio settentrionale. Dal 1987 collabora con numerose riviste militari italiane e straniere (Rivista Marittima, Storia Militare, Rivista Italiana Difesa, Difesa Oggi, Tecnologia & Difesa, Panorama Difesa, Warship, Proceedings, ecc.) e ha pubblicato oltre 600 fra articoli, saggi monografici, ricerche e libri su tematiche di politica e tecnologia navale, politica internazionale, difesa e sicurezza e storia navale.

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Il primo velivolo F-35B dell’Aviazione Navale in volo sull’Atlantico. In basso: l’ammiraglio Paolo Thaon di Revel, qui ripreso a Parigi nel 1919 nell’ambito della delegazione italiana che partecipò alla Conferenza di pace successiva alla Prima guerra mondiale. All’epoca ispettore generale della Forza armata e presidente del Comitato degli ammiragli, Thaon di Revel fu un forte propugnatore dell’Aviazione Navale italiana, divenendone l’artefice indiscusso.

La storia Nel 1923 avvenne la costituzione della Regia Aeronautica, che assorbì i mezzi e l’organizzazione delle forze aeree delle altre due Forze armate. L’ammiraglio Thaon di Revel, cercò da subito di ottenere un’aliquota di velivoli da porre sotto il controllo della Regia Marina per l’impiego sul mare. Da quel momento nacque un dibattito, talvolta molto acceso, sulla necessità di sviluppo delle forze aeronavali e della necessità di acquisire la capacità di condurre operazioni aeree sul mare, secondo un percorso logico che altre forze navali avevano nel frattempo iniziato. Tale mancanza, come noto, significò per la Regia Marina la partecipazione alla Seconda guerra mondiale in condizioni di palese inferiorità rispetto agli avversari. Il risultato di tutto ciò si materializzò con perdite dolorose anche fra gli equipaggi e le unità. A ben poco valsero gli sforzi e il lavoro degli organi tecnici per la progettazione, soprattutto negli anni Trenta, di navi

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portaerei di vario tipo, la cui realizzazione non fu possibile per tanti motivi. Gli eventi, talvolta tragici manifestatisi sin dalle prime battute della Seconda guerra mondiale convinsero, nella primavera del 1941, le autorità politiche e militari della necessità di costruire una o più portaerei. Tuttavia, pur non mancando l’ingegno progettuale per un’impresa intrinsecamente complessa qual è la realizzazione di una portaerei si coniugò con le inadeguate risorse industriali aeronautiche nazionali, ottenendo come risultato una portaerei — l’Aquila — che al momento dell’armistizio non era stata ancora completata e che fu demolita nei primi anni Cinquanta.

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La componente aerotattica dell’Aviazione Navale italiana

La mancanza di un’Aviazione Navale — intesa come un’entità organica alla Marina e comprendente assetti aerei imbarcati e basati a terra, infrastrutture e personale — e l’assenza di portaerei nella flotta italiana costituì una gravissima lacuna le cui conseguenze andarono ben oltre i risultati diretti potenzialmente ottenibili. Infatti, una o più portaerei italiane eventualmente realizzate prima del conflitto sarebbero state certamente l’obiettivo prioritario da distruggere per gli avversari, ma la loro possibile perdita non avrebbe certamente distrutto assieme alle navi la preziosissima esperienza e la mentalità dell’«aeronavale» che il possesso e utilizzo di questa tipologia di unità naturalmente comporta.

La portaerei AQUILA ormeggiata alla Calata Oli Minerali del porto di Genova (1946) e rimasta incompiuta nonostante gli sforzi progettuali susseguitisi per lungo tempo nella Regia Marina negli anni Venti e Trenta (US Navy).

La concretezza dei risultati Come noto, l’acceso dibattito in merito alla necessità di una Aviazione Navale italiana si manifestò anche nell’immediato secondo dopoguerra e proseguì nei decenni successivi, portando alla promulgazione della legislazione sull’aviazione antisommergibili del 1957 che, nella sostanza, non era molto dissimile dall’aviazione ausiliaria per la Regia Marina risalente agli anni Venti. Da parte sua, la Marina Militare rimediò alla carenza dell’aviazione imbarcata attraverso la creazione di una componente ad ala rotante, evolutasi nel tempo in accordo con i mutamenti geostrategici e con i progressi dottrinari e materiali. La legge n. 36, promulgata nel febbraio 1989, chiuse finalmente settant’anni di litigi e incomprensioni, alimentati da non poche polemiche, anche

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sulla stampa nazionale, sulla necessità della Marina Militare di dotarsi di una sua Aviazione Navale e sulla costruzione di unità navali con capacità aeree. Assai nota è la polemica sorta con la costruzione del Giuseppe Garibaldi, equipaggiato con le sistemazioni aeronautiche necessarie a far operare velivoli ad ala fissa; ma forse poco noti sono diversi episodi occorsi in altrettanti momenti della storia militare italiana in cui, da una parte, sono emerse carenze e lacune altrimenti evitabili, e dall’altra è stata dimostrata le flessibilità d’impiego dell’aviazione imbarcata. Possiamo citare per esempio come nella fase più critica della prima vera operazione militare all’estero in cui le Forze armate italiane furono protagoniste — il dispiegamento di reparti terrestri in Libano e di unità navali al largo di Beirut — si pensò di impiegare i velivoli F-104S dell’Aeronautica Militare per fornire la copertura aerea necessaria a evitare possibili sgradevoli sorprese. Tuttavia, quest’opzione non poteva avere un seguito concreto perché il tempo di permanenza degli F-104S nei cieli libanesi sarebbe stato alquanto limitato anche nell’eventualità di un loro rischieramento a Cipro, prospettiva certamente non scontata e per la quale era comunque necessaria una sosta in Grecia: in sostanza, si riproponevano con chiarezza — e per di più sul campo — le difficoltà per i velivoli basati a terra ad assicurare la tempestività d’intervento, viceversa garantita da un’aviazione imbarcata. Il battesimo operativo dell’Aviazione Navale italiana si è avuto nel 1995, al largo della Somalia, con il Garibaldi inquadrato nel 26° Gruppo navale della Marina Militare ed equipaggiato, fra l’altro, con tre velivoli AV-8B Harrier II Plus monoposto da poco giunti dagli Stati Uniti e con i due biposto TAV-8B; entrambi i modelli di velivoli facevano parte del Gruppo aerei imbarcati (GRUPAER). In quel contesto operativo, i velivoli dell’Aviazione Navale assicurarono il supporto aereo ravvicinato e la ricognizione ai reparti italiani impegnati sul terreno. Il battesimo del fuoco del GRUPAER e degli Harrier II Plus italiani avvenne invece nel maggio 1998, da parte di sei velivoli presenti sul Garibaldi per partecipare all’operazione NATO Allied Force condotta in Kosovo. I compiti principali del dispositivo aeronavale costituito per lo scopo erano la sorveglianza delle coste del basso Adriatico, il controllo e l’identificazione dei natanti e il supporto alle forze terrestri

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NATO operanti sul terreno. In quella circostanza, i velivoli del Garibaldi furono inseriti nei reparti aerei costituiti dalla NATO ed eseguirono missioni comprendenti anche rifornimenti in volo a cura di velivoli dell’Aeronautica Militare e di altre forze aeree alleate e utilizzarono missili aria-aria e munizionamento di precisione. Nell’ambito di operazioni militari contro il terrorismo avviate dopo il tragico 11 settembre 2001, di assoluto rilievo è stata la partecipazione del Garibaldi alle prime fasi dell’operazione Enduring Freedom, inquadrato in un gruppo navale di cui facevano anche parte la fregata Zeffiro, il pattugliatore di squadra Aviere e il rifornitore di squadra Etna: in azione sotto il controllo operativo dell’US Central Command, il reparto aereo imbarcato sul Garibaldi comprendeva, fra l’altro, otto velivoli Harrier II Plus a cui furono affidate missioni di interdizione aerea, ricognizione, supporto aerotattico alle forze terrestri: le notevoli distanze in gioco — circa 600 miglia di distanza dal Garibaldi — imponevano una media di 3-4 rifornimenti in volo per ciascun velivolo, anche nelle ore notturne, con obiettivi in varie aree del territorio afgano, senza peraltro impedire che gli assetti aeronavali italiani dimostrassero le necessarie qualità di tempestività e immediatezza d’intervento. In quelle circostanze, il rendimento del reparto aereo del Garibaldi fu assai elevato e ha rappresentato una tappa molto importante nell’evoluzione dell’Aviazione Navale e delle capacità aerotattiche sviluppabili dalla Marina Militare. L’esplosione delle turbolenze mediterranee — degenerate nella primavera 2011 nella guerra civile fra le forze militari fedeli all’ex dittatore di Tripoli e quelle ribelli — culminò con l’operazione militare Unified Protector, comprendente anche missioni aeree contro obiettivi terrestri, condotte a cavallo di una porzione di costa libica lunga circa 800 km e soggetta a una continua variazione legata all’andamento delle operazioni sul terreno. L’impegno principale della Marina Militare nel corso di quell’operazione, protrattasi fino a maggio 2011, si è tradotto nell’inserimento nella coalizione internazionale di un gruppo navale ancora incentrato sul Garibaldi, i cui otto Harrier II Plus imbarcati per quella circostanza hanno operato sul territorio libico in missioni di CAP (Combat Air Patrol), ricognizione offensiva e interdizione aerea. Giova qui ricordare come quel conflitto fu

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peraltro oggetto di una polemica fra la Royal Air Force (RAF) e la Royal Navy, soprattutto perché l’assenza di una portaerei britannica rese consapevole il ministero della Difesa britannico dell’utilità di una sia pur piccola portaerei negli scenari moderni, come già recepito nei circoli militari di Londra dopo aver analizzato l’efficace impiego degli Harrier II Plus del Garibaldi. Nonostante il cospicuo ma inaspettatamente costoso sforzo compiuto dalla RAF (1), essa non poté completamente rimediare all’assenza di una portaerei tanto da indurre gli ambienti ufficiali britannici a sentirsi obbligati nel giustificare continuamente l’entità del contributo di Londra a una campagna aerea fortemente sollecitata da Downing Street.

L’incrociatore portaeromobili GARIBALDI durante l’operazione «Unified Protector» in cui è stata nuovamente dimostrata la maggior efficacia dell’impiego dell’aviazione imbarcata rispetto a un reparto basato a terra.

Infine, un ulteriore valore aggiunto dell’impiego dell’aviazione imbarcata in quell’occasione venne dimostrato anche dall’operato della portaerei francese Charles de Gaulle, i cui «Rafale M» potevano ingaggiare bersagli non pianificati in territorio libico dopo non oltre 20 minuti dal sorgere dell’esigenza, e quindi ben più rapidamente delle 6 (sei) ore richieste ai «Tornado» britannici basati nel Regno Unito per colpire un bersaglio e dei 90 minuti richiesti ai medesimi velivoli in seguito rischierati in Italia. La tempestività e la continuità d’azione si confermavano dunque come due ineludibili peculiarità dell’aviazione imbarcata. Questi due concetti sono stati applicati dall’Aviazione Navale italiana anche in occasioni diverse da vere e proprie operazioni di combattimento. È questo il caso dell’operazione messa in atto il

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29 dicembre 2014 per portare in salvo 427 fra passeggeri e membri dell’equipaggio del traghetto Norman Atlantic, in preda a un furioso incendio e in avaria in mezzo al Canale d’Otranto. Il successo dell’operazione è dipeso in gran parte dall’azione di assetti aerei e navali della Marina Militare — tre AB-212, altrettanti MH-101 e un SH90 —, in azione sinergica con i mezzi dell’Aeronautica Militare.

Le capacità, la politica e le criticità Negli ultimi tempi, la stampa e l’opinione pubblica nazionale si sono occupate del velivolo «F-35 Lightning II», protagonista principale del programma meglio noto come «Joint Strike Fighter, JSF» e a cui l’Italia partecipa sin dal suo avvio, risalente al 2001. La risoluzione dei problemi riscontrati durante lo sviluppo del velivolo e le valutazioni sul campo ormai in corso da diversi anni consentono di affermare che il «Lightning II» possiede rivoluzionarie capacità operative, un vero e proprio salto di qualità nella 5a generazione dei velivoli da combattimento, con capacità all’avanguardia nelle funzioni di supremazia aerea, attacco, intelligence, sorveglianza e ricognizione. L’aspetto principale della tecnologia di 5a generazione applicata al «Lightning II» si sintetizza nella sensor fusion, vale a dire nella trasformazione in tempo reale delle informazioni grezze raccolte dai vari sensori che lo equipaggiano in informazioni rilevanti per il pilota

in un preciso istante della missione, tenendo conto dei suoi aspetti specifici e della realtà circostante (2). Il «Lightning II» è inoltre continuamente collegato alle complesse architetture C4ISTAR esistenti a livello nazionale e multinazionale, diventandone uno dei nodi in un ambiente network-centrico che permette al pilota di ricorrere anche all’impiego di sensori e sistemi «esterni». Nel corso degli anni il numero di velivoli pianificati in origine dalle nazioni coinvolte nel programma JSF ha subito mutamenti legati all’evoluzione delle singole condizioni economiche. Per quanto riguarda l’Italia, la pianificazione originaria prevedeva l’acquisizione di 131 velivoli, suddivisi fra i 69 della variante «A» (impiegabili da basi terrestri convenzionali) e i 62 della variante «B», a decollo corto e appontaggio/atterraggio verticale; di questi ultimi, 40 erano destinati all’Aeronautica Militare e 22 alla Marina Militare per l’imbarco sulla portaerei Cavour, il cui progetto era stato peraltro calibrato proprio per soddisfare quest’esigenza. Nell’ambito del ridimensionamento dell’intero strumento militare nazionale, nel febbraio 2012, il ministro della Difesa annunciò al Parlamento che il numero complessivo di F-35 italiani si sarebbe ridotto a 90 esemplari, destinati alla sostituzione dei Tornado e degli AMX dell’Aeronautica Militare e degli Harrier II Plus della Marina Militare — con l’assegnazione di 15 F-35B e 60 F-35A all’Aeronautica e 15 F-35B alla Marina.

Il «sistema portaerei»: in volo sul mare e dal mare

Le prime operazioni di volo della portaerei CAVOUR con gli F-35B, condotte al largo della costa atlantica degli Stati Uniti.

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Gli interventi cui è stato recentemente sottoposto il Cavour, nel quadro delle periodiche attività di manutenzione e revisione di altri impianti, sono propedeutici all’imbarco degli F-35B della Marina Militare e al conseguimento della Initial Operational Capability, IOC, del «sistema portaerei». Il concetto fondamentale da comprendere è che l’IOC non è meramente attribuibile ai velivoli imbarcati, ma al connubio fra quest’ultimi, gli elicotteri (anch’essi imbarcati), la piattaforma e tutti i suoi sensori e sistemi d’arma di varia natura, il suo equipaggio e un insieme di TTP (Tactics, Techniques & Procedures) ormai consolidate e radicate, appunto racchiusi in un «sistema portaerei» che ne garantisce la massima flessibilità d’impiego in diversi contesti e scenari operativi e che

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fanno della componente aerotattica dell’Aviazione Navale una risorsa preziosa essenziale per la Marina e il Paese. A giugno 2020, il Cavour ha ripreso l’attività propedeutica alla traversata atlantica che lo porterà lungo la costa orientale degli Stati Uniti per ricevere a bordo i primi esemplari di F-35B con le insegne della Marina Militare e iniziare il percorso verso il conseguimento dell’IOC del già citato «sistema portaerei». Nella programmazione definita a metà dello scorso decennio, i 22 F-35B destinati alla Marina Militare sarebbero stati consegnati secondo un calendario che avrebbe permesso di conseguire due obiettivi: il conseguimento della IOC del «sistema portaerei» nel 2021 e la graduale dismissione dei velivoli Harrier II Plus. La rimodulazione maturata dopo la decisione di ridurre a 90 il numero di esemplari complessivi di F-35 italiani ha spostato in avanti l’acquisizione delle 15 macchine e ha fatto slittare al 2024 l’ottenimento dell’IOC per il «sistema portaerei», obiettivo questo raggiungibile avendo in linea un congruo numero di velivoli imbarcati. In tal modo, il completamento delle consegne dei 15 F-35B assegnati alla Marina Militare garantirà il raggiungimento della FOC (Full Operational Capability) entro il 2030, sia la conclusione del ritiro dalla linea degli Harrier II Plus.

Sinergie e possibili soluzioni Il concetto strategico divulgato di recente dallo Stato Maggiore della Difesa contiene alcuni importanti passaggi, fra cui il raggiungimento dell’obiettivo dell’efficienza sistemica, un miglioramento dell’architettura organizzativa delle Forze armate attraverso l’eliminazione di ridondanze e duplicazioni, e i requisiti di proiettabilità e rischierabilità di reparti terrestri, navali e aerei, integrabili e scalabili secondo logiche joint by design ed expeditionary, attivabili in tempi ristretti e con un adeguato livello di autonomia operativa e logistica. In sostanza e applicando queste considerazioni agli F-35B italiani, s’invoca un più marcato ricorso alla sinergia. Un esempio di possibile applicazione della sinergia potrebbe essere il seguente: assumendo di dover intervenire — nel-

Le capacità expeditionary della componente aerotattica della Marina Militare sono evidenziate dalla panoplia di armi e sensori in dotazione a questo Harrier II Plus, call sign «Wolf», del Gruppo aerei imbarcati.

l’ambito di una coalizione — in Africa o nel Golfo Persico, i velivoli dell’Aeronautica Militare (per esempio gli F-35A e un paio di aerocisterne) potrebbero essere rischierate in un aeroporto con una pista sufficientemente lunga, assieme a tutte le strutture necessarie a ospitare velivoli e personale di supporto operativo, tecnico e logistico: da parte sua, un gruppo navale incentrato sulla portaerei Cavour (con un gruppo di 12-15 F-35B imbarcati) e comprendente un paio di unità di scorta e un rifornitore, opererebbe al largo della costa più vicina all’area d’intervento. Grazie al propedeutico addestramento congiunto fra i «Lightning II» delle due Forze armate, in un siffatto scenario, i velivoli opererebbero insieme, sotto l’egida di un air component commander, supportati ove necessario dalle aerocisterne, mentre il gruppo «Cavour» si sposterebbe lungo la costa in funzione delle esigenze tattiche del momento, oltreché essere rapidamente riconfigurabile per altre esigenze operative e/o umanitarie. Questa sinergia verrebbe ampliata qualora della coalizione facessero parte altre risorse di natura combat e di combat support, analogamente a quanto avvenuto durante l’operazione Enduring Freedom, ma con gli opportuni miglioramenti qualitativi nel frattempo intervenuti grazie alle tecnologie disponibili. 8

NOTE (1) La partecipazione della RAF all’operazione ebbe un costo di 4 milioni di sterline al giorno, comprese 40.000 sterline giornaliere per le camere d’albergo di piloti e specialisti rischierati a Gioia del Colle. (2) Usando le proprie capacità di Sensor Fusion, il «Lightning II» può localizzare, ingaggiare e neutralizzare bersagli multipli ben prima di essere scoperto a sua volta dai sensori avversari.

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PRIMO PIANO

Portaerei e aviazione imbarcata Un asset strategico irrinunciabile Gino Lanzara (*) Francesco Zampieri (**)

(*) Capitano di fregata (CM); laureato in Management e Comunicazione d’impresa ed anche in Scienze Diplomatiche e Strategiche. Analista e studioso di geopolitica e di sicurezza, collabora in materia con diverse testate. Ha pubblicato il saggio Guerra economica: quando l’economia diventa un’arma. (**) Docente aggiunto di Fondamenti di Strategia e di Strategia Marittima presso l’Istituto di Studi Militari Marittimi, collabora altresì con l’Università Ca’ Foscari, con il corso di Laurea in Geopolitica del Mare dell’Università La Sapienza e con il Corso di Laurea in Marine Sciences dell’Università di Milano-Bicocca. È autore di numerosi articoli editi su riviste scientifiche e parimenti di monografie, tra cui: Elementi di Strategia Marittima, Roma 2014; 1975 la Marina rinasce. La Legge Navale del 1975, Vicenza 2014; Marinai con le stellette. Storia sociale della Regia Marina nell’Italia liberale (1861-1914), Roma 2008; Navalismo e pensiero marittimo nell’Europa di fine ’800, Roma 2004. Il suo campo di ricerca scientifica è quello della storia e della strategia navale.

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L’ingresso a Norfolk (Virginia) di nave CAVOUR impegnata nella campagna «Ready for operations» (RFO). A sinistra: la portaerei italiana in banchina.

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l Potere Marittimo non è facilmente declinabile; in una quotidianità caratterizzata da semplificazioni oggetto di fraintendimenti, le capacità marittime nazionali vengono spesso confuse con colpevole approssimazione, avallando magari teorie ormai sorpassate, come quella che designò l’Italia quale naturale portaerei, salvo poi rimpiangerne amaramente l’assenza di vere. Si tratta di una Blue Chain, dove evoluzione e progresso forgiano ogni singolo anello. Il Potere Navale, capacità militare di interdire all’avversario attività marittime e libero dominio del mare, si è fondato a lungo solo su mezzi operanti nell’acqua; la comparsa del mezzo aereo ha dunque introdotto un elemento di novità capace di influenzare la condotta delle operazioni navali, uno strumento bellico capace di operare sia contro ciò che si muove nell’acqua, sia di proiettarsi dal mare oltre i limiti segnati dalle artiglierie. L’Aviazione navale ha dunque incarnato un nuovo potere strategico integrato in quello navale: una proiezione di potenza dinamica e peculiare che deve tenere conto delle minacce asimmetriche non contrastabili con mezzi tradizionali, che divengono particolarmente critiche quando interessano i Chokepoint lungo le vie di comunicazione marittima. Il Potere Navale, anello pregiato della Maritime Chain, non può dunque che essere parte integrante della strategia politica di qualsiasi nazione protesa verso una condotta coerente, scevra da deficienze politico strutturali interne e capace di affrontare aggressivi multipolarismi internazionali, in contesti privi di punti politici di riferimento. Il quadro globale è da tempo in rapida evoluzione, da un lato con un accentuato sviluppo tecnologico e dall’altro con un processo di globalizzazione mercantile, con forme politico-economiche ancora in evoluzione, condizionate da forti antagonismi e da un decrescente senso di coesione atlantica (1), peraltro sovente oggetto di discussione anche per effetto della pervasiva Weapon Diplomacy (2). L’egemonia statunitense, poggiata sul dominio militare di aerospazio e mare, che si basa sul pensiero neorealista di John Mearsheimer (3) e che trova ancora oggi i suoi fondamenti nel navalismo dei presidenti James Madison, Theodore Roosevelt e nelle concettualizzazioni dell’ammiraglio Mahan, si richiama costantemente alla centralità valutaria, secondo un paradigma che vede spesso il primato militare garante della solvibilità obbligazionaria.

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Se è vero che ormai il Mediterraneo non può essere considerato di esclusivo appannaggio europeo, è però altrettanto innegabile che, per il nostro paese, esso continua a rivestire un’importanza capitale, dati l’incremento della penetrazione economica internazionale e la necessità di fattive liaison con i soggetti politici dell’Africa Subsahariana, in un quadro complessivo che richiede la valutazione di diversi modelli di riferimento di politica estera. Tali schemi trovano diversi fondamenti su alleanze asimmetriche con potenze egemoni, su autonomie bilaterali di tipo economico commerciale, su multilateralismi attivi e propositivi capaci di mobilitare interessi, sull’adozione di modelli comportamentali coerenti e costanti in ambito internazionale, tali da rendere meno vulnerabile la posizione nazionale, insidiata peraltro da una collocazione geopolitica che vede il paese insistere sul confine tra la zona stabile e quella ubi sunt leones, in un contesto condizionato da limiti oggettivi che gravano sulle capacità d’iniziativa in aree distanti dai propri confini, con una progressiva riduzione delle opzioni d’intervento. Come è possibile constatare, politica e Potere Navale procedono secondo proiezioni parallele di interessi e di potenza, un aspetto questo che interessa direttamente anche l’elemento logistico nella sua accezione politica. La centralità del Mediterraneo, il suo peso determinante, impongono l’Italia quale hub fondamentale, tuttavia in discussione dalle concrete possibilità proiettive di influenza e di potere verso l’esterno; il tutto tenendo conto sia della delocalizzazione dei centri produttivi verso l’Estremo Oriente, sia della direttrice di flusso che solca il bacino da Suez a Gibilterra, permettendo al Mare nostrum di assurgere a un ruolo basilare per il trasporto intermodale di lungo raggio, a discapito delle rotte del Mare del Nord. Da un punto di vista neo liberale, Parag Khanna (4) ha affermato che la capacità di connessione determina la potenza di uno Stato, anche se richiede un’integrazione nella dinamica realista del controllo delle arterie commerciali a scopi politico economici; è un fatto: il potenziamento della logistica equivale a un rafforzamento della potenza nazionale in termini di perseguimento di interessi collettivi. Estremizzando i concetti, potremmo trovarci di fronte a una sorta di conflitto

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economico e di Information Dominance cognitiva in tempo di pace per cui, secondo Christian Harbulot (5), non ricorrendo a stilemi classici, si rappresenterebbero rapporti di forza non militari, ma con obiettivi identici: l’accrescimento della ricchezza e della potenza di un paese secondo paradigmi geoeconomici che richiamano E. Luttwak (6). Geopoliticamente, per quanto ci riguarda, il Mediterraneo Allargato, concetto visto in chiave neo ottomana e secondo la profondità strategica di Ahmet Davutoglu dall’ammiraglio turco Gurdeniz con il Mavi Vatan (7) e approfondito in ambiti accademici cinesi che privilegiano il neorealismo difensivo (8), rappresenta un’area instabile tale da poter innescare fenomeni capaci di sconvolgere i correnti assetti politico strategici globali; del resto si tratta di un quadrante che racchiude anche i bacini del Mar Nero e del Mar Rosso, dove permangono realtà economiche, militari e religiose incompatibili tra loro e potenzialmente generatrici di apolarità strategiche e che può essere suddiviso in due macro regioni: la settentrionale con Europa e zona russo caucasica ex sovietica soggetta a multipolarismo, e la meridionale, con le sponde mediterranee dell’Africa e il Grande Medio Oriente. In sintesi, le nazioni a nord ed est del Mediterraneo, insieme ai paesi ex sovietici formano l’assetto geopolitico eurasiatico che si dilata dalle coste atlantiche europee fino all’Asia orientale, dove la Russia, in cerca di un’estensione del proprio confine meridionale sul Mar Nero, di un consolidamento in Siria con un occhio alla Libia e l’Iran, costituiscono delle variabili capaci di variare gli assetti; uno scenario non rispondente alla strategia NATO, che punta al controllo del territorio che si estende dalla penisola iberica fino al Golfo Persico, secondo la concezione di N. Spykman (9), il quale sosteneva che chi controlla il Rimland (10) controlla l’Eurasia e dunque le sorti di tutto il mondo. Secondo Samuel Huntington, il Mediterraneo Allargato va interpretato come un insieme geografico, non come un unico sistema politico culturale, dove le dinamiche sono regolate dal fattore umano; valgano come esempi i conflitti arabo-israeliani, i recenti Accordi di Abramo, le guerre del Golfo, e gli scontri che hanno visto protagonisti Iran, Iraq e Pakistan. Vale la

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Formazione di AV-8 sorvola nave CAVOUR e nave ETNA.

pena rammentare che le risorse energetiche racchiuse tra Golfo Persico, Asia centrale e mar Caspio, valgono il 70% delle riserve mondiali, incidendo per il 35% sulla produzione del gas, con una crescente domanda mondiale che determina sia un’oggettiva difficoltà nel trasporto, sia una marcata vulnerabilità delle nazioni industrializzate. L’instabilità dell’area si è poi manifestata nello sviluppo di politiche di potenza indirizzate a programmi militari e alleanze per il controllo di territori e risorse naturali, cosa che ha determinato il ruolo chiave delle rotte marittime nelle dinamiche economiche, poiché esiziali per il mantenimento dei flussi per l’intero sistema globale. La mobilità marittima e la libertà di esercitarla, divengono fatalmente strategiche e acuiscono la fragilità politica degli accessi al Mediterraneo, soggetti a sovranità talvolta molto instabili, fatta eccezione per Gibilterra. L’indispensabile controllo militare d’area ha dunque sviluppato un concetto di potenza fluido e imprevedibile, dovuto al cambiamento delle nazioni dominanti e dove l’equilibrio tra gli attori è condizione imprescindibile per la stabilità. Sarebbe dunque un grave errore pensare di confinare l’area d’interesse nazionale italiano al solo Mediterraneo centrale: basti

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pensare alle attività estrattive dell’ENI in Mozambico e al fatto che, per l’Italia, Suez, Bab el-Mandeb e Hormuz assumono una palmare rilevanza primaria, insieme a Egitto, Somalia, Yemen, Oman e Gibuti. È dunque palese come l’Italia non possa disinteressarsi dell’oceano Indiano, teatro di azioni sia di Soft Power che di Hard Power, anche da parte iraniana per il contenimento di Israele, comunque impegnato nel potenziamento dei suoi assetti navali. Se è vero che il Mediterraneo, nella sua accezione geopolitica allargata, continua ad attrarre attenzioni e interessi da parte dei maggiori egemoni globali — o aspiranti tali, come il Dragone cinese — diventa inevitabile auspicare il mantenimento di un Potere Navale nazionale in grado di proiettarsi adeguatamente. Del resto, secondo una prossima pubblicazione a cura dell’US Naval Institute, «una grande responsabilità richiede una grande Marina» (11): come dar loro torto? *

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L’estensione del tradizionale concetto di Mediterraneo o, meglio, di spazio marittimo d’interesse nazionale — così come espressa nelle pagine precedenti

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—rende necessario anche per un paese come l’Italia e per la sua Marina ragionare in termini di Sea Control da esercitarsi in ambito blue water e su spazi marittimi sempre più dilatati. Da almeno cento anni, il Sea Control va interpretato come controllo del mare non solo sulla superficie o sotto le acque, ma anche nello spazio aereo sovrastante; questo ha comportato che il Potere Navale si sia trasformato sempre più in Potere Aeronavale e il mezzo aereo e missilistico va concepito come connaturato alla nave, nello stesso modo in cui lo è il cannone o il siluro (12). Una Marina da blue water è in grado di proiettare la propria potenza e capacità attraverso gli oceani, di proteggere le linee di comunicazione marittima lungo tutta la loro estensione e non solo in prossimità dei loro sorgitori, ma è altresì insostituibile per operare in prossimità delle aree costiere. La combinazione di Littoral Combat Groups (LCG), Carrier Strike Groups (CSG), Expeditionary Strike Groups (ESG) e Surface Action Groups (SAG) rappresenta l’ingrediente primario per il successo nelle moderne operazioni marittime (13). Ancora una volta, è il bilanciamento capacitivo l’elemento chiave delle Forze navali: una Marina bilanciata può operare con efficacia dall’alto mare alle zone litoranee o costiere, fino alle acque interne. A mano a mano che le operazioni marittime si avvicinano alle aree costiere, l’intensità della minaccia e la multidimensionalità della stessa aumentano, rendendo ancora più arduo l’im-

Il Giappone sta curando l’adeguamento dei cacciatorpediniere portaelicotteri classe «Izumo» per l’imbarco degli F-35B (Fonte immagine: thedrive.com).

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piego delle Forze navali e degli assetti più imponenti. Nelle aree costiere, il numero di aeroporti e aviosuperfici sui quali possano essere schierati velivoli rappresenta un elemento critico per la capacità di attaccare o difendere sia le Forze navali, sia le truppe sul terreno. E così, il valore strategico di una determinata area marittima o oceanica aumenta se si dispone del controllo fisico dei locali aeroporti o delle posizioni in cui è possibile realizzare strutture per l’operatività e il supporto degli assetti aerei che vi dovranno operare. Laddove questi apprestamenti non esistano o non siano realizzabili, solo una capacità aerea imbarcata può annullare lo svantaggio iniziale e alterare il valore strategico dell’area stessa e questo è ancora più vero quando si opera in alto mare lontano dalle basi terrestri. Ciò spiega e chiarisce per quale ragione una delle tendenze che maggiormente caratterizza lo scenario strategico marittimo odierno sia rappresentata dall’attenzione che le principali Marine manifestano verso l’acquisizione di organiche capacità aeree, un «lusso» che drena enormi risorse, ma che appare irrinunciabile. La «flat top fixation», come è stata argutamente definita, rimane la più evidente prova della preferenza per molte Marine di «prima classe» verso gli investimenti tesi a realizzare un numero certamente limitato di piattaforme navali ma, al contempo, caratterizzate da elevata qualità e polivalenza (14). Ciò, per l’appunto, è in parte effetto dell’enfasi che viene posta sulle cosiddette «blue water operations», destinate ad aumentare a mano a mano che gli interessi marittimi globali si consolidano e si rafforzano. L’ultimo decennio, per esempio, ha visto la People’s Liberation Army Navy guadagnare l’ambito status di «aircraft carrier navy» — sebbene l’efficacia della soluzione tecnica fino a oggi adottata sia tutta da dimostrare — ma ha altresì visto rinascere la capacità portaerei della Royal Navy. Al contempo, l’Indian Navy ha proseguito i propri sforzi per aggiornare la propria forza di portaerei e velivoli imbarcati — mediante lo sviluppo dell’ambizioso programma per la Indigenous Aircraft Carrier e per il velivolo a essa destinato — mentre altre Marine paiono destinate, a breve, a entrare nel club delle Marine dotate di portaerei. Non è più un mistero che l’Agenzia di autodifesa marittima giap-

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ponese — la fogliolina di fico dietro la quale si cela la Marina Imperiale del Sol Levante — stia curando l’adeguamento dei propri cacciatorpediniere tuttoponte della classe «Izumo» all’imbarco dell’F-35B, esattamente come sta pensando di fare la ROK (Republic of Korea) Navy con uno Spin-Off della classe «Dokdo» — il riferimento è a quella che, oggi, è indicata come LPX-II (15) — senza dimenticare le aspirazioni dell’Armada spagnola e quella della Marinha do Brazil, piuttosto che quelle della Marina della Repubblica di Turchia e, in prospettiva, della Royal Australian Navy (16). Del resto, lo sviluppo della variante B dell’F-35 rappresenta un’occasione imperdibile, il cui valore va ben oltre quello rappresentato, fino a oggi, dalla coppia «trough deck cruiser» e «Harrier». L’F-35, come noto, non è solo un formidabile assetto aereo, ma è una piattaforma per la guerra aerea di 5ª generazione, quella nella quale a fare la differenza tra il successo e l’insuccesso sarà la capacità di assicurare il «data gathering and collecting» e quella di impiegare, in maniera congiunta e coordinata, assetti Manned e Unmanned, di interfacciarsi con una pluralità e diversificazione impressionanti di sorgenti di fuoco e di assicurare un’air dominance pronunciata rispetto alle più diffuse capacità aeree dei prevedibili avversari. Inoltre, anche sul piano politico-strategico, la diffusione del velivolo della Lokeed Martin assicura una capacità Combined che non ha precedenti simili, almeno a livello dimensionale. Non è un caso che la «Lightening» community sia destinata a essere qualcosa di più di una semplice condivisione del medesimo assetto aereo, ma possa assumere piuttosto le dimensioni di una vera e propria Forza aerea integrabile ed espandibile a seconda della convenienza politica (17). Oggi, dunque, le portaerei rappresentano una delle più tangibili manifestazioni del rango di una Marina, avendo ereditato questa funzione dalle navi da battaglia ed essendo così diventate le Capital Ship delle flotte. Come ha pubblicamente scritto la US Navy, la combinazione tra super portaerei — meglio se a propulsione nucleare — e il loro stormo aereo rappresenta l’equilibrio tra le capacità di presenza avanzata e quella di condurre operazioni di combattimento o di

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Lo sviluppo dell’F-35B assicura, tra l’altro, un’air dominance pronunciata rispetto alle più diffuse capacità aeree avversarie.

assistenza (Humanitarian Assistance/Disaster Relief, HA/DR) in qualsiasi parte del globo: «Sailing the world’s oceans, each carrier strike group is a versatile, lethal, and independent striking force capable of engaging targets at sea or hundreds of miles inland. The unique mobility and independence of aircraft carriers provide unmatched global access that requires no host-nation support» (18). Tuttavia, anche in seno alla Marina statunitense è assai attivo il dibattito sull’utilità o meno di continuare a investire miliardi di dollari nella costruzione e nel mantenimento delle super-portaerei a propulsione nucleare, piuttosto che scegliere soluzioni più economiche: basti pensare che una singola unità navale della classe «Ford» ha un costo non inferiore ai 13 miliardi di dollari, cui vanno aggiunti altri 5-6 miliardi per il gruppo aereo imbarcato (19). Infatti, la particolarità della minaccia odierna e i mutamenti intervenuti nello scenario marittimo di riferimento potrebbero congiurare contro le super portaerei. Da un lato la proliferazione di missili da crociera da Deep Strike — in grado di proiettare potenza in profondità sulla terraferma, senza ricorrere alla costosa Aviazione navale, evitando altresì i rischi di perdere i piloti — e, dall’altro lato, la diffusione di solide capacità di Anti Access/Area Denial (A2/AD) allontanano sempre più le portaerei dalle coste nemiche ed espongono i loro gruppi imbarcati a operare sempre più lontano dalla propria base.

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Un F/A-18F Super Hornet dell'US Navy durante una missione nel Golfo Persico (wikipedia.it).

Il Boeing MQ-25 Stingray sarà il primo velivolo senza pilota a bordo delle portaerei americane, progettato per il rifornimento in volo (Boeing).

Il problema si è già posto, dal momento che l’US Navy deve trovare il modo di fronteggiare le crescenti capacità dei missili Killer Carrier (i cinesi DF-21D, per esempio) e, dall’altro, deve aumentare la portata operativa dei propri stormi aerei, non più dotati di autonome capacità di aerorifornimento e costruiti attorno ad aerei con un’autonomia più limitata di quella dei velivoli delle generazioni precedenti (20). Dunque, siamo giunti alla fine della carriera delle portaerei e delle aviazioni navali? Certamente no e, per ovviare al rischio che le portaerei diventino costosi

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«giocattoli», c’è chi ha proposto di agire lungo tre direttrici. Per prima cosa, andrebbero rafforzate le capacità di difesa delle stesse Flat Top, irrobustendone le capacità Soft-Kill e quelle delle navi che ne costituiscono la scorta: ciò significa investire su armi laser ed elettromagnetiche per colpire missili e aerei nemici e potenziare le capacità di disturbo dello spettro elettromagnetico; a ciò andrebbero aggiunti ulteriori schermi protettivi, magari rappresentati da sciami di aerei Unmanned che agirebbero come «scudo» delle portaerei. In secondo luogo, si suggerisce di rilanciare l’idea della «flotta bimodale» dell’ammiraglio Hughes, ovvero di ridurre l’esposizione delle portaerei come strumento di presenza avanzata, delegando ad altro navigio di superficie — dotato di adeguato armamento missilistico per l’attacco in profondità e per degradare le bolle A2/AD — il compito di assicurare una prima risposta alle crisi, in attesa dell’arrivo in teatro delle portaerei: ciò permetterebbe anche di ridurre i costi dei lunghi pattugliamenti assegnati alle portaerei e alla loro scorta (21). Infine, si suggerisce di studiare la possibilità di sostituire le grandi portaerei a propulsione nucleare con un mix di piattaforme più piccole — in grado di far operare velivoli a pilotaggio remoto — e di naviglio di superficie e subacqueo dotato di grandi scorte di missili da crociera; al contempo, le portaerei potrebbero essere mantenute «in naftalina» per essere reimmesse in servizio qualora fosse necessario condurre operazioni più complesse e più prolungate (22). L’ipotesi che le super portaerei scompaiano dagli annuari navali appare francamente poco credibile, mentre è un dato ormai certo che anche la Marina statunitense sta valutando, con sempre maggiore convinzione, la possibilità di aumentare la finestra di impiego delle proprie LHA — le unità navali d’assalto anfibio, dotate di adeguate capacità aeree — come portaerei leggere, sfruttando le enormi potenzialità offerte dal velivolo F-35B. Non è un caso, dunque, che l’US Navy stia accelerando l’introduzione in servizio di questa variante del caccia di 5ª generazione e, invece, stia «rallentando» quella della versione destinata a operare da portaerei convenzionale: un gruppo aereo di 15-20 F-35B im-

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La nuova HMS PRINCE OF WALES è stata designata per ospitare assetti Unmanned (Royal Navy).

La portaerei USS GEORGE H. W. BUSH, ultima arrivata della classe «Nimitz», entrata in servizio nel 2009 (wikipedia.it).

barcati su una «Lightening carrier» non solo fornirebbe un adeguato supporto alle operazioni di assalto anfibio, ma permetterebbe altresì di supplire a molti di quei compiti che, oggi, vengono assegnati alle più

costose e operativamente complesse super portaerei (23). Accanto alla componente Manned, le future aviazioni navali vedranno sempre più diffusi gli assetti Unmanned — più o meno autonomi — sebbene oggi essi fatichino ancora a farsi largo sui ponti delle Flat Top (24). Ancora, la Marina turca sembra intenzionata a studiare e realizzare la conversione della propria portaeromobili TCG Anadolu in una vera e propria drone carrier, soprattutto se dovesse essere confermato il rifiuto americano a vendere ad Ankara i velivoli F-35B. I mezzi Unmanned — al momento introdotti in servizio soprattutto per l’effettuazione di compiti di sorveglianza, ricerca, controllo e sostegno a favore degli assetti Combat, quindi, in compiti come aerorifornimento, picchetto radar, picchetto comunicativo, ecc. — sono inevitabilmente destinati a trasformarsi in veri e propri strumenti per l’attacco, assumendo sempre più la forma e la natura di UCAV (25). È richiesta una rivoluzione culturale più che tecnologica: il controllo umano dei mezzi aerei da combattimento del futuro sarà, nella migliore delle ipotesi, un controllo da remoto, ma l’intelligenza artificiale e la robotica aprono degli scenari di autonomia dei sistemi d’arma — in primis quelli aeroportati — che li renderanno sempre più autonomi, non solo nei processi di condotta, ma anche di discriminazione dei bersagli e financo nei processi decisionali circa l’azione da attuare (26). Ciò costituirà un’evoluzione e non la fine dell’Aviazione navale e della capacità portaerei delle grandi Marine, lasciando ancora alle Flat Top — indipendentemente dalle loro dimensioni e dalla tipologia di assetti aerei di cui saranno dotate — un posto speciale nelle flotte, a patto che i decisori politicostrategici sappiano come impiegarle efficacemente, sfruttandone tutte le enormi, diversificate e irrinunciabili potenzialità. 8

NOTE (1) Valga come esempio la querelle intercorsa tra il presidente Francese Macron e il presidente Turco Erdogan. (2) Per esempio la vendita del sistema S-400 da parte della Federazione Russa alla Turchia e di armamenti all’Algeria, alla quale è stata concessa la cancellazione del debito nel 2006. (3) Americano, politologo e studioso delle relazioni internazionali, appartiene alla scuola realista; ha sviluppato la teoria del realismo offensivo, con l’interazione tra grandi potenze guidata dal desiderio razionale di conquistare l’egemonia regionale in un sistema internazionale anarchico; secondo la sua teoria, il dispiegamento di forze militari in una certa regione è essenziale per una grande potenza che voglia segnalare in maniera inequivoca l’impegno nel difendere la propria posizione e/o negare la supremazia in quello spazio a una potenza rivale. (4) Politologo indiano naturalizzato statunitense, specialista in relazioni internazionali, autore di Connectography. Le mappe del futuro ordine mondiale, 2016.

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Portaerei e aviazione imbarcata: un asset strategico irrinunciabile (5) Economista e politologo francese, direttore e fondatore della Scuola di Guerra Economica (EGE), cui si associano Pichot-Duclos, Philippe Baumard, Eric Delbeque, Nicolas Moinet e Pascal Lorot. (6) In The Endagered American Dream del 1993, Luttwak afferma, in termini simili a quelli di Esambert, che i capitali investiti dallo Stato sono l’equivalente della potenza di fuoco, le sovvenzioni allo sviluppo di prodotti corrispondono ai progressi dell’Esercito, la penetrazione dei mercati con l’aiuto statale sostituisce l’influenza diplomatica o le basi e le guarnigioni militari dispiegate all’estero. (7) «Patria Blu»; dottrina che definisce le modalità di difesa, protezione e allargamento dei diritti e degli interessi marittimi della Turchia. (8) Vedasi Kenneth Waltz e, successivamente, Jack Snyder che lo ha definito per la prima volta nel suo Myths of Empire. (9) The Geography of Peace, 1944. (10) Fascia marittima e costiera che circonda l’Eurasia, essa si divide in 3 zone: zona della costa europea, zona del Medio Oriente e zona asiatica. (11) James Holmes – U.S. Naval Institute. (12) La Marina americana, postulando che le missioni più importanti che sarà chiamata a svolgere continueranno a essere il Sea Control degli spazi oceanici globali attraverso i quali transitano e si sviluppano i commerci mondiali, il Sea Denial delle acque ristrette (Baltico, Mediterraneo orientale, Mar Cinese) e la proiezione di potenza, ritiene di dover disporre di più distribuite e diffuse capacità aeree, la maggior parte delle quali dovranno essere basate in mare. Da ciò discende l’idea di integrare ancor più tra loro i reparti aerei della Marina e quelli dei Marines e, se necessario, di inserire nella flotta piattaforme navali di origine commerciale (le portacontainer) da trasformare in portaerei di scorta, in grado di far operare velivoli STO/VL (decollo corto e atterraggio verticale), UAV (Unmanned Aerial Vehicle) e UCAV (Unmanned Combat Aerial Vehicle). Tra portaerei (CV), portaelicotteri d’assalto anfibio (LHA) e portacontainer riadattate al ruolo di portaerei di scorta, sarà più semplice esercitare il Sea Control su aree oceaniche sempre più vaste e perigliose (comprese quelle artiche) e il Sea Denial degli spazi marittimi su cui si affacciano i Competitor da contenere. W. Hughes, Restore a Distributable Naval Air Force, Proceedings, April 2019, vol. 145/4/1.394. (13) M. Vego, Maritime Strategy and Sea Control. Theory and practice, London-New York 2016, Routledge, p. 61. (14) C. Waters, Seaforth World Naval Review 2019, Barnsley, Seaforth Publishing, p. 9. (15) La futura portaeromobili della Corea del Sud dovrebbe avere un dislocamento intorno alle 30-35.000 tonnellate ed è concepita per imbarcare aerei F-35B nazionali o alleati. G. Dominguez, South Korean Military Aiming To Speed Up Acquisition Of Light Aircraft Carrier, Janes.com, 08 October 2020, https://www.janes.com. (16) Naturalmente, non sono paragonabili le capacità offerte dalle portaerei convenzionali (CTOL, Conventional Take-off and Landing) — di cui dispongono solamente la Marina degli Stati Uniti e quella francese — dalle potenzialità di una portaerei STOBAR (Short Take Off But Arrested Recovery) in servizio con la Marina russa, con quella indiana e con la cinese. Allo stesso modo, le portaerei per velivoli a decollo corto e atterraggio verticale (Short Take Off/Vertical Landing, STO/VL) delle Marine di Regno Unito, Italia, Spagna, Thailandia (anche se per quest’ultima ci sono numerosi dubbi circa l’operatività dei velivoli in dotazione) o le portaelicotteri di Giappone, Corea del Sud, Turchia, Australia e Brasile hanno capacità ancora diverse. Solamente l’introduzione in servizio di un velivolo altamente performante quale l’F-35B permetterà a Regno Unito, Italia, Giappone e Corea del Sud di operare con portaerei «leggere» dotate di velivoli ad altissime prestazioni, in grado di soverchiare gli aerei di molte aeronautiche. (17) Al riguardo, si veda la prima e ormai prossima crociera operativa del Carrier Group della portaerei HMS Queen Elizabeth — crociera prevista nel 2021 nelle turbolente acque dell’Indo-Pacifico — che imbarcherà uno stormo multinazionale, costituito da F-35B dei Marines e da analoghi aerei della Lightening Force britannica. La possibilità che lo stesso velivolo venga acquistato dalla Marina giapponese, da quella della Repubblica di Corea e financo da Singapore — tutti interessati alla versione B dell’aviogetto — ha già spinto alcuni analisti a ritenere che, in un futuro non molto lontano, detti assetti aerei potranno operare in maniera interscambiabile o congiunta su diverse piattaforme navali tuttoponte, indipendentemente dalle coccarde dipinte sulle ali degli aviogetti e dalla bandiera alzata a riva dalle suddette unità. N. Childs, Naval F-35s all at sea?, www.iiss.org/blogs/military-balance/2020/11/f-35-navy-us-uk. (18) Department of the Navy, US Navy Programme Guide, 2017, p. 2. (19) J. Vandenengel, 100,000 Tons of Inertia, Proceedings, vol. 146/5/1,4007, May 2020. D. Axe, What Could Replace U.S. Aircraft Carriers?, The National Interest, https://nationalinterest.org. (20) Il raggio d’azione degli F/A-18E/F «Hornet» — che costituiscono la spina dorsale degli stormi aerei della Marina statunitense — non eccede le 390-450 miglia nautiche mentre il futuro F-35C «Lithening II» sarà in grado di raggiungere le 730 miglia nautiche. Per contro, un missile balistico DF-21D, il carrier killer cinese — ha un raggio operativo di 1.500-1750 miglia nautiche e un costo largamente inferiore: secondo calcoli approssimativi, il costo di una portaerei statunitense equivarrebbe a quello di 1.227 DF-21D. Proprio per aumentare la letalità della propria Naval Aviation, la Marina degli Stati Uniti ha deciso di estendere il raggio operativo dei propri F-18 «Hornet», aumentandone la dotazione di carburante e armandoli con un nuovo missile a guida semi-autonoma, quale il Long Range Anti-Ship Missile (LRSAM), avente una portata di 200 miglia nautiche. D.W. Wise, The Navy Must Accept That the Aircraft Carrier Age Is Ending, The National Interest, February 26, 2020. K. Osborn, The U.S. Navy’s Big 2021 Weapons Wishlist», The National Interest, January 17, 2021. (21) W.P. Hughes, A Bimodal Force for National Maritime Strategy, Naval War College Review, Spring 2007, vol. 60, no. 2, pp. 29-47. (22) R.C. Rubel, Connecting the Dots. Capital Ships, the Littoral, Command of the Sea, and the World Order, Naval War College Review, autumn 2015, vol. 68, no 4, pp. 46-62. (23) Per quanto riguarda gli stormi aerei delle grandi portaerei convenzionali, i progetti di ammodernamento della componente CTOL sono sempre più proiettati verso l’accelerazione nello sviluppo dei velivoli di 6ª generazione — al momento, il modello che affiancherà F-35C e sostituirà le varianti dell’«Hornet» e del «Growler» si chiama F/A-XX e dovrà assicurare la Next Generation Air Dominance (NGAD) — rappresentati da un aereo pilotato, con una capacità di data fusion ancora più spinta di quella del «Lightening», la possibilità di dialogare e operare in modo ancora più efficace con gli assetti unmanned e, soprattutto, con un raggio operativo di almeno 1.000 miglia nautiche, dati gli spazi in gioco nel prevedibile futuro campo di battaglia, rappresentato dall’Indo-Pacifico. M. Shelbourne, Navy Quietly Starts Development of Next Generation Carrier Fighter; Plans Call for Manned, Long-Range Aircraft, USNI News, August 18, 2020. (24) F. Zampieri, Elementi di Strategia Marittima, Roma 2019, Nuova Cultura, pp. 299-300. (25) Nonostante la «pilot-mafia», — un neologismo mutuato dal concetto di «fighter mafia» per indicare la resistenza dei piloti a vedersi sostituiti da mezzi autonomi — la Marina americana sembra credere moltissimo nei velivoli da combattimento Unmanned, soprattutto per le missioni di attacco in profondità. Nel 2013, il Grumman X-47B fu sperimentato con successo a bordo della U.S.S. George H.W. Bush, dimostrando l’integrabilità tra assetti aerei Manned e Unmanned. Sebbene lo stato di necessità suggerisse di premere sull’acceleratore della trasformazione di quel prototipo in un velivolo per il bombardamento in profondità — così da compensare i vuoti che si erano aperti negli stormi aerei imbarcati con la rinuncia all’A-6 «Intruder» — la «pilot-mafia» spinse perché il primo impiego di un UAV a bordo delle portaerei fosse quello di aerocisterna. Fu così che, nel 2016, nacque il velivolo MQ-25A «Stingray», destinato a liberare gli F/A-18E/F «Hornet» dal secondario compito di aerorifornitori, allo scopo di recuperare a compiti Combat quei velivoli (circa il 25-30% dell’intera flotta). Anche se, per il momento, l’MQ25A è stato destinato a fungere da cisterna volante, nulla vieta di pensare che, presto, possa essere destinato a compiti di Intelligence, Surveillance, Reconnaissance o di vero e proprio attacco. La macchina, caratterizzata da notevoli doti Stealth, è già stata progettata per trasportare anche missili a lungo raggio e carburante aggiuntivo e, dunque, la conversione non sarebbe né lunga né insostenibile sul piano economico. K. Mizokami, The Long Road to Long-Range Strike, Proceedings, September 2020, vol. 146/9/1,411. (26) I velivoli Unmanned possono essere più piccoli, più leggeri, più veloci e più manovrabili dei mezzi con equipaggio umano e non subiscono i limiti dell’autonomia fisica e psicologica del pilota. Per contro, i mezzi robotizzati sono privi della più complessa macchina cognitiva che la natura abbia creato: il cervello umano. Vero è che i robot di oggi presentano un livello di autonomia ancora «limitato»: infatti, sono Human Operated, Human Delegated o Human Supervised, non essendo ancora approdati a quelli Fully Autonomous. Il futuro, però, va nella direzione di una completa autonomia, caratterizzata da una progressiva espulsione dell’elemento umano dal processo decisionale della macchina: l’uomo non sarà più parte del processo OODA (Observe, Orient, Decide, Act), ma avrà solo funzioni di monitoraggio dell’esecuzione di certe decisioni, da prendere in nanosecondi. Sul tema della robotica e strumenti militari, cfr. D. Ceccarelli Morolli, Appunti di Geopolitica, Roma 2018, pp. 73 s.

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PRIMO PIANO

Mediterraneo orientale: una disputa geoeconomica e geopolitica Giuseppe Gagliano

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ome ampiamente noto, il 10 settembre del 2020, il presidente Macron ha twittato parlando di «Pax Mediterranea». Pochi giorni dopo, la Francia avrebbe al contrario assunto una postura reattiva nei confronti della Turchia volta a limitarne la proiezione di potenza regionale. D’altronde proprio a luglio Erdogan aveva firmato un accordo di cooperazione militare con il Niger, un paese nella

zona di influenza francese, rafforzando la sua presenza economica nel settore minerario e delle infrastrutture. Tuttavia, in un’ottica che a nostro avviso deve essere di realismo politico, l’attuale confronto conflittuale tra Francia e Turchia nel Mediterraneo orientale deve essere letto anche come la conseguenza di dinamiche conflittuali geoeconomiche di più ampio respiro. La Turchia è uno dei principali attori nel Mediterraneo orientale (Fonte immagine: cnnturk.com).

Ha conseguito la laurea in Filosofia nel marzo del 1994 presso l’Università statale di Milano. Nel 2011 ha fondato il Network internazionale Cestudec (Centro studi strategici Carlo de Cristoforis) con sede a Como, iscritto all’Anagrafe della Ricerca dal 2015. La finalità del centro è quella di studiare, in una ottica realistica, le dinamiche conflittuali delle relazioni internazionali ponendo l’enfasi sulla dimensione dell’intelligence e della geopolitica alla luce delle riflessioni di Christian Harbulot, fondatore e direttore della Scuola di guerra economica (Ege) di Parigi. È esponente in Italia della Scuola di guerra economica francese ed è membro della Società italiana di Storia militare, collabora con il Centre Français de Recherche sur le Renseignement di Parigi, con la École de guerre économique francese, con il Centro de Estudos em Geopolítica e Relações Intenacionais brasiliano. Inoltre ha collaborato — e collabora — con diverse riviste scientifiche (italiane e straniere).

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Si tratta di analizzare le cause di questa escalation, che uniscono interessi economici, rivalità geopolitiche e questioni legate all’agenda politica interna di questi due leader. È anche necessario riflettere sulle strategie messe in atto da questi due Stati che richiedono tutta una serie di strumenti: 1) classica dimostrazione di potere basata sulla capacità militare; 2) l’uso della disinformazione sui social network proveniente in particolare dalla Turchia che imita il Emman know-how russo in que(aseantouel Macron day.com sto settore; ). 3) l’esercizio dell’influenza all’interno della NATO e dell’UE per dividere o costruire il consenso e 4) la conquista di nuovi mercati da parte della Turchia nella sfera d’influenza francese mobilitando risorse ideologiche. Questa analisi è tanto più necessaria in quanto questo confronto dà luogo a numerosi dibattiti e controversie sui social network, in particolare tra giornalisti, ricercatori e diplomatici, che possono essere qualificati come una vera e propria guerra dell’informazione. In modo sintetico, si sono formate due scuole di pensiero attorno a questa controversia: la prima fatta dai sostenitori di una politica di conciliazione con la Turchia. Si oppongono all’escalation unilaterale della Francia, sia verbale sia militare, con un alleato strategico nella NATO e lodano la politica di mediazione del cancelliere tedesco; la secondo scuola di pensiero, che è a favore di una posizione di opposizione nei confronti della Turchia da parte della Francia, a causa della presunta violazione del diritto internazionale a opera della Turchia, dei suoi ripetuti attacchi contro la Francia e della sua «politica imperialista» seppure in un contesto regionale. Secondo questa scuola di pensiero, i negoziati con la Turchia devono essere accompagnati da una

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politica di deterrenza a livello militare. L’attrito tra Francia e Turchia nel Mediterraneo orientale, si svolge in modo più ampio in un contesto regionale dove le potenze gan o rd E locali si scontrano, sfoayyip ). Recep Tloomberg.com (b ciando in conflitti internazionalizzati in Siria e Libia. E la suddetta guerra dell’informazione si riferisce più in generale alla strategia francese in Libia a sostegno del maresciallo Haftar contro il governo (GNA, Government of National Accord) di ispirazione islamista sostenuto dalla Turchia. È quindi necessario avere sullo sfondo le rivalità tra le potenze della regione per comprendere la posta in gioco di questo confronto nel Mediterraneo orientale.

La conflittualità internazionale della Turchia e della Francia Queste tensioni non sono nuove e l’offensiva turca in Siria ha già portato a un aumento del nervosismo tra i due paesi. Per la cronaca, Emmanuel Macron ha criticato l’operazione turca contro i curdi del PYD (Partito dell’Unione Democratica) nel nord della Siria, alleati della Francia nella lotta contro Daesh che hanno svolto un ruolo di primo piano contro questo gruppo terroristico. La Turchia considera terrorista questo gruppo curdo, a causa della sua affiliazione al Partito dei lavoratori del Kurdistan (PKK). In risposta alle critiche del presidente francese, i media hanno riportato che il ministro degli Esteri turco, Mevlut Cavusoglu, ha definito Macron uno «sponsor del terrorismo». In questa nuova escalation di tensioni nel Mediterraneo orientale, Francia e Turchia fanno appello alla loro capacità militare e di influenza. Questa rivalità è accompagnata anche da un’escalation verbale molto virulenta

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Mediterraneo orientale: una disputa geoeconomica e geopolitica

sia da parte turca che da parte francese. Il presidente turco giudica il presidente francese Macron «incompetente», «arrogante» e che «sviluppa una politica neocoloniale»; quest’ultimo definisce a sua volta «inammissibile». La politica della Turchia senza arrivare ad attaccare personalmente il presidente Erdogan. Tuttavia, la Francia, pur lanciandosi in un’escalation verbale e minacciando la Turchia di sanzioni, continua a ribadire nei suoi comunicati stampa la necessità di un dialogo con Ankara. Il mar Mediterraneo orientale è teatro di scontri su questioni geoeconomiche e geostrategiche: tensioni attorno alla delimitazione dei confini e alla condivisione delle riserve di gas, alla gestione dei flussi migratori e alla sicurezza dello Stato di Israele. Inoltre, la Libia affronta un conflitto internazionalizzato che contrappone il campo della controrivoluzione autoritaria nel mondo arabo che comprende Emirati, Arabia Saudita, Egitto e Russia, contro il campo a sostegno dell’Islam politico e, nel caso specifico, della Libia, al governo di unità nazionale (GNA), in cui si trovano Turchia e Qatar. Come accennato in precedenza, la Francia ha svolto un ruolo da molti definito ambiguo in questo contesto, sostenendo il generale Haftar sulla base del fatto che sarebbe stato in grado di combattere il terrorismo meglio di quanto avrebbe fatto il GNA di tendenza islamista, riconosciuto dall’ONU e al fine di prevenire un’ondata di rifugiati libici che si sarebbe potuta riversare in Europa. Questa strategia è accompagnata da un allineamento della diplomazia francese all’agenda politica degli Emirati Arabi Uniti e dell’Arabia Saudita nella regione. Infine, anche la condivisione del petrolio libico costituisce motivo di conflitto. Ebbene, allo scopo di comprendere in maniera più chiara le effettive dinamiche conflittuali tra Turchia e Francia, riteniamo opportuno servirci di una griglia di lettura geoeconomica che ponga l’enfasi sul concetto di guerra economica.

La conflittualità tra Francia e Turchia in un’ottica geoeconomica La dimensione di «guerra economica» è relativa alle tensioni intorno al gas del Mediterraneo orientale. Tale bacino marittimo, infatti, è diventato un importante hub energetico dopo la scoperta nel 2009-10 di giacimenti di

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gas, facendo rivivere le numerose controversie di confine in questo mare stretto dove le Zone Economiche Esclusive (ZEE) si sovrappongono. La posta in gioco di queste tensioni riguarda sia lo sfruttamento del gas, sia il suo trasporto. Per quanto riguarda la componente trasporti, Grecia, Cipro e Israele hanno firmato un accordo sul gas che prevede la realizzazione di un gasdotto East Med finalizzato al trasporto di gas naturale — tra 9 miliardi e 11 miliardi di metri cubi — dalle riserve offshore di Cipro e Israele alla Grecia. La Turchia è stata emarginata da questo progetto quando, dal suo punto di vista, la sua posizione geografica tra Est e Ovest le potrebbe consentire di diventare un hub del gas e proprio per questo ha sviluppato ambizioni in questa direzione. È in questo contesto che Turchia e Russia hanno formato un progetto concorrente, il Turkstream, volto a portare il gas russo in Turchia e in Europa. Inoltre, è stato creato un Forum sul gas del Mediterraneo orientale che riunisce Egitto, Cipro, Grecia, Italia, Israele e Giordania con l’obiettivo di formare progetti comuni e sviluppare infrastrutture. Anche la Turchia non è

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Mediterraneo orientale: una disputa geoeconomica e geopolitica «La questione energetica è uno degli assi principali del confronto franco-turco» (Fonte immagine: pixabay.com/Morrison).

stata inclusa in questo Forum. Per quanto riguarda lo sfruttamento del gas naturale, alla fine del 2019 la Turchia ha firmato un accordo con la Libia per acquisire un’ampia quota di gas nel Mediterraneo orientale con lo scopo di ridurre la sua dipendenza dal gas, in particolare nei confronti della Russia. La Grecia ha risposto firmando un accordo simile con l’Egitto nell’agosto 2020 e proprio per questo la Turchia ha inviato una nave di prospezione nelle acque territoriali greche che ha provocato l’attuale escalation militare. Infine, il conflitto in Libia, dove Francia e Turchia sostengono parti diverse, presenta un aspetto energetico riguardante la condivisione delle riserve petrolifere libiche. Di conseguenza, la questione energetica è uno degli assi principali del confronto franco-turco. Al di là delle questioni energetiche, l’intervento della Turchia in Libia mira anche a rafforzare i legami commerciali tra i due paesi e la presenza di società turche in Libia. Questa ambizione è stata formalizzata da un accordo commerciale tra i due paesi. La Turchia è diventata il secondo maggiore esportatore in Libia dopo la Cina e, inoltre, sta discutendo con il GNA per stabilire una base

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turca a Misurata, per diventare una grande potenza nel Nord Africa. La posta in gioco è quindi anche geopolitica. Ma questo status di potere perseguito in Nord Africa mira anche a dare alla Turchia accesso ai mercati nell’Africa subsahariana, in particolare nel Sahel dove sta avanzando le sue pedine. Penetra anche nel Corno d’Africa, determinando tensioni con Egitto, Emirati Arabi Uniti e Arabia Saudita, in particolare sul territorio etiope dove il governo ha un grosso contenzioso con l’Egitto intorno alla costruzione della diga sulle acque del Nilo. Secondo alcuni analisti, questa guerra economica in Africa, tra queste potenze, ha contribuito a consolidare l’allineamento della politica estera di Francia, Emirati ed Egitto. La conquista da parte della Turchia di nuovi mercati nel suo ambiente regionale, in particolare in Africa (Maghreb e Africa subsahariana), si è intensificata da diversi anni. Il suo isolamento, derivante dal congelamento degli accordi di adesione all’Unione europea, è chiaramente il motore principale di questa strategia di postura offensiva che include nel suo perimetro la sfera di influenza della Francia, che costituisce un fattore di tensione tra questi due paesi. La Turchia ha avuto successo nel Maghreb, in particolare in Algeria, dove si dice che il potere politico abbia sviluppato «un tropismo turco». Alludiamo sia al mercato delle infrastrutture — e cioè alle 800 aziende in vari settori (edilizia, tessile, acciaio, agroalimentare, energia) — sia al fatto che la Turchia sia il maggior investitore del paese se escludiamo il settore degli idrocarburi. Tuttavia, la Francia rimane il primo paese esportatore in Algeria mentre la Turchia è molto indietro. Se le relazioni tra i due paesi si sono indebolite durante il periodo di transizione del generale Gaid Sallah, vicino all’asse autoritario dei paesi del Golfo, esse hanno ripreso vigore dopo l’elezione del presidente Tebboune, che ha fatto un viaggio in Turchia e che cerca di prendere le distanze dalle scelte dei paesi del Golfo in Libia. Inoltre, il presidente Tébboune, in qualità di ministro si è a lungo occupato di aziende turche. Inoltre, avvicinarsi alla Turchia è un modo per legittimarsi in una società dove il sentimento antifrancese è ancora forte e dove il potere è contestato da un movimento popolare, gli «hirak». Infine, come in Libia, l’Algeria, come ha detto il presidente Erdogan, è «uno dei princi-

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pali punti di accesso al Maghreb e all’Africa» e le sue ambizioni non si limitano quindi a questo paese. In Tunisia, la Turchia ha un’influenza reale dal punto di vista culturale. Il modello politico della Turchia è attraente anche per una parte della popolazione tunisina e per il governo stesso, sia che si tratti del kemalismo al quale Bourguiba si è ispirato, sia del modello politico del partito turco AKP, che ha permesso una forte crescita economica negli anni Duemila. Tuttavia, economicamente, la Tunisia soffre di una mancanza di attrattiva per gli investitori turchi che preferiscono il Marocco. Di fronte all’ascesa dell’influenza turca nella sfera d’influenza della Francia nel Maghreb, la diplomazia francese non raccoglie la sfida attuale. L’Unione per il Mediterraneo, creata nel 2008 su iniziativa del presidente Sarkozy, è un guscio vuoto. Secondo alcuni analisti la mancanza di consultazione della Francia con i paesi europei a monte della sua creazione sarebbe la causa principale di questo fallimento (la Germania avrebbe imposto per ritorsione che questa unione includesse tutti i paesi dell’UE e non esclusivamente i paesi del Mediterraneo). Allo stesso modo, l’iniziativa del presidente Emmanuel Macron a Marsiglia il 23 e 24 giugno 2019, riunendo i paesi della sponda sud e di quella nord del Mediterraneo, non ha avuto l’eco prevista ed è passata quasi inosservata. La Francia ha forze operative nel sud del Maghreb, in Mauritania, Mali, Burkina Faso, Niger e Ciad, nonché basi militari in Senegal, Costa d’Avorio e Gabon. Ciò non ha impedito a Turchia e Niger di firmare, lo scorso luglio, un accordo di cooperazione in materia di economia e difesa in base al quale la Turchia partecipa all’industria mineraria, un settore altamente strategico per la Francia. Erdogan è stato anche in tournée in Senegal e in Gambia nel gennaio 2020. Allo scopo di consolidare la sua sfera di influenza, secondo diversi analisti, la Turchia sta ponendo in essere una vera e propria campagna di mobilitazione anticoloniale in funzione antifrancese. Nell’Africa subsahariana, la Turchia sta mobilitando risorse ideologiche e il tema del neocolonialismo è un elemento di questa strategia. Infatti, in occasione del vertice d’affari Turchia-Africa del 2016, Erdogan ha evidenziato la formazione di un nuovo modello di colonizzazione messo in atto dall’Occidente e dalle istituzioni internazionali e ha dichiarato

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che «noi altri, africani e turchi incarniamo la resistenza a questo modello». Questa narrazione e spesso interpretata come indice di come la Turchia veda il sistema internazionale «oligarchico» e dominato dalle vecchie potenze che impongono i propri standard «ai deboli», e che «l’umiliazione» dei deboli permette di mobilitarsi contro il loro dominio. Inoltre, viene vista come una strumentalizzazione da parte della Turchia, in vista della conquista di nuovi mercati. Infatti, sfruttando il sentimento antifrancese, la Turchia sta espandendo la sua influenza in Africa. È certamente in questo contesto che vengono visti gli attuali attacchi della Turchia alla Francia intorno al suo passato coloniale e allo sfruttamento finanziario del continente africano. Il premier turco sta insomma dimostrando un’indubbia abilità sfruttando sia l’ascesa di un sentimento antifrancese nel Sahel, dove la Francia è impantanata in una guerra che per molti versi somiglia alla guerra in Afghanistan contro Al-Qaeda e il regime talebano, sia l’opposizione diretta in Senegal contro i suoi interessi economici dove deve affrontare mobilitazioni politiche contro la moneta CFA (Comunità Finanziaria Africana). Infine, la Turchia, per molti, sta mobilitando anche l’Islam nella sua strategia di conquista. È il caso del Senegal. La Turchia è, infatti, diventata un partner economico leader del Senegal, in particolare nel settore delle

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Mezzi militari turchi nel nord dell’Iraq, area di rivalità tra Francia e Turchia (Fonte immagine: thedefensepost.com). La strategia di conquista turca si va estendendo anche nel Maghreb, area d’interesse della Francia. A sinistra: le forze francesi impegnate nell’operazione Barkhane (Fonte immagine: uk.reuters.com).

infrastrutture (partecipazione alla creazione del TER (Train Express Regional), gestione dell’aeroporto internazionale Blaise Diagne per 25 anni, costruzione del centro congressi internazionale Abou Diouf, ecc.). Inoltre, le relazioni commerciali tra questi due paesi si stanno intensificando. Ebbene, il fatto che questi due paesi condividano lo stesso islam di matrice sunnita ha contribuito a consolidare le relazioni economiche e commerciali tra i due paesi. Sono, infatti, entrambi membri dell’Organizzazione della Conferenza Islamica che costituisce un Forum privilegiato di discussione. Il finanziamento nel 2018 da parte della Turkish Diyanet Foundation di una delle più grandi moschee dell’Africa occidentale in Ghana è un altro esempio di questa diplomazia a favore dell’Islam. Oltre all’Islam, la Turchia mobilitando altri registri come lo sport che è molto popolare in Africa. Il gruppo turco Yenigun è incaricato della costruzione del complesso sportivo di Japoma in Camerun che ospiterà la Coppa d’Africa nel 2021. La Turchia ha stabilito oggi una rete di 41 ambasciate in Africa e ha intensificato i suoi collegamenti aerei attraverso la sua compagnia Turkish Airlines. In altri termini la sfera di influenza economica che la Turchia sta ponendo in essere nell’Africa subsahariana, attraverso il Maghreb e il Mediterraneo orientale, costituisce un motivo di estrema rilevanza per comprendere

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l’attuale conflittualità tra la Turchia e la Francia. Tuttavia, una lettura esclusivamente geoeconomica non è sufficiente per identificare tutte le questioni in gioco in questo confronto. È necessario sovrapporvi una griglia di lettura geopolitica. In primo luogo, la Turchia, come altre potenze in Medio Oriente (Iran, Emirati Arabi Uniti, Arabia Saudita), sta dispiegando una politica nazionalista che alcuni qualificano addirittura come imperialista o «neo-ottomana» in quanto è accompagnata dall’espansionismo in Siria e Libia ma anche in altre aree quali quelle che abbiamo indicato poc’anzi. In secondo luogo, dal punto di vista strettamente geopolitico, un’altra importante controversia è quella legata alla delimitazione dei confini nel contesto del Mediterraneo orientale. La scoperta di giacimenti di gas ravviva poi queste tensioni. La Convenzione di Montego Bay sul diritto del mare è complessa per quanto riguarda la delimitazione dei confini intorno alle isole. Pertanto, questa delimitazione richiede negoziati bilaterali tra gli Stati della regione, che non possono essere presi in considerazione date le tensioni tra questi Stati: Israele/Libano, Grecia/Turchia, divisione di Cipro. Inoltre, la Turchia non ha ratificato questa convenzione. In terzo luogo, il sostegno militare unilaterale della Francia alla Grecia rientra nel contesto regionale di rivalità tra potenze, in particolare in Libia. Infatti, per numerosi analisti francesi, il fallimento della strategia francese in Libia a seguito della sconfitta del maresciallo Haftar da parte del GNA appoggiato dalla Turchia, è una delle forze trainanti del coinvolgimento militare della Francia nel Mediterraneo orientale. Più in generale, è il paradigma del sostegno della Francia ai partner «appartenenti alla scuola autoritaria» — come Haftar — a essere messo in discussione. Secondo loro, le numerose problematiche della Francia in Libia attestano l’inutilità di questa strategia. L’allineamento della posizione francese con quella degli Emirati è ritenuto mascherato dalla Francia, a causa della politica autoritaria e della scarsa preoccupazione per i diritti umani degli Emirati, di cui l’intervento in Yemen costituisce una evidente dimostrazione. E questo fallimento della diplomazia francese in Libia sta alimentando la postura offensiva della Francia contro la Turchia, che si colloca nel campo opposto. Infine, l’Iraq, dove la Turchia ha lanciato un’offen-

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siva su larga scala nota come «Tiger Claw» nel nord e dove è presente in 35 basi irachene, è un’altra area di rivalità tra i due paesi. Questa offensiva turca sarebbe al centro del desiderio della Francia di essere coinvolta nel paese, come evidenziato dalla visita di Macron il 2 settembre scorso e dalla sua insistenza sul sostegno alla «sovranità dell’Iraq». La Francia ha anche interessi economici in questo paese, in particolare nel settore petrolifero e lo vede come un modo per riguadagnare l’influenza in Medio Oriente dopo il ritiro americano dalla regione. La politica estera di un paese è molto spesso collegata alla sua politica interna. Quest’ultimo aspetto è da tenere in considerazione nell’analisi dello scontro tra Francia e Turchia. Infatti, in passato la Francia ha strumentalizzato l’adesione della Turchia all’UE a fini elettorali. Per esempio il presidente Sarkozy ha fatto del rifiuto di questa adesione un tema della sua campagna elettorale al fine di mobilitare l’elettorato di estrema destra. È possibile che la virulenza delle osservazioni del presidente Macron miri anche a mobilitare l’opinione pubblica. Inoltre, alcuni analisti francesi, hanno visto in esso il desiderio di Macron di ripristinare la sovranità dell’Unione europea e di affermarsi come leader di questo progetto. Rilevano tuttavia che questa strategia ha dei limiti, in quanto il conflitto nel Mediterraneo orientale può concludersi solo con un negoziato tra i turchi e i greci e che probabilmente rafforza la validità della posizione di mediazione della Germania preservandone e consolidandone gli interessi. Da parte turca, questa strumentalizzazione appare chiara. In effetti, il potere dell’AKP sta cercando legittimità mentre la Turchia vive una crisi economica e ha perso la città di Istanbul nelle ultime elezioni. Il sentimento nazionalista turco, particolarmente ancorato nella società turca, significa che anche l’opposizione in Turchia sostiene il potere di Erdogan nella sua escalation con la Francia. La sua strategia si sta quindi rivelando vincente in questa fase, in termini di politica interna. Un’altra variante della conflittualità tra la Francia e la Turchia è individuabile sotto il profilo strettamente militare. La Francia ha risposto all’invio da parte di Istanbul di navi esploratrici scortate schierando anche le sue navi militari e gli aerei Rafale. La Turchia è il secondo più grande Esercito della NATO e quindi riconosce l’impor-

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tanza del sistema di difesa. Inoltre, gli Stati Uniti, a partire dall’amministrazione Obama, stanno cercando di ritirarsi dal Medio Oriente. Ciò è stato accentuato durante la presidenza del presidente Trump. Pertanto, gli Stati Uniti ritengono che la Turchia potrebbe svolgere il ruolo di stabilizzatore del potere nella regione. In quanto tale, la Turchia gode influenza all’interno della NATO. Quanto alla Francia, offre alla Grecia un’alleanza militare che include una componente industriale. L’acquisizione da parte della Grecia di aerei Rafale darà all’Esercito greco un vantaggio rispetto all’Esercito turco. Più in generale, la regione del Mediterraneo orientale sta vivendo una vera corsa agli armamenti che include tutti i paesi tranne, per il momento, Cipro e il Libano. Accanto a questo aspetto militare, la strategia di questi due Stati si basa sull’esercizio dell’influenza e sulla strumentalizzazione degli equilibri di potere all’interno della NATO e dell’UE, giocando sulle divisioni interne. La Turchia può permettersi di fare un ulteriore passo avanti nel Mediterraneo orientale in quanto essa svolge un ruolo centrale nel sistema di difesa della NATO nel Mediterraneo. Alcuni ritengono che «goda di una forma di impunità all’interno della NATO». Di conseguenza, la Turchia sta perseguendo una strategia di tensione sapendo che gli Stati Uniti, che non vedono favorevolmente l’ascesa della Russia nel Mediterraneo orientale, non sembra incline a intervenire. Gli Stati Uniti, infatti, attraverso la mediazione di Mike Pompeo, chiedono una risoluzione pacifica del conflitto. Tuttavia, l’accordo di cooperazione in materia di difesa firmato tra Stati Uniti e Grecia, lo scorso gennaio, ha collocato la Turchia a distanza dal suo alleato privilegiato nella regione. Gli stessi europei sono divisi. Infatti, la vicenda della fregata francese Courbet presa di mira dai radar di una fregata turca sospettata di violare l’embargo sulle armi in Libia è indicativa del debole sostegno dato alla Francia dai suoi alleati nell’ambito della NATO, ma anche dagli Stati membri dell’Unione europea, di cui solo otto l’hanno sostenuta. Infatti, la posizione della Francia è lungi dall’essere la maggioranza, sia sui sintomi della «morte cerebrale» della NATO da essa evidenziata, sia sui rimedi proposti. Questa mancanza di un franco sostegno alla Francia, in particolare da parte dei paesi dell’Unione europea, ha

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varie cause. La prima causa è legata al suo sostegno al generale Haftar in Libia contro il GNA riconosciuto dall’ONU. Inoltre, secondo diversi analisti, i paesi del sud del Mediterraneo, in particolare l’Italia, vedono la Turchia come un partner importante nella gestione dei flussi migratori. Anche l’Italia è in Libia nel campo di supporto del GNA. I paesi dell’Europa orientale considerano anche la Turchia un partner centrale della NATO, per il suo ruolo di contenimento nei confronti della Russia. Anche la Germania considera la questione della migrazione come una questione importante e ha inoltre una grande diaspora turca favorevole all’AKP e agli interessi economici in Turchia. Se è allineato con la Francia per quanto riguarda le preoccupazioni sollevate dall’espansionismo turco, differisce nel metodo e favorisce negoziazioni e sanzioni. Infine, la virulenza della retorica di Macron potrebbe aver suscitato diffidenza tra i suoi partner.

La mobilitazione delle risorse ideologiche da parte della Turchia nel contesto della conflittualità con la Francia La recente tendenza «espansionistica» turca si basa, da un lato su di una «nostalgia» imperiale e dall’altro su un modello economico che, tuttavia, è attrattivo verso l’Africa settentrionale, poiché sembra possedere la giusta miscela tra Islam — fino a ora moderato — e tratti di progresso capitalistico. In particolare si utilizzano i dati storici, e quindi culturali, per fornire una cornice di contesto e di base allo stesso tempo. Per esempio la celebrazione dell’anniversario della vittoria selgiuchide di Manzikert contro l’Impero Romano d’Oriente nel 1071, è stata accompagnata da discorsi nazionalisti con sfumature pan-turche. Questa strategia fa parte del desiderio di migliorare l’immagine dell’AKP. Ma questo pan-turkismo è diretto anche ai turchi fuori dalla Turchia.

Come tale, la diplomazia etno-nazionalista ha ottenuto un certo successo in Libano, che concede la cittadinanza alle poche migliaia di turkmeni nel paese. Il Libano potrebbe costituire un nuovo campo di impegno e manovre diplomatiche per Francia e Turchia. In effetti, in un momento in cui Parigi cerca di essere presente al fianco dei libanesi, Istanbul sta cercando di prendere piede in Libano approfittando dell’emarginazione della comunità sunnita a seguito del disimpegno dell’Arabia Saudita a causa del suo legame con il primo ministro sunnita, Saad Hariri, ritenuto non sufficientemente fermo contro Hezbollah. La Francia ritiene che, a causa delle peculiarità che la legano al Libano (storia, diaspora, lingua francese), sia nella posizione migliore per influenzare la politica di questo paese incoraggiando una migliore governance. Anche la possibilità di una nuova ondata migratoria legata alla crisi economica e istituzionale in Libano è un fattore di questo rinnovato impegno francese. Infine, la normalizzazione delle relazioni tra Emirati, Bahrein e Israele serve alla politica di influenza della Turchia, che si presenta come protettrice dell’Islam sunnita e garante della causa palestinese accanto all’Iran. In definitiva, secondo molti analisti, la Francia, in Africa e in Medio Oriente, manca di una strategia a lungo termine e di una linea chiara. Inoltre, in termini di «guerra economica» in Africa, la Turchia non è l’unica potenza a conquistare i mercati e la Cina è un forte concorrente. Infine, dovremmo chiederci se la Francia ha i mezzi per questa diplomazia offensiva nei confronti della Turchia. In quanto tale, la vendita dei Rafale alla Grecia pone difficoltà all’Aeronautica militare francese, che deve far fronte alla mancanza di aerei per garantire tutte le missioni esterne della nazione. Per quanto riguarda la Turchia, nonostante una diplomazia attiva che mobilita tutti i registri, non è certo che ne uscirà vincente in quanto isolata nel suo ambiente regionale. 8

BIBLIOGRAFIA Christian Harbulot, Le manuel de l’intelligence économique, comprendre la guerre économique, Parigi, PUF, 2015. Béligh Nabli, Géopolitique de la Méditerranée, Parigi, Armond Colin, 2015. Gagliano Giuseppe, Come la Turchia si districa fra Siria e Russia. Il Punto di Gagliano, Startmag, 8 febbraio 2020, https://www.startmag.it/mondo/come-la-turchiasi-districa-fra-siria-e-russia-ipunto-di-gagliano/. Gagliano Giuseppe, Perché Francia e Turchia si fanno la guerra in Libia, Startmag, 25 giugno 2019, https://www.startmag.it/mondo/perche-francia-e-turchia-si-fannola-guerra-in-libia/. Gagliano Giuseppe, Come la Grecia si arma grazie alla Francia in funzione anti Turchia, Startmag, 14 settembre 2020, https://www.startmag.it/mondo/come-la-grecia-si-arma-grazie-alla-francia-in-funzione-anti-turchia/. Ceccarelli Morolli Danilo, Appunti di Geopolitica, Roma, Valore Italiano, 2018, pp. 247-249. Jean Carlo, Savona Paolo, Intelligence economica. Il ciclo dell’informazione nell’era della globalizzazione, Soveria Mannelli, Catanzaro, Rubbettino 2011.

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PRIMO PIANO

LE BOLLE A2/AD Negazione e conquista del Potere Marittimo

Antonello Rocco D’Avenia

Progetto MSDM (Miniature SelfDefense Munition) riguardante la progettazione di un nuovo mini intercettore antimissile aviolanciato dell’USAF (United States Air Force). Tale sistema troverà applicazione principale, ma non esclusiva, su velivoli di grandi dimensioni, lenti e con scarse capacità steatlh che si trovino a operare all’interno o nei pressi di bolle A2/AD (RID).

Capitano di corvetta, appartenente alla Componente sommergibili, è Comandante del SMG Longobardo. Dopo aver frequentato l’Accademia navale dal 2003 al 2008, ha svolto l’incarico di ufficiale di rotta e capo Servizio operazioni sul SMG Gazzana e ufficiale in II del SMG Scirè partecipando a numerose attività nazionali e NATO. Nel 2016 ha partecipato, presso il quartier generale di Northwood-Londra (UK), alla missione europea di antipirateria Atalanta.

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Le bolle A2/AD. Negazione e conquista del Potere Marittimo

La supremazia militare degli Stati Uniti, che può contare su mezzi quantitativamente e qualitativamente superiori a qualsiasi altro paese, ha spinto in risposta, gli Stati competitors a creare aree geografiche strategiche di difficile accesso, definite bolle A2/AD. L’accesso è reso difficoltoso tramite missili basati a terra e su strutture mobili a lunga gittata e soprattutto sfruttando le nuove tecnologie capaci di impedire l’uso dei satelliti. La posizione delle aree A2/AD ha costretto Washington (e di conseguenza la NATO) a rivedere la propria policy d’impiego del proprio strumento militare, spingendo verso quell’integrazione dei domini terra, mare, aria, spazio e cyber, affinché si possa rendere più efficace la capacità dell’expeditionary, non potendo più fare affidamento in toto alle passate certezze delle proprie forward bases.

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ome affermava Alfred Mahan nella seconda metà del 1800: «Chi controlla il mare, controlla le ricchezze del mondo che sul mare si spostano». È un pensiero ancora oggi dominante: solo lo Stato può garantire con lo sviluppo di un’adeguata Marina Militare la necessaria tutela della propria Marina Mercantile, quale vettore di prodotti d’importanza anche vitale per un popolo; e per permettere questi import/export, le navi mercantili e quelle da guerra hanno bisogno di punti d’appoggio, basi logistiche, lungo le rotte verso quei paesi cui sono dirette. Per questo motivo, storicamente, l’ambizione al Potere Marittimo ha fatto sì che una nazione esercitasse una proiezione di potenza su vari territori: la conquista delle colonie oltre che materie prime, garantivano proprio appoggi sicuri con i loro porti e le loro basi navali. Durante la Guerra Fredda poi, il Potere Marittimo dei blocchi sovietici e statunitensi si confrontò nella misura delle forward bases: basi avanzate della propria sfera d’influenza che fornivano sostegno oltremare. Benché l’idea di utilità strategica del territorio alleato che fornisce supporto logistico resti un caposaldo anche nella geopolitica attuale, dopo la caduta del muro di Berlino, in alcuni punti del globo tale concetto ha subito decise evoluzioni e trasformazioni. Oggi, infatti, il mondo multipolare oltre a contare sulle basi avanzate, si confronta anche — e soprattutto — con la capacità dell’expeditionary: manovre di proiezione di potenza lunghe e complesse in cui si tende

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a fare a meno delle proprie forward bases. Questa evoluzione è dovuta principalmente alla diffusione e rapida progressione di tecnologie militari avanzate che hanno aumentato la probabilità di arrecare danni in modo asimmetrico e imprevedibile alle basi poste fuori area. Gli Stati Uniti in particolare, si sono resi conto di dipendere da basi straniere debilitate, la cui vulnerabilità scaturisce da quelle capacità dei paesi avversari che vengono definite «Anti access (A2)»: strategie di livello operativo, che mirano a impedire l’ingresso delle forze americane in un teatro di operazioni, facendo mancare supporto logistico e basi nell’area, a cui si vanno a sommare le capacità definite «Area Denial (AD)»: strategie di livello tattico, che tendono a frenare la libertà di azione e di movimento nelle aree e che comprendono azioni in aria, a terra, sul e sotto il mare. È stato così che molte aree del globo, principalmente antagoniste americane, sono passate da un concetto riduttivo di sea denial, circoscritto all’uso principale di sommergibili e mine, a un concetto molto più ampio come la creazione di bolle A2/AD: aree di diniego non solo dell’uso del mare, ma di area, negata anche ai velivoli e all’uso dei satelliti, grazie a moderni e asimmetrici strumenti bellici d’interdizione come l’intera gamma di missili, jammer («disturbatori di frequenze») che impediscono l’utilizzo dei satelliti, l’uso di agenti chimici, radiologici o biologici, minisommergibili e piccoli mezzi veloci.

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Le bolle A2/AD. Negazione e conquista del Potere Marittimo

La minaccia della proliferazione dei missili balistici per la NATO (nato.int).

La soluzione di risposta che Washington ha attuato è stata quella di evolversi, riducendo la dipendenza da tali basi, prevedibili e vulnerabili, sfruttando tutte quelle tecnologie che includono velivoli a lungo raggio, veicoli aerei senza equipaggio e piattaforme furtive che limitano la quantità di supporto logistico necessario.

La nascita delle bolle A2/AD e loro contesto Nel documento Meeting the Anti-access and Area-Denial Challenge del 2003, l’analista statunitense Andrew Krepinevich sottolinea come minaccia al Potere Marittimo di Washington il pericolo della crescente proliferazione dei servizi satellitari nazionali e commerciali unita allo sviluppo della tecnologia missilistica. Un maggiore accesso a questi servizi satellitari può permettere anche a piccoli Stati (in particolare i Rogue State, «Stati canaglia») in chiara inferiorità marittima rispetto a Washington, di triangolare le infrastrutture fisse e di monitorare quelle mobili statunitensi, poste in basi avanzate. Queste strutture si possono considerare a rischio anche attraverso l’impiego di un numero moderato di missili balistici o da

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crociera. Ma anche senza impiegarli, il semplice possesso e la relativa minaccia possono dissuadere gli Stati Uniti e i suoi alleati ad avvicinarsi con i propri assetti navali, subacquei e aerei presso queste aree o dal rispondere a un’aggressione in prima istanza. Tra gli Stati che hanno attuato tale strategia, c’è l’Iran che rappresenta una minaccia A2/AD nello scacchiere regionale medio-orientale. È da qui che Teheran, con i suoi minisommergibili e le sue motovedette veloci, tende a stringere sempre più il collo di bottiglia dello stretto di Hormuz, il choke point dove passano non solo le enormi navi petroliere che partono dagli Stati rivieraschi del Golfo Persico — quasi tutti facenti parte dell’OPEC (Organization of the Petroleum Exporting Countries) —, ma anche le navi militari americane della quinta flotta con base in Bahrein. In questo scenario, si comprende perché il programma iraniano sullo sviluppo dei missili balistici (in grado di essere vettori nucleari) desta molta preoccupazione in seno alla comunità internazionale, soprattutto dopo il lancio datato aprile 2020, del primo satellite militare iraniano nello spazio.

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Le bolle A2/AD. Negazione e conquista del Potere Marittimo

Gli Stati poi, che per leadership politica, economica e militare, con influenti capacità cyber e informative, tendono a minare in maniera significativa il Potere Marittimo globale statunitense sono la Cina e la Russia, che hanno visto nella realizzazione di bolle A2/AD la possibilità concreta di contrastare il Potere Marittimo statunitense. Per quanto riguarda la Cina, le attività A2/AD vanno lette in un contesto di crescita ed espansione economica e di conseguente evoluzione della postura navale: è sufficiente considerare la protezione che necessita la Nuova Via della Seta marittima oppure il controllo che richiede l’enorme traffico mercantile che attraverso il choke point dello Stretto di Malacca conduce nel Mar Cinese Meridionale. Per quanto riguarda la Russia, le attività A2/AD vanno lette in un particolare contesto geografico, estremamente esteso su diversi mari, dove la sicurezza marittima deve essere garantita su più fronti, molto distanti da loro, dal mar Baltico al Pacifico, dall’Artico al Mar Nero, fino al Mediterraneo orientale: le diverse bolle A2/AD possono fornire protezione e deterrenza in maniera preventiva, lasciando una minaccia stabile in zone di ampio raggio, anche distanti o distaccate dalla madrepatria.

La Cina La strategia marittima della Repubblica Popolare Cinese si confronta con gli avamposti americani o alleati americani, che si trovano proprio in prossimità della costa di Pechino. Parliamo di una strategia marittima che ha creato aree A2/AD a strati, su catene di isole, a partire dalla costa che si affaccia sul Mar Cinese Meridionale: la prima catena, quella più vicina alla Cina continentale è funzionale a limitare principalmente lo Stato insulare ribelle e indipendente della Repubblica di Cina: Taiwan, che dista circa 200 km dal territorio continentale di Pechino. Taiwan è un’isola riconosciuta da pochissimi Stati, la cui indipendenza è legata all’equilibrio di forze in area, equilibrio creato grazie alla presenza americana. In questa fascia di mare si trova l’isola amministrata da Pechino di Hainan dove è presente la base navale di Yulin e dove trovano sede i sottomarini nucleari cinesi; sempre nella prima catena di isole, si trovano le isole Paracel e Spratly, scogli e atolli che aldilà dell’apparenza sono di grande rilevanza: la Cina vi ha costruito dal nulla, strutture portuali

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e due aeroporti: uno nell’isola di Woody Island, uno invece sulle isole artificiali delle Spratly, sulla cui titolarità pende la controversa rivendicazione sia di Taiwan che del Vietnam. L’ammiraglio americano Harry Harris, ex comandante della flotta del Pacifico, definì l’immagine di Grande muraglia di sabbia, per rappresentare i progetti di costruzione di tali isole artificiali. In questa fascia, trova spazio anche la disputa sulle isole disabitate di Senkaku. Esse sono sotto amministrazione giapponese facendo parte della Prefettura di Okinawa, ma sono rivendicate sia da Taiwan sia dalla Repubblica Popolare Cinese. La seconda catena di isole si allarga dalla costa continentale cinese e si incentra sull’arco delle Isole Marianne settentrionali, dove troviamo l’sola di Guam, avamposto di Washington, ufficialmente territorio non incorporato degli Stati Uniti d’America. L’isola è situata a 3.000 km dalla costa cinese (e 3.400 km dalla Korea del Nord), è la base di 6.000 militari statunitensi e dispone di uno scudo antimissilistico. La terza catena di isole, che rappresenta il limite più lontano, dalla costa cinese, arriva fino alle isole Hawaii distanti più di 7.000 km dal grande Stato asiatico. Le distanze tra i vari territori cinesi e americani devono essere misurate con il metro della gittata delle armi posizionate strategicamente su tali terre. E soprattutto, è rilevante il confronto con le gittate delle armi imbarcabili su piattaforme mobili quali navi militari, sommergibili e velivoli a lunga autonomia, che dai porti e dagli aeroporti costruiti su tali isole possono partire. I dati che si leggono sulle agenzie di stampa riguardo alle portate delle armi potrebbero essere soggetti a filtri di propaganda, tuttavia sono la chiave di lettura per leggere e comprendere il trend e la direzione dell’evoluzione tecnologica finalizzata a vincere una «guerra a distanza». I due missili da crociera supersonici anti-nave cinesi l’«YJ-12» e l’«YJ-18» possono colpire bersagli rispettivamente fino a 400 km e 540 km di distanza. Ma la vera novità è che la capacità anti-nave appartenga anche alla categoria dei missili balistici come il «DF-21D» che può colpire navi da guerra a una distanza di 1.500 km, mentre la sua versione migliorata «DF-26» con un’autonomia di 4.000 km può arrivare a colpire le navi di stanza nella base americana di Guam. A queste armi va aggiunta, come strategia A2/AD, quella dei sistemi jammer, armi

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anti-satellitari, che possono interrompere le capacità di comunicazione satellitare e GPS degli Stati Uniti.

La Russia La Federazione Russa, tenendo conto della superiorità militare della NATO, ha sviluppato mezzi asimmetrici funzionali a una politica di Anti access/Area Denial. In particolare, si riscontra come le bolle A2/AD russe siano posizionate geograficamente in posizioni altamente strategiche: nel dettaglio, nella regione dell’Oblast’ di Kaliningrad lungo il mar Baltico, a nord nell’Artico, a sud in Crimea nel Mar Nero e in Siria nel Mediterraneo. Queste aree rappresentano una minaccia per tutte le basi logistiche dei paesi NATO, disseminate tra gli alleati americani: nel Baltico sono prossime a Polonia, Lituania, Estonia e Lettonia, nell’Artico si confrontano oltre che con l’Alaska, con Canada e Norvegia, nel Mar Nero e nel Mediterraneo orientale sono vicine invece a Romania, Bulgaria e Turchia. Considerando la loro posizione geografica e la portata dei sistemi missilistici installati, si comprende perché queste quattro bolle siano d’interesse per i paesi NATO. La portata del missile da crociera anti-nave «P-800 Oniks» lanciato dal sistema di difesa costiera «K-300P Bastion-P» è di 300 km. Il sistema d’arma antiaereo e antimissile «S-400 Triumph» che utilizza il missile guidato a lungo raggio «40N6», ha una portata di 400 km. Esso, schierato in Siria, oltre a essere uno scudo antimissile, rappresenta una minaccia a distanza per i velivoli provenienti dalle portaerei che navigano nel Mediterraneo orientale. Durante le fasi del conflitto siriano nel 2017 inoltre, sono stati lanciati da navi e sommergibili russi missili da crociera «Kalibr» con una portata di circa 1.500 km contro bersagli terrestri. Per quanto riguarda i missili balistici, la sfida tra Russia e Stati Uniti è decisamente nota: dalla crisi di Cuba del 1962 a quella degli euromissili degli anni Ottanta. La sfida e l’escalation di tali armi, che tanto hanno spaventato durante la Guerra Fredda, hanno conosciuto però due importanti frenate storiche: la prima è stata lo sviluppo affidabile dello scudo che fornivano i missili antiaerei e antimissile, come per esempio i «Patriot» americani che con i loro 100 km di gittata ne hanno diminuito la minaccia e la deterrenza, la seconda invece,

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è stata la firma del trattato INF (Intermediate-Range Nuclear Forces Treaty): un trattato di controllo degli armamenti tra gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica (ereditato poi dalla Federazione Russa) firmato sul finire della Guerra Fredda tra l’allora presidente degli Stati Uniti Ronald Reagan e il segretario generale sovietico Mikhail Gorbachev. Tuttavia, nel corso del 2019 gli Stati Uniti prima e la Russia poi, hanno sospeso e poi formalmente ritirato tale trattato. A riguardo, c’è da dire che se è vero che un impegno generato in un mondo bipolare può anche sembrare anacronistico oggi dove altri Stati come la Cina possono crescere senza limiti in armamenti, sarebbe comunque opportuno ridiscutere i termini del Trattato con tutti gli attori protagonisti del mondo odierno multipolare. Infine, come strumento A2/AD, la Russia utilizza anche i sistemi «Krasukha», progettati per bloccare i radar nell’aria, e soprattutto utilizza dispositivi jamming anti-satellitari di guerra elettronica mobile «UAV» (Unmanned Air Vehicle), come il «RB-341V-Leer-3».

La risposta americana (e NATO) Gli Stati Uniti, per far fronte alle minacce descritte delle bolle A2/AD, hanno scelto di ricorrere all’uso della cosiddetta «MDB» (Multi-Domain Battle): articolate manovre combinate che permetteranno operazioni attraverso l’aria, il mare, la terra, lo spazio e il cyber. Esempi possono essere intromissioni informatiche per interrompere una batteria antiaerea nemica, droni aerei e subacquei oppure armi a lungo raggio terrestri che si proiettano nei domini marittimo e aereo. La strategia marittima degli Stati Uniti in risposta alla minaccia rappresentata dalle capacità A2/AD della Cina ha visto rinforzare la cooperazione con gli Stati che si affacciano sul Mar Cinese Meridionale, oltre che tecnologie di difesa aerea e missilistica certamente migliorate. Nell’isola di Guam, l’USAF (United States Air Force) ha iniziato una politica di sostituzione dei bombardieri strategici come il «B-52H», che tanta fortuna hanno avuto come deterrenza negli anni della Guerra Fredda, con gli «UCAV» (Unmanned Combat Aerial Vehicle), decisamente più idonei a essere utilizzati

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Architettura Ballistic Missile Defense (BMD) della NATO (nato.int).

nella nuova stratificata geografia della regione. L’US Navy punta inoltre sulle capacità anti-satellitari e capacità di cyberwarfare quali strumenti utili a neutralizzare i satelliti militari e civili avversari invalidando quella capacità di targeting a distanza che permette la negazione di area. A livello dei paesi alleati, l’architettura NATO denominata «BMD» (Ballistic Missile Defense) è strutturata su una serie di postazioni, fisse e mobili, con lo scopo di dare copertura e protezione anche a tutte le forze europee NATO contro la proliferazione dei missili balistici. A livello terrestre, il radar «AN/TPY-2» fa parte del sistema «THAAD» (Terminal High Altitude Area Defence), un sistema mobile capace di intercettare missili balistici a corto e medio raggio. A livello marittimo, il radar «AN/SPY-1» fa parte del sistema «Aegis BMD» ed è dispiegato sia su navi americane che pattugliano il Mediterraneo con base a Rota, in Spagna, sia a terra

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nella versione «Aegis Ashore» nelle basi di Deveselu in Romania e presto a Redzikowo in Polonia. Questi sono sistemi antimissile con portate decisamente maggiori rispetto ai pur sempre collaudati e affidabili missili «Patriot Pac-3»: il «Raython Standard Missile 3» del sistema «AEGIS» ha una gittata di 500 km, confrontabile con il sistema antimissile S-400 russo. La minaccia A2/AD russa potrebbe spingere la NATO a creare nel Nord Europa un Comando artico e continuare a investire su tecnologie che riguardano i velivoli da pattugliamento a maggiore autonomia o i caccia bombardieri «F-35» che tra i punti di forza non hanno soltanto la moderna suite avionica dei sensori di bordo, ma anche se non soprattutto — nella sua versione a decollo corto e atterraggio verticale (STOVL) imbarcabile su portaerei —, la capacità di proiezione dal mare con rapido intervento in aree con limitata disponibilità di infrastrutture.

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Lancio di un missile superficie-aria «Raytheon SM 3» del sistema «AEGIS» imbarcato sull'incrociatore lanciamissili statunitense USS LAKE ERIE (CG 70) appartenente alla classe «Ticonderoga» (nato.int).

Conclusioni Il primato militare degli Stati Uniti, che vede nella superiorità aerea proiettabile dalle sue 10 (a breve 11) portaerei un suo centro di gravità, può contare sia su mezzi quantitativamente e qualitativamente superiori a qualsiasi altro paese sia su basi logistiche proprie o alleate in tutto il globo. Questo ha spinto, in risposta, gli Stati competitors a creare aree geografiche strategiche di difficile accesso definite bolle A2/AD, capaci di limitare la libertà di azione navale e aerea. L’accesso viene reso difficoltoso tramite missili sia balistici sia da crociera, basati a terra e su strutture mobili, di tipo antinave e di tipo antiaereo/antimissile, a lunga gittata e a lunga autonomia, e soprattutto utilizzabili in combinazione alle nuove tecnologie cyber e all’uso dei satelliti che diventano così armi non più impossibili da possedere e target invece possibili da invalidare.

A questi poi, vanno aggiunti e non dimenticati i sempre insidiosi mezzi navali di piccolo tonnellaggio veloci e maneggevoli e i minisommergibili. Washington e di conseguenza la NATO hanno dovuto rivedere la propria policy di impiego del proprio strumento militare, spingendo verso quell’integrazione dei domini terra, mare, aria, spazio e cyber, affinché si possa rendere più efficace la capacità dell’expeditionary, non potendo più fare affidamento in toto alle passate certezze delle proprie forward bases, ormai troppo facilmente vulnerabili. Comprendere le bolle A2/AD vuol dire possedere la chiave di lettura che permette di cogliere il trend tecnologico delle nuove armi e le nuove policy di impiego finalizzate alla conquista o alla negazione del medesimo scopo di sempre: il Potere Marittimo, tra i principali attori geopolitici. 8

BIBLIOGRAFIA Andrew Krepinevich, Barry Watts, Robert Work, Meeting the Anti-access and Area-Denial Challenge, CSBA, Washington 2003, https://csbaonline.org/research/publications/a2ad-anti-access-area-denial/. Massimo Annati, Battere la strategia Anti Access/Area Denial, RID, febbraio 2014. Francesco Palmas, L’Iran e le capacità A2/AD. Quale futuro per Hormuz?, Panorama Difesa, marzo 2016. Cristiano Martorella, La difesa A2/AD del Giappone, Panorama Difesa, dicembre 2016. Francesco Zampieri, Maritime cybersecurity e maritime cyberwarfare, Rivista Marittima, novembre 2019. Vittorio Pagliaro, Hormuz e la guerra circoscritta, Rivista Marittima, febbraio 2020. Andrea Mottola, L’Arsenale missilistico iraniano, RID, maggio 2020. Paolo Mauri, Le “bolle difensive” della Russia che preoccupano l’Occidente, 6 ottobre 2017, https://it.insideover.com/guerra/le-bolle-difensive-della-russia-preoccupano-loccidente.html. Lorenzo Di Muro, La sfida cinese alla superpotenza passa per Malacca, La gerarchia delle onde, Limes, 7/2019. Treccani, Atlante geopolitico 2017, Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma 2017, pp.282-294, pp.844-848. NATO Ballistic Missile Defence, www.nato.int/cps/en/natohq/photos_112331.htm.

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PRIMO PIANO

COMPITI DEI PILOTI D’ELICOTTERO Carico cognitivo e ruolo dei riferimenti visivi esterni durante gli appontaggi su unità navali

Andrea Pingitore (*) Luca Pietrantoni (**)

(*) Ufficiale pilota sperimentatore della Marina Militare, attualmente comandante in II di nave Caio Duilio. Ha comandato il Centro sperimentale aeromarittimo, dove in precedenza ha ricoperto anche l’incarico di capo Settore prove. Brevettatosi Experimental Test Pilot presso la prestigiosa US Naval Test Pilot School di Patuxent River (Stati Uniti), in precedenza ha ricoperto l’incarico di capo Ufficio comando e Aiutante di bandiera presso il Comando delle Forze aeree della Marina. Ha comandato il cacciamine Vieste, dopo essere stato assegnato al Reparto eliassalto del 4° Gruppo elicotteri quale pilota specializzato in operazioni anfibie e speciali. È stato impiegato quale pilota di elicottero in numerosi teatri operativi e missioni umanitarie, in Afghanistan, Libano, L’Aquila e Haiti, oltre che quale membro dello staff della Protezione Civile per l’organizzazione del grande evento «G8» a La Maddalena/L’Aquila. È laureato in Scienze politiche, indirizzo internazionale e ha conseguito tre Master di II livello nell’ambito della Sicurezza internazionale, Studi strategici e Pubblica amministrazione. (**) Professore ordinario di Psicologia del Lavoro e delle organizzazioni al Dipartimento di Psicologia dell’Alma Mater Studiorum, Università di Bologna. È coordinatore del Corso di Laurea Magistrale internazionale in Work and Organizational Psychology. Dal 2015 guida un gruppo di ricerca sui temi dei fattori umani e della sicurezza. È stato responsabile scientifico di progetti di ricerca e innovazione sui temi legati all’interazione tra lavoro e tecnologie, all’ergonomia e alla gestione comportamentale del rischio e della sicurezza. Attualmente è coordinatore del Progetto Horizon 2020 «H-WORK» finanziato dalla Commissione europea sui temi della salute occupazionale. È stato responsabile del progetto di ricerca industriale NUCLEON sullo sviluppo di interfacce in una prospettiva user-centric. Ha svolto attività di docenza e formazione per diverse istituzioni pubbliche (Frontex, Accademia militare di Modena) ed enti privati. Ha pubblicato su riviste quali Accident Analysis & Prevention, Risk Analysis e Frontiers in Psychology.

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Figura 1: sistemi di illuminazione e segnaletica standard NATO (NATO MPP 02 Helicopter Operations from Ships other Than Aircraft Carriers - HOSTAC). In alto: Pilota Sperimentatore del CSA (CF Luca Moro) in volo su MH-90A durante attività decolli/appontaggi su nave CAVOUR. Nell’immagine centrale: validazione dei limiti di impiego del sistema secondario di movimentazione automatica elicottero NH-90 (Secondary Traversing System - STS) su classe FREMM.

A

ppontare su una nave militare è una manovra, dal punto di vista cognitivo, estremamente complessa poiché richiede diverse abilità specifiche all’ambiente aeromarittimo. Valutare la quota e la velocità al suolo osservando esclusivamente la superficie del mare sotto l’elicottero è molto più complicato rispetto al più stabile contesto terrestre, poiché i riferimenti visivi esterni (visual cues) sono molto più limitati e la visibilità e chiarezza dei riferimenti possono essere ulteriormente affetti da fenomeni come la nebbia, il cd. sea spray dovuto all’effetto del rotore sul mare e le condizioni di poca illuminazione notturna.

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In tale contesto, gli ausili luminosi (Figura 1) risultano essere vitali per i piloti in quanto forniscono fondamentali punti di riferimento che delimitano le aree di sicurezza per l’appontaggio, e aiutano il pilota a valutare la posizione della nave, il suo moto e la distanza dall’elicottero. Un’efficace gestione delle risorse di tutto l’equipaggio (crew resource management), la lettura accurata degli strumenti nel cockpit, così come il monitoraggio dell’ambiente esterno sono tutti elementi cruciali per un appontaggio effettuato con successo. In generale, sono 3 i componenti dell’equipaggio di un elicottero durante le operazioni militari su mare, di

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Compiti dei piloti di elicottero, carico cognitivo e ruolo dei riferimenti visivi esterni...

cui 2 piloti seduti nel cockpit e un operatore di volo in cabina dedicato all’impiego dei sensori. Per operazioni più complesse i componenti dell’equipaggio diventano 4, aggiungendo un secondo operatore di volo quale operatore per la situazione tattica per le missioni di tipo ASW (Anti-Submarine Warfare) o ASuW (Anti Surface Warfare), o responsabile di cabina per le operazioni anfibie o speciali. Uno dei due piloti mantiene sempre i comandi di volo mentre l’altro pilota, assieme all’operatore di volo, forniscono assistenza e tutte le necessarie informazioni per coadiuvare il pilota ai comandi. L’equipaggio deve costantemente mantenere la corretta consapevolezza situazionale (Situational Awareness) processando le numerose variabili che si presentano contemporaneamente e ciò comporta situazioni di elevato carico di lavoro. Uno dei primi studi sul carico cognitivo dei piloti di elicotteri (Roscoe & Ellis, 1990) suggerisce che i piloti, normalmente, considerano il carico di lavoro come «capacità residua». La capacità residua viene definita come l’abilità del pilota di condurre task secondari, come per esempio monitorare gli strumenti di volo ed effettuare le comunicazioni radio, mentre controlla l’elicottero come task principale. Maggiore è il carico di lavoro indotto dal task principale, minore è la capacità residua per portare a termine i task secondari. Inoltre, lo sforzo generato per il task principale può aumentare sensibilmente in condizioni meteorologiche avverse, in particolare quando la visibilità è ridotta e in presenza di vento forte, e la soglia per il sovraccarico cognitivo può ridursi in relazione allo stato psicofisiologico del pilota. In altre parole, quando la situazione diventa complessa e il pilota è sottoposto a stress e fatica prolungati, il carico di lavoro può superare le capacità del pilota risultando in un calo della Situational Awareness. Una Situational Awareness insufficiente è stata identificata come il primo fattore contribuente a incidenti di volo su elicotteri causati da errore umano. La fase finale dell’appontaggio è stata identificata come la più complessa in relazione al carico di lavoro del pilota, il quale deve necessariamente essere molto preciso nel manovrare l’elicottero in una specifica posizione all’interno del cerchio di appontaggio. Una volta che l’elicottero raggiunge la corretta posizione, il pilota, mantenendo il volo stazionario (hover), deve saper leggere correttamente il movi-

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mento della nave in rollio e beccheggio, scegliendo il momento giusto per iniziare la discesa ed effettuare l’appontaggio. Le condizioni dinamiche attorno alla nave sono caratterizzate da criticità specifiche, quali per esempio lo spazio limitato del ponte di volo, il continuo movimento (spostamento in avanti, rollio e beccheggio) e la variazione delle condizioni aerodinamiche dovute al flusso di aria instabile a causa delle sovrastrutture della nave e dei gas di scarico. Il flusso dell’aria viene definito come una combinazione di varie correnti sopra e attorno alle sovrastrutture e al ponte di volo, quale risultato dell’effetto del vento e del movimento della nave. La natura e la severità del fenomeno variano significativamente in base a direzione e intensità del vento e alla geometria della nave. Elevata turbolenza causata da un flusso d’aria instabile rende ancor più complicato il mantenimento dell’elicottero correttamente allineato con la nave e in posizione stabile di hover.

Il presente studio Il presente documento fa parte di un più ampio progetto multidisciplinare che ha lo scopo di sviluppare una tecnologia innovativa per quanto riguarda gli ausili visivi per ridurre il carico di lavoro dei piloti, aumentarne la Situational Awareness e la sicurezza generale durante gli appontaggi sulle navi. Da una prospettiva di design incentrato sull’uomo, comprendere i fattori umani quali il workload cognitivo dei piloti, l’orientamento spaziale e l’allocazione delle risorse cognitive, diventa fondamentale per l’appropriato design di un sistema. Inoltre, la valutazione sulle necessità dei piloti e requisiti per la funzionalità dei sistemi è vitale per il loro impiego corretto, accettazione e fiducia da parte degli utenti finali, favorendo la sicurezza e mitigando potenziali utilizzi non corretti o inutilizzi della tecnologia. Sebbene limitata, è possibile trovare della letteratura che esplora i fattori umani, gli ausili visivi e altri aspetti legati all’appontaggio di un elicottero su una nave. Per esempio, nel 1991 sono state condotte una serie di analisi e osservazioni su due piloti in un simulatore di volo, i quali hanno fornito una descrizione dettagliata della manovra di appontaggio, dall’avvicinamento a 5 miglia nautiche dalla nave fino all’ultima fase, assieme a un elenco degli ausili visivi che i piloti impiegavano durante

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ogni fase. Lo studio ha rivelato che i piloti utilizzavano principalmente gli strumenti di volo nel cockpit durante la prima metà della manovra, mentre gli ausili visivi esterni li guidavano nella seconda metà fino all’appontaggio. Un ulteriore studio di Hoencamp (1) nel 2008 riporta le risposte di vari piloti al questionario sulla rilevanza di fattori differenti durante l’appontaggio di un elicottero su una nave. I piloti hanno valutato che le condizioni di vento relativo (intensità e direzione del vento relativamente al moto della nave), il peso dell’elicottero e il rollio della nave fossero i fattori che incidevano in modo più critico sulla complessità della manovra di appontaggio sia in arco diurno che notturno. Inoltre, sono stati evidenziati i fattori umani, il ruolo dei riferimenti visivi e dell’automazione nell’elicottero, con un particolare focus sugli aeromobili con singolo pilota. Gli autori hanno sottolineato la necessità di migliorare e aumentare l’efficacia dei riferimenti visivi esterni per i piloti, in particolare durante le fasi finali di un appontaggio, quando l’elicottero raggiunge l’ambiente dinamico della nave. Un recente studio di Minotra e Feigh (2) del 2018 si è soffermato maggiormente sui processi cognitivi dei piloti durante le operazioni a bordo di una nave, effettuando interviste a quattro piloti di elicottero dopo averli sottoposti alla cosiddetta Applied Cognitive Task Analysis (ACTA). Essi hanno fornito una dettagliata descrizione dei vari step durante l’appontaggio e hanno identificato i compiti cruciali, ad elevato carico cognitivo, durante ogni fase in cui è richiesto un cospicuo livello di esperienza, mettendo a sistema le limitazioni e le criticità sulla sicurezza legate all’attuale tecnologia in uso. Il presente studio mira ad ampliare le conoscenze sui fattori che influenzano le prestazioni dei piloti di elicottero durante l’appontaggio sulle navi. Inoltre, verranno proposte alcune raccomandazioni al fine di migliorare i riferimenti visivi con l’obiettivo di aumentare la Situational Awareness dei piloti, diminuire il loro carico cognitivo e accrescere la sicurezza generale durante le operazioni di volo a bordo delle unità navali.

Il metodo Attività di Ship-Helicopter Operating Limitations (SHOL) su nave CAVOUR, con impiego di zavorra e del «Sistema Acquisizione, Registrazione, Analisi Dati» (SARAD) in telemetria.

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In questo studio è stato adottato un approccio di tipo esplorativo-qualitativo. Sono stati intervistati dieci piloti della Marina Militare Italiana, tutti di sesso maschile e

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Attività di Ship-Helicopter Operating Limitations (SHOL) sullo Spot SAR di nave CAVOUR, con elicottero MH-90A.

con diversi livelli di esperienza di volo, tra le 500 e le 2.300 ore di volo (media= 1.387 ore, deviazione standard= 654,6), abilitati su due diversi tipi di elicottero (EH-101 e NH-90). Sono state effettuate, in due giorni, interviste semi-strutturate ai piloti della durata di 90 minuti ciascuna con la presenza di almeno due ricercatori qualificati per intervista. Ogni intervista è stata registrata, trascritta e analizzata utilizzando il cosiddetto metodo di analisi dei contenuti per dati qualitativi (Content analysis method for qualitative data - Hsieh & Shannon, 2005). Precedenti studi avevano utilizzato altri metodi, come per esempio il Task analysis in the field of rotorcraft research (Minotra & Feigh, 2018), ma nel caso specifico si è preferito l’utilizzo dell’approccio ACTA per il protocollo delle interviste, specificatamente adattato ai piloti di elicottero. In accordo con la recente letteratura, si è voluto ampliare le precedenti ricerche nelle seguenti aree: a) lo sforzo del pilota durante la manovra di appontaggio e la descrizione degli elementi più critici dal punto di vista cognitivo, al fine di identificare i compiti cruciali che contribuiscono al carico di lavoro del pilota durante ogni fase; b) i principali riferimenti visivi interni ed esterni che il pilota sfrutta durante le differenti fasi dell’appontag-

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gio, per comprendere quali siano le informazioni che servono al pilota per completare con successo la manovra; c) i potenziali miglioramenti agli ausili luminosi visivi della nave, che possano facilitare l’acquisizione dei corretti riferimenti per il pilota. Nella prima parte è stato chiesto ai piloti di descrivere la manovra dell’appontaggio in un numero di fasi da 3 a 6 ed evidenziare le difficoltà specifiche per ogni fase in merito al carico cognitivo. Le domande specifiche di questa parte sono state: «Immagini di dover appontare su una nave con condizioni meteorologiche buone, può suddividere la manovra in un numero di fasi che va da 3 a 6?»; Quale delle fasi che ha identificato considera la più complessa dal punto di vista cognitivo e perché?». Successivamente, si è indagato sui riferimenti visivi interni ed esterni e le informazioni cruciali per consentire al pilota di completare la manovra. Le domande specifiche per questa parte sono state: «Quali informazioni provenienti dagli strumenti all’interno del cockpit sono cruciali per poter eseguire con successo ogni fase della manovra di appontaggio?»; «Quali riferimenti visivi esterni sono fondamentali per completare la manovra?». Infine, è stato esplorato il potenziale miglioramento

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degli ausili luminosi visivi che possano aiutare il pilota nell’orientamento spaziale e nel posizionare l’elicottero correttamente. Ai piloti è stato chiesto di fornire alcune raccomandazioni in merito a miglioramenti di contenuti, design e rappresentazione dei riferimenti visivi in modo da ridurre sostanzialmente il carico cognitivo del pilota e facilitare la manovra di appontaggio, in particolar modo nella fase finale. La domanda specifica per questa parte è stata: «Ha qualche suggerimento per il miglioramento degli ausili visivi luminosi in appontaggio, e della tecnologia attualmente in uso al fine di facilitare la manovra di appontaggio?».

I risultati Descrizione della manovra, elementi cognitivi critici e principali riferimenti visivi I piloti hanno descritto la procedura di appontaggio in diverse fasi e alcuni hanno fornito una descrizione più dettagliata rispetto ad altri. Nello studio sono stati analizzati i dati provenienti da tutte le interviste ai piloti, integrandoli in una descrizione esaustiva della procedura di appontaggio, evidenziando i principali riferimenti visivi esterni e interni e gli elementi cognitivi critici per ogni fase. 1) Individuare visivamente la nave, ricercare i punti di riferimento visivi esterni Il primo compito per il pilota è localizzare visivamente la nave, il quale si è rivelato un compito particolarmente complesso. Esso può essere facilitato mediante l’impiego dell’apparato Tactical Air Navigation system (TACAN) che permette di localizzare la nave fornendo rilevamento e distanza da essa. Tuttavia, il TACAN non è sempre disponibile sulle navi o il suo impiego non è consentito durante alcune missioni specifiche in cui la nave deve rimanere occulta. Pertanto, in tali occasioni i piloti devono fare affidamento esclusivamente sui dati forniti dal GPS. È importante fare menzione che la maggior parte dei piloti intervistati avevano un background di operazioni speciali. Gli elicotteri configurati per operazioni speciali spesso non sono equipaggiati con un radar di navigazione in grado di fornire ai piloti informazioni aggiuntive sulla posizione della nave, la distanza e i suoi elementi del moto

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(rotta e velocità). In particolar modo di notte, o quando le condizioni meteorologiche non sono favorevoli, può risultare molto complicato localizzare la nave. «Uno dei compiti più complessi è localizzare la nave, e talvolta per periodi anche lunghi dobbiamo fare affidamento esclusivamente sui dati del sistema di navigazione GPS». 2) La discesa verso il sentiero di avvicinamento Una volta localizzata la nave, il pilota inizia la discesa basandosi sulle informazioni fornite dagli strumenti di volo nel cockpit e in accordo con le pertinenti procedure operative. Durante questa fase viene stabilita la comunicazione radio con il Flight Deck Officer (FDO), che fornisce al pilota diverse informazioni, quali rotta e velocità della nave, movimenti della piattaforma (rollio e beccheggio) e condizioni ambientali (vento assoluto e relativo), necessarie ad impostare la manovra di avvicinamento all’Unità. Successivamente il pilota riceve l’autorizzazione ad appontare e, in caso di ponte di volo multispot, l’esatto spot di appontaggio. L’informazione più importante è data dal vento relativo, espresso in termini di velocità e differenza di gradi rispetto alla rotta nave. In una fase precedente, quando in contatto con il controllore di volo della nave, il pilota fornisce informazioni relative al tipo di elicottero, la posizione e la quota, il carburante residuo, le persone a bordo, l’armamento e ogni altra informazione che può essere rilevante per l’appontaggio. Tutti i piloti intervistati hanno, inoltre, sottolineato che l’informazione che ricevono dal FDO relativamente alla rotta e velocità della nave risulta essere fondamentale per il corretto allineamento dell’elicottero. I riferimenti visivi e gli strumenti che i piloti impiegano durante le varie fasi dell’appontaggio sono riportati in Tabella 1 (pagina 77). In generale, l’avvicinamento è maggiormente guidato dagli strumenti di volo nel cockpit fino a una distanza di 0,5 miglia nautiche dalla nave. Mentre in alcuni elicotteri tutte le informazioni necessarie sono integrate in un singolo schermo, in altri queste informazioni sono distribuite nel cockpit, aumentando il carico cognitivo per il pilota (e.g. su AB-212, precisando che, come detto, sono stati intervistati solo piloti di EH101 e NH-90). «Nelle prime fasi, il volo è quasi completamente

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della nave sono chiaramente visibili dal pilota. Il riferimento visivo maggiormente usato in questa fase è il cosiddetto «sentiero di avvicinamento» o Glide Slope Indicator (GSI), assieme alle luci per l’allineamento all’appontaggio (Landing Line-up Lights). Il GSI è un sistema luminoso di riferimento visivo che fornisce al pilota l’indicazione del corretto angolo di discesa verso la nave ed è gestito dal FDO, che ne cura il settaggio, l’accensione e lo spegnimento. Il sistema emette un fascio luminoso a 3 colori (verde, ambra e rosso) e il pilota deve seguire la luce verde per ottenere una discesa corretta. Uno dei piloti ha affermato che il GSI è cruciale per un avvicinamento corretto, ma generalmente viene richiesto al FDO di spegnerlo quando l’elicottero è in prossimità del ponte in modo da potersi concentrare sulla segnaletica luminosa che delimita l’area di appontaggio e sulle indicazioni di precisione fornite dal personale di assistenza sul ponte di volo. A questo punto il pilota si smista verso un tipo di volo principalmente a vista e ciò rappresenta un ulteriore elemento complesso da un punto di vista cognitivo. «Cambiare da informazioni interne strumentali a una visione esclusivamente esterna può causare un pericoloso disorientamento spaziale». Il compito del copilota è di monitorare gli strumenti del cockpit e comunicare ogni informazione rilevante per il pilota ai comandi, in particolare il rateo di avvicinamento, la velocità verticale e la quota. Uno dei piloti intervistati ha sottolineato come sia essenziale per il pilota ai comandi orientare la propria attenzione fuori dal cockpit man mano che l’elicottero si avvicina alla nave, mentre continuare a fornire informazioni provenienti dagli strumenti nel cockpit diventa il compito principale del copilota. 4) Entrare sul ponte di volo della nave e posizionarsi sopra il cerchio di atterraggio Attività di prova rifornimento in hover (Helicopter In-Flight Refueling - HIFR) con elicottero SH-90A su classe I piloti hanno affermato che nella «Orizzonte». Nella pagina accanto: Pilota Sperimentatore e Comandante del CSA (CF Andrea Pingitore). maggior parte delle operazioni ma-

strumentale, specialmente di notte. Avvicinandosi alla nave è importante che il pilota non ai comandi di volo mantenga il controllo di ciò che avviene all’interno del cockpit, mentre il pilota ai comandi deve smistarsi sui riferimenti che provengono dall’esterno». 3) Seguire il sentiero di avvicinamento fino al ponte di volo smistandosi sul volo a vista con riferimenti visivi prevalentemente esterni I piloti devono identificare visivamente il ponte di volo prima che l’elicottero arrivi al punto di mancato avvicinamento (circa mezzo miglio nautico dalla nave). Giunti in questa posizione, nel caso in cui non sia stato possibile stabilire il contatto visivo con l’unità l’avvicinamento dovrà essere interrotto, effettuando la manovra di riattaccata per poi prepararsi per un secondo avvicinamento. Durante questa fase i piloti si concentrano principalmente sul mantenimento della velocità e della quota e, una volta acquisiti gli opportuni riferimenti visivi, spostano la loro attenzione verso il rateo di avvicinamento, ovvero la velocità relativa dell’elicottero rispetto alla nave, che viene normalmente calcolato dal copilota. Il cambio con il volo prevalentemente a vista avviene quando i riferimenti

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rittime, un membro dell’equipaggio (l’operatore di volo) è seduto in cabina e in questa fase ha il ruolo di fornire indicazioni al pilota in merito alla posizione dell’elicottero rispetto al ponte di volo, informando sulla distanza dei carrelli principali dal ponte e segnalando quando la fusoliera e la coda dell’elicottero entrano nella zona sicura libera da ostacoli, al fine di evitare impatti con le strutture della nave. «Vi è una comunicazione tra il pilota e il copilota e una tra il pilota e l’operatore in cabina il quale ha un campo visivo maggiore rispetto ai piloti, in particolare sull’elicottero EH-101 che ha una lunghezza di circa 20 metri. Il pilota è seduto davanti e le ruote dei carrelli principali si trovano circa 10 metri indietro, quindi l’operatore in prossimità del portellone in cabina, che si trova più o meno al centro della fusoliera, è in grado di visualizzare molto meglio la posizione dell’elicottero». Al fine di posizionare correttamente l’elicottero, i piloti si orientano utilizzando la segnaletica e l’illuminazione sul ponte. Tuttavia, è essenziale mantenere una quota sul ponte di 10-15 piedi affinché il pilota possa vedere la segnaletica e l’illuminazione poiché il campo visivo è particolarmente ristretto dal pannello degli strumenti, soprattutto su elicotteri di nuova generazione, per tali motivi diventa fondamentale il ruolo dell’operatore in cabina. Uno dei piloti ha affermato che sebbene normalmente la presenza dell’operatore di volo è garantita in cabina, in alcuni casi le operazioni di volo devono essere condotte senza la loro presenza e assistenza. In questo caso il pilota deve contare esclusivamente sui riferimenti rappresentati dalla segnaletica e illuminazione orizzontale. Durante questa fase le comunicazioni tra l’equipaggio sono normalmente intensificate, mentre quelle con la nave sono ridotte ai soli eventuali motivi di emergenza in quanto ricevere ulteriori informazioni dalla nave può essere addirittura controproducente.

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«Alcune volte può essere fastidioso comunicare con l’FDO perché oltre alle comunicazioni con la nave, il pilota deve comunicare con il copilota che fornisce le informazioni degli strumenti di volo e con l’operatore in cabina che dà indicazioni sulla posizione, quindi durante la fase finale dell’appontaggio le comunicazioni esterne all’elicottero possono disturbare molto. In particolare quando si deve gestire un’emergenza, una comunicazione esterna nel momento sbagliato è estremamente controproducente». Questa fase richiede un elevato carico di lavoro in quanto il pilota deve integrare informazioni provenienti da diverse fonti, effettuando il cosiddetto «controllo incrociato» che richiede un elevato livello di esperienza e consapevolezza situazionale da parte del pilota. «Due fattori sono fondamentali qui, la manualità nel pilotare l’elicottero e la capacità di effettuare numerose operazioni contemporaneamente. Il controllo incrociato consiste nel valorizzare le informazioni provenienti dai diversi strumenti di volo, assieme alla posizione dell’elicottero rispetto alla nave e all’ambiente esterno. Naturalmente, piloti meno esperti sono più lenti a effettuare questo controllo incrociato, rispetto a piloti più esperti». 5) Hovering sul punto di appontaggio con rateo di avvicinamento alla nave nullo Il compito principale in questa fase è stabilizzare l’elicottero nella posizione corretta e prepararsi per la discesa finale. I piloti normalmente raggiungono il ponte di volo a una quota di 15-20 piedi e successivamente scendono a un hover più basso, a circa 10 piedi sopra il cerchio di appontaggio. Le navi più moderne sono dotate di barre per l’orizzonte artificiale (Horizon Reference Bar - HRB) situate normalmente sopra il portellone dell’hangar. Le HRB sono giro-stabilizzate in modo da rimanere sempre orizzontali e rappresentare la linea dell’orizzonte talvolta più visibile. Le interviste hanno evidenziato come in condizioni diurne i piloti

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possono facilmente osservare l’orizzonte vero, mentre di notte o in condizioni di scarsa visibilità le HRB diventano fondamentali per apprezzare il rollio della nave. I piloti possono usare le HRB e le luci che delimitano l’area di appontaggio per correggere l’assetto dell’elicottero e identificare il momento corretto per iniziare la discesa verso l’appontaggio. Inoltre, sono molto utili per evitare di seguire con l’elicottero il movimento della nave, il quale, a detta dei piloti intervistati, rappresenta l’errore più frequente da parte dei piloti più giovani. «Un errore comune che i piloti con poca esperienza commettono è variare l’assetto dell’elicottero seguendo il rollio della nave mentre dovrebbero mantenersi in linea con l’orizzonte reale. Poiché in questa fase è necessario guardare sempre fuori dal cockpit e non è possibile seguire costantemente l’orizzonte artificiale all’interno, il punto di riferimento diventa la nave, mentre invece dovrebbe essere l’orizzonte reale». I piloti devono monitorare il corretto posizionamento dell’elicottero sopra il cerchio di appontaggio e essere consapevoli del movimento della nave. Diventa fondamentale qui mantenere un elevato livello di Situational Awareness e individuare il periodo di oscillazione del ponte e, anticipando il momento di maggiore stabilità completare la manovra. «Non è affatto semplice individuare il momento giusto per la discesa finale, è una fase in cui il carico di lavoro è molto alto». 6) La discesa verticale fino al contatto con il ponte di volo La fase finale è allo stesso tempo la più veloce e la più critica per quanto riguarda la sicurezza, in particolare in condizioni meteorologiche avverse. Una volta che viene impostata la discesa, il pilota deve mantenere un rateo costante e idoneo ad assicurare il giusto impatto con il ponte ed evitare qualsiasi danno all’elicottero.. Inoltre, considerando che gli elicotteri hanno generalmente in hover un assetto a cabrare, il campo visivo del pilota è ulteriormente limitato e ciò non consente di visualizzare opportunamente l’area sotto l’elicottero. Uno dei piloti ha affermato che un errore comune in questa fase consiste nello scendere troppo rapidamente e non riuscendo a vedere l’area sotto l’elicottero rende questa fase particolarmente complicata da un punto di vista cognitivo. Questa fase, assieme alla precedente, è stata identi-

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ficata da parte dei piloti come quella più critica da un punto di vista cognitivo. «Le ultime due fasi sono indubbiamente le più complicate, è importante raggiungere la posizione corretta sul ponte di volo con i giusti parametri, e la discesa finale è la più complessa in termini di carico di lavoro». Potenziali miglioramenti dei sistemi di riferimento Come già evidenziato, i risultati del presente studio supportano l’evidenza che le situazioni di elevato carico di lavoro sono associate in particolare alle fasi finali dell’appontaggio, cioè durante l’ingresso sul ponte di volo, l’acquisizione del hovering stabile sul cerchio di appontaggio e la discesa verticale fino al contatto con il ponte. Durante tali fasi il pilota deve monitorare e integrare un’elevata quantità di informazioni audio-visive e manovrare l’elicottero in un’area ristretta, costituendo, assieme all’ambiente dinamico della nave, un compito estremamente complesso che richiede un elevato livello di esperienza e consapevolezza situazionale. Considerando che la seconda parte della procedura di appontaggio viene condotta principalmente mediante l’utilizzo di riferimenti visivi esterni, è stato richiesto ai piloti intervistati di fornire alcune idee per migliorare gli ausili visivi per l’appontaggio in modo da facilitare la manovra. I piloti hanno segnalato che il primo compito complesso che potrebbe essere facilitato attraverso riferimenti visivi esterni più efficaci è raggiungere l’area di appontaggio e la corretta posizione sopra il cerchio di appontaggio. Inoltre, è stato suggerito che gli ausili luminosi potrebbero includere un’indicazione dello scostamento (longitudinale e laterale) dell’elicottero rispetto al punto teorico di appontaggio. Questa informazione è attualmente comunicata dall’operatore seduto in cabina e non sarebbe facilmente acquisibile guardando fuori dal cockpit. Due piloti in particolare hanno suggerito che avere un’informazione visiva della posizione laterale e longitudinale dell’elicottero sul ponte di volo renderebbe molto più semplice e ancora più precisa la manovra di posizionamento. «Avere un’indicazione della propria posizione rispetto alla linea centrale dello spot e all’asse longitudinale sarebbe di grande aiuto». Una volta che l’elicottero raggiunge il ponte di volo e inizia la fase di hovering, il pilota deve integrare l’informazione relativa alla posizione dell’elicottero con il

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Piloti Sperimentatori (CF Luca Moro e CF Nicola D’Amico) e Ingegnere Sperimentatore (TV Vincenzo Giordano) del CSA impegnati in attività di Dynamic Interface/SHOL su nave CAVOUR, con impiego di strumentazione SARAD e casco da volo di tipo Helmet Mounted Sight & Display (HMS/D).

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movimento della nave, al fine di identificare il momento appropriato per la discesa finale. Le informazioni relative al moto di rollio e beccheggio della nave, assieme alle condizioni di vento sono essenziali e vengono normalmente comunicate al pilota dal FDO. Tuttavia, i piloti hanno suggerito che avere tali informazioni visualizzate in maniera immediata e integrata ridurrebbe molto lo sforzo cognitivo e faciliterebbe il processo decisionale per effettuare l’appontaggio. Inoltre, un pilota ha suggerito che l’indicazione della direzione e intensità del vento relativo mostrata visivamente consentirebbe il costante accesso da parte dei piloti a tale informazione, senza la necessità di richiederla al FDO, e ciò aumenterebbe la sicurezza in particolare durante manovre critiche come la riattaccata. «Il rollio e il beccheggio della nave e le loro variazioni fornirebbero un’informazione istantanea sul movimento del ponte di volo, in modo da indicare quando il ponte è stabile ed effettuare l’appontaggio. Quindi, non sono importanti solo i valori numerici ma anche le loro variazioni e tendenze». Un altro elemento è il rateo di avvicinamento dell’elicottero (i.e. la velocità relativa) che i piloti devono calcolare o stimare. I piloti intervistati hanno suggerito che potrebbe essere utile visualizzare in qualche modo tale informazione. «Un aspetto che sarebbe molto utile e attualmente non esiste è l’informazione della velocità relativa dell’elicottero rispetto alla nave. Adesso è il pilota a doverla calcolare o stimare e ciò potrebbe essere complicato in una situazione di avvicinamento notturno». Le informazioni riguardo al moto dell’Unità, movimenti del ponte, direzione e intensità del vento, sono comunicate ai piloti dal FDO via radio. Sarebbe altresì opportuno disporre di un sistema di back up da impiegare nel caso di comunicazioni radio interrotte o intermittenti, che implementi il mondo cognitivo all’interno del cockpit, riducendone la dipendenza dal FDO. Un sistema di tale portata avrebbe molteplici vantaggi, tra cui, una minore congestione delle frequenza radio che verrebbero, quindi, impiegate solo per motivi di sicurezza ed altamente prioritari, oltre che a ridurre la possibilità di incomprensioni, dovute, alle volte, all’interazione tra equipaggi di nazioni differenti.

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Informazioni grafiche mostrate direttamente sulle strutture della nave potrebbero ridurre il rischio di interpretazioni sbagliate delle comunicazioni, in particolare di notte e con condizioni meteorologiche avverse. «Sarebbe molto utile avere un sistema alternativo, poiché quando si comunica con l’FDO potrebbero verificarsi delle interruzioni nelle comunicazioni, la radio può non funzionare, perciò disporre comunque di tali informazioni con altre modalità è importante».

La discussione Il presente studio qualitativo si proponeva di identificare gli elementi critici da un punto di vista cognitivo durante le differenti fasi della procedura di appontaggio su una nave, a tal fine scomposta in sei differenti fasi. È stato possibile, quindi, descrivere i fattori rilevanti che influiscono sulla sicurezza durante la procedura di appontaggio, oltre a raccogliere i suggerimenti dei piloti per un possibile miglioramento dei sistemi di bordo. Lo studio ha inoltre consentito di identificare e classificare i compiti critici che i piloti devono portare a termine durante ogni fase dell’appontaggio, puntando i riflettori sulla complessità dell’intera manovra. Oltre alla descrizione dettagliata dell’operazione di appontaggio, è stato possibile identificare anche i diversi fattori rilevanti per la sicurezza e l’efficacia della procedura di appontaggio. Sono state identificate sei differenti fasi dell’avvicinamento e appontaggio di un elicottero su una nave.

Come illustrato nella Tabella 1 (pagina 77), ogni fase è caratterizzata da obiettivi specifici, difficoltà ed elementi critici dal punto di vista cognitivo che vanno ad aumentare il carico di lavoro del pilota. La suddivisione in fasi fornita dai piloti e la maggior parte degli elementi critici cognitivi individuati si sono rivelati coerenti con i risultati ottenuti in precedenti studi, in particolare quello di Minotra e Feigh del 2018. Tuttavia, questo studio ha evidenziato la complessità della fase finale dell’appontaggio, dividendola ulteriormente in due fasi distinte (la 5 e la 6) con compiti specifici e difficolta diverse. Basandosi sul contenuto dell’analisi delle interviste, sono state identificate quattro categorie di fattori rilevanti per le operazioni di volo sulle navi, che possono influire significativamente sulla procedura di appontaggio (Figura 2): a) fattori legati ai piloti; b) fattori legati all’elicottero; c) fattori legati alla nave; d) fattori legati all’ambiente esterno. Hoencamp nel 2008 aveva già descritto i fattori umani, della nave e dell’elicottero, come maggiormente rilevanti per le operazioni di appontaggio, tuttavia, basandosi sulle affermazioni dei piloti, si ritiene che il fattore legato all’ambiente esterno possa rappresentare una quarta categoria di fattori da prendere in considerazione. a) Fattori legati ai piloti Innanzitutto, i fattori legati ai piloti interessano sia l’equipaggio di volo, sia l’equipaggio della nave. I piloti

Figura 2: fattori rilevanti della procedura di appontaggio con illustrazione delle varie fasi (NATO MPP 02 Helicopter Operations from Ships other Than Aircraft Carriers - HOSTAC).

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intervistati hanno indicato che le fasi finali dell’appontaggio richiedono un costante monitoraggio di diversi indicatori interni ed esterni e di effettuare più operazioni contemporaneamente (e.g. il controllo incrociato degli strumenti e dei riferimenti visivi). I piloti meno esperti spesso hanno una minore abilità a effettuare velocemente il controllo incrociato e ciò aumenta il loro sforzo cognitivo lasciando meno spazio alle capacità residue. In accordo con il già citato studio di Minotra e Feigh del 2018, è stato riscontrato che smistare da un volo strumentale a un volo a vista con riferimenti prevalentemente esterni nella terza fase può portare al fenomeno di disorientamento spaziale anche nei piloti con maggiore esperienza di volo. Questo risultato è particolarmente rilevante ed evidenzia la necessità di ulteriori ricerche legate a questo fenomeno. Nella letteratura legata all’aviazione, il disorientamento spaziale viene spesso indicato con il termine «vertigo» ed è stato identificato come il fattore maggiormente contributivo negli incidenti in cui il pilota mantiene il controllo dell’aeromobile. Mentre nel passato il fenomeno veniva considerato come una risposta anomala causata da determinate patologie vestibolari, al giorno d’oggi è riconosciuto come una normale risposta del corpo umano a stimoli anormali. Specificatamente, la vertigo può accadere quando il pilota smista rapidamente il suo sguardo dagli strumenti di volo ai riferimenti esterni nei casi in cui lo spostamento dell’attenzione non viene eseguito al momento corretto o se il pilota vacilla tra i due riferimenti (interni ed esterni). È opportuno menzionare che ciò può accadere sotto circostanze ben definite ed è fortemente legato alle caratteristiche individuali. Vi sono, pertanto, alcuni vantaggi e svantaggi sulle principali innovative contromisure per il disorientamento spaziale nel volo controllato e tutte sottolineano l’importanza di migliorare i agendo direttamente sui programmi addestrativi del personale aeronavigante, stimolandolo sull’argomento. In questo contesto, gli ausili di nuova tecnologia all’appontaggio, puntando a migliorare la Situational Awareness dei piloti, agiscono come una contromisura particolarmente efficace. Per esempio, in passato sono stati considerati i benefici di un sistema denominato Pilot Assisted Landing System (PALS) utilizzando un simulatore di volo. Il sistema, progettato specificatamente per contrastare la turbolenza creata dalle

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strutture della nave, usa un elevato livello di controllo sui comandi di volo per mantenere la posizione dell’elicottero sul ponte di volo. I risultati registrati hanno mostrato che il sistema PALS ha fornito in maniera consistente la prestazione desiderata e si è rivelato particolarmente utile nell’assistere il pilota nel mantenere la cognizione sulla corretta posizione dell’elicottero sul ponte di volo. Anche in questo caso è necessario approfondire le ricerche al fine di identificare le corrette contromisure e fornire elementi utili per lo sviluppo di tecnologie innovative per assistere il pilota in appontaggio. I risultati emersi dal presente studio suggeriscono che comunicazioni verbali e radio tra il pilota, il copilota e l’FDO devono essere ben organizzate e seguire un percorso prevedibile. Una comunicazione dalla nave effettuata nel momento sbagliato può “saturare da un punto di vista cognitivo” il pilota con informazioni ridondanti o non necessarie, portando a un calo nella sua Situational Awareness e aumentando il rischio di un incidente. La Situational Awareness del pilota è cruciale nel gestire le informazioni provenienti da diverse fonti e nel pianificare il flusso delle azioni da compiere. I piloti intervistati hanno indicato che, idealmente, non dovrebbe esserci alcuna comunicazione dalla nave una volta che l’elicottero entra sul ponte di volo. La fatica è un altro fattore che può influenzare negativamente la prestazione del pilota, diminuendo la capacità di attenzione e la sua reattività. L’appontaggio è normalmente la manovra finale per il pilota che rientra da una missione di volo e richiede uno sforzo cognitivo maggiore dopo una fase di volo di trasferimento meno impegnativa. b) Fattori legati all’elicottero I fattori legati all’elicottero includono il tipo di elicottero, le sue dimensioni, il peso, l’ergonomia degli strumenti di volo nel cockpit, la manovrabilità, le dimensioni della cabina e il campo visivo per il pilota. Nel presente studio i piloti provenivano da due differenti linee di volo, EH-101 e NH-90. Il primo ha una lunghezza di circa 20 metri e un peso massimo al decollo di 15,6 tonnellate mentre il secondo è lungo 16 metri e ha un peso massimo al decollo di 11 tonnellate. La lunghezza dell’elicottero è particolarmente importante durante la quarta fase dell’appontaggio, quando cioè il pilota deve valutare il momento in cui la coda dell’elicottero entra nella zona di sicurezza all’interno del ponte di volo al fine di evitare la collisione

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tra la coda e le estremità del ponte. Il peso dell’elicottero è particolarmente rilevante durante la discesa finale in cui il pilota deve mantenere un rateo di discesa tale da evitare danni strutturali nell’impatto con il ponte di volo. Riguardo l’ergonomia degli strumenti nel cockpit, i piloti intervistati hanno evidenziato come in alcuni tipi di elicottero sia necessario monitorare strumenti differenti per ottenere tutte le informazioni necessarie riguardo la velocità, la quota e il rateo di discesa, mentre in altri tipi possono ottenere tutte le informazioni necessarie integrate in un unico schermo e ciò facilita l’esecuzione della manovra e riduce il carico di lavoro. c) Fattori legati alla nave I fattori legati alla nave determinano ulteriormente la complessità dell’appontaggio. Un ponte di volo instabile a causa del movimento della nave (per la velocità, il beccheggio, il rollio e le variazioni di prora) è il maggior fattore a rendere complessa la manovra per il pilota nella fase finale dell’appontaggio. Il pilota deve leggere e anticipare in maniera accurata i movimenti della nave, il che richiede una gestione efficace delle informazioni e un elevato livello di Situational Awareness. Le dimensioni del ponte di volo riducono ulteriormente la zona di sicurezza per la manovra poiché il pilota deve evitare la collisione con le strutture della nave. Gli ausili luminosi per l’appontaggio come le luci per l’allineamento longitudinale, quelle che delimitano l’area di appontaggio e le cosiddette «barre» per l’orizzonte artificiale, forniscono dei punti di riferimento addizionali. Tuttavia, la disponibilità e la visibilità di queste luci può variare da nave a nave e in base alle condizioni ambientali. I piloti impiegati nel presente studio hanno identificato il beccheggio e il rollio come i movimenti più importanti della nave, mentre la prora e la velocità della nave vengono comunicate dal FDO già dalle prime fasi dell’avvicinamento. Tali parametri di prora e velocità devono rimanere invariati durante tutta la procedura di appontaggio e variazioni significative possono comportare un ordine di riattaccata. Pertanto, i piloti hanno indicato che la prora e la velocità della nave rappresentino i parametri meno rilevanti del movimento della nave, rimanendo sempre costanti, rispetto al rollio e beccheggio che assumono valori non prevedibili e dipendenti dalle condizioni meteomarine possono variare da nave a nave e in base alle condizioni ambientali.

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d)Fattori legati all’ambiente esterno Infine, l’ambiente esterno include fattori addizionali che possono influenzare significativamente la sicurezza ma anche facilitare le operazioni per l’appontaggio. Uno stato del mare non favorevole tende ad aumentare i movimenti della nave rendendo più complicato per il pilota identificare il momento migliore per l’appontaggio. Foschia, pioggia, condizioni di bassa visibilità, turbolenza, e condizioni di forte vento aumentano notevolmente il carico di lavoro del pilota. Inoltre, appontare di notte prevede una ridotta visibilità e disponibilità di punti di riferimento visivi, rendendo sempre più complicato per il pilota individuare e comprendere i movimenti della nave. In precedenti studi la turbolenza è stata considerata un fattore determinante particolarmente nelle fasi finali dell’appontaggio, mentre nel presente studio i piloti non hanno espressamente menzionato tale fattore, bensì hanno citato maggiormente l’effetto del vento relativo (cioè la combinazione del movimento della nave e delle condizioni del vento) e la necessità di avere un’informazione precisa sulla direzione e intensità del vento relativo. Si è deciso, quindi, di includere la turbolenza nella sua accezione più ampia come un fattore rilevante legato all’ambiente esterno, suggerendo però la necessità di esplorare ulteriormente l’impatto e la rilevanza della turbolenza sulle prestazioni dei piloti e sulla sicurezza delle operazioni di volo da bordo delle navi. Raccomandazioni Un altro scopo del presente studio era quello di raccogliere suggerimenti da parte dei piloti su possibili miglioramenti degli ausili luminosi per l’appontaggio su una nave, al fine di incrementare la Situational Awareness dei piloti, ridurre il loro carico cognitivo e aumentare la sicurezza generale delle operazioni di volo. L’analisi delle interviste ha consentito di individuare le fasi con maggiore carico di lavoro e proporre possibili strade per ridurre la richiesta cognitiva attraverso un adeguato design dei riferimenti visivi esterni. I risultati suggeriscono delle raccomandazioni per i riferimenti visivi che possano modellare la complessità della manovra alle capacità del pilota e migliorarne le prestazioni, ridurre gli errori e facilitarne le decisioni nei momenti decisivi e nelle situazioni critiche. In generale, il metodo principale per i piloti di raccogliere informazioni è attraverso

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i riferimenti visivi esterni, preferito anche alla comunicazione verbale, come suggerito ugualmente da precedenti studi. Pertanto, un miglioramento significativo potrebbe essere raggiunto attraverso la rappresentazione di diversi indicatori, quali la posizione dell’elicottero rispetto al ponte di volo, il rateo di avvicinamento dell’elicottero, informazioni sul rollio e beccheggio della nave e l’intensità e direzione del vento. Avere queste informazioni rappresentate graficamente all’interno del campo visivo del pilota comporta una potenziale diminuzione del carico cognitivo generato dai compiti secondari e quindi facilitare il compito principale del pilota, cioè manovrare l’elicottero per l’appontaggio.

Limitazioni dello studio L’uso di metodi qualitativi ha consentito di condurre una ricerca approfondita sull’esperienza soggettiva dei piloti durante un appontaggio su una nave, che sarebbe stata impossibile attraverso di metodi quantitativi. Le interviste semi-strutturate ACTA si sono rivelate un metodo molto valido per lo scopo dello studio, tuttavia, i risultati presentano comunque alcune limitazioni. Lo studio, infatti, era basato su interviste che hanno generato un’estensiva quantità di dati, ma la loro affidabilità e validità devono essere valutate con attenzione. La ricerca qualitativa è basata per la maggior parte sull’interpretazione e la personalità del ricercatore, le opinioni personali, l’espe-

FASI DI AVVICINAMENTO E APPONTAGGIO, PRINCIPALI RIFERIMENTI VISIVI ED ELEMENTI COGNITIVI CRITICI (TABELLA 1) FASE

STR U M EN TI D I V O L O

AUSILI VISIVI DELLA NAVE

ELEMENTI CRITICI COGNITIVI

1 Localizzare visivamente la nave, ricercare punti di riferimento visivi esterni (>2 NM, >500 ft)*

• Velocità • Quota • Prua

• Luce lampeggiante in testa d‘albero

Identificazione e riconoscimento della nave in mare aperto

2 Discesa verso il sentiero di avvicinamento (2-0.5 NM, 500-300 ft)

• Velocità • Quota • Velocità verticale

• Luce lampeggiante in testa d’albero • Luci per l’allineamento rispetto all’asse longitudinale

Comprendere l’orientamento della nave e l’allineamento dell’elicottero per una corretta discesa; comunicazioni con la nave

3 Seguire il sentiero di avvicinamento verso il ponte della nave e smistarsi su un volo prevalentemente a vista (0.5-0 NM, 300-15 ft)

• Rateo di avvicinamento • Quota • Potenza

• Sentiero di avvicinamento (GSI) • Luci per l‘allineamento

Smistarsi dalle informazioni dentro il cockpit a una vista dei riferimenti esterni; mantenere il corretto sentiero di discesa

4 Entrare sul ponte di volo e allinearsi con il cerchio d’appontaggio (0 NM, 15 ft)

• Rateo di avvicinamento • Quota • Potenza

• Segnaletica orizzontale sul ponte • Orizzonte artificiale • Luci del ponte di volo • Semaforo • Luci per la riattaccata

Determinare quando le strutture dell’elicottero entrano nella zona di sicurezza sul ponte; comunicazioni con l’equipaggio; raggiungere la posizione corretta sul cerchio d’appontaggio

5 Volo stazionario (hover) sul punto d’atterraggio con un rateo di avvicinamento pari a zero (0 NM, 5-10 ft)

• Rateo di avvicinamento • Quota • Potenza necessaria per rimanere stabile in hover • Velocità verticale • Assetto

• Segnaletica orizzontale sul ponte • Orizzonte artificiale • Luci del ponte di volo • Semaforo • Luci per la riattaccata

Mantenere l’elicottero stabile, allineato con l’orizzonte vero, mantenere il corretto rateo di avvicinamento e monitorare i movimenti della nave

6 Discesa verticale fino al contatto delle ruote con il ponte (0 NM, 5-0 ft)

• Rateo di avvicinamento • Quota • Velocità verticale • Assetto

• Orizzonte artificiale • Luci del ponte di volo • Semaforo • Luci per la riattaccata Waveoff Lights

Valutare il momento corretto per il contatto con il suolo; mantenere un rateo di discesa sicuro

* Distanza media dalla nave (in miglia nautiche) e quota elicottero (in piedi).

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Compiti dei piloti di elicottero, carico cognitivo e ruolo dei riferimenti visivi esterni...

rienza pregressa, e il suo backgroud culturale modellano necessariamente il modo in cui i dati vengono raccolti, analizzati e interpretati. L’uso di un linguaggio specifico e di termini tecnici da parte dei piloti, una formulazione impropria o un’incomprensione dell’informazione comunicata rappresentavano un ulteriore fattore di rischio che deve essere evidenziato in maniera appropriata. Al fine di mitigare questi rischi, almeno due ricercatori esperti erano sempre presenti durante ogni intervista e la loro comprensione sulle affermazioni dei piloti veniva sempre confrontata e discussa alla fine delle interviste. In aggiunta, tutte le interviste sono state registrate e trascritte per effettuare un’analisi dei contenuti e minimizzare il rischio di possibili perdite di informazioni. Inoltre, ogni pilota ha fornito informazioni sulla propria passata esperienza di volo, ma non è stato possibile valutare le loro performance durante un effettivo appontaggio con un elicottero o attraverso il simulatore di volo. Sono stati raccolti dati qualitativi di uno specifico gruppo di piloti in un ambiente paragonabile a un laboratorio e ciò costituisce una limitazione. Nonostante quanto evidenziato, si ritiene che l’elevata quantità di informazioni raccolte e il confronto incrociato dei ricercatori sul significato delle affermazioni dei piloti, tenderebbe a eliminare ogni potenziale rischio sulla validità delle conclusioni del presente studio. Studi futuri che includano un approccio quantitativo per esplorare problematiche come il carico di lavoro del pilota e le tecniche di visualizzazione dei riferimenti sono fortemente incoraggiati. Infine, al fine di ottenere un campione eterogeneo che potesse condurre a conclusioni più generali, sono stati intervistati piloti con diversi livelli di esperienza. Sono stati selezionati i piloti in base alle ore di volo effettuate e ciò rappresenta un indicatore accettabile per il livello di esperienza. Tuttavia, le capacità effettive dei piloti e lo stile di volo sono fattori essenziali ai quali non è stato possibile accedere non avendo avuto la possibilità di osservare i piloti durante degli appontaggi reali. Inoltre, il campione esaminato era composto interamente da piloti uomini, e ciò rappresenta un’altra limitazione in quanto l’esperienza di piloti donna può variare significativamente rispetto ai colleghi uomini. Nonostante le limitazioni evidenziate sullo studio, si ritiene che i risultati forniscano un valido spaccato del-

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l’esperienza dei piloti e rappresenti un importante contributo per questo settore di studio ancora sottoposto a continua ricerca.

Conclusioni Il presente studio fornisce un importante riferimento all’interno dell’esperienza dei piloti durante le operazioni di appontaggio su unità navali. Mirava, infatti, a ottenere una conoscenza più approfondita degli elementi che contribuiscono al carico di lavoro cognitivo dei piloti durante la manovra di appontaggio e a identificare i fattori rilevanti che influenzano le prestazioni dei piloti e la sicurezza generale della procedura. È stata fornita un’analisi dettagliata della manovra di appontaggio con la descrizione di ogni fase, dei riferimenti visivi che il pilota ricerca e dei vari elementi cognitivi che contribuiscono al carico di lavoro del pilota. Seguendo studi precedenti, sono state identificate le fasi finali come le più impegnative da un punto di vista cognitivo, ed è stato evidenziato come i riferimenti visivi esterni siano cruciali per i piloti al fine di mantenere la giusta Situational Awareness. Sono stati così forniti dei suggerimenti riguardo a possibili miglioramenti dei riferimenti visivi esterni che possano ridurre il carico cognitivo legato alla manovra e migliorare le prestazioni dei piloti e la sicurezza generale dell’appontaggio. Vengono incoraggiati, inoltre, ulteriori studi per esplorare alcuni aspetti quali le strategie dei piloti per prevenire il disorientamento spaziale, anche se questo aspetto rimane ancora oggetto di ricerche e non è stata raggiunta ancora una piena comprensione del fenomeno. Come già menzionato nel presente documento sono stati adottati un approccio e una metodologia comune a precedenti studi, pertanto i risultati hanno confermato ulteriormente le problematiche già emerse in passato. Allo stesso tempo però, questo studio ha fatto emergere elementi di novità e unici che vanno ad ampliare la conoscenza sugli appontaggi di elicotteri su unità navali e sui vari fattori rilevanti per le prestazioni dei piloti e la sicurezza del volo. La tabella 2 (pagina 79) sintetizza con una lista i risultati singolari del presente studio. Inoltre, gli ulteriori studi dovrebbero focalizzarsi sulla comprensione delle tecniche visive dei piloti e sulle potenziali tecnologie innovative per migliorare i riferimenti visivi esterni. 8 Rivista Marittima Febbraio 2021


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COMPARAZIONE DEI RISULTATI CON LO STUDIO MINOTRA E FEIGH - 2018 (TABELLA 2) RISULTATI

STEP/FASE IDENTIFICATA MINOTRA E FEIGH (2018)

STU D IO PRE S E N T E

SIMILARITA’

1. Localizzare la nave

1. Localizzare visivamente la nave ricercando i punti di riferimento visivi esterni

Identificato come critico dal punto di vista cognitivo

2. Discesa fino al punto di riattaccata

2. Scendere verso il sentiero di avvicinamento

I piloti monitorano la quota, velocità o il rateo di avvicinamento

Le comunicazioni radio con l’FDO si intensificano; i piloti fanno riferimento soprattutto agli strumenti del cockpit; il carico di lavoro è influenzato da diverse configurazioni HMI (Human-Machine Interface)

Identificato come critico dal punto di vista cognitivo; cambiare visualizzazione può causare disorientamento spaziale

Gli ausili luminosi visivi diventano rilevanti, in particolare il GSI e le linee e luci di allineamento longitudinale; le comunicazioni con il copilota si intensificano

3. Smistare la visualizzazione quando la nave è in vista

4. Arrivo al punto di riattaccata

3. Seguire il sentiero di avvicinamento verso il ponte della nave e smistarsi su un volo prevalentemente a vista

NUOVI RISULTATI

Il presente studio ha identificato queste sotto fasi come parti di un’unica fase dell’avvicinamento. Nello studio di Minotra e Feigh viene posta maggiore enfasi sul punto di riattaccata.

5. Ultimo punto per smistare la visualizzazione o riattaccare

6. Attraversamento del limite poppiero del ponte di volo

4. Ingresso sul ponte di volo e allineamento con il cerchio d’appontaggio

Le comunicazioni con l’equipaggio diventano cruciali

Identificato come critico dal punto di vista cognitivo per l’intensificazione delle comunicazioni con l’equipaggio e la necessità di un controllo incrociato di esse; le comunicazioni con la nave possono creare distrazione ed essere controproducenti

7. Hover e contatto col suolo

5. Hover sul punto d’atterraggio con un rateo di avvicinamento pari a zero

Identificato come particolarmente critico; importanza dell’orizzonte artificiale; i piloti meno esperti sono proni agli errori a causa del disorientamento spaziale

Elevato carico di lavoro per la grande quantità di informazioni visive che il pilota deve integrare per posizionare correttamente l’elicottero sopra il cerchio d’appontaggio

6. Discesa verticale fino al contatto con il ponte di volo

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Fase critica: identificare il momento di quiescenza, mantenere la corretta posizione e monitorare gli strumenti di volo per una discesa sicura

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Compiti dei piloti di elicottero, carico cognitivo e ruolo dei riferimenti visivi esterni...

NOTE (1) Alrik Hoencamp, flight test engineer olandese brevettatosi presso la Empire Test Pilot School (ETPS) in UK, esperto in flight testing a bordo di unità navali. (2) Lo studio è denominato Studying pilot cognition in ship-based helicopter landing maneuvers, presentato all’American Helicopter Society International Forum nel 2018. BIBLIOGRAFIA Baker, S.P., Shanahan, D.F., Haaland, W., Brady, J.E., & Li, G. (2011). Helicopter crashes related to oil and gas operations in the Gulf of Mexico. Aviation, Space, and Environmental Medicine, 82(9), 885-889. Bardera-Mora, R., León Calero, M., & García-Magariño, A. (2018). Aerodynamic effect of the aircraft carrier island on flight deck flow with cross wind. Proceedings of the Institution of Mechanical Engineers, Part M: Journal of Engineering for the Maritime Environment, 232(2), 145-154. Benson, A.J. (2002). Spatial disorientation in military vehicles: Causes, consequences and cure. 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INFORMAZIONE PUBBLICITARIA


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PANORAMICA TECNICO-PROFESSIONALE

La nave scuola PALINURO della Marina Militare, uno dei più begli esempi esistenti di nave goletta oggi in attività (collezione autore).

Due secoli di armi velici Evoluzione dell’attrezzatura e dell’alberatura delle navi a vela dalla seconda metà del Settecento ai primi anni del secolo XX. Una guida iconografica Maurizio Brescia

Nato a Savona nel 1959 e residente a Genova. Laureato in Scienze Politiche (indirizzo internazionale). Opera da tempo nell’ambito della pubblicistica navale e, dal 2007, ha fatto parte del Comitato di redazione della rivista mensile STORIA Militare, fondata nel 1993 dal comandante Erminio Bagnasco. Ad agosto del 2014 ha iniziato a operare a tempo pieno come pubblicista e ha assunto la direzione di STORIA militare e del bimestrale STORIA militare Dossier, subentrando alla direzione del comandante Bagnasco. Dal 1° febbraio 2017 dirige il nuovo bimestrale della Casa Editrice, STORIA militare Briefing. Su STORIA Militare, sin dalla fondazione, ha pubblicato un centinaio di articoli dedicati soprattutto, a tematiche tecniche, storiche e operative degli aspetti navali di entrambi i conflitti mondiali, in aggiunta a circa 150 articoli per ulteriori riviste specializzate italiane ed estere. Per la casa editrice Albertelli ha realizzato tre volumi della collana «Orizzonte Mare – Nuova Serie» nella seconda metà degli anni Novanta. A settembre del 2012 è stata pubblicata in Gran Bretagna (Seaforth Publishing) e Stati Uniti (U.S. Naval Institute) una sua monografia illustrata — circa 500 immagini — sulla Regia Marina durante la Seconda guerra mondiale dal titolo Mussolini’s Navy. È collaboratore della Rivista Marittima, per la quale ha realizzato diversi articoli e — nel dicembre 2008 — il supplemento I fotografi navali, assieme all’ammiraglio Giovanni Vignati. Ha prestato servizio militare nella Marina Militare ed è socio del gruppo ANMI di Savona. Collabora con la Presidenza Nazionale dell’ANMI e con il mensile Marinai d’Italia. Ha inoltre collaborato con il ministero dei Beni culturali, nell’ambito dell’organizzazione di mostre a Genova e Venezia, e collabora con il DAFIST dell’Università di Genova, tenendo lezioni nell’ambito dei corsi di laurea in Storia per le specializzazioni in Storia Navale e in Storia Militare. È vicepresidente dell’Associazione Venus - Archivio Fotografico Navale Italiano, con sede alla Spezia, avente come finalità la conservazione e la diffusione del patrimonio storico legato alle fotografie storiche di ambito navale.

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L

e fenicie) e, nella maggioranza dei casi, era affidata a vele a propulsione velica è antica quanto la storia quadre inferite a un pennone orizzontale su uno o talvolta della navigazione e, dall’antichità classica sino due alberi, anche in abbinamento all’uso del remo sopratall’introduzione di apparati motore a vapore, intutto per le unità militari. In particolare, assai comune era sieme ai remi ha costituito l’unica «forza motrice» dispol’uso di vele quadre meglio impiegate nelle andature pornibile per la propulsione di navi mercantili, militari, da tanti e coadiuvate — talvolta — da supparæ, ossia una pesca, da diporto e per qualsiasi altro impiego in un lungo «forza di vele» di forma triangolare inferite tra il pennone percorso temporale che copre non meno di tre millenni e la sommità dell’albero. In questo periodo si affermò sino, praticamente, ai nostri giorni. L’impostazione di anche la vela «tarchia» (che si evolverà in seguito nella questo saggio deve quindi essere circostanziata e, anche tipologia detta «aurica»), dalla forma trapezoidale e sorper motivi di spazio, è stata effettuata la scelta di orientare retta da un’antenna collocata diagonalmente; è questo il la trattazione verso gli ultimi due secoli di storia della naprimo passo verso la realizzazione di vele di taglio, atte a vigazione, un lungo periodo in cui la propulsione velica consentire di stringere maggiormente il vento (1) e di cui ha vissuto la sua splendida conclusione portando alla detaluni esempi sono già presenti in costruzioni navali rofinitiva affermazione di tipologie di alberatura e di vele mane di età imperiale. Sebbene la comune «vulgata» atben precise e codificate. Nel panorama editoriale attuale, pur in presenza di fonti documentali archivistiche, primarie e bibliografiche disponibili in grande quantità e qualità, mancava tuttavia un companion che consentisse di descrivere e codificare — anche con il consistente ricorso a fonti iconografiche — le varie tipologie di bastimento a vela che hanno costituito la spina dorsale delle marinerie militari e A sinistra, vele e manovre delle navi onerarie romane: A) Vela quadra di età imperiale; B) Vela di mercantili dalla seconda metà del Sette- gabbia (supparum) di età imperiale; C) Vela «tarchia», ancora in uso ai giorni nostri; D) da evidenze documentali risulta anche l’uso di vele triangolari, poi utilizzate in ambiente arabo e successivamente cento alle prime due decadi del secolo in tutto il Mediterraneo (da M. Bonino, Navi mercantili e barche di età romana, op. cit., g.c. Gianfranco Tanzilli). A destra, verosimile aspetto di una nave oneraria romana di età imperiale e della sua attrezXX. In pratica, nell’arco temporale ap- zatura velica (M. Bonino, Navi mercantili e barche di età romana, op. cit., g.c. Massimo Palandri). pena delineato, quali erano per esempio le differenze tra un brigantino a palo, una nave goletta, un tre alberi a vele quadre e una «goletta a clipper»? Scopo di questo studio è proprio quello di fornire al lettore, che spesso è anche un professionista del settore della navigazione, una guida che consenta di fare luce in un ambito nel quale, in non pochi casi, confusioni, errori e scarsa chiarezza non sono mancati e non mancano.

Un cenno al passato In età classica — sia greca sia romana — la propulsione velica era affermata ormai da tempo (anche sulla scorta di precedenti, analoghe esperienze puniche

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A sinistra: l’evoluzione degli armi velici portò, soprattutto in ambito portoghese, all’introduzione della caravella, bastimento a tre alberi ciascuno con una vela latina sorretta da un’antenna; nell’immagine, una ricostruzione della colombiana NIÑA (collezione autore). A destra; la «Nao» portoghese configura la struttura delle «navi tonde» medievali e successive, con tre alberi dei quali la mezzana è attrezzata con vela latina e antenna, mentre maestra e trinchetto recano vele quadre. Questo modello, esposto al «Museu de Marinha» di Lisbona, raffigura nella fattispecie un «usciere», ossia un’unità appositamente attrezzata per lo sbarco di uomini, artiglierie e cavalcature in occasione di operazioni anfibie ante litteram (autore).

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tempi dell’età moderna, di uno degli armi velici più diffusi: tipico esempio è quello della caravella, un bastimento a tre alberi per l’appunto dotati di una vela latina ciascuno e particolarmente sviluppato e diffuso in Portogallo (3). Peraltro, con uno, due e talvolta tre alberi — tutti attrezzati con vela latina — anche le galere mediterranee dei secoli XIII-XVII, tanto di parte cristiana quanto turco-barbaresca, presentavano un armo velico del tutto analogo. Pressoché contemporaneamente, sempre nella penisola iberica ma con applicazioni subito fatte proprie anche dalle marinerie britannica e olandese (e nordiche più generalmente intese) nonché da quelle mediterranee, andava sviluppandosi il concetto di navis («nao» in portoghese) che trovò i primi esempi nelle navi commerciali dette «navi tonde» ossia bastimenti di grandi dimensioni, talvolta a più ponti, dotate di casseri sopraelevati e attrezzate con tre alberi dei quali, solitamente, trinchetto e maestra recavano vele quadre e la mezzana una grossa vela latina inferita su una lunga antenna. Dall’impiego commerciale — per il quale le grosse dimensioni e le forme tonTavola sinottica dei principali tipi di armo velico per il periodo considerato nell’articolo (autore). deggiati favorivano sia la navigazione d’altura, sia forti incrementi nella capacità di carico — il passaggio alle costruzioni navali militari fu tribuisca l’introduzione della vela di taglio dalla forma piuttosto rapido (4) e già nella prima metà del Seicento il triangolare alla marineria araba nei secoli immediata«tre alberi» (5) a vele quadre e a più ponti si era ormai afmente successivi, anche in questo caso evidenze dell’uso fermato in tutta l’Europa occidentale e nella sfera di indi questa particolare vela sono presenti in reperti fittili, fluenza dell’Impero ottomano diventando, attorno alla musivi e pittorici di età tardo-romana. Con ogni probabimetà del secolo XVIII, non soltanto, un patrimonio colità, su una non propriamente precisa datazione dell’intromune delle marinerie del Vecchio Continente ma un armo duzione della vela triangolare ha influito la sua successiva velico largamente diffuso e apprezzato in ogni dove. A pardefinizione di «vela latina», un aggettivo non già riferito tire dalla metà del Settecento si può quindi individuare la a una specifica origine geografica o culturale, ma dericonclusione di un lungo percorso in cui, da un lato, si convante da due possibili etimologie: dall’arabo «La Trina» solidano anche tipologie di bastimenti a uno, due e tre al(ossia «tre angoli») e dalla sua traslitterazione occidentale beri non tutti attrezzati con vele quadre (come si vedrà, «alla trina» (vale a dire di forma triangolare) (2). Indipenbrigantini, golette, navi goletta ecc.) e, dall’altro, tra la fine dentemente da queste considerazioni, la «vela latina», dell’Ottocento e i primi due decenni del Novecento, gli ormai generalmente definita e come tale largamente imanni finali dell’era della navigazione velica si concludono piegata, andò a essere parte, in età medievale e nei primi

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con la costruzione di velieri sempre più grandi, a quattro, cinque e talvolta sei o sette alberi. Ed eccoci quindi giunti all’ambito temporale, peraltro riferito a oltre un secolo e mezzo di storia degli armi velici, oggetto di questo studio. Ai fini di meglio codificare la trattazione, i principali armi velici sono descritti abbastanza concisamente, suddivisi ove necessario per singole tipologie o per gruppi di unità riconducibili ad attrezzature, numero degli alberi e armi velici comuni ai bastimenti componenti ciascun gruppo. Per ulteriori dettagli tecnici si rimandano i lettori alle didascalie degli schemi e delle immagini in cui dettagli e differenze sono ulteriormente descritti. Per i principali armi velici è riportata anche la traduzione in inglese, lingua di uso comune nel mondo navale e marittimo; per le denominazioni in altre lingue il lettore potrà fare riferimento alle opere riportate nella bibliografia, in particolare AA.VV., Guide des voiliers e H. Paasch, Marine Vörterbuch per il francese, il tedesco e lo spagnolo.

Bastimenti a un albero Tipico esempio di imbarcazione medio-piccola a un solo albero, lo sloop (per il quale non esiste un corrispondente termine in italiano) va ricondotto a costruzioni britanniche già in uso nel secolo XVII (6). In pratica, si tratta di un piccolo bastimento per uso costiero che, nel Settecento, già trovava largo impiego su entrambe le Imbarcazione a vela classe coste dell’oceano Atlantico, «Star», tipico esempio di sloop attuale, con randa triangolare e impiegato in una molteplicità fiocco (starclass.org). di ruoli sia mercantili, sia militari. Il singolo albero, collocato piuttosto verso prora, sorreggeva una o due vele di fiocco e una randa aurica dotata di boma e picco, talvolta sormontata da una controranda. Taluni sloop britannici costruiti nelle Indie occidentali, a fronte di dimensioni maggiorate, erano talvolta attrezzati con un paio di vele quadre di gabbia, ma casi di questo genere non sono molto comuni. Nel processo evolutivo dello sloop vanno inserite anche le attuali barche a vela monoalbero per navigazione diportistica e sportiva, per le quali — soprattutto nel caso di andature al traverso e por-

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tanti — da lungo tempo è invalso l’uso di utilizzare, in abbinamento o più spesso in sostituzione del fiocco, una grande vela triangolare detta «Genoa» di superficie maggiore rispetto a quella della randa (7). Analogo allo sloop (e talvolta confuso con quest’ultimo) è il cutter, che si differenzia per le maggiori dimensioni, per lo scafo contraddistinto da un rapporto lunghezza/larghezza in taluni casi più accentuato e da un’altezza di costruzione maggiore con un conseguente, accresciuto pescaggio. Le differenze nell’armo velico sono riconducibili alla diversa posizione dell’albero (collocato più a poppavia) e dal piano velico estremamente sviluppato con numerose vele che, in un primo momento, comprendevano anche vele quadre (trevo e gabbie). Inoltre, mentre il bompresso dello sloop era in posizione fissa, il più lungo bompresso del cutter (in particolare tra Settecento e Ottocento) poteva essere ritirato in coperta per motivi di praticità e posizionato solo quando era necessario alzare a riva fiocchi e controfiocchi per accrescere la superficie velica. L’armo velico «a cutter» visse il suo periodo d’oro tra la fine dell’Ottocento egli anni Dieci del secolo XX, quando l’adozione del «Genoa» e la scomparsa di piccoli fiocchi e controrande rese meno diffusa questa tipologia di armo velico (8).

Bastimenti a due alberi di piccole dimensioni, Ketch e Yawl A un livello dimensionale immediatamente superiore a quello delle tipologie monoalbero si pongono il ketch e lo yawl i quali non costituiscono due declinazioni analoghe del al ketch (imbarcazione a due almedesimo armo ve- Analoga beri con la mezzana a proravia dell’asse del la mezzana dello yawl trova sistelico, ma sono con- timone) mazione a poppavia dell’asse del timone, traddistinti ciascuno come evidenziato in questo olio su tela di James Haughton risalente al 1880 (Royal da caratteristiche che Exchange Art Gallery, Londra). li identificano e differenziano specificatamente. Nei trattati navali dei secoli XVII-XVIII il ketch è spesso definito come «un bastimento a vele quadre privo di albero di trinchetto»; tut-

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mezzana ha più che altro funzioni di bilanciamento del centro velico e miglioramento della manovrabilità in acque ristrette. Lo Spray di Joshua Slocum, con cui il navigatore canadese circumnavigò il globo in solitario tra il 1895 e il 1898, era inizialmente attrezzato a sloop ma, per l’occasione, venne convertito in yawl e in questa configurazione è passato alla storia (10). Quando un bastimento a un solo albero è munito di vela a tarchia (ossia randa non triangolare ma trapezoidale, con eventuale controranda) ci troviamo di fronte a un cutter (termine di probabile origine olandese ma che, in inglese, sta a indicare le caratteristiche dello scafo (stretto e dalla consistente altezza di costruzione), per l’appunto adatto a «tagliare» (to cut in inglese) le onde anziché superarle. A sinistra un cutter della Royal Navy del periodo 1750-60, munito di fiocco, controfiocco, trevo e gabbie; si noti la forza di vele con cui sono attrezzate le varee dei pennoni e la caduta poppiera della randa, che comprende anche una vela aggiuntiva sotto al boma per incrementare la velocità e le qualità boliniere del bastimento; le numerose mani di terzaroli fanno comprendere che l’impiego di un’unità di questo tipo era previsto anche in condimeteo avverse. A destra, il piano velico del piccolo cutter francese JOLIE BRISE del 1913: escludendo l’assenza di vele quadre l’armo velico è del tutto analogo a quello dell’unità britannica precedente di 150 anni (J. Bennet, Sailing Rigs, op. cit.).

tavia, questa definizione fu presto superata da una realtà dei fatti che portò alla realizzazione di unità dotate di alberi di bompresso, maestra e mezzana (più basso, quest’ultimo, dell’albero di maestra e posizionato anteriormente all’asse del timone) attrezzati con fiocchi, rande «a tarchia» (ossia trapezoidali) e controrande, talvolta con una vela di strallo inferita tra i due alberi. Sebbene non pochi esempi siano riconducibili al periodo a cavallo tra la fine del Settecento e i primi decenni dell’Ottocento, l’armo velico a ketch trovò vasta applicazione negli anni successivi tanto nel cabotaggio costiero quanto nella navigazione diportistica (9) e oggi la configurazione delle vele prevede rande triangolari e «Genoa». Lo yawl è talvolta confuso con il ketch ma le differenze sono evidenti e fondamentali. Nelle prime accezioni sei-settecentesche il termine stava a indicare non un armo velico ma un particolare, piccolo scafo propulso da remi (da cui l’italiano «iole» o «jole»); nel corso dell’Ottocento, soprattutto nel settore del diportismo, lo yawl si trasformò in un’unità a vela, anch’essa priva di trinchetto al pari del ketch ma con l’albero di mezzana di dimensioni molto ridotte collocato a poppavia dell’asse del timone. L’armo velico, tutto composto da vele di taglio, si è evoluto nel tempo passando da vele auriche a rande triangolari e fiocchi (la ridotta altezza dell’albero di mezzana non consente l’uso di vele di strallo) a un armo più moderno nel quale la randa di

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La goletta nei suoi molteplici aspetti È questa una delle tipologie di armo velico maggiormente conosciute e diffuse: il termine goletta deriva dal francese goëlette (che identifica la rondine di mare), a sua volta verosimilmente collegato a goéland (gabbiano) (11) ed è diffuso particolarmente nel Mediterraneo; in inglese il lemma identificativo è schooner, probabilmente dal verbo «to scoon» («scivolare», «saltare sull’acqua») che ben identifica le qualità velocistiche e manovriere di questo particolare bastimento. La goletta è un’unità di medie dimensioni, di norma attrezzata con due alberi (trinchetto e maestra) solitamente della medesima altezza anche se, talvolta, la maestra può essere più alta del trinchetto. I primi esempi risalgono alla marineria olandese di fine Seicento, ma — cercando di individuare una linea di sviluppo comune su entrambe le sponde dell’Atlantico — le golette realizzate negli Stati Uniti nel corso del secolo XIX presentavano un piano velico basato pressoché esclusivamente di vele di taglio, mentre quelle europee iniziarono

Negli ultimi decenni del secolo XVIII i cantieri di Baltimora (Maryland) avviarono la costruzione di numerose «Golette a clipper» il cui piano velico di grandi dimensioni e gli alberi inclinati verso poppa ne esaltavano le doti di velocità: difatti, vennero impiegate dalla neocostituita US Navy, da corsari («privateers»), negrieri e contrabbandieri. L’insieme di queste caratteristiche e il basso bordo libero rendevano però molto pericolosa la navigazione in condimeteo appena non ottimali, e molte «golette a clipper» andarono perdute in tempeste e in altri sinistri marittimi (collezione autore).

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Il brigantino

Denominazione delle vele quadre e di taglio di una nave goletta: 1) Controfiocco; 2) Primo fiocco; 3) Secondo fiocco; 4) Trinchettina – Albero di trinchetto: 5) Randa di trinchetto; 6) Basso parrocchetto; 7) Parrocchetto volante; 8) Velaccino; – Albero di maestra: 9) Randa di maestra; 10) Controranda di maestra; – Albero di mezzana: 11) Randa di mezzana; 12) Controranda di mezzana (elaborazione informatica autore da J. Bennet, Sailing Rigs, op. cit.).

ben presto a portare anche vele quadre nella parte alta del trinchetto, andando a configurare la goletta a gabbiole che rendeva in tal modo più efficiente lo sfruttamento del vento con andature portanti. Nell’ambito di un incremento dimensionale che vedeva la goletta ormai utilizzata non soltanto nel cabotaggio costiero, il passo verso la goletta a tre alberi (o goletta a palo, in inglese tern schooner) fu abbastanza rapido e, nel caso della presenza di vele quadre nella parte alta del trinchetto, ci si trova di fronte a una goletta a tre alberi a gabbiole. Di norma, con fiocchi e vele di strallo triangolari, le rande erano auriche con boma e picco, spesso sormontate da controrande anch’esse trapezoidali oppure triangolari. I numerosi sviluppi locali della goletta costituiscono varianti di questi tipi-base e nel breve spazio di questo studio non sarebbe possibile descriverli tutti, anche solo concisamente. Tra i molti va ricordata la «goletta a clipper di Baltimora», bastimento per l’appunto originario di questa città del Maryland che dei «clipper» (di cui si dirà più avanti) riprendeva la propensione a una considerevole superficie velica (in realtà anche eccessiva se confrontata con le dimensioni e la configurazione dello scafo) nel contesto dell’armo velico della goletta a gabbiole. In auge sul finire della prima metà dell’Ottocento era utilizzata per la guerra di corsa, come bastimento negriero e dalla US Coast Guard. Notissima e giustamente celebre la goletta America, che ad agosto del 1851 sbaragliò nelle acque dell’Isola di Wight agguerriti, analoghi scafi britannici vincendo la «Coppa delle 100 ghinee» che divenne poi la ben nota «Coppa America», sempre difesa con successo dal New York Yacht Club sino al 1983 (12).

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Un’altra tipologia di armo velico ampiamente diffusa, il brigantino (in inglese brig) è un bastimento a due alberi (trinchetto e maestra) a vele quadre che, nella sua configurazione generale, riprende quella della nave a tre alberi a vele quadre ma senza l’albero di mezzana. Le denominazioni delle vele sono quindi le medesime dei «tre alberi» e, alla maestra, è solitamente inferita una randa aurica con boma e picco (quasi sempre priva di controranda). Tra la fine del Settecento e i primi dell’Ottocento il brigantino fu largamente impiegato dalle principali Marine e, ancora poco dopo il 1840, l’US Navy avviò la costruzione di cinque brigantini (13) lunghi una trentina di metri e armati con dieci carronate da 32 libbre. Tuttavia, l’area ove il brigantino ebbe maggior diffusione dalla seconda metà dell’Ottocento sino alla fine del secolo XIX fu il Mediterraneo, ove questo armo velico fu ampiamente utilizzato per il cabotaggio commerciale costiero e brevi navigazioni, ma anche per impieghi più alturieri che spesso portarono i brigantini (in particolare italiani) ad affrontare l’oceano Atlantico in lunghe navigazioni dirette in America meridionale e settentrionale. Come in tutti gli armi velici con randa (sia alla mezzana, sia alla maestra, come per l’appunto nel caso del brigantino) l’albero che sorreggeva il boma e il picco della randa era talvolta privo del trevo per evitare che la manovra della randa potesse danneggiare la vela quadra inferita sul pennone più basso. A questo scopo — e al fine

Il brigantino ANTONIETTA, di 233 tonnellate di registro e costruito a Savona nel 1853, in uno ship portarit del noto pittore di Marina genovese Domenico Gavarrone raffigurante l’unità nel 1862, quando navigava per l’armatore camoglino Gaetano Lavarello ed era al comando del fratello di quest’ultimo, Fortunato. L’armo velico è tipico dei brigantini a palo dell’epoca, con fiocchi, vele di strallo e rande alla tarchia a entrambi gli alberi che risultano così attrezzati: trinchetto con trevo, parrocchetti e velaccino; maestra con trevo, gabbie e gran velaccio (Museo del Mare e della Navigazione, Genova).

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Il brigantino a palo PASS OF KILLECRANKIE nei primi anni del Novecento. Si noti l’albero di mezzana che, pur essendo dotato di boma e picco, porta una randa triangolare; la controranda sta per essere inferita per accrescere la manovrabilità e le doti boliniere del bastimento (collezione autore).

di incrementare la superficie velica con le andature portanti — soprattutto in Gran Bretagna trovò larga applicazione il concetto di snow, per il quale non esiste un corrispondente termine in italiano. Sullo snow, immediatamente a poppavia della maestra, trovava sistemazione un albero basso e tozzo su cui erano incernierati il boma e il picco della randa: ciò consentiva di poter inferire un trevo anche al pennone basso della maestra, con un certo qual miglioramento della spinta velica e quindi della velocità.

l’installazione di un terzo albero (mezzana/palo) che, dotato di randa aurica e spesso anche di controranda, ne migliorava le doti boliniere. Si tratta del ben noto brigantino a palo (barque oppure bark in inglese), i cui primi esempi sono documentati in Olanda nella seconda metà del Settecento e che ebbe grande diffusione nelle marinerie mediterranee, in quella britannica e in quella statunitense. Una variante del brigantino in termini dimensionali maggiormente contenuti è costituita dal brigantino goletta (brigantine in inglese) un bastimento anch’esso a due alberi, con il trinchetto a vele quadre e la maestra a vele auriche le cui origini possono essere fatte risalire al periodo a cavallo tra la fine del secolo XVII e l’inizio del secolo XVIII (14). Sin verso la fine del secolo XIX questo particolare armo velico non ebbe larga diffusione, anche se il numero di uomini di equipaggio ridotto rispetto a un bastimento a vele quadre ne rendeva appetibile l’impiego nel cabotaggio costiero. Nel tempo sono state costruite varie repliche di brigantino goletta del passato e — recentemente (2002) — il Los Angeles Maritime Institute ha immesso in servizio due unità di questo tipo (15) che costituiscono la componente «navigante» del progetto «TopSail Youth», il cui scopo è avvicinare i giovani, soprattutto quelli maggiormente disadattati o con difficoltà familiari, al mondo della vela. Infine, tra gli armi velici maggiormente diffusi, soprattutto nella seconda metà dell’Ottocento, va eviden-

Derivati a due e a tre alberi della goletta e del brigantino Relativamente alle golette è già stato brevemente introdotto il concetto di «palo» in riferimento, per l’appunto, alla goletta a tre alberi. In effetti per «palo» si intende un albero aggiuntivo — armato con sole vele di taglio — che si aggiunge a poppavia dell’alberatura già «codificata» in un particolare armo velico. Su golette e brigantini il «palo» corrisponde quindi all’albero di mezzana e, in questi due specifici casi, questa denominazione è più lessicale che funzionale: il «palo» sarà effettivamente tale come quarto albero aggiunto a un armo velico a tre alberi su vele quadre, come si vedrà più avanti. Necessità pratiche e commerciali portarono ben presto a un incremento nelle misure dei brigantini che rese necessaria

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La nave goletta SCOPO in un quadro del pittore Domenico Gavarrone. L’armo velico è quello classico dei velieri di questa tipologia, con vele quadre al trinchetto e auriche alla maestra e alla mezzana (Museo del Mare e della Navigazione, Genova).

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ziato quello della nave goletta (in inglese barkentine oppure barquentine): un bastimento che, nel Mediterraneo, in Gran Bretagna e negli Stati Uniti, conobbe un’ampia e fattiva diffusione e che era attrezzato con vele quadre al trinchetto e vele di taglio alla maestra e alla mezzana. Gli accresciuti costi per la manutenzione e, soprattutto, per un numero elevato di uomini di equipaggio dei tre alberi a vele quadre resero necessaria una semplificazione dell’armo velico, concretizzatasi per l’appunto in una nave i cui alberi di maestra e di mezzana — con sole vele auriche ed eventuali vele di strallo — richiedevano meno personale per la loro manovra senza, tra l’altro, la necessità di salire a riva. Inoltre, la nave goletta stringeva bene il vento grazie alle vele di taglio pur mantenendo stabilità e una certa qual velocità nelle andature portanti grazie alle vele quadre del trinchetto. Nell’ambiente marittimo anglosassone queste caratteristiche portarono a definire la nave goletta come «the best bark», ossia «il miglior bastimento»; in Italia, le marinerie livornese e ligure fecero propria questa definizione che, però fu resa (piuttosto impropriamente) come «barco bestia», termine ancora in uso nei primi decenni del secolo XX.

Il tre alberi a vele quadre Ed eccoci giunti all’armo velico più noto e conosciuto, anche dal grande pubblico, entrato a far parte dell’immaginario collettivo grazie a innumerevoli quadri, romanzi e film: si tratta del tre alberi a vele quadre,

11 gennaio 1900: il «tre alberi a vele quadre» britannico DERWENT ormeggiato alla boa fuori Gravesend. Classica «evoluzione finale» di questa tipologia di unità e di armo velico, era stato realizzato con una costruzione composita in legno e in ferro (collezione autore).

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Attorno alla metà del Settecento gli armi velici dei «tre alberi a vele quadre» erano ormai standardizzati verso concetti generali che — seppure con miglioramenti e variazioni — sarebbero rimasti sostanzialmente analoghi sino alla conclusione dell’età velica. Nell’immagine, un preciso e dettagliato modello d’epoca conservato al National Maritime Museum di Greenwich (SLR0476) riferito a una fregata da 24 cannoni presente nel programma navale del 1741. La principale differenza rispetto ai successivi «tre alberi» è data dalla vela latina inferita su un’antenna inclinata alla mezzana: nelle costruzioni dei decenni successivi si affermerà, in Gran Bretagna e all’estero, la tipologia della randa con boma e picco, con ovvi vantaggi nella manovrabilità della vela di taglio soprattutto nel caso di un cambio di mura (R. Gardiner, The Sailing Frigate – a History in Ship Models, op. cit.).

tecnicamente descritto dal termine nave attrezzata a nave (in inglese full rigged ship), attrezzato con bompresso, alberi di trinchetto, maestra e mezzana a vele quadre, con randa alla mezzana, fiocchi e vele di strallo. L’origine di questo armo velico è più antica di quella dei bastimenti precedentemente descritti: già nel Cinquecento, unità di questo tipo sono documentate con precisione sia nei trattati di costruzione navale, sia in opere pittoriche e grafiche di vaglia: per lungo tempo l’armo convisse con altri analoghi che, in taluni casi, prevedevano ben quattro alberi, con trinchetto e maestra a vele quadre e i due poppieri attrezzati con un’unica, grande vela latina inferita su un’antenna di considerevole lunghezza (16). Di diretta derivazione dalla «nao» portoghese, questi bastimenti a quattro alberi erano detti «caracche» e trovarono ampia diffusione non solo nell’Europa settentrionale, nella penisola iberica e in Gran Bretagna (17) ma anche nell’ambito mediterraneo, con molte di esse poste in servizio dalle principali potenze navali dell’epoca (Genova, Venezia e Impero ottomano in primis).

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A sinistra: l’armo velico della grossa fregata USS CONSTITUTION del 1797 mostra l’evoluzione della velatura di una tipica unità dell’era napoleonica: l’unità presenta quattro vele per albero (trevo, basso parrocchetto, parrocchetto volante e velaccino al trinchetto; trevo bassa gabbia, gabbia volante e gran velaccio alla maestra; trevo [assente], bassa contromezzana, contromezzana volante e belvedere alla mezzana) con la randa inferita su un boma e un picco, a loro volta fissati alla parte bassa dell’albero di mezzana con una gola arcuata che ne consentiva l’agevole manovra al cambio di mura (disegno dell’autore, 1986). A destra: Il «clipper» CUTTY SARK del 1869-70, pur con un piano velico maggiorato rispetto a quello della fregata CONSTITUTION, ne riprende tutti gli elementi principali in un’ottica progettuale che per queste unità — destinate al trasporto del tè dalla Cina alla Gran Bretagna con una vera e propria circumnavigazione del globo e il passaggio da Capo Horn — privilegiava la velocità rispetto alla portata che, nel caso specifico del CUTTY SARK, era di sole 963 tonnellate di registro (collezione autore).

A partire dalla metà del Seicento la tipologia del tre alberi a vela quadre era ormai consolidata e, senza sostanziali variazioni, trovò ampia applicazione sino a tutto il secolo XVIII. Un’innovazione fu costituita dall’adozione della randa con boma e picco alla mezzana che, sostituendo la grande vela latina inferita sull’antenna, rendeva molto più agevoli e sicure le virate e, soprattutto, le strambate richiedendo un minor numero di uomini di equipaggio per questo specifico compito, con positivi riscontri sulla generale sicurezza di queste manovre. Dapprima ciascun albero era attrezzato con un massimo di quattro vele (trevi di trinchetto e maestra e le sovrastanti tre vele in posizione più sopraelevata) e fu sostanzialmente questa l’attrezzatura delle unità sia militari, sia mercantili dalla seconda metà del Settecento all’era napoleonica. In seguito (1860-70), mentre la propulsione meccanica iniziava a essere impiegata sulle unità soprattutto militari, nel settore delle navi mercantili si passò ad armi sempre più invelati il cui classico esempio è costituito dai clipper di costruzione sia britannica, sia statunitense, impiegati per navigazioni oceaniche e il trasporto veloce di carichi dall’elevato valore economico (18). La comparazione della superficie velica tra un tre alberi di fine Settecento e un analogo bastimento della seconda metà del secolo successivo può essere visualizzata al meglio dai due disegni al tratto della fregata statunitense USS Constitution del 1797 e del clipper britannico Cutty Sark del 1869-70 che corredano questo articolo.

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Bastimenti a quattro e più alberi Nel solo settore della Marina mercantile, gli ultimi decenni dell’Ottocento e i primi anni del secolo XX furono testimoni di una «corsa al gigantismo» nella costruzione di navi a vela. Da un lato, gli sviluppi del commercio e dei traffici marittimi mondiali richiedevano navi di dimensioni sempre più grandi e, dall’altro, la concorrenza delle navi a vapore (che potevano garantire notevoli capacità di carico e regolarità nei tempi di percorrenza delle lunghe rotte oceaniche, non essendo legate al regime dei venti) rendeva i classici tre alberi ormai non più competitivi. In un primo momento venne sviluppato il concetto di nave a palo (con un quarto albero attrezzato con una randa aurica), e — in breve tempo — seguirono bastimenti a quattro e cinque alberi, tutti attrezzati con vele quadre: tra i più noti va ricordato l’elegantissimo Preussen (della Marina mercantile tedesca), entrato in servizio nel 1902 e andato perduto nei pressi di Dover per sinistro marittimo (19). In questi casi le denominazioni degli alberi aggiuntivi e delle relative vele sono variabili e spesso non ben codificate: molti autori parlano di «quarto» e «quinto» albero, con la denominazione delle vele che replica quella delle vele dell’albero di mezzana. Della goletta e delle sue varianti già si è detto, rimarcando il fatto che l’armo velico di questi bastimenti richiedeva un equipaggio numericamente ridotto con conseguenti, sensibili riduzioni nella gestione dei

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Lawson (1902) — bastimento costruito in acciaio a sette alberi, da oltre 5.200 tonnellate di registro e dall’incredibile dislocamento (ovviamente per una nave a vela), di 11.000 t a pieno carico — le cui grandi dimensioni ne rendevano tuttavia ben poco pratico l’esercizio, anche in considerazione del numero degli uoDenominazione delle vele quadre e di taglio di una nave a palo: Albero di trinchetto: 1) Trevo di mini di equipaggio previsti dalla tatrinchetto; 2) Basso parrocchetto; 3) Parrocchetto volante; 4) Velaccino; 5) Controvelaccino; 6) Contra di controvelaccino; – Albero di maestra: 7) Trevo di maestra; 8) Bassa gabbia; 9) Gabbia bella di armamento: non più di venti volante; 10) Gran velaccio; 11) Controvelaccio; 12) Suppara; – Albero di mezzana: 13) Trevo di persone compreso il comandante e gli mezzana; 14) Bassa contromezzana; 15) Contromezzana volante; 16) Belvedere; 17) Controbelvedere; 18) Contra di controbelvedere; – «Palo»: L) Randa (qui con due picchi); M) Controranda; ufficiali (20). – Vele di taglio: A) Controfiocco; B) Primo fiocco; C) Secondo fiocco; D) Trinchettina; E-K) Vele La grande epopea della vela si condi strallo (elaborazione informatica autore da J. Bennet, Sailing Rigs, op. cit.). cluse negli anni Venti dello scorso secolo e, per quanto solamente a livello locale, navi a vela costi del personale. Furono quindi varate golette a di dimensioni più piccole continuarono a essere impiequattro, cinque e talvolta sei alberi (in molti casi con gate nel decennio successivo e, in taluni casi, anche nel trinchetto e maestra armati anche con vele quadre di corso del Secondo conflitto mondiale, il «periodo gabbia) per giungere, infine, alla più grande nave a d’oro» della propulsione velica e dei relativi diversifivela di quell’epoca: la goletta statunitense Thomas W.

Pola, marzo 1943: le navi scuola a vela della Regia Marina AMERIGO VESPUCCI (in primo piano) e CRISTOFORO COLOMBO all’ormeggio, con gli alberetti parzialmente sghindati per manutenzione e conservazione. Entrambe le unità configurano la tipologia della nave a «tre alberi a vele quadre» («nave attrezzata a nave»); una delle differenze che contraddistingueva il COLOMBO dal VESPUCCI era la presenza — sul COLOMBO — di una randa e del relativo picco all’albero di maestra, per contro assenti dal VESPUCCI (collezione A. de Toro).

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L’unica goletta a sette alberi fu la statunitense THOMAS B. LAWSON, costruita interamente in acciaio, lunga 145 m e da oltre 10.000 tonnellate di portata. Entrò in servizio nel 1902 ed ebbe vita breve, andando perduta il 14 dicembre 1907 in una tempesta al largo delle Isole Scilly (Canale della Manica). Risultò troppo grande e complessa e l’accesso in taluni porti le era impedito dal pescaggio massimo superiore ai 10 m in condizioni di pieno carico. Inoltre, la superficie velica totale (3.715 m2) era poco più di un terzo di quella di molti clipper (a tre alberi) dei decenni precedenti, con dislocamenti di appena un quarto rispetto a quello del LAWSON che, a oggi, resta la più grande nave mercantile a vela mai costruita. L’immagine a destra è una delle foto più note del THOMAS B. LAWSON, scattata in occasione della partenza per il suo viaggio inaugurale da Quincy (Massachusetts, ove era stata costruita) a Newport News (Virginia). I commenti della stampa specializzata dell’epoca non furono generosi, e il LAWSON fu più volte definito «vasca da bagno» e «balena spiaggiata» (collezione autore).

Le accresciute dimensioni delle navi mercantili dell’ultimo periodo velico portarono alla realizzazione di golette a cinque e più alberi. Nell’immagine in bianco e nero qui a destra: la goletta tedesca CARL VINNEN in rotta verso La Plata, verosimilmente nel 1901-02; si noti che l’armo velico riprende quello della goletta a gabbiole, ma — abbastanza curiosamente — le vele quadre di gabbia sono portate al trinchetto e alla mezzana, non alla maestra (collezione autore). Sopra, a sinistra: la nave scuola ARA LIBERTAD della Marina argentina, con armo velico su tre alberi a vele quadre (collezione autore); a destra: tra la fine dell’Ottocento e i primi anni del secolo XX la corsa al gigantismo nelle costruzioni navali mercantili a vela portò alla realizzazione di navi a vele quadre di grandi dimensioni. Il veliero tedesco PREUSSEN aveva cinque alberi per un totale di 47 vele (non tutte presenti nello schema): entrato in servizio nel 1902 andò perduto per sinistro marittimo (collisione con il traghetto a vapore britannico BRIGHTON) sulla costa di Crab Bay, a nord-ovest di Dover (elaborazione informatica autore da J. Bennet, Sailing Rigs, op. cit.).

cati armi descritti in questo studio può essere riferito proprio al lasso temporale 1750-1920 che abbiamo cercato di descrivere e approfondire. Resta sempre valida l’importanza della vela come palestra di marineria e di vita e, infatti, le principali Marine militari e molte istituzioni civili mantengono in servizio navi scuola che costituiscono di per sé uno degli elementi più qualificanti della loro componente addestrativa. La stessa Marina Militare, con il tre alberi Vespucci e la nave goletta

Palinuro, è da sempre attiva in questo specifico settore, nella consapevolezza che anche nell’era dell’elettronica, dei missili e delle portaerei, la pratica velica e la passione che devono animare ogni buon marinaio possono trarre insegnamenti fondamentali e linfa vitale solo dall’imbarco su una di queste unità, a garanzia di un futuro tecnologico che però trova le radici del suo passato nei molteplici bastimenti di un tempo che abbiamo cercato di descrivere in questo studio. 8

NOTE (1) Si tratta, quindi, della navigazione «di bolina». (2) www.compagniadellevelelatine.it/index.php?option=com_content&view=article&id=75&Itemid=165. (3) Si veda, per esempio, la ricostruzione della colombiana Niña (a pag. 83). (4) Va tenuto presente che, all’epoca, la distinzione tra navi mercantili e militari era molto meno netta che oggigiorno e molti mercantili erano anch’essi armati per autodifesa, soprattutto nel caso di navigazioni non in convoglio o comunque non scortate da bastimenti da guerra.

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Due secoli di armi velici (5) Il «tre alberi» a vele quadre può anche essere inteso con la locuzione di «nave attrezzata a nave», corrispondente all’inglese Full Rigged Ship. (6) Nel medesimo periodo, in Olanda, per sloop si intendeva invece un’imbarcazione delle dimensioni analoghe, ma propulsa esclusivamente da remi. (7) Nel corso di due secoli le tipologie di sloop sono state numerose e hanno dato vita a particolari varianti. Tra tutte va ricordato il cosiddetto «sandbagger», di origine statunitense, estremamente invelato e adatto a sviluppare elevate velocità. A fronte di una lunghezza dello scafo nell’ordine degli otto/dieci metri, il bompresso e il boma si estendevano ben oltre la prora e la poppa per quasi il doppio delle dimensioni dello scafo, rendendo queste imbarcazioni assai sensibili in termini di stabilità laterale in relazione alla potenza sviluppata dalle vele. Per meglio controbilanciare lo sbandamento l’equipaggio utilizzava sacchi di sabbia (ed ecco il perché del termine «sandbagger», poiché i sacchi erano spostati a ogni cambio di mure sul lato sopravento dello scafo per migliorare la stabilità). Va infine osservato che nel corso dei due conflitti mondiali la Royal Navy, sempre legata alla tradizione navale, lessicalmente definiva «sloop» unità medio piccole a propulsione esclusivamente meccanica impiegate per compiti di scorta e caccia antisom: un completo stravolgimento del termine, impiegato esclusivamente in relazione a una sua valenza tradizionale e del tutto svincolato dalle reali caratteristiche delle unità che identificava tra il 1914-18 e il 1939-45. (8) Come nel caso dello sloop, anche il cutter trovò un largo impiego militare, con imbarcazioni di questo tipo utilizzate in Europa e negli Stati Uniti dalle dogane e dalle Marine da guerra in funzione anticontrabbando e per operazioni navali costiere già tra la fine del Settecento e l’inizio dell’Ottocento. E, in analogia all’uso britannico ormai solo tradizionale del termine «sloop» (si veda la nota 7), ancora oggi la Guardia costiera statunitense fa precedere il nome delle proprie unità dall’acronimo «USCGC» (US Coast Guard Cutter) anche nel caso di moderne, grosse unità che nulla hanno a che spartire con il «cutter» delle origini. Nella Royal Navy dell’era contemporanea, nel solco della tradizione velica del passato, è denominata «Admiral’s cutter» la motobarca (dapprima a vapore e ora a propulsione Diesel) imbarcata su unità di grandi dimensioni per le necessità logistiche dello Stato Maggiore e dell’ammiraglio presente a bordo. (9) Inoltre, l’armo a «ketch» identificava anche nell’Ottocento e nei primi anni del secolo XX la cosiddetta «Thames Barge» (locuzione talvolta erroneamente tradotta in «Chiatta del Tamigi»), ossia un bastimento commerciale per cabotaggio costiero e navigazione fluviale di ambito britannico, per nulla riconducibile alla tipologia della «chiatta». (10) Cfr. G. Goldsmith-Carter, op cit. in bibliografia, pag. 89. Il dibattito tra i velisti sulla validità — o meno — dell’armo velico a yawl è tuttora in essere ed esistono posizioni abbastanza contrapposte nei principali circoli velici d’Europa e di oltreoceano. Si veda, per esempio, https://asa.com/news/2015/09/08/whats-in-a-rigthe-yawl/. (11) www.treccani.it/vocabolario/goletta2/. Il termine non va confuso con il porto tunisino di La Goulette (Halq el-Wadi) la cui etimologia va invece fatta risalire al «gullet», ossia al canale che collega Tunisi al suo porto. (12) L’armo velico della goletta America, con l’albero di maestra leggermente più alto del trinchetto e un elegante bompresso, era composto da rande auriche con boma e picco, controrande, fiocchi e vele di strallo. Armata con tre cannoni Dahlgren prese parte con la Marina dell’Unione alle operazioni navali nel corso della Guerra civile americana e sopravvisse sino al marzo 1942, quando una forte nevicata causò il crollo della struttura al cui interno era collocata, distruggendola completamente. (13) Somers, Bainbridge, Truxtun, Perry e Lawrence, eponimi ricorrenti ancora oggi nell’onomastica navale statunitense. (14) Si veda H.I. Chapelle, History of American Sailing Ships, Bonanza Books, New York 1988. (15) Exy Johnson e Irving Johnson. (16) Il terzo albero (mezzana) era seguito dal quarto, detto «bonaventura». (17) Classico esempio di questa tipologia è costituito dalla caracca Mary Rose del 1510-12, andata perduta in combattimento nei pressi dell’Isola di Wight nel 1545 e il cui relitto è oggi conservato all’interno di un’apposita struttura climatizzata dell’arsenale di Portsmouth. (18) Il termine «clipper» deriva dal verbo inglese «to clip», ossia «tagliare velocemente [le onde]», che ben definisce le qualità velocistiche di queste navi. I clipper britannici raggiungevano la Cina via Capo di Buona Speranza per caricare tè e l’Australia per imbarcare lana e, circumnavigando il globo, doppiavano Capo Horn risalendo l’Atlantico sino all’arcipelago britannico; molti clipper americani erano impiegati per il trasporto dell’oro dalla California alla costa orientale degli Stati Uniti, doppiando anch’essi — nelle navigazioni di andata e ritorno — Capo Horn. (19) Il Preussen fu investito dal piroscafo britannico Brighton il cui comandante, come fu appurato nel corso dell’inchiesta condotta dalle competenti autorità, aveva sottostimato l’elevata velocità della nave germanica. (20) Il Thomas W. Lawson non disponeva di propulsione meccanica ausiliaria e alcune piccole macchine a vapore erano utilizzate solo dai verricelli per la manovra delle vele. Costruito in acciaio, il Lawson era difficilmente manovrabile in acque ristrette e andò perduto a dicembre del 1907, nei pressi delle Isole Scilly (Canale della Manica), in seguito ai danni riportati nella sua ultima traversata atlantica che, con partenza da Filadelfia, avrebbe dovuto concludersi a Londra. BIBLIOGRAFIA AA.VV., Guide des Voiliers, Quimper, La Chasse Marée Editions de l’Estran, 1988. AA.VV., Capitani Coraggiosi – Velieri e Marinai dell’Ottocento, Genova, Tormena Editore, 1994-1996. R. 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STORIA E CULTURA MILITARE

Il Potere Aeronavale Strategie, dottrine e rivalità istituzionali (1918-48)

Fabio De Ninno

Professore a contratto e assegnista di ricerca presso l’Università di Siena, segretario di redazione di Italia contemporanea, coordinatore del progetto della bibliografia italiana di storia militare 2008-19, del Centro interuniversitario di studi e ricerche storico militari. Collabora con il Second World War Research Group del King’s college di Londra. Tra le sue pubblicazioni ricordiamo Fascisti sul mare: la Marina e gli ammiragli di Mussolini (2017) e I sommergibili del fascismo (2014), oltre a numerosi capitoli e articoli in pubblicazioni scientifiche italiane e straniere. 90

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Idrovolante RO 43 pronto per essere catapultato da una corazzata della classe «Littorio» (USMM).

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a nascita e lo sviluppo dell’aviazione hanno dato luogo a una serie di infinite controversie nell’ambito delle istituzioni militari, dovute all’introduzione di un elemento nuovo, il potere aereo, che rompeva completamente la precedente ripartizione del mondo militare tra terra e mare. La capacità di sviluppare un’efficace integrazione del potere aereo da parte delle Marine è dipesa anzitutto dall’avere una visione strategica coerente in cui inserire questo elemento, oltre che da un contesto istituzionale favorevole in cui al dibattito facesse da contraltare una effettiva capacità di cooperazione interforze o il mantenimento di una stretta autonomia, le cui fondamenta stavano nella strutturazione politica delle Forze armate. In questo articolo presenteremo brevemente tre casi (giapponese, italiano tra le due guerre e statunitense del secondo dopoguerra) circa l’elaborazione della «risposta» aeronavale alla luce dei problemi strategici fronteggiati dai tre paesi e dei contesti istituzionali in cui le tre Marine operavano, per illustrare come la complessità del problema non possa ridursi, come viene spesso fatto nella pubblicistica, a una diatriba tra Aeronautica e Marina. Il primo caso che esamineremo è quello nipponico. L’Aviazione Navale giapponese e le task force di portaerei che operarono nella prima fase della guerra del Pacifico sono passate alla storia come uno degli esempi meglio riusciti di innovazione dottrinaria e tecnica aeronavale, sviluppati da un paese con risorse inferiori a quelle degli avversari, soprattutto per la loro capacità di spostare, anche se temporaneamente, l’ago della bilancia nei rapporti di forza tra le parti (1). La costruzione dell’arma aeronavale nipponica tra le due guerre risentì di alcune particolarità connesse alla situazione strategica giapponese, alle quali lo sviluppo dell’Aviazione Navale dovette conformarsi. Nel contesto immediatamente successivo alla Grande guerra, infatti, le capacità dell’Aviazione navale e soprattutto di quella imbarcata non erano ancora chiare e crearono forti discussioni in tutte le maggiori potenze navali sul futuro della guerra sul mare. Il caso giapponese nelle sue fasi iniziali non fu molto differente da quello italiano, statunitense o britannico. Avendo osservato le innovazioni tecnologiche durante la Grande guerra, nei primi anni Venti la leadership politico-militare nipponica si convinse dell’enorme potenziale distruttivo che l’aviazione poteva avere, specie nel caso di un attacco contro le esposte isole metropolitane e del ruolo che le portaerei potevano eventualmente avere in un’azione di questo tipo. Da questo derivarono i tentativi nipponici di limitare il dislocamento e il numero delle portaerei durante la Conferenza navale di Washington (1922). Nel frattempo, complice la crescente rivalità con Stati Uniti e Gran Bretagna nel Pacifico orientale e il timore di rimanere al terzo posto nella competizione tecnologica con le altre due Marine, i giapponesi continuarono l’importazione di tecnologia straniera per potenziare la loro componente aeronavale. L’arrivo nella missione britannica del barone Sempill nel 1920 e le missioni inviate in Europa per studiare i ritrovati tecnici delle altre maggiori potenze furono la conseguenza di questa scelta (2).

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Il Potere Aeronavale: strategie, dottrine e rivalità istituzionali (1918-48)

L’Ammiraglio della Marina imperiale giapponese Isoroku Yamamoto con lo staff a bordo della YAMATO, costruita prima della Seconda guerra mondiale. Già a metà degli anni Trenta, l’ammiraglio Yamamoto invocava «l’onnipotenza» del potere aereo anche sul mare (fonte immagine: en.wikipedia.org).

L’indipendenza della Marina giapponese le consentì di destinare risorse al comparto aeronavale nonostante le incertezze, in particolare circa la costruzione di portaerei, fossero notevoli, costringendo anche a un approccio sperimentale, riflessosi nella varietà di design che caratterizzò le costruzioni di portaerei nipponiche nella prima fase del loro sviluppo. Tuttavia, dal 1928, con la costituzione della prima divisione di portaerei, un intenso dibattito cominciò nell’ambito della Marina circa il ruolo che la nuova nave doveva occupare (3). Almeno fino a metà degli anni Trenta, i velivoli imbarcati non davano garanzia di affidabilità, capacità di carico e autonomia sufficiente per poter essere considerati in un ruolo indipendente e quindi le portaerei erano confinate a un ruolo ancillare alle navi da battaglia, dovendo provvedere alla difesa aerea e alla ricognizione per la flotta. Tuttavia, ritenendo che, in qualunque scontro aeronavale, il primo bersaglio dei velivoli imbarcati avrebbe dovuto essere la componente imbarcata nemica, gli aviatori navali cominciarono a valutare le portaerei nemiche come primo bersaglio da colpire nel corso di un’azione della flotta, segnando l’inizio di una rivoluzione tattica

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che ebbe anche implicazioni strategiche (4). Se agli inizi degli anni Trenta la Marina giapponese non aveva ancora una dottrina coerente, il miglioramento delle prestazioni dei velivoli, in particolare dei bombardieri in picchiata, permise di rafforzare ulteriormente l’indirizzo anti-portaerei nemiche presente nell’aviazione imbarcata, inserendola nella dottrina navale del periodo, secondo cui data l’inferiorità numerica giapponese occorreva colpire il nemico per primi da una distanza maggiore. Nonostante questo, la preminenza degli ammiragli sostenitori della centralità della nave da battaglia continuò a dominare il pensiero operazionale giapponese, anche se alcuni leader più visionari, tra cui l’ammiraglio Isoroku Yamamoto, già a metà degli anni Trenta invocavano «l’onnipotenza» del potere aereo anche sul mare. Tale espressione era più una valutazione prospettica e visionaria, ma non per questo meno giusta, di ciò che sarebbe accaduto e agiva da propulsore perché una parte della leadership navale giapponese si convincesse della centralità del potere aereo in ambito marittimo, nonostante il conservatorismo radicato nei vertici navali, os-

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Il Potere Aeronavale: strategie, dottrine e rivalità istituzionali (1918-48)

sessionati dalla costruzione delle «super» navi da battaglia che avrebbe dissipato risorse nella costruzione della classe «Yamato». Il dibattito interno negli anni Trenta fu condotto con toni aspri: al comandante della Flotta combinata, ammiraglio Sankichi Takahashi che chiedeva maggiori investimenti sulla componente aeronavale fu suggerito, dal ministro della Marina e dallo Stato Maggiore, di «farsi i fatti suoi» (5). Ciononostante, la ferma posizione da parte dei sostenitori dello sviluppo aeronavale fu fondamentale perché l’Aviazione Navale guadagnasse spazio e credibilità, progressivamente confermati dall’esperienza nell’addestramento. Persisteva comunque anche un imperativo strategico a spingere lo sviluppo aeronavale nipponico. Infatti, fu la potenziale minaccia dal mare contro il territorio metropolitano giapponese che spinse, ai primi degli anni Trenta, a una rapida espansione dell’Aviazione Navale basata a terra, per renderla capace di difendere le esposte città costiere giapponesi e di utilizzare le basi della Micronesia per infliggere il massimo danno possibile a una eventuale forza statunitense in rotta verso il Pacifico occidentale per minacciare il Giappone. Capacità di percepire l’innovazione e sostenerla, pure in un contesto in parte ostile, data la presenza di molti «battleship admirals», crearono i presupposti perché il Potere Aeronavale giapponese crescesse alla vigilia della Seconda guerra mondiale. La Guerra in Cina, cominciata nel 1937, in cui l’Aviazione Navale fu largamente impiegata, servì da terreno sperimentale sia per il miglioramento dell’addestramento, sia per allargare le opzioni tattiche a disposizione. L’esperienza portò all’espansione dei compiti dell’aviazione imbarcata alla distruzione delle basi aeree nemiche e di altri bersagli a terra, oppure alla scorta dei bombardieri per missioni su lunghe distanze, motivo dal quale scaturì il design del caccia A6M Zero. Tale esperienza fu fondamentale per i successi dei primi sei mesi nella Guerra del Pacifico, in cui le forze aeronavali nipponiche si dimostrarono decisive sotto tutti i profili per il successo giapponese mostrandosi più preparate e tecnologicamente comparabili a quelle statunitensi (6). Il caso della Marina giapponese è interessante, perché la mancanza di esperienza diretta e risorse inferiori a quelle dei potenziali rivali non limitarono lo sviluppo dell’arma aerea, sebbene lo subordinassero almeno fino

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alla fine degli anni Trenta al ruolo centrale che le navi da battaglia continuavano ad avere nelle teorie operazionali e tattiche nipponiche. È evidente che la mancanza di una aviazione indipendente incise favorevolmente su queste possibilità di sviluppo, ma alle spalle c’era un imperativo strategico, quello della difesa del territorio metropolitano dal mare, che servì da input costante lungo tutto il periodo considerato, accompagnati da leader navali innovativi, capaci di sostenere le loro posizioni nel dibattito interno con coerenza lungo tutto il periodo considerato e percepire il potenziale offensivo della componente aeronavale come superamento della tradizionale linea da battaglia. Le vicende italiane degli stessi anni presentano sia forti differenze, sia alcuni spunti comparativi con il caso giapponese. Contrariamente alla Marina nipponica, l’esperienza aeronavale italiana della Grande guerra era ampia ed era anche stata una storia di successo, avendo costruito un’aviazione di Marina efficiente e numerosa (7). La coscienza dell’importanza che l’arma aerea poteva avere, sin dalla fine della guerra e nei primi anni Venti, fece emergere nella Regia Marina un gruppo di personalità a favore della costruzione di un’Aviazione navale adeguata e di navi portaerei, dando inizio anche a un importante dibattito interno che proseguì nel decennio successivo. Anche qui, la supposta importanza delle portaerei rifletteva una precisa necessità strategica, ovvero che, considerando l’ampiezza del Mediterraneo, in particolare della parte occidentale del bacino, dove le forze italiane avrebbero potuto confrontarsi con quelle francesi, i velivoli basati a terra non sarebbero stati abbastanza efficienti per la copertura della Squadra (8). I tentativi di ottenere un’ampia Aviazione Navale e navi portaerei furono però bloccati dalla costituzione della Regia Aeronautica voluta dal governo fascista (1923) e dalle restrizioni di bilancio presenti nel periodo del ministero di Thaon di Revel (1922-25). Va detto che in parte questo fu dovuto all’opposizione del ministro alla Cooperazione con il vicecommissario all’Aeronautica Aldo Finzi (1923-25), il quale a sua volta lottava con un contesto di scarse risorse che rendevano la nuova Forza armata incapace di un effettivo supporto aeronavale per il momento (9).

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Il Potere Aeronavale: strategie, dottrine e rivalità istituzionali (1918-48)

L’esistenza di posizioni contrapposte all’interno della stessa Marina contribuì ulteriormente a indebolire la visione strategica in cui la componente imbarcata potesse avere un ruolo. Infatti, al termine di questa fase, nell’agosto 1925 fu lo stesso Comitato degli ammiragli, in particolare nella persona del Capo di Stato Maggiore Alfredo Acton, a rigettare l’ipotesi di costruire una portaerei date le specifiche condizioni geografiche in cui la marina doveva operare: «L’impiego di navi portaerei è indispensabile quando le azioni costiere degli idrovolanti sono situati su coste tanto lontane da non avere la sicurezza ch’essi possano concorrere con l’impiego della flotta. Ora le coste tirreniche sono tali che, tenuto anche conto di quella maggiore autonomia che è pur prevedibile che abbiano ad acquistare gli aerei, il mare che le bagna può essere tutto vigilato da apparecchi costieri. Lo stesso succede per le coste adriatiche e lo stesso per quelle sicule che fiancheggiano la zona tunisina ed il canale di Malta. Nei mari ora indicati abbiamo dunque la sicurezza che l’idrovolante costiere ci dà completa garanzia di supplire in tempo, non solo al servizio di vigilanza ma anche quello del bombardamento; e lo stesso succede per la zona di circa 200 miglia che dalla Sardegna si estende sino alle Baleari» (10). Nel periodo seguente, in cui Giuseppe Sirianni fu prima sottosegretario e poi ministro (1925-33), questa posizione fu nuovamente invertita. Ernesto Burzagli, Capo Di Stato Maggiore dal 1927 al 1930, assieme al suo vice Romeo Bernotti, tornò a premere perché una nave di questo tipo fosse realizzata, ritenendo troppo esposta la Squadra all’azione aerea nemica e progetti furono studiati in tal senso. Questa volta a ostacolare gli intenti della Marina fu la Regia Aeronautica, ora controllata da Italo Balbo. Nella seconda metà degli anni Venti, la nuova Forza armata stava, infatti, ancora costruendo la sua identità, centrandola attorno alla dottrina del bombardamento strategico di matrice douhettiana e perciò, date anche le scarse risorse italiane, aveva come necessità politica oltre che militare, il mantenimento del controllo di tutti i reparti di volo. In un sistema policratico, come quello dell’Italia fascista, dove le Forze armate competevano per le risorse senza una cooperazione e ripartizione basata su presupposti strategici comuni, questo permise a Balbo, figura cari-

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smatica ed esponente di rilievo del regime, di marginalizzare le richieste della Marina (e dell’Esercito) di una aviazione maggiormente orientata al supporto interforze e quindi anche di respingere le richieste di portaerei (11). Tale atteggiamento si riflesse ugualmente nel numero relativamente contenuto di esercitazioni congiunte che rallentarono lo sviluppo della dottrina aeronavale italiana. Con l’accelerazione del processo di riarmo nei primi anni Trenta, il Capo di Stato Maggiore Gino Ducci (1930-34), ritenendo fondamentale disporre di una componente aeronavale efficace per attaccare le basi navali nemiche, premette attivamente per ottenere un rafforzamento dei reparti della Regia Aeronautica destinati alla cooperazione con la Marina, proponendo anche che l’istituzione si facesse carico dell’acquisto dei velivoli aerosiluranti per conto dell’aviazione, perorando anche la costruzione di portaerei. Il nuovo sottosegretario (1933-40) e Capo di Stato Maggiore (dal 1934) della Marina, Domenico Cavagnari, nonostante il suo personale scetticismo sull’utilità della nave, inizialmente si dimostrò possibilista, mettendo allo studio i progetti per la nave che furono affidati a Umberto Pugliese (12). Parte di questo scetticismo, condiviso da altri ammiragli, era dovuto al ritenere che l’Aviazione Navale non avesse ancora raggiunto la capacità di infliggere danni decisivi alle navi da battaglia, le quali nelle loro versioni più moderne avrebbero potuto resistere agli attacchi aerei orizzontali, lasciando il cannone come arma più efficace in uno scontro navale (13). Posizioni che comunque trovavano riscontro anche in buona parte della leadership navale di altre potenze, dove però, come abbiamo visto nel caso giapponese, esistevano leader innovativi in posizioni di potere capaci di promuovere comunque l’innovazione. L’urgenza di rafforzare la componente aeronavale si manifestò con forza nel corso della crisi mediterranea del 1935-36, seguita all’invasione italiana dell’Etiopia, che vide parzialmente mobilitate la Regia Marina e la Royal Navy nel Mediterraneo. In quella concitata fase, i vertici navali chiesero che la Regia Aeronautica ponesse gran parte del suo potenziale sforzo al servizio della cooperazione aeronavale, ma le forze disponibili, dato anche l’impegno africano, erano ridotte. Lo Stato

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Il Potere Aeronavale: strategie, dottrine e rivalità istituzionali (1918-48)

L’Ammiraglio Paolo Thaon di Revel, ministro della Regia Marina (al centro). Durante il suo incarico ministeriale (1922-25), l’obiettivo di ottenere un’ampia Aviazione Navale ha dovuto fare i conti con le restrizioni di bilancio e la costituzione della Regia Aeronautica (USMM).

Maggiore, conscio che in un futuro confronto con i britannici le possibili operazioni avrebbero dovuto estendersi ben oltre il Mediterraneo centrale, inserì nei suoi piani per l’espansione della flotta l’ipotesi di almeno 2 navi portaerei. Tali intenti, che esprimevano il parere tecnico dello Stato Maggiore, furono però bloccati dalla scelta politica, operata da Mussolini e Cavagnari, di rinunciare alla costruzione delle navi, ritenendo che il risultato nel confronto nel Mediterraneo, terminato con l’inazione britannica, avesse dimostrato il timore di subire perdite da parte della Royal Navy dovute alla superiorità italiana in sommergibili e velivoli basati a terra. Da quel momento, la visione strategica adottata dalla Marina, ovvero centrare tutte le sue energie sulla difesa del Mediterraneo centrale da un’eventuale offensiva navale anglo-francese, pensando a uno scontro decisivo, portò a scartare la necessità di questo tipo di nave, nonostante nella pianificazione per le future costruzioni dello Stato Maggiore comparisse, ancora nel 1938, l’ipotesi di costruire più esemplari (14). Piani che comunque rimasero sulla carta, mentre il dibattito interno censurava le opinioni «dissidenti» in tema aeronavale

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(15). La Regia Aeronautica nel frattempo, nonostante attraversasse una fase di fortissima crisi dottrinaria, dovuta al fatto che le esperienze in Etiopia e in Spagna mostravano la sua maggiore utilità nell’impiego interforze, continuò a preservare gelosamente la sua autonomia, temendo i rischi di una subordinazione alle esigenze dell’Esercito e della Marina. Se, per quanto riguarda la mancanza di cooperazione con l’aviazione basata a terra fu decisivo il caos istituzionale creato dal regime fascista e la mancanza di uno Stato Maggiore generale efficace, alla cui creazione la Marina pure si era opposta, nel caso della portaerei alcune responsabilità interne all’istituzione ci furono, frutto appunto di visioni strategiche e dottrinarie contrapposte. Come è noto, nella seconda metà degli anni Trenta, la posizione di abbandono dell’utilità della portaerei fu sposata dallo stesso Sottosegretario Cavagnari (16). Si trattava di posizioni che abbiamo visto avere riscontro sin dagli anni Venti e condivise anche da alcuni pensatori di primo piano come Giuseppe Fioravanzo, che pure sosteneva in generale l’utilità di questo tipo di nave, ma la negava per le specifiche condizioni

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geografiche dell’Italia (17). Posizioni analoghe le espressero anche comandanti di rilievo come Iachino che nell’almanacco navale del 1938 scriveva la portaerei poteva essere necessaria per marine destinate a una proiezione oceanica (18). Analogamente l’Ammiraglio Sansonetti in un suo articolo pubblicato sul Brassey Naval Annual, dello stesso anno giudicava la portaerei non indispensabile per l’Italia sempre a causa della peculiarità geografica del paese e del rapido sviluppo dei velivoli (19). Possiamo osservare come queste opinioni si basavano sull’ipotesi che una aviazione navale basata a terra fosse sufficiente per la copertura delle operazioni nel Mediterraneo centrale, ovvero in uno spazio di proiezione limitato che aveva i suoi confini occidentali nelle acque prospicenti il Mar Ligure, la barriera delle isole Sardegna e Corsica e la Tunisia e quelli orientali nelle acque a ovest di Creta. Tale spazio era coperto dalle basi aeree italiane, ma nonostante questo già molto prima della guerra la rivalità interforze con l’Aeronautica avesse già dato ampi segni di malfunzionamento, tanto che nel 1931 il capo di stato maggiore Ducci affermava che: «La difesa della flotta nelle azioni prevedibili resta così nulla» (20). In sostanza, i

L’idrovolante RO 43 in ammaraggio (USMM).

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sostenitori della non necessità della portaerei risentivano del clima politico del tempo. Era una impostazione opposta rispetto a quella dei pensatori navali più innovativi, come Ducci, Bernotti e Burzagli, che invece nel decennio precedente avevano rivendicato la necessità della portaerei come strumento preliminare per il funzionamento a livello operazionale della flotta e per proiettare la Squadra fuori dalle «acque di casa», rispondendo a un maggiore spirito offensivo, ritenuto necessario data l’inferiorità numerica italiana e la ricerca di una proiezione di potenza mediterranea invocata dal fascismo. La rivendicazione esterna da parte dell’Aeronautica e il silenzio del sottosegretario Cavagnari contribuirono a questa situazione, come ricordato da Romeo Bernotti nelle sue memorie, quando l’ammiraglio Ducci nel 1935 provò a porre la questione a Mussolini, rappresentando in realtà quelle frange del pensiero navale italiano che aveva continuato a rivendicare dall’interno dell’istituzione la necessità della nave portaerei, ostacolate dal clima politico del tempo (21). In realtà, questo creò i presupposti perché la cooperazione aeronavale non funzionasse, specie per la mancanza di un’aviazione imbarcata che anche nelle acque del Mediterraneo centrale era necessaria per operare. Gli effetti di questa mancanza si fecero sentire precocemente nel corso dello scontro di Punta Stilo (9 luglio 1940), come metteva in luce la relazione di Supermarina sullo scontro: «I velivoli da ricognizione inglesi hanno potuto seguire indisturbati la nostra flotta, fornendo preziose e continue informazioni al loro comandante in capo, perché è a noi mancata la possibilità di obbligarli ad allontanarsi mediante l’invio di apparecchi da caccia, apparecchi che per la loro limitata autonomia non possono trovare impiego in mare largo se non partendo da navi

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portaerei al seguito della flotta. La presenza della nave portaerei al seguito della flotta inglese, oltre a permettere di contrastare l’attività dei nostri aerei da ricognizione e da bombardamento, ha consentito al nemico di effettuare attacchi con idrosiluranti che, per quanto sventati con la manovra, hanno tuttavia scompaginato le formazioni attaccate ritardando la riunione col resto delle nostre forze» (22). Come è noto l’aviazione imbarcata britannica poi mostrò tutto il suo potenziale offensivo a Taranto (11 novembre 1940) (23). Un ultimo elemento, infine, da considerare è che il ritardo acElicottero Sikorsky R4B della U.S. Coast Guard in fase di decollo dalla piattaforma poppiera della USS cumulato non poté essere recupe- NORTHWIND il 2 gennaio 1947 (history.navy.mil). rato «in corsa» durante la guerra, una presenza globale flessibile che poteva essere garendendo la componente aeronavale italiana la meno rantita solo dalla Marina. Al tempo stesso però gli amefficace tra le maggiori potenze navali dell’epoca. La miragli affrontavano uno scenario in cui l’aviazione mancanza di una portaerei come strumento integrato statunitense, istituita come branca indipendente nel nella flotta ebbe un peso notevole a riguardo e in ge1947, poteva offrire, attraverso la «air-atomic stranerale la Regia aeronautica data la sua scarsa attenzione tegy», la possibilità di attacchi rapidi e decisivi in proal problema aeronavale si dimostrò la forza meno effifondità contro il territorio nemico. Il tutto mentre da ciente tra quelle dell’Asse nel Mediterraneo, affonparte del mondo politico, alla luce dell’esperienza della dando tra il 1940 e il 1943 il 15,3% del tonnellaggio guerra appena terminata, cresceva la pressione per una da guerra e mercantile alleato in questo scenario contro maggiore integrazione interforze, espressa dal National il 27,9% della Marina (24). Se la necessità di adattasecurity act del 1947 e dalla creazione dell’ufficio del mento a nuovi scenari strategici e a nuove tecnologie Segretario alla Difesa nel 1949. Il rischio effettivo era accomunava la sfida posta davanti alle Marine giappoche la Marina fosse privata della sua componente aenese e italiana, il discorso è analogo per quella statunironavale per conferirla alla neonata US Air Force tense nel secondo dopoguerra, chiamata a rispondere (1947), nell’ambito di una razionalizzazione che semalla domanda che il segretario alla Marina James V. brava orientarsi verso un controllo totale di ciascuna Forrestal provocatoriamente propose al comitato della delle tre Forze armate sui mezzi destinati a operare nelcamera statunitense per la Marina nel settembre 1945: l’elemento (aria, acqua, terra) di riferimento. In questo «perché dovremmo mantenere una Marina dopo questa nuovo scenario, l’US Navy dovette trovare una risposta guerra?» (25). La risposta doveva trovare origine nei dottrinaria che si confacesse allo scenario internaziocambiamenti strategici e tecnologici fronteggiati dagli nale e politico, permettendole di conservare la struttura Stati Uniti in quella fase. di forza multiruolo aeronavale che le aveva permesso Chiamate al contenimento dell’influenza sovietica, di vincere la guerra nel Pacifico. le Forze armate di Washington avevano la necessità di

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La risposta arrivò con il rifiuto da parte dei leader navali statunitensi di un ruolo difensivo per la Marina, centrato sulla scorta a eventuali trasporti diretti verso l’Europa. In parte, questo si riflesse nell’emergere di una fazione di entusiasti riguardo le potenzialità dell’arma atomica. Approfittando del fatto che l’aviazione statunitense non aveva ancora abbastanza bombardieri e basi avanzate per poter preparare una strategia di risposta atomica rapida in caso di conflitto, lo scopo della Marina avrebbe dovuto essere battere l’aviazione al suo stesso gioco, costruendo una propria forza aerea strategica capace di lanciare un’offensiva aerea atomica rapida e decisiva. Tale approcciò però appariva riduttivo a gran parte dei vertici navali, soprattutto per la sottovalutazione della complessità dei problemi strategici che una guerra contro l’Unione Sovietica avrebbe comportato, traducendosi plausibilmente in un conflitto piuttosto lungo (26). Già dal 1945-46, Ernest J. King e Chester V. Nimitz, quest’ultimo diventato capo delle operazioni navali nel dopoguerra, avevano sottolineato che lo scopo della Marina non doveva essere solo combattere altre flotte, perché il controllo marittimo era solo uno dei mezzi a disposizione in una guerra integrale e il Potere Navale un elemento per acquisire, conquistare e coprire posizioni strategiche. Partendo da questi presupposti, tra il 1946 e il 1947, il vicecapo delle operazioni navali, viceammiraglio Forrest Sherman, codificò una nuova dottrina prevedendo il mantenimento delle capacità multiruolo della Marina con al centro la componente aeronavale, dotata della capacità di attuare attacchi sia convenzionali, sia atomici, inserendola nel contesto della prima fase della Guerra Fredda (27). In quegli anni, lo scenario plausibile di un conflitto avrebbe visto una rapida avanzata sovietica nell’Europa continentale. Nel corso di questa fase lo scopo della Marina avrebbe dovuto essere evacuare le forze statunitensi dal continente e poi guadagnare e mantenere basi avanzate intorno allo stesso (Spagna, parte dell’Italia e Regno Unito). Sarebbe seguita una controffensiva, per riconquistare l’Europa occidentale, dopo la mobilitazione dell’economia statunitense. In questa fase il controllo del mare era fondamentale per trasportare e rifornire le forze occidentali destinate a

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riprendere il controllo dei territori persi, mentre alle spalle del fronte il superiore potenziale aereo e atomico statunitense avrebbe attaccato il territorio nemico e le sue reti logistiche. La sicurezza delle comunicazioni marittime occidentali però non era minacciata da una grossa forza di superficie, in quanto la Marina sovietica non aveva portaerei e solo poche navi da battaglia, per la maggior parte obsolete, per di più isolate in differenti flotte separate geograficamente, sparse nei vari mari che bagnavano il territorio sovietico. La vera minaccia semmai era costituita dalla flotta subacquea sovietica, forte di circa 250 battelli nel 1948 e dall’impiego di mine, lanciabili dai 2.400-3.000 aerei stimati a disposizione dell’Aviazione navale sovietica. A questo si aggiungeva il fatto che nell’arco di pochi anni, i sovietici plausibilmente avrebbero migliorato le qualità tecniche dei loro battelli, avendo avuto accesso alle nuove tecnologie del sottomarino tedesco «Tipo XXI», che rendevano in parte inefficaci le tecnologie e le tattiche antisommergibile ereditate dalla Seconda guerra mondiale (28). Data la centralità del problema antisommergibile, come strumento di protezione delle comunicazioni e la difficoltà di un approccio difensivo pienamente efficace, la soluzione escogitata fu l’adozione di una postura offensiva, centrata sulla possibilità di impiegare attacchi aerei contro le basi nemiche di sommergibili. Tuttavia, questo implicava portare le forze aeronavali a distanza ravvicinata delle basi aeree nemiche, esponendo le vulnerabili portaerei agli attacchi dei bombardieri nemici. Tuttavia, in quel particolare frangente, data la debolezza tattica dell’aviazione nel provvedere ad attacchi di precisione, le portaerei potevano offrire anche la possibilità di attacchi di sorpresa condotti con accuratezza proprio contro le basi che costituivano una potenziale minaccia ai loro danni. Sherman, in questo modo, elaborò una dottrina che conferiva nuova centralità alla componente aeronavale imbarcata, inserendola sia nell’ambito del tradizionale ruolo di controllo delle rotte marittime, al servizio della controffensiva in Europa, sia nell’ambito della strategia aerea volta a colpire il territorio sovietico supportata dall’aviazione. Infine,

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La USS FORT MARION, impiegata durante la Guerra di Corea (history.navy.mil).

spingendo queste capacità al limite, Sherman ipotizzò anche di impiegare le portaerei per sostenere le forze di terra impiegate in Europa continentale e in Medio Oriente, in attesa che l’aviazione si mobilitasse appieno, motivo per il quale voleva una forza offensiva di grandi dimensioni da dislocare nel Mediterraneo (29). La Marina statunitense entrò così nell’era atomica offrendo una visione che coniugava l’integrazione interforze complessiva del proprio strumento aeronavale nell’ambito dei nuovi problemi strategici emersi in seguito all’invenzione delle armi nucleari e alla maturazione del confronto bipolare con l’Unione Sovietica. Il tutto era il riflesso di una nuova capacità di cooperazione istituzionale, inserita nell’ambito della risposta al problema strategico fronteggiato dagli Stati Uniti nel loro complesso. Sfortunatamente questa strategia sarebbe stata messa immediatamente in crisi dal problema del controllo delle armi nucleari, che dominò le rivalità interforze statunitensi negli anni Cinquanta, iniziata con la «ri-

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volta degli ammiragli» del 1949, complice la pretesa del monopolio atomico da parte del SAC (Strategic Air Command) che avrebbe portato a una decisa preminenza dell’Aeronautica nei programmi militari degli anni avvenire. A «salvare» la Marina statunitense avrebbe provveduto la Guerra di Corea (195053), evidenziando l’imprescindibilità del Potere Aeronavale come strumento di proiezione e disponibilità immediata in mancanza di basi dato che furono le portaerei a provvedere al supporto immediato nella prima fase della guerra (30). Le tre esperienze che abbiamo presentato sono molto diverse, ma presentano alcuni punti in comune. Lo sviluppo delle forze aeronavali in questi casi avvenne come risposta a un problema strategico ben definito, da ciò la necessità di un dibattito interno ed esterno all’istituzione capace di identificare come lo sviluppo aeronavale si inserisce nell’ambito delle sfide strategiche del paese. Nel caso in cui la risposta strategica era affidata a una sola Forza armata, quello giapponese, gli ostacoli principali

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potevano venire solo dall’interno dell’istituzione e fondamentale da questo punto di vista fu l’esistenza di un gruppo di ufficiali capaci di promuovere l’innovazione. In Italia, dove questo gruppo esisteva, ma doveva fronteggiare una doppia opposizione interna ed esterna, l’innovazione aeronavale finì coll’essere rallentata, nonostante la cognizione del problema strategico. Il caso statunitense costituisce una risposta a questo problema, l’istituzione reagì alla messa in discussione della sua autonomia aeronavale con un’idea innovativa capace di integrarsi sia in un contesto interforze, sia nell’ambito della air-atomic strategy promossa dall’aviazione, sia della maggior integrazione richiesta a livello politico per fronteggiare i problemi strategici della Guerra Fredda.

L’ipotesi fallì non tanto per la bontà dell’idea quando per l’intervento politico, salvo essere in parte salvata dal conflitto coreano. Un ultimo elemento infine va considerato; l’efficienza di nuove strategie, piani di operazione, tattiche e mezzi si basa sull’esperienza, quindi l’adozione di nuovi mezzi e delle possibilità di sviluppo prodotto di una certa capacità di innovazione, messa in discussione e sperimentazione da parte della leadership navale, per essere efficace nel medio e lungo periodo. Perché ciò sia possibile è necessario un processo di continua di identificazione dei problemi, esplorazione delle soluzioni e infine implementazione, garantendo flessibilità, iniziativa e libertà di dibattito tanto quanto una dottrina unificata (31). 8

NOTE (1) Craig S. Symmonds, World War II at Sea: A global history, Oxford University Press, Oxford 2018, p. 196. (2) John Ferris, A British “Unofficial” aviation mission and the Rise of Japanese naval air power, 1919-1925, in Donald Stoker, Michael T. McMaster, Naval Advising and Assistance: History, challenges and analysis, Helion, Solihull 2017, pp. 87-116. (3) Thomas C. Hone, Mark D. Mandales, Interwar Innovation in Three Navies: U.S. Navy, Royal Navy, Imperial Japanese Navy, in Naval War College Review, Spring 1987, Vol. 40, No. 2, pp. 69-70. (4) Wayne P. Hughes, Robert P. Girrer, Fleet tactics and naval operations, Naval Institute Press, Annapolis 2018, pp. 78-79. (5) David C. Evans, Mark R. Peattie, Kaigun, Strategy, tactics and Technology in the Imperial Japanese Navy, 1887-1941, Naval institute press, Annapolis 2012, p. 339. (6) Mark R. Peattie, Sunburst, The rise of Japanese naval air power, 1909-1941, Naval institute press, Annapolis 2001, pp. 102-128. (7) La somma di queste esperienze è descritta in: Michele Cosentino, L’aviazione della Regia Marina durante la Prima guerra mondiale, USMM, Roma 2018; Gino Galuppini, La forza aerea della Regia marina, USMM, Roma 2012. (8) Si vedano a riguardo le perplessità sulle capacità operative dell’Aeronautica espresse dal Capo di Stato maggiore Ducci relativamente al Mediterraneo occidentale in Antonello Biagini, Alessandro Gionfrida, Lo Stato Maggiore Generale fra le due guerre, Verbali delle riunioni tenute da Badoglio dal 1925 al 1937, USSME, Roma 1997, pp. 280-281. (9) John Gooch, Mussolini and his generals, The Armed Forces and the Fascist Foreign Policy, 1922-1940, Cambridge University Press, Cambridge 2007, pp. 54-58. (10) AUSMM, Registri del comitato degli ammiragli, Adunanza dell’11 agosto 1925, pp. 2-4. (11) Claudio G. Segré, Italo Balbo, Una vita fascista, Il Mulino, Bologna 1998, pp. 233-234. (12) Puntualizza questa tensione tra Cavagnari e le richieste degli ammiragli, Alberto Santoni, La mancata risposta della Regia marina alle teorie di Douhet, Analisi storica del problema della portaerei in Italia, in La figura e l’opera di Giulio Douhet, Atti del convegno di Caserta-Pozzuoli, 12-14 aprile 1987, pp. 257-269. (13) Luigi Donolo, Storia della dottrina navale italiana, USMM, Roma 1996, p. 314. (14) Robert Mallett, The Italian Navy and the Fascist expansionism, 1935-1940, Frank Cass, Londra 1998, p. 112. (15) Romeo Bernotti, Cinquant’anni nella Marina Militare, Mursia, Milano 1971, pp. 247-248. (16) Atti Parlamentari, Camera dei deputati, Legislatura XXIX, 1a SESSIONE, Discussioni, Tornata del 15 marzo 1938, pp. 4696-4697. (17) Giuseppe Fioravanzo, Arte Militare marittima, Vol. III, Livorno 1926, p. 1590. (18) Angelo Iachino, La composizione e il proporzionamento di una flotta, in Almanacco navale, ministero della Marina, Roma 1938, p. 33. (19) Luigi Sansonetti, The Royal Italian Navy, New defensive duties for the Italian Navy, in Brassey’s naval annual, Londra 1938, p. 84 (20) AUSMM, Riassunto delle decisioni prese nelle riunioni tra i capi di stato maggiore nella 3a e 4a seduta del 1931, p. 2. (21) Lettera di Ducci a Bernotti, 28 agosto 1956, in Bernotti, Cinquant’anni nella Marina Militare, p. 234. (22) AUSMM, Scontri navali e operazioni di guerra, b. 3, Supermarina, Relazione sulle operazioni navali dei giorni 6,7,8 e 9 luglio 1940, pp. 45-46. (23) Francesco Mattesini, La battaglia di Punta Stilo, USMM, Roma 1990, p. 189. (24) Le cifre sono in Alberto Santoni, Francesco Mattesini, La partecipazione tedesca alla guerra aeronavale nel Mediterraneo, Bizzarri, Roma 1980, tabelle A e B. (25) La domanda fu pronunciata al senato il 19 settembre 1945, Forrestal rispose che non era possibile combattere i nuovi nemici degli Stati Uniti senza un’adeguata capacità di proiezione che passava attraverso il mare, Statement of Hon. James Forrestal, Secretary of the Navy, Hearings Before the Committee on Naval Affairs of the House of Representatives on Sundry legislation affecting the naval establishment, 1945, United States Government Printing Office, Washington 1946, p. 1164. (26) Edward Kaplan, To Kill Nations, American Strategy in the Air-Atomic Age and the Rise of Mutually Assured Destruction, Cornell University Press, Itacha-London 2015, pp. 49-56. (27) George W. Baer, One Hundred Years of Sea Power, The U.S. Navy 1890-1990, Stanford University Press, Stanford 1993, pp. 314-315. (28) Norman Friedman, The post-war naval revolution, Naval institute Press, Annapolis 1986, p. 25. (29) Edward J. Sheehy, The U.S. Navy, the Mediterranean, and the Cold War, 1945-1947, Greenwood, Westport, pp. 108-109. (30) Eric J. Marolda, The U.S. Navy in the Korean War, Naval Institute Press, Annapolis 2007, p. 35. (31) Trent Hone, Learning War. The Evolution of the Fighting doctrine in the U.S. Navy, 1898-1945, Naval institute press, Annapolis 2018, pp. 338-339. BIBLIOGRAFIA Michele Cosentino, Le portaerei italiane. Dai primi studi del 1912 al Cavour, Albertelli, Parma 2005. Luigi Donolo, Storia della dottrina navale italiana, USMM, Roma 1996. David C. Evans, Mark R. Peattie, Kaigun. Strategy, tactics, and technology in the Imperial Japanese navy, 1887-1940, Naval institute press, Annapolis 1997. Norman Friedman, The Postwar Naval Revolution, Naval Institute press, Annapolis 1986. Edward Kaplan, To Kill Nations, American Strategy in the Air-Atomic Age and the Rise of Mutually Assured Destruction, Itacha-London 2015. Mark R. Peattie, Sunburst: The Rise of Japanese Naval Air Power, 1909-1941, Naval institute Press, Annapolis 2001. Geoeffry Till, Adopting the aircraft carrier, The British, American and Japanese case studies, in Williamson Murray, Alan R. Millett, Military innovation in the interwar period, Cambridge University Press, Cambridge 1996, pp. 191-226. Thomas Wildenberg, Billy Mitchell’s War with the Navy. The Interwar Rivarly over air power, Annapolis, Naval Institute press, 2013.

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RUBRICHE

F OC US

DI PL O M AT I CO

Le relazioni Unione europea-Regno Unito dopo Brexit Dal 1° gennaio 2020 il Regno Unito non è più membro dell’Unione europea, avendo chiesto di uscirne nel 2017; durante tutto l’anno 2020 la legislazione comunitaria è rimasta in applicazione in Gran Bretagna al fine di assicurare una transizione ordinata verso un nuovo regime di relazioni. Quest’ultimo è ora regolato, per l’essenziale, da un Accordo di libero scambio e cooperazione concluso, dopo oltre tre anni di negoziati, il 24 dicembre scorso e in vigore dal 1° gennaio 2021. Poiché l’uscita del Regno Unito dall’Unione europea comporta anche la fine della partecipazione di Londra al mercato unico e all’unione doganale, interesse comune delle due parti era di mantenere quanto più possibile inalterato il livello degli scambi, essendo diventate ormai le due aree economiche molto interconnesse. L’Accordo di libero scambio e cooperazione preserva la libera circolazione delle merci tra le due Il premier inglese Boris Johnson e, nella pa- aree senza dazi e gina accanto, la presidente della Commissione tariffe ma introduce UE, Ursula von der Leyen (agensir.it). controlli doganali. Al fine di assicurare condizioni di concorrenza accettabili per l’Unione, l’Accordo impone alla Gran Bretagna il rispetto delle regole europee esistenti in materia sociale, ambientale, di aiuti di Stato e di indicazioni geografiche; ma il Regno Unito non dovrà applicare quelle che verranno introdotte in futuro da Bruxelles. Rinvia a ulteriori negoziati la libera circolazione dei servizi, inclusi quelli finanziari che sono di particolare interesse per il Regno Unito. In caso di violazione dell’accordo denunciata da

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parte di uno dei contraenti, è previsto il ricorso a una procedura di arbitrato e, nei casi più critici, l’adozione di misure di ritorsione: avendo la Gran Bretagna rifiutato il ricorso alla Corte di giustizia europea, è facile prevedere che l’applicazione dell’Accordo darà luogo a complicati negoziati e lunghi contenziosi. Sono tutelati i diritti acquisiti dei cittadini dei paesi dell’Unione residenti nel Regno Unito e quelli dei cittadini britannici residenti nei paesi dell’Unione: i non residenti al momento di Brexit saranno trattati come cittadini di paesi terzi. L’Accordo sarà gestito da un Consiglio di partenariato che si riunirà a vari livelli, incluso quello ministeriale; sarà composto di un rappresentante del Regno Unito e da uno della Commissione, integrati eventualmente da un rappresentante dello Stato o degli Stati membri interessati. Al fine di evitare l’introduzione di una frontiera tra le due parti dell’Irlanda l’Accordo prevede che l’Irlanda del Nord continuerà a fare parte del mercato unico e dell’unione doganale, ma applicherà gli accordi commerciali che il Regno Unito ha concluso o concluderà con i paesi terzi. Per evitare distorsioni di traffico, le merci in arrivo in Irlanda del Nord dalla Gran Bretagna saranno sottoposte a controlli doganali nei porti di approdo. I rapporti tra Gibilterra e Spagna sono stati regolati da un accordo bilaterale tra Londra e Madrid, che garantisce la libera circolazione delle persone tra La Rocca e l’area attigua sotto sovranità spagnola. I prodotti ittici sono inclusi nella libera circolazione delle merci, a fronte del mantenimento per cinque anni e mezzo dei diritti di pesca dei battelli dei paesi dell’Unione nelle acque britanniche, con riduzione peraltro delle quote di pesca del 25% rispetto al passato: quote da rivedere ogni anno a partire dal 2026. La politica comune della pesca mi è sempre apparsa ispirata, oltre che dallo specifico interesse dei pescatori francesi, dal desiderio della Francia di far pagare alla Gran Bretagna, a suo tempo, un prezzo ulteriore per l’ammissione alle comunità europee. È basata su una argomentazione (libera circolazione dei prodotti ittici contro diritti di produzione nel territorio degli altri paesi membri), che ritengo pretestuosa perché non è stata adottata anche per i prodotti, concettualmente analoghi, che rientrano nell’ambito della politica agricola comune. L’accordo mantiene la cooperazione giudiziaria e di polizia e quella in materia di ricerca e tecnologia; esclude

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per volontà di Londra la politica estera e di difesa. Ma fa salva la partecipazione britannica al Fondo europeo di Difesa: è una buona notizia per l’Italia, dati gli importanti programmi di collaborazione bilaterale soprattutto nel settore aerospaziale. La Gran Bretagna ha deciso di non proseguire la sua partecipazione al Programma Erasmus, sia perché il flusso degli studenti tra i due lati della Manica non era equilibrato, sia perché era obiettivo di Londra andare verso aperture a scala mondiale in tutti i campi. Johnson ha ritenuto che anche la cultura rientrasse in questa logica e ha subito annunciato la volontà di mettere in atto un programma nazionale di scambio di studenti rivolto al resto del mondo. Dublino da parte sua ha reagito con l’impegno di finanziare il programma Erasmus per gli studenti dell’Irlanda del Nord: altro elemento che ravvicinerà le due parti dell’isola (e contribuirà ad allontanare l’Irlanda del Nord dalla Gran Bretagna). Johnson ha centrato l’obiettivo di recuperare l’intera sovranità britannica in tutti i settori, con l’eccezione di quanto previsto per l’Irlanda del Nord. Londra non dovrà più accettare leggi fatte in futuro a Bruxelles e non a Westminster. È stata così confermata, seppur con ritardo, la previsione lasciata da Robert Schuman, il padre dell’Europa comunitaria, nel suo testamento politico (Pour l’Europe, una raccolta di articoli e discorsi pubblicata nel 1963, anno della sua morte): «in nessun terreno un parlamento o un governo britannico accetteranno leggi fatte fuori o contro di esso». Pur essendo stato in gioventù sostenitore dell’utilità dell’adesione britannica al progetto europeo, alla luce dell’esperienza ho dovuto convincermi che l’uscita di Londra da quel progetto sarebbe stata prima o poi inevitabile: è avvenuta appena il Trattato di Lisbona ha introdotto nel 2009 la possibilità di recesso (articolo 50). Il tema del rapporto con l’Europa continentale era sempre stato conflittuale nell’opinione pubblica inglese e la firma del trattato di adesione fu accolta in Gran Bretagna con sentimenti contrastanti. La decisione di chiedere di aderire alla Comunità europea non avvenne a seguito di un generale e condiviso movimento di opinione, ma fu il frutto dei calcoli dei governi britannici succedutisi dal 1961 al 1969: calcoli che si sono successivamente rivelati sbagliati. Se l’obiettivo era quello di entrare a far parte di una zona di libero scambio delle merci e dei servizi, che stava avendo successo e di condizionarne poi dall’interno gli sviluppi

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futuri, Londra non aveva compreso la portata degli obiettivi di integrazione anche politica iscritti nella logica dei trattati che aveva deciso di firmare. Dopo i primi anni di — peraltro non generale — soddisfazione per essere finalmente approdati a Bruxelles e aver salutato con favore l’iniziativa della Commissione Delors di creare il mercato unico, gli inglesi si sono sentiti sempre più a disagio in una Europa che avanzava verso traguardi di maggiore integrazione a carattere sovranazionale, per di più in settori che oltrepassavano quello economico. Si sono resi conto che era stato ormai innescato un processo che andava contro i loro radicati sentimenti di orgogliosa indipendenza nazionale e oscurava la memoria dello «splendido isolamento» che aveva loro consentito di dominare a lungo (e sfruttare) buona parte del mondo. Anche se si è trattato di riflessi dovuti più alla nostalgia di un passato glorioso che a una razionale valutazione degli interessi in gioco, il richiamo a questi sentimenti e alla prospettiva di tornare a un ruolo mondiale ha contribuito alla vittoria del «Sì» nel referendum del 2016; oltre ovviamente all’insoddisfazione della maggioranza degli inglesi di trovarsi partecipi di un progetto del quale non comprendevano gli obiettivi e che sentivano essere a loro estraneo. A partire dalla decisione di creare il mercato unico nel 1987, Londra non è più riuscita a contrastare i progressi che ne erano la conseguenza: libera circolazione delle persone, moneta unica, piani per muovere — dopo l’unione monetaria — verso l’unione economica e in prospettiva anche verso quella politica. La Gran Bretagna si è dovuta rassegnare a rallentare e limitare il passo di questi progressi e a subirli, autoescludendosene. Sin dalla sua prima presenza nelle istituzioni europee, Londra aveva la-

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Focus diplomatico

mentato peraltro l’invadenza delle politiche europee, in particolare quella della politica agricola comune e i relativi oneri di bilancio (ottenendone la riduzione); e nelle fasi di realizzazione del mercato unico aveva protestato ripetutamente contro l’insistenza, propria del metodo comunitario e del suo successo, di regolamentarne ogni aspetto e di dirigerne ogni passaggio. L’accordo di Natale del 2020 riporta le lancette dell’orologio indietro ai primi anni Sessanta, quando la Gran Bretagna scartò l’ipotesi di un accordo di libero scambio invece dell’adesione piena: se accolta, quell’ipotesi avrebbe risparmiato agli europei viventi sui due lati della Manica sessanta anni di mal di pancia. Anche da questa parte della Manica la presenza britannica è stata vissuta con crescente insofferenza, obbligando la Comunità, poi Unione, e i suoi paesi membri a continue rinegoziazioni con il Regno Unito in occasione di ogni modifica dei trattati, per accomodarvi la particolare partecipazione di Londra e ad accettare soluzioni al ribasso dato il legittimo potere di veto inglese sulle questioni più rilevanti. Sono convinto che, se la Gran Bretagna fosse stata ancora membro dell’Unione nel luglio 2020, il coraggioso pacchetto allora approvato dal Consiglio europeo, costituito dal Recovery Fund e dalle innovative decisioni in materia di nuove risorse proprie, non avrebbe mai visto la luce. Non rimpiangeremo l’assenza di Londra dalla politica estera e di sicurezza comune, perché la Gran Bretagna non ha mai voluto contribuire seriamente al suo consolidamento e sviluppo, essendo suo unico obiettivo quello di salvaguardare il proprio ruolo internazionale, coerentemente del resto con la visione che ha della sua posizione e dei suoi interessi nel mondo. Né dovremo avvertire come una preoccupante novità se la Gran Bretagna continuerà dall’esterno a ricercare intese triangolari con Francia e Germania, perché consultazioni a tre sulla politica estera senza la partecipazione delle istituzioni dell’Unione non erano infrequenti nemmeno prima. Analogamente

non è da rimpiangere la mancanza di un contrappeso britannico al ruolo dominante franco-tedesco, perché Londra ha badato sempre e solo ai propri specifici interessi in Europa e non a contribuire agli equilibri politici tra i paesi membri (pur necessari per il funzionamento senza tensioni del progetto europeo), come era stato negli ingenui auspici dell’Italia (e dei Paesi Bassi) al momento dell’adesione. Quel ruolo potrebbe essere svolto utilmente da Italia e Spagna, specie agendo congiuntamente, se l’Italia potesse stabilire al suo interno assetti più solidi ed entrambi i paesi riuscissero a conseguire maggiore peso internazionale grazie a un più consistente impegno sul piano militare e a una più determinata volontà di fare politica estera. Rimpiangeremo invece il sano senso pratico dei britannici nella messa in atto delle politiche europee e la loro saggia avversione all’uso di espressioni declaratorie la cui portata reale rimane al di sotto del loro significato letterale. Come quando si opposero, senza successo, a fughe in avanti verbali di dubbio esito, quali la proposta di utilizzare il termine altisonante ma vago di «Unione» al posto di quello più concreto e collaudato di «Comunità europea»; e quella di chiamare «Costituzione» (di uno Stato federale che non esiste ancora?) la codificazione in un unico testo dei vari trattati internazionali con i quali gli Stati membri hanno deciso di condividere parti della loro sovranità nell’ambito delle istituzioni europee. Quel trattato fu respinto nei referendum popolari tenuti nel 2005 in Francia e Paesi Bassi; il suo rifacimento portò dopo lunghi negoziati a un testo meno ambizioso non solo nella forma ma purtroppo anche nella sostanza. L’Accordo di Natale 2020 apre la strada a una proficua cooperazione tra Unione europea e Regno Unito e prefigura positivi sviluppi futuri che, anche se faticosi e costosi, potranno essere soddisfacenti per entrambi i contraenti, purché siano limitati alle aree di comune interesse e improntati al reciproco rispetto. Roberto Nigido, Circolo di Studi Diplomatici

L’ambasciatore Roberto Nigido è nato a Roma il 17 ottobre 1941. Laureato in Scienze politiche all’Università di Roma. È entrato nel 1965 al ministero degli Affari Esteri, dove ha svolto tra le principali funzioni quelle di direttore per le questioni europee e di direttore generale degli Affari economici. È stato ambasciatore in Canada e in Argentina e rappresentante permanente presso l’Unione europea. Consigliere diplomatico del presidente del Consiglio nel primo governo Prodi, ha concluso la carriera nel 2008, dopo aver ricoperto l’incarico di consigliere diplomatico dei presidenti della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi e Giorgio Napolitano (2005-08). Il Circolo di Studi Diplomatici è un’associazione fondata nel 1968 su iniziativa di un ristretto gruppo di ambasciatori con l’obiettivo di non disperdere le esperienze e le competenze dopo la cessazione dal servizio attivo. Il Circolo si è poi nel tempo rinnovato e ampliato attraverso la cooptazione di funzionari diplomatici giunti all’apice della carriera nello svolgimento di incarichi di alta responsabilità, a Roma e all’estero. 104

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RUBRICHE

O SSERVATORIO Sudan ed Etiopia: una pace difficile Nella seconda metà di dicembre l’Esercito sudanese ha dichiarato di essere stato vittima di un’imboscata da parte delle Forze armate etiopi nei pressi del confine tra i due Stati. Gli scontri sarebbero avvenuti al ritorno di una pattuglia presso la sua base di Jebel Abutiour. Nella dichiarazione l’Esercito non ha fornito dettagli sugli scontri, a parte il fatto che un suo reparto sarebbe caduto in un’imboscata da parte di «forze e milizie etiopi». Infine, l’Esercito di Khartoum ha affermato la sua determinazione a difendere i confini e respingere qualsiasi aggressione. La zona è un importante punto di contesa tra il Sudan e l’Etiopia e si aggiunge a uno scenario regionale peggiorato. È un terreno agricolo molto fertile, coltivato per 25 anni dai contadini etiopi Amhara. Questo territorio appartiene legalmente al Sudan, che l’Etiopia non mette in discussione, anche se per anni ne ha avuto il controllo diretto. Il problema è emerso recentemente; infatti gli etiopi civili che vi abitano sono protetti dalle milizie della vicina provincia di Amhara, che fungono da braccio armato supplementare per le forze federali etiopi, nel recente conflitto contro le forze del Tigrai. Queste milizie, che i sudanesi chiamano in senso peggiorativo «shiftas» (banditi), sono accusate di compiere regolari incursioni per rubare bestiame o compiere sequestri a scopo di estorsione. È stato quindi grazie al conflitto in Tigrai che l’Esercito sudanese ha preso il pieno controllo di questo territorio agricolo che si estende per oltre 250 chilometri quadrati. Questa zona rappresenta migliaia di ettari di terreno fertile e coltivabile. Una questione economica e alimentare cruciale per gli abitanti (e per Khartoum). La regione è nota per la sua violenza e i traffici illeciti. L’Esercito sudanese avrebbe quindi beneficiato del ri-dispiegamento delle truppe etiopi a seguito dell’emergenza del Tigrai. Secondo diverse fonti, i soldati di Khartoum avrebbero così preso il controllo dei settori confinari di Kurdia, Jebel Tayara e Khor Yabis, occupati dagli etiopici da 25 anni.

Una nuova crisi fra Somalia e Kenya Il Corno d’Africa, nonostante alcune occasionali fasi positive, sembra non riesca a uscire dal tunnel delle crisi, siano esse interstatali, intrastatali o tribali/claniche, eco-

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INTERNAZIONALE nomiche (siccità, locuste). L’ultima vicenda, in ordine di tempo è la sospensione delle relazioni diplomatiche tra Somalia e Kenya le cui relazioni si sono inasprite su diverse questioni, compreso il sostegno di Nairobi al governo della regione federale somala del Giuba, al confine con il Kenya, in conflitto con il governo di Mogadiscio. La Somalia ha annunciato di aver sospeso i legami con Nairobi, accusando il suo vicino di interferire nei suoi affari interni in previsione delle elezioni anticipate del 2021. Il brusco peggioramento si è avuto quando il Kenya a metà dicembre ha ospitato Muse Bihi Abdi, presidente del Somaliland, entità autoproclamatasi indipendente, non riconosciuta da Mogadiscio. I diplomatici kenioti a Mogadiscio hanno avuto sette giorni di tempo per lasciare il paese, alla stregua dei rappresentanti della Somalia richiamati in patria. Il ministro somalo dell’Informazione, Osman Abukar Dubbe, ha dichiarato: «Il governo somalo considera il popolo del Kenya Modadiscio, il comandante AMISOM, generale una comunità Diomede Ndegeya, durante una riunione da remoto con i sectors Commanders (AMISOM). amante della pace che vuole vivere in armonia con le altre comunità della regione. Ma l’attuale leadership sta lavorando per allontanare le due parti», aggiungendo che: «Il governo somalo ha preso questa decisione per rispondere alle ricorrenti interferenze del Kenya contro la nostra sovranità». Questa nuova crisi arriva in un momento difficile. Mentre i due paesi hanno avuto problemi in passato, il Kenya, che ospita circa 200.000 somali nei campi profughi nell’est del paese (ma anche a Nairobi), è anche un importante contributore di truppe all’operazione militare dell’Unione Africana (AMISOM), con quasi 4.000 militari, schierati nel Giubaland e combattendo gli insorti del movimento terrorista islamista di al-Shabaab che hanno colpito pesantemente

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sia il Kenya, sia la Somalia dal 2004. Il ministero degli Esteri keniota ha usato toni concilianti, ma oggettivamente il peggioramento delle relazioni non è di oggi. Nel novembre 2019, entrambi i paesi hanno reintrodotto i visti di ingresso dopo una disputa territoriale su una zona dell’oceano Indiano, rivendicata da entrambi, in cui si ritiene vi siano importanti giacimenti di petrolio e gas. All’inizio del 2019, la Somalia ha iniziato a mettere all’asta blocchi di petrolio e gas nell’area contesa, riaccendendo la controversia. Il Kenya ha richiamato il suo ambasciatore da Mogadiscio nel febbraio scorso.

Operazione statunitense Octave Quartz in Somalia Gli Stati Uniti hanno inviato, l’ultima settimana dello scorso dicembre, un Gruppo navale anfibio forte di 2.500 marines nelle acque al largo di Mogadiscio. L’operazione Octave Quartz aveva il compito di costituire, in cooperazione con le forze regolari somale e dell’AMISOM, un corridoio di sicurezza necessario per l’imbarco di circa 800 consiglieri militari statunitensi presenti in quel paese. Questo, obbedendo a un ordine del presidente Trump, in ossequio alla sua idea di ridurre la presenza militare degli Stati Uniti all’estero. L’operazione, non indenne da rischi, vista la letalità delle milizie islamiste Al Shabab, si è invece conclusa senza problemi e il personale ritirato, proveniente in gran parte da unità dipendenti dall’USSOCOM, avrà come assegnazione sia il rientro negli Stati Uniti, sia il trasferimento nella base del vicino Gibuti (Camp Lemonnier) sia, infine, in Kenya. Il comunicato dell’AFRICOM, che supervisionava l’intera operazione ha tuttavia riferito della «maggioranza» del personale, lasciando intendere che un’aliquota, non si sa quanto ampia, resterà in Somalia. Il Makin Island Amphibious Ready Group (ARG), che trasportava membri della 15a Marine Expeditionary Unit (MEU), ha operato protetto a sua volta da un Gruppo navale guidato dalla portaerei Nimitz e il suo gruppo d’attacco, composto dagli incrociatori Princeton e Philippine Sea e dal cacciatorpediniere Sterett. Marcando la differenza con le decisioni del presidente Trump, il generale dell’USAF, Dagvin Anderson, comandante della Joint Task Force Quartz (e comandante della componente delle operazioni speciali dell’AFRICOM) ha messo in chiaro che gli Stati

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Uniti non si stanno ritirando o disimpegnando dall’Africa orientale e che restano impegnati ad aiutare i partner africani. Per memoria, il 4 dicembre, il Pentagono ha annunciato che il presidente Trump aveva ordinato il ritiro delle truppe statunitensi in Somalia e che aveva precedentemente ordinato di ridurre il numero delle truppe in Afghanistan da 4.500 a 2.500 e in Iraq da 3.000 a 2.500, da compiersi entro il 15 gennaio.

Etiopia: un costruttore di pace attualmente in guerra L’Assemblea generale delle Nazioni unite ha approvato la candidatura dell’Etiopia alla Commissione per il Consolidamento della pace (PBC) per un periodo di due anni (2021-22). L’Etiopia è uno dei maggiori contributori africani alle operazioni di peacekeeping dell’ONU con quasi 7.000 tra militari e personale di polizia (appena sotto il Ruanda). La Peace Building Commission è un organo consultivo intergovernativo che sostiene gli sforzi per consolidare i processi di pacificazione nei paesi colpiti da conflitti. È composto da 31 Stati membri, eletti dagli organismi più importanti, l’Assemblea generale, il Consiglio di sicurezza e il Consiglio economico e sociale (ECOSOC). Ne fanno parte anche i principali paesi contributori finanziari e i quelli che contribuiscono in misura maggiore alle operazioni di peacekeeping con personale militare e di polizia. Anche se poco conosciuta rispetto alle attività del Consiglio di sicurezza, l’architettura dell’ONU per il consolidamento della pace è piuttosto complessa e comprende, oltre alla PBC, il Fondo per il consolidamento della pace e l’Ufficio di sostegno per il consolidamento della pace. Quest’ultimo assiste e sostiene la Commissione per il consolidamento della pace con consigli strategici e orientamenti politici, amministra il Fondo per il consolidamento della pace e serve il Segretario generale nel coordinamento delle agenzie delle Nazioni unite nei loro sforzi per il consolidamento della pace. Nonostante i recenti problemi interni con il Tigrai e le accuse di azioni militari indiscriminate, l’Etiopia è un paese storicamente con un elevato profilo all’interno dell’ONU e l’ingresso nella PBC completa un archivio di tutto rispetto; infatti era stata eletta nel 2017 dall’Assemblea generale con 185 voti a favore (su 190) come membro non permanente del Consiglio di sicurezza delle

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Nazioni unite a partire dal 1o gennaio 2017 per un mandato di due anni (Addis Abeba era stata membro del Consiglio di sicurezza nel 1967-68 e nel 1989-90).

La Turchia e il suo sogno utopico Il Covid impatta e impazza su diversi ambiti, come si è visto, ma anche e pesantemente sulle politiche strategiche e di sicurezza di diversi Stati. Un esempio di questo sono gli ultimi sviluppi delle relazioni turco-cinesi. Per comprendere meglio il contesto bisogna fare riferimento al fiume carsico del progetto panturanico, uno schema che nasce dal sogno di riunire tutti i popoli turcofoni dall’Anatolia all’Asia centrale sotto l’egida, ovviamente, di Ankara (guidata, altrettanto ovviamente, dal presidente Erdogan). Questo progetto, irrealistico e con un chiaro obiettivo di coesione dell’opinione pubblica interna turca, viste le dimensioni politiche ed economiche della Turchia, si sovrappone e stride con le realtà e le ambizioni dei partner privilegiati di Ankara, quali Russia e Cina. Mentre le relazioni con Mosca oscillano tra il male e il quasi stabile per via dei diversi scenari nei quali Russia e Turchia cooperano e rivaleggiano allo stesso tempo (come Siria, Caucaso, Libia), per la Cina le cose sono diverse. Da tempo la Turchia aveva accolto diversi attivisti e personalità del movimento degli uiguri (popolazione turcofona della Cina occidentale che aspira all’indipendenza di quel territorio chiamandolo Turchestan, da non confondere con l’ex repubblica sovietica del Turkme- Il presidente turco Erdogan (a sinistra), stringe la mano al presidente cinese Xi Jinping nistan) e la Cina, in (startmag.it). un primo tempo, ha lasciato correre ben consapevole della sterilità del loro agire. Ora, con la mobilitazione internazionale a favore del movimento uiguri, Pechino ha iniziato a fare pressioni su Ankara per farsi riconsegnare queste persone. Inizial-

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mente Ankara, per tenere conto della sua opinione pubblica interna e nutrirne le ambizioni imperialistiche e di guida del mondo musulmano d’Asia centrale, ha resistito. Ma ora, con la consegna in vista dei vaccini cinesi antiCovid (comprati da Ankara), Pechino avrebbe posto un aut aut brutale: consegna degli attivisti o niente vaccini. Erdogan, alle strette con una situazione sanitaria difficile, avrebbe accettato la consegna, per salvare la faccia nei confronti di una opinione pubblica nutrita di panturanismo, degli attivisti in Kazachstan, lasciando che Nur-Sultan (che dal 1997 è la nuova capitale [il cui vecchio nome Astana, cambiato nel 2019] rimpiazzando l’antica capitale Almaty) e Pechino se la sbrighino. Ora, la vicenda dovrebbe far meditare cosa è diventato il sogno panturanico, schiacciato tra gli interessi economici (per Erdogan è vitale aderire al progetto «Belt and Road Initiative» per sostenere una economia interna che ha dimenticato i tassi di crescita annuali dell’8% del passato e il consenso conseguente) e quelli politici (questa vicenda rappresenta per il Presidente un serio problema politico in quanto il progetto panturanico è fortemente sostenuto dai partiti nazionalisti della coalizione parlamentare che sostiene il governo turco) e dalla determinazione di Pechino a perseguire i suoi obiettivi. Inoltre i progetti regionali di Ankara nel Mashrak potranno essere influenzati dalla normalizzazione diplomatica tra Qatar e gli altri Stati arabi del Golfo. Questa normalizzazione ha obbligato Erdogan a felicitarsi, non potendo fare altro, visto l’unanime soddisfazione a livello internazionale del rinnovato clima amichevole, anche se resta da domandarsi cosa sarà dell’impegno militare di Ankara messo a disposizione di Doha come assicurazione da una possibile azione di forza del GCC (Consiglio di Cooperazione del Golfo).

La Turchia assume il comando della VJTF-L della NATO L’Esercito turco ha preso il comando della Very High Readiness Joint Task Force-Land (VJTF-L) della NATO venerdì 1o gennaio 2021, rimpiazzando la Polonia, che ha fornito il nucleo della forza nel 2020. Il contributo turco, la 66a Brigata di fanteria meccanizzata, forte di circa 4.200 unità, su un totale di circa 6.400 soldati, servirà nella VJTF-L. Gli altri 2.200 militari della forza mul-

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tinazionale provengono da Albania, Ungheria, Italia, Lettonia, Montenegro, Polonia, Romania, Slovacchia, Spagna, Regno Unito e Stati Uniti (per chi ha memoria la VJTF-L è l’ampliamento, rafforzamento e aggiornamento del concetto della antica AMF, Allied Mobile Force, attiva tra il 1960 e il 2002). La VJTF, nelle sue due componenti (il concetto ne include anche una aerea, definita VJTF-A), è a sua volta componente della più ampia NRF (NATO Reaction Force). La Turchia ha effettuato investimenti sostanziali nell’unità assegnata, in particolare nella pianificazione dei requisiti di mobilità, logistici e munizionamento. Alla brigata sono stati assegnati gli ultimi modelli dei sistemi d’arma in servizio nell’Esercito turco. I capi di Stato e di governo della NATO avevano deciso di creare la VJTF (nelle sue due component, Land e Air) nel vertice in Galles nel 2014 in risposta a un mutato contesto di sicurezza, compresa la destabilizzazione dell’Ucraina da parte della Russia e le turbolenze in Medio Oriente. I membri della NATO si alternano alla guida del VJTF-L su base annuale fornendo il grosso della forza, quale «leading nation». La Polonia ha guidato la VJTF-L nel 2020, la Germania nel 2019, l’Italia nel 2018 e la Gran Bretagna nel 2017, quando è diventata operativa per la prima volta. È comunque interessante osservare che nonostante (o forse proprio per questo) le turbolenti relazioni tra Ankara e Bruxelles e l’avvicinamento verso Mosca, Pechino e Teheran, l’Alleanza cerca in ogni modo di tenere agganciata la Turchia all’ architettura di sicurezza occidentale.

La crisi francese nel teatro del Sahel Le autorità francesi sono incerte sul futuro della loro presenza militare nel Sahel, dopo aver fatto sapere che era in corso una seria valutazione su una possibile riduzione. Con una difficile acrobazia verbale, il capo di Stato Maggiore delle Forze armate francesi, François Lecointre, nel corso di una visita nella località di Hombori (Mali), situata al centro del zona dei «tre confini» tra Mali, Niger e Burkina Faso, dove imperversano le milizie islamiste, ha chiarito che non ci sarà alcun «disimpegno» nel Sahel, solo una «evoluzione» di questo impegno, ma senza sbilanciarsi circa i tempi e le modalità. Il timore, non espresso chiaramente, ma assai forte nei vertici politici e militari parigini (ma anche degli

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Stati Uniti, NATO e UE) è che un ripiegamento francese possa permettere che russi e cinesi occupino il vuoto che i francesi lascerebbero in caso di ritiro parziale delle loro forze nel Sahel (e oltre). Dato che la NATO e gli Stati Uniti continuano a considerare Russia e Cina potenze ostili, non è stato quindi ufficialmente fissato da parte francese alcun calendario per annunciare una possibile riduzione delle forze presenti nella regione. Ricordiamo che da diversi anni, oltre 5.000 militari franIl generale Lecointre, Capo di Stato Maggiore cesi sono stati di- delle Forze armate francesi (lesechos.fr). spiegati nella regione del Sahel come parte della lotta al terrorismo attraverso due operazioni principali, vale a dire «Serval» nel 2013 seguita dalla «Barkhane» nel 2014, attivate sotto l’allora presidente francese François Hollande. Le operazioni nella regione, pesantissime per il personale e i mezzi impiegati, hanno messo a dura prova le strutture militari francesi, numericamente insufficienti; inoltre il sostegno delle forze locali, siano esse nel loro quadro nazionale, sia nel conteso della forza multinazionale G5 Sahel, è ben poca cosa e anzi è ragione di contrasti tra Parigi e le capitali della regione (mostrando anche come si sia logorato il legame della FranceAfrique) obbligando il capo della diplomazia francese a continui viaggi per ricucire le frizioni, esasperatesi dopo il colpo di Stato che ha deposto l’ex presidente del Mali, Ibrahim Boubacar Keïta, il 18 agosto scorso, accusato di non essere in grado di fronteggiare le sfide politiche e militari cui il paese è sottoposto. La «Barkhane», provatissima, ha il sostegno di reparti di elicotteri britannici e danesi, ed è in corso il (lento, in verità) dispiegamento della forza speciale europea «Takuba» con contingenti estoni, cechi e svedesi (degli altri contingenti promessi a Parigi non si hanno dettagli recenti). Ma il timore francese, statu-

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nitense, atlantico ed europeo per il Sahel è stato ampliato e rafforzato per la potente accelerazione delle presenza militare russa nel non distantissimo Centrafrica, pericolosamente prossimo al Chad, chiave di volta della restante architettura francese nel continente. Infatti, all’antivigilia di Natale, Mosca ha reso noto l’invio di altri 300 istruttori militari nella Repubblica Centrafricana (RCA) per occuparsi di quello che il ministero degli Esteri russo chiama un «forte degrado della sicurezza». Il governo della Repubblica centrafricana, minacciato da gruppi ostili alla rielezione dell’attuale presidente, poi confermata, aveva chiesto un aiuto, che è stato rapidamente concesso. Il vice ministro degli Esteri russo, Mikhail Bogdanov, un abile e preparato diplomatico di carriera, ha specificato che l’Esercito russo non era coinvolto nei combattimenti nella Repubblica centrafricana, sottolineando che si trattava «solamente» di istruttori militari, sostenuto dal ministro degli Esteri di Bangui (mentre il portavoce del governo ha parlato di centinaia di militari operativi appoggiati da armi pesanti). La presenza di guardie di sicurezza private russe (non solo della leggendaria «Wagner») è diventata cosa altamente visibile a Bangui, fornendo sicurezza ai membri del governo e proteggendo installazioni strategiche, ma già la Russia era riuscita a mettere un piede in Centrafrica convincendo Bangui a ridurre quanto più possibile lo spazio della missione di addestramento militare della UE (EUTM-RCA) e fornire armi ed equipaggiamenti alle forze regolari, mettendo a disposizione i primi istruttori. Ma accanto alla Russia opera il Ruanda, un aperto avversario della Francia (ma forte alleato degli Stati Uniti, sic) che, pur avendo quasi 800 soldati e poliziotti all’interno della missione ONU che dal 2014 opera in Centrafrica (MINUSCA), ha inviato altre truppe in sostegno del governo di Bangui, a protezione dei civili locali. Ma perché questo movimento militare (e in prospettiva politico)? L’attuale presidente (dal 2016) della RCA, Faustin Archange Touadéra, che è stato rieletto nelle elezioni del dicembre scorso e confermato ufficialmente il 4 gennaio, è visto con enorme preoccupazione da Parigi che teme che uno Stato baricentrico della (restante) FranceAfrique venga sfilato dalla sua area di influenza, proprio dalla Russia, con la Cina, per ora, in seconda linea. Touadéra, rappresenta una generazione di leader poli-

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tici africani, che seppur formata in un contesto francese di cultura ed educazione, vorrebbe scrollarsi di dosso il pesante controllo da parte di Parigi e guardare altrove. Touadéra è un recente, ma sembra assai solido, amico della Russia. Nell’ottobre 2017, ha guidato una delegazione di alti funzionari del suo governo, nonché rappresentanti dell’industria mineraria, al primo vertice Russia-Africa nella località di Sochi, sul Mar Nero, i quali hanno incontrato il ministro degli Esteri Sergey Lavrov. Pochi mesi dopo, nel gennaio 2018, la prima di più consegne di rifornimenti militari russi è arrivata a Bangui, dopo che Mosca si era assicurata l’esenzione da un embargo sulle armi delle Nazioni unite contro la RCA, irritando al più alto livello Parigi. Più tardi nel 2018, Touadéra ha nominato un certo Valery Zakharov, che si dice sia collegato alla principale agenzia di intelligence russa, l’FSB, come suo consigliere per la sicurezza nazionale. Come spesso accade in Africa le elezioni Una donna vota in un centro elettorale nella sono state mar- Repubblica Centrafricana (MINUSCA). cate da un clima di violenza diffusa che ha portato alla mobilitazione l’intera missione ONU in Centrafrica, la MINUSCA, per riprendere il controllo di aree periferiche cadute in mano a gruppi armati (accusati di essere al soldo di uno dei maggiori opponenti di Touadéra, cioè l’ex presidente Bozizé). I partiti dell’opposizione, compreso quello di Bozizé, hanno smentito il loro coinvolgimento nelle azioni militari ma hanno prima chiesto il rinvio del voto «fino al ristabilimento della pace e della sicurezza» e successivamente (ma inutilmente) il loro annullamento. Come citato, le elezioni e i tumulti connessi e le prospettive di vittoria di Touadéra hanno talmente preoccupato Parigi arrivando a far sorvolare Bangui e le aree circonvicine da squadriglie aeree con l’ufficiale dichiarazione

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di deterrenza contro i gruppi ribelli. L’elezione presidenziale di Touadéra e quelle legislative (contemporanee) sono il risultato di un lungo e difficile lavoro di mediazione politica condotta dall’ONU che vuole, anche per ragioni di costo (13.000 persone tra militari, poliziotti e civili), ritirare la MINUSCA quanto prima e chiudere una crisi che corre dal 2012. Questa prospettiva è un altro elemento di preoccupazione anche perché’ la Francia deve ritirare conseguentemente il restante personale ancora in loco, circa 4-500 militari, dopo la fine della sua operazione in Centrafrica, la «Sangaris», che era arrivata al suo apice tra il 2013 e il 2016 a contare 2.500 unità, e ridurre ulteriormente il suo imprinting locale. Per informazione, la Repubblica Centrafricana è uno dei paesi più poveri e instabili dell’Africa, anche se è ricchissima di diamanti e uranio. L’ONU stima che metà della popolazione dipenda dall’assistenza umanitaria e fino a un quinto dei suoi abitanti sia stato sfollato. Il 3 dicembre, la Corte costituzionale della Repubblica Centrafricana ha stabilito che Bozizé non soddisfaceva il requisito della «buona moralità» richiesto per i candidati, a causa di un mandato di cattura internazionale e delle sanzioni delle Nazioni unite contro di lui per presunti omicidi, torture e altri crimini durante il suo governo. Bozizé (cristiano, come la maggioranza della popolazione, mentre i musulmani sono in gran parte nel nord e hanno ascendenze tribali prossime al confinante Chad) è salito al potere dopo un colpo di Stato nel 2003 e successivamente ha vinto due elezioni (2005 e 2010) che sono state ampiamente considerate fraudolente. È stato estromesso nel 2013 dopo l’insurrezione del movimento dei Séléka — una coalizione ribelle proveniente in gran parte dalla minoranza musulmana (e che si sospetta sia stata sostenuta clandestinamente da influenti gruppi finanziari parigini irritati per la linea economica di Bozizé che aveva aperto il mercato dello sfruttamento minerario e agricolo a operatori non francesi) che lo ha accusato di aver infranto gli accordi di pace e che ora è affrontata da una milizia delle tribù meridionali, tutte cristiane, gli Anti-Balaka.

Missione UE EUCAP Sahel-Mali. Si prosegue, nonostante tutto Il Consiglio europeo ha deciso di prorogare il mandato della missione civile dell’UE EUCAP Sahel-Mali fino al

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31 gennaio 2023 stanziando allo scopo un bilancio di oltre 89 milioni di euro per il periodo dal 15 gennaio 2021 al 31 gennaio 2023. Questa volta, però, non si tratta tuttavia di un rituale prolungamento di una scadenza; viste le recenti mutazioni della situazione nel Mali e nel Sahel, è stato deciso di adeguare il mandato della missione per migliorare la sua capacità di assistere e consigliare le forze di sicurezza interna del Mali sostenendo una graduale ridistribuzione delle autorità amministrative civili del paese. Inoltre, gli obiettivi della cellula di consulenza e coordinamento regionale sono stati adattati per migliorare la cooperazione e il coordinamento con gli Stati componenti e le strutture dell’organizzazione regionale G5 Sahel (Mali, Mauritania, Chad, Burkina Faso, Niger) e la regionalizzazione dell’azione della CSDPC (Common Security and Defence Policy) dell’UE che comprende, come parte dell’approccio integrato dell’Unione alla sicurezza e allo sviluppo nel Sahel: la EUTM-Mali, che addestra le Forze armate maliane e la EUCAP SahelNiger (vero gemello della EUCAP Sahel-Mali), che sostiene la lotta contro la criminalità organizzata e il terrorismo in Niger. L’EUCAP Sahel-Mali, è utile ricordarlo, in quanto è una piccola sconosciuta realtà del già poco noto universo delle missioni esterne dell’Unione, è una operazione civile, ha il suo QG a Bamako ed è operativa dal gennaio 2015 a seguito di un invito ufficiale del governo maliano ad assistere le forze di sicurezza interna nel riaffermare l’autorità del governo in tutto il paese, sulla scia della crisi del nord del Mali, che aveva lasciato ampie parti del paese sotto il controllo di varie fazioni islamiste, movimenti separatisti tuareg che puntavano alla costituzione dell’Azawad e gruppi criminali. L’EUCAP Sahel-Mali fornisce assistenza e consulenza alle tre componenti della sicurezza interna maliana (polizia, gendarmeria e guardia nazionale) nell’attuazione della SSR (Security Sector Reform) in stretto coordinamento con altri partner internazionali, tra cui la delegazione dell’UE e la missione dell’ONU (MINUSMA). Accanto all’estensione e ampliamento della EUCAP Sahel-Mali è stato designato, con un mandato annuale, Hervé Flahaut, dirigente generale della polizia francese con oltre 30 anni di esperienza professionale. Enrico Magnani

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M ARINE ALGERIA Costruzione di nuove corvette È in corso la costruzione, con consegna prevista nel 2022, di due corvette «Type 056», attività in corso a cura della società Hudong-Zhonghua Shipbuilding Group, di base nella Repubblica Popolare Cinese. Si tratta di unità da 1.500 tonnellate di dislocamento, equipaggiate con 12 celle per il lancio verticale di vari tipi di missili: quattro celle sono dedicate ai missili da crociera antinave «YJ-83» e otto a ordigni superficie-aria a breve raggio «HHQ-10». L’armamento comprende anche due impianti lanciasiluri tripli da 324 mm; tutti questi sistemi sono di origine cinese. Non è chiaro quale variante del modello «Type 056» abbia scelto la Marina algerina, ma si presume che si tratti del «Type 056A», una scelta basata sulle capacità antisommergibili di questa variante se correlata con le altre capacità già esistenti nella predetta Marina. La costruzione delle due corvette dimostra l’interesse dell’Algeria e per la Marina in particolare, verso i sistemi d’arma cinesi e segue il trasferimento nel 2018 dei moderni missili da crociera antinave «CX-1»: in questo quadro va inserita anche la costruzione delle due corvette classe «Adhafer» da 3.000 tonnellate di dislocamento, specificamente concepite per operazioni d’altura e realizzate per Algeri dal gruppo Hudong-Zhonghua Shipbuilding. Un altro filone di potenziamento riguarderebbe la costruzione di due ulteriori corvette missilistiche classe «Steregushchiy», ma nella variante «Tigr/Project 20382», dunque di origine russa, con un dislocamento di 2.200 tonnellate e armate con sistemi missilistici per compiti offensivi e difensivi, e con prestazioni migliori delle controparti cinesi. Il contratto per le due corvette «Tigr» (più una terza in opzione) era stato firmato già nel 2011, con un costo presunto di 150 milioni di dollari per nave: tuttavia, l’affare è stato congelato per lungo tempo e solo a novembre 2020 si è avuta notizia della sua finalizzazione, con la costruzione affidata ai cantieri Severnaya di San Pietroburgo e con la consegna del primo esemplare prevista nel 2021.

AUSTRALIA Accelerazione nello sviluppo di sistemi per contromisure mine Gli sforzi della Marina australiana per acquisire rapidamente sistemi di contromisure mine (CMM) a controllo

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MILITARI remoto e facilmente dispiegabili, hanno subito una significativa accelerazione con la condotta delle prime prove finalizzare all’accettazione di elementi importanti del programma noto come Project SEA 1778. Il 20 gennaio, Thales Australia ha annunciato che ciascuna suite CMM rischierabile comprende un veicolo spendibile «Seafox» dedicato alla neutralizzazione delle mine (realizzato da Atlas Elektronik), i mezzi subacquei autonomi «Bluefin» 9 e 12 (della General Dynamics) e un sistema telecomandato «Zengrange» per la distruzione delle mine. Da parte sua, l’azienda australiana Steber International aveva in precedenza annunciato la stipula di un contratto per la costruzione di cinque imbarcazioni in fibra di vetro da 12 metri di lunghezza, a controllo remoto, in grado di sviluppare una velocità massima di 25 nodi e con un carico utile di 3 tonnellate: la configurazione finale delle imbarcazioni ne prevede tre per il supporto alle operazioni di sminamento e due per la partecipazione diretta a predette operazioni.

Annullato il contratto per un nuovo sistema di soccorso subacqueo Avviato due anni orsono, per consentire alla Marina australiana di dotarsi di un moderno sistema di ricerca e soccorso a unità subacquee sinistrate, il contratto per sostituire l’attuale LR5 è stato annullato alla fine di gennaio 2021 dal ministero della Difesa australiano, a seguito di un’analisi governativa avviata lo scorso anno. Il contratto, da 255 milioni di dollari australiani, era stato stipulato con la società statunitense Phoenix International alla fine del 2018, con l’obiettivo di sostituire l’LR5 con un sistema moderno, da utilizzare non solo per eventuali interventi sui sottomarini classe «Collins» attualmente in servizio, ma soprattutto per i futuri battelli classe «Attack». Il nuovo sistema avrebbe previsto un minisommergibile aviotrasportabile, in grado di operare fino ad almeno 300 metri di quota. La Marina australiana è destinata dunque a fare ancora uso dell’LR5, minisommergibile di origine britannica da 9,6 tonnellate, in servizio dal 2009 dopo essere stato impiegato dalla Royal Navy e in grado di trasportare 16 persone.

BAHRAIN In linea otto nuove unità Il 9 febbraio, otto nuove unità sono entrate in servizio

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nella Marina del Bahrain, fra cui il pattugliatore Al-Zubara, già appartenente alla Royal Navy (ex River, classe «Clyde»), ceduto nell’agosto 2020: sull’unità sono stati installati due impianti da 30 mm di produzione turca e diverse mitragliatrici di piccolo calibro. Le altre unità sono due pattugliatori veloci (Mashhoor e Al-Areen), lunghi 35 metri e prodotti dalla società statunitense Swiftships e cinque pattugliatori tipo «Mk. V», ceduti dall’US Navy e denominati Al-Daibal, Askar, Jaww, Al-Hidd e Taghleeb: quest’ultimi sono armati con impianti da 25 e 20 mm e con mitragliatrici di piccolo calibro, ma non tutti sono dotati del medesimo armamento, mentre la dotazione comprende anche sistemi di scoperta elettrottici e all’infrarosso.

CILE Nuova unità anfibia e da trasporto

Immagine al computer dell’unità per operazioni anfibie e trasporto di personale e materiali destinata alla Marina cilena e la cui costruzione è stata affidata alla società Vard, controllata di Fincantieri (Vard).

La società Vard Marine Inc., controllata da Fincantieri, ha firmato un contratto con la cilena ASMAR Shipbuilding & Ship Repair Company (a gestione governativa) per il progetto e la realizzazione di una classe di unità destinata alle operazioni anfibie e al trasporto di personale e materiali. Appartenenti al programma «Escotillón IV» della Marina cilena, le unità saranno costruite nei cantieri ASMAR di Talcahuano e sono destinate alla sostituzione delle due navi da sbarco Rancagua e Chacabuco, della nave da trasporto Aquiles e della nave ospedale Sargento Aldea. Le nuove unità possono considerarsi multiruolo, in grado di operare nell’oceano Pacifico per esigenze di supporto logistico, ricerca e soccorso, trasporto di personale e materiali e assistenza umanitaria in caso di calamità. Il progetto si basa sul modello «Vard Series 7», con gli specifici adattamenti richiesti dalla Marina cilena fra cui un bacino allagabile capace di accogliere e dispiegare un’ampia gamma di veicoli e carichi containerizzati, si-

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stemazioni aeronautiche e imbarcazioni di servizio per missioni logistiche e di ricerca e soccorso.

COREA DEL SUD Iniziato lo sviluppo di un missile balistico subacqueo L’agenzia di stampa sudcoreana Yonhap ha riportato la notizia dello sviluppo di un missile balistico lanciabile da unità subacquee, un’arma testata alla fine del 2020 e derivata dall’ordigno «Hyeonmu-2B», accreditato di una portata di 500 km. Dopo il completamento della campagna in un poligono terrestre, seguirà la fase di lanci subacquei. Il missile è equipaggiato con una testata bellica convenzionale e potrà essere imbarcato sui sottomarini da 3.000 tonnellate di dislocamento in immersione o su battelli di maggiori dimensioni, peraltro non ancora definiti. I sottomarini sudcoreani in corso di realizzazione nell’ambito del programma KSS-III/KSS-3, di cui il primo esemplare — Dosan Ahn Chang-ho — entrerà in servizio nel 2021, sono stati concepiti anche per l’imbarco di missili balistici: il programma KSS-III comprende in totale nove battelli, suddivisi in tre lotti da tre unità ciascuno. I battelli del primo lotto sono accreditati di una velocità massima in immersione di 20 nodi e di un’autonomia di 10.000 miglia e hanno un equipaggio composto da 50 uomini, si prevede che potranno trasportare sei missili balistici. Secondo fonti ufficiali sudcoreane, le unità dei due lotti successivi non soltanto saranno più grandi delle precedenti, ma saranno caratterizzate da importanti migliorie, come per esempio una dotazione di, rispettivamente, otto e dieci missili balistici lanciabili in immersione. I battelli del secondo lotto di KSS-III saranno anche allestiti con batterie agli ioni di litio, che ne aumenteranno considerevolmente l’autonomia in immersione e, a parità di densità energetica rispetto alle soluzioni precedenti, consentiranno di incrementare i volumi destinati ad armi e sensori. Il governo sudcoreano ha dibattuto per lungo tempo sull’esigenza di costruire un sottomarino a propulsione nucleare, soprattutto dopo che la Corea del Nord ha annunciato, all’inizio di gennaio 2021, di aver completato il progetto di una siffatta piattaforma; rimane tuttavia da comprendere esattamente se gli annunci di Pyongyang corrispondono realmente ad aspetti concreti.

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Al via la costruzione del primo cacciatorpediniere lanciamissili Il 16 febbraio, la società Hyundai Heavy Industries (HHI) ha iniziato, nel cantiere di Ulsan, la costruzione dei primi elementi strutturali di un nuovo cacciatorpediniere lanciamissili tipo «KDX-III Batch 2», il cui progetto è caratterizzato dalla presenza del sistema di gestione operativa «Aegis». Si tratta di un’evoluzione del tipo «KDX-III Batch 1», comprendente due unità da 7.600 tonnellate di dislocamento leggero — Sejong the Great e Seoae Ryu Seong-ryong —, consegnate alla Marina sudcoreana nel 2008 e nel 2012. I nuovi «KDX-III Batch 2» avranno un dislocamento leggero di 8.100 tonnellate e saranno caratterizzati da maggiori capacità nei settori della lotta antisommergibili e del contrasto ai missili balistici: vi sarà un numero inferiore di celle rispetto ai «Batch 1», ma ciascuna di esse sarà più grande del modello precedente e potrà impiegare missili più grandi e performanti, fra cui ordigni supersonici antinave. L’impostazione del primo dei tre «KDX-III Batch 2» previsti avverrà a ottobre 2021 e la nave sarà varata nella seconda metà del 2022: dopo l’esecuzione delle prove in mare, se ne prevede la consegna alla Marina sudcoreana nel 2024.

FILIPPINE In servizio la nuova fregata Antonio Luna A metà febbraio 2021, la fregata Antonio Luna si è trasferita dal cantiere di costruzione sudcoreano Hyundai Heavy Industries (HHI) alle Filippine, entrando così in servizio nella locale Marina per affiancare l’unità gemella Jose Rizal, in linea da luglio 2020. La costruzione per le due fregate era regolata da un contratto firmato da HHI e la Marina filippina nell’ottobre 2016, per un importo di circa 315 milioni di dollari, cui però vanno sommati i costi dei sistemi d’arma e dei sensori. Le fregate filippine sono basate su una versione più piccola del progetto redatto per le analoghe unità sudcoreane classe «Incheon» e hanno un dislocamento leggero di 2.600 tonnellate e una lunghezza di 107 metri. Il sistema propulsivo CODAD, con quattro motori diesel, dovrebbe garantire una velocità massima di 25 nodi e un’autonomia di 4.500 miglia a 15 nodi. Le dotazioni comprendono quattro contenitori/lanciatori per missili antinave (probabilmente gli SSM-700K Haeseong, prodotti in Corea del Sud), due impianti lan-

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L’arrivo a Manila della nuova fregata filippina ANTONIO LUNA, realizzata dal cantiere di costruzione sudcoreano HHI ed entrata in servizio per affiancare l’unità gemella JOSE RIZAL (Marina delle Filippine).

ciamissili superficie-aria SIMBAD-C (di origine francese), un cannone da 76 mm Leonardo/OTO, un impianto da 30 mm SMASH di origine turca e due impianti lanciasiluri tripli da 324 mm (probabilmente i Blue Shark sudcoreani). Esistono le predisposizioni per un complesso ottuplo destinato al lancio verticale di missili superficiearia. Le sistemazioni aeronautiche consentono le operazioni e il ricovero di un elicottero AW159 «Wildcat», di cui appunto due esemplari sono stati ordinati dalla Marina filippina; la maggior parte dei sensori elettronici è di produzione francese.

Prossima acquisizione di pattugliatori costieri Secondo le informazioni divulgate dall’agenzia di stampa ufficiale del governo filippino, la Marina locale ha confermato la prossima acquisizione di otto pattugliatori costieri classe «Shaldag Mk V», di costruzione israeliana. Si tratta di unità lunghe 33 metri e con un dislocamento di 95 tonnellate: l’equipaggio comprende 14 uomini, mentre l’armamento si articola su cannoni automatici da 20 o 25 mm e su missili antinave a breve raggio.

FRANCIA L’operazione «Clemenceau 21» La Marina francese ha dato il via all’operazione «Clemenceau 21», a cura di una gruppo aeronavale salpato da Tolone a metà febbraio 2021; di esso — denominato Task Force 473/TF 473 — fanno parte la portaerei a propulsione nucleare Charles de Gaulle (con il suo gruppo aereo imbarcato), la fregata lanciamissili Chevalier Paul (in realtà un cacciatorpediniere), la fregata multimissione Pro-

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vence e l’unità polivalente da supporto logistico Var. Al comando del contrammiraglio Marc Aussedat, la TF 473 è integrata da un sottomarino d’attacco a propulsione nucleare classe «Rubis» e da velivoli per il pattugliamento marittimo «Atlantique 2», nonché da alcune unità navali di altre nazionalità: si tratta della fregata belga Léopold I, del cacciatorpediniere lanciamissili statunitense Porter e dalla fregata greca Hydra. Alla partenza della TF 473 da Tolone è seguita una fase di preparazione e integrazione operativa svoltasi nel Mediterraneo, con l’aggregazione delle unità di scorta alla Charles de Gaulle, ritenuto dalle autorità francesi uno «strumento strategico riconosciuto e apprezzato» per le sue efficaci capacità di cooperazione. «Clemenceau 21» è un dispiegamento operativo e di presenza strategica nelle principali zone d’interesse per Parigi e per l’Europa, vale a dire il Mediterraneo, l’oceano Indiano e il Golfo Persico, dove la Francia ritiene di agire come «potenza equilibratrice». La TF 473 è impegnata nell’operazione «Inherent Resolve» contro le organizzazioni terroristiche in azione nella Siria nordorientale e la sua presenza rafforza il dispositivo militare francese presente nel Levante mediterraneo.

Impostazione della sezione prodiera del Jacques Chevallier Il 10 febbraio ha avuto luogo nello stabilimento Fincantieri di Castellammare di Stabia l’impostazione della sezione prodiera del Jacques Chevallier, prima di quattro unità di supporto logistico ordinate all’azienda italiana da Chantiers de l’Atlantique nell’ambito del programma FLOTLOG («Flotte logistique»). Le sezioni prodiere delle quattro unità saranno tutte costruite nel cantiere stabiese, con consegne al committente francese tra l’anno in corso e il 2027; il FLOTLOG è il segmento francese del più ampio programma LSS (Logistic Support Ship), che per l’Italia riguarda al momento il Vulcano e che viene gestito dall’OCCAR (Organizzazione per la cooperazione congiunta in materia di armamenti) per conto della Delegation Generale de l’Armament francese e della sua controparte navale italiana, la Direzione degli Armamenti Navali. Il progetto LSS è caratterizzato da un elevato livello di innovazione che rende le unità nave estremamente flessibili ed efficienti nei diversi profili d’impiego, coniugando capacità di trasporto e trasferimento ad altre unità navali di carichi liquidi (gasolio, combustibile avio, acqua dolce) e solidi (parti di rispetto, viveri e munizioni).

Missione «Marianne» per Emeraude e Seine Il ministro della Difesa francese Florence Parly ha annunciato che da settembre 2020 il sottomarino nucleare d’attacco Emeraude (classe «Rubis») e la nave ausiliaria Seine sono impegnate in una lunga attività in mare nella regione Indo-Pacifico, attività che ha visto il battello partecipare anche a un’operazione nel Mar Cinese Meridionale. La Parly ha affermato che l’operazione — denominata missione «Marianne» e che ha compreso anche una sosta dell’Emeraude nella base aeronavale statunitense sull’isola di Guam — ha dimostrato la capacità della Marina francese di svolgere missioni a lunghissima distanza dalle basi metropolitane, in collaborazione con i partner «strategici» di Parigi, in particolare Stati Uniti, Australia e Giappone. Scopo della missione è stato anche l’approfondimento delle conoscenze nella regione Indo-Pacifico, l’affermazione della validità delle regole internazionali sulla giurisdizione dei mari in un teatro marittimo che contribuisce largamente agli 11 milioni di km2 della Zona Economica Esclusiva francese e la dimostrazione della volontà di proteggere sovranità e interessi francesi.

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L’impostazione, a Castellammare di Stabia, della sezione prodiera dell’unità logistica polivalente JACQUES CHEVALLIER, realizzata per conto della Marina francese (Fincantieri).

GIAPPONE Collisione fra il sottomarino Soryu e un mercantile Nelle ore mattinali del 9 febbraio 2021, il sottomarino giapponese Soryu è entrato in collisione con il mercantile Ocean Artemis da 52.000 tonnellate di stazza lorda e lunga 228 metri, probabilmente mentre il battello si trovava in

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navale: queste tecnologie consentono il rischieramento rapido dello «Sweep» e il suo impiego in maniera sicura per gli operatori, in autonomia o in associazione con altri sistemi concepiti per la caccia alle mine. Il primo «Sweep» sarà consegnato nel 2022 e sarà sottoposto a una rigorosa valutazione operativa prima di entrare in servizio nella Royal Navy.

INTERNAZIONALE Prosegue il programma belga-olandese per nuovi cacciamine Primo piano dei danni riportati dal sottomarino SORYU dopo la collisione con il mercantile OCEANO ARTEMIS, con alcuni membri dell’equipaggio del battello che cercano di rizzare il timone verticale prodiero di dritta (Marina giapponese).

fase di emersione: l’incidente è avvenuto al largo di Cape Ashizuri, situata nella prefettura di Kochi, nella zona meridionale dell’isola di Shokoku. Una porzione della falsatorre del Soryu è stata danneggiata, mentre il timone orizzontale avanti di dritta è stato piegato verso il basso; danni hanno subito anche alcune antenne per le comunicazioni. Il Soryu ha lamentato il ferimento lieve di tre componenti dell’equipaggio ed è rientrato alla base con i propri mezzi. Il ministro della Difesa giapponese Nobuo Kishi ha dichiarato che il suo dicastero coopererà con la Guardia costiera nipponica nell’inchiesta avviata dopo l’incidente. L’Oceano Artemis, una bulk-carrier battente bandiera di Hong Kong e gestita dalla società armatrice cinese Centrans Ocean Shipping Logistics, è giunta nel porto di Kobe dove lo scafo è stato ispezionato da personale della predetta Guardia costiera.

La società francese Naval Group ha annunciato che il programma belga-olandese per dodici nuovi cacciamine, affidato al consorzio Belgium Naval & Robotics, ha superato con successo la «Preliminary Design Review, PDR», soddisfacendo così i requisiti contrattuali stabiliti dalle Marine dei due paesi. Il personale finora impegnato nel programma, circa 200 persone, ha svolto le proprie attività in vari siti aziendali di Naval Group, che assieme alla società ECA Group forma il consorzio Belgium Naval & Robotics. Il superamento della PDR implica anche la graduale transizione del programma verso il gruppo cantieristico Kership, controllato da Naval Group e già all’opera con il progetto di dettaglio delle unità: la costruzione del primo esemplare comincerà nell’estate 2021 e la consegna è prevista per il 2024. Per quanto riguarda i sistemi a controllo remoto che formeranno la dotazione dei nuovi cacciamine, la PDR ha significato l’accettazione della documentazione relativa al loro concetto d’impiego in sicurezza e all’architettura tecnica e funzionale: concepiti come una sorta di «scatola degli attrezzi», i nuovi cacciamine avranno in dotazione mezzi di superficie, subacquei e a ad ala rotante e altri sistemi specialistici di vario tipo, concepiti e realizzati da ECA Group.

GRAN BRETAGNA Ordinato il sistema di contromisure mine «Sweep»

Si amplia il programma EPC

Il ministero della Difesa inglese ha annunciato la stipula di un contratto di 25 milioni di sterline con la società Atlas Elektronik UK per la fornitura di tre sistemi di dragaggio a controllo remoto e a influenza combinata, denominati «Sweep». Ciascuno di essi comprende un mezzo navale di superficie autonomo, destinato al rimorchio di un sistema che usa tecnologie acustiche, magnetiche e d’altro tipo per la scoperta e la neutralizzazione di differenti tipi di mine navali. Lo «Sweep» è controllato tramite un apparato di comando mobile che può essere installato a terra o su un’unità

L’11 febbraio 2021 è stato firmato un Memorandum of Understanding fra il consorzio industriale italo-francese Naviris e la società spagnola Navantia, finalizzato ad ampliare alla Spagna il programma di cooperazione internazionale per le nuove European Patrol Corvette, EPC; il programma EPC è al momento la più importante iniziativa avviata nell’ambito della Permanent Structured Cooperation (PESCO), gestita dall’Unione europea. Le nuove unità — destinate alle Marine di Italia, Francia e Spagna — sono state concepite per garantire la sicurezza marit-

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tima, contrastare i traffici illeciti e la pirateria marittima e fornire assistenza alla popolazione civile. Le EPC avranno un dislocamento di circa 3.000 tonnellate e una lunghezza di 100 metri e sostituiranno, nel medio termine, diverse categorie di naviglio militare, dai pattugliatori alle fregate leggere. I requisiti progettuali delle nuove unità saranno definiti dalle Marine interessate nel corso del 2021, dando priorità a comunanza di soluzioni e modularità alle esigenze nazionali. Sotto il profilo governativo, il programma EPC comprende anche la Grecia e si spera di convincere altre nazioni europee a parteciparvi.

IRAN Potenziamento navale dei Guardiani della Rivoluzione Secondo informazioni divulgate dall’agenzia di stampa iraniana Fars News, l’11 febbraio 2021 la componente navale dei Guardiani della Rivoluzione Islamica (meglio noti come pasdaran) ha immesso in servizio 340 motovedette veloci di piccole dimensioni, armate con missili e razzi e in grado di supportare operatori subacquei. La cerimonia della consegna delle imbarcazioni si è svolta a Bandar Abbas, presenziata dal Capo di Stato Maggiore delle Forze armate iraniane, maggior generale Mohammad Baqeri, dal comandante dei Guardiani della Rivoluzione, maggior generale Hossein Salami, dal comandante della predetta componente navale, contrammiraglio Ali Reza Tangsiri e ha visto la partecipazione di altri dignitari politici e militari. Le motovedette sono state costruite, a partire dal 2019, in diverse cantieri gestiti associati all’organizzazione dei pasdaran e sono destinati a operare nel Golfo Persico, nel Mar di Oman e nel mar Caspio. Le nuove motovedette sono accreditate di una velocità massima di 80 nodi: la componente navale dei pasdaran ha già in servizio il Seraj-1, una motovedetta costruita in Iran e basata sul modello britannico «Bladerunner 51» della società Bradstone Challenger, da cui sono state riprodotte numerose fra le 340 unità consegnate. Fra esse, risultano esservi modelli «Taedong-B» di origine nordcoreana e «C-14 Cat» di produzione cinese.

(Ready For Operations) che ha come scopi principali l’esecuzione delle prove e l’imbarco dei due velivoli F35B della Marina Militare a bordo dell’unità e l’installazione di tutte le apparecchiature necessarie al loro supporto tecnico/logistico. Accogliendo il Cavour al suo arrivo, l’ambasciatore d’Italia negli Stati Uniti, Armando Varricchio, ha così salutato il comandante, capitano di vascello Giancarlo Ciappina e il suo equipaggio: «È un onore e un piacere darvi il benvenuto negli Stati Uniti in occasione della prima missione del Cavour in acque americane, nel 160° anniversario dello stabilimento delle relazioni diplomatiche bilaterali e nel 160° compleanno della Marina. Portate qui, di fronte alla costa della Virginia, un campione esemplare della nostra Italia e il migliore esempio di una virtuosa collaborazione nel campo della sicurezza e dell’industria. L’Italia e gli Stati Uniti sono paesi alleati e amici, il cui rapporto è figlio di quella tradizione marinara che spinse un navigatore genovese ad affrontare onde e correnti allora sconosciute. Oggi il nostro rapporto guarda con decisione al futuro e alle sfide che dobbiamo affrontare insieme, a partire da quella della sicurezza. L’Italia, anche nella sua veste di Presidenza in esercizio del G20 e in stretto raccordo con gli Stati Uniti, è in prima linea per promuovere la lotta alla pandemia, per favorire la ripresa economica e per realizzare uno sviluppo sostenibile». Il Cavour è stato ac-

ITALIA Il Cavour negli Stati Uniti Con l’arrivo, il 13 febbraio 2021, della portaerei Cavour a Norfolk, è entrata nel vivo la campagna RFO

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La portaerei CAVOUR, impegnata nella campagna RFO, in banchina a Norfolk.

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colto anche dal vice admiral Andrew Lewis, comandante della Second Fleet dell’US Navy, il quale ha affermato che «supportare gli alleati italiani nella certificazione della loro portaerei accresce la nostra esperienza comune nella sicurezza e abilità di combattimento». Infatti, la fase di prove in mare coinvolgeranno velivoli F-35B del Corpo dei Marines, nonché i piloti e gli specialisti della Marina Militare distaccati nella base aeronavale dell’US Marine Corps di Beaufort, in South Carolina. Le prove in mare, condotte al largo della costa atlantica degli Stati Uniti, saranno suddivise in due fasi molto intense, al termine delle quali i piloti della Marina Militare conseguiranno l’ambita Carrier Qualification con gli F-35B, cioè la certificazione al decollo e all’appontaggio dalla/sulla portaerei. Al termine dell’attività, destinata a protrarsi fino ad aprile, il Cavour potrà operare autonomamente con il nuovo velivolo, facendo sì che la campagna RFO si concretizzi come un passaggio fondamentale del percorso verso il conseguimento della capacità operativa iniziale (IOC, Initial Operational Capability) del «Sistema portaerei».

Il Fasan integrato nella SNMG2

cantile nel mar Mediterraneo e svolgendo esercitazioni periodiche anche con le nazioni partner regionali (come quella condotta a metà febbraio con la Marina israeliana), migliorando l’interoperabilità dell’Alleanza Atlantica.

Basco verde per otto nuovi incursori di COMSUBIN Il Comando Subacquei e Incursori (COMSUBIN) della Marina Militare alla Spezia è stato il palcoscenico della tradizionale cerimonia, svoltasi quest’anno il 22 gennaio 2021 e presenziata dal Capo di Stato Maggiore della Marina Militare, ammiraglio di squadra Giuseppe Cavo Dragone, della consegna dell’ambito «basco verde» ai neo-incursori della Forza armata. Nel suo intervento, l’ammiraglio Cavo Dragone ha ricordato come il basco verde sia «ambitissimo e assai invidiato» e che a esso «tutti guardano con estremo rispetto»: egli ha inoltre ricordato le difficoltà da superare per quest’edizione del corso ordinario Incursori, svoltasi in un’epoca di emergenza sanitaria e di conseguenti restrizioni. Da rammentare che il Gruppo Operativo Incursori/GOI è il reparto d’eccellenza delle Forze Speciali della Marina Militare e il Corso ha visto quest’anno la partecipazione di 41 fra ufficiali, sottufficiali e volontari in ferma prefissata: attraverso un processo di formazione svoltosi in quattro fasi distinte, gli allievi incursori hanno ricevuto

Dal 5 febbraio al 7 marzo 2021 la fregata Virginio Fasan è stata integrata nello Standing Nato Maritime Group 2 della NATO (SNMG2, cioè il 2o Gruppo navale permanente dell’Alleanza Atlantica, al comando del contrammiraglio spagnolo Manuel Aguirre, che ha operato dal cacciatorpediniere lanciamissili Cristobal Colon. Da ricordare che l’SNMG2 è una delle quattro formazioni navali inserite nella Very High Readiness Joint Task Force (VJTF), a sua volta della NATO Response Force (NRF): la SNMG2 è formata da unità navali di nazioni NATO normalmente appartenenti alla regione mediterranea ed è in grado di svolgere un’ampia gamma di operazioni militari; oltre al Fasan e al Cristobal Colon, di essa fa attualmente parte anche la fregata greca Kountouriotis. Inoltre, la SNMG2 rappresenta una forma di garanzia assicurata momento della cerimonia, presenziata dal Capo di Stato Maggiore della Marina Militare, dalla NATO per la sicurezza dei paesi membri Un ammiraglio di squadra Giuseppe Cavo Dragone, per il conferimento del brevetto di a otto nuovi operatori di COMSUBIN; a destra dell’Ammiraglio c’è il contrammie una forza deterrente contro ogni possibile mi- incursori raglio Massimiliano Rossi, comandante di COMSUBIN. naccia, garantendo il controllo del traffico mer-

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una preparazione fisica e professionale di base adeguata a condurre operazioni subacquee, anfibie e terrestri, superando una selezione che ha infine portato a 8 il numero dei nuovi incursori.

44 allievi marescialli promossi a Capo di 3a classe

Attività Marittime/SGAM, Informatica e Comunicazione Digitale/ICD e Infermieristica: il percorso di formazione proseguirà con gli esami di fine primo semestre e si concluderà con la discussione delle tesi entro novembre 2021.

Prosegue il progetto per i nuovi cacciamine

Il 15 febbraio 2021 la società Intermarine, parte del gruppo industriale Immsi, ha firmato il contratto per la riduzione dei rischi e la definizione progettuale dei cacciamine di nuova generazione destinati alla Marina Militare per la sostituzione delle unità classe «Lerici» e «Gaeta». I nuovi cacciamine verranno realizzati in due versioni, usando la stessa tecnologia impiegata per il naviglio precedente (cioè scafo in vetroresina, con ordinate rinforzate): la versione «costiera» Uno dei 44 allievi Marescialli al momento della promozione a Capo di 3a classe della Marina Militare, sarà lunga 60 metri, mentre quella avvenuta nella Scuola sottufficiali di Taranto; a sinistra, il contrammiraglio Enrico Giurelli, comandante della Scuola. «alturiera» raggiungerà 80 metri, aventi peraltro a fattor comune una significativa aliquota di mezzi a controllo remoto. Durante una cerimonia svoltasi a «porte chiuse» lo scorso 8 febbraio 2021 nella piazza d’armi della Scuola Sottufficiali della Marina Militare di Taranto, il comanNORVEGIA dante dell’istituto, contrammiraglio Enrico Giurelli, ha La fregata Helge Ingstad verso la demolizione consegnato i gradi di Capo di 3a classe ai 44 allievi maProtagonista di una collisione con una petroliera accao duta l’8 novembre 2018 e seriamente danneggiata, la frerescialli del terzo anno frequentatori del 21 Corso norgata norvegese Helge Ingstad sarà demolita a cura della male «Thesis». È questo un traguardo molto importante società norvegese Norscrap West, con cui il ministero della nel percorso formativo, e in generale nella carriera, per Difesa di Oslo ha siglato un contratto l’11 gennaio, per un i giovani neo sottufficiali impegnati in un percorso che valore di 7 milioni di dollari: l’operazione avverrà entro prevede l’abbinamento dell’attività di studio, svolta a l’anno in corso sotto la supervisione di tecnici governativi distanza in collaborazione con l’Università degli Studi norvegesi e di essa farà parte il recupero di materiali medi Bari, a una ricca attività di formazione professionale tallici da rivendere sul mercato per ammortizzare parzialsvolta presso Mariscuola Taranto. Ad alcuni dei neo mamente i costi dell’operazione. La decisione di demolire la rescialli è inoltre assegnato il delicato e importante comfregata è giunta dopo un’analisi dei danni occorsi dopo la pito di partecipare all’inquadramento militare e al collisione e la lunga permanenza incagliata in un basso controllo delle attività degli allievi della prima e sefondale. Il ministero della Difesa norvegese ha dichiarato conda classe, contribuendo al fondamentale processo di che le attività delle tre rimanenti fregate della classe «Nanformazione delle leve più giovani. I componenti del sen» sono state ridotte fino alla conclusione dell’inchiesta corso «Thesis» frequentano i corsi universitari dell’Unisulla collisione: tuttavia, due di esse si trovano in manuversità degli Studi di Bari in Scienze e Gestione delle

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tenzione preventiva, mentre la terza si sta preparando ad attività addestrative con la Royal Navy. Il ministero della Difesa norvegese ha anche confermato che la fregata Helge Ingstad non sarà sostituita e che il governo ha deciso di condurre uno studio per determinare la struttura delle forze navali di superficie nel prossimo decennio, con l’obiettivo di preservare le capacità marittime nazionali.

PAKISTAN Impostazione della terza corvetta tipo «Milgem» Il 23 gennaio 2021 si è svolta nell’Arsenale governativo di Istanbul la cerimonia d’impostazione della terza corvetta tipo «Milgem», in costruzione per la Marina pakistana sulla base di un contratto siglato nel luglio 2018. Alla cerimonia ha preso parte il presidente turco Recep Erdogan e l’ambasciatore pakistano ad Ankara, Muhammad Syrus Sajjad Qazi; nel quadro dell’accordo intergovernativo, la quarta unità della classe — identificata come Jinnah — sarà progettata e costruita in Pakistan. La consegna delle quattro unità è stata programmata a partire dal 2023, e dovrebbe concludersi l’anno successivo. Le corvette costruite per la Marina pakistana sono basate sul progetto delle medesime unità turche classa «Ada», ma con la variante a 16 celle per il lancio di missili superficie-aria «LY-80», ordigno derivato da una versione terrestre in servizio nell’Esercito pakistano dal 2017. La maggior parte dei sistemi imbarcati sarà di produzione turca, a parte il radar di sorveglianza e direzione del tiro, attivo e a scansione di fase, «SMART-S Mk2», in grado di scoprire bersagli a una distanza strumentale di 200 miglia. La propulsione sarà affidata a un sistema CODAG, con una turbina a gas e due motori diesel, su altrettanti assi: la velocità massima è prevista in 30 nodi, con un’autonomia massima di 3.500 miglia a 15 nodi.

Futuri programmi navali In un’intervista pubblicata il 4 febbraio 2021 sul periodico Global Times, il Capo di Stato Maggiore della Marina pakistana, ammiraglio Amjad Khan Niazi, ha confermato l’esistenza di un programma di ammodernamento e potenziamento capacitivo, incentrato sulla realizzazione di fregate e unità subacquee di progetto/produzione cinese. Nel primo caso, si tratta di quattro fregate «Type 054/P», variante per la Marina pa-

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kistana di un progetto di unità massicciamente prodotto dai cantieri cinesi: il primo esemplare di «Type 054/P» è stato varato nell’agosto 2020. Queste unità hanno un sistema propulsivo CODAD, con quattro motori diesel prodotti in Cina ma derivati da un modello francese: la potenza complessiva è di circa 22.500 KW, cui corrisponde una velocità massima di 27 nodi, l’equipaggio comprenderà 165 uomini. L’armamento è articolato su un complesso di 32 celle per il lancio verticale della versione per l’esportazione di missili da crociera antinave YJ-12; è possibile anche la presenza di missili da crociera «land attack» «C-803», sempre di produzione cinese. L’armamento comprenderà una torre da 76 mm e due impianti per la difesa di punto da 30 mm, oltreché tubi lanciasiluri, lanciarazzi antisommergibili e impianti per il lancio di inganni, sempre di produzione cinese, così come i principali sensori elettronici. Il contratto per la costruzione di otto nuovi sottomarini classe «Hangor» (variante per l’esportazione del progetto cinese «Type 039», in costruzione anche per la Marina tailandese) è stato firmato con il gruppo cantieristico China Shipbuilding and Offshore International Co Ltd.; degli otto battelli, i primi quattro verranno realizzati in Cina e gli altri in Pakistan, con l’assistenza tecnologica e materiale di personale cinese. La decisione in merito al rafforzamento della componente subacquea indica una decisa inversione di tendenza della Marina pakistana, fino a qualche anno fa orientata alla gestione e realizzazione di battelli di origine francese, anche dotati di AIP; evidentemente, i risultati della collaborazione franco-pakistana non si sono rivelati all’altezza dei requisiti di costo/efficacia, obbligando Karachi a rivolgersi ad altri produttori.

QATAR Tappe importanti per le nuove costruzioni Il 13 febbraio 2021 nello stabilimento Fincantieri del Muggiano (Spezia) si è svolta una cerimonia importante per lo sviluppo delle nuove costruzioni destinate alla Marina del Qatar. Alla presenza di autorità civili e militari italiane e qatariote ha avuto luogo il varo tecnico della corvetta Damsah (secondo esemplare della classe «Al Zubarah») e l’impostazione del quarto esemplare, Sumaysimah. La cerimonia ha avuto luogo in formato ristretto e nel pieno rispetto delle prescrizioni

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La nuova corvetta lanciamissili DAMSAH della Marina del Qatar, varata al Muggiano il 13 febbraio 2021 (G. Arra).

anti-contagio. La consegna delle due unità è prevista, rispettivamente, nel 2022 e 2023: esse sono state realizzate in accordo al regolamento RINAMIL e sono state concepite per svolgere attività militari e d’interesse civile. Le corvette classe «Al Zubarah» hanno una lunghezza di circa 107 metri, sono larghe 14,70 metri e saranno dotate di un sistema di propulsione tutto diesel; la velocità massima è di 28 nodi, mentre le sistemazioni per il personale sono sufficienti per 112 persone. Le corvette potranno inoltre impiegare gommoni veloci a chiglia rigida (da imbarcare tramite una gru laterale e una rampa situata all’estrema poppa), mentre il ponte di volo e l’hangar saranno attrezzati per accogliere un elicottero NH-90.

REPUBBLICA POPOLARE CINESE Varo della terza unità d’assalto anfibio «Type 075» Il varo della terza unità anfibia «Type 075», configurata come LHD, ha avuto luogo alla fine di gennaio nel cantiere Hudong Zhonghua di Shanghai: poiché il primo esemplare è stato varato a settembre 2019 e il secondo nell’aprile 2020, ciò significa che i cantieri di Shanghai sono in grado di varare unità di questo tipo mediamente ogni sei mesi. La pianificazione complessiva della Marina cinese dovrebbe prevedere otto unità «Type 075», di cui è bene ricordare alcune peculiarità. In lavorazione dal 2011, il requisito di queste unità riguarda l’assalto anfibio verticale, una funzione che si rende necessaria per raggiungere obiettivi situati anche all’interno del territorio taiwanese, caratterizzato da rilievi montuosi. Il dislocamento dovrebbe aggirarsi sulle 36.000 tonnellate, mentre la capacità di stivaggio e operazioni d’assalto

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verticale riguarda 28 elicotteri: la propulsione è affidata a motori diesel di derivazione francese, mentre l’autodifesa è affidata a impianti per la difesa di punto di produzione cinese. Le unità «Type 075» si pongono un gradino al di sotto delle analoghe unità statunitensi, ma sono più grandi di quelle francesi o ispanico/australiane, collocandosi nella stessa fascia del Trieste della Marina Militare italiana. Agli otto esemplari di «Type 075» previsti dalla Marina cinese, dovrebbe seguire una versione più grande e prevedibilmente più capace, probabilmante denominata «Type 076»; in ogni caso, la presenza simultanea nella Marina cinese delle «Type 075» e delle «Type 071» (configurate come LPD e di cui un esemplare è in costruzione per la Marina tailandese) incrementa sensibilmente le capacità complessive d’assalto anfibio della Marina cinese.

RUSSIA Varo del quarto pattugliatore classe «Vasily Bykov» Il quarto esemplare di pattugliatore classe «Bykov»/Project 22160, battezzato Sergey Kotov, è stato varato il 29 gennaio nei cantieri Zaliv, in Crimea. L’unità era stata costruita nel cantiere fluviale Zelenodolsk, successivamente trasferita in Crimea e destinata a entrare in servizio con la Flotta russa del Mar Nero: essa affiancherà tre pattugliatori gemelli, Vasiliy Bykov, Dmitry Rogachyov e Pavel Derzhavin. Nel frattempo, il cantiere di Zelenodolsk, in precedenza noto come Maxim Gorki, è impegnato nella costruzione di altri due esemplari, Viktor Velikiy e Nikolai Sipyagin, da consegnare alla Marina russa entro il 2023. Il principale sistema d’arma di questi

Il varo del pattugliatore SERGEY KOTOV, destinato alla Flotta russa del Mar Nero (Sputnik News).

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pattugliatori è rappresentato dalle quattro celle per il lancio verticale della versione antinave del missile supersonico «Kalibr», nota in Occidente come «SS-N-27 Sizzler».

incrementata, ed è stato adottato un ponte di volo più grande e l’hangar può accogliere due elicotteri. La consegna di Vladimir Andreev e Vasily Trushin alla Marina russa è prevista nel 2023-24.

Ammodernamento per la fregata Neustrashimy Il 4 febbraio, l’agenzia di stampa russa Novosti ha annunciato che il cantiere navale Yantar di Kaliningrad completerà nel 2021 i lavori di grande manutenzione della fregata Neustrashimy, eponima di una ristretta classe di unità — «Project 11540» — concepite nell’ultimo scorcio di vita dell’Unione Sovietica. Impostata nel 1987 e in servizio nella Flotta del Baltico da marzo 1991, il Neustrashimy è una fregata specializzata nella lotta antisommergibili ed equipaggiata con un sistema COGAG formato da due turbine a gas per la navigazione di crociera e da altrettante macchine per gli spunti di velocità; l’armamento rispecchia la vocazione antisommergibile, senza disdegnare l’autodifesa contro le minacce aeree e missilistiche e il contrasto antinave. Non appare tuttavia chiaro se i sistemi missilistici e i sensori presenti in origine siano oggetto di sostituzione con materiali più recenti prodotti dall’industria navale militare russa; essendo il Neustrashimy ai lavori dal lontano 2014, è verosimile che non pochi siano stati i problemi di approvvigionamento per la revisione delle turbine a gas, di origine ucraina. I canteri Yantar hanno anche in lavorazione due unità da ricerca scientifica destinate alla Marina russa, Voevoda e Yevgeny Gorigledzhan, ed è alla ricerca di commesse anche nel settore navale mercantile.

Impostazione di unità anfibie Il 16 febbraio sono state impostate nel cantiere Yantar di Kaliningrad, le due unità anfibie Vladimir Andreev e Vasily Trushin, realizzate in base al «Project 1171.1» modificato: le due precedenti unità — Ivan Gren e Pyotr Morgunov — hanno un dislocamento di circa 5.000 tonnellate, possono trasportate 500 uomini o 13 carri armati e sono entrambe in servizio con la Flotta del Nord; la loro costruzione ha subito notevoli ritardi dovuti a inconvenienti tecnici. Paragonate alla prima coppia di unità, quelle di recente impostazione sono più grandi, essendo il loro dislocamento aumentato di circa il 35%, perché la capacità di trasporto di uomini e mezzi è stata

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SINGAPORE Costituzione di una flottiglia per operazioni di «Maritime Security and Response» Il 26 gennaio 2021 la Marina della Repubblica di Singapore ha annunciato la costituzione di una formazione navale dedicata alle operazioni di sicurezza marittima e pronto intervento, nota come «Maritime Security and Response Flotilla, MSRF». Di essa faranno parte i quattro pattugliatori classe «Fearless», in precedenza ritirati dal servizio, in corso di ammodernamento e da far rientrare in linea come classe «Sentinel»: queste unità saranno affiancate da due rimorchiatori offshore, denominati «Maritime Security Tugboats, MSRTs». Parte di uno dei comandi che compongono la Marina di Singapore, la nuova flottiglia si rende necessaria per fronteggiare le crescenti minacce presenti specialmente nello Stretto di Malacca e al largo della città-stato, prima fra tutte la pirateria marittima, male endemico di quella regione e di tutta l’Asia sudorientale. L’ammodernamento delle ex «Fearless» riguarda soprattutto la sensoristica e la difesa passiva, con i primi due esemplari — Sentinel e Guardian — in servizio dai primi di febbraio 2021, mentre Protector e Bastion seguiranno nei mesi successivi. In futuro, i pattugliatori ammodernati e i rimorchiatori saranno sostituiti da unità di nuova costruzione; si prevede che esse siano più grandi dei «Sentinel», con una maggior autonomia, equipaggio ridotto e capacità modulari.

SPAGNA Nuova unità per il soccorso subacqueo Alla fine di gennaio 2021, il governo spagnolo ha dato il via al programma per l’acquisizione di un’unità da soccorso subacqueo — denominata BAM-IS, Buque de Acciòn Maritima-Intervención Subacuática —, per un importo totale di poco superiore ai 183 milioni di euro; la nuova unità è destinata a sostituire nella Marina spagnola il Nettuno, che ha ormai superato i 45 anni di

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Immagine al computer dell’unità da soccorso subacqueo — denominata BAM-IS, Buque de Acciòn Maritima-Intervención Subacuática — di prossima acquisizione a cura della Marina spagnola (Navantia).

servizio. Il finanziamento sarà a cura del ministero dell’Industria spagnolo e coinvolgerà il cantiere di Puerto Real, a Cadice, di proprietà di Navantia e l’unità potrà essere impiegata anche da altre organizzazioni governative spagnole, come già accadeva per il Nettuno. La nuova BAM-IS avrà un dislocamento di circa 5.000 tonnellate, una lunghezza di 91 metri, una larghezza di 19 e un’altezza di costruzione di 8,4 metri. Quattro gruppi diesel-generatori produrranno l’energia per la propulsione principale, affidata a motori elettrici, e a quella ausiliaria, a cura di propulsori ausiliari prodieri. La velocità massima sarà di 15 nodi, con equipaggio di 48 effettivi, ma con alloggi predisposti per accogliere altre 12 persone. Fra gli equipaggiamenti specialistici del BAM-IS vi saranno due mezzi subacquei a controllo remoto, due camere iperbariche, compressori e materiali per sommozzatori

Pianificazione per l’F-35B imbarcato La Marina spagnola ha iniziato la valutazione del processo di acquisizione ed entrata in servizio del velivolo da combattimento di 5a generazione F-35B, destinato all’imbarco sulla portaeromobili Juan Carlos I in quanto unico possibile successore degli AV-8B Harrier II Plus della 9a Squadriglia dell’Aviazione Navale spagnola da essa operanti. L’arrivo del velivolo implica l’attuazione di una serie di misure a bordo dell’unità e nella base navale di Rota, al fine di assicurarne l’operatività e vincendo non poche sfide relative alla sicurezza, alla manutenzione e all’addestramento del personale. Secondo la pianificazione di massima della Marina spa-

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gnola, gli Harrier II Plus rimarranno in servizio fino al 2028, anno di presumibile arrivo del nuovo velivolo da combattimento, per il quale sarà comunque necessario avviare un programma di acquisizione già nei prossimi anni; in un recente articolo pubblicato sulla Revista General de Marina, sono state approfondite le implicazioni di questo programma, che permetterà di mantenere la capacità di proiezione della componente aerotattica imbarcata della Marina spagnola. Sotto il profilo logistico, per il nuovo programma sarà necessaria una nuova infrastruttura a terra per l’Autonomic Logistics Information System (ALIS, sistema info-logistico per la gestione tecnica dei velivoli) e per le relative attività di manutenzione e la costruzione di un nuovo edificio per l’installazione del simulatore di missione, attrezzato con quattro postazioni didattiche; questo complesso infrastrutturale dovrà essere realizzato all’interno del comprensorio che ospita la predetta 9a Flottiglia e soddisfare stringenti requisiti di sicurezza. Sul Juan Carlos I, che svolge anche le funzioni di portaeromobili d’assalto anfibio in quanto dotata di bacino allagabile e garage, sarà necessario intervenire sul ponte di volo (per creare un’apposita zona resistente alle elevate temperature sviluppate dal propulsore dell’F-35B durante l’appontaggio verticale) e nei locali interni (per adattarli all’imbarco e allo stivaggio del nuovo velivolo e dell’ALIS).

STATI UNITI Il cacciatorpediniere lanciamissili Daniel Inouye conclude l’iter d’accettazione Il 4 febbraio 2021, il futuro cacciatorpediniere lanciamissili Daniel Inouye, appartenente alla classe «Arleigh Burke IIA», nella variante più moderna, ha completato con successo le prove di accettazione, condotte al largo del Maine. L’ente dell’US Navy incaricato dell’accettazione, INSURV, ha ispezionato l’unità nel corso di una serie di dimostrazioni eseguite in banchina e in navigazione, relative a tutti i sistemi e impianti di bordo e necessarie per verificarne la rispondenza con le specifiche tecnico-operative. Il David Inouye è equipaggiato con il sistema di gestione operativa «Aegis» nella variante «Baseline 9», che racchiude capacità integrate di difesa contraerei e antimissili, compresi quelli balistici: l’unità

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il 37° esemplare di cacciatorpediniere classe «Burke» realizzato dai cantieri Bath Iron Works/BIW, che ha in costruzione/allestimento altre quattro unità del Flight IIA (Carl M. Levin, John Basilone, Harvey C. Barnum e Patrick Gallagher). Negli stabilimenti BIW ha inoltre preso il via la costruzione delle unità Flight III (Louis H. Wilson e William Charette), nonché del cacciatorpediniere lanciamissili Lyndon B. Johnson, terzo e ultimo esemplare della controversa classe «Zumwalt».

Assegnato il nome a cinque unità navali A metà gennaio l’allora segretario dell’US Navy, Kenneth J. Braithwaite, ha annunciato la selezione dei nomi e dei distintivi ottici per cinque future unità in programma e in costruzione. Si tratta della fregata lanciamissili Chesapeake (FFG 64, terzo esemplare della classe «Constellation»), del sottomarino nucleare d’attacco Silversides (SSN 807, classe «Virginia»), dell’unità d’assalto anfibio Pittsburgh (LPD 31, classe «San Antonio»), dell’unità da soccorso e salvataggio Lenni Lenape (T-ATS 9, classe «Navajo») e dell’expeditionary sea base Robert E. Simanek (classe «Montford Point», ESB 7). I primi tre nomi prescelti si riferiscono a unità in servizio nell’US Navy in un passato più o meno recente, mentre il quarto riguarda la tradizione delle popolazioni native americane: il quinto è un militare del Corpo dei Marines decorato con la Medal of Honor del Congresso degli Stati Uniti per l’eroico comportamento durante la guerra di Corea.

Immagine al computer divulgata dall’US Navy in occasione dell’assegnazione del nome di SILVERSIDES a un sottomarino nucleare d’attacco classe «Virginia» (US Navy).

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Impostazione della 13a unità per il trasporto veloce Il 21 gennaio, negli stabilimenti della società Austal USA di Mobile (Alabama) è stato impostato il 13o esemplare di unità per il trasporto veloce (Expeditionary Fast Transport, EPF), battezzata Apalachicola. Come noto, le EPF sono unità lunghe 103 metri con scafo a catamarano in alluminio e pescaggio ridotto, in grado di trasportare a una velocità media di 35 nodi un carico utile di 600 tonnellate (personale, mezzi militari e materiali): le EPF possono operare in porti non attrezzati, in operazioni militari e di assistenza umanitaria alla popolazione civile. L’equipaggio è formato da 21 effettivi, mentre l’intero programma costruttivo riguarda 14 unità.

Situazione del programma Littoral Combat Ship L’insorgere di gravi problemi al sistema propulsivo di due Littoral Combat Ship (LCS) della classe «Freedom» ha indotto l’US Navy a sospenderne l’ingresso in servizio e a creare un gruppo di lavoro (denominato «LCS Strike Team») per verificare la convenienza a proseguire il programma. Il problema tecnico, incentrato sul riduttore, impedisce alle unità di raggiungere la velocità massima prevista e le obbliga a non impiegare la turbina a gas e a fare dunque unicamente affidamento sui motori diesel. Oltre a investigare sui problemi tecnici, il «LCS Strike Team» è chiamato anche ad analizzare l’efficacia militare delle LCS, soprattutto in termini di contrasto antinave, prevedendo di installare su tutte le unità (i monoscafo classe «Freedom» e i trimarani classe «Indipendence») una batteria di missili antinave Kongsberg/Raytheon NSM, già presenti per valutazione sulla LCS Gabrielle Gifford. Differenti migliorie per le LCS riguardano il potenziamento di altre capacità attive e passive. La risoluzione dei problemi in corso sulle LCS è importante soprattutto alla luce del loro possibile dispiegamento in zone marittime lontane dagli Stati Uniti (fra cui Singapore e il Pacifico occidentale), anche in sostituzione dei pattugliatori costieri classe «Cyclone» che si avvicinano al termine del loro periodo di servizio. Rimane critico anche lo scenario riguardante il conseguimento della capacità operativa iniziale (IOC) dei singoli sistemi dedicati alla funzione di contromisure mine, uno dei tre payload modulari (gli altri sono il contrasto anti-

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loro impiego ispira la definizione delle «Visby Generation 2», in sostanza uno sviluppo di un concetto già esplorato da Saab e per il quale si prefigura l’impiego di moderni sistemi missilistici antinave e antiaerei e di nuovi siluri leggeri.

TURCHIA Varata la prima fregata della classe «I»

La Littoral Combat Ship statunitense GABRIELLE GIFFORD, appartenente alla classe «Independence» ed equipaggiata con i missili antinave NSM (visibili nello spazio fra il cannone e la sovrastruttura: accanto al GIFFORD è ormeggiato un pattugliatore «Mk.VI», anch’esso dell’US Navy (US Navy).

nave e le operazioni antisommergibili) alla base del concetto LCS: le previsioni per le IOC dei predetti sottosistemi si spingono fino al 2026, provocando un ritardo non di poco conto affinché la configurazione contromisure mine delle LCS possa rimpiazzare nell’US Navy gli ormai anziani cacciamine classe «Avenger», alcuni dei quali già ritirati dal servizio.

SVEZIA Firmato il contratto per due corvette di nuova generazione La società Saab e il ministero della Difesa svedese hanno siglato il 25 gennaio 2021 due contratti relativi alle unità di superficie e in servizio e di nuova generazione per la Marina locale. Il primo contratto riguarda l’ammodernamento di mezza vita delle cinque corvette classe «Visby» attraverso un programma che si trova adesso nella fase di definizione: la seconda attività riguarda il progetto preliminare per le cosiddette corvette «Visby Generation 2». Il valore complessivo dei due contratti è equivalente a 190 milioni di corone svedesi (23 milioni di euro) e i loro contenuti si concentrano sull’analisi dei requisiti per le due tipologie di naviglio. Le corvette classe «Visby» sono in servizio ormai da 20 anni e il loro ammodernamento contribuirà a renderle militarmente efficaci per gli impegni futuri, ipotizzando per esse un orizzonte temporale che si spinge oltre il 2040. Allo stesso tempo, le lezioni apprese dal

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Il presidente turco Recep Erdogan e altre autorità politiche e militari del paese hanno presenziato al varo, occorso il 23 gennaio 2021, della fregata Istanbul, primo esemplare di una nuova classe al momento nota come «I»: alle altre unità della classe sono stati infatti assegnati i nomi Izmir, Izmit e Icel e la costruzione di tutte è stata affidata all’Arsenale governativo di Istanbul. In accordo con i requisiti della Marina turca, le nuove fregate sono state concepite per operazioni di sorveglianza marittima, pattugliamento, ispezione e imposizione della sovranità marittima nell’ambito della contrastata Zona Economica Esclusiva turca: il loro dislocamento sarà di circa 3.000 tonnellate, con una lunghezza di 113 metri e un sistema propulsivo in configurazione CODAG (con due motori diesel di produzione tedesca e una turbina a gas LM2500) in grado di far raggiungere all’unità una velocità massima di 29 nodi. L’autonomia sarà di 5.700 miglia a 14 nodi, mentre l’equipaggio comprenderà 123 uomini. Le fregate classe «I» saranno caratterizzate da numerosi sistemi d’arma di origine turca fra cui un totale di 64 celle per il lancio verticale di missili superficie-aria (ma di tipo non ancora specificato), 16 contenitori/lanciatori per missili antinave «Atmaca», almeno un impianto per la difesa di punti «Gokdeniz», due impianti da 25 mm «STOP», un sistema d’inganno siluri «Hizir»; sarà inoltre presente una torre da 76 mm. Lo stesso approccio è stato adottato per i sensori elettronici, articolari su un radar tridimensionale di sorveglianza aeronavale, impianti per la direzione del tiro, la sorveglianza di superficie e subacquea, la guerra elettronica e la gestione delle operazioni. Saranno presenti due elicotteri medi, di cui uno ricoverato in hangar e l’altro parcheggiato sul ponte di volo e altrettanti gommoni veloci a chiglia rigida. Nel suo intervento, Erdogan ha enfatizzato l’importanza di sviluppare un’industria della difesa auto-

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La fregata turca ISTANBUL, prima unità di una classe formata al momento da quattro esemplari e ripresa poco prima del varo nei cantiere dell’Arsenale di Istanbul (Ministero della Difesa turco).

Il nuovo minisommergibile da ricerca e soccorso per unità subacquee sinistrate LR11, destinato alla Marina del Vietnam (Forum Energy Technologies).

noma, scevra dalle sanzioni cui è sottoposta la Turchia e in grado di soddisfare le esigenze di tutte le Forze armate turche, compresa la costruzione dell’unità portaeromobili d’assalto anfibio Anadolu, tuttora in fase di realizzazione. Il programma per le fregate classe «I» è stato concepito per la sostituzione, verso la metà del presente decennio, delle quattro fregate classe «Yavuz», realizzate in Germania secondo il concetto modulare MEKO e da lunghissimo tempo in servizio nella Marina turca. Sviluppate nell’ambito dell’architettura progettuale nazionale Milgem dedicata alle unità di superficie, il progetto delle nuove fregate non è altro che una variante scalata verso l’alto delle corvette antisommergibili classe «Ada», con un aumento di circa il 50% della capacità di combustibile e un conseguente incremento dell’autonomia. La prima lamiera della futura Istanbul è stata tagliata all’inizio del 2017 e il suo ingresso in linea era stato programmato per il 2021, successivamente spostata al 2023 per alcune difficoltà burocratiche riscontrate nella definizione del contraente principale.

stato realizzato per un’altra azienda britannica, Submarine Manufacturing & Products (SMP), contraente principale di un più ampio pacchetto relativo al soccorso delle unità subacquee sinistrate e da installare a bordo dell’unità ausiliaria Yet Kieu, dedicata a questa particolare funzione e realizzata secondo il progetto olandese «Damen 9316» nel cantiere navale vietnamita di Haiphong. Il contratto stipulato nel 2018 con la SMP comprende, oltre all’LR11, anche un sistema per il trasferimento in pressione del personale soccorso, un certo numero di mezzi subacquei ausiliari a controllo remoto e un sistema per la ventilazione e la decompressione di emergenza dei locali interni di un sottomarino sinistrato. Da parte sua, l’LR11 può operare fino a una quota di 600 metri, è capace di trasportare fino a 17 persone in ogni trasferimento dal battello sinistrato verso la superficie ed è formato da un modulo di comando (per due piloti) e un modulo di salvataggio per il personale trasportato: l’aggancio al battello può avvenire con un’angolazione massima di 40°, anche in presenza di forti correnti. I mezzi della serie «LR» erano realizzati dalla società Perry Slingsby Systems, che nel 2007 è stata acquistata dalla Forum Energy Technologies, anche per potenziarne lo sviluppo tecnologico attraverso la realizzazione di minisommergibili più prestanti e più capaci dei precedenti. L’LR11 è attualmente impegnato nelle prove in acque vietnamite e se ne prevede la consegna entro la prima metà del 2021.

VIETNAM Un minisommergibile da ricerca e soccorso subacqueo per la Marina vietnamita La società britannica Forum Energy Technologies ha completato un nuovo minisommergibile da ricerca e soccorso per unità subacquee sinistrate, denominato LR11 e destinato alla Marina del Vietnam. Il mezzo è

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Michele Cosentino

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«Così l’Italia torni a contare nel Mediterraneo» ISPIONLINE, 31 DICEMBRE 2020 LA REPUBBLICA, 24 NOVEMBRE 2020

«L’Italia nel Mediterraneo. Si dice che un tempo contasse molto e ora per nulla. Un’esagerazione probabilmente, nell’uno e nell’altro caso — esordisce con toni a effetto l’ambasciatore Giampiero Massolo, sul sito istituzionale dell’Istituto per gli Studi di Politica Internazionale (ISPI) di cui è presidente, in un intervento da leggere in parallelo con un altro suo articolo su temi analoghi, apparso qualche settimana prima sul quotidiano romano in epigrafe citato. Perché sino a trent’anni fa, continua il Nostro, «svolgere un ruolo, incidere sugli eventi era un po’ meno arduo, quando il mondo aveva un ordine bipolare e si apparteneva all’alleanza giusta». E poi ancora, sia pure già in misura minore, negli anni successivi, quando il vincolo energetico compattava gli interessi occidentali nella regione. Ma oggi che gli scenari geopolitici mediterranei sono cambiati radicalmente: «“Contare” è diventato oggettivamente complicato». Scenari caratterizzati — spiega l’Autore — dal lento, ma inesorabile disimpegno degli Stati Uniti, la conseguente maggiore libertà di movimento della Russia, le pretese egemoniche ed energetiche della Turchia, gli interessi securitari dell’Egitto e delle monarchie sunnite, il «cre-

Scorcio satellitare del Mediterraneo Allargato e del Grande Medio Oriente.

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scente sciita» vagheggiato dall’Iran fino a lambire le coste libanesi. Un nuovo quadro del Mediterraneo si è andato configurando, senza leadership riconosciute, né logiche di schieramento. Un Mediterraneo in cui i conflitti sono divenuti «multidimensionali». «Sorgono localmente, subiscono l’influenza di soggetti statali e non, interessati a soffiare sul fuoco anche dall’esterno, coinvolgono le potenze globali. Riguardano il futuro dell’Islam politico tra opposte fazioni sunnite, la gestione di flussi d’ogni genere, il riassetto del terrorismo jihadista mai sconfitto». Senza illuderci troppo sull’approccio della nuova amministrazione Biden alla «regione mediterranea allargata». Sarà certamente più inclusivo e plurilaterale verso gli alleati rispetto a quello adottato dall’amministrazione Trump, più esigente sul piano dei diritti nei confronti degli autocrati, meno cinico verso la causa palestinese e più articolato nel contrapporsi alle ambizioni iraniane. «Ma non per questo più disposto a coinvolgersi direttamente e meno desideroso di definire un assetto strategico regionale, affidato soprattutto agli attori locali, chiamando caso mai gli europei, specie quelli geograficamente più prossimi, a puntellarlo. Sarà, insomma, una ricerca di partners affidabili, in grado di rendere sostenibile il distacco americano», contando ovviamente anche sull’Italia! Un’Italia che invero non può esimersi — secondo il giudizio dell’Autore, facilmente condivisibile — da una linea di politica estera realistica a difesa degli interessi nazionali, che vengono individuati nell’evitare frammentazioni e vuoti di potere ai nostri confini, nella gestione dei flussi migratori, nella salvaguardia delle rotte energetiche e degli scambi, nella prevenzione e repressione di integralismi e possibili azioni terroristiche. Interessi che presentano una connotazione geopolitica precisa, riguardando innanzitutto «la Libia, dove per troppo tempo abbiamo appal-

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tato ogni iniziativa alle Nazioni unite senza accompagnarla con una coerente azione nazionale [che, precisava il Nostro nel citato articolo, “eviti la partizione del paese, ci tuteli in Tripolitania e ci salvaguardi in Cirenaica”]; il Maghreb forse prossimo a nuovi sommovimenti sociali; il sud sahariano origine dei flussi migratori e degli insediamenti jihadisti; l’Adriatico che ci separa dai Balcani sempre più inquieti e instabili; il Mediterraneo orientale che ci vede in secondo piano rispetto a francesi e turchi; le aree di turbolenza presidiate dai nostri contingenti militari, dal Libano all’Iraq [“nella consapevolezza che si tratti di strumenti preziosi di stabilizzazione e di influenza”]». Quindi dall’analisi si passa alla fase propositiva, indicando come gli interessi italiani nel Mediterraneo possano essere, all’attualità, promossi e tutelati «con un’assidua attività di governo in politica estera, visibile quanto basta, ma affidata nel quotidiano a un forte coordinamento dei vari corpi dello Stato a ciò preposti. Possono fare leva sui nostri punti di forza, dalla nostra residua credibilità frutto di anni di diplomazia mediatrice e non assertiva, all’efficacia dei nostri militari, al dinamismo delle nostre imprese, fino alla potenza evocatrice di cui ancora dispone il nostro modello culturale. In definitiva — conclude l’ambasciatore Massolo — lo spazio per un ruolo “possibile”, a esercitarlo con coerenza, ce l’abbiamo tutto. E la coerenza, si sa, suscita rispetto». E all’uopo — aveva già precisato l’Autore nel suo articolo su La Repubblica — «avremo bisogno di un Parlamento e di un’opinione pubblica consapevoli dell’entità della posta in gioco e dovremo poter contare sui media attenti a giudicare la politica estera dalle iniziative (o dall’assenza di esse) più che dagli aspetti di colore. Insomma avremo una “chance” da cogliere. Certo nel mezzo di una crisi sanitaria ed economico-sociale gravissima, lo sguardo si volge altrove. Vale per noi come per i nostri partner, che però sulla scena internazionale continuano a starci. È nostro interesse farlo anche noi. Potremmo fare un salto di qualità».

«Sfide e Opportunità nel 2021» IAI AFFARINTERNAZIONALI, 1O GENNAIO 2021

Il 2020 è stato un anno drammatico, partito con il rischio di una guerra regionale nel Medio Oriente dopo l’assassinio del generale iraniano Qassem Soleimani

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«Il 2020 è stato un anno drammatico, partito con il rischio di una guerra regionale nel Medio Oriente… per poi essere travolto dalla pandemia di Covid-19» (Fonte immagine: ilmeteo.it).

per poi essere travolto dalla pandemia di Covid-19, con le sue quasi due milioni di vittime a oggi. È stato un anno in cui l’esistenza stessa dell’Unione europea era a rischio, qualora non fosse emerso un comune denominatore di solidarietà tra gli Stati membri. Un anno in cui si è delineata una nuova bipolarità conflittuale tra Stati Uniti e Cina («che non ha connotati esclusivamente settoriali, ma ha assunto una più ampia dimensione politico-ideologica che riecheggia la Guerra Fredda») e in cui la cooperazione internazionale non è mai stata così «necessaria» ma anche così «carente», scrivono nell’articolo in questione l’ambasciatore Ferdinando Nelli Feroci e Nathalie Tocci, rispettivamente presidente e direttore dell’Istituto Affari Internazionali (IAI). Dopo aver ripercorso criticamente gli scenari che hanno caratterizzato l’anno appena trascorso, in particolare quello l’Unione europea, che non è crollata sotto il peso della pandemia e che, finalmente dopo cinque anni di defatiganti trattative, ha posto fine alla tormentata Brexit con la stipula dell’accordo commerciale di cooperazione con Londra, con le coraggiose scelte fatte in politica economica e che quindi sembra oggi guardare al futuro con maggiore fiducia. Certo, con la pandemia ancora galoppante, le sfide che ci attendono sono ardue e le risposte che saremo chiamati a dare tutt’altro che scontate. Eppure il 2021 — sottolineano gli Autori

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— si apre con una triplice opportunità. Per dirla in estrema sintesi, dal «rilancio del progetto europeo», visto in chiave ottimistica («attraverso una ritrovata solidarietà politica, un passo avanti nell’integrazione economica e una nuova narrazione che parla di un’Europa verde, digitale e strategicamente autonoma»), al fiducioso «rilancio del multilateralismo» («attraverso una ritrovata amicizia con gli Stati Uniti di Joe Biden, intento a rinsaldare le vecchie alleanze così come a impegnarsi di nuovo nella governance globale»). E infine, in una prospettiva di più vasto respiro — concludono gli Autori — la terza opportunità consiste nel prestare ascolto alle voci di quella «mobilitazione dal basso» dei vari movimenti d’opinione, che ci spingono ad affrontare con convinzione le diseguaglianze e le ingiustizie d’ogni genere per garantire una società migliore e più giusta.

«Il primo cavo telegrafico sottomarino» e «Vita di bordo nei secoli XVI e XVII» STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC, N.142, DICEMBRE 2020

Il mensile in parola, sempre riccamente illustrato, ci presenta un palinsesto particolarmente variegato, che spazia dalla posa del primo cavo telegrafico sottomarino per mettere in comunicazione Europa e Stati Uniti alle traversate dell’Atlantico nei secoli XVI e XVII, sempre durissime e dall’esito spesso incerto, dalla storia del leggendario Faro di Alessandria d’Egitto, considerato una delle «Sette meraviglie dell’antichità», alto più di cento metri, la cui luce di notte brillava «con una forza tale da farlo sembrare una stella» alla sintesi ragionata di quelle «venti date» che hanno cambiato la storia del mondo, in un elenco invero in cui l’Italia compare soltanto una volta per la caduta dell’Impero romano d’Occidente nel 476 d.C. con la deposizione dell’imperatore giovinetto Romolo Augustolo da parte del generale barbaro Odoacre. Soffer-

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miamoci in particolare sui primi due contributi che ci vengono offerti. Nei primi anni quaranta dell’Ottocento le comunicazioni telegrafiche terrestri erano già ampiamente diffuse sia in Europa, sia negli Stati Uniti e il primo cavo telegrafico sottomarino aveva collegato Francia e Inghilterra già nel 1850 attraverso lo stretto di Dover e nel 1858 una trentina di linee sommerse erano già attive in Inghilterra, Irlanda, Mediterraneo e Mar Nero. Il progetto di un cavo sottomarino tra l’Europa e gli Stati Uniti, «vera e propria sfida» alle risorse dell’epoca, con i suoi 4.000 km di lunghezza a profondità variabili che raggiungevano pure i 4.000 m, ci viene illustrato da Isaac López César dell’Università de La Coruňa, che ci parla dei promotori del progetto (tra cui l’inventore stesso del telegrafo Samuel Morse), del finanziamento dell’impresa attraverso la vendita di azioni, unitamente al sostegno del governo britannico e statunitense che mise a disposizione le navi necessarie, cioè due navi da guerra appositamente modificate, l’USS Niagara e l’HMS Agamennon, ciascuna delle quali trasportava la metà del lungo filo metallico necessario per congiungerlo in mezzo all’oceano Atlantico e srotolarlo poi, procedendo l’una sino a Trinity Bay a Terranova, l’altra in direzione di Valentia Island in Irlanda. Ma non si trattava di un’impresa facile come dimostra il primo tentativo effettuato nella primavera del 1857. Pur dopo una serie di incidenti, la saldatura delle estremità dei due cavi venne effettuata il 29 luglio 1858 e le due navi riuscirono la raggiungere le mete loro assegnate, col successivo collegamento del cavo transatlantico ai sistemi telegrafici terrestri. Il primo messaggio telegrafico venne inviato via cavo sottomarino dall’Irlanda agli Stati Uniti il 16 agosto 1858. Il testo recitava: «Gloria a Dio nell’alto dei cieli, pace in terra agli uomini di buona volontà», seguito da uno scambio di telegrammi tra la Regina Vittoria e il presidente degli Stati Uniti James Buchanan. Il progresso scientifico aveva conseguito così un altro successo, che però fu di brevissima durata! Per cercare di evitare l’estrema lentezza del servizio (il messaggio della Regina Vittoria per giungere a destinazione richiese ben diciassette ore e quaranta minuti!) venne aumentata la tensione elettrica, che però provocò un

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Pala d’altare di Siviglia dipinta da Alejo Fernàndez nel 1537, primo dipinto sacro correlato alla scoperta del Nuovo Mondo (Storica National Geographic).

rapido deterioramento del cavo stesso sicché, a tre settimane dal suo inizio, il servizio cessò. E fu solo nel 1866 che venne riposizionato attraverso l’Atlantico un cavo più spesso, meglio isolato e maggiormente rinforzato, che assicurava una velocità di trasmissione ottanta volte superiore di quello posizionato in maniera pioneristica nel 1858! A sua volta poi Esteban Mira Caballos, storico delle Americhe, in un interessante e meticoloso spaccato di storia materiale della navigazione, ci parla dei pericoli e del tormento della vita di bordo che, nel Cinquecento e Seicento, dovevano af-

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frontare i passeggeri delle navi a vela, galeoni e navi a vela ben più piccole denominate più genericamente «nao» che, dalla Spagna, intraprendevano la travagliata traversata per i possedimenti spagnoli delle Americhe in cerca di una vita migliore, lungo le due rotte battute dalla Carrera de Indias, ogni anno percorsa da due flotte, quella di Nuova Espaňa (diretta a Veracruz) e quella di Tierra Firme (per Nombre de Dios prima, Portobelo e Cartagena poi). Un tormento infinito, dalle lunghe e noiose procedure burocratiche preliminari (bisognava tra l’altro dimostrare di non aver avuto ebrei o musulmani tra gli antenati!) al costo del biglietto, che all’epoca non tutti si potevano permettere (7.500 maravedí, circa 2.600 euro). Poi una volta a bordo, bisognava sopportare la convivenza con animali domestici (e non), mentre l’alimentazione serviva solo per tirare avanti, con una sistematica carenza di acqua (un bene talmente prezioso che non poteva essere sprecato per la pulizia di bordo e personale) e sempre con l’incubo di un naufragio, «causa mare o per mano dei corsari» (tanto che, tra il 1504 e il 1650, si registrarono, rispettivamente, 412 e 107 naufragi). Il tutto semmai attutito (bisognava pur sopravvivere!) dalla pesca, giochi d’azzardo, seppur formalmente vietati, letture ad alta voce di un buon libro, canti e musica. Una traversata tanto travagliata che il frate spagnolo Tomás de la Torre arrivò a paragonare la nave a un carcere da cui, pur non avendo catene, nessuno poteva fuggire mentre, a sua volta, Antonio de Guevara, autore del manuale Arte de Marear (1539), testo di arte della navigazione all’epoca famoso, non esitava ad affermare che «i normali e comuni patimenti per terra, quali fame, freddo, tristezza, sete o sventura, in mare raddoppiavano»! Un contesto dunque nel quale, chi tra marinai e viaggiatori godeva del privilegio della fede, non poteva non appellarsi all’aiuto celeste, donde il culto della Madonna dei Naviganti, che nasce e si diffonde in Spagna proprio agli inizi del Cinquecento, come possiamo ammirare nella stupenda pala d’altare di Siviglia, centro del traffico marittimo atlantico, dipinta da Alejo Fernàndez nel 1537, tratta dalla rivista in parola, primo dipinto sacro correlato alla scoperta stessa del Nuovo Mondo. Ezio Ferrante

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RUBRICHE

R EC EN SI O NI

E SEG NAL AZ I O NI

Sandro Menichelli

Galassia islamica Le ragioni del terrore Intermedia Edizioni Roma, 2019 pp. 188 euro 15

È con piacere che mi accingo a recensire il libro del dottor Menichelli, poiché egli è un uomo delle istituzioni (Polizia di Stato) che ha potuto maturare «sul campo» le proprie esperienze, che poi lo hanno indotto a scrivere il presente libro. In particolare, l’esperienza professionale lo ha sospinto a investigare l’Islam con speciale riferimento al fenomeno terroristico. Questo dunque il motivo per cui la Rivista Marittima desidera dare attenzione al presente libro che pur essendo stato edito due anni fa, conserva freschezza e interesse per un pubblico che non necessariamente sia «addetto» ai lavori sulla civiltà islamica o sugli aspetti geopolitici di questa. Per dare contezza al lettore, fornisco la struttura in breve della monografia, che si apre con una autorevolissima prefazione del Capo della Polizia, il prefetto Francesco Gabrielli (pp. 7-9). Segue quindi, come da prassi, una premessa dell’A. (pp. 11-20) che è di preludio a quattro capitoli di cui il volume si compone come segue. Il primo capitolo è intitolato «I mussulmani e gli islamisti: una galassia» (pp. 2182); il secondo reca come intestazione «Chi abbiamo di fronte» (pp. 83-118); il terzo ha per oggetto la «minaccia» (pp. 119-130) e, infine, il quarto capitolo si dedica a «La risposta» (pp. 131-162). Il volume termina con una «Conclusione» (pp. 163-172) cui seguono delle interessanti e utili appendici: un «Glossario» (dei termini arabi con traduzione italiana), (pp. 173-180) e quindi una bibliografia (pp. 181-186) e, infine, una «sitografia» (pp. 187-188). Posso asserire che lo sforzo dell’A. è stato notevole e più che apprezzabile poiché riesce, con doti di

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chiarezza espositiva, a delirare la tematica attraverso un percorso in cui l’Islam non viene demonizzato o criticato bensì reso comprensibile anche per chi è digiuno. Quindi il primo pregio di tale lavoro è proprio questo, cioè la capacità di iniziare il lettore a quella che l’A. stesso definisce come una «galassia». Fatto ciò, l’A. riesce subito a entrare in media res, affrontando il grande tema di come il terrorismo si sia innescato in tale compagine religiosa e culturale e di come l’Islam stesso sia oggetto di tale intossicazione. L’A. prosegue quindi nei suoi sforzi, tratteggiando in modo analitico e puntuale come mai noi siamo diventati un obiettivo del terrorismo di matrice islamica. In perfetta sequenza logica, affronta il problema in Italia e quindi di come il nostro paese sia riuscito fino a ora ad arginare questo fenomeno. Qui, anche tra le righe, si può comprendere come le nostre forze di polizia e di intelligence siano adeguate e preparate; ne è un esempio l’istituzione del Comitato di analisi strategica antiterrorismo. In poche parole, le azioni messe sul campo sembrano aver dato frutti, in quanto fino a oggi non vi è stato alcun attentato terroristico compiuto. Ma, secondo me, la parte ancora forse più interessante sono le conclusioni. L’A. qui parla senza mezzi termini di «sfida culturale» non già intesa come «superiorità» dell’Occidente sull’Islam, bensì come necessità assoluta di conoscere l’Islam e dialogare con i musulmani. Una vera e propria sfida questa «necessariamente lunga, complessa e faticosa» (p. 171) ma inevitabile e ineluttabile al fine di prevenire il tanto declamato Clash of Civilizations. Pertanto non si può che convenire con quanto scritto, in Prefazione, dal prefetto Gabrielli, ovvero che tale volume è «una straordinaria bussola per muoversi nel presente e per aiutarci a comprendere la direzione da imboccare per la prevenzione dei fenomeni di radicalizzazione e l’integrazione delle comunità islamiche». Alla luce di quanto esposto, si porgono i migliori complimenti e rallegramenti al dottor Menichelli per questo suo sforzo intellettuale così ben riuscito. Danilo Ceccarelli Morolli

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RIVISTA

MARITTIMA MENSILE DELLA MARINA MILITARE DAL 1868

NEL PROSSIMO NUMERO: UE, POLITICA DI DIFESA E POLITICA ESTERA

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