ANNO 3° - N° 06 - Giugno 2022 - Supplemento del periodico Valsugana News - www.feltrinonews.com
SPECIALE MOSTRA ARTIGIANATO di FELTRE
Pag. 45 - 64
Si ringraziano, l'Assessore alla Cultura e l'Ufficio turistico del Comune di Melendugno, per la gentile concessione della foto di copertina.
Periodico GRATUITO di Informazione, Cultura, Turismo, Attualità, Tradizioni, Storia, Arte
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Contro la guerra di Franco Zadra
IL CORAGGIO DI COSTRUIRE LA PACE
«
Mentre quasi tutta l’Europa è trascinata nei vortici di una funestissima guerra, ai cui pericoli, alle cui stragi, e alle cui conseguenze nessuno può pensare senza sentirsi opprimere dal dolore e dallo spavento, non possiamo non preoccuparci anche Noi e non sentirci straziare l’animo dal più acerbo dolore per la salute e per la vita di tanti cittadini e di tanti popoli che ci stanno sommamente a cuore». Scriveva così il papa Pio X, Giuseppe Melchiorre Sarto, il 2 agosto 1914 nella esortazione inviata a tutti i cattolici del mondo, Dum Europa fere omnis, pochi giorni prima di morire. Un “acerbo dolore” che senza dubbio contribuì a, o forse determinò, completare quella passione di padre della Chiesa universale che si compì il 20 agosto 1914. Ma quello che è riconoscibile come “magistero di pace” e riscontrabile nei pronunciamenti di tutti i papi e le conferenze episcopali, a cominciare dall’allocuzione del 29 aprile 1848, con la quale Pio IX ritira la preannunciata collaborazione bellica dell’esercito dello Stato Pontificio con il Regno di Sardegna contro l’Austria perché «padre di tutti i fedeli» non
poteva fare guerra a un popolo cristiano, è forse tra i più inascoltati e disattesi di sempre. A dire, e ribadire oggi, che con la guerra nessuno vince, a descrivere la tragedia della guerra e del terrorismo, o, di nuovo attuale, la follia criminale delle armi nucleari, per “proteggere ogni vita” in nome del fatto evidente che “voi siete tutti fratelli”, facendosi pastore lungo un “cammino artigianale” sul quale “la fede illumina la nostra ricerca di pace”, è papa Francesco, Jorge Mario Bergoglio, il primo papa giunto dalle Americhe. Nato a Buenos Aires il 17 dicembre 1936, nel 1958 entra nella Compagnia di Gesù e il 13 dicembre 1969 è ordinato sacerdote. Nel 1998 diventa arcivescovo di Buenos Aires e nel 2001 viene creato cardinale. Dal 2004 al 2008 è presidente della Conferenza episcopale argentina. Il 13 marzo 2013 viene eletto papa e sceglie il nome di Francesco. Un Magistero di pace che affonda le sue radici nel patrimonio di umanità della Chiesa e che troviamo raccolto nel volume edito da Solferino e dalla Libreria Editrice Vaticana, lo scorso mese di aprile. Un testo da meditare, scritto a partire dai numerosi interventi a tema della pace, pronunciati da papa Francesco, per accogliere
nei fatti l’invito divenuto ancor più pressante e realistico in questi giorni, «La guerra è un sacrilegio, smettiamo di alimentarla!», davanti al quale davvero tutti si possono (e si dovrebbero) sentire interpellati. La realtà di oggi, è infatti descritta da papa Francesco in un modo che dovrebbe poter convincere anche i più riottosi, col suo ultimo appello alla ragionevolezza che mostra chiaramente come sia vero che «ogni guerra lascia il mondo peggiore di come lo ha trovato. La guerra è un fallimento della politica e dell’umanità. Una sconfitta di fronte alle forze del male». Un ultimo appello per accogliere le parole del Papa e ritrovare il coraggio di costruire quella pace che Cristo ci ha lasciato, e che il Mondo non sa dare, come la sola realistica dimora per l’umanità di oggi, di domani, e di sempre.
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Sommario DIRETTORE RESPONSABILE Prof. Armando Munaò - 333 2815103 direttore.feltrinonews@gmail.com CONDIRETTORE dott. Walter Waimer Perinelli - 335 128 9186 email: wperinelli@virgilio.it REDAZIONE E COLLABORATORI dott.ssa Katia Cont (Cultura, arte, cinema e teatro) dott.ssa Elisa Rodari (Curiosità, cultura e tradizioni). dott. Emanuele Paccher (politica, economia e società) Laura Paleari (moda e costume) dott.ssa Alice Vettorata - dott.ssa Francesca Gottardi (Esteri - USA) dott.ssa Laura Mansini (Cultura, arte, tradizioni,attualità) dott. Nicola Maschio (attualità, politica, inchieste) Patrizia Rapposelli (attualità, cronaca) dott. ssa Chiara Paoli (storia -cultura e tradizioni) dott.ssa Eleonora Mezzanotte (Arte, storia e cultura) dott. Marco Nicolò Perinelli - Francesco Zadra (Attualità) dott.ssa Sonia Sartor (Cultura, arte, attualità) Ing. Grazioso Piazza - dott. Franco Zadra (politica, attualità) dott.ssa Monica Argenta - dott.ssa Erica Zanghellini (Psicologa) dott. Casna Andrea (Storia, cultura, tradizioni) Francesco Scarano (Attualità, storia) Caterina Michieletto (storia, arte, cultura) dott.ssa Beatrice Mariech (Cultura, arte, storia) dott.ssa Daniela Zangrando (arte, storia e cultura) Alex De Boni (attualità e politica) dott.ssa Erica Vicentini (avvocato) CONSULENZA MEDICO - SCIENTIFICA dott. Francesco D’Onghia - dott. Alfonso Piazza dott. Marco Rigo . dott. Giovanni D’Onghia COMMERCIALE: Gianni Bertelle - Cell. 340 302 0423 - email: gianni.bertelle@gmail.com Prof. Armando Munaò - 333 2815103 - direttore.feltrinonews@gmail.com IMPAGINAZIONE E GRAFICA : Punto e Linea di Alessandro Paleari - Fonzaso (BL) Cell. 347 277 0162 - email: alexpl@libero.it EDITORE E STAMPA GRAFICHE FUTURA SRL- Via Della Cooperazione, 33- MATTARELLO (TN) FELTRINO NEWS Supplemento al numero di Giugno di VALSUGANA NEWS Valsugana News – Registrazione del Tribunale di Trento: n° 5 del 16/04/2015. COPYRIGHT - Tutti i diritti riservati Tutti i testi, articoli, intervista, fotografie, disegni, pubblicità e quant’altro pubblicato su FELTRINO NEWS, sono coperti da copyright GRAFICHE FUTURA srl - PUNTO E LINEA, quindi, senza l’autorizzazione scritta del Direttore Responsabile o dell’Editore, è vietata la riproduzione e la pubblicazione, sia parziale che totale, su qualsiasi supporto o forma. Gli inserzionisti che volessero usufruire delle loro inserzioni pubblicitarie, per altri giornali o pubblicazioni, posso farlo richiedendo l’autorizzazione al Direttore Responsabile o all’editore. Quanto sopra specificato non riguarda gli inserzionisti che utilizzando propri studi o agenzie grafiche, hanno prodotto in proprio le loro grafiche e quindi fatto pervenire alla redazione o all’ufficio grafico di FELTRINO NEWS, le loro pubblicità, le loro immagini, i loro testi o articoli. Per quanto sopra GRAFICHE FUTURA srl, si riserva il diritto di adire le vie legali per tutelare, nelle opportune sedi, i propri interessi e la propria immagine.
Giugno 2022
Il coraggio di costruire la pace
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Sommario
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Fatti & Misfatti: il politically correct
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36esima mostra di Feltre: intervista a Luciano Gesiot
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La guerra di Putin
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Economia & Finanza: il crollo dei Bitcoin
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In filigrana: Ode al silenzio
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A parere mio: imprevidenti e non pentiti
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Abitudini italiane: i gesti coverbali
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Turismo in cronaca: e’ ripresa per il 2022
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Le fake news non chiamiamole bufale
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I campioni dello sport: Franz Beckenbauer
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Veneti, popolo di esploratori e navigatori
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Conosciamo le Aziende: Sartor Arredamenti
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Attenti agli incidenti domestici
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Racconti d’Arte: le tre Grazie di Silvia Gribaudi
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Il cognome del padre o della madre?
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Il personaggio: Alessio Baietta…pasticciere
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Lo scoutismo a Feltre: vuoi diventare un Capo?
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Uomo, natura e ambiente: la giusta distanza
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36esima Mostra Feltre Intervista a LUCIANO GESIOT Pagina 8
SPECIALE 36esima Mostra dell’Artigianato Artistico e Tradizionale - Città di FELTRE
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L’Arte in evidenza: le colline a colori
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Il villaggio ENI di Borca di Cadore
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Il personaggio di ieri: Teseo Tesei
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Gli antichi mestieri: i sarti
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Il personaggio: Sebastiano Venier
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Non solo animali: Il CRAS di Treviso
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SPECIALE CITTÀ DI FELTRE
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Lo sapevate che? La lunga storia del caffè
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Conosciamo la microcircolazione
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Dalla parte del cittadino: la qualità di coerede
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L’Italia nella guerra civile spagnola
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Monte Valderoa: un calcio alla guerra
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IL VIVAIO SCARIOT
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Per non dimenticare: il massacro di Lidice
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La pensione per cani
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Sant' Antonio, il santo con il bambino
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Tra fiori, piante e natura
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Il pianeta soffre ancora il caldo
106
Tempo d’estate, tempo di ciclomotori
108
Lo scoutismo a Feltre Vuoi diventare un Capo? Pagina 40
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Fatti & Misfatti di Patrizia Rapposelli
TRA POLITICALLY CORRECT E CANCEL CULTURE,
OGGI ESTREMISMO TOTALITARIO NEMICO DELLA CULTURA?
L
a tendenza del politicamente corretto è nuovo totalitarismo? Negli ultimi decenni, universitari americani “liberal” hanno cercato di elaborare un codice linguistico rispettoso verso le minoranze non considerate dal discorso politico. Questo per poter parlare liberamente di chi da quel discorso politico era oggetto di pregiudizio. Sostituire le espressioni discriminatorie ha permesso libertà espressiva per trattare i problemi politici in maniera appropriata nei confronti delle categorie svantaggiate, di nominare correttamente gruppi minoritari, evitare il diffondere di pregiudizi e luoghi comuni. Politica e media, oggi, hanno fatto un pasticcio. La sbagliata ricezione e diffusione di questa legittima iniziativa ha portato all’intolleranza e al revisionismo, nemici della cultura e della libertà d’opinione. L’ estremismo di alcune parti politiche, citando il pensiero del libro “Manifesto del libero pensiero” di Paola Mastrocola e Luca Ricolfi, rischia di costruire categorie di vittime per poi poterle difendere. Un tema corrente, dibattuto e di grande attualità: il politically correct. Un atteggiamento sociale che crea schieramenti ben distinti che non ammettono vie di mezzo. Tra fanatismo e repulsione l’invadenza del politicamente corretto è reale. Diventato il mantra del progressismo su scala globale permane e invade la quotidianità. Impone comportamenti e scelte politiche. Processa la tradizione, in alcuni casi, e cancella la storia in altri. Molti fenomeni, nell’ambito della comunicazione e dei media, nascono con uno scopo, ma la situazione culturale ne cambia il significato originale, distorce la percezione al punto
di cambiare l’intenzione originale per cui nasce. Ad oggi la tematica discussa del politicamente corretto tende a sovrapporsi alla Cancel Culture. La cultura della cancellazione è un fatto complesso e sfaccettato che non dovrebbe mischiarsi al politically correct. Quest’ ultimo nasce dalla necessità sociale di sensibilizzare sui linguaggi da adottare, sia sulle parole da evitare che quelle da introdurre nel lessico comune per essere maggiormente rispettosi verso determinate categorie. La crociata alla correttezza sfocia nel fanatismo e nella polemica. Confronto, critica e cultura assistono ad un clima generale di intolleranza e gogna pubblica. L’autocensura preventiva nei confronti di pensieri non allineati minaccia la libertà di parola e l’anticonformismo. L’espressione correttezza politica è un termine che traccia una linea di opinione, un orientamento ideologico allo scopo di rifuggire l’offesa e di tutelare categorie sociali ritenute in svantaggio. Invece oggi si parla del bacio non consensuale del principe a Biancaneve, l’etichetta omofoba e razzista della tradizione classica. Molto altro è sotto processo. Ricordiamo i centocinquanta intellettuali americani che hanno scritto una lettera aperta su Harper’s Magazine dove denunciano un clima di intolleranza esasperato citando redattori licenziati per
articoli controversi, libri ritirati, professori indagati per aver citato particolari opere. Non lontano da noi, poco tempo fa, Paolo Nori denuncia l’episodio di Cancel Culture in Italia a seguito della decisione della Bicocca di cancellare il corso su Dostoevskij a seguito dello scoppio della guerra in Ucraina. La decontestualizzazione è totale. Ogni capolavoro della tradizione non conforme all’attuale idea allineata è colpevole di essere figlio del suo tempo. L’ignoranza si sconfigge con il confronto, la critica e la cultura. Un nuovo puritanesimo nato da idee estreme, forse, porta all’intolleranza verso chi non si adegua ad un unico pensiero totalitario?
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36esima Mostra dell’Artigianato di Feltre di Nicola Maccagnan
La parola al presidente
Luciano Gesiot
M
otori a pieno regime in vista della 36esima edizione della Mostra dell'Artigianato che si terrà a Feltre dal 30 giugno al 3 luglio. A guidare il comitato organizzatore della manifestazione il presidente Luciano Gesiot che della Mostra è, oltre che vera e propria memoria storica, appassionato promotore. Presidente, ci racconti in breve la
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sua “storia” all'interno della Mostra dell'Artigianato... La mia lunga esperienza con la Mostra dell’Artigianato inizia nel lontano 1986, quando partecipai per la prima volta come espositore. La manifestazione si teneva allora presso i locali dell’ex seminario vescovile, dove gli spazi erano molto ridotti, ma la presenza degli artigiani già massiccia. Nel 1999 entrai poi nel comitato organizzatore e da allora vi sono rimasto ininterrottamente sino ad oggi, ricoprendo costantemente i ruoli di presidente o vicepresidente. Lei è, prima di tutto, un artigiano (nel settore della costruzione e restauro di cucine economiche e stufe tirolesi). Come vive oggi, rispetto ad un tempo, questo mestiere? Che cosa è cambiato e quali sono le nuove sfide
da affrontare? Possiamo dire che è cambiato un mondo. Fino a 7/8 anni fa i disciplinari relativi ai cicli di produzione e ai prodotti finiti erano lasciati in larga parte all’iniziativa e alla “buona volontà” degli imprenditori. L’avvento della nuova normativa, nata sicuramente con finalità positive, ha modificato profondamente il modo di lavorare. Una rivoluzione, anche burocratica, a cui le aziende più strutturate hanno potuto far fronte in maniera più agevole, ma che ha penalizzato viceversa molte delle imprese più piccole. Che Mostra sarà, questa dell'edizione 2022? L’auspicio di tutti è che questa 36esima edizione della Mostra sia quella del totale rilancio, dopo i due ultimi anni fortemente condizionati dalle limitazioni legate alla pandemia. Per lavoro ho occasione di muovermi molto e devo dire che in tutto il Nord-Est, ma anche in Emilia-Romagna, si percepisce una gran voglia di ripartire e di partecipare, di tornare a quelle che potremmo definire le “buone abitudini” pre-Covid. La Mostra è oramai un appuntamento conosciuto ed apprezzato a livello interregionale e proseguirà il suo cammino nel solco di una tradizione consolidata: sono già un centinaio gli espositori che hanno dato la propria adesione alla manifestazione. Questo nonostante da anni dobbiamo fare i conti con un calo di sponsorizzazioni e contributi dettato dalle difficoltà che attraversano alcune aziende, a cui cerchiamo di sopperire con un massiccio e meritevole impegno del volontariato. A questo riguardo, la Mostra dell'Ar-
36esima Mostra dell’Artigianato di Feltre tigianato è un grande gioco di squadra che si avvale del sostegno di molti partner anche al di fuori del comitato organizzatore. Si muove, di fatto, mezza città... E’ effettivamente così. Non possiamo che ringraziare, tra gli altri, le molte associazioni che ci supportano: dalle associazioni di categoria degli artigiani – APPIA CNA e Confartigianato – al GILF e al CSI, fino ai quartieri del Palio con cui vi è una collaborazione consolidata, solo per citarne alcune. E poi vi è la moltitudine di volontari che lavorano per la buona riuscita della rassegna, senza dimenticare i proprietari degli edifici del centro storico che mettono a disposizione i loro locali per gli stand. La vostra è una delle pochissime manifestazioni di questi tipo a livello nazionale a non essersi fermate completamente nemmeno durante la pandemia. Perché questa scelta e come ci siete riusciti? Mi verrebbe da dire che fondamentale è stata la testardaggine dell’Artigiano. Fermarsi e ripartire da zero è sempre molto difficile e così abbiamo fatto ogni sforzo possibile per tenere aperta “la porta” della Mostra anche in questi ultimi due anni. Una scelta che è stata riconosciuta e molto apprezzata sia dagli espositori che dal pubblico. Che ruolo può ricoprire in futuro per questa città, ma più in generale per tutto il territorio feltrino, bellunese e veneto, il comparto artigiano? Su che cosa si deve puntare in particolare? Direi soprattutto sulla formazione dei giovani e sulle scuole professionali, quanto meno quelle che sono rimaste in vita. E’ fondamentale, per riprogettare il futuro di questo settore, non perdere il patrimonio di saperi accumulato in decenni e secoli di attività. Per questo credo anche che strumenti quali l’alternanza scuola-lavoro e i contratti di apprendistato, che sono stati finalmente rivalutati, possano costituire dei percorsi imprescindibili per raggiungere
l’obiettivo. La Mostra richiama storicamente a Feltre ogni anno molte migliaia di visitatori. Che cosa si sente di dire per invitarli a questa 36esima edizione? L’anno della piena ripartenza della Mostra vuole essere anche un’occasione per promuovere e valorizzare le straordinarie bellezze della città, che sta cambiando molto in questi anni. La nostra manifestazione vuole proporsi come un’occasione di socialità legata però anche a dei contenuti specifici, vuole mostrare ai giovani come lavorano i nostri artigiani, magari perché si innamorino di uno di questi mestieri, intende far veder a tutti che il lavoro manuale, soprattutto quello di qualità, è tutt’altro che finito. L’inventiva, la fantasia, l’innovazione e la creatività sono le basi per un’autentica ripartenza non solo dell’artigianato, ma anche della piccola e media impresa; la cultura dell’
“eu-teknòs”, del “ben fatto” è stata e sarà la chiave di successo del nostro Paese anche negli anni a venire.
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La guerra di Putin di Laura Mansini
E se una Bomba Atomica cadesse su Mosca?
È
un interrogativo che mi sono posta dopo aver visto un telegiornale pubblico della Russia, una sorta di TG1, nella quale non ricordo bene chi dei presenti, ma forse lo stesso Ministro degli esteri Sergey Lavrov, si chiedeva
che cosa sarebbe accaduto se un atomica cadesse su New York. Sinceramente mi è sembrata un’affermazione agghiacciante, anche nel vedere i sorrisi divertiti dei giornalisti presenti. Spero sia stata una boutade. Comunque queste affermazioni scatenano una forte reazione anche nelle persone più pacifiste. PACE è l’invocazione più sentita in questi ultimi 3 mesi di conflitto Diceva Bertolt Brecht “Quando i potenti parlano di Pace è perché stanno preparando la guerra”. Mai come in questi giorni si sta parlando di Pace; possiamo credere al Santo Padre, agli 80.000 giovani che si sono ritrovati dopo due anni di chiusura, causa pandemia, all’incontro che papa Francesco ha voluto in Piazza San Pietro a Roma, ad una certa Europa; ma qualche dubbio rimane sui Potenti poiché, sebbene tutti parlino di pace, sembra purtroppo che le grandi nazioni del mondo dicendo di vo-
ler aiutare l’Ucraina stiano combattendo in realtà una grande battaglia, neanche troppo sotterranea, per il governo nel nuovo assetto mondiale. Per la generazione nata poco dopo la fine della seconda guerra mondiale, a cui appartengo, la
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La guerra di Putin guerra, che la Russia di Putin, sta facendo all’Ucraina, è un fatto sconvolgente. Mai avremmo pensato di ricadere nella bella Europa contemporanea, in quelle tragedie sofferte dai nostri padri, dai nostri nonni, che tuttavia, alla fine, sono riusciti a creare l’attuale società, non perfetta, non priva di problemi, ma libera, costruita con il dialogo e la comprensione. Ora Putin sembra ambire al titolo di Zar, riportando di fatto la Russia indietro nel tempo , di 200 anni. Zar, da Caeser-imperatore, ma di che? Di chi? Assurdo. Pazzesco. Pensavamo che le novità tecnologiche, normalmente legate all’intelligenza, le missioni spaziali, alle quali partecipano gli scienziati Americani, Russi, Europei, Italiani...ci avrebbero salvato da certe brutture. Siamo tutti connessi, comunichiamo con il mondo e con lo spazio; era pertanto lecito sperare che nascesse una società migliore: che le risorse fossero equamente distribuite.
del Rinascimento dalle pubbliche piazze, si trova a gestire la Resistenza alla prepotenza dell’ Orso che, con un piccolo uomo, ha perso pelo e pelliccia e ritrovato ambizioni da basso impero. L’azione di Putin ha fornito al giovane Presidente un palcoscenico, lo stesso sul quale noi tutti
Quando abbiamo festeggiato la fine di un Millennio abbastanza burrascoso, eravamo convinti che si aprisse una nuova Era. Sapevamo che avremmo dovuto combattere per la salvaguardia della natura, del nostro bellissimo Pianeta, ed eravamo convinti che con la coscienza del pericolo atomico non avremmo più visto quello che in questi mesi sta accadendo. Una nazione, nel cuore dell’Europa, che stava conoscendo una nuova democrazia per merito di una giovane generazione che aveva voluto come Presidente un attore, all’improvviso è stata attaccata duramente. Volodymyr Zelensky, un attore, sta dimostrando di essere un grande presidente, innamorato della propria gente, della sua patria, usando la Parola, coinvolgendo l’Europa, il Mondo nel dramma che sta distruggendo l’Ucraina. Un presidente attore appartenente cioè, come Reagan e tanti altri, a quella professione bandita nel Medioevo e parte
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La guerra di Putin ogni giorno faticosamente saliamo, ma che egli gestisce con razionalità e intelligenza risvegliando nella popolazione dell’Ucraina il senso di appartenenza ad una Nazione libera con una democrazia in fieri e perfettibile. La storia, la tradizione, la cultura avvicinano la Russia e l’Ucraina, entrambe territorialmente problematiche, ma è inconcepibile che le identità culturali si debbano difendere a cannonate. Il modello Alto Adige-SudTirol è stato più volte proposto, ma è naufragato nell’oceano dell’ambizione personale,
più che di un popolo. Che questo nostro Lume, conquistato non senza scontri e sacrifici, possa illuminare come un faro la rotta dei grandi e piccoli uomini a cui la “livella” di Totò, un altro attore, renderà giustizia: la tomba dei potenti è più gran-
de di quella degli umili, ma il contenuto è uguale. Quale risultato ha ottenuto finora Putin ? Quello di creare migliaia di morti, la maggior parte dei quali giovani, sia russi che ukraini, e il terrore che la sua follia possa espandersi ha fatto si che nazioni secolarmente neutrali ora chiedano ufficialmente di entrare nella Nato . Inoltre i vincitori dell’ Eurovision Song Contest sono stati la “ Kalush Orchestra” con “Stefania” un brano estremamente coinvolgente che ha rapito il pubblico Europeo; un simbolo per la gente libera che vuole tornare a casa, nonostante le strade siano distrutte, in una nazione libera da una tirannia fuori dal tempo.
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Economia & Finanza di Emanuele Paccher
Nuovo crollo del Bitcoin:
è l’inizio della fine?
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l Bitcoin è una criptovaluta e un sistema di pagamento creato nel 2009 da Satoshi Nakamoto. Diversamente da una valuta ordinaria, il Bitcoin non ha alle sue spalle una Banca centrale che distribuisce nuova moneta. Dietro di sé ha solo varie reti di computer che gestiscono la distribuzione della moneta virtuale e utilizzano una forte crittografia per validare e rendere sicure le transazioni. In pochi anni ognuna di queste monete virtuali è arrivata a valere oltre 60 mila dollari. Ai primi di novembre 2021 è stato raggiunto il massimo storico sfiorando i 70 mila dollari. Le proiezioni puntavano sul fatto che entro fine anno si sarebbe potuta raggiungere quota 100 mila dollari, e da lì era ricominciata la cosiddetta “Fomo” (fear of missing out), la paura di restare fuori dalla grande corsa. Tuttavia le rosee stime hanno iniziato ben presto a disgregarsi. A maggio 2022 il Bitcoin è tornato sotto quota 30
mila dollari, cosa che non accadeva dal luglio del 2021. Oggi il suo valore è più che dimezzato rispetto a pochi mesi fa. La domanda sorge spontanea: è l’inizio della fine? Occorre comprendere prima di tutto che il Bitcoin non è una moneta. Esistono negozi e piattaforme che accettano la criptovaluta come mezzo di scambio, ma l’utilizzo come strumento per acquistare beni è marginale. Questione più complessa è la considerazione del Bitcoin come un bene rifugio, come l’oro ad esempio. I beni rifugio sono quei beni che preservano la loro ricchezza nel tempo e, in periodi di inflazione, conservano il loro intrinseco valore reale. Satoshi Nakamoto ha creato un protocollo secondo il quale l’estrazione di Bitcoin si riduce nel tempo, con cadenza costante e secondo un calendario già stabilito, rendendo sempre più scarsa la disponibilità della moneta virtuale. Si può quindi ipotizzare che nella
mente del suo creatore il Bitcoin sia stato creato con l’obiettivo di divenire un bene rifugio, ma nella realtà dei fatti sono la domanda e l’offerta che comandano: se un bene è scarso ma la sua disponibilità è maggiore di quella che è la sua domanda, la moneta smetterà di guadagnare valore, e anzi potrebbe perderne. A ciò si aggiunga il fatto che il Bitcoin negli ultimi anni ha mostrato una volatilità troppo elevata per garantire la stabilità necessaria per fissare i prezzi al consumo. Per comprendere il problema si pensi all’ipotesi in cui uno Stato adotti il Bitcoin come valuta ufficiale: oggi la vostra busta paga varrebbe la metà di novembre 2021. Infine, va constatato come questa criptovaluta stia attraversando un periodo di forte svalutazione proprio quando l’inflazione sta andando forte. Tutt’altro che un bene rifugio, almeno per il momento. Tuttavia, negli ultimi anni il Bitcoin ha iniziato ad entrare nei portafogli azionari di soggetti istituzionali e di fondi, mostrando di agganciarsi ai maggiori indici americani. Evidente è la correlazione con l’andamento del Nasdaq, che negli ultimi sei mesi ha perso il 25%. Direttamente o indirettamente, Bitcoin ha reagito male all’inflazione, all’incertezza internazionale, alla stretta monetaria della banca americana. Proprio come un qualsiasi altro asset di rischio. Scenario lontano da quello immaginato da Nakamoto, ma, mischiando il testo di un paio di canzoni di Battiato, cambiano le prospettive al mondo, e si aprono sempre nuove possibilità.
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In filigrana di Nicola Maccagnan
Ode al Silenzio
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on si spaventi il lettore per il titolo altisonante di queste righe. Nessun componimento poetico lo attende, né una dotta dissertazione; più semplicemente qualche pensiero in libertà, ma – mi auguro – non privo di fondamento, su uno degli stati d'essere che contraddistinguono, o almeno dovrebbero farlo, il nostro stare al mondo. Già, il silenzio, pratica un tempo piuttosto diffusa soprattutto in determinate occasioni e in certi periodi dell'anno, di cui la nostra cultura occidentale contemporanea sembra avere perso quasi ogni traccia. I non più giovanissimi ben ricorderanno gli spazi della nostra educazione cadenzati dalle pause del silenzio, soprattutto coloro che hanno avuto una formazione cattolica. Esercizi e ritiri spirituali, ore di preghiera e adorazione, o più semplicemente camminate per boschi e prati immersi nella totale assenza di voci e rumori sono patrimonio condiviso di chi ha superato gli “anta”. Un silenzio che, almeno nelle intenzioni, doveva partire dal contesto esterno per raggiungere la spiritualità dell'individuo e qui lasciare spazio alla riflessione, alla meditazione e alla preghiera, o puramente al pensiero più intimo. La millenaria cultura cattolica, in particolare, ha fatto del silenzio una vera e propria regola di vita, basti pensare alla scansione dei ritmi della giornata in conventi e monasteri, anche quelli più a contatto con il mondo esterno. Ebbene, cosa è rimasto di tanto patrimonio culturale e spirituale, per non dire filosofico? A guardarci attorno verrebbe da dire nulla, o quasi. In questi anni il silenzio ha dovuto subire i colpi martellanti, a tratti violenti, non più
e non solo del “rumore” fisico, del traffico e del vociare intenso della folla, delle macchine da lavoro nelle fabbriche e della musica assordante, ma di un avversario ben più pervasivo e subdolo. Un nemico che poco a poco si è insinuato dentro la mente delle persone, avvolgendole fino in alcuni casi a catturarle; e lo ha fatto grazie soprattutto agli strumenti della tecnologia più moderna, soprattutto gli smartphone, che ci inducono oggi ad una vita costantemente “on-line”, in collegamento. Nessuna demonizzazione dello sviluppo tecnologico, si badi bene. Gli strumenti, gli oggetti e i beni sono, quasi tutti, per loro natura neutri. Tutto dipende dall'utilizzo che ne facciamo e da quanto ne siamo consapevoli. Fatto sta che basta guardarci attorno per capire che qualcosa è andato storto. Se in riva al mare, anziché ammirare un tramonto, siamo tutti intenti a riprendere questo o quel particolare, magari cercando di immortalarlo (con le finalità più diverse a talora ignote) con l'immancabile selfie, qualche domanda ce la dobbiamo porre. E se per strada è ormai consueto incontrarci senza nemmeno vederci in volto perché siamo impegnati al telefono, pure non possiamo dire che sia tutto normale, che vada bene così. Così come davanti alla marea di chiacchiere vuote, spesso inutili, talvolta fuorvianti - RUMORE appunto - che soprattutto i social, ma non solo, veicolano quotidianamente. “Uomo che ami parlare molto: ascolta e diventerai simile al saggio. L'inizio della saggezza è il silenzio”. E' una frase attribuita a Pitagora, che ogni tanto forse varreb-
be la pena di rispolverare. In questo le culture orientali hanno conservato in maniera più rispettosa, e perfino gelosa, la loro tradizione millenaria. Tanto che negli ultimi anni si è diffuso in occidente un vero e proprio turismo spirituale che dal Tibet alla Cina, dalla Mongolia al Giappone porta migliaia di persone alla riscoperta proprio del valore del silenzio, che molto si avvicina, in fondo, a quello dell'essenziale. E noi occidentali? Ho sfogliato, per pura curiosità, la lista delle Giornate mondali o internazionali dedicate a questo o a quel tema. Tra gli altri argomenti, alcuni importantissimi e degni di massimo rilievo, ci sono anche - forse non lo sapete - la giornata internazionale del bacio, quella della bicicletta, quella del jazz e perfino quella dei mancini (sì, coloro che usano prevalentemente la parte sinistra del corpo). Che ne dite, una Giornata internazionale del Silenzio potrebbe forse aiutarci a prendere di nuovo in considerazione un Bene di cui abbiamo quasi perso la memoria?
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A parere mio di Cesare Scotoni
IMPREVIDENTI E NON PENTITI
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e prospettive infauste, chiaramente leggibili fin dalla fine di marzo 2020 dove il Governo, con delle scelte improvvide e finalizzate solo ad indebolire alle radici il Sistema Paese, ha ipotecato il futuro delle prossime due generazioni si sono compiute in un biennio. Lo scontro, mai nascosto fin dal 2002 e da Pratica di Mare, tra i partners dell’Alleanza Atlantica, la vicenda di piazza Maidan a Kiev, con l’abbandono dell’Unione Europea a trazione Tedesca da parte dell’Inghilterra ed il successivo tentativo di golpe ad Ankara lo scontro è diventato evidente e lancinante a fine febbraio 2022, con il naufragare dei due garanti europei degli Accordi di Minsk di fronte alle pretese d’Oltre Atlantico. E l’Italia è stata in tutto ciò, fin dal 2012, il “vaso di coccio”. Anche grazie all’impegno in quel senso di una parte rilevante della sua Classe Dirigente. Dopo le tante chiacchiere su una democratizzante Globalizzazione perseguita per tre decenni a suon di Guerre per Procura indirizzate al controllo delle Materie Prime qualcuno al tavolo del Poker ha “chiamato”. Un’Unione Europea costruita nella NATO e per la NATO ha scoperto che, togliendo mercato all’Export tedesco e perturbando i flussi logistici destinati a fare di quei Paesi dei Campioni del Manifatturiero, un Modello di Sviluppo costruito su quella Globalizzazione garantita e pagata dall’Alleato d’Oltre Atlantico andava in crisi. Che la Germania senza North Stream2 e senza Nucleare deve ridurre le proprie ambizioni e che il dipendere dagli USA su troppi comparti tecnologici equivale a dipendere per la Produzione Energetica dal gas russo. Ha scoperto che l’assenza di quella Costituzione Europea che troppi eletti nel consesso del Parlamento
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Europeo han trascurato di rivendicare, ha impedito a quell’ambizioso sogno Politico di darsi una Governance e degli Strumenti per diventare altro che non fosse un Mercato Regolamentato ed uno Spazio Economico. Peraltro è noto a tutti che l’affidare un Sogno Ambizioso a delle persone mediocri non è mai stato un buon viatico e gli italiani su questo hanno una lunga e radicata esperienza. Dunque oggi ci si ritrova con un Paese più povero, depauperato in passaggi precisi, cui è facile dare un nome ed un cognome. Impoverito nei mezzi e nelle competenze, più debole sui mercati e con un peso del disagio sociale che va ben oltre i posti di lavoro bruciati, le aziende chiuse ed i servizi pubblici indeboliti. Un Paese in cui la Politica sembra avere abdicato per un difetto di originalità prima ancora che di progettualità. Chi spera di dare una sostenibilità a quei progetti infrastrutturali che sopravviveranno alla Lotteria di un PNRR che sarà comunque depotenziato sia dalla contingenza internazionale che dalla difficoltà a dare concretezza a quelle troppe ed inattuali Condizionalità accettate dal Governo Conte II, dovrà saper costruire scenari nuovi senza i quali quelle residue risorse saranno volano solo a quelle stesse infrastrutture destinate altrimenti ad assorbire risorse anziché a creare economia. Le famose Condizionalità, al momento tese soltanto a smontare un Sistema Sociale considerato troppo oneroso per mantenersi
e senza immaginare come crearne uno nuovo, sono in gran parte eredità di un Passato che l’ultimo biennio ha archiviato. La tradizione dell’Economia Sociale, che spazia dal Capitalismo Renano fino alla Cooperazione e alle Imprese per la Promozione Sociale tornano così ad essere un’alternativa concreta a quel Capitalismo Consumista cui oggi, nell’Assemblea dell’ONU, la maggioranza della Popolazione Mondiale sembra opporsi. La Demolizione dello Stato Sociale novecentesco, dei Sistemi di Welfare su cui l’Europa ha costruito un Progresso Sociale che trova il suo radicamento nell’irrompere della Modernità nella seconda metà del XIX secolo, non ha oggi come unica alternativa al “ritirarsi dello Stato” la creazione di spazi per un Mercato dei Servizi destinato al Privato, ma piuttosto, con una distinzione finalmente più netta delle logiche del puro profitto da quelle cooperative, vede spazi nuovi perché la gestione in Convenzione di quelle tante Infrastrutture destinate ai Servizi Pubblici e finanziate nell’ambito del PNRR in ciò che ne resterà, veda un Pubblico non statale in concorrenza al Privato per offrire quei servizi in modo sostenibile ed indirizzandone parte alle fasce uscite più indebolite da questo lacerante decennio. La Crisi che lo scontro tra Egemonie e Potenze Regionali ci sta regalando è l’opportunità per molti per comprendere che la costruzione di nuove catene del valore è la risposta al mutare della più recente tra le tante Globalizzazioni. Quella che vede la nostra Europa, per la prima volta nella sua storia, viverla ai margini, pur essendo questa fase solo un passo intermedio come tanti di un fenomeno nato sulle rive dei mari e sulle vie delle carovane qualche decina di secoli fa.
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Abitudini italiane di Francesco Scarano
I gesti coverbali: quando le parole costituiscono solo la punta dell’iceberg della comunicazione.
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no delle caratteristiche distintive di un parlante italiano è quella di adoperare, nel corso della propria esposizione, numerosi ed inconsapevoli gesti atti a sostenere visivamente ciò che fonicamente è espresso attraverso le parole. Sul web, infatti, abbondano i meme e le caricature di giocatori e calciatori italiani che si caratterizzano per l’energico e frequente smanacciare, quasi costituisse un linguaggio più universale rispetto a quello verbale, comprensibile da fruitori di ogni livello culturale e nazionalità. La tendenza a gesticolare è talmente connaturata nell’ uomo che i neonati, ancor prima di imparare a parlare, o contemporaneamente all’ acquisizione di tale capacità comunicativa, improvvisano gesti semplici ma espressivi legati alle loro necessità, come quella fondamentale di nutrirsi. Non c’è dunque da meravigliarsi se molti linguisti sostengono che l’uomo avrebbe potuto parlare anche solo a gesti, e Sabatini stesso asserisce che “il parlare si associa inevitabilmente ai gesti’’ ed ‘’ è impossibile una comprensione veramente piena della lingua senza tener conto dei gesti e degli altri elementi non verbali’’, ossia non costituenti i ‘’verba’’, cioè le parole. Come si deduce dall’ etimologia del termine, un gesto (dal latino ‘’gestum’’, supino di ‘’gerere’’, cioè ‘’fare’’), è un’azione, un movimento, specialmente delle mani e delle braccia, compiuto per fare qualcosa. Un gesto, poi, è comunicativo se il suo significante, cioè la forma ed il movimento delle mani, trasmette un’infor-
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mazione, un significato, ed è pertanto traducibile in parole o frasi corrispondenti a quel significati. Ciò che potrebbe sembrarci un movimento spontaneo ed insignificante, è in realtà tanto espressivo da aver destato l’attenzione e lo studio minuzioso di linguisti e psicologi di ogni nazionalità. Alla fine degli anni ’70 gli americani Ekman e Friesen classificarono i movimenti delle mani (non ancora chiamati gesti) nelle tre classi di: emblematici (o simbolici), illustratori ed adattatori. I primi sono talmente noti ad i fruitori dell’informazione da avere un’immediata traduzione e resa verbale. Gli illustratori, invece, servono a dare conferma ed esplicazione a ciò che si sta sostenendo verbalmente, mentre gli adattatori sono inconsci e privi di intenzioni comunicative. Un semplice esperimento per trovare conferma a quanto asserito potrebbe consistere nell’ osservare i nostri interlocutori gesticolare e andare alla ricerca del significato di tale gesto attraverso un ‘’gestibolario’’, cioè un vocabolario
che associa la manifestazione fenotipica di un gesto al contenuto che esso intende esplicare. Molti di noi, ad esempio, tendono a supportare frasi come ‘’ Che cosa vuoi?’’, o ‘’ Che cosa dici?’’ con il gesto emblematico ed illustratore consistente nell’ unire i polpastrelli delle dita ‘’ a grappolo’’ e nello scuotere la mano energeticamente. Un altro esempio potrebbe essere quello del gesto emblematico dal significato di ‘’ basta!’’, mimato dall’ apposizione delle mani dispiegate davanti il fruitore, quasi ad ergere una simbolica barriera, quello riproducente l’atto di firmare con pollice ed indice uniti ai polpastrelli ed in movimento sulla simbolica superficie del palmo opposto, o ancora quello che accompagna l’invito verbale a bere un caffè, con pollice ed indice uniti a mimare il sostegno prestato ad una fantasiosa tazzina avvicinata alle labbra. Quando cadiamo nell’ errore di considerare i gesti ‘’nugae’’, cioè sciocchezze, ricordiamo che nell’ ambito
Abitudini italiane della comunicazione il canale mimico- gestuale ha talvolta sostituito quello grafico-visivo e fonico-uditivo, anche per le nuove generazioni, che usano gli emoji dell’ applauso su Whatsapp, o che per approvare una foto o una dichiarazione di un post utilizzano il cosiddetto ‘’Like’’, che altro non è che la raffigurazione di un pollice atto ad esprimere gratitudine, come a dire ‘’ok, va bene, mi piace’’. Se poi volessimo spingerci oltre e trarre lezione dagli antichi, non potremmo non annoverare un gesto talmente potente ed efficace che la sua esplicazione poteva costare la morte dei
gladiatori in arena: il pollice ruotato all’ ingiù o nascosto dentro il palmo. Solo riflettendo sulla natura multimodale della comunicazione possiamo capire che chi parla non dice solo parole, ma fa anche pause, sguardi,
posture e gesti, e che è grazie all’ interazione di questi segnali che si riesce a comporre un’armonica sinfonia comunicativa. Forse d’ ora in avanti presteremo più attenzione ai gesti realizzati dai nostri interlocutori e ci prenderemo del tempo per analizzare quella comunicazione parallela che supplisce e completa la prima, come se fossero due spartiti complementari di un armonico duetto. Forse che i gesti non sono solo una carabattola da vetrina ma possono fornirci un “quid pluris’’ nella comunicazione o addirittura essere più universali ed espressivi delle parole?
di Adriano Bertelle & C. s.n.c.
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Il turismo in cronaca di Patrizia Rapposelli
È RIPRESA PER L’ESTATE 2022
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l made in Italy punta sull’ esaurito. Dopo due anni tragici, tirando le somme, dalla 72esima assemblea di Federalberghi emerge un Italia dal netto margine di miglioramento sul fronte turismo. Aprile, maggio e giugno hanno visto un tasso di riempimento delle strutture ricettive di dieci punti superiore alla Spagna, tradizionale competitor. I primi dati a disposizione fanno pensare ad una stagione estiva ottimista con il ritorno del turismo straniero, principalmente americano,e quello degli italiani che restano e fanno vacanza nel Paese. L’Italia deve fare a meno di altri mercati internazionali, in primis la Russia, seguita da Cina, Taiwan, Corea e Giappone. Queste ultime sono assenti causa Covid. In questo clima di speranza per il mercato turistico italiano non manca l’allarme per le difficoltà delle imprese, che fanno i conti con il rincaro dell’energia, il peso del fisco e della burocrazia, l’abusivismo e la carenza di personale. Secondo il rapporto emerso da Federalberghi nel 2021 la spesa dei viaggiatori stranieri in Italia è diminuita di oltre 22,5 miliardi di euro, con un calo del 50,9 per cento rispetto al 2019. L’inizio del nuovo anno ha visto un peggioramento. Quando si sono allentate le misure di sicurezza l’Italia è tornata competitiva con gli altri Paesi. Bocca (presidente di Federalberghi) afferma che è ora di dare forza al
processo di ripartenza spingendo su investimenti e innovazioni. L’industria del turismo italiano vede la luce, ma la stagione, nel concreto, non sarà priva di difficoltà. Dall’Osservatorio di Confturismo-Confcommercio arrivano le stime sulle vacanze degli italiani, sono previsti 23 milioni di italiani tra i 18 e i 74 anni intenzionati a partire nel periodo estivo e un indice di propensione al viaggio ai livelli prepandemia, quota 67 punti su 100. Lo scenario è positivo, ma ci sono dei punti bui per il settore. Sempre secondo quanto riportato dalle precedenti stime, dei 23 milioni previsti in viaggio, solo 4 su 10 hanno prenotato. Il restante lo farà più tardi o all’ultimo. Oltre a questo, esiste un reale sentimento di cautela da parte
della domanda, con 6 italiani su 10 che si dichiarano preoccupati per le conseguenze dell’inflazione e del caro energia. In base al rapporto di Confturismo-Confcommercio, i vacanzieri preferiranno il mare, davanti a montagna e mete culturali. È previsto un aumento del raggio di spostamento. L’85 per cento degli italiani sceglierà mete nazionali, 6 casi su 10 al di fuori della propria regione, il 15 per cento restante è propensa a un viaggio all’estero. Inoltre, ritorna una logica meno influenzata dal Covid nella scelta delle strutture ricettive. Un anno fa in aprile il 34 per cento sceglieva una casa in affitto per la villeggiatura e il 26 per cento l’albergo, oggi la tendenza è rovesciata. Il 31 per cento preferisce la residenza in albergo e il 21 per cento una casa in affitto. Codacons commenta questi numeri e stima una vacanza di 10 giorni più costosa del 15 per cento, passando da una media di 996 euro a persona del 2021 ai 1.145 euro del 2022. L’opinione del presidente del Codacons avverte che gli operatori turistici scaricano sui consumatori finali i maggiori costi energetici del caro- bollette. In generale le prospettive per l’estate sono positive, ma guerra, inflazione e caro energetico preoccupano. Un clima di ottimismo respirato a metà, è ripresa del turismo.
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Fatti & misfatti di Francesco Scarano
Fake news: non chiamiamole bufale!
Un viaggio tra le insidie più appetibili del mondo dell’informazione.
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hiunque al giorno d’ oggi presti l’orecchio ai media al fine di informarsi è avvezzo ad imbattersi nel termine ‘’ bufale’’, il quale designa un concetto tanto negativo nel significato quanto abituale nel significante, come se si trattasse di una rara forma di cancro non debellabile per il convalescente mondo dell’informazione. Se da una parte tale termine si è rilevato tanto permeante e virale da aver raggiunto il vocabolario base di ogni italiano medio, dall’ altra è pur vero che nella maggior parte dei casi il significato del lemma è spesso travisato. L’ espressione ‘’ fake news’’ costituisce una locuzione abbastanza recente, la cui formulazione e definizione risale al 2017 da parte del dizionario Collins, il quale definisce così ciò che fino a quel giorno era stato indicato con il termine ‘’bufala’’. Pur diventando parola dell’anno, raggiungendo uditori e lettori di ogni tipologia e livello, la sua resa dall’ inglese alla lingua de “Il Bel Paese’’ risulta spesso confusionaria ed imprecisa, dato che frequentemente non si riesce a fare distinzione tra ‘’svista’’, ‘’satira’’, ‘’parodia’’ e ‘’manipolazione dei contenuti’’. Ciò che ai più potrebbero sembrare sinonimi in realtà, secondo gli esperti, sottendono sfumature di significato non trascurabili. Attualmente, infatti, se con il termine ‘’bufala’’ si designa una notizia completamente fasulla, inventata di sana pianta, con quello di ‘’fake news’’ ci si riferisce ad
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una notizia parzialmente vera derivante dalla manipolazione dei contenuti originali che sono relativi a qualcosa di appena accaduto. Se le ‘’ fake news’’ sono sempre esistite, è pur vero che nel periodo della pandemia la loro propagazione ha superato la velocità di diffusione del morbo, come se la nostra ansia e sete di conoscenza sull’ argomento ‘’covid’’ avesse funto da acceleratore, catalizzatore perpetuo. Il motivo principale di questa singolare accelerazione risiede nei principi che regolano il funzionamento e la ragion d’ essere della suddetta manipolazione. Essa, infatti, può essere paragonata ad una pianta parassita o saprofita, la quale affonda le sue radici sul marcio substrato dei nostri ‘’bias cognitivi’’, cioè quei meccanismi mentali che disorientano la nostra mente e ci fanno cadere in un errore di valutazione. Se stiamo vivendo un‘ epoca in cui il nostro incubo peggiore è un germe ed i nostri ‘’bias’’ ci spingono a rifiutare la gravità della situazione e crederci onnipotenti cavalieri capaci di combattere il male con i rimedi casalinghi, è chiaro che basterà leggere, anche su una fonte non autorevole, che per sconfiggere il virus occorre
ingerire aglio, che tutti proviamo a riprodurre l’esperimento a casa, sebbene non ci siano prove scientifiche a sostenerne l’efficacia. A ciò si aggiunge il fatto che la maggior parte della popolazione, soprattutto quella fetta di giovane età, suole informarsi attraverso canali poco accreditati, come Google (23,7 %), YouTube (20,7 %), Facebook (40%) etc. Se è vero che gli scopi di chi scrive sono variegati, spesso dettati dal vil denaro, o da intenti politici sovversivi, è pur vero che non siamo immuni da questo potente veleno. L’ antidoto, infatti, risiede nel diffidare di quei campanelli d’ allarme lampanti come la presenza di un titolo sensazionalistico, la comparsa continua di banner pubblicitari, la presenza di un disclaimer, cioè di una presa di distanza dalle responsabilità autoriali da parte dello scrittore, la presenza di layout amatoriali, di notizie ritagliate a misura per noi etc. Oltre ciò, bisogna affidarsi sempre a fonti autorevoli e diffidare di siti fasulli ed ingannevoli, come ‘’ Il fatto Quotidaino’’ che richiama il ben più noto e autorevole ‘’ Il fatto Quotidiano’’, ‘’ la Repubbica’’ etc, come accade nella nota favola che accompagnava i nostri puerili riposini, ‘’Cappuccetto Rosso’’, dove la giovane protagonista diffidava degli occhi grandi, delle orecchie grandi e della bocca grande del ben camuffato lupo, il quale se riusciva ad avere la meglio su distratti osservatori, nulla poteva contro la ben più attenta e sveglia Cappuccetto.
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Campioni dello sport di Alessandro Caldera
Franz Beckenbauer:
la storia del gioiello di Giesing che divenne “Kaiser”
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La persona carismatica, è una forza non razionale, e quindi rivoluzionaria, che apporta cambiamenti imponendo il suo carisma.” Così Max Weber esplicitava al mondo quale fosse, a parer suo, il significato da attribuire al concetto di carisma. In effetti rendere concretamente questo complesso fenomeno astratto non è facile, anche se, volendo banalizzare, potremmo dire che rappresenterebbe l’elemento imprescindibile per qualsiasi uomo o donna che abbia ambizione di ricoprire una posizione importante. La storia, dall’alba dei tempi, pullula di individui che nel bene o nel male hanno saputo lasciare la loro impronta con il loro carisma appunto, vedi: Alessandro Magno o Augusto, colui che con la sua “auctoritas” portò Roma ad una condizione superiore. Ebbene il protagonista del racconto di oggi non si discosta troppo da quest’ultimo esempio, anzi possiamo
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dire che entrambi condividono quello che in latino si definisce “imperium”, ossia il comando. Il primo lo esercitò in qualità di imperatore sull’Urbe, il secondo in veste di “Kaiser”, epiteto con cui fu noto e che corrisponde alla traduzione italiana del termine, sulla nazionale tedesca e non solo, negli anni settanta. Il protagonista oggi, per chi ancora non l’avesse capito, sarà quindi un’icona del calcio mondiale: Franz Beckenbauer. Il futuro campione nasce a Monaco di Baviera, per la precisione a Giesing, l’11 settembre del 1945, una data particolare che, se scomposta, ci dice molto della sua vita e della sua storia. Già, perché l’11 settembre è tristemente noto come il giorno più buio per gli Stati Uniti d’America, dove lui giocò come tante stelle sul finire della carriera, mentre il ’45 è l’anno della rinascita europea ed è quindi esemplificativo delle sue origini. Tralasciando però questa parentesi numerico-anagrafi-
ca, dal punto di vista calcistico quello che ci interessa ricordare è che la prima squadra a tesserarlo ufficialmente fu il Bayern Monaco. Contrariamente però a quanto si possa pensare, ai tempi i Bavaresi erano anni luce lontani dalla corazzata odierna, vivevano infatti all’ombra del più accreditato Monaco 1860, sprofondato oggi in terza divisione. Per Beckenbauer l’esordio ufficiale in Bundesliga avvenne il 6 giugno 1964, in una partita che vide contrapposti “I Rossi” al St. Pauli e nella quale il “Kaiser” si cimentò nel ruolo di esterno sinistro. Per quanto concerne invece l’approccio con la maglia bianca bordata di nero della nazionale, dobbiamo menzionare come prima apparizione una vittoriosa partita giocata in area scandinava, a Stoccolma, il 26 settembre 1965. In questo caso Franz deve molto alla figura di Helmut Schön, per anni aiutante del mister Sepp Herberger, passato
Campioni dello sport alle cronache per essere l’allenatore della Germania durante il famoso “Miracolo di Berna” del 1954. In quel frangente i tedeschi riuscirono a ribaltare la partita da 0-2 a 3-2 e a sconfiggere l’ Ungheria, la “squadra d’oro”, tra lo stupore generale. Il merito di Schön con Beckenbauer fu di intravedere in lui un mediano centrale offensivo e successivamente, nonostante la giovane età del ragazzo, di consegnargli le chiavi del gruppo. Franz non deluse colui che lo aveva promosso da riserva a titolare e, già durante il mondiale ’66, diede prova delle sue strabilianti doti. A tal proposito, epico fu il duello con Sir Bobby Charlton, anche se non vanno tralasciate comunque le quattro reti segnate nel corso della manifestazione, dalla quale la Germania uscì comunque sconfitta proprio per mano dai “leoni” inglesi. Forse questo evento può rappresentare l’unico neo nella gloriosa carriera di Beckenbauer, infatti la cocente delusione
di quel giorno fu ampiamente riscattata nel ’72 con la conquista degli Europei e nel’74 con la vittoria nel mondiale, definito “Arancia Meccanica”, ottenuto a discapito della favolosa olanda di Cruijff, talmente forte e superiore da dimenticarsi però di vincere. In realtà parlando del gioiello di Giesing, si finisce per essere ridondanti e addirittura stucchevoli, d’altronde nulla si può aggiungere ad uomo che nella sua vita ha vinto tutto, da calciatore ed allenatore, e con merito ha ottenuto l’epiteto di “Kaiser”. Banalmente l’unica cosa possibile sarebbe fermarsi e ringraziarlo: per aver rivoluzionato il calcio con la sua magistrale ridefinizione del ruolo di libero, per averci insegnato cosa vuol dire sacrificio e sofferenza, memorabile fu la semifinale del ’70 in Messico contro l’Italia nella quale rimase in campo nonostante una spalla lussata e fasciata, e infine per le grandi doti di leadership e per la grande umiltà, da sempre virtù dei
grandi. “Avendo sempre giocato in una squadra, mi sento a disagio quando vengo classificato tra i migliori a livello individuale”
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La storia e noi di Alvise Tommaseo
VENETI POPOLO DI
ESPLORATORI E NAVIGATORI
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a Repubblica di Venezia ha dominato il mare Adriatico, e parte del Mediterraneo, per quasi sei secoli. E’ stata una temibile potenza militare marinara, ma soprattutto si è distinta come una formidabile entità economico commerciale. I suoi eleganti vascelli, realizzati nell’attrezzatissimo e organizzatissimo Arsenale dove lavoravano migliaia di operai, falegnami, fabbri e artigiani, nel corso del tempo, sono approdati ovunque, ma in
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particolare nei porti ed empori dell’Oriente. L’espansione del commercio verso porti, città e terre lontanissime, alcune delle quali all’epoca sconosciute, la si deve, anche e soprattutto, all’audacia, curiosità, intelligenza e coraggio di tanti navigatori ed esploratori originari non solo di Venezia, ma di tutte le province venete. Senza il pregiatissimo legname proveniente dai boschi del Montello, del Cansiglio, ma soprattutto dal Cadore ed in parte dal Feltrino, nell’Arsenale di Venezia non sarebbero state progettate, costruite e varate le imbarcazioni che poi hanno solcato le acque di tanti mari ed Oceani al comando dei migliori comandanti. Ma non solo per mare. L’eccezione per eccellenza non può che essere quella di Marco Polo, in assoluto il più famoso viaggiatore – esploratore di tutte le epoche, secondo, per fama, solo al genovese Cristoforo Colombo. Il giovanissimo Marco partì da Venezia per l’Oriente, con il padre e lo zio, nel
1271 e vi rimase la bellezza di 17 anni. Attraversò i deserti dell’Asia, scavalcando la catena del Pamir fino a raggiungere la Cina. Rientrato nella città natale, nel 1298, divenne marinaio della Serenissima, ma in uno scontro navale con Genova fu catturato. Durante la prigionia raccontò le sue avventure in terre lontanissime a Rustichello da Pisa, che le trascrisse, prima in lingua francese e poi in italiano, con il titolo “Il Milione”. Un secolo dopo il veneziano Alvise
La storia e noi
Ca’ da Mosto, dopo avere navigato nel Mediterraneo e nel nord Europa, lasciò Lisbona con l’intento di esplorare le coste occidentali dell’Africa. Dopo aver vistato Madeira e Le Canarie puntò verso il Senegal. Successivamente, raggiunto l’estuario del fiume Gambia, lo risalì per un centinaio di chilometri. Nel tragitto di ritorno approdò e scoprì, in mezzo all’Atlantico, le isole di Capo Verde. Nel 1550 furono pubblicate le mappe e le descrizioni delle sue scoperte. Nel 1432 il nobile veneziano Pietro Querini naufragò con il suo carico di vino
presso le isole Lofoten nel nord della Norvegia. Si salvò e, in quell’occasione, scoprì il merluzzo, ovvero il famoso stoccafisso altrimenti chiamato bacalà, che tanto successo riscosse sulle tavole dei Veneti e dei Vicentini in particolare. Risale al 12 ottobre 1492 la fatidica data della scoperta dell’America ad opera del genovese Cristoforo Colombo. Non passarono che pochissimi anni quando, il 24 giugno 1497, Giovanni Caboto, veneziano d’adozione, sbarcò per primo sulle coste del nord America in un epico viaggio commissionato da re Enrico VII d’Inghilterra. Secondo alcuni storici scoprì l’isola di Terranova e successivamente anche la Groelandia. Le esplorazioni di Caboto assicurarono ai geografi europei del tempo le prime indicazioni scientifiche circa la vastità del continente americano e stimolarono la ricerca di un passaggio a nord – ovest verso l’estremo Oriente. Sebastiano Caboto, figlio di Giovanni, che per lungo tempo abitò a Venezia, oltre che a viaggiare al fianco del padre, esplorò la punta meridionale dell’isola di Baffin fino alla Florida. Nel 1525 raggiunse il Brasile per poi puntare sull’Argentina dove fondò un villaggio fortificato vicino alla città di Santa Fè ed un’altra roccaforte in Uruguay lungo l’estuario del Rio de la Plata. E come non ricordare il grande navigatore e geografo vicentino Antonio Pigafetta. Partecipò, grazie alla raccomandazione di un vescovo, alla spedizione marinara comandata da Ferdinado Magellano che si proponeva la prima circumnavigazione del globo. Si imbarcò nel 1519 sulla nave ammiraglia Trinidad. Due anni dopo, nelle attuali Filippine, la spedizione fu attaccata dagli indigeni che uccisero Magellano e ferirono lo stesso Pigafetta. Pigafetta raccontò successivamente la sua incredibile esperienza nella “Relazione del primo viaggio intorno al mondo”, uno dei manoscritti più preziosi che documentano le grandi scoperte geografiche del Cinquecento.
Meno nota, ma non per questo meno importante, è la figura del veneziano Niccolò Manucci, avventuriero, esploratore e medico, con grandissime doti diplomatiche, vissuto tra il 1638 ed il 1720. Trascorse gran parte della sua lunga vita tra la Turchia, la Persia e l’India le cui lingue parlava con grande disinvoltura. Nel 1663 lasciò Delhi per recarsi in Bengala. Per qualche tempo trovò ospitalità presso un collegio dei padri Gesuiti che riuscirono, grazie alle sue abilità diplomatiche ad ottenere un permesso per costruire una chiesa in muratura. Nel 1705 Manucci affidò al padre Capuccino Eusebio di Bourgesun un grosso plico di documenti che raccontavano le sue incredibili avventure nelle Indie e la sua “Storia.” Si chiude questa veloce carrellata dedicata agli esploratori Veneti ricordando il padovano Giovanni Battista Belzoni nato nel 1778 e deceduto in Nigeria nel 1823. Fattosi monaco, gettò ben presto alle ortiche la sua tonaca per coltivare la sua passione per l’idraulica, per i viaggi, ma soprattutto per l’archeologia. In Egitto diede inizio alla ricerca di antichità a Karnak e nella Valle dei Re. Le sue scoperte gli diedero grande fama soprattutto in Inghilterra dove, in suo onore, fu addirittura coniata una moneta di bronzo. Al museo archeologico di Padova donò preziosi reperti egizi, alcuni dei quali si trovano oggi esposti nel palazzo della Regione Veneto.
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Conosciamo le aziende di casa nostra
SARTOR 1956
Evoluzione e creatività nell'arredamento. Un'azienda che guarda al futuro, dove la tradizione si tramanda di padre in figlio. Competenza, professionalità, genialità e conoscenza del proprio mestiere.
Sono questi i quattro elementi portanti che caratterizzano l'insegna di SARTOR ARREDAMENTI, una azienda che, per effetto delle innovazioni tecnologiche che ha saputo concretizzare, brilla oggi di luce propria. Un'azienda che, dopo aver lavorato per decenni il legno, in tutte le sue forme, presenta sul mercato una nuova concezione dell'arredare che guarda al futuro.
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‘azienda nasce con mio padre Urbano nel 1956, ci dice Giuliano, l'attuale titolare che si avvale della fattiva collaborazione dei figli, e prende il nome di “Sartor Arredamenti” nel 1983 quando abbiamo aperto il primo negozio di mobili, in via Fenadora a Fonzaso. Da quella inaugurazione, e grazie agli unanimi consensi, il nostro negozio è diventato un nome storico e punto di riferimento per il Feltrino, il Primiero e per la Valsugana fino ai primi anni 2000. Oggi, proprio a fianco alla storica sede, sempre in via Fenadora a Fonzaso, per effetto di una nostra desiderata evoluzione rinasce lo showroom “Sartor Arredamenti”, dove oltre ad una proposta di arredamenti tradizionali, abbiamo voluto
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affiancare il nostro nuovo Brand “Sartor 1956”, che punta ad offrire arredamenti di nuovissima generazione ricercati ed innovativi, con la particolarità che ci caratterizza della sospensione di tutti i mobili. Una tipologia di arredamento, mi permetta di sottolinearlo, che abbiamo brevettato e che oggi ci caratterizza coma l'unica azienda capace di realizzarlo. Il nuovo sistema “Sartor 1956” rispetta a
pieno le caratteristiche di libertà nel posizionamento che contraddistinguono e differenziano le nostre cucine, poiché abbiamo previsto il passaggio di tutti i collegamenti tecnici attraverso una struttura autoportante, non richiedendo quindi lavori di muratura. Ciò ci permette (in particolare per immobili storici o comunque non oggetto di ristrutturazione) di inserire le nostre cucine e in ogni spazio, senza modificare l’impiantistica ed evitando di toccare le superfici esistenti. Questo si deve alla ricerca di ottenere per ogni ambiente il massimo in termini di praticità, funzionalità, ergonomia e facilità di pulizia, senza mai andare a penalizzare il lato estetico.
Conosciamo le aziende di casa nostra
Mi permetta anche di evidenziare che tutte le nostre cucine, con le adeguate accortezze, possono essere utilizzata non solo per abitazioni, ma anche in strutture alberghiere e di ristorazione in generale. È vero, ci precisa Giuliano, che noi offriamo anche gli arredamenti tradizionali, ma cerchiamo sempre di offrire un qualcosa in più inserendo, ove possibile, gli elementi della nostra creatività. In conclusione, ed è nostro motivo di orgoglio, mi permetta di
evidenziare il fatto che non solo abbiamo avuto unanimi consensi per quanto da noi creato, ma il marchio “Sartor 1956” ha ricevuto particolari interessi da parte di numerose testate nazionali ed internazionali presenti nel mondo degli arredamenti. Nel 2020 inoltre, siamo stati scelti per rappresentare a Shanghai il settore dell’arredamento italiano per lo svolgimento della “Italian Design Masterclass 2020/2021”. (P.R.)
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Gli infortuni nelle abitazioni civili di Enrico Coser
ATTENTI AGLI INCIDENTI DOMESTICI
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li incidenti domestici, nel nostro paese, costituiscono una vera documentata emergenza che come sottolinea l'Istat, coinvolgono in primis le donne, perchè sono loro a prendersi cura della casa, poi gli anziani e infine i bambini. Secondo una delle ultime indagini il numero degli incidenti domestici supera addirittura quello degli incidenti stradali. Numeri, purtroppo che non accennano a diminuire. E i dati ci dicono anche che ogni anno, nelle case degli italiani, sono oltre 3 milioni gli incidenti che caratterizzano la nostra quotidianità con un numero di persone coinvolte che supera i tre milioni e mezzo, tra cui circa 600mila casalinghe. In base alle analisi condotte la stragrande
maggioranza degli infortuni, quasi sempre, sono legati ad aspetti quali cadute dalla scale o da sgabelli, ferite da taglio, scivolamento, urti, schiacciamenti, ecc. Quelli, però, che sono cima alla “classifica”e che riguardano oltre io 40% del totale, avvengono in cucina che vedono come grandi protagoniste le ferite da taglio, più o meno gravi e le scottature. Particolare menzione meritano anche gli infortuni dovuti a scosse elettriche perchè, ogni anno coinvolgono oltre 200mila italiani. E l'istituto di statistica ci dice che gli infortuni tendono, sempre di più, a colpire anziani e bambini. Ma dove avvengono principalmente gli incidenti domestici? Secondo i dati Istat e
Siniaca tra i luoghi con maggiore frequenza c'è la cucina (36%), camera da letto (14%), scale (8%), bagno (8%, soprattutto a causa di scivolamenti su superfici bagnate, oppure mentre si esce dalla doccia o vasca). Infine nei giardini e cortili (6%). Purtroppo gli infortuni e gli incidenti domestici hanno un effetto decisamente diretto anche e soprattutto sulla nostra sanità in termini di cure, ricoveri e, non di rado di veri e costosi interventi chirurgici. Ma quali i consigli utili a prevenire gli incidenti più comuni? Molti sono i consigli e tra questi: fare grande attenzione quando si maneggiano coltelli o attrezzi da taglio o quando si esce dalla doccia o dalla vasca con i piedi bagnati; buona abitudine è
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Gli infortuni nelle abitazioni civili quella di usare sempre il corrimano quando si scendono le scale, specialmente se non si è in possesso di una buona mobilità e/o deambulazione; fare molta attenzione quando i bambini si avvicinano alle prese elettriche o in cucina, specialmente quando il il forno è acceso o ci sono pentole sul fuoco. Ed è buona abitudine conservare tutti gli oggetti pericolosi e taglienti impedendo ai bambini di prenderli e usarli. Idem per tutti i prodotti di una certa pericolosità quali i detergenti o sostanze tossiche in grado di provocare delle pericolose intossicazioni. Inoltre è sempre consigliabile avere in
casa una fornitissima cassetta di pronto soccorso utile per agire con tempestività
in caso di piccoli incidenti dovuti a un qualsiasi infortunio domestico.
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Racconti d'arte di Daniela Zangrando*
LE (TRE) GRAZIE… DI SILVIA GRIBAUDI!
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er questo mese lascio che a raccontare sia Silvia Gribaudi, autrice di GRACES, un progetto di performance che ho avuto la fortuna di vedere poco tempo fa all’interno della rassegna Belluno Miraggi. Per immaginare GRACES, partite da Antonio Canova, dal gruppo scultoreo che conoscete tutti, quello delle Tre Grazie. In scena, ci sono tre corpi maschili che dialogano con quello dell’autrice. Danzano, provocano. Sono ironici, enigmatici, veri, normali, naturali, traboccanti di energia e di vita. Vi assicuro che, se vi capiterà di assistere a GRACES, non potrete fare a meno di sentire anche il vostro corpo. Di sentirlo pesare, ridere, godere del battito di una mano sull’altra. Vi troverete a riconoscerlo, specchiato, in quello dei performer. Qui di seguito, l’intervista che ho fatto a Silvia Gribaudi. Silvia, cos’è per te la bellezza? Nella mia esperienza la bellezza è una domanda che scatena infinite risposte. Per ogni persona è qualcosa di diverso: la bellezza fa bene alla parte più profonda di noi, e posso dirti che quando mi ritrovo a contemplarla sento una miscela di gioia, di piacere e di apertura verso il mistero. La bellezza nasce sempre dall’unione di diversi parametri che cambiano da persona a persona in base alla cultura, al modo di guardare, al proprio personale senso intuitivo di ricerca del bello. Io sono affascinata dalla mescolanza dei contrasti, siano essi di colori, di corpi o
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di forme, e penso che la bellezza stia nell’incontro di forme contrastanti che magicamente creano armonia insieme. La possiamo riconoscere con i nostri sensi, è un’esperienza che passa e attraversa il nostro essere, per cui è a mio avviso inafferrabile. Che peso assume la possibilità di fallimento che è connaturata alla comicità che metti in atto? Il comico è in grado di trasformare ciò che apparentemente non funziona, di dire ciò che è scomodo. È per me l’opportunità di essere fallimento, e proprio per questo è vincente. Il comico ha già perso, per questo è libero. La comicità è l’abilità di essere semplicemente umano, cioè limitato, fallibile, difettoso ma estremamente potente e sovversivo. Alla fine dello spettacolo hai parlato del teatro come piazza. È un concetto a cui tengo molto, e potrei parlarti del museo proprio nella stessa accezione. Mi spieghi meglio tu cosa intendi?
I teatri sono visti come luoghi eccezionali un po’ fuori dalla quotidianità perché sono posti dove sacro e profano si incontrano. Ma il teatro nasce per essere luogo di incontro e discussione, e l’artista provoca dei pensieri che poi vanno condivisi e messi in discussione. Quindi vorrei che si parlasse di più del luogo teatro come un luogo vivo fatto di scambi di voci e pensieri tra artisti e pubblico. Vorrei che si potessero rompere quei ruoli che imbrigliano i corpi dentro le architetture dello spazio e far sì che i corpi che abitano il teatro lo facciano vibrare per la sua funzione di incontro, di scambio e fucina di pensieri e azioni che poi possono dare frutto a nuove possibilità sociali. Quindi un luogo parte della città e non un luogo altro dalla città. La piazza unisce, ci si ritrova, è un punto che è dentro alla geografia rituale di un paese, di una città e vorrei che così fosse anche lo spazio teatrale. Ti diverti a fare questo lavoro? Riesci ancora a giocare? Il divertimento è la cosa più importante da alimentare e ritrovare sempre. Mantenere vivo il corpo, la relazione con l’altro e l’altra. Giocare è già a mio avviso essere dentro ad un dono che fai a te e che dai agli altri e alle altre. Divertirsi permette di trovare vitalità, senso di sfida, piacere e continua ricerca all’interno del proprio lavoro.
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Sono uscita dal teatro con una gran voglia di danzare. E con in testa una scheggia
di visionaria leggerezza. Vorrei tanto che per chiudere mi raccontassi di un sogno, di uno di quelli con la S maiuscola. Difficile rispondere, ho tanti sogni e non so bene quale scegliere. Uno è proprio quello che ho descritto sopra: Il Sogno di un teatro da vivere come una piazza. Un teatro dove le persone possano ballare insieme agli artisti, e danzando con corpi e parole costruire pensieri
nuovi, dove platea e palco comunichino, dove lo spettacolo continui anche dopo che si è usciti dal teatro. Il mio sogno è quello di vedere una comunità che dialoga ponendosi domande che superano le barriere del gusto, del piccolo parere personale, coinvolgendo un pensiero più grande. Cosa mi vuole dire quell’artista? Quella persona così diversa da me, cosa sta dicendo? La capisco? Cosa non capisco? Qual è il suo punto di vista? Cosa mi sta dicendo l’altro o l’altra accanto a me? Che sforzo sto facendo per comprendere? Ecco: il mio sogno è rompere la cattiva abitudine del “giudicare”, dello stare a guardare il mondo dalla prospettiva più comoda per dare spazio a spostamenti a volte scomodi che possano portare ad un “rigenerare e rigenerarsi”, ad una rivoluzione dei paradigmi culturali e sociali, alla scoperta di concrete esperienze di alleanze che direzionano verso la bellezza.
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Attualità di Caterina Michieletto
Il cognome del padre o della madre?
Quale destino dopo la sentenza della Corte costituzionale?
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ercoledì 27 aprile 2022 la Corte costituzionale si è pronunciata con una sentenza dirompente: sono state dichiarate costituzionalmente illegittime le norme che attribuiscono automaticamente il cognome paterno. Nel dibattito politico la pronuncia della Consulta è stata alternativamente ritenuta eversiva da alcuni e rivoluzionaria da altri, a seconda del colore politico commentata criticamente oppure accolta positivamente. Tuttavia, nel calderone delle opinioni politiche si dovrebbe stagliare un dato oggettivo ed incontrovertibile capace di annullare qualsiasi opposizione: non c’è margine di discussione su una decisione che è riflesso del principio di eguaglianza, che è espressione della parità di trattamento tra i coniugi, della pari dignità morale e giuridica tra uomo e donna. La questione non è “di lana caprina”, come alcune voci hanno obiettato, al contrario è segno di un cambiamento atteso da alcuni decenni, la conquista di un altro importante gradino nella scala della parità di genere. La sentenza della Corte costituzionale sopraggiunge dopo anni di impegno, determinazione e perseveranza di molti genitori, che di fronte agli ostacoli burocratici, alle spese economiche e lo sconforto
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non si sono arresi ma hanno continuato con convinzione e audacia la loro battaglia. Una battaglia che ha portato all’accoglimento delle loro istanze e al riconoscimento di un diritto a trasmettere il cognome materno ai propri figli, congiuntamente al cognome paterno o in via esclusiva. Prima di ricostruire le tappe intermedie che hanno condotto a questo risultato, è necessario fare un salto indietro nella storia per scovare l’origine dell’automatismo del cognome paterno. Più precisamente ci troviamo nell’Antica Roma quando la figura del “pater familias”, “padre di famiglia” aveva un potere assoluto su tutti i membri del nucleo familiare, in primis sulla moglie. Il pater familias vantava una “patria potestas” un potere la cui latitudine arrivava fino alla facoltà di disporre della vita dei suoi familiari, il cosiddetto “vitae necisque potestas” ossia il diritto di vita o di morte nei confronti dei membri della famiglia. In questa struttura sociale spiccatamente patriarcale l’automatismo nell’assegnazione del cognome paterno era uno sbocco naturale, una conseguenza necessitata e coerente con quella tradizione giuridica, la stessa che ad esempio puniva solo l’adulterio della moglie. Non sono trascorsi molti anni da quando la Corte costituzionale con due sentenze sent. n. 19 del 1968 e n. 126/1969 ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 559 cp.
che sanzionava l’adulterio della moglie, in quanto contrario “all’eguaglianza morale e giuridica dei coniugi” ex art. 29 Cost. Anche in quell’occasione la Consulta aveva rimosso delle “incrostazioni” della nostra eredità giuridica non più compatibili con il nascente pensiero costituzionale, plasmato in primo luogo sul principio di eguaglianza. Detto questo, da quando il meccanismo dell’automatismo del cognome paterno ha cominciato a scricchiolare? La prima sentenza che sollevò la questione dell’illegittimità costituzionale di questo sistema risale al 1982 su iniziativa della giornalista e scrittrice Iole Natoli, la prima a chiedere che ai suoi figli si potesse aggiungere il cognome materno. Allora il tribunale civile di Palermo rigettò la domanda osservando che nonostante non vi fosse alcuna norma che prescriveva espressamente l’attribuzione del cognome paterno, si trattava “di un principio secolare riconosciuto dal diritto da tempo immemorabile”... Era come un “sassolino gettato nell’acqua”: sebbene piccolo, aveva iniziato ad agitare le acque e vent’anni più tardi avrebbe dato avvio ad una vera e propria campagna di impegno civile e sociale da parte di molte coppie di genitori. A partire dagli anni 2000 una serie di sentenze sia interne che della Corte europea dei diritti dell’uomo prepararono il terreno fertile per una prima svolta. Con la sentenza n. 286 del 2016, la Corte costituzionale accolse una nuova questione di costituzionalità sull’attribuzione automatica del cognome paterno, affermando che la preclusione “per la madre di attribuire al figlio, sin dalla nascita, il proprio cognome” fosse lesiva del “diritto all’identità personale del minore” e fosse
Attualità “un’irragionevole disparità di trattamento tra i coniugi”. La pronuncia si concludeva con un primo invito al Parlamento: “un indifferibile intervento legislativo, destinato a disciplinare organicamente la materia, secondo criteri finalmente consoni al principio di parità”. Quell’organico intervento legislativo non si è realizzato, c’è stata solo una circolare del Ministero dell’Interno che dal 2017 acconsente ai genitori di inoltrare richiesta al prefetto per attribuire alla nascita anche il cognome materno, ma a due condizioni: che vi sia l’accordo dei genitori e che il cognome materno sia inserito dopo, in subordine a quello paterno. Nel 2021 giunge al tavolo dei lavori dei giudici costituzionali il ricorso di una coppia di genitori non sposati che aveva visto rigettata degli uffici comunali la loro domanda di attribuzione del solo cognome materno al proprio figlio. Il 27 aprile 2022 la Consulta si pronuncia e questa volta lo
fa prendendo definitivamente posizione sul punto. La nuova regola è che il figlio assume il cognome di entrambi i genitori nell’ordine da loro concordato, salvo che essi decidano, di comune accordo, di attribuire soltanto il cognome di uno dei due, solo quello del padre oppure, ed è la novità più importante, solo il cognome della madre. Non è la prima volta che la Corte costituzionale recepisce i segni di un cambiamento nella realtà culturale, sociale, tecnologica, economica e li traduce in segnali di cambiamento anche nel mondo del diritto. Lo abbiamo constatato nel caso Cappato, vicenda che ha messo in risalto delicate questioni di bioetica; in questa come in altre occasioni i giudici della Corte costituzionale compiono un atto di responsabilità: perché la giustizia è fatta di persone che attendono risposte e che non possono aspettare i tempi troppo spesso dilatati del legislatore.
Con questa sentenza la Corte costituzionale recapita un chiaro messaggio di invito a normare al legislatore, il nostro Parlamento, ma nel frattempo si assume la responsabilità di individuare una regola e dare una risposta. Ci sono molti aspetti che il Parlamento dovrà regolare, speriamo in tempi brevi e con modalità efficaci e lineari. Dovranno essere definite chiaramente le coordinate affinché non si generino confusione e disordine tali da porre difficoltà applicative insormontabili e da smorzare l’entusiasmo per il risultato storico raggiunto con questa sentenza. Resta però una certezza granitica scolpita nelle parole dell’ex Presidente della Consulta e oggi ministra della Giustizia, Marta Cartabia: “Un altro passo in avanti verso l’effettiva uguaglianza di genere nell’ambito della famiglia è stato compiuto”.
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Il personaggio di Alex De Boni
PROFESSIONE PASTICCIERE
A
lessio Baietta da oltre vent’anni realizza capolavori dolciari e dal dicembre 2017 gestisce con la moglie Sonia la pasticceria a Limana Mon Ninì. Un azienda familiare tra le più longeve e conosciute del settore in provincia che basa il proprio successo sulla qualità dei prodotti e la ricerca di eccellenti materie prime, molte delle quali a km zero. Il mix tra marito e moglie è il segreto di questa attività che vede Alessio impegnato nel laboratorio e Sonia addetta al negozio vendite. “La mia filosofia è pensare sempre positivo, nonostante gli alti e bassi della vita, perché se un pasticciere è felice questo ricadrà sui suoi prodotti ed in un certo senso verrà apprezzato dai clienti”. Non solo dolci ma anche una vasta selezione di caffè, degustazioni e una ampia gamma di cioccolati. “Tanti promettono mari e monti, ma un azienda piccola come la nostra vive solamente grazie alle proprie forze e sacrifici”, sottolinea Baietta. Un
attivitá che per gestione e organizzazione sembra la tipica famiglia bellunese in cui ogni singolo elemento è determinate per mantenere l'equilibrio e la stabilità. L’amore tra Alessio e Sonia si respira all’interno del loro negozio e nei loro prodotti esposti. Alessio possiamo dire che il vostro successo è legato al rapporto tra te e tua moglie? Un azienda portata avanti in ambito familiare da marito e moglie rappresenta un valore in più da trasmettere al cliente, che noi consideriamo un ospite. La difficoltà sta nel scindere lavoro e famiglia evitando il rischio di portarsi a casa il peso del lavoro. E' come essere sposati due volte con la stessa persona, se non trovi un equilibrio difficilmente si va lontani. Io e Sonia ci voliamo bene e consideriamo la nostra attività come la figlia femmina che non abbiamo mai avuto. Pasticceria vuol dire continui aggiornamenti pur non dimenticando la tradizione? Essere pasticcieri oggi vuol dire avere una grande conoscenza delle materie prime e un continuo aggiornameno sulle tecniche di lavoro. Quando realizzo un opera la immagino come se la dovessi mangiare io ed oltre alla bontà cerco di trasmettere l'emozione e la passione che metto nel mio la-
voro. Il difficile spesso è trovare la giusta alchimia ed equilibrio tra materie prime diverse al fine di soddisfare tutti i palati, fare continui corsi di aggiornamento è fondamentale in questo settore. Qual è il tuo legame con la ricerca di materie prime tipiche bellunesi? Giro tante fiere di paese nella Valbelluna e li trovo tanti prodotti che prima assaggio e poi porto nel mio laboratorio dove sperimento nuove ricette per incuriosire e sorprendere gli ospiti della mia attività. I prodotti dei nostri territori non solo sono buoni ma meritano di essere valorizzati e promossi. Come vedi il futuro nel settore dolciario locale? Fare il pasticciere è un lavoro di grande difficoltà e che comporta molti sacrifici. Nonostante questo riservi enormi soddisfazioni e ti permette di valorizzare la tua creatività. La tenacia è alla base di tutto, infatti devi passare tanto tempo nel laboratorio. E' importante che la scuola faccia capire che questo lavoro non è solo divertimento, come spesso appare dalla tv, ma dietro c'è sudore, ricerca, studio, creatività, passione e sacrificio. Fare il pasticciere è una dote bellissima che non appartiene a tutti. 39
Lo scoutismo a Feltre
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nche a Feltre ci sono gli scout. Ci sono dal 1957, con sede presso la parrocchia del Sacro Cuore, fino a qualche anno fa retta dai padri francescani conventuali. La presenza degli scout è certamente una ricchezza per il capoluogo del Feltrino. Lo è per i ragazzi dagli 8 ai 21 anni e per le loro famiglie, che nella proposta scout possono trovare un percorso educativo attraente ed efficace. Ma lo è anche per gli adulti (dai 22 anni in su), che nello scoutismo possono individuare un ambito speciale nel quale vivere il volontariato e così dare un contributo fattivo alla crescita della società. Nello specifico, gli adulti che si offrono per un servizio educativo tra gli scout si chiamano “capi”.
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È così fin dal 1907, quando il fondatore dello scoutismo, Robert Baden-Powell organizzò il primo campo scout. Essendo egli un ex militare, chiamò “capi” gli educatori del suo movimento. Con questo però non intendeva militarizzare il mondo dell’educazione bensì introdurre nell’ambito pedagogico tutto il meglio che egli aveva sperimentato nella sua esperienza professionale e umana. Essere capo è una grande fortuna, perché permette di costruire “un mondo migliore” attraverso l’educazione dei giovanissimi. Si tratta dunque di una esperienza di grande rilevanza non solo educativa, ma anche culturale e politica (intendendo per politica la cura del “bene comune”). Inoltre essere capo è una fortuna perché stimola la propria crescita personale. Se per gli adulti è fondamentale partecipare ad un percorso di “formazione continua” per consolidare la propria competenza umana e professionale, questo è tanto più vero per un capo. Ecco dunque che un capo scout è chiamato continuamente a seguire dei corsi e degli approfondimenti, in cui affinare le sue capacità. Un ulteriore aspetto che rende desiderabile il fatto di diventare capo, è che come capi scout si lavora sempre “in squadra”, e la possibilità di collaborare e confrontarsi con altri adulti che condividono gli stessi obiettivi è certamente molto arricchente. Anche se non si può negare che essere
capi scout risulti molto impegnativo, chi è già stato capo può garantire che le soddisfazioni ripagano ampiamente i sacrifici richiesti. Proprio per incentivare l’adesione degli adulti al mondo scout, i capi del gruppo scout “Feltre 1” hanno recentemente messo in circolazione un manifesto sensibilizzatore. In cima all’elaborato grafico si trovano due simboli: quello del Feltre 1, richiamante gli oltre 60 anni di attività del gruppo, e quello dell’AGESCI, Associazione Guide e Scout Cattolici Italiani, di cui il Feltre 1 fa parte. Seguono due domande, le quali richiamano il fatto che il mondo scout è ricco di avventura, e che in esso gli adulti over 21 possono fare attività educativa con bambi-
ni e ragazzi. Poi il titolo principale: “La Comunità Capi sta cercando proprio te!”. Con questo si sottolinea che il gruppo non è nelle mani di alcuni capi singoli, ma è invece affidato ad una “Comunità Capi”, che insieme portano avanti la vita del sodalizio e che sono aperti al contributo di altri adulti desiderosi di mettersi in gioco. Segue l’invito a dare sfogo alla propria curiosità comunicando
Lo scoutismo a Feltre
con i contatti indicati in calce. Il manifesto è completato da uno sfondo di tre colori: giallo e verde, che sono i colori del fazzolettone del gruppo, e azzurro, il colore della camicia dell’uniforme scout AGESCI. Tra un capoverso e l’altro si scorgono tre belle immagini. La prima si riferisce ai lupetti, bambini tra gli 8 e gli 11 anni, impegnati in un gioco di manualità. La seconda immagine riporta delle persone in
cammino con lo zaino su una strada di montagna: sono i rover e le scolte, i giovanissimi tra i 17 e i 21 anni, che fanno proprio della strada il loro specifico ambiente educativo. La terza foto invece raffigura una squadriglia di esploratori e guide (così si indicano i ragazzi e le ragazze tra i 12 e i 16 anni) che posano felici dopo aver realizzato una piccola costruzione di pioneristica. Oltre al manifesto appena descritto, nei prossimi giorni sui canali social comincerà a girare anche un video che comunica gli stessi contenuti. La Comunità Capi del Feltre 1 si augura davvero che questa campagna informativa possa servire a raggiungere nuovi candida-
ti ad essere capo, così che si possa realizzare un doppio obiettivo: da una parte avere delle persone in più che godono di questa esperienza da educatori, e dall’altra garantire ai ragazzi del Feltrino la possibilità di essere educati secondo i principi dello scoutismo.
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La giusta distanza
Una rivalutazione di Edward Hall e dei suoi studi sulla Prossemica
“
Per favore, mantenere una distanza di almeno un metro”: questa è la raccomandazione che oramai siamo abituati a leggere all'entrata dei diversi servizi e a cui piano piano ci siamo tutti adeguati nel tentare di limitare il contagio da Covid 19. In realtà, anche se a livello inconscio, tutti noi ci interroghiamo su quale è veramente la giusta distanza da mantenere tra gli individui nei diversi contesti soprattutto perché non è solo la paura del contagio ad imporre un certo distanziamento. Edward Hall è stato un antropologo americano che dopo aver studiato a lungo il
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comportamento territoriale degli animali ed averlo rapportato agli esseri umani, ha elaborato una disciplina specifica che prende il nome di “Prossemica”. Nel corso dei suoi innumerevoli viaggi, Edward Hall ha osservato come i sistemi culturali possano influenzare l’uso dello spazio e come tale uso influenzi la comunicazione fra le persone. Colloquiare nel mezzo di un mercato mediterraneo o all'interno di un'aula di tribunale statunitense impone distanziamenti, ovvero prossemiche diverse. E' facilmente intuibile infatti che il distanziamento tra persone dipende dal loro status, età, genere e ambiente. Meno intuibile è invece il fatto che tale distanziamento è caratterizzato anche da una comune influenza del passato biologico dell'essere umano. È infatti nell'etologia e nello studio del rapporto tra organismi e ambiente che Hall trova un terreno fertile per
le sue ricerche. Hall estende i principi osservati dagli etologi dei meccanismi di spaziatura negli animali non umani allo studio dell'uso dello spazio negli incontri umani. Secondo l'etologo svizzero Heini Hediger, “ogni animale è circondato da una serie di bolle o palloncini di forma irregolare che servono a mantenere un corretto distanziamento tra gli individui”. Questo spazio potrebbe essere immaginato come una sfera o una “bolla” che ingloba un organismo e lo separa dagli altri. Hediger individua quattro tipi di distanze tra animali non umani, a seconda che si tratti d'incontri tra animali della stessa specie o di specie diverse:una "distanza di conflitto" e una "distanza critica" all'interno degli incontri tra specie diverse e una "distanza personale" e una "distanza sociale" nelle interazioni intraspecifiche. E Edward Hall sviluppa esattamente queste tesi focalizzandosi però sulla nostra specie (Homo Sapiens) e descrivendo in dettaglio le sue teorie in due sue opere principali scritte tra il 1966 ed il 1968: “Il linguaggio silenzioso” e “La dimensione nascosta”. Ancora oggi i testi di Hall sono studiati e ritenuti di massimo interesse per comu-
Uomo, natura e ambiente nicatori, studiosi delle scienze sociali ma anche architetti e progettisti urbani ed è oramai dato per scontato che ogni rapporto che ci pone a confronto con “l’altro” implica una precisa distanza che a sua volta porta in se un significato specifico. Peccato che salvo qualche raro studio di nicchia, le teorie sulla “dimensione nascosta”, sulla nostra “bolla” individuale, non abbiano fatto ulteriori passi significativi in avanti dopo Hall. Ai giorni nostri, con la comparsa della pandemia Covid, una visione “etologica” del distanziamento, ovvero delle basi biologiche scritte nel nostro DNA, può smorzare i toni polemici con cui spesso l'argomento viene trattato, rilanciare la conoscenza e stimolare l'interesse per il campo della Prossemica. Soprattutto in riferimento all'ergonomia del lavoro, alla sanità e all'affollamento dei luoghi pubblici, nuovi studi e approfondimenti potrebbero apportare importanti novità
non solo in ambito accademico ma miglioramenti nella vita quotidiana di tutti. Le recenti misure di sicurezza anti-Covid adottate a livello internazionale, le norme culturali locali e la percezione del rischio individuale hanno concorso a generare effetti a lungo termine di cui ancora non ne realizziamo la portata complessiva anche se forme di disagio si sono già registrate soprattutto tra specifiche categorie (gli adolescenti, gli anziani nelle RSA ad esempio). Ricorrere ad un sapere razionale, scientifico ed aperto è però l'unica strada percorribile per non farci sopraffare da una eccessiva emotività e diventare prede di manipolatori pronti a scatenare il panico da una poltrona dei tanti talk-show. Accusare i nostri simili di “paranoia” solo
perché si scansano un po' da noi quando siamo in fila al supermercato non serve a nulla. Tacciare di ipocondria chiunque non ama scambiare baci e abbracci, spesso solo di circostanza, non aiuta a vivere meglio. Cerchiamo invece di mantenere la giusta distanza, fisicamente ma soprattutto psicologicamente da finti dettami di norme sociali così arbitrarie: è la natura stessa che ce lo suggerisce.
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36esima Mostra dell’Artigianato di Feltre
Il saluto del Presidente Luciano Gesiot dare, anche in termini di soddisfazioni professionali per chi decide di cimentarsi con l’arte del saper fare. Viviamo tempi complicati, sotto molti punti di vista, e ci chiediamo tutti come poterne uscire nel migliore dei modi. Personalmente credo che una delle opportunità che abbiamo davanti a noi sia quella di recuperare gli aspetti migliori delle nostre radici e del nostro patrimonio di tradizioni. In questo senso il settore artigiano, in particolare quello artistico e di qualità, rappresenta un tesoro per certi
versi ancora in parte nascosto, con grandi potenzialità. E questo sia, più direttamente, sul piano economico che, in maniera indiretta, come elemento qualificante di un rilancio complessivo della città e dei territori, dove il bello rappresentato dall’artigianato artistico di qualità è parte integrante anche dell’offerta turistica. Così immaginiamo e vogliamo la nostra Feltre e il suo comprensorio e in questa direzione continueremo a lavorare affinché questo disegno si realizzi. A voi tutti auguro una 36esima Mostra dell’Artigianato carica di bellezza e, perché no, di voglia di stare insieme! Luciano Gesiot Presidente della Mostra dell’Artigianato di Feltre
36A Mostra dell'Artigianato "Città di Feltre"
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n onere, certo, ma soprattutto un grande onore. Questo rappresenta per me guidare, anche in questa 36esima edizione, il Comitato Organizzatore della Mostra dell’Artigianato Artistico e Tradizionale “Città di Feltre”. Un rapporto, quello che mi unisce a questa manifestazione, che si è intensificato e radicato nel tempo, grazie a quello spirito di autentica passione che rappresenta il motore della Mostra. Proprio per questo il mio primo ringraziamento va a tutti coloro che, dentro e fuori il Comitato, lavorano per la buona riuscita di uno degli appuntamenti di maggior tradizione e richiamo non solo pe la città di Feltre, ma
per tutto il territorio bellunese e veneto. Lo si deve a loro, anzitutto, se la “nostra” mostra non si è mai fermata, nemmeno in questi due ultimi terribili anni, caratterizzati dalla pandemia. La Mostra dell’Artigianato si è dimostrata, una volta di più, forte e resiliente, come forti e resilienti sono gli artigiani, oggi forse più di ieri chiamati a tramandare con tenacia e sacrificio il loro sapere alle nuove generazioni. E proprio a loro, i nostri giovani, voglio riservare un saluto e un pensiero particolari. Vi invito personalmente, cari giovani e ragazzi, a visitare la mostra dell’Artigianato di Feltre - magri in compagnia dei vostri familiari - non solo per vedere da vicino e toccare con mano quali straordinari oggetti riescano a realizzare i nostri artigiani, ma anche per parlare con loro, farvi raccontare le loro storie, l’origine dei loro mestieri. Vi invito, in breve, a conoscere più da vicino il meraviglioso e poliedrico mondo dell’artigianato, che tanto ha dato alla nostra terra, ma tanto può ancora
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36esima Mostra dell’Artigianato di Feltre
Il saluto del Comune di Feltre
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che l’arte artigianale feltrina, bellunese e veneta, ma anche nazionale, è in grado di produrre oggi, senza dimenticare la tradizione. Una tradizione che nel nostro territorio affonda le sue radici in figure ed esperienze di altissimo profilo, come quelle di Carlo Rizzarda, grandissimo maestro della lavorazione del ferro battuto e fondatore di quella scuola che tanto lustro ha dato alla nostra città. Se il settore artigianale rappresenta oggi ancora un nervo vitale della nostra comunità e della sua economia, e si pro-
pone anzi come comparto dalle nuove prospettive di crescita e di sviluppo, lo si deve anche a manifestazioni come la Mostra e a chi da anni crede nella sua mission, infondendovi passione, competenze ed energie. Permetteteci, quindi, un doveroso ringraziamento a tutto il comitato organizzatore della Mostra dell’Artigianato ed in primis al suo presidente Luciano Gesiot e al direttore Dino Cossalter, che - attorniati dai loro validi collaboratori - costituiscono l’asse portante della rassegna. Siamo sicuri che, in un clima che auspichiamo tutti di ritrovata maggiore libertà e serenità, la Mostra saprà vivere una nuova primavera di crescita e di successo, grazie alle sue proposte imperniate sulla cura dei materiali, sulla promozione della bellezza e del “saper fare”, sullo straordinario patrimonio di arti e mestieri che il nostro territorio ha saputo e sa proporre. A tutti Voi, concittadini, visitatori, e organizzatori, auguriamo una 36esima edizione della Mostra dell’Artigianato Artistico e Tradizionale “Città di Feltre” carica di soddisfazioni! Viva la Mostra dell’Artigianato!
36A Mostra dell'Artigianato "Città di Feltre"
entili visitatori della Mostra dell’Artigianato e cari concittadini, è con sincero piacere che Il Comune di Feltre Vi porge i saluti e Vi dà il benvenuto alla vigilia di questa 36esima edizione della Mostra dell’Artigianato Artistico e Tradizionale “Città di Feltre”. Si tratta di una manifestazione che, come ben esprime anche il numero delle rassegne sin qui svoltesi, è oramai connaturata alla storia recente della nostra città e ne rappresenta a pieno la vitalità e la “voglia di fare”. La Mostra non si è mai fermata, nemmeno in questi due ultimi, difficilissimi, anni; non si è fermata lo scorso anno, quando è tornata nella sua formulazione tradizionale, tra i primissimi esempi a livello nazionale di manifestazioni di questo tipo nuovamente aperte al pubblico; non si è fermata nemmeno nel 2020, l’annus horribilis dell’esplosione della pandemia, quando il comitato organizzatore ha voluto proporre comunque il concorso di forgiatura, pur in un altro periodo dell’estate. Sono segni evidenti, questi, della forza della rassegna e della sua vivacità ed anche della richiesta del pubblico di poter avvicinare, vedere e toccare ciò
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cultura, tradizione e innovazione. Cassa Rurale Dolomiti sostiene le imprese attraverso un appuntamento che promuove gli antichi mestieri e l’artigianato 4.0, imprese che possono rispondere alle esigenze delle nuove generazioni e di tutto il territorio. Cassa Rurale Dolomiti Il Presidente Carlo Vadagnini
36A Mostra dell'Artigianato "Città di Feltre"
a Mostra dell’Artigianato è un viaggio entusiasmante alle radici della creatività con un’ampia varietà di manufatti che strizzano l’occhio all’innovazione tecnologica e alla sostenibilità. Cassa Rurale Dolomiti sostiene questi valori e garantisce il supporto a iniziative come questa rassegna, che rappresenta un patrimonio di ricchezza,
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36esima Mostra dell’Artigianato di Feltre
Il saluto del Presidente della Camera di Commercio
di Treviso - Belluno|Dolomiti
È
con grande piacere che anche quest’anno invito a scoprire la mostra dell’artigianato nella bella città medievale di Feltre. Un’occasione unica che dà risalto alla bellezza dell’artigianato di qualità espressione di cultura, esperienza, passione e ricerca di nuove espressioni creative. Il tutto in un connubio che è assolutamente unico: la città accoglie la mostra dell’artigianato
e la mostra accompagna il turista, in un percorso di conoscenza e di acquisto, facendo scoprire gli angoli più belli della cittadina. Per la Camera di Commercio sostenere questa iniziativa significa dare valore all’opera artigianale dell’uomo nelle economie dei territori e nel dialogo sociale tra tradizione e futuro rappresentato dai giovani. Rappresentiamo nei percorsi dei centri storici il “Made in Italy” che tutto il mondo ci invidia. Presidente Camera di Commercio di Treviso - Belluno|Dolomiti Mario Pozza
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A Feltre una quattro giorni di Arte, Creatività e Spettacolo
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a Mostra dell’Artigianato Artistico e Tradizionale nasce nel 1986 con l’intento di dare spazio e visibilità all’artigianato di qualità in un contesto unico al mondo: il centro storico di Feltre. Una cittadella antica, in larga parte riedificata dopo l’incendio del 1510, che ancora oggi ricorda la sua storia con il Palio, manifestazione-regina che si tiene nel primo fine settimana di agosto, in cui si celebra la dedizione della città alla Repubblica di Venezia. In occasione della Mostra gli androni dei palazzi, le strade e le antiche case diventano la cornice ideale per l’esposizione dei prodotti artigianali, che attirano un pubblico sempre più numeroso. Il contesto artistico e architettonico assolutamente unici fanno da sfondo anche ad una serie di manifestazioni collaterali che da sempre hanno accompagnato la Mostra: spettacoli teatrali, concerti, cene a base di piatti tipici e dimostrazioni di tecniche artigianali. Attraverso le dimostrazioni pratiche dei vari mestieri riaffiora la complessità e il fascino di un processo lavorativo il cui risultato finale è un prodotto di altissima qualità plasmato da mani sapienti.
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Proprio in occasione della Mostra sono numerose le possibilità di visita ai luoghi che custodiscono il patrimonio artistico feltrino: tra di essi, solo per citare i principali, la Galleria di Arte Moderna Carlo Rizzarda - con la sezione del ferro battuto composta da oltre 400 manufatti e numerose opere di artisti moderni, oltre alla collezione di vetri artistici veneziani Nasci-Franzoia – e il Museo Civico, contenente dipinti, manufatti d’arte popolare, di artigianato religioso e memorie patrie e dove è stata recentemente aperta una nuova sezione archeologica. Si possono poi visitare le due suggestive torri dell’Orologio e del Campanon, da poco restaurate, che sovrastano la città a lato del castello di Alboino. Per quattro giorni la città si riempie di suoni e colori che ci riportano a un glorioso passato in cui Feltre, cittadina dedita all’artigianato, primeggiava nella lavorazione del tessuto, del legno, del ferro e della
pietra. Il territorio feltrino primeggia, infatti, fin dagli inizi del ‘400 nell’arte della forgiatura creando spade per la Repubblica di Venezia e per gli eserciti europei. La pietra, inoltre, viene sapientemente usata nelle lapidi e negli stemmi rinascimentali ben visibili in tutta la cittadella. Un amore, quello per l’artigianato, che la città ha sempre coltivato e che trova una naturale celebrazione in una Mostra che ci accompagna da 35 anni, riconosciuta non solo a livello regionale ma anche a livello nazionale grazie alle collaborazioni con maestri artigiani di tutta Italia. Protagonisti anche quest’anno saranno i fabbri che parteciperanno al concorso di forgiatura e al premio intitolato al maestro Carlo Rizzarda. Il Premio “C. Rizzarda”, appunto, è riservato a maestri artigiani del ferro battuto iscritti all’albo artigiani che espongono negli stand della Mostra dell’Artigianato le loro opere. Opere “originali” (che non siano state ammesse o presentate in altri concorsi, mostre nazionali e/o internazionali), ma create esclusivamente per la Mostra di Feltre.
36esima Mostra dell’Artigianato di Feltre
LA STORIA DELL'ARTIGIANATO
manualità, arte e tecnica
segreti del mestiere. A difendere la professionalità e i diritti degli artigiani erano chiamate le Corporazioni delle Arti e Mestieri, risalenti all'epoca romana dove venivano denominate "Corpus" o Collegium". L'imperatore Diocleziano (284-305 dc), arrivò per stima a renderle obbligatorie ma soprattutto ereditarie. Le Corporazioni esercitavano un rigido controllo sulle materie prime garantendo il corretto processo lavorativo. Gli artigiani erano così tutelati anche contro gli incompetenti: il loro lavoro era classificato "a regola d'arte" e ciò li difendeva da improvvisatori o falsari. L’artigiano oggi è un piccolo imprenditore che ha saputo unire e far convivere la manualità e l’esperienza dei grandi maestri
di bottega del passato con le nuove tecnologie digitali e i nuovi mezzi di comunicazione e di marketing a disposizione. Diversamente dall'antichità, dove c'erano diversi intermediari, l'artigiano provvede quasi sempre anche alla vendita del proprio prodotto. L’artigianato in Italia rappresenta una storia fatta di tradizioni e mestieri tramandati da padre in figlio,una consuetudine con la quale si sono conservati i segreti del mestiere sviluppando contemporaneamente nuove tecniche da applicare a materiali diversi. Per questo creare un prodotto artigianale, significa dare l’opportunità a qualcuno di entrare in possesso di una fetta di storia e tradizione; si regala l’acceso a un percorso continuo di scambio di esperienze, sia culturali che sociali. Con l’avvento delle prime industrie, l’artigianato sembrava aver avuto un arresto, ma negli ultimi cinquant’anni si è avuto un processo in controtendenza, con un ritorno al lavoro fatto a mano e all’eccellenza del prodotto artigianale. A facilitare la vendita, lo scambio dei prodotti provvedevano i mercati di paese sostituiti oggi dalle mostre mercato locali o nazionali.
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a legge italiana considera imprenditore artigiano "colui che esercita personalmente, professionalmente e in qualità di titolare, l’impresa artigiana, assumendone la piena responsabilità con tutti gli oneri ed i rischi inerenti alla sua direzione e gestione e svolgendo in misura prevalente il proprio lavoro, anche manuale, nel processo produttivo". Secondo questa definizione poco lo differenzia dall' imprenditore industriale se non l'intervento diretto nel lavoro anche manualmente e questo spiega perché la parola artigiano è strettamente correlata linguisticamente e storicamente all'arte. Nel Medioevo tutto era arte, esisteva la parola artista, mentre artigiano era parola sconosciuta ma l'artigiano era comunque e alla pari figura altamente professionale. Etimologicamente la parola artigiano viene dal latino "Ars" che significa "metodo pratico o tecnica" e proprio come un artista egli aveva grande considerazione sociale ed economica. Il "mestiere s'imparava a bottega" ovvero entrando come apprendista o garzone presso il laboratorio di un artigiano affermato. Michelange-
lo venne assunto alla bottega del Ghirlandaio e imparò le prime tecniche di cui è rimasto maestro indiscusso. Così era anche per i più semplici artigiani che lavoravano il ferro, la pietra, la pelle, lana, il legno...presso i quali, poco pagati e in qualche caso perfino pagando, si apprendevano i
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36esima Mostra dell’Artigianato di Feltre
Focus nazionale: le imprese artigiane tornano a crescere
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settore artigiano. “Ciò significa, come ha sottolineato Andrea Prete, presidente di Unionacamere, che tra gli italiani c’è un rinnovato ottimismo, una voglia di ‘”fare” mettendosi
in proprio, che mi auguro si protragga e possa continuare nei prossimi mesi”. E i numeri, riferiti a livello ragionale, ci dicono che è la Lombardia la prima regione per crescita in valore assoluto con circa 1.700 imprese in più nei primi nove mesi. Seguono nella classifica regionale (con un incremento di oltre 1.000 imprese, il Piemonte (1200 circa), Lazio (1.066), Campania (1.009), Trentino Alto Adige (475) e la Sardegna con 537 unità. Per quanto riguarda invece le regioni che in questo periodo hanno subito una riduzione di imprese artigiane troviamo le Marche (-431 unità), Abruzzo ( - 148), Molise (-42) e infine l'Umbria (-35).
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econdo i dati prodotti dall'ultima analisi Movimprese riferita al ai primi mesi del 2021, condotta da Unioncamere e InfoCamere, sui dati del Registro delle Imprese delle Camere di commercio (considerando il bilancio tra iscrizioni e cessazioni di attività del comparto) le imprese artigiane sono cresciute di oltre 9mila unità attestandosi, nel nostro paese, a quasi 1milione 300 mila unità. Un tasso di crescita dello 0,67% rispetto alla fine del 2020. Un aumento questo che quantifica una netta ripresa e documentata risalita del
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36esima Mostra dell’Artigianato di Feltre
PROGRAMMA
Condiviso con la sezione CAI di Feltre
Giovedì 30 giugno 2022
- Ore 18:00 Cerimonia di inaugurazione della 36^ edizione della Mostra dell’Artigianato artistico e tradizionale Città di Feltre presso Sala degli Stemmi con indirizzi di saluto delle autorità ed intervento del presidente del CAI Feltre in occasione del centenario della sezione. - Ore 18:00 Apertura stand espositivi in Centro Storico - Ore 19:00 Esibizione Banda e Sbandieratori Città di Feltre - Ore 19:30 Buffet inaugurale - Ore 20:30 Spettacolo teatrale in Piazza Maggiore “La Locandiera” a cura della compagnia teatrale “I Sedegot” - Dalle 20:30 alle 23:30 maestri artigiani del ferro battuto - Concorso di forgiatura in Largo Castaldi - Dalle 20:30 alle 23:30 simposio di scultura su legno in Centro Storico - Ore 23:00 Chiusura stand
Venerdì 01 luglio 2022
- Ore 10:00 Apertura stand espositivi - Dalle 10:00 alle 23:30 maestri artigiani del ferro battuto - Concorso di forgiatura in Largo Castaldi - Dalle 10:00 alle 23:30 simposio di scultura su legno in Centro Storico - Dalle ore 15:00 apertura stand commerciali in Largo Castaldi - Dalle ore 19:00 intrattenimento musicale in Piazza Trento e Trieste - Ore 20:00 Cori di montagna in piazza Maggiore - rassegna "Sul Pajon" - Ore 20:30 Davide Pegoraro, lo scrittore del Grappa: “La guerra di Battista” - Sala degli Stemmi - Ore 23:00 Chiusura stand
Sabato 02 luglio 2022
- Ore 10:00 Apertura stand espositivi - Dalle 10:00 alle 23:30 maestri artigiani del ferro battuto - Concorso di forgiatura in Largo Castaldi - Dalle 10:00 alle 23:30 simposio di scultura su legno in Centro Storico - Ore 16:30 premiazione alunni meritevoli Scuola Edile di Belluno presso la Sala degli Stemmi - Dalle ore 19:00 intrattenimento musicale in Piazza Trento e Trieste - Ore 20:30 Concerto Coro Vocincanto - Quando le cime (Museo Diocesano) - Ore 21:00 Spettacolo in Piazza Maggiore. concerto di musica jazz. A seguire, dall’EXPO di Dubai, l’installazione musicale “Sky Piano” - Ore 23:00 Chiusura stand
Domenica 03 luglio 2022
- Ore 10:00 Apertura stand espositivi - Dalle 09:00 alle 12:00 maestri artigiani del ferro battuto - Concorso di forgiatura in Largo Castaldi - Dalle 10:00 alle 15:00 simposio di scultura su legno in Centro Storico - Ore 17:00 Proclamazione dei vincitori del premio Carlo Rizzarda e del Concorso di forgiatura A seguire premiazione dei partecipanti al simposio di scultura su legno - Ore 18:00 Cerimonia di chiusura della 36^ Mostra dell’Artigianato Artistico e Tradizionale Città di Feltre. A seguire chiusura della manifestazione in occasione del centenario del CAI di Feltre - Ore 21:00 Chiusura stand
- Mostre all'interno del centro storico durante la manifestazione
- Due i punti di ristoro previsti: al Vescovado Nuovo, organizzato dal GILF e al Castello di Alboino
Tutti i giorni dimostrazioni dal vivo di lavorazioni su vetro, catapesta, tessitura e ceramica
QUI IL PROGRAMMA AGGIORNATO QUI L'ELENCO COMPLETO DEGLI ESPOSITORI 62
Il programma potrà subire variazioni per motivi organizzativi o cause atmosferiche.
36esima Mostra dell’Artigianato di Feltre
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36esima Mostra dell’Artigianato di Feltre
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Via Guadagnini, 3 - 38054 Fiera di Primiero (TN) - Tel. 0439.62350 agenzia.feltreprimiero.it@generali.com
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Rappresentanti Procuratori Cav. Fiorenzo Perotto Rappresentanti Procuratori Dott. Fabio Candolo
Cav. Fiorenzo Perotto Sig. Ollanu Simone
Dott. Fabio Candolo Sig. Ollanu Simone
L'Arte in evidenza di Sonia Sartor
Le colline a colori
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l 22 aprile scorso a Conegliano, nella cornice di palazzo Sarcinelli, è stata inaugurata la mostra “Le colline a colori. L’arte del patrimonio Unesco.” Oltre 40 artisti tra pittori, ceramisti, fotografi, compiono un itinerario alla riscoperta delle colline tra Conegliano e Valdobbiadene. La mostra è stata promossa dall’assessorato alla Cultura del Comune di Conegliano e dall’associazione La Chiave di Sophia con il Patrocinio della regione del Veneto, della Provincia di Treviso, e di 14 comuni del territorio Unesco. Nella terra del Prosecco Superiore DOCG, vino dal prestigio internazionale, gusto e bellezza si uniscono per offrire al visitatore l’esperienza di un viaggio tra cantine, degustazioni, vigneti e piccoli borghi. L’aspetto a mosaico, identificativo dell’area collinare, è strettamente connesso all’esperienza di pratiche ambientali e storiche promosse dai viticoltori attraverso un uso virtuoso del territorio. È stato
infatti possibile preservare la biodiversità e l’equilibrio ecologico dell’area, attualmente simboleggiati dalla coesione di vigneti sui ciglioni con piccoli boschi, siepi e filari di alberi. Il riconoscimento delle Colline a patrimonio Unesco, dopo un lungo iter iniziato nel 2008, è stato ottenuto nel 2019 nel corso della 43^ assemblea tenutasi a Baku. Le suggestioni e gli scorci provenienti da questa terra sono tradotti in arte tra le sale del palazzo rinascimentale e saranno fruibili fino al 26 giugno, data che coincide con il termine della mostra. La curatrice dell’esposizione Lorena Gava attribuisce alle opere esposte la forza di coinvolgere ed incuriosire lo spettatore. Ciascun artista tra i presenti racconta un luogo specifico del patrimonio culturale, un luogo del cuore dal quale hanno origine idee ed ispirazioni. Molteplici sono anche le dinamiche ed i momenti messi in scena. Luciana Vettorel Ghidini, originaria di Tezze di Piave, in Ricordo di un mattino tra Follina e Cison imprime su tela uno scenario semplice e genuino capace di dare vita a riflessioni profonde: una tazza di caffè posizionata su un davanzale oltre il quale si staglia lo scenario collinare. Un’immagine senza alcun dubbio familiare che evoca la sottile sensazione di un momento di quiete. Gina Roma, nata a Vazzola, nell’opera Il sole nella vigna celebra l’incontrastata forza della natura rappresentata dalla luce solare che filtra tra i grappoli d’uva dei vigneti.
Nelle opere di Claudio Feruglio invece a dominare la scena è il colore rosso volto a descrivere una prospettiva che vede protagoniste le Colline al tramonto. Responsabili dell’arricchimento della mostra sono numerosi eventi quali spettacoli, passeggiate e conferenze programmati con la finalità di presentare il territorio in tutte le sue sfumature. Il sindaco di Conegliano Fabio Chies ha insistito sull’importanza che si cela nella decisione di rendere gratuito l’accesso all’esposizione così da incentivare la conoscenza di un patrimonio unico al mondo. Lo spirito con cui è stata allestita la mostra sembra connettersi armoniosamente con la citazione dell’autore italiano Fabrizio Caramagna: “Camminare sottovoce con le vigne negli occhi. E la collina trova sempre un modo per accarezzarti”
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Uomo, ambiente e animali di Alice Vettorata
Il villaggio Eni di Borca di Cadore
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egli anni Sessanta alle pendici del monte Antelao, presso il comune di Borca di Cadore, duecento ettari di terreno sono stati destinati a dare luogo a un esperimento sociale di rilievo, il quale in modo pionieristico ha affrontato tematiche che tutt’oggi sono ancora in fase di sviluppo e miglioramento. Dalla salute mentale, spirituale e fisica dei lavoratori, all’impatto ambientale dell’urbanizzazione, in fattispecie nei contesti montani. Questi sono alcuni degli aspetti che sono stati tenuti in considerazione per realizzare l’ambiente del quale si tratterà nel
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corso di questo articolo. Grazie all’innovativa visione e agli ideali di Enrico Mattei, imprenditore icona degli anni Cinquanta e Sessanta noto soprattutto per essere il fondatore dell’azienda Eni, oggi è possibile analizzare uno dei quartieri abitativi da lui ideati. Il villaggio Eni di Borca di Cadore fu creato con una mission ben precisa; garantire il
benessere dei lavoratori del gruppo Eni e delle rispettive famiglie migliorando le
Uomo, ambiente e animali loro abitudini e stile di vita. Motivo per cui il fulcro del progetto è la presenza di 270 villette monofamiliari immerse nella natura, destinate ai nuclei famigliari legati ai lavoratori. Ciò che Edoardo Gellner, architetto che nel 1954 venne incaricato della progettazione dell’ambizioso piano di Mattei riuscì a proporre fu un villaggio privo di gerarchizzazione. Né tra i dipendenti Eni, che a prescindere dalla carica lavorativa vivevano nelle medesime abitazioni, le quali differiscono l’una dall’altra soltanto nella metratura, né tantomeno una gerarchia tra uomo e natura. I singoli nuclei abitativi si amalgamano nel contesto naturale e lo vanno ad arricchire, anziché deturparlo, obiettivo che l’architetto si era prefissato, come spesso affermò durante le interviste. Per gli edifici vennero scelti colori che si combinano con quelli naturali andando a enfatizzare il potere delle tonalità del verde già esistenti nel contesto montano.
Ai 270 miniappartamenti si aggiunsero altri edifici. Una colonia ideata per ospitare fino a seicento bambini e ragazzi, due strutture ricettive situate a valle del villaggio, un campeggio stabile composto da duecento unità e una chiesa. Per la realizzazione di quest’ultima si fa appello a un’ulteriore valida mente dell’architettura. Gellner laureatosi alla RIUAV (Istituto Universitario di architettura a Venezia), ebbe modo di seguire le lezioni tenute da Carlo Scarpa, che a sua volta contribuì alla realizzazione del villaggio Eni di Borca proprio operando alla progettazione della chiesa. La Chiesa Nostra Signora del Cadore, caratterizzata da un campanile alto sessantotto metri, dettaglio che la rende visibile da ogni punto del villaggio è realizzata in ferro, legno, cemento, acciaio e pietra dolomitica, materiali che accomunano sia l’industria sia la montagna. Una commistione equilibrata che non stona in
questa sede. Oltre agli aspetti visti finora che la rendono una struttura innovativa in linea con gli ideali del progetto, all’interno della chiesa è presente un ulteriore elemento sovversivo. Al contrario della convenzione comune ancora attiva nei primi anni Sessanta l’altare è stato posto in modo tale da permettere al sacerdote di celebrare la messa verso il popolo, ulteriore caratteristica che sottolinea la volontà di conferire benessere e centralità a chi veniva ospitato in queste strutture. Il villaggio Eni a Borca di Cadore, dislocato nei pressi di una tortuosa strada di montagna crea paradossalmente un luogo dedicato al benessere, capace di dare validi spunti di riflessione ancora oggi. Come far coesistere il benessere umano, ambientale e animale trovando un equilibrio soddisfacente e pacifico, per tutti i soggetti coinvolti.
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Il personaggio di ieri di Andrea Casna
TESEO TESEI
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eso Tesei rientra fra i personaggi più interessanti della recente storia italiana. Marinaio, militare e inventore, è stato fra gli ideatori di una particolare arma usata nella seconda guerra mondiale dalla Regia marina. Si tratta del siluro a lenta corsa, o ribattezzato anche maiale, copiato e ripreso, inoltre, dalla marina britannica e giapponese. Ma andiamo con calma. Teseo Tesei nasce nel 1909 a Marina di Campo sull'isola d'Elba. Nel 1925 entra all'Accademia Navale di Livorno e nel 1934 consegue il brevetto di palombaro. Il mare è la sua vita ed è affascinato dalle nuove tecnologie e la sua mente è sempre in fermento. Nel 1936 si mette al lavoro per perfezionare l'autorespiratore subacqueo e anche una particolare arma d'assalto sottomarina. Nello stesso anno partecipa anche alla Guerra civile spagnola come tenente del Genio Navale. Nel 1939, con la partecipazione dell'Italia fascista alla Seconda guerra Mondiale, ritorna nuovamente a
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lavorare alle sue invenzioni. Ed è qui che perfeziona la sua principale creatura: il siluro a lenta corsa. Si tratta di un'arma, per l'epoca di nuova concezione, per la guerra sottomarina. Ironia della sorte Teseo Tesei morirà in azione, a Malta, nel luglio del 1941, proprio a bordo di una delle sue invenzioni. Oggi in Italia, vie, piazze e istituti scolastici portano il nome di Teseo Tesei come, per esempio, a Livorno la scuola secondaria di primo grado e l'Istituto Teseo Tesei a Campo nell'Elba. IL SILURO A LENTA CORSA Il siluro a lenta corsa, (o nella sigla ufficiale S.L.C), e ribattezzato dallo stesso Teseo Tesei con il termine "maiale", fu un sommergibile di piccole dimensioni, detto anche tascabile, (questo perché facilmente trasportabile) dalla forma di siluro, particolarmente adatto a trasportare, viaggiando a bassa velocità, due marinai muniti di respiratori subacquei autonomi con carica esplosiva da applicare in modo occulto alle navi avversarie ormeggiate nei porti o a largo delle coste. Tale invenzione, che trae origine dalla mignata di Raffaele Rossetti, usata nella prima guerra mondiale contro la nave austriaca Viribus Unitis, porta la firma di Teseo Tesei e di Elios Toschi. Questa nuova arma fu utilizzata dalla Regia Marina italiana (X° Flottiglia MAS) durante la Seconda guerra mondiale in
azioni finalizzate a sabotare le navi inglesi nel Mediterraneo. Lo stesso Teseo Tesei morì durante un'operazione a Malta nel luglio del 1941. Era esattamente il 26 luglio del 1941 quanto l'inventore italiano, a bordo di una delle sue invenzioni decise, a causa di una serie di guasti e contrattempi, di innescare l'esplosivo rinunciando ad allontanarsi dall'arma prima che esplodesse sotto l'obiettivo: in questa operazione morì anche il 2º capo palombaro Alcide Pedretti. L'invenzione di Tesei fu utilizzata nel corso della Seconda guerra mondiale, e non solo dalla Regia marina. Il 19 dicembre 1941, durante quella che passò alla storia come l'Impresa di Alessandria, i maiali di Teseo Tesei effettuarono la loro forse più importante azione di tutto il conflitto. Nella notte del 19 dicembre de 1941, infatti, tre siluri a lenta corsa riuscirono ad affondare nei pressi del porto di Alessandria d'Egitto le navi militari britanniche Valiant e Queen Elizabeth e una petroliera. Grazie a tale successo, inoltre, gli stessi britannici iniziarono a costruire dei siluri a lenta corsa, ispirandosi proprio a quelli progettati da Teseo Tesei. Siluri simili, inoltre, furono impiegati dai kamikaze giapponesi nel pacifico contro le navi statunitensi.
Gli antichi mestieri di Laura Paleari
I Sarti: l'artigianalità del futuro
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molto strano come, tante volte, una cosa così vicina a noi, così comune, nasconda una storia millenaria e antichissima. Rammendare gli abiti è un lavoro che probabilmente associamo alle nostre nonne, uno scontato passatempo, utile, ma pur sempre un passatempo. Tuttavia parliamo di un mestiere che non solo a dato lavoro a moltissime donne (e uomini, non dimentichiamolo) italiani ma di una vera e propria arte: ogni abito è una creazione, che parte da un modello su carta, per poi “prendere vita” grazie alle sapienti mani di queste persone. Il mestiere di sarto/a è quello di un artigiano a tutto tondo: deve saper disegnare, cucire, riparare, confezionare… deve inoltre possedere una buona dose di pazienza, creatività e al tempo stesso precisione matematica; come in molti altri
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casi di mestieri creativi e artigianali, l’Italia vanta una tecnica e una maestria ammirate in tutto il mondo. Come mai, allora, se ne parla così poco? Diciamo che in generale si parla poco del mondo moda, o meglio, se ne parla, ma in maniera molto superficiale; potremo paragonare questo mondo ad un enorme iceberg, di cui vediamo solo la punta e il mestiere del sarto rappresenta una delle parti più nascoste e profonde. I più grandi stilisti del passato sapevano cucire, disegnare e creare cartamodelli, questo perché la sartoria è la disciplina che ti permette di “capire” un tessuto e solo conoscendo le basi puoi realizzare un grande capo d’alta moda. Ad oggi è una delle figure professionali più ricercate dalle aziende di moda. Il vero e proprio mestiere di sarto nasce
nel medioevo, quando il concetto di moda comincia a delinearsi sempre meglio e le vesti maschili e femminili iniziano a distinguersi in maniera netta. Dal 1400 sappiamo che nacquero i primi “canovacci da sarti”, in pratica i primi cartamodelli della storia ma il più antico repertorio di figurini ci è arrivato dalla città di Milano attraverso una raccolta di illustrazioni risalente al 1500/1600. La vera svolta del lavoro del sarto, non si ebbe tanto con i nuovi strumenti creati, come il ferro da stiro e la macchina da cucire, comunque artefici di un grande cambiamento a livello lavorativo pratico manuale ma con un nuovo concetto della figura del sarto. Questa novità la si deve sopratutto alla figura di Charles Frederick Worth, che nella seconda metà dell’800, cominciò a proporre le proprie creazioni, senza limitarsi a seguire dei modelli pre impostati: nasceva l’Haute Couture (Alta Moda). Ben preso gli ambienti delle sartorie diventarono sempre più ampi e raffinati, dei veri e propri salotti, dove iniziavano ad esserci anche le figure dello stilista e dell’indossatore. Le prime scuole sartoriali nasceranno già nell’ottocento nella città di Napoli, famosa ancora oggi per i suoi maestri d’alta sartoria; ma la vera e propria “Università dei Sartori” nacque nel 1574, grazie a Papa Gregorio XIII, nella chiesa di S. Omobono (Campidoglio), in seguito a molte vicissitudini, la sede dell’Accademia venne spostata per poi stabilirsi, attualmente, in via Francesco Crispi 115, a Roma. Negli anni sessanta-settanta del 900 la
Gli antichi mestieri moda italiana è al suo culmine, ogni nazione guardava e prendeva ispirazione dal bel paese e dagli artisti del tessuto che creavano meravigliosi capi. Contemporaneamente, nacque il prêt-àporter (letteralmente “pronto da portare”), abiti creati in taglie standard per tutti e non più su misura che portò ad un graduale “appiattimento” della figura del sarto. Questa fondamentale figura, insieme a tante altre, venne messa in ombra dalle nuove e ormai affermate star del momento: gli stilisti; spesso romanticizzati dalla stampa, diventando così delle caricature di se stessi in molti casi e, così facendo, creando stigmi sul mondo lavorativo della moda. Tuttavia, oggi, così come molte altre professioni antiche e artigianali, il lavoro sartoriale sta ritornando di moda, forse complice il sempre maggior desiderio di personalizzare capi di abbigliamento e
accessori; sentirsi unici e speciali, diventa importante ogni giorno di più Ogni cliente ha le sue esigenze e i suoi gusti e un bravo sarto deve avere l’acume di capirlo, comprenderlo e interpretarlo, non solo in base alla fisicità ma anche alla personalità, poiché ogni abito è realizzato su misura, è un pezzo unico. In un era sempre più digitalizzata abbiamo bisogno di riconnetterci con le materie prime, reali e tangibili, una ripresa verso ritmi più umani (Slow fashion) e meno da superuomini (Fast Fashion).
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Il personaggio di Alice Vettorata
Sebastiano Venier
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i troviamo indicativamente nel corso del XV secolo e passeggiamo nella città di Venezia. Camminando per le calli incrociamo uomini abbigliati con vestiario tinta cremisi, un colore in voga in questo periodo che veniva ricavato dalla lavorazione degli insetti femmina della cocciniglia. Oltre a ciò, gli uomini che ci passano vicino sono coperti da un mantello adornato di
pelliccia, spesso bianca con delle chiazze nere o tessuti broccati finemente lavorati. Mentre li vediamo avanzare notiamo che uno di loro porta sul capo, sopra di una cuffia bianca, un indumento inusuale e appuntito. Viene chiamato “corno” ed è divenuto il cappello emblema della maggiore carica politica presente a Venezia, quella del capo di Stato della Repubblica; il Doge. Dal 1577 se fossimo stati dei cittadini veneziani avremmo potuto ammirare in queste vesti Sebastiano Venier, colui che divenne l’ottantasettesimo Doge della Repubblica di Venezia. Al suo nome sono state dedicate numerose strade, soprattutto nelle città del nord Italia le quali furono sotto il dominio della Repubblica veneziana. Infatti Padova, Treviso e ovviamente Venezia condividono con Feltre una via intitolata a Sebastiano Venier. Prima di ricoprire questo prestigioso ruolo Venier si interessò all’àmbito giuridico, operando in quanto avvocato per un breve lasso di tempo.
La sua carriera mutò notevolmente nel 1548 anno in cui si avvicinò a quello che sarebbe stato il compito più significativo del suo percorso. Divenne prima uno degli amministratori del governo e contemporaneamente duca di Candia, comune dell’isola di Creta. Per citare solo alcune delle cariche delle quali venne investito si possono ricordare la nomina di capitano a Brescia per un anno e di podestà a Verona. A Venezia poi, divenne un Savio Grande, ciò vale a dire uno dei componenti del collegio deputati alla valutazione e analisi dei lavori da somministrare al Senato. Ultima carica da ricordare, non come importanza, quella ottenuta nel 1570, all’età di 75 anni, quando divenne procuratore di San Marco. Un’ascesa che non si arrestò ma anzi, in questo stesso anno lo condusse a imprese memorabili. Divenne il Capitano General da mar, condizione che lo portò a scontrarsi con i Turchi ottomani. L’anno seguente prese parte alla celebre Battaglia di Lepanto, occasione che vide la Lega Santa della quale Venier faceva parte vittoriosa nello scontro con i Turchi. Grazie alla serie di titoli ottenuti
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Il personaggio nel corso della sua vita a ottantuno anni soltanto da una finestra, un venne eletto Doge della Repubblica di espediente che permise Venezia, carica che ricoprì fino al giorno al pittore di inserire un del suo decesso. Sebbene l’incarico di momento caratterizzante la Doge fu suo soltanto per il corso di un vita di Venier. Al di là della anno, le sue numerose gesta divennero i stanza infatti si presenta una temi principali di opere d’arte firmate da scena navale riconducibile celebri pittori. alla sua impresa vittoriosa Presso il Kunsthistorisches Museum di della Battaglia di Lepanto. Vienna è possibile ammirare un ritratto di Tintoretto realizzò altri due Sebastiano Venier realizzato da Tintodipinti aventi come soggetretto. Diventare parte di un suo dipinto to Venier. era un modo per affermare la propria Uno lo vede protagonista ritratto a tre importanza politica e sociale, dal momenquarti, mentre un secondo lo rappresento in cui tra i suoi soggetti si potevano ta a figura intera accanto a un paggetto. annoverare papi, duchi, imperatori, re In questa tela è nuovamente visibile la e cardinali. E dogi, ovviamente. Era un finestra che dà sulla battaglia di Lepanto. modo per creare un legame importante Veronese invece ritrasse Venier nell’atto anche con gli altri valorosi soggetti ritratti. di ringraziare il Redentore per la vittoria Nel dipinto con protagonista Venier si ottenuta a Lepanto, assistito dai Ss. Mauro scorge una peculiarità ricorrente in molte e Giustina tra le allegorie della Fede e di tele di Tintoretto. Il doge in armatura Venezia, opera visibile presso il Palazzo si staglia su uno sfondo cupo, spezzato Ducale. Nella medesima sede si scorge Logo con colori quadricromia applicati
ancora Sebastiano Venier dipinto anche da Palma il giovane, sempre nel ruolo di comandante della nota battaglia che lo vide protagonista. Queste menzionate sono alcune delle opere sopravvissute all’incendio che coinvolse Palazzo Ducale nel 1577, sotto il ducato di Venier. Un breve ducato per un uomo che aveva scalato i successi nel corso della sua vita, ma che viene ricordato anche grazie all’arte a lui dedicata, capace di evocare le sue gesta.
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Non solo animali di Monica Argenta
Il CRAS di Treviso
Centro Recupero Animali Selvatici
U
n ambulanza parcheggiata davanti ad un piccolo edificio nel cuore del Parco dello Storga di Treviso mi indica che sono arrivata nel posto giusto. Sono al CRAS (Centro di Recupero di Animali Selvatici) realtà tanto straordinaria quanto sconosciuta ai più o perlomeno sconosciuta a me, pur vivendo nel bellunese, territorio di ricchezza faunistica inestimabile. Mi accoglie Michela Dugar, da oltre vent'anni impegnata a prestare soccorso alla fauna selvatica che è per antonomasia senza un padrone ma che per mille ragioni si ferisce, rimane orfano o in altra in difficoltà per via di noi umani e delle nostre mille attività. Michela mi ricorda un po' Jane Goodall, la famosa primatologa e attivista che ha dedicato la sua vita agli scimpanzé. “Noi qui siamo un ospedale e come tale operiamo sempre in stato di urgenza” mi dice. “Diamo soccorso a tutti gli animali selvatici e abbiamo a che fare con numeri e tipologie di intervento che rappresentano una sfida anche per i nostri 80 volontari e per gli spazi a nostra disposizione”. Perché al CRAS di Treviso transitano circa 3000 animali all'anno, appartenenti a oltre 100 specie. Il territorio è vasto e comprende la
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Pedemontana ma anche le zone oramai adiacenti al mare: in altre parole, qui vivono e si feriscono caprioli, ricci, rapaci, cigni, gabbiani, volpi, anatre, scoiattoli...La mia intervista viene presto interrotta: una volontaria chiede quale carne deve dare ai due piccoli allocchi ancora in via di svezzamento. E' l'occasione per visitare la stanza dedicata ai pulli, piccoli volatili che impegnano spazio, tempo h 24, tanto amore per portarli all'età e dimensione appropriata per esser rimessi in libertà. Perché missione del CRAS è quella di curare e possibilmente liberare in natura tutta la fauna trattata. Certo, gli spazi limitati e la gravità di certe lesioni subite, non sempre permettono questo percorso virtuoso. E' il caso, forse, di Berto, piccolo muflone di solo 3 mesi che oramai come un cagnolino segue ed è partecipe delle attività dello staff del Cras. “Ognuno ha la sua croce, noi abbiamo Berto” mi confessa Michela. Berto è un cucciolo di muflone che è arrivato al CRAS a seguito di un incidente stradale che ha visto la morte della sua mamma e ha lasciato lui con un grave trauma cranico e le conseguenti crisi epilettiche. Al Cen-
tro non sanno ancora se Berto guarirà del tutto, se sarà mai in grado di essere rintrodotto in natura e se anche guarito sarà stato troppo “umanizzato”. I due studi veterinari che collaborano con il Centro ce la stanno mettendo tutta per curarlo, e tutto lo staff è consapevole che Berto ha diritto ad una vita selvatica seppur ora è sorvegliato speciale. Ma comunque vadano le cose un progetto di futuro per lui è già in programma: dovesse rimanere anche per sempre la mascotte del Centro, potrà comunque riprodursi con una muflona e i suoi piccoli potranno ritornare liberi. Nel piccolo ufficio, arriva poi Iris Moneta, altro pilastro fondamentale della struttura. E' lei che si occupa dei recuperi sul campo e che si occupa della formazione dei volontari che hanno il compito difficile di saper trasportare nel modo corretto sia un pullo di merlo che un rapace adulto o un capriolo. Scambiamo poche parole, mi dice di tutte le difficoltà che incontrano, mi spiega della necessità dell'istituire anche su questo territorio un Santuario (ovvero una struttura che non si occupi solo delle emergenze ma che dia la possibilità di ospitare tutti quegli animali selvatici o meno che non trovano altra collocazione). E poi è lei ad accompagnarmi “nel giardino delle meravi-
Non solo animali glie”. Un terreno protetto dove convivono tutti i loro degenti: c'è il gabbiano Mio, l'anatra Maurizio, ci sono neo mamme capriolo, volpi, cigni, poiane, germani seguiti dalla loro piccola prole, un tasso: sarebbe impossibile citarli tutti! A lato del terreno c'è una struttura, una galleria del volo credo si definisca: là si testa la capacità dei volatili primi di rilasciarli. E' un luogo stupendo, dove si respira tanta voglia di un futuro migliore. Sbalordita dal tanto impegno di queste persone mi interrogo sul perché in provincia di Belluno non esiste una struttura simile. In fin dei conti la fauna selvatica è patrimonio indisponibile dello Stato (Art. 1 L.157/92) e, seppur a capo della Regione, ogni territorio provinciale dovrebbe essere in grado di prendersi cura dei propri animali. Scopro che in provincia di Belluno invece questo aspetto è lacunoso se non addirittura latente. Sul nostro territorio, ripeto così meravigliosamente ricco di fauna,
non esiste un CRAS, una organizzazione veramente messa nella possibilità di operare efficacemente. E' tutto riposto all'impegno di qualche volontario che, come meglio può, si prodiga senza coordinamento, senza mezzi. Gli ungulati feriti poi, scopro esser gestione dei cacciatori a cui viene dato il permesso di sopprimere l'animale se entro 30 minuti non è in grado di rialzarsi. Non sono contraria all'eutanasia a priori ma credo che questa scelta debba esser ponderata da personale medico-veterinario e sicuramente da parte di persone non di parte. E di parte non voglio esser neppure io ma certamente mi sento di denunciare con forza quanto ancora si debba fare in educazione, divulgazione ed impegno, soprattutto delle istituzioni considerando le premesse giuridiche, riguardo il mondo animale che è irrimediabilmente (e per fortuna nostra) vicino a noi. Oltre al mondo dei nostri amati animali
domestici, da Belluno, a Milano a Roma Capitale, migliaia di esemplari di uccelli, mammiferi, rettili rendono le nostre realtà più ricche e emozionanti ma combattono giornalmente per sopravvivere ad incidenti dovuti ad automobili, aeroporti, navi, cavi elettrici, insetticidi, plastica, mozziconi di sigarette...Il loro benessere è lo specchio del nostro. Ringrazio sentitamente tutto lo staff del Cras di Treviso per la bellissima ora passata assieme.
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La città di FELTRE F eltre è una città dal grande cuore e antica storia. La posizione geografica e le risorse naturali l'hanno resa abitabile già in epoca preistorica, forse protostorica, abitata dai Veneti, una popolazione autoctona con addentellati etruschi e nella Gallia occidentale. La città è diventata municipium romano già nel secondo secolo a.C. La sua storia è raccontata in tre musei che hanno sede in altrettanti palazzi d'arte. Il Museo Civico è allestito nella cinquecentesca Villabruna, la Galleria d'arte Moderna Carlo Rizzarda con sede in Palazzo Bovio-Villabruna Cumano, residenza cinquecentesca nel centro storico e il Museo diocesano di Arte Sacra che ha sede nell'antico palazzo vescovile. I tre musei sono libri aperti sulla storia della città. Feltre, grazie sia alla favorevole situazione climatica che alla fortuna di essere sorta al crocevia di importanti nodi stradali, in particolare la Via Claudia Augusta, dal nome dell'imperatore Claudio (41-54), che congiungeva il mare Adriatico alla zona Danubiana. La sua situazione strategica la rese cara a diversi popoli barbari e fra questi i Longobardi al cui re Alboino (530-572)
dc, dobbiamo il Castello omonimo che sorge sul punto più alto del Colle delle Capre. La Torre del Campanon, che ancora oggi domina con la sua altezza l'intero complesso, veniva utilizzata per annunciare, con il suono delle campane, l’inizio delle esecuzioni capitali e comunicare attraverso segnali di fuoco o fumo, con il Santuario dei Santi Vittore e Corona sul Monte Miesna ad Anzù e con il Col Marcellon. Sopra la porta d'ingresso al piano terra, sono scolpiti in bassorilievo tre stemmi: quello al centro presenta un castello turrito che è lo stemma della Città. Sulla facciata sud del Campanon c'era dipinto il leone di San Marco, presente nella scultura sopra la colonna della piazza principale, simbolo della
Repubblica di Venezia che governò la città dal 1404 al 1797. Oltre cinquecento anni di collaborazione politico amministrativa che ha fatto della città di Feltre un baluardo militare in cui non mancano tragiche storie come l'eccidio del luglio 1509 quando i feltrini favorevoli a Venezia uccisero la guarnigione di Massimiliano primo imperatore d'Austria, il quale, tornato in agosto ad occupare la città, passò a fil di spada centinaia di cittadini. La storia di Feltre si lega a Venezia in doppio filo nel 1571 quando la flotta cristiana sconfisse i turchi nella battaglia di Lepanto. La vittoria è celebrata dalla Torre dell'Orologio, affacciata sul sagrato della Chiesa dei Santi Rocco e Sebastiano e su Piazza Maggiore, sulla cui sommità porta una mezzaluna di provenienza mediorientale, parte del bottino di guerra dei Veneziani raccolto durante la battaglia che fermò l'espansione mussulmana. A fine Settecento l'invasione napoleonica, la cessione di Venezia e del territorio all'Austria. I moti risorgimentali, l'annessione al Regno d'Italia nel 1866 e poi una storia di moderna e contemporanea di cui siamo tutti, quotidianamente, protagonisti.
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(nel X secolo il vescovo Giovanni II estese il dominio su tutto il bacino del Piave, dal Cadore a Feltre, al Primiero, Bassano, parte della Valsugana sud-orientale, a Pordenone e Jesolo). Fra le bellezze uniche c'è il centro storico, arroccato su un colle dove si erge il Castello di Alboino, il luogo da cui si diramano piccole vie e numerose chiese e piazze, tra cui la splendida Piazza Maggiore dominata dalle Fontane Lombardesche, fuori dalle mura Piazza Duomo sotto la quale sono stati scoperti importanti reperti archeologici la cui visita è aperta al pubblico. Altre testimonianze dell'antica Feltre sono visibili al Museo Civico nello splendido Palazzo Villabruna. E poi la Galleria Rizzarda, con la collezione di
Cultura ed arte - SPECIALE FELTRE lavori artistici in ferro. Per gli amanti del turismo religioso o per i fedeli, è imperdibile il santuario dedicato ai santi Corona e Vittore, ad Anzù di Feltre ricco di pregiati e storici affreschi. Da visitare il settecentesco teatro della Sena, recentemente restaurato, nel quale debuttò il giovane Carlo Goldoni. Importanti riviste e fra queste Feltrino News, hanno dedicato documentati articoli ad ognuna di queste bellezze di Feltre. Fra le manifestazioni più interessanti da non perdere ricordiamo il tuffo nella storia e nell'arte con il Palio, la rievocazione storica con musica, danze, sfilate , sfida tra quartieri e la gara dei cavalli. Per gli amanti della natura ci sono itinerari nell'incontaminato Parco Nazionale delle Dolomiti. Inoltre, competizioni sportive internazionali come
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FELTRE, CITTÀ ROMANA C he la città di Feltre abbia vissuto un periodo florido in epoca romana non è di certo un mistero e sicuramente non deve stupirci. Ma quali furono i momenti salienti e quali sono le tracce che la grande Roma ha lasciato sul territorio? Innanzitutto non è completamente chiaro
quando, e attraverso quale modalità Feltre, secondo Plinio il Vecchio città fondata dalla popolazione tirrenica dei Reti, divenne dominio romano, è però quasi sicuro che ciò avvenne nel 172 a.C. Feltre prese in principio il nome di oppidum, ed è interessante sottolineare il fatto che venisse chiamata forum oppidum, molto probabilmente perché grazie alla sua
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posizione strategica – un luogo di confine tra i territori germanici e quelli romani – era zona di scambi commerciali, dunque un vero e proprio forum, ovvero piazza di mercato. In età repubblicana, tra il 49 e il 42 a.C., la città divenne un municipium, che per i romani stava a indicare un centro cittadino legato a Roma che però poteva mantenere la sua autonomia giuridica e amministrativa; perché un centro potesse essere considerato municipium, i cittadini dovevano far parte di una delle tribù romane, così i feltrini vennero inscritti all’interno delle tribù Publicia e Menenia, come confermano alcune iscrizioni ritrovate in città e in seguito trasferite a Padova. Una leggenda vuole che Giulio Cesare, giunto a Feltre per controllare in prima persona l’operato all’interno del municipium, avesse lasciato la città dopo un soggiorno particolarmente breve a causa dell’inverno troppo rigido. Celebre è il distico che ne sarebbe derivato: “Feltria perpetuo niveum damnata rigore, atque mihi posthac haud adeunda, vale”, che potremmo semplicisticamente tradurre con “Ti saluto Feltre, condannata dalla neve al rigore perenne, in futuro non sarai più visitata nemmeno da me”. Sembra che queste parole fossero anche state riportate, come scrive Pietro Bembo nel suo libro “Storia Veneta”, su di una lastra in
marmo che si trovava nei pressi di un’antica porta, andata distrutta durante l’incendio del 1509, che costituiva l’ingresso principale della città. Si narra inoltre che il fiume Cordevole debba il suo nome proprio al console romano: durante lo spostamento tra Feltre e Belluno, rimasto bloccato dal fiume ingrossatosi a causa delle forti piogge, per rispondere ai suoi che gli chiedevano se
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avesse intenzione di guadarlo, diceva: “Cor dubium habeo”, “Ho il cuore dubbioso”, attribuendo così al corso d’acqua il nome di “Cordubbio”, che con il tempo si trasformò proprio in Cordevole. La maggiore eredità di epoca romana che ad oggi possiamo ancora apprezzare sul suolo feltrino è l’area archeologica situata al di sotto del Duomo. All’interno dell’area archeologica, un ambiente ipogeo di novecento metri
quadrati, è possibile ammirare le tracce di un’antica strada romana provvista di marciapiedi che si snoda tra diverse strutture, tra le quali edifici residenziali, una bottega e uno stabile con funzione pubblica, molto probabilmente sede di associazioni professionali. Nel 1974 all’interno dell’area venne rinvenuta la celebre statua di Esculapio, il più grande esemplare del centro e del nord Italia a rappresentare la divinità greca della medicina. Databile al II secolo d.C., è priva della testa e dell’arto destro, con il quale molto probabilmente impugnava il bastone sacro che da tradizione iconografica identifica la divinità, sul quale è avvolto un serpente. Tuttavia l’apporto storicamente più influente durante la dominazione romana è sicuramente la via Claudia Augusta, strada romana che si estendeva per 518 chilometri e che doveva collegare i territori sotto il dominio di Roma alle zone germaniche e in particolare l’Adriatico al Danubio. Venne iniziata nel 15 a.C. da Druso Maggiore,
generale di Augusto, che per primo definì l’itinerario e portata a termine nel 46 d.C. dal figlio, l’imperatore Claudio. La scoperta della via Claudia Augusta avvenne in seguito al ritrovamento di due cippi miliari identici, il primo a Merano nel 1552, mentre il secondo presso Cesiomaggiore nel 1786. Alcune discrepanze riguardo la località presso la quale la via doveva iniziare hanno fatto sì che si arrivasse alla conclusione che con ogni probabilità esistevano due strade omonime, la Claudia Augusta Altinate che da Altino passava per Trento e raggiungeva il Danubio e la Claudia Augusta Hostilia, la quale partendo a Ostiglia si congiungeva alla prima presso il capoluogo trentino per poi terminare in terra tedesca. Certo è che la città di Feltre costituiva un importante snodo viario e soprattutto ricopriva un evidente ruolo di mediatrice tra il mondo latino e quello germanico, ruolo che ha mantenuto e che continua a mantenere nel tempo.
(di Beatrice Mariech)
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Il culto dei Santi Martiri Vittore e Corona: fede e tradizione alle pendici del Miesna.
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o scorso 14 maggio la città di Feltre, ma in verità tutto il Feltrino, hanno vissuto una delle giornate più cariche di significato della propria tradizione religiosa, ma non solo. Sì, perché “San Vetòr” rappresenta per i Feltrini, nel senso più ampio del termine, non solo la festa dei propri patroni, ma una sorta di appuntamento immancabile con la propria storia e con il proprio vissuto, più o meno
recente. Un culto, quello per i martiri, che affonda le sue radici nella notte dei tempi, ovvero da quando le loro reliquie, probabilmente nel IX secolo, vennero portate da Venezia a Feltre e più precisamente sulla rocca fortificata che allora sovrastava la gola che sancisce l'ingresso in città. La storia dei due santi è piuttosto nota. Secondo le fonti, Vittore, soldato cristiano, subì il martirio in Siria, nell’anno 171, durante la persecuzione di Marco Aurelio. La tradizione narra che, sottoposto a tremende torture, Vittore tenne saldo il proprio credo e non rinnegò la sua fede sino al martirio per decapitazione. Sorte se possibile ancor più violenta toccò alla sua giovane sposa, Corona: arrestata e condannata, fu appesa per i piedi alla cima di due
palme, curvate a forza che, drizzandosi violentemente, la squarciarono. Le indagini scientifiche condotte sul contenuto dell'arca che sovrasta l'altare maggiore del santuario hanno confermato la presenza dei resti umani di due persone, un uomo e una donna. Il racconto della traslazione dei resti dei Santi dall'Oriente a Cipro, e quindi a Venezia e da qui, dopo parecchio tempo, a Feltre è poi attorniato da un alone di leggenda non nuovo alle memorie sulla vita e la morte dei santi: la tradizione vuole che fu lo stesso Vittore ad indicare in sogno lo sperone di roccia alle pendici del Miesna come luogo deputato a ospitare le sacre reliquie, dopo che i cavalli da traino che conducevano i resti dei santi si impuntarono e non vollero più procedere alla volta della città. Fin qui la storia e la leggenda, che lasciano poi spazio alle cronache di una devozione che si è tramandata sino ai nostri giorni. Chi ha la fortuna di salire la lunga scalinata che conduce al Santuario, da qualche tempo Basilica Minore, non può certo sfuggire al fascino straordinario che quel luogo emana. Vi contribuiscono certo un'architettura immersiva, come quella costituita dal chiostro affrescato dell'antico convento, e l'abbagliante bellezza delle pareti dipinte della chiesa attigua. Ma c'è di più. Si respira un'aria di raccoglimento e di profondo silenzio
che invita alla preghiera il credente, ma che induce anche chi tale non si professa ad un intimo raccoglimento. A due passi dalla città, il visitatore - pellegrino o semplice passante esso sia - non può sfuggire a quella che con un termine decisamente profano potremmo definire “la magia” di quel posto. Per i Feltrini, che da secoli salgono fin quassù per portare ai propri santi patroni gioie e speranze, dolori e delusioni, c'è però ancora di più. C'è un rapporto di fiducia e di dedizione intimo, quasi un abbandonarsi alla Volontà Superiore, un rimettere le proprie pene tra le braccia dell'arca dei Santi. Non si spiegherebbe in altra maniera il fatto che, ancor oggi, le parrocchie di tutta la forania organizzano pellegrinaggi a piedi più o meno lunghi per arrivare al santuario dove celebrare la “propria mes-
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SPECIALE FELTRE
sa”, qualcuno partendo, come nel caso dei fedeli di Santa Giustina, addirittura nel cuore della notte. Certo, i tempi sono cambiati e difficilmente si vedono le lunghe e popolose processioni degli scorsi decenni, quando a centinaia i fedeli salivano compatti
al Santuario in corteo. Sul piano della manifestazione esteriore i “numeri” non sono più quelli di una volta. Eppure... Eppure, se vi capita, fermatevi ad osservare le persone anziane che salgono a fatica, talvolta ostinatamente, la scalinata che porta all'entrata della chiesa; guardate
attentamente le giovani famiglie che non rinunciano ad una visita a “San Vetor”, magari anche per accompagnare poi i figli al tradizionale pic-nic sul retrostante colle della Rocchetta. Il legame tra il Feltrino e i suoi santi patroni è ancora lì, forte, intenso, magari meno appariscente, ma ugualmente profondo. Lì, dove fede, tradizione, consuetudini sociali e legami profondi si intrecciano in maniera indissolubile, pur con linguaggi e modi diversi, oggi forse meno evidenti. Viviamo tempi difficili, costellati da cambiamenti frenetici, ricchi di incertezze e di paure. Ci sono però dei luoghi, per certi versi fuori dal tempo, dove è ancora possibile respirare un'aria antica, anzi nuovissima, e dare ristoro all'animo o all'anima. Ecco, il Santuario dei Santi Vittore e Corona, alle pendici del Miesna, è esattamente uno di questi. Per i Feltrini e non solo.
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La lunga storia del caffè:
un piccolo chicco che ha saputo conquistare il mondo
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uanto è bello svegliarsi con il profumo del caffè o trovare il tempo per gustarlo al bar? Un piccolo chicco che ha cambiato le nostre abitudini, tanto che per molti iniziare la giornata senza un buon espresso sarebbe addirittura inimmaginabile. Quello che non sappiamo in verità è che dietro a un gesto entrato ormai parte della nostra vita quotidiana, quasi come un rito, si cela una storia millenaria d’intrighi e leggende. La storia del caffè nasce più di 1500 anni fa, circa nel 500 d.C., quando un pastore etiope fu partecipe di qualcosa di davvero raro. Mentre il suo gregge
pascolava, si accorse che le sue pecore erano stranamente attive dopo aver ingerito delle particolari bacche rosse presenti a un’altitudine di 1000 1300 metri. Provò egli stesso quelle bacche e scoprì il loro effetto energetico. Preso dall’entusiasmo di questa scoperta, il pastore portò alcune bacche da un monaco di sua conoscenza. Questo non ne approvò l’uso e le gettò nel fuoco. In poco tempo si sprigionò un profumo inteso, tanto che le bacche vennero estratte dal fuoco, arrostite, polverizzate e sciolte in acqua. In poche parole, questa è la storia della prima tazzina di caffè. Proprio il nome “caffè” deriva dalla regione dell’Etiopia dove per la prima volta è avvenuta questa strabiliante scoperta, ovvero Kaffa, nel sudovest del Paese. Tra il XIII e il XIV secolo il caffè, a seguito delle campagne militari che hanno visto impegnati i guerrieri provenienti dall’E-
tiopia, la pianta del caffè arrivò fino in Yemen, dove il terreno particolarmente fertile ne permise la coltivazione. Gli etiopi inizialmente utilizzavano il caffè nella sua interezza, chicchi e bacche, principalmente come spezia. Furono invece gli arabi e cambiarne il metodo d’uso, iniziando ad abbrustolire i chicchi e tritarli per poi bollirli. Da questo momento il caffè iniziò ad essere usato come lo usiamo noi tutt’oggi. Il caffè giunse nella zona della costa orientale del Mar Rosso, fino poi a Mokka (attuale Arabia), il maggiore centro per il commercio di questo prodotto. In tutto il mondo musulmano di religione islamica, questa bevanda ebbe enorme successo, dato l’assoluto divieto di consumo di bevande alcoliche. Già alla fine del XV secolo, in Arabia nacquero diversi luoghi di degustazione e il caffè divenne la bevanda di aggregazione per eccellenza. Il caffè, come bevanda, arrivò poi in Europa intorno al XVII secolo, grazie ai diversi rapporti commerciali tra l’Occidente e il mondo arabo e all’espansione dell’impero Ottomano che forniva grandi quantità di caffè raggiungendo le porte di Vienna. Nella seconda metà del XVI secolo il
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Lo sapevate che? caffè arrivò anche a Venezia grazie al fiorente commercio di cui la città era protagonista. In principio il caffè era una bevanda riservata solo ai più abbienti e il suo gusto non era nemmeno così tanto apprezzato. Con il tempo, verso la fine del Seicento, il caffè si affermò a tal punto che divenne la bevanda degli intellettuali con la conseguente nascita di numerose caffetterie (a Venezia la prima comparve nel 1683 e nel 1720 aprì i battenti il famoso caffè Florian in piazza San Marco, che vanta ancora di essere il caffè più antico al mondo). Nonostante i pregiudizi diffusi dalla Chiesa sul caffè, ovvero che fosse una bevanda non pura, addirittura del diavolo per i suoi effetti energetici ed eccitanti, lo stesso Papa Clemente VIII prima di proporne la scomunica definitiva, l’assaggiò rimanendone davvero colpito, tanto che la battezzò “bevanda cristiana”. Utilizzato per le sue proprietà medi-
cinali, il caffè divenne presto anche una bevanda sociale e i caffè furono in poco tempo luoghi di aggregazione, convivialità e al tempo stesso sedi di dibattito. Londra, Parigi e i caffè italiani furono i centri più frequentati dagli illuministi. Il caffè fu apprezzato da Beethoven, Johann Sebastian Bach, Honorè de Balzac e anche dal veneziano Carlo Goldoni che nel 1750 compose una commedia teatrale dal titolo “La bottega del Caffè”. Oggi il caffè espresso è diventato simbolo nazionale per il nostro Paese e nel mondo le stime indicano un aumento costante nel consumo di caffè, a dimostrare come questa bevanda non conosca confini. Questa pianta tropicale presenta diverse specie, da cui si ottengono
chicchi dal gusto differente. Quelle che hanno rilevanza economica per la produzione del caffè sono la varietà arabica dal gusto aromatico, meno amaro, più persistente e la varietà robusta dal gusto più amaro e una maggiore concentrazione di caffeina. La scelta alla fine rimane soggettiva: il caffè deve saper soddisfare i nostri sensi oltre che darci quella carica di cui tutti abbiamo bisogno per affrontare i mille impegni della vita quotidiana.
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uando si parla di « microcircolazione » il riferimento è per quell'insieme di piccoli vasi sanguigni presenti nel nostro corpo chiamati “capillari” che svolgono una parte funzionale e importantissima della circolazione del sangue. Questo sistema rappresenta circa i due terzi della circolazione sanguigna del nostro corpo ed è fondamentale per il benessere del nostro organismo, non solo perchè lo mantiene in buona salute, grazie agli scambi vitali e di ossigeno tra le cellule sanguigne e le cellule dei tessuti, ma anche perchè regola il loro funzionamento e garantisce un sufficiente apporto energetico e una buona produzione di elementi nutritivi, eliminando rifiuti metabolici e supportando persino il sistema immunitario. Da qui la necessità di una perfetta e ottimale funzionalità della microcircolazione perchè, questa importantissima funzione, oltre a deteriorarsi con l'età, anche se si tratta di un processo completamente naturale, in alcuni soggetti può essere accelerato da determinati fattori e può subire particolari danni a causa di uno sregolato stile di vita, da cattive abitudini o influenze ambientali, dallo stress, dalla depressione ed altre motivazioni quali l'aggressività, l'insonnia ecc.. Inoltre possono essere numerose le anomalie morfologiche e funzionali dei vari capillari. E molte sono le malattie che causano o possono causare danni, anche gravi, alla nostra microcircolazione. I disturbi della microcircolazione del sangue e quindi una mancanza di ossigeno nelle cellule, possono essere, purtroppo, la causa di numerose malattie che se non controllate e curate possono avere serie conseguenze, non solo per la nostra vita quotidiana, ma
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anche soprattutto per importanti organi del nostro organismo. Ad esempio, per quanto riguarda il cuore, ci può essere il rischio di gravi patologie quali l'angina o infarto del miocardio, l' occlusione arteriosa nelle gambe ed altre serie problematiche che non devono essere mai sottovalutate. Molto importante, infatti, è fare particolare attenzione ai piccoli sintomi che possono essere un vero segnale d'allarme del non ottimale funzionamento della microcircolazione quali: mani e piedi freddi; dolore e crampi ai piedi e alle mani; intorpidimento e formicolio
continuo; dita e unghie blu; prurito alle braccia e gambe; vene varicose;perdita di sensibilità nelle estremità. E tutto ciò è causato dal fatto che la microcircolazione non è funzionale e quindi il flusso sanguigno non raggiunge in maniera corretta tutte le cellule e i tessuti che si trovano alle estremità, come quelle di mani e piedi. Quindi, all'insorgenza di queste sintomatologie o di anomale sintomatologie, è bene rivolgersi al proprio medico che saprà suggerire gli opportuni accertamenti ed esami e gli approfondimenti del caso. Per nostra fortuna la scienza medica ci suggerisce alcune particolari regole per mantenere intatta e funzionale la nostra microcircolazione. Intanto una buona qualità dell'alimentazione e un regime alimentare sano e bilanciato, magari con l'integrazione di qualificati e “garantiti” complementi nutritivi e vitaminici utili a favorire la circolazione sanguigna. Ed è molto importante sapere che la dieta da seguire deve basarsi su regole precise e fondamentali soprattutto per evitare di avere valori molto alti del dannoso colesterolo e dei trigliceridi. E infine una sana e continua attività fisica.
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Dalla parte del cittadino in collaborazione con A.E.C.I - FELTRE
La qualità di coerede,
la comunione e la divisione ereditarie
Q
uando muore una persona cara, pur nel dolore e nella difficoltà del momento, si presenta la necessità per coloro che sono chiamati a ereditarne il patrimonio di gestire tutti gli incombenti relativi alla c.d. successione. Infatti, nell’ambito della successione, se più soggetti risultano titolari del diritto a subentrare nel patrimonio del deceduto, pur se in misura fra loro diversa, si parla di coeredi. A stabilire chi sono gli eredi può essere il defunto tramite la redazione di testamento. Il testamento è un documento che va a contenere tutte le volontà di un soggetto per il tempo in cui avrà cessato di vi-
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vere, includendo anche propositi e indicazioni di tipo morale o personale (ad esempio, oltre alle disposizioni patrimoniali, possono essere previste indicazioni su come deve avvenire il funerale o la eventuale cremazione); esso può essere redatto in forma solenne e pubblica, di fronte ad un Notaio, oppure in modo privato, quale testamento c.d. olografo, scritto a mano dal testatore nel rispetto di alcuni
requisiti di forma. Solo in pochi tuttavia muoiono dopo aver fatto testamento. Così, in assenza di testamento, è la legge a definire a chi debba andare il patrimonio e come esso debba essere gestito. Il Codice civile prevede una serie di regole precise che individuano delle quote di patrimonio rispetto alle quali i coeredi hanno diritto di succedere in base al grado di parentela di ciascun soggetto vivente. Di regola, la disciplina privilegia i parenti di grado più stretto: i figli, il coniuge, i genitori, i fratelli. Così, ad esempio, in presenza di tre fratelli quali unici eredi del padre, a
ciascuno di questi spetterà il 33% di ciascuno dei beni paterni. Quando più coeredi diventano assieme titolari di quote sul patrimonio ereditario, si verifica quella che viene chiamata comunione ereditaria. La comunione ereditaria è anche definita comunione pro indiviso ossia una condivisione dei diritti e doveri di più persone sullo stesso bene, da esercitarsi secondo delle precise quote. In altri termini, ciascun coerede è titolare di una quota ideale e non fisica su tutto il patrimonio del soggetto deceduto, la c.d. massa ereditaria. è importante sottolineare come la massa ereditaria contempli tutti i beni che erano nella titolarità del decuius (beni immobili, mobili, gioielli, denaro) inclusi eventuali debiti e, in certe casi, le donazioni. Così, ad esempio, ciascun fratello, titolare di un terzo della casa paterna, non ha diritto a utilizzare solo un terzo dell’immobile (ad esempio, tre camere su nove o un piano su tre) ma un terzo dell’intero immobile: tale quota non ha un suo riscontro fisico nella realtà, anche perché, come detto, contempla tutti i beni lasciati dal decuius, inclusi tutti i più piccoli oggetti raccolti negli anni (ad esempio la fede nuziale). È evidente come tale situazione possa creare non poche difficoltà, soprattutto se i coeredi faticano ad andare d’accordo fra loro o, più semplicemente, sono in un numero elevato sparsi per il mondo: il codice civile, infatti, impone a tutti
Dalla parte del cittadino in collaborazione con A.E.C.I - FELTRE e ciascuno dei coeredi il dovere di gestire insieme la massa ereditaria, curando la manutenzione e quindi tutti gli adempimenti connessi all’ordinaria amministrazione, con conseguente ripartizione, appunto pro quota, delle relative spese. Ne deriva, dunque, spesso, la necessità per gli eredi di procedere alla c.d. divisione ereditaria. Con la divisione ereditaria, la comunione pro indiviso che viene a crearsi all’apertura della successione trova la materiale spartizione fra i coeredi, ciascuno per la quota che gli spetta in base alla legge o al testamento. Se gli eredi vanno d’accordo, la divisione può tranquillamente essere raggiunta con un atto notarile, forma necessaria nel caso in cui
la massa ereditaria contempli beni immobili: di regola, in tali casi, è opportuno che gli eredi procedano insieme alla quantificazione del valore di tutti i beni che compongono l’asse ereditario, accordandosi poi fra loro per capire a chi spetterà cosa, nel rispetto, appunto, della quota di ciascuno. In tal caso, sono gli eredi che, fra loro, decidono a chi spettano, ad esempio, i terreni, gli immobili, i gioielli, il denaro che erano appartenuti al decuius. Laddove i coeredi non siano in grado di raggiungere una divisione ereditaria in accordo fra loro, l’unica opzione è il processo civile. Il Tribunale procederà alla quantificazione precisa del valore della massa ereditaria, attraverso – di regola – la
nomina di un perito e procederà poi alla spartizione dei beni agli eredi secondo le quote di spettanza. Nei casi di accesa conflittualità, in presenza di beni immobili non comodamente divisibili (ad esempio, un appartamento) l’opzione di regola seguita è la vendita con successiva ripartizione del ricavato. Si tratta, all’evidenza, di soluzioni di tipo salomonico che spesso non conducono ad una dispersione del patrimonio ereditario, che per essere diviso viene liquidato anche con terzi soggetti per ottenerne un ricavato spartibile. Il consiglio è certamente quello di gestire il momento della successione in modo attento rivolgendosi a professionisti, al fine di evitare successive liti poco proficue.
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Le guerre d'Italia di Andrea Casna
L'ITALIA NELLA GUERRA CIVILE SPAGNOLA
E
ra il 1936. In Spagna scoppiava la guerra civile che poi portò all'instaurazione della dittatura fascista guidata dal generale Francisco Franco. Fu un conflitto, quello spagnolo, che anticipò la Seconda Guerra Mondiale perché in quella guerra si manifesteranno “in piccolo” tutti quegli elementi, culturali e militari che caratterizzeranno l'intero secondo conflitto mondiale. A quella guerra, iniziata nel 1936 e conclusasi nel 1939, parteciparono a sostengo di Francisco Franco la Germania nazista e l'Italia di Benito Mussolini. GLI ANTEFATTI. Nel 1936 a vincere le elezioni politiche fu il Partito Popolare, o fronte democratico, composto da una coalizione di sinistra, con il 47% dei voti. Dall'altra, all'opposizione, il Fronte nazionale (una colazione di conservatori), con il 46% delle preferenze. Furono le forti tensioni fra alcuni esponenti radicali del fronte popolare e nazionale a portare allo scoppio della guerra civile. Il 17 luglio del 1936 vi fu il colpo di stato da parte dei militari a danno del governo democraticamente e legittimamente eletto. Alla guida dei militari si pose subito il futuro dittatore spagnolo, Francisco Franco, il quale ottenne l'appoggio delle campagne. I grandi centri come Madrid, Barcellona, Valencia, Malaga, rimasero fedeli alla
Repubblica. Il conflitto fu lungo e sanguinoso: da una parte il fronte democratico, composto da socialisti, comunisti e anarchici, sostenuto dall'Unione Sovietica; dall'altra il fronte nazionale, composto da conservatori e cattolici, sostenuto dalla Germania nazista e dall'Italia fascista. Francia e Regno Unito decisero di rimanere a guardare per non destabilizzare i delicati equilibri internazionali. Anche in questo conflitto i morti sul campo furono migliaia. Le stime attuali parlano di 175 mila morti fra le file dell'esercito repubblicano e di 110 mila caduti per l'esercito nazionale. L'INTERVENTO ITALIANO. Per l'Italia fu una crociata internazionale contro il comunismo. Ma anche una “esercitazione” per testare sul campo nuove tecnologie e nuove tecniche di attacco. L'Italia di Mussolini intervenne al fianco di Francisco Franco inviando 1800 cannoni; 3400 mitragliatrici; 157 carro armati; 213 bombardieri; 414 caccia da combattimento e 70 mila uomini, tutti volontari. Sul campo caddero circa 3 mila uomini; i feriti furono 11 mila. Nell'aviazione i volontari furono 5 mila: 175 caduti e 192 feriti. Scrisse Galeazzo Ciano, nel suo Diario, 8 febbraio 1938, riguardo al bombardamento italiano su Barcellona: «tutto il raid è durato un minuto e mezzo [...] 500 morti, 1.500 feriti.
È una buona lezione per il futuro. Inutile pensare alla protezione antiaerea ed alla costruzione di rifugi: unica via di salvezza contro gli attacchi aerei è lo sgombro delle città». Dall'Italia partirono circa 3 mila volontari per combattere per l'esercito repubblicano. Erano socialisti, comunisti, anarchici e antifascisti inquadrati nella Brigata Garibaldi. Quella di Spagna fu quindi una guerra ideologica: fascisti contro antifascisti. Un copione che si ripeterà in Italia all'indomani dell'armistizio del 1943. A combattere in Spagna, nelle brigate antifasciste, per esempio, troviamo un certo Boscarin Luigi nato il 28 gennaio 1907 a Feltre. Operaio e comunista ai primi di ottobre del 1936 si arruolò nel battaglione Garibaldi e combatté nei pressi di Madrid dove fu ferito alla testa durante i combattimenti del dicembre 1936. Morirà in un ospedale a Madrid il 31 dicembre 1936. Per saperne di più sul sito https://www.antifascistispagna.it/ è possibile cercare i nomi e le biografie di chi partecipò alla Guerra civile di Spagna fra le fila dell'esercito repubblicano. Oggi sul monumento ai caduti di Feltre si trovano i nomi di chi morì proprio in quella guerra.
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Storie di guerra di Davide Pegoraro
Monte Valderoa
Un calcio alla guerra
U
n pomeriggio d’autunno mi trovavo in una delle tante piazze d’Italia, di passaggio per andare a presentare uno dei miei libri in un prestigioso palazzo baronale della Sardegna. Passanti col gelato in mano, turisti a fare foto e in fondo, verso un muro, ragazzini che giocavano. Tutti a correre dietro a una palla e poi, improvviso, un tiro, di quelli da centravanti puro: abbracci e urla per un gol insperato! La porta, da un lato, fatta con degli zaini appoggiati a terra per delimitare i pali e dall’altra compresa fra due enormi steli marmoree fisse sul muro, con i nomi di decine di giovani morti nelle due guerre mondiali. Grazie a Dio questo accade tutti i giorni da sempre, come ho avuto modo di accertare e accade senza che a nessuno venga in mente di giudicare se vi sia qualcosa di irrispettoso nei confronti di quei caduti. La benedizione di un paese in pace, la gioia di quella festa che lo sport sa creare senza se e senza ma, senza paura di vivere, anziché farsi ammazzare. A fianco di uno
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dei tanti nomi, il luogo del decesso di uno di loro mi ha subito colpito: monte Valderoa. Ci siete mai stati lassù? Quando anche l’ultimo degli escursionisti è passato? Solo il vento condivide con i lupi la solitudine della montagna. Una gobba che si copre di bianco già ad ottobre e che rimane silenziosa fino a maggio, quando la vita si riprende la scena. Degli uomini, nella tormenta hanno lottato con tutte le loro forze nel tentativo di battere l’avversario. Tedeschi dell’Alpenkorps contro alpini. Duri come la roccia, gli uomini del battaglione “Feltre” in forza al 7° reggimento quel giorno resistono, poi vacillano, poi ritornano in vetta e combattono con le bombe a mano, poi a fucilate e colpi di baionetta ed infine con le pietre. Il comandante del plotone esploratori è nel pieno della mischia e viene colpito. Giuseppe, questo il suo nome, morirà a Ravenna il 26 di quello stesso mese in un ospedale della Croce Rossa. Lui che aveva già ricevuto due medaglie d’Argento al Valor Militare, riceverà anche la terza, commutata in Medaglia d’Oro quasi un anno dopo con la seguente motivazione: “Ufficiale di leggendario valore, dopo tre giorni di violentissimo bombardamento e di disperati attacchi nemici, teneva con pochi superstiti, affascinati dal suo mirabile ardimento, una posizione montana di capitale importanza, riuscendo a scompigliare con accanita corpo a corpo le soverchianti forze che l’accerchiavano. Nell’aspra lotta, colpito a morte, cadeva fra i suoi soldati col grido di “Savoia” sulle labbra, segnando ed assegnando, anche nella morte, il limite oltre al quale il nemico non doveva avanzare” cima Valderoa, 14 dicembre 1917. Così moriva Giuseppe
Caimi il soldato. L’uomo, nato a Milano alla fine del 1890, militò nell’Inter e venne convocato per le Olimpiadi di Stoccolma dalla nazionale di Pozzo. Fisico possente, fu anche schermitore. Centinaia di calciatori perirono nella Prima Guerra Mondiale; da Padovano quale sono non posso non citare Silvio Appiani, calciatore dei Biancoscudati e poi allenatore. Quante volte allo stadio a lui poi dedicato ho esultato e sentito l’urlo dei tifosi dopo un gol. Volontario di guerra finirà di vivere nello stesso 1915 nel quale si arruolò. Un anno prima, nel fronte delle Fiandre in Belgio, si giocò la partita più importante della storia, quella tra gli occupanti di due opposte trincee, tedesca ed inglese. Quei giovani decisero di fermare la guerra per una notte, quella del Santo Natale. Celebrarono una messa congiunta e all’indomani seppellirono i propri camerati caduti negli scontri dei giorni e delle settimane precedenti, rimasti a decine nella terra di nessuno. Terminato questo doloroso compito, si ritrovarono a correre dietro ad un pallone, sbucato dalle linee germaniche (alcuni componenti la squadra del Bayer Monaco si trovavano in linea proprio li) e diedero vita ad un episodio straordinario di fratellanza al fronte, senza spari, senza bombe, soli a giocare a calcio tra i morti. Anche se non posso più sentire la loro voce, so per certo quanto quei ragazzi di cent’anni fa apprezzino e rispettino chi può divertirsi con un pallone. Essi hanno dato la propria vita proprio perché oggi questo sia possibile almeno qui.
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Conosciamo le aziende di casa nostra di Alex De Boni
VIVAIO SCARIOT
Innovazione tra fiori, piante e natura
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ltre vent'anni di passione e ricerca nell’ambito della floricultura, dai primi innesti alla commercializzazione on line su scala nazionale. Basterebbe questa semplice introduzione per descrivere cosa rappresenta il Vivaio Scariot di Feltre. Era il 1996 quando Marco, con il consorzio di tutela del marone del feltrino, iniziò ad appassionarsi di quello che nel tempo sarebbe diventato il suo lavoro. Grazie a quella esperienza il giovane Scariot inizia a cimentarsi nella potatura tree climbing delle piante di alto fusto, con l'utilizzo di funi. Il primo grande passo per una carriera professionale Marco lo realizzò sfruttando un terreno di proprietà a Cart per realizzare piante da innesto, in particolare gli aceri, piante di cui Scariot è particolarmente innamorato. Come spesso capita le logiche di mercato lo spinsero a prediligere la strada della manutenzione e potatura dei giardini, molto richiesta è più redditizia. La grande svolta ci fu nel 2001 con l'inaugurazione dell’attuale vivaio che nel tempo ha visto notevoli miglioramenti ed ampliamenti. SCARIOT SBARCA NELL’E-COMMERCE A partire da giugno partiremo con un progetto che vedrà la nostra realtà proiettata nella vendita on line degli aceri giapponesi da noi prodotti. Ci sarà un sito apposito dove il cliente potrà scegliere il tipo di pianta che gli verrà recapitata mezzo corriere direttamente a casa, il tutto su apposite confezioni da noi progettata. Sono due anni che lavoriamo a questa idea e finalmente è in dirittura di arrivo,
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proporremmo una trentina di varietà di acero e alcuni tipi di rose. I destinatari riceveranno tutte le istruzioni del caso per far crescere a casa propria queste piante il cui prezzo si aggira sui 10 euro, insomma diamo la possibilità a tutti di poterne beneficiare senza molteplici passaggi che solitamente vanno ad incidere sul valore finale della merce DIETRO UNA VENDITA CE MOLTO PIÙ LAVORO DI QUANTO SI PENSI... Mediamente quando vendiamo un acero dietro c'è circa un anno e mezzo di lavoro, dalla semina al primo sviluppo di una pianta. Non solo, alcune di esse sono frutto della ricerca e delle prove che facciamo nel nostro vivaio, alcuni di questi esperimenti iniziati 15 anni fa. Un tempo enorme ma bisogna tenere conto che dietro ad ogni innesto che facciamo dobbiamo valutare come la pianta si sviluppa
nel tempo, quali conseguenze ha al variare delle stagioni. A volte le nostre prove terminano con dei fallimenti ma anche attraverso questi siamo arrivati a proporre una gamma prodotti di altissima qualità. FARE IL VIVAISTA NON È UNA PROFESSIONE PER TUTTI Potremmo riassumere semplicemente dicendo che non si nasce con il pollice verde, né lo si diventa semplicemente curando un giardino. Dietro il nostro lavoro c'è innanzitutto una grande passione, a volte tramandata da padre in figlio, a volte scoperta quasi per caso. Passione, pazienza e la continua voglia di ricercare sono il mix giusto e fondamentale per portare avanti questa professione. Non possiamo abbatterci di fronte ai fallimenti, bisogna sempre rimboccarsi le maniche e guardare oltre l’ostacolo. OLTRE 20 ANNI DI CARRIERA, COME È
Conosciamo le aziende di casa nostra CAMBIATA LA TUA ATTIVITÀ? Inizialmente il lavoro era molto più geolocalizzato, ma con il tempo e soprattutto con la stagionalità che contraddistingue le nostre zone i prodotti commercializzati si sono standardizzati. Con in lancio della piattaforma on line vogliamo sia raggiungere una clientela a livello nazionale, sia garantirci un commercio che superi i limiti delle stagioni, rivolto a territori con climi miti tutto l'anno e più adatti agli aceri giapponesi. PERCHÉ SCEGLIERE UN ACERO GIAPPONESE? Gli aceri giapponesi sono alberi semplici da coltivare sia in contenitore che in piena terra. La gran parte delle varietà prediligono luoghi riparati e ombreggiati. In genere, sono alberi dalle dimensioni contenute, con una crescita lenta, un portamento elegante e un bel fogliame. Potrebbero essere inseriti perfettamente anche nella progettazione di piccoli giar-
dini o terrazzi. Sono poche le piante che in giardino possono eguagliare la bellezza e i colori di un acero giapponese in autunno. Se usato come esemplare solitario l’effetto che produce è mozzafiato, il suo fogliame autunnale rimane per settimane con i caldi e abbaglianti colori, poi alla caduta delle foglie, ai piedi della pianta si accende una brillante pozza color cremisi, arancione e oro ad accendere la monotonia del prato del giardino in questa stagione. Se impiegato come un accento sul confine o in un’area definita, attira lo sguardo sui suoi rami dal portamento elegante e dalla forma distintiva, decorati dai colori fiammeggianti delle foglie, che ravvivano parti del giardino che altrimenti potrebbero essere monotone in autunno. Se, invece, volete osare e piantarlo lungo una passeggiata, un vialetto o un pendio, avrete un nastro di colori naturali più vivido, attraente e luminoso di qualsiasi
altra decorazione possiate immaginare. Molte varietà di acero giapponese hanno un portamento e una dimensione a maturità che consentono di essere coltivate in vaso o formate come bonsai. Gli aceri giapponesi sono alberi eleganti, che possono essere impiegati molto bene nella costruzione di un giardino moderno o di un tradizionale giardino giapponese. Gradiscono con piacere la compagnia di piante perenni amanti dell’ombra o di piante annuali dagli allegri colori e dalle forme bizzarre.Gli aceri giapponesi possono fornire un punto focale sorprendente, essere la pianta perfetta per creare un esemplare unico in un grande contenitore o crescere in uno straordinario esemplare di bonsai. Esistono numerose di varietà di acero giapponese disponibili in diverse dimensioni, con un vasto assortimento di forme e colori delle foglie, che vanno dalle tonalità del verde, all’arancio, al rosso, al viola e al variegato.
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Per non dimenticare Da parte del dott. Roberto Possamai riceviamo questa sua lettera che volentieri pubblichiamo
Per ricordare il massacro di Lidice Un intero villaggio distrutto e tutti i suoi abitanti sterminati o deportati, tra loro anche 99 bambini. Questa è la storia di Lidice, un paesino che venne raso al suolo durante la Seconda guerra mondiale dalle SS di Hitler e uno dei tanti capitoli bui del nazismo.
I
n questo triste momento storico dove le televisioni sono tutte concentrate sulla guerra tra Russia ed Ucraina con queste poche righe vorrei parlare di Lidice, luogo divenuto tristemente famoso per fatti accaduti durante la seconda guerra mondiale. Lidice è un piccolo villaggio della Boemia centrale in Repubblica Ceca non lontano da Praga a circa 50 km da dove ho il domicilio sportivo. Da quest’anno vesto infatti i colori dello Sparta Praga, squadra ciclistica Continental con sede in Repubblica Ceca. In quell’isolato villaggio della Boemia si è consumata forse una delle pagine più tristi della nostra storia recente dalle quali l’uomo avrebbe dovuto comprendere gli orrori ed errori della guerra ed evitare di ripeterli. Invece nulla, la recentissima storia ci comunica che l’essere umano non impara nulla dal proprio passato. Ma cosa successe a Lidice? Durante la seconda guerra mondiale i cosiddetti “partigiani” cechi uccisero Reinhard Haeydrick, "Protettore del Reich" nel protettorato di Boemia e Moravia. Come rappresaglia il 10 giugno 1942 i Nazisti si recarono a Lidice e fucilarono sul posto, a gruppi di 10 alla volta, 192 uomini. L’esecuzione di massa durò 7 ore; le 198 donne del villaggio vennero caricare su camion, poi alla stazione di Kladno, fatti salire sui “famosi” treni speciali nazisti ed inviate nel campo di concentramento di Ravensbruck, Qui, 35 di esse furono mandare al campo di concentramento di Auschwitz, dove vennero sottoposte ad esperimenti medici. Quelle rimaste a Ravensbruck
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furono costrette a lavori veramente massacranti. Alla liberazione del campo 153 erano ancora in vita, ma di esse molte erano gravemente ammalate. La cosa più triste che fece piangere il mondo fu che i 99 bambini di Lidice (da 1 a 16 anni), il 2 luglio 1942, furono deportati nell’attuale Polonia a Lodz dove vennero divisi. Diciassette vennero ritenuti idonei alle adozioni da parte di famiglie tedesche mentre gli altri 82, su ordine di Adolf Eichmann, vennero trasferiti nel campo di concentramento e di sterminio di Cladmo, a 70 km da Lodz, dove trovarono la morte nelle camere a gas. È molto probabile che la maggior parte di loro sia stata gassata il giorno stesso dell'arrivo. In totale 334 abitanti di Lidice morirono per la rappresaglia tedesca (192 uomini con più di 16 anni, 60 donne e 82 bambini). Il villaggio di Lidice, che fu raso al suolo e dato alle fiamme, venne completamente distrutto tanto da scomparire dalle cartine geografiche.
Alla fine della guerra solo alcune donne ritornarono a Lidice e i 17 bambini “Germanizzati” vennero rintracciati e riportati in Patria. Il Paese fu ricostruito nel 1949 nei pressi del vecchio villaggio. Al posto del vecchio villaggio ora vi è un parco con alcuni resti e un meraviglioso monumento dedicato ai bambini di Lidice (42 femmine e 40 maschi). Ebbene, il 10 giugno 2022 ci sarà l’ottantesimo anniversario del massacro e della distruzione di Lidice e una delle mie avventure ciclistiche di quest’anno sarà proprio quella di recarmi in quel villaggio boemo, partendo da Feltre in bicicletta, per portare il mio personalissimo messaggio di pace esprimendo la mia totale contrarietà
Per non dimenticare a qualsiasi guerra. Saranno 700 km che percorrerò con commozione. Lidice è un luogo di preghiera, un luogo che quando lo visiti ti lascia quella sensazione dentro che non riesci a spiegare o comprendere. Hai l’impressione di sentire i bambini piangere, i tuoni dei fucili, il rumore del fuoco e della distruzione. Saranno anche 700 km di pace e fratellanza. Una serie di atleti partirà dalla Repubblica Ceca, ci riuniremo in Germania e pedaleremo assieme portando un messaggio di vera pace e amicizia.
Ma saranno anche 700 km pieni di rabbia pensando a tanti amici e fratelli Russi ed Ucraini costretti a combattere e morire per l’ottusità di alcuni. E il moderno mondo occidentale cosa fa?
Siamo sicuri che cerchi la Pace? Non lo credo. Sono estremamente convinto che la fine della guerra non si ottenga con l’invio di armi né alimentando tensioni internazionali. La Pace si conquista sedendosi ai tavoli, trattando, rispettando i patti e gli accordi internazionali cosa che, a mio modesto parere, il moderno mondo occidentale deve evidentemente ancora imparare a fare. La storia dovrebbe insegnare. Aspetto solo che l’Occidente si dimostri veramente maturo e pacifista.
La statua dei bambini di Lidice Questa scultura, che si trova davanti al Lidice Memorial, è stata dedicata ai bambini massacrati dai nazisti. Un'opera che l'artista ceca Marie Uchytilova-Kucova ha iniziato nel 1969 dedicando a questo particolare progetto tutta la sua vita e i suoi risparmi. Ha impiegato oltre vent'anni per creare dedicato a questo progetto tutta la sua vita e tutti i suoi risparmi, senza peraltro riuscire a portarlo a termine anche e principalmente per problemi economici. Ci sono voluti vent’anni per creare le ottantadue statue di bambini in gesso e a grandezza naturale. Purtroppo, alla sua morte, solo tre di esse erano state realizzate in bronzo. Dopo la sua morte è stato il marito JV Hampl che ha terminato l'opera e a realizzare il sogno della moglie. E ha potuto farlo grazie a una ingente somma di denaro donata dalla città danese di Albertslund. Per la cronaca i primi 30 bambini in bronzo sono apparsi nel 1995, mentre tutti gli si sono aggiunti un po’ alla volta. L'intera opera fu completata ed esposta nel giugno del 2000.
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e pensioni per cani al giorno d'oggi si identificano come strutture veramente funzionali e accoglienti. Quasi dei piccoli hotel pronti a ricevere gli animali d'affezione, non solo quando si va in ferie, ma anche per piccoli periodi se i proprietari, per i più svariati motivi, comprese le esigenze o impedimenti sanitarie, sono impossibilitati ad accudirli. Ed è anche per queste esigenze che le pensioni diventano luoghi che molti considerano “familiari” perchè spesso concorrono, non solo al benessere del piccolo “amico”, ma anche per superare quelle difficoltà momentanee che non di rado si presentano nei confronti dei pro-
prietari. La struttura Wally è una di queste perchè, con la sua competenza e documentata professionalità, è in grado di soddisfare sia le esigenze giornaliere dei proprietari, ovvero un “asilo momentaneo, effettuando anche il servizio di taxi-dog prelevando dalla abitazione il cane e portarlo nella pensione per il tempo richiesto, sia l'ospitalità per lunghi periodi come quelli delle ferie o per altre esigenze. Inoltre, è questa è una vera novità, Wally effettua un particolare servizio che riguarda i proprietari che, per i più svariati motivi di saluti, sono
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Tra Santi e religione di Chiara Paoli
Antonio,
il santo con il bambino «Qui, in terra, l'occhio dell'anima è l'amore, il solo valido a superare ogni velo.Dove l'intelletto s'arresta, procede l'amore che con il suo calore porta all'unione con Dio» Antonio di Padova, Sermoni
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l 13 giugno del 1231 moriva a Padova Fernando Martins de Bulhões, conosciuto in Portogallo, suo luogo natio come Antonio da Lisbona, ma a noi noto come Sant’Antonio da Padova. Nato il 15 agosto del 1195 da una nobile famiglia che viveva nei pressi della cattedrale di Lisbona, dove viene battezzato ed educato. Quindicenne decise di entrare a far parte dei Canonici regolari della Santa Croce nell’abbazia di San Vincenzo, dove rimane 2 anni. Desiderando immergersi nella contemplazione, scelse di allontanarsi da parenti e amici; chiese quindi il trasferimento presso il monastero di Santa Croce a Coimbra. Qui riceve l’ordinazione, si dedica alle sacre scritture e alla predicazione per 8 anni. L’avvenimento che cambia la sua vita e che lo porta ad entrare a far parte dell’ordine francescano avviene nel 1219,
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quando una spedizione di 5 monaci dell’ordine diretti in Africa per portare la fede cristiana moriranno decapitati poco dopo aver intrapreso l’opera di evangelizzazione. Questa notizia indusse il sacerdote a seguire il francescanesimo e a modificare il proprio nome, acquisendo quello di Antonio, come il santo orientale cui era dedicato l’eremo di Olivais di Coimbra. La sua nuova vita inizia partendo come missionario assieme al confratello Filippino di Castiglia, verso il Marocco, qui il giovane si ammala e dopo mesi di malessere viene convinto a fare ritorno a casa, ma durante il viaggio incontra una tempesta che lo fa naufragare in Sicilia, viene quindi accolto nel convento di Milazzo. Antonio insieme agli altri frati messinesi accoglie l’invito a raccolta di Francesco d’Assisi per il Capitolo Generale, partono quindi per raggiungere la valle attorno alla Porziuncola. Qui, in quello che venne ribattezzato il Capitolo delle Stuoie, che si protrasse dal 30 maggio all’8 giugno, più di 3000 religiosi discussero delle problematiche legate all’ordine. Chiuso l’incontro tutti partirono per fare ritorno alla propria sede, ma Antonio non sa dove andare, sarà frate Graziano, colpito
dalla sua umiltà, ad inviarlo all'eremo di Montepaolo vicino Forlì, dove giunse nel giugno 1221. Nel 1222 si recò con i confratelli nella cattedrale di Forlì per presenziare alle ordinazioni sacerdotali, in questa occasione il vescovo insistette perché Antonio formulasse un discorso di incoraggiamento ai nuovi sacerdoti, e fu così che sostenuto dallo Spirito Santo fece la sua predica che ebbe risonanza sino ad Assisi, ove viene richiamato alla predicazione. Le zone che gli vengono affidate oltre all’Emilia Romagna sono: la zona del Trevigiano, la Lombardia e la Liguria, il suo impegno è costante e non si fa scoraggia. Trail 1223 e 1224 è a Bologna per studiare teologia e successivamente viene mandato da San Francesco ad evangelizzare il sud della Francia. Grazie alla sua intensa opera di predicazione e conversione, viene soprannominato il "martello degli eretici". Alla morte di Francesco
Tra Santi e religione d'Assisi, Giovanni Parenti viene eletto suo successore e Antonio, ritornato in Italia, viene nominato ministro provinciale per l'Italia settentrionale. Sempre in viaggio tra le varie città predilige come sua sede la città di Padova, intento a predicare, ma anche a scrivere la sua opera “I Sermoni” che lo fecero entrare di diritto tra i Dottori della Chiesa. Tra i suoi scritti parole che fanno comprendere perché fosse tanto benvoluto: “Assai più vi piaccia essere amati che temuti. L'amore rende dolci le cose aspre e leggere le cose pesanti; il timore, invece, rende insopportabili anche le cose più lievi.” Quando nel 1228 le questioni interne all’ordine si acuiscono nuovamente, Antonio viene inviato a Roma, dove papa Gregorio IX ne apprezza le doti e lo definisce «arca del Testamento» ed «esimio teologo». Nel giugno del 1231, Antonio soggiornò
nell’eremo di Camposampiero per meditare e qui si verificò l’apparizione di Antonio che teneva in braccio Gesù Bambino, pochi giorni dopo, il 13 giugno 1231 si sentì male e chiese di tornare a Padova dove si spense. L’anno successivo sarà canonizzato e il suo culto è ancora oggi tra i sentiti anche nel nostro territorio. A Borgo Valsugana, nella frazione di Olle, la parrocchiale è dedicata a Sant’Antonio da Padova e risale al XVIII secolo, quasi completamente distrutta in seguito al primo conflitto mondiale è stata ricostruita. Dello stesso periodo anche la chiesetta costruita a Vignola-Falesina; la chiesa di Fornace invece, pur risalendo al XII secolo, viene intitolata a Sant’Antonio di Padova solo nell’800. Nella frazione perginese dei Ma-
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setti viene avviata nel 1913 la costruzione di una chiesa dedicata al santo padovano, grazie al lascito testamentario di Francesco Fruet e ad un comitato che si occupa dei lavori, affidati all’architetto Eduino Maoro, ma che a causa del conflitto verranno sospesi e porteranno alla consacrazione soltanto nel 1929.
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Tra piante, fiori e natura di Niccolò Sovilla
Gli insetti impollinatori
“
Fastidiosi esseri volanti” e “nemici giurati dei pic-nic” dai quali temete di essere punti? No, gli insetti impollinatori sono ben altro: importanti alleati senza i quali la riproduzione di molte specie vegetali non sarebbe possibile. Il loro è un ruolo fondamentale nella regolazione dell’ecosistema di tutto il pianeta. E, se imparerete a conoscerli e rispettarli, sarà assai improbabile che vi pungano! Negli ultimi decenni il calo di insetti impollinatori è fonte di grande preoccupazione. Benché riconosciamo che questa non possa definirsi una vera e propria “soluzione”, certo è che chiunque possegga un giardino, grande o piccolo – e, perché no, anche un semplice terrazzo in città -, può e deve dare il proprio piccolo contributo. Tra le varie ragioni di questo declino vi sono la mancanza di fiori e di siti di riproduzione, oltre ai più noti cambiamento climatico e massiccio uso di pesticidi. Fortunatamente, le azioni che ciascuno può intraprendere per contrastare questa drammatica realtà, nel proprio piccolo, sono diverse. Innanzitutto, mettete a dimora piante ricche di polline e nettare, fondamentali per supportare gli impollinatori. L’obiettivo è semplice: che qualcosa sia in fiore durante tutto l’anno.
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Chi dispone di un giardino sufficientemente ampio dovrebbe mettere a dimora alberi da frutto. In primavera, nel nostro giardino, il melo (M. domestica), il prugno (P. domestica) e il cotogno (Cydonia oblonga) pullulano di insetti. Se avete un piccolo giardino, puntate sui fiori. L’Agastache è perfetta per le aiuole miste di annuali e perenni, ed è molto amata dalle api. Il trifoglio, se lasciato crescere, si riempie di fiori melliferi. L’Echinacea, che fiorisce in estate inoltrata, è apprezzatissima anche dalle farfalle. Preferite le piante autoctone e rustiche alle piante esotiche e agli incroci, spesso sterili e quindi inutili per gli insetti, oppure abbiate l’accortezza di chiedere al vostro vivaista di fiducia quali piante ornamentali, seppur “artefatte”, siano adatte agli impollinatori. Ad esempio, noi nutriamo una gran passione per le rose inglesi David Austin, ma sappiamo che molte di esse non hanno alcuna utilità in natura, sono cioè “soltanto belle da vedere”. Ci siamo informati e abbiamo scelto di mettere a dimora nel nostro roseto soltanto le David Austin che producono nettare o polline, un compromesso che a noi non costa nulla, ma che per la natura significa molto! Permettete alle “erbacce” di fiorire tagliando il prato con minor frequenza. Non potete immaginare quante piante utili agli impollinatori si possano trovare in pochi metri di giardino,
se lasciato un po’ selvaggio: nel nostro abbondano le pratoline (Bellis perennis), il tarassaco o dente di leone (Taraxacum officinale), l’edera terrestre (Glechoma hederacea), particolarmente amata dai bombi, la facelia (Phacelia tanacetifolia), la bugola (Ajuga reptans), il trifoglio (Trifolium pratense), la falsa ortica (Lamium purpureum) e chissà quali altre piante che ancora non abbiamo scoperto! Anche le api hanno bisogno di bere. Un piattino d’acqua o il bordo di uno stagno saranno l’ideale. Evitate di utilizzare pesticidi, soprattutto non spruzzateli mai su fiori aperti. Accettate piuttosto la presenza di parassiti, che aiuterà il vostro giardino a trovare un naturale equilibrio. Gli afidi, ad esempio, sono il cibo prediletto per le larve di coccinella e di molte specie di sirfidi, e sono apprezzati da uccelli quali cince, passeri e balestrucci. Incoraggiate gli impollinatori a riprodursi, nidificare e svernare nel vostro giardino. In commercio esistono nidi artificiali per ogni tipo di insetto: api, bombi, farfalle, coccinelle… Oltre a questi, gli insetti utilizzeranno i punti del giardino che lascerete più al naturale, sfruttando le piccole cavità nei tronchi degli alberi, le siepi, i cumuli di rami secchi lasciati in un angolo dopo l’ultima potatura.
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Meteorologia oggi di Giampaolo Rizzonelli
APRILE 2022:
IL PIANETA SOFFRE ANCORA IL CALDO
P
er la Terra non è stato un aprile da record quello appena concluso ma ad ogni modo sempre all’insegna del caldo, il 5° aprile più caldo di sempre a pari merito con il 2010, secondo la NOAA (agenzia USA che si interessa di oceanografia, meteorologia e climatologia), il cui database raccoglie 143 anni di dati, dal 1880. La temperatura di aprile 2022 è stata di 0,85°C al di sopra della media del 20° secolo alla pari con il 2010, i 10 mesi di aprile più caldi si sono
verificati dal 2010, con gli anni dal 2014 al 2022 tutti classificati tra i 10 mesi di aprile più caldi mai registrati. Aprile 2022 ha segnato anche il 46° aprile consecutivo e il 448° mese consecutivo con temperature superiori alla media del 20° secolo. Le temperature sono state molto al di sopra della media in alcune parti del Nord America meridionale, nell'Oceano Atlantico, nel Centro Sud America, nell'Africa settentrionale e orientale, nell'Asia meridionale, in Australia e in gran parte dell'O-
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ceano Indiano e degli oceani del Pacifico settentrionale e occidentale. Invece sono state osservate temperature quasi più fresche della media nel Nord America centrale e settentrionale, del Sud America meridionale, dell'Europa centrale, dell'Africa meridionale e dell'Oceano Pacifico centrale, orientale e tropicale. L'Asia ha registrato l’aprile più caldo di sempre, con una temperatura di ben 2,62°C sopra i valori normali. L'Oceania ha registrato il quinto aprile più caldo di sempre, mentre
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Meteorologia oggi l'Africa e il Sud America hanno registrato rispettivamente il 9° e il 12° aprile più caldo di sempre. Nonostante l'Europa abbia avuto un aprile più caldo della media, non si è classificato tra i 20 aprile più caldi mai registrati. L’analisi delle temperature di aprile è riportata in fig. 1 dove i colori mostrano la differenza rispetto alle medie (bianco in media, rosso più caldo, azzurro più freddo)
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Tempo d'estate Tempo di ciclomotori T utti i ciclomotori, per poter circolare, devono essere muniti di targa e del relativo certificato di circolazione che è il documento contenente tutti i dati necessari all’identificazione del mezzo e del proprietario. Documento che deve essere, necessariamente, rilasciato dalla Motorizzazione Civile o dalle agenzie pratiche auto abilitate “Centro Servizi Motorizzazione”. La targa, invece, che è personale e serve a identificare il proprietario è costituita da 6 caratteri alfanumerici di colore nero su sfondo bianco. Per il codice della strada tutti i ciclomotori, con cilindrata massima fini a 50cc o fino a 4 kW (se a motore elettrico) devono possedere una targa associata a un certificato di circolazione, è legata a una sola persona fisica e giuridica e non può essere MAI ceduta a terzi. E la targa, in caso di cessione, furto o rottamazione del ciclomotore, deve sempre seguire il proprietario e potrà essere associata a un nuovo mezzo e registrata nel nuovo certificato di circolazione. Come dire targa e proprietario non
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possono essere separati. E nel caso il proprietario possegga più ciclomotori dovrà richiederne una per ciascuno di essi che sarà associata ai rispettivi documenti di circolazione. Per giusta informazione è da aggiungere che i ciclomotori 50cc possono essere guidati da conducenti minorenni, già dall’età di 14 anni. In caso di passaggio di proprietà di un ciclomotore usato è necessario rivolgersi all’ufficio locale della Motorizzazione Civile oppure a un centro specializzato o a un’agenzia di pratiche auto che saranno in grado di fornire le giuste informazioni, anche sulla necessaria documentazione da presentare. Nello specifico: Il venditore deve comunicare la sospensione dalla circolazione del ciclomotore per passaggio di proprietà e richiedere il relativo certificato. Chi acquista, invece, deve richiedere una nuova targa o utilizzarne una di sua proprietà, purché non sia già associata a un altro ciclomotore.
Se la richiesta di sospensione della targa è fatta in contemporanea all’intestazione a una nuova persona del ciclomotore non è previsto il pagamento di diritti e bolli alla motorizzazione, mentre se la richiesta di sospensione non è propedeutica a nessuna operazione l’utente sarà costretto a pagare diritti e bolli al Ministero dei Trasporti. Per quanto riguarda invece il bollo, ovvero la tassa di circolazione dei ciclomotori con cilindrata fino a 50cc, che è diversa dalla tassa automobilistica e per i motocicli, è previsto il pagamento di una tassa forfettaria annua (dal 1° gennaio al 31 dicembre) ma solo se il veicolo è utilizzato su strada pubblica. Se invece il mezzo non si utilizza mai o se si usa su strade private, non è dovuta nessuna tassa. E anche se il pagamento avviene successivamente non sono applicate sanzioni amministrativa a condizione che il pagamento venga effettuato prima della messa in circolazione del mezzo. La validità del bollo resta sempre con scadenza il 31 dicembre a prescindere da quando si è fatto il pagamento.
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