Premiata Salumeria Italiana 2-2021

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Autorizzazione del Consorzio del Prosciutto di Parma del 21-4-98

Periodico bimestrale per gli addetti ai lavori D A L S A L U M I F I C I O A L L A S A L U M E R I A N O N S T O P Anno XXXIII N. 2 Marzo-Aprile 2021

€ 6,70



LA

BRESAOLA

RICC A

SAPERE

DI

S A PE R E /sa·pé·re/ sostantivo maschile

Dal latino sàpere “avere sapore”: intuire il gusto delle cose, ma anche insaporirle, renderle preziose. Possedere la conoscenza, la pratica e l’esperienza che permettono di riconoscere la qualità delle materie prime senza fermarsi alle apparenze. 6LJQLÀFD HVVHUH WUDVSDUHQWL LQ FLz FKH VL ID Sapere è l’amore che mettiamo in ogni gesto.

PAGANONI.COM



N. 2

€ 6,70 Anno XXXIII Marzo-Aprile 2021

Eurocarni – Premiata Salumeria Italiana – Il Pesce – Euro Annuario Carne – Euro Genuine Food Annuario del Pesce e della Pesca – US Annuario dei Fornitori della Sanità in Italia

Direttore responsabile e editoriale Elena Benedetti

Comitato di redazione Franco Ferrari – Clara Fossato (UNICEB) – Giuliano Marchesin (Unicarve) – Gianni Mozzoni (Legacoop) – Manrico Murzi – François Tomei (Assocarni)

Redazione Gaia Borghi – Federica Cornia – Marco Credi Segreteria di redazione Gaia Borghi

Comitato scientifico Prof. Giovanni Ballarini – Dr. Alfonso Piscopo Collaboratori scientifici Dr. Marco Cappelli – Dr. Massimo Chiappini Prof. Eugenio Del Toma – Dr. Emanuele Guidi Dr. Pierluigi Roncaglia – Prof. Andrea Strata

Prestampa Marco Credi Marketing e pubblicità Luigi Credi – Chiara Zaccaroni Fotografia Luigi Credi

Euro Annuario Carne EURO ANNUARIO CARNE 2021

Abbonamenti Fioretta Fiorentin Amministrazione Andrea Tomassone

La banca dati internazionale del mercato delle carni sempre aggiornata, utile strumento di lavoro per gli operatori del settore lavorazione, commercio e distribuzione carni. Edizione 2021 Copia cartacea: € 95,00

Dal 1984 Edizioni Pubblicità Italia compone le sue riviste con computer Apple®. Il testo è impaginato con Adobe® InDesign® CC 2019. Le illustrazioni sono realizzate con Adobe® Photoshop® CC 2019.

Direzione – Redazione Amministrazione – Pubblicità Edizioni Pubblicità Italia Srl Piazza Roma 3 – 41121 MODENA Tel. 059216688 – Fax 0598671709 E-mail: redazione@pubblicitaitalia.com Web: www.premiatasalumeriaitalianaonline.com — Reg. al Tribunale di Modena n. 798 del 23-10-1985

Premiata Salumeria Italiana, 2/21

Tariffe abbonamenti Annuale (6 numeri): Italia € 40,00 – Estero € 50,00 Sconto librerie: 10% Modalità: versamento su c/c postale n. 52411311 intestato a Edizioni Pubblicità Italia Srl Piazza Roma 3 – 41121 MODENA ISSN 0394-2910

Ufficio stampa e Media Partner

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N. 2

€ 6,70 Eurocarni – Premiata Salumeria Italiana – Il Pesce – Euro Annuario Carne – Euro Genuine Food Annuario del Pesce e della Pesca – US Annuario dei Fornitori della Sanità in Italia

A pagina 60.

In questo numero:

Immagini

La Salsiccia fondana

12

Tendenze

Fette di Felicità by Maria Walter Nielsen

14

La frase del mese

La parabola del prodotto tipico

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Salumi & Co.

La mortadella secondo Goran – Scarpetta Project – Pane e caratteri mobili

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Fotografati e mangiati

Soppressa naturale – Salsiccia curva di suino nero

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Brevi storie di cibo lento Fante di coppe a velocità contemporanea

Premiata Salumeria Italiana, 2/21

Alessia Morabito

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Il food in rete

Social food

Elena Benedetti

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Aziende

Lunadoro, un’eccellenza toscana riconosciuta in tutto il mondo Valle Pepe, fattoria etica di montagna

Massimiliano Rella

32

Mi chiaman mortadella, ma mortadella (di Bologna) non sono

Gaia Borghi

36

Mortadella di Campotosto, rarità dal cuore morbido, con oltre 500 anni di storia

Chiara Papotti

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Antipasto, primo e secondo, tutta la mortadella in un menu

Federica Cornia

44

Rosa e rigorosamente bolognesi

Federica Cornia

46

L’apparente semplicità del pane tradizionale dell’Alta Murgia

Chiara Papotti

48

Comunicare l’identità valtellinese attraverso la bresaola

Riccardo Lagorio

50

La salsiccia fondana di Franco Petrillo

Massimiliano Rella

58

Analisi del food

Salumi ovicaprini, alimenti funzionali

Giovanni Ballarini

60

Progetti

Sheep AL.L. Chain

Riccardo Lagorio

64

Inchieste

Ismea: un anno di Covid-19

Mercati

Export 2020: in piedi nonostante tutto

Sebastiano Corona

76

Belle Botteghe

Vittorio e Loredana: Bue Grasso, Fassona e Salsiccia di Nizza

Massimiliano Rella

80

Speciale mortadelle

28

Le altre mortadelle…

Prodotti tipici

39

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A pagina 32.

Autorizzazione del Consorzio del Prosciutto di Parma del 21-4-98

Periodico bimestrale per gli addetti ai lavori D A L S A L U M I F I C I O A L L A S A L U M E R I A N O N S T O P Anno XXXIII N. 2 Marzo-Aprile 2021

€ 6,70

In copertina: colazione primaverile con la mortadella (photo © Massimiliano Rella).

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La cucina Street food

Week-end a Minorca

I vini di Premiata Salumeria Italiana

I segreti dell’aspic

Giorgia Fieni

84

L’incredibile storia dell’hot-dog danese

Hazel Evans

88

Cork, anche l’Irlanda ha la sua capitale del gusto

Massimiliano Rella

92

Minorca, scrigno di sapori e biodiversità anche sui banchi del mercato

Massimiliano Rella

96

Xoriguer, il gin di Minorca

Massimiliano Rella

98

Degustazione: Molise

Laura Franchini

102

A pagina 88. A pagina 98.

A pagina 102.

www.premiatasalumeriaitaliana-online.com 8

Premiata Salumeria Italiana, 2/21


Il calore di casa in ogni momento

Famiglia

BELCULOTTO CULATTA ARROSTO DA SUINI NATI E ALLEVATI IN ITALIA

COTTURA LENTA A BASSE TEMPERATURE

www.anticafoma.com

SENZA LATTOSIO E DERIVATI DEL LATTE

SENZA GLUTINE


A pagina 120.

A pagina 42. A pagina 28.

Sono 180 grammi, lascio? Di sogni e desideri, peccati e coltelli

Giovanni Papalato

Arte

Toulouse-Lautrec e l’arte della tavola

Josette Baverez Blanco 108

Curiosità

Le locuste del Battista

Giovanni Ballarini

110

Packaging

MOCA: ipotesi nuove regole UE

Sebastiano Corona

114

Tecnologie

Webshop: ordino oggi, ricevo domani

Libri

106

116

Il macellaio che ama il cinema

120

L’Oro Nero di Modena – Magari un che di formaggio – Fisiologia del gusto – Delivery e take away – Scarti d’Italia - Italian Scraps – Guida I Salumi d’Italia 2021

122

www.premiatasalumeriaitaliana-online.com 10

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International Food Fair

fieramilano 22-26 October 2021

Adding value to taste #BetterTogether


IMMAGINI

La Salsiccia fondana è un insaccato ottenuto da un mix di tagli suini, anche nobili, fatti a cubetti e impastati con paprica e coriandolo nella versione classica, con aggiunta di peperoncino nella versione piccante. La prepara insieme a tante altre specialità nella sua Polleria Norcineria di Fondi, in provincia di Latina, Franco Petrillo. Leggete di più nell’articolo di Massimiliano Rella a pagina 58 (photo © Massimiliano Rella).

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Premiata Salumeria Italiana, 2/21


Prosciuttificio IL CONTE S.r.l. Via Sant’Ambrogio, 4 – Fraz. Bazzano 43024 Neviano degli Arduini (PR)


TENDENZE Fette di Felicità by Maria Walter Nielsen

Durante i mesi di novembre-dicembre 2020 Meme Gallery, galleria di oggetti di design fondata da MARIA ANGELA DI PIERRO, ha ospitato la mostra di MARIA WALTER NIELSEN, artista danese trapiantata in Italia. Titolo dell’esposizione: “A Slice of Happiness / Fette di Felicità”, progetto nato durante il primo lockdown — eppure immaginato da tempo —, che esprime attraverso disegni colorati e divertenti un piacere semplice quanto immediato, quello del buon cibo, della condivisione felice nel preparare tutti insieme qualcosa da mangiare. E chi lo avrebbe mai detto che una fetta di salame avrebbe potuto rivelare un pattern così interessante? Maria Nielsen sa aprire le cose e guardare come sono fatte dentro con entusiasmo, con interesse sincero. Tutto cambia e viene meglio se è tagliato bene e, a pensarci bene, questo non è affatto scontato. Accanto ai salumi affettati accuratamente, alle rondelle di frutta, di verdura e di formaggio, sulle pareti di Meme Gallery c’erano anche i ritratti di un salumiere e una fruttivendola. La cornice ideale per mettere tutto nella giusta prospettiva, con un punto di ironia nei confronti dei dipinti tradizionali (fonte: Annalisa Rosso, zero.eu).

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LA FRASE DEL MESE

Il 28 luglio 1718 Elisabeth-Charlotte, principessa palatina, malmaritata cognata di Luigi XIV ma alfine destinataria di opportuni regali come madre del Reggente di Francia, così informava i suoi parenti tedeschi: “Ho scritto ad Harling per ringraziarlo delle due eccellenti mortadelle che mi ha inviato. Madame de Berry (ovvero la nipote, figlia del Reggente, NdR) le ha trovate così buone da portarne via i resti”. Contese dai familiari del Re Sole, le mortadelle di Bologna offrono una completa e illuminante parabola del prodotto tipico

Photo © Jiri Hera

Corrado Barberis INSOR, ”Atlante dei prodotti tipici: i salumi”, Introduzione

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Senza Conservanti Senza Glutine Con Con Sale Sale Marino Marino

Strada Comunale del Cristo, 12/14 41014 Solignano di Castelvetro - MO - Italy Tel. +39 059 532007 - Fax +39 059 532038 www.bpprosciutti.it - www.suincom.it


SALUMI & CO.

La mortadella

secondo Goran

MARCO GORAN ROMANO, meglio conosciuto come Goran, è un graphic designer e illustratore co-fondatore insieme alla moglie di Sunday Büro, studio dedicato al lettering. È presente anche su YouTube con contenuti relativi all’illustrazione (pricing, strategie di self-branding, etica del lavoro, concorsi, pubblicazioni, ecc…) oltre a recensioni, interviste e process video dei suoi lavori. La sua mortadella è il top! www.goranfactory.com www.sundayburo.com

Scarpetta PROJECT Ecco un progetto di ESTER BIANCHI e ASTRID LUGLIO: sei piatti in metallo smaltato, sei ricette regionali della cultura popolare italiana, sei composizioni grafiche ispirate ai resti di cibo nel piatto. Una collezione per la tavola in continuo divenire, in cui il prodotto diventa un pretesto per indagare e veicolare fantastiche storie culinarie della nostra tradizione. scarpettaproject.it

Pane e caratteri

MOBILI

Loro sono quelli di Officina Typo, laboratorio artigianale a Modena che porta avanti un lavoro di valorizzazione della stampa tipografica con antichi torchi a mano e un patrimonio unico e meraviglioso di caratteri mobili. Le macchine sono antiche ma il design è moderno e contemporaneo. E quando racconta il cibo – in questo caso le tante varietà del pane italiano – il risultato è ancora più bello! officinatypo.bigcartel.com

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ph: Franceschini Vincenzo

Da oltre 50 anni curiamo i nostri prodotti con grande amore. Selezioniamo solo le migliori carni di suini Italiani e le lavoriamo nel rispetto della tradizione.

FRANCESCHINI GINO & C. SRL Via dei Marmorari, 38 - 41057 Spilamberto (Mo) Tel. + 39 (0) 59784037 - Fax +39 (0) 59784075 - info@franceschinigino.it - www.franceschinigino.it


FOTOGRAFATI E MANGIATI

SOPPRESSA NATURALE Bazza Salumi www.salumibazza.it

Produttore: Salumificio Bazza, Terrassa Padovana (PD). Regione: Veneto. Ingredienti: coscia e pancetta di suino, sale marino, saccarosio e pepe nero. Prodotto da carne suina di origine 100% italiana. Senza: glutine, lattosio, conservanti. Descrizione: “La Soppressa è considerata la Regina dei salumi, e come tale viene prodotta nel massimo rispetto di tutta la sua importanza. L’impasto è formato da specifiche percentuali di coscia e pancetta, risultando più grasso e morbido rispetto a quello del salame”: così scrive il Salumificio Bazza nelle proprie pagine web. Maestri salumieri in quel di Terrassa Padovana, i signori di Bazza Salumi macinano le loro soppresse a grana grossa impastandole seguendo un’antica ricetta: sale, pepe e l’eventuale aggiunta di aglio. Il loro insacco è disponibile in due formati: la tipica Soppressa veneta da 2,8 kg, ideale per il banco di una gastronomia o di un ristorante, oppure nella pezzatura da 1,2 kg, per un consumo domestico. All’assaggio risalta il sapore dolce e perfettamente bilanciato. È buonissima e, attenzione, potrebbe creare dipendenza! In abbinamento a: un calice di Prosecco superiore Docg per un aperitivo casalingo.

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SALSICCIA CURVA DI SUINO NERO di Fernando Rota www.sanvincenzosalumi.it

Produttore: Salumificio San Vincenzo, Spezzano Piccolo (CS). Regione: Calabria. Ingredienti: carne di suino, peperoncino dolce calabrese (3%), sale, destrosio, saccarosio, antiossidante E300. Conservanti: E252, E250. Senza: glutine. Descrizione: salsiccia di suino Nero dolce, dalla tipica forma arquata e dal consistente impasto e profumo del peperoncino macinato che fanno di questa salsiccia il prodotto di punta dei salami tipici regionali. “La sua ricetta originale è custodita dall’azienda da decenni per tramandare un sapore della tradizione calabrese. Ottenuta da carni magre, spalla e pancetta, viene aromatizzata con peperoncino rigorosamente calabrese, dolce (come in questo caso) o piccante” scrive il Salumificio San Vincenzo nel proprio sito. All’assaggio il profumo è coinvolgente e avvolgente. In abbinamento a: pane sciapo e un calice di Cirò rosso morbido e avvolgente.

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BREVI STORIE DI CIBO LENTO A VELOCITÀ CONTEMPORANEA

Fante di coppe di Alessia Morabito (illustrazioni di Alessia Serafini)

i sveglia, si lava, colazione, si veste, scende. Tutto in pochi minuti. Entra dal droghiere. “Buongiorno! Vuoi il solito?”. Gli occhi impastati di sonno ma la voce ferma: “Sì”. Sotto il coltello il panino è arrendevole e sbriciola un po’, per fragranza, non certo per debolezza. È riempito di Coppa piacentina, tagliata fine così profuma di più. Carta oleata e carta paglia a chiudere la merenda: non son nemmeno le otto, ancora non è arrivato a scuola e nei pensieri ha solo il panino con la coppa per la ricreazione. A metà degli anni ‘80 i TEARS FOR FEARS cantano “Everybody wants to rule the world” e la nevicata del secolo ha imbiancato tutto il Centro Nord. Seduto al suo banco libera un cantuccio del panino dalla carta: un morso, due morsi, tre morsi. Chiede di andare in bagno, torna in classe, allunga le mani sotto al banco: il panino non c’è più. “Cosa cerchi Giovanni?”. “Il mio panino”. “Si mangia a ricreazione, Giovanni, non a tutte le ore! Ora vediamo se lo trovi”. Cammina per la classe mentre i compagni ridacchiano. Acqua. Fuochino. Fuoco. Giovanni ritrova il panino. “Cos’abbiamo imparato, Giovanni?”. Gli occhi azzurri sono diventati lame, Giovanni non risponde, guarda il maestro negli occhi, rimane in piedi, addenta il panino. I compagni non ridono, il maestro tace, Giovanni si siede al banco. La Coppa piacentina è più dolce e più grossa delle altre. La sua aromaticità è ottenuta usando poche spezie dolci, alloro e il minimo indispensabile di sale nella salagione che è esclusivamente a secco, tutto questo per mettere in risalto le sfumature aromatiche dei maiali emiliani e lombardi, gli stessi del Disciplinare del Prosciutto di Parma. Successivamente viene fasciata nella “pelle di sugna” di maiale, legata, lasciata asciugare ed infine stagionata per almeno 6 mesi, un tempo ben superiore dei 60 giorni del Disciplinare della Coppa di Parma. Stavamo mangiando la coppa più buona della nostra vita seduti ad un tavolo di Isa alla Palta quando Giovanni mi ha raccontato questo episodio della sua vita. In poco meno di quarant’anni è rimasto lo stesso: viscerale, cocciuto, senza diplomazia, fuori da molti schemi, insolente, maldestro, mai cattivo, mai cinico, fedele alle donne, agli amici, alle cause, alla musica, un uomo con lo stesso sguardo sul mondo di quando era bambino, di entusiasmi sinceri e nessuna ipocrisia, molte parole nel mondo poche parole su se stesso. Ci scontriamo spesso ma ci accompagniamo nella vita.

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IL FOOD IN RETE

SOCIAL di Elena

1. Quale formaggio Si dichiara una testata giornalistica per la consapevolezza dei consumatori e il sostegno ai pastori e alle loro comunità. Qualeformaggio.it, diretto da STEFANO MARIOTTI, è un settimanale digitale da leggere on-line che fa scoprire l’universo caseario, dal pascolo al latte. A noi piace molto la rubrica “Resistenza Casearia”, che raccoglie le storie di piccoli produttori estensivi e dei consumatori che cercano il meglio. Bravissimi (photo © diprosilac.it).

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2. Bernulia, leggerezza e creatività GIULIA BERNARDELLI, nome d’arte Bernulia, è un’artista mantovana che crea composizioni e illustrazioni partendo spesso da collage di foglie, fiori, frutti, semi, rami e cibo. Il suo profilo instagram.com/bernulia racconta la sua ricerca del bello e della creatività nella quotidianità. Da seguire per ispirazioni (photo © instagram.com/bernulia).

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FOOD Benedetti

3. Drogheria Cirla, sapore d’autentico È una bottega storica dal sapore antico e dal cuore moderno, con sede a Monza, caratterizzata da una grande capacità di raccontare la propria anima anche attraverso i social. In particolare il profilo instagram.com/drogheriacirla è una vera meraviglia di colori, prodotti, personalità e cuore. Da prendere ad esempio (photo © instagram.com/drogheriacirla).

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4. Merusi 1876, alta salumeria su Instagram La salumeria Merusi 1876 si trova a Sala Baganza, nel cuore della Food Valley, e a Parma, vicino al Piazzale della Pace. Noi seguiamo su instagram.com/merusi1876 le foto dei suoi panini, che profumano di arte salumiera e tradizione, come questo “Parmino” gourmet in foto. Assolutamente perfetto nella sua semplicità (photo © instagram.com/merusi1876).

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Photo: Gurus Lido Vannucchi

Disponibile anche al pistacchio.

www.mortadellafavola.it


IN BUONE MANI. % 100 ITALIANO


AZIENDE

LUNADORO, UN’ECCELLENZA TOSCANA RICONOSCIUTA IN TUTTO IL MONDO

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unadoro, una “piccola” e preziosa società agricola di Valiano di Montepulciano acquisita da Schenk Italian Wineries, è una delle eccellenze più interessanti del panorama del Vino Nobile. La produzione dell’azienda è concentrata sui tre vini che rappresentano l’eccellenza di Montepulciano: Rosso di Montepulciano, Vino Nobile e Nobile Riserva, ricordando che il Nobile è stato il primo vino a ricevere la

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In alto: Nobile di Montepulciano DOCG Pagliareto. In basso: Adriano Annovi, AD Lunadoro. A sinistra: vigneti dell’Azienda Agricola Lunadoro per Schenk.

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Denominazione di Origine Controllata e Garantita (DOCG) il 1o luglio 1980. Questi tre grandi vini sono già stati apprezzati da WINE ENTHUSIAST, GAMBERO ROSSO, GUIDA VERONELLI e THE DRINKS BUSINESS con recensioni molto lusinghiere. Per il Lunadoro Pagliareto vino Nobile di Montepulciano DOCG 2015 (in foto a lato) i riconoscimenti sono arrivati, importanti, sia in Italia sia all’estero: Tre bicchieri Gambero Rosso nel 2018 e unico vino italiano ad essere servito alla cena di gala dell’Accademia dei Nobel l’anno successivo. Da THE DRINKS BUSINESS sono arrivate le medaglie d’oro Master Tuscan con tre referenze: vino Nobile di Montepulciano DOCG Pagliareto 2017, vino Nobile di Montepulciano Docg Gran Pagliareto 2016 e vino Nobile di Montepulciano Docg Riserva Quercione 2016. Per il Gran Pagliareto e la Riserva Quercione, una menzione speciale pubblicata sul sito di THE DRINKS BUSINESS: “Questi due vini del 2016 hanno sedotto gli assaggiatori con i loro aromi di mandarino, ciliegia e cedro, e hanno consegnato così tanto fascino al palato con sapori

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di bacche rosse in umido, prugne e cuoio, insieme a un brillante, carattere piccante e tannini fini e asciutti”. Il vino Nobile ha certamente un potere seduttivo che in Lunadoro si esprime al meglio e che a breve presenterà una nuova referenza disponibile nelle enoteche italiane e sull’e-shop Vineria43.it La conversione al biologico I programmi di Adriano Annovi, amministratore delegato di Lunadoro, non contemplano solamente la ricerca dell’eccellenza e l’ampliamento dalla gamma, ma anche una totale conversione al biologico entro il 2023. «La salvaguardia del territorio e la convinzione che la natura sia in grado di autodifendersi nel miglior modo possibile ci hanno spinto a intraprendere questo percorso che vedrà la conversione dell’intero vigneto della cantina Lunadoro in biologico entro il 2023. Si tratta di un investimento importante, che riguarda il 15% del fatturato totale dell’azienda. Siamo certi che in termini di qualità del vino e di sostenibilità sia un progetto che darà frutti eccezionali.

L’attenzione verso il suolo e la maggior cura del vigneto, coadiuvate anche dalle favorevoli condizioni pedoclimatiche della zona, saranno fattori determinanti per innalzare ancora più in alto l’asticella qualitativa delle nostre uve e quindi dei nostri vini». È prevista l’eliminazione di qualsiasi diserbante e di tutti i fitofarmaci di sintesi. Si prediligeranno tutti quei processi che favoriscono in modo naturale la rigenerazione del sistema suolo: il piano di rotazione e le buone pratiche agronomiche, come il sovescio, volte alla produzione di preziosa sostanza organica anche fra un ciclo produttivo e l’altro. La vendemmia 2023 sarà la prima 100% bio.

Per info: www.lunadoro.it E-commerce: www.vineria43.it

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Schenk: obiettivo sostenibilità raggiunto con Equalitas «Dopo il lungo iter che ha portato all’ottenimento della certificazione di sostenibilità Equalitas, oggi Schenk Italian Wineries ha adottato tutte le pratiche etiche, ecologiche ed economiche per migliorare i processi aziendali, nell’ottica del risparmio delle risorse idriche ed energetiche utilizzate, e del rispetto degli obiettivi definiti. Anche in un anno difficile ed incerto come quello che ci siamo a lasciati alle spalle, siamo orgogliosi di aver continuato ad investire e a lavorare per innalzare i nostri standard etici ed ecologici e di aver assicurato un luogo di lavoro stabile e sicuro a tutti i nostri dipendenti, senza aver dovuto ricorrere all’utilizzo della cassa integrazione». Con queste parole Roberta Deflorian (in foto), direttore commerciale di Schenk Italian Wineries, annuncia il recente ottenimento della certificazione Equalitas, che attesta l’impegno e la volontà dell’azienda di Ora (BZ) nell’adottare buone prassi in cantina, in campo e nella promozione di uno rapporto ancora più stretto col territorio d’appartenenza. La certificazione Equalitas si raggiunge per step e si basa su dati oggettivi e misurabili: si va dagli indici di biodiversità del suolo e dell’acqua alle impronte idriche e carboniche, passando attraverso le buone pratiche di lavorazione per la sostenibilità ambientale fino al controllo di gestione e la trasparenza dei dati per la sostenibilità economica. A ciò si aggiunge l’impegno per il miglioramento della sostenibilità etica. Schenk Italian Wineries, che nel 2020 ha prodotto circa 51 milioni di bottiglie per un fatturato di oltre 115 milioni di euro (+4% rispetto al 2019), ha lavorato su tutti i tre fronti per migliorare la qualità e la sostenibilità dei propri processi e prodotti. In particolare, l’azienda vitivinicola altoatesina ha sempre perseguito e mantenuto standard molto alti di soddisfazione tra i dipendenti con diverse misure a sostegno: dall’introduzione, nel 1997, di un premio di produzione legato all’andamento dell’azienda, ad un servizio mensa per i 2/3 a carico dell’azienda, dalle borse di studio per meriti scolastici riservate ai figli dei dipendenti, al servizio di asilo nido introdotto nel 2019. Sono stati operati, inoltre, una serie di investimenti per abbassare i consumi idrici ed energetici aziendali. Da qui l’introduzione della linea 4.0 per l’imbottigliamento, che ha portato ad una riduzione del 6,7% del consumo di acqua e del 6,5% di energia elettrica; la dotazione di una centrifuga che permette il lavaggio con un ridotto spreco di energia e acqua; l’ampliamento del depuratore per lo smaltimento delle acque; la riduzione del rumore in linea di produzione per migliorare il benessere lavorativo. «Crediamo sia molto importante prestare sempre più attenzione ai bisogni e alle esigenze delle proprie risorse umane, valorizzare il territorio che ci ospita e impegnarsi a ridurre il più possibile l’impatto sull’ambiente» ha sottolineato Roberta Deflorian. «In questa direzione, stiamo avviando l’iter di certificazione Equalitas per la sostenibilità anche per Lunadoro».


Un’altra storia di norcineria di qualità sui Monti Lepini

Valle Pepe, fattoria etica di montagna di Massimiliano Rella

ravamo andati a Bassiano soltanto l’anno scorso, appena dopo le riaperture dal lockdown di marzo, per visitare i laboratori di Reggiani, un’azienda artigianale che ha saputo valorizzare il Prosciutto di Bassiano, la più nota specialità norcina di questo paesino di 1.500 abitanti in provincia di Latina, a 650 metri slm sui Monti Lepini, nel Lazio meridionale. Siamo tornati ad inizio febbraio, per raccontare un’altra storia di norcineria di qualità, in queste terre dal clima ideale per la stagionatura dei prosciutti, dove già un tempo le famiglie contadine provvedevano a farsi in casa la scorta alimentare per l’inverno (ricca di salumi e insaccati), seguendo le istruzioni di ricette consolidate e tramandate nella pratica quotidiana. Un po’ con lo spirito di allora, un po’ con lo sguardo al mercato le sorelle ELVIRA e LUCIA RICCI e LUIGI CACCIOTTI, il marito di Lucia, gestiscono la SOCIETÀ AGRICOLA VALLE PEPE, una “fattoria etica” di montagna con allevamento brado e semibrado di suini e capre: per il pascolo sono 15 ettari di proprietà e 100 in affitto dal comune e da privati; inoltre, una sessantina di ulivi di cultivar Itrana da cui ottengono olio extravergine per il consumo familiare, impiegando un loro frantoio con estrazione a freddo per affioramento. L’azienda Valle Pepe fu fondata nel 2009 dal padre delle due sorelle, l’imprenditore metalmeccanico di origini contadine ALBERTO RICCI, scomparso di recente. Una tra le più felici intuizioni del signor Ricci ha oggi la corporatura fiera della Cintarella senese, un incrocio di Cinta senese e suino Nero

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Prosciutto di capra.

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In alto: la Cintarella bassianese. In basso: capre Saanen e Camiciola.

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naglie naturali, da noi stessi macinate nel molinetto aziendale. Fa almeno 2 anni di vita prima della macellazione». Si fa presto oggi a parlare di suini neri ma prima del ‘900 le razze del Sud Europa erano propriamente nere e derivavano dalla Sus Scrofa Mediterraneus, antenato dei suini domestici del Mediterraneo, le cui carni ricche di sapore e ben marezzate hanno grasso di qualità superiore con alto indice d’acido oleico. Ad esempio la Cintarella senese, assicurano le sorelle Ricci, ha una percentuale di grasso del 35-40%, ricco di Omega-3 e acidi oleici e una parte magra ben marezzata. Dall’allevamento di 70 suini semibradi, in maggioranza di Cintarella, l’azienda Valle Pepe ottiene una piccola produzione di braciole, salsicce, spuntature, prosciutto di spalla e di coscia, ma anche coppa, pancette, lonza e guanciale; nel quantitativo consentito dalla macellazione di 3-4 maiali al mese. Tutti prodotti senza additivi, in vendita diretta allo spaccio aziendale. I Ricci producono anche un prosciutto artigianale di capra, carne di capra, capretto e formaggi con fermenti “fatti in casa” nel piccolo caseificio di Valle Pepe. L’altra parte dell’allevamento, infatti, è dedicata ai 120 capi di capre Lepine, Camosciate, Camiciole e Saanen, dal cui latte i Ricci ottengono formaggi artigianali da due mungiture giornaliere. Ad esempio il Lepino a pasta semicotta prende corpo e sapore dopo la rottura della cagliata a 45 °C. Si mangia fresco o stagionato, fino ad un anno. Tra le specialità c’è anche un formaggio che ricorda la robiola e poi caciottine, stracchini di capra e formaggi misti di capra e mucca. Il latte vaccino arriva però da un’altra stalla di famiglia. Massimiliano Rella In alto: formaggio Lepino di capra a pasta semicotta. In basso: gli allevatori e norcini Luigi Cacciotti e la moglie Lucia Ricci con la piccola Beatrice. dei Lepini da lui stesso battezzato nel 2010, con tanto di marchio registrato. «Siamo gli unici ad avere quest’incrocio» ci spiega Lucia mentre ci guida alla scoperta dell’allevamento e delle celle di stagionatura. «È un maiale dal mantello nero ispido con una striatura bianco-rosata sul bordo delle spalle,

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come la Cinta senese, ma ha in più i bargigli sotto il muso, che sono invece caratteristici del suino nero. La Cintarella è un animale dalla pezzatura di 160-180 kg, a crescita lenta — continua Lucia — lo nutriamo con ghiande, radici, castagne, sottobosco, mandorle e con un’integrazione di gra-

Società agricola e di allevamento Valle Pepe Via Carpinetana Vecchia Loc. Valle Pepe 04010 Bassiano (LT) Telefono: 377 5470809 – 392 3125768 E-mail: info@vallepepe.it Web: www.vallepepe.it www.facebook.com/vallepepeofficial www.instagram.com/vallepepeofficial Nota Photo © Massimiliano Rella.

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Il compleanno speciale di CLAI: donati 590.000 pasti col Banco Alimentare Si è conclusa felicemente l’iniziativa realizzata da CLAI (Cooperativa lavoratori agricoli imolesi) in occasione del suo 59o compleanno. La grande realtà agroalimentare di Imola, conosciuta per essere portavoce delle tradizioni e della qualità dei prodotti italiani, ha infatti avviato una collaborazione solidale col Banco Alimentare, che dal 1989 combatte lo spreco di cibo in Italia, per distribuire su tutto il territorio nazionale 590.000 pasti: diecimila per ogni anno di vita della Cooperativa nata nel 1962. Le consegne sono iniziate a dicembre 2020 e si sono concluse in occasione del compleanno CLAI in marzo. I volontari del Banco Alimentare hanno distribuito oltre 5.200 porzioni di cibo al giorno (ognuna contenente 500 grammi di alimenti, come da stima della European Food Banks Federation) a persone e famiglie che stanno attraversando un momento di grande difficoltà economica. Un piccolo conforto che si rivela particolarmente prezioso in un periodo in cui il totale delle famiglie che vivono in povertà assoluta — lo rivela l’Istat —, è pari a oltre due milioni, il 7,7% del totale. Se si considerano i singoli individui, invece, il numero arriva a circa 5,6 milioni. A rendere ancora più cupo lo scenario è il fatto che questi dati, nell’anno segnato dalla pandemia, sono il risultato di un trend in forte crescita. «Quando penso a questa splendida iniziativa che abbiamo realizzato con gli amici del Banco Alimentare per celebrare il cinquantanovesimo compleanno di CLAI — spiega Giovanni Bettini (in foto), presidente di CLAI —, la prima cosa che mi viene in mente è un grande senso di gratitudine: desidero ringraziare davvero tutti gli Italiani che hanno contribuito alla riuscita dell’iniziativa acquistando la Salsiccia Stagionata Passita CLAI. In un periodo particolare come quello che stiamo attraversando, ogni gesto di attenzione che possa offrire un po’ di sollievo alle famiglie diventa ancora più importante. Bisogna ragionare e lavorare sempre più in un’ottica di comunità solidale e inclusiva, all’interno della quale tutti si sentano coinvolti e possano fare la loro parte, prendendosi cura gli uni degli altri, “dando” o “ricevendo” a seconda delle situazioni e dei momenti». A fornire un contributo decisivo alla riuscita dell’iniziativa, oltre alla filiera distributiva, sono stati infatti gli stessi consumatori CLAI, che hanno potuto partecipare a questo gesto di solidarietà semplicemente acquistando la Salsiccia Stagionata Passita nella versione “Special Edition”, disponibile nei punti vendita da dicembre a fine marzo nella versione tradizionale da 450 grammi, affettata in vaschetta da 90 grammi o nell’elegante confezione regalo. A rendere capillare sull’intero territorio nazionale la distribuzione dei pasti è stata la straordinaria forza della rete del Banco Alimentare, che può contare su quasi 7.500 strutture caritative convenzionate e un vero e proprio esercito di duemila volontari (photo © CLAI). Un’azienda agroalimentare integrata CLAI è una cooperativa agricola che opera nell’agroalimentare sia nel settore dei salumi, con una particolare specializzazione nel segmento del salame, che in quello delle carni fresche bovine e suine. L’azienda opera principalmente in due stabilimenti: a Sasso Morelli di Imola (BO) dedicato alla produzione dei salumi e a Faenza (RA) dove si effettuano macellazione e sezionamento dei bovini e dei suini, adottando le procedure operative più avanzate per assicurare il benessere animale e alti standard di qualità nel sistema di trasformazione e lavorazione. I prodotti dell’azienda sono presenti in tutti i canali di vendita e in tutte le regioni italiane. Negli ultimi anni CLAI ha sviluppato la sua presenza all’estero soprattutto nel comparto dei salumi. Fanno parte della cooperativa 256 soci, formati sia da soci allevatori che conferiscono il bestiame, che da soci lavoratori che svolgono la loro attività nei vari settori dell’impresa. Ad oggi CLAI occupa 470 lavoratori ed il fatturato 2016 ha superato i 230 milioni di euro. >> Link: www.clai.it

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SPECIALE MORTADELLE

MI CHIAMAN MORTADELLA, MA MORTADELLA (DI BOLOGNA) NON SONO In diverse regioni italiane, dal Piemonte alla Lombardia, dalla Toscana al Lazio, esistono numerose “mortadelle”che, oltre ad essere molto diverse tra loro, nulla o quasi hanno a che fare con la mortadella più famosa di tutte, l’insaccato rosa bolognese. Conosciamone alcune di Gaia Borghi

iciamolo chiaramente: se dico “mortadella”, la quasi totalità delle persone in ascolto, in una percentuale ancor maggiore se provenienti da un Paese straniero, penserà immediatamente alla mortadella di Bologna, uno dei salumi italiani più tradizionali, noti ed esportati nel mondo. “Fu LUIGI MARIA MITELLI a raffigurare per primo la mortadella in un’incisione della seconda metà del Seicento” scrive il professor CARLO CANTONI in un articolo dedicato proprio alla mortadella e alle sue numerose varianti apparso qualche tempo fa su una delle nostre riviste1. E risale infatti a quel periodo la prima originale ricetta della mortadella, opera dell’agronomo bolognese VINCENZO TANARA, il quale, nel suo trattato Economia del Cittadino in Villa (1664), ne indica ingredienti, con tanto di dosi dei “tessuti suini” adiposo e magro, speziatura e modalità di cottura. In realtà, accanto alla Mortadella di Bologna, riconosciuta nel 1998 quale Indicazione Geografica Protetta, di

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La Mortadella nostrale della Salumeria “Bacci macellai dal 1925” di Montignoso (MS).

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mortadelle in Italia ce ne sono davvero tante o, per meglio dire, ci sono tanti salumi tipici regionali, crudi/stagionati e cotti, che si chiamano in questo modo, pur essendo diversissimi l’uno dall’altro. A questo proposito, scrive ancora il professor Cantoni: “(...) nel passato, con il termine ‘mortadella’, si intendeva un insaccato fatto con un impasto ottenuto lavorando la carne a taglio grossolano. Nei ricettari del 1300 e 1400 troviamo vari tipi di mortadelle fatte con carne di maiale cruda. Della mortadella cruda scrive per primo MASTRO MARTINO DE ROSSI, detto da Como, e dopo di lui CRISTOFORO DA MESSISBUGO (1549) e FRANCESCO LEONARDI (1790), il quale intitola una sua ricetta ‘Mortadella delle Spianate’. Tutti questi autori parlano di insaccati ‘crudi’, quindi di una mortadella diversa da quella di Bologna”. In queste pagine abbiamo raccolto un certo numero di mortadelle “altre” che, senza la presunzione di rappresentare l’Universo Mortadella in toto, forniscono un panorama variegato, dimostrazione felice e golosa conferma dell’enorme ricchezza salumiera nazionale. Mortadelle toscane Ad un passo dall’Emilia, in terra di Toscana, si producono diverse mortadelle: l’originalissima Mortadella di Prato, anch’essa tutelata dall’IGP europea, la Mortadella di maiale di Camaiore “sbriciolona”, la Mortadella nostrale di Cardoso, la Mortadella trequandina e la Mortadella della Lunigiana o Mortadella delle Apuane. Quest’ultima, ad esempio, è un grosso salame che, proprio per le sue dimensioni ragguardevoli, prende il nome di mortadella. Nell’Enciclopedia dei prodotti tipici redatta dall’associazione culturale Accademia delle 5T si legge: “In Lunigiana, terra racchiusa tra le Alpi Apuane e il Mar Tirreno, la mortadella delle Apuane si produce in tutti i comuni della provincia, con una maggior concentrazione a Montignoso, dove l’aria di montagna incontra quella del mare. Il nome definisce un salame abbastanza morbido, di solito insaccato in budelli di bovino di varie forme che danno diverse pezzature. Si produce partendo da varie parti del maiale come il collo, la spalla, a volte anche la coscia, il lardo e la pancetta che vengono prima tagliate al coltello e

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In alto: la Mortadella nostrale lunigianese del Salumificio Marsili di Tresana, provincia di Massa e Carrara (photo © www.facebook.com/salumificiomarsili). In basso: la Mortadellina d’oca di Mortara De.Co. (photo © www.sagradelsalamedoca.it).

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Una mortadella con i paccasassi. Chiunque abbia trascorso una vacanza nel Conero, godendo di uno dei mari più azzurri e incontaminati d’Italia, o conosca comunque un po’ il territorio marchigiano e i suoi prodotti, conoscerà senz’altro anche una delle sue specialità gastronomiche più tradizionali, i paccasassi, ovvero le piantine di finocchio marino sottolio. Dal gusto iodato, aromatico e dalle spiccate note agrumate, i paccasassi si sposano benissimo con i salumi, in particolare con i salumi “grassi”, come è appunto la mortadella, donando una piacevole sensazione di freschezza in bocca. Da questa premessa e dall’intuizione del suo ideatore, Luca Giampaolini, titolare dell’enoteca con vendita di prodotti tipici Perbacco di Ancona, nasce la Paccadella®, una mortadella con i paccasassi del Conero dell’azienda Rinci-Meraviglie di Gusto, di Castelfidardo (AN). Assolutamente da provare! Info e photo ©: www.facebook.com/salumiconpaccasassi

poi macinate assieme, tenendo da parte il lardo che resta a cubettini. All’impasto si aggiungono sale, pepe e spezie tra cui cannella, noce moscata, pepe macinato e in grani; a volte si aggiunge anche vino bianco Malvasia di Candia o anche vino rosso. Le mortadelle si insaccano manualmente nel budello massaggiando bene, poi si legano, si bucano e si portano in un ambiente caldo e umido, dove deve svilupparsi una muffa bianca uniforme, che proteggerà la stagionatura del salame, che avverrà in un altro ambiente più fresco. Sono pronte dopo una stagionatura di almeno 5 mesi. Le più grandi arrivano all’anno. Giustamente morbide e saporite vanno tagliate non troppo sottili”. E proprio la Mortadella nostrale è uno dei vanti della Salumeria “Bacci macellai dal 1925” di Montignoso (www.bacci1925.it), più volte premiata al Campionato Italiano del Salame anche grazie a questo prodotto. Con questi ingredienti di base, coscia e spalla di maiale, pancetta di maiale, sale, pepe, vino rosso, spezie, nitrato di potassio, viene realizzata in tre versioni: classica, al vino rosso e al lardo. L’insacco avviene sempre in budello naturale e la legatura è effettuata a mano. “La Mortadella nostrale un salame proveniente dalla nostra tradizione contadina” scrivono sul loro sito altri storici produttori di questo salame tipico del territorio lunigianese, il Salumificio

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Marsili di Tresana (MS). “I nostri nonni la chiamarono così a causa della sua macinatura abbastanza fine di parti magre e grasse, rimaneva sempre piuttosto morbida all’interno. Veniva prodotta con spalla, pancetta e coscia del maiale. Il suo peso è di circa 650 grammi” (www.salumificiomarsili.com). Mortadelle non di maiale In Italia si producono mortadelle anche con carni diverse da quelle suine: come la Mortadella di Cinghiale, diffusa in Toscana, Emilia-Romagna, Umbria, Norcia soprattutto, la Mortadella di Pecora, caratteristica della Sicilia ma realizzata ad esempio anche con le carni della pecora gigante Bergamasca grass-fed dall’azienda agricola Maroni (www.agricolamaroni.it) di Ranzanico (BG), la Mortadella d’Asino, altro prodotto tipico della Sicilia insieme alla Mortadella di Bufalo, ma fatta anche nel Lazio con carne di Bufalina dell’Agropontino, la Mortadella di Manzo e la Mortadella d’Oca. Questa viene naturalmente prodotta in quella che è la patria dei salumi a base di carne d’oca, ovvero la Lomellina, in Lombardia, dove l’allevamento delle oche, già fiorente in età medievale, ricevette un forte impulso dall’arrivo di comunità ebraiche provenienti dall’Est Europa. La Mortadellina d’oca di Mortara DE.CO. (Denominazione Comunale di Origine) — si legge nel sito dedicato

alla celebre Sagra del Salame d’Oca di Mortara (www.sagradelsalamedoca. it), prodotto salumiero, quest’ultimo, tutelato dall’IGP —“è costituita da una miscela di carne d’oca e di suino e di fegatini d’oca, macinata artigianalmente, con aggiunta di sale, pepe, aromi naturali. Il composto ottenuto viene lasciato a riposo per alcune ore, per favorire la perfetta amalgama dei sapori. La mortadellina viene quindi avvolta a mano nella reticella del maiale, in formati sferici, diseguali tra loro, e infine viene cotta nel grasso d’oca. L’impasto ha una consistenza compatta; questo prodotto si contraddistingue per il sapore caratteristico del fegato e per il colore uniforme”. L’azienda agricola L’Oca di Sant’Albino di Mortara (PV) produce anche una Mortadella di fegato d’oca, sotto grasso o stagionata, che ottiene con l’aggiunta di una percentuale di fegato d’oca all’impasto della mortadella d’oca classica. “Insieme al Salame d’oca è una delle prelibatezze della nostra terra” scrivono nel loro sito www.ocadisantalbino.it. “Si può consumare cotta, come secondo caldo, con verdure lessate e saltate in padella o con le patate lesse. Sotto grasso o stagionata, come antipasto”. Gaia Borghi Nota 1. Cantoni C., La mortadella e le mortadelle, in EUROCARNI n. 3/2009, pag. 48.

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Le altre Mortadelle…

Mortadella romana Detta anche spianata, è un salume che si ottiene dalla lavorazione di carni magre di prima scelta (75%) macinate finemente e quindi mescolate con lardelli (25%). Le spezie impiegate sono abitualmente sale, pepe, aglio. L’area tipica di produzione è Roma e il territorio laziale. In foto la spianata romana dolce del Salumificio Subalpino, dalla tipica forma “schiacciata” (photo © subalpino.com).

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Mortadella di pecora Il patrimonio salumiero del Belpaese è ricchissimo di prodotti, per cultura gastronomica, disponibilità di materie prime e tradizioni culinarie. Anche la carne di pecora viene ampiamente utilizzata per la realizzazione di salumi crudi e cotti, tra cui la mortadella. Qui in foto la mortadella di pecora con pistacchi di Bottega Sicana (photo © bottegasicana.com).

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Mortadella di Prato Igp La Mortadella di Prato IGP è un salume che si produce con un impasto di carni suine, aglio, sale marino e alchermes. La zona di produzione comprende l’intero territorio del comune di Prato e dei comuni di Agliana, Quarrata e Montale in provincia di Pistoia, nella regione Toscana. Al taglio presenta una consistenza soda e compatta, morbida al palato. Il colore dell’insaccato è un rosa particolarmente acceso per la presenza del liquore alchermes, con macchie di bianco dovute ai cubetti di grasso. Il profumo è penetrante e speziato, mentre il sapore è bilanciato fra il contrasto della nota calda e pungente delle spezie, dell’aglio e del sale marino con quella dolce e delicata dell’alchermes, la cui presenza è un sicuro marcatore del suo territorio. Si tratta, infatti, di un liquore di colore rosso vivo ottenuto un tempo esclusivamente dalla cocciniglia, un insetto parassita essiccato e polverizzato, che per secoli è stato adoperato nella tintura dei tessuti, da sempre l’attività economica principale della città. Oggi è abitualmente usato come ingrediente nella preparazione di molti dolci regionali. Quello in foto è prodotto dal Salumificio Mannori di Vergaio di Prato (photo © facebook.com/salumificiomannori).

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Mortadella di asino Attraverso questa mortadella è stata ripresa, rinnovandola, la tradizione di produrre salumi con le carni degli animali da soma che non avevano vita lunga e in questo modo venivano recuperate. Viene prodotta dal Salumificio di Ragusa Il Chiaramontano con carne di asino Ragusano, razza asinina autoctona, con l’aggiunta di lardello di suino Nero siciliano, altra razza autoctona della regione di origini antichissime, e pistacchi. Per la sua realizzazione non si utilizza il trippino di maiale e l’aromatizzazione è molto contenuta; caratteristiche che fanno sì che il prodotto non abbia acidità e sia estremamente digeribile. Per l’insacco, infine, si usa la vescica naturale di bue. Il colore è intenso, il sapore delicato ma persistente, ottima la consistenza (photo © www.ilchiaramontano.com).

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Mortadella di fegato La mortadella di fegato è un salume cotto della tradizione lombarda, tipico delle province di Pavia, Mantova e Como, realizzato utilizzando fegato, carne suina magra e guanciale di suino. Scrive Fumagalli Industria Alimentari Spa: “L’impasto, una volta aromatizzato, viene insaccato in un budello naturale e cotto in forni ad acqua, nel rispetto della tradizione. Confezionato all’interno di ambienti igienicamente controllati, il prodotto si presenta come un’alternanza ben distribuita di parti di carne magra, fegato di suino e parti di grasso di gola di colore bianco perlaceo, aroma e sapore tipici e caratteristici” (photo © shop.fumagallisalumi.it).

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Mortandela È un salume tipico della Val di Non, in Trentino, ottenuto macinando e impastando la carne di suino a cui viene data la forma di una polpetta avvolta nel retino dello stomaco del maiale. Si tratta di un prodotto sostanzialmente fresco e se all’olfatto non deve prevalere l’odore di carne e l’aroma delle spezie non deve essere eccessivo, il gusto è legato alla buona mondatura della carne: la tradizione impone che non si devono sentire nodi, parti coriacee e cartilagini. La Mortandela affumicata può essere consumata cruda o cotta abbinata a polenta, patate o verdure. È un Presidio Slow Food. In foto la mortandela del Salumificio Macelleria Dal Massimo Goloso di Coredo, Trento (photo © dalmassimogoloso.com).

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In Abruzzo 18 presidi Slow Food raccontano storie incredibili, come questa

MORTADELLA DI CAMPOTOSTO, RARITÀ DAL CUORE MORBIDO, CON OLTRE 500 ANNI DI STORIA di Chiara Papotti

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Al taglio la mortadella di Campotosto presenta un colore rosso intenso, scuro, con il lardello bianchissimo (photo © Only Fabrizio – stock.adobe.com).

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a filosofia di Slow Food è quella di mangiare bene e sano. Una missione portata avanti dall’associazione fondata da CARLO PETRINI dal 1989, al fine di sostenere la cultura del cibo e del vino. Slow Food è cresciuta nel tempo fino a contare migliaia di iscritti e centinaia di sedi in tutto il mondo. Per mantenere in vita le produzioni più di nicchia sono nati, a partire dal 2000, i Presidi, riconoscimenti di qualità rilasciati a prodotti che rischiano di scomparire. La logica dei Presidi Slow Food è quella di tutelare le produzioni che vantano un legame concreto con il territorio, recuperando mestieri e tecniche di lavorazione tradizionali che altrimenti andrebbero perdute. In Abruzzo i Presidi sono diciotto, a sostegno dei prodotti più vari: dalla Lenticchia di Santo Stefano di Sessanio ai Fagioli di Paganica e Tondino del Tavo, dal Fico secco reale di Atessa ai Mieli dell’Appennino aquilano, dalla Patata turchesa al Peperone dolce di Altino, dal Pecorino di Farindola al Canestrato di Castel del Monte. Non solo prodotti della terra e formaggi, ma anche due salumi molto particolari. Uno si trova nel cuore del Parco Nazionale

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del Gran Sasso e dei Monti della Laga: in un piccolo comune in Provincia dell’Aquila, con poco meno di cinquecento abitanti, si porta infatti avanti da secoli la produzione di un insaccato da considerarsi una vera rarità, la Mortadella di Campotosto. Si chiama mortadella, ma a guardarla bene sembra un salame. Al primo sguardo desta curiosità e simpatia per la sua forma del tutto singolare: al taglio la fetta ricorda un quadrifoglio con un cuore bianco perlaceo dovuto ad un bastoncino di grasso che viene inserito al centro dell’impasto durante le fasi di produzione. Ad oggi solo due produttori preparano ancora le mortadelle secondo tradizione, rispettando un preciso Disciplinare tecnico di produzione, contraddistinto dalla lavorazione artigianale e manuale. Sono gli unici due produttori al mondo che fanno parte dell’Associazione produttori della Mortadella di Campotosto, costituita nel 2008 dall’Ente Parco Nazionale Gran Sasso e Monti della Laga, e ognuno di loro produce non più di 3.000 pezzi l’anno.

I tagli di suino utilizzati per la produzione delle mortadelle sono solo due: la spalla e il prosciutto. La carne, macinata finemente insieme ad una piccola quantità di pancetta, viene insaporita con del sale, pepe e vino bianco, e lasciata riposare per almeno 24 ore. L’impasto viene poi diviso in sfere delle dimensioni di una mano e lavorato fino a dargli la classica forma ovoidale allungata. È a questo punto che si inserisce al centro della mortadella il bastoncino di lardo aromatizzato al pepe nero, lungo circa una decina di centimetri, che andrà a conferire il caratteristico cuore morbido di questo prestigioso prodotto. Dopo la vestitura in budello naturale cucito a mano e la legatura con doppio spago, le mortadelle vengono appese a una pertica e fatte asciugare per circa 15 giorni davanti al fumo di un camino alimentato esclusivamente con legna di quercia o di faggio: una concessione eccezionale da parte della ASL, che ha riconosciuto l’importanza di questo gesto tradizionale. La stagionatura naturale avviene in appositi locali, dura circa 20 giorni, e si conclude col

riposo all’aria per un paio di mesi. Le condizioni di temperatura e umidità, unite all’altitudine che supera i 1.400 metri e al vento di Tramontana che spira su Campotosto, creano un microclima perfetto per l'essiccamento del Presidio. La Mortadella di Campotosto è uno dei prodotti più imitati in Italia. Chiamata volgarmente “coglioni di mulo”, è un salume che si distingue per il sapore unico, lontanissimo da quelli industriali. Il caldo è il suo peggior nemico: altera il grasso e induce modificazioni organolettiche. La temperatura ideale per conservarla è quella della cantina, intorno ai 12–14 °C. Nel caso non si disponga di un ambiente cantina adatto, può essere conservata anche in frigorifero, nella zona meno fredda. Quanto allo spessore, molto dipende dai gusti, ma i salumi piccoli come questa mortadella, si apprezzano meglio se tagliati in fette piuttosto spesse. Al palato il sapore è ricco, aromatico. Perfetta come antipasto o come secondo piatto insieme a pane casereccio, miele, mostarde e vino rosso. Chiara Papotti


Antipasto, primo e secondo, tutta la mortadella in un menu di Federica Cornia

na bella fetta tonda, rosa intenso, picchiettata di bianco, che sprigiona un profumo ricco, denso e che al palato, compatta e friabile, dispiega un sapore delicato ed equilibrato: ecco a voi, Signore e Signori, il più lussurioso dei salumi: Sua Maestà la Mortadella. Gustosa e appetitosa, oltre ad essere molto apprezzata, la mortadella è anche decisamente versatile. Si sposa bene con così tanti e vari ingredienti che le

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declinazioni del mitico panino con la mortadella non si contano e in cucina la ritroviamo un po’ in tutte le portate che compongono un menu, antipasto, primo e secondo, passando appunto anche dal pasto veloce fuoricasa. Panino alla mortadella In principio fu la rosetta, farcita con sottili e debordanti fette di mortadella, un grande classico divenuto emblema del cibo economico e veloce, dimentichi

Focaccia con mortadella (photo © Enrico Tricoli – stock.adobe.com).

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del fatto che nell’Ottocento, e fino ad inizio Novecento, prima dello sviluppo dell’industria alimentare, il salume rosa costava più del prosciutto ed era un alimento riservato a un’élite di buongustai, che solo le classi abbienti, nobili e borghesi potevano permettersi. Oggi, segno evidente dell’avvenuta riabilitazione della regina rosa, due famosi chef la accostano di nuovo al panino e la valorizzano: BRUNO BARBIERI, Bolognese DOC, consiglia di infilarla proprio nella classica rosetta, mentre MASSIMO BOTTURA, col suo “Ricordo di un panino alla mortadella”, ne fa una rivisitazione realizzando una Mousse di Mortadella alleggerita, accompagnata da un quadrato di gnocco ingrassato croccante coi ciccioli frolli. Rosetta, baguette, focaccia: dalla scelta del pane agli ingredienti di accompagnamento le varianti per i panini con la mortadella sono infinite e tutte invitanti e gustose. La Rosetta con Mortadella, Caprino e Pistacchi, per esempio, la si può provare sostituendo al caprino la ricotta coi lamponi. Oppure la burrata. Mortadella più salsa tonnata e provolone danno come risultato un sapore inusuale; più classico, con note mediterranee, l’abbinamento con Melanzane Grigliate, Maionese e Mozzarella. Mortadella e Fichi è da provare, consigliato con pane per tramezzini. L’accoppiata Mortadella & Friarielli, che accosta il Nord al Sud, è solo uno dei tanti panini proposti da “I love

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murtadell e friariell” (www.ilovemurtadellefriariell.napoli.it), take away napoletano che fa dell’insaccato bolognese per antonomasia il protagonista di tutto il menu. Tra le versioni gourmet del panino alla mortadella c’è il Cardinale, ricetta di Max Mariola — autore del libro “I panini li fa Max” — che vuole la Pizza bianca romana farcita con Mortadella, Finocchi cotti con la panna, Parmigiano e l’immancabile granella di Pistacchio. Ricercato ed esotico l’accostamento della Mortadella con Kefir, Maionese allo Zenzero e polvere di Matcha, un pregiato tè verde giapponese profumatissimo. Gli antipasti A dadini, a fette o tritata, la mortadella la troviamo ingrediente di antipasti e torte salate, nonché sulla pizza, insieme a pistacchi o crema di pistacchi, ricotta e anche limone. Semplici e sfiziose da mettere in tavola sono le bruschette con stracchino, mortadella e pistacchi su pane tostato, un classico da presentare come antipasto ma anche adatte per l’aperitivo. Di solito associati al dolce, stuzzicano curiosità e appetito degli ospiti i “Baci di dama” con mousse di mortadella racchiusa tra i due dischetti salati. La spuma di mortadella, morbida, delicata, si può addentare anche posata su crostini caldi, magari integrali. Facile da realizzare, l’ideale sarebbe, anziché usare il mixer, pestare la mortadella al mortaio e poi passarla al setaccio con Parmigiano Reggiano e ricotta, fino ad ottenere una crema. I fagottini ripieni di mortadella sono un’altra alternativa appetitosa e che permettono numerose variazioni sul tema. Ripieni di un cremoso mix a base di ricotta, peperoni e noci, sono perfetti per l’estate, vuoi perché contengono verdure di stagione, vuoi perché non necessitano di alcuna cottura: il tutto infatti è avvoltolato nell’abbraccio rosa dell’insaccato. Cotti, ma veloci da cucinare, ottima soluzione per cenette improvvisate, i Fagottini di pasta sfoglia farciti con mortadella, Emmentaler, uovo e, una volta tolti dal forno, decorati con granella di pistacchi. La ricotta si può poi sostituire a piacere con il gorgonzola, per un sapore più piccante, o con lo stracchino, per un cuore cremoso e delicato.

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Crocchette di patate, mortadella, mozzarella (photo © zoryanchik – stock.adobe.com). Mortadella, prosciutto cotto e mozzarella tagliati a dadini e ricoperti con un sottile velo di besciamella, il tutto decorato da strisce di pasta prima di infornare, possono essere la triade vincente di una Torta Rustica, buona per un buffet in piedi o, perché no, per un picnic, e che accompagnata con verdure fresche diventa un piatto unico da portarsi al lavoro. E perché in ufficio non affondare i denti in una Quiche Asparagi e Mortadella? Semplice, fresca e primaverile, unisce sapori freschi e rustici in un’unica portata. I primi Nei primi piatti la mortadella è presente in un grande classico bolognese, i Tortellini. La ricetta, depositata alla Camera di Commercio, richiede la mortadella di Bologna nel ripieno, coprotagonista insieme a prosciutto crudo, lombo di maiale, Parmigiano Reggiano e una spolverata di noce moscata. Sostituto della salsiccia e abbinata ai funghi entra nei cannelloni. SONIA PERONACI ci fa le lasagne, sostituendo alla pasta all’uovo il pane carasau. A cubetti accompagna i piselli nella pasta al forno, il tutto spolverato di pangrattato, pepe e olio. Delicato ed elegante è il riso cotto con brodo di mortadella, mantecato con una noce di burro, stracchino e grana e poi decorato con granella di pistacchi e una fettina ancora di mortadella.

I secondi Le polpette di mortadella sono un secondo facile da fare: alle patate lessate, schiacciate, amalgamate con la mortadella tagliata a pezzetti e all’uovo si aggiungono sale, noce moscata e Parmigiano Reggiano. Con l’impasto ottenuto si modellano le polpette, si passano nel pangrattato e si cuociono in padella con un filo d’olio. Più piccole, cotte al forno sono ottime crocchette. Un’altra proposta per un secondo piatto insolito ma semplice e appetitoso sono gli Involtini di vitello. La mortadella si appoggia sopra alla fettina battuta e arricchita da un sottile velo di senape, poi si arrotola il tutto, si ferma con spago e stuzzicadenti e si cuoce in padella. La si può anche abbinare alla carne di pollo per farne un rotolo con ripieno di mortadella, pistacchi e uvetta. Piatto sostanzioso, da servire con patate al forno. Chi vuol star più leggero la mortadella la prepara “in umido” mettendola in padella con un filo d’olio, un pizzico di peperoncino, basilico e pomodorini. C’è anche chi poi la combina col pesce: GIOVANNI CAPPELLI e GIANLUCA RICCI, chef del ristorante romano Le Tamerici, la presentano con spigola e pizza bianca. Al menu tutto in rosa ecco che manca solo il dolce. A meno che non si consideri dolce il Panettone gastronomico al Parmigiano e Mortadella. Federica Cornia

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Mortadella classica, Salame Rosa e Mortadella Lyon

ROSA E RIGOROSAMENTE BOLOGNESI di Federica Cornia

anto del capoluogo emiliano, prodotto fortemente identitario, a Bologna la Mortadella è un gran celebrità. Appena tre anni fa le hanno dedicato un monumento realizzato dallo scultore NICOLA ZAMBONI, che il Consorzio Mortadella Bologna ha poi donato alla Curia cittadina, e che la vede innalzarsi in tutta la sua

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Mortadella Lyon Bonfatti Salumi.

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maestosa rotondità su un alto piedistallo. Niente a che vedere con quell’immane, smisurata, simbolica mortadella di 150 chilogrammi che faceva bella mostra di sé nel tempio consacrato al dio maiale —, come lo definiva la stampa di allora —, allestito in occasione della Grande Esposizione Emiliana tenutasi nella primavera del 1888 ai Giardini

Margherita. Questo giusto per dire della sua fama e di quanto sia tenuta in considerazione quale prodotto di punta dell’arte norcina bolognese. Ma la mortadella classica non è l’unico salume cotto a cui ha dato vita la maestria dei salsamentari attivi in città. Ce ne sono altri, infatti, meno famosi e un po’ dimenticati, come il Salame Rosa, che, a quanto pare, tra fine Ottocento e inizio Novecento, altrettanto diffuso nelle salumerie e gastronomie bolognesi e altrettanto consumato, si contendeva il podio proprio con lei, la regina degli insaccati. In fondo la materia prima è la stessa, ovvero due parti di spalla di maiale con l’aggiunta di lardo (guanciale per il salame). La differenza sta nella lavorazione: nella mortadella tutto viene tritato tranne il lardo, nel salame rosa viene macinato solo il muscolo e il resto lavorato a punta di coltello. E poi c’è lei, la Mortadella Lyon, o mortadella fina. Si affetta come un normale salame ma ha la consistenza della mortadella e un sapore che rimane più a lungo sul palato. Anche se meno nota della sorella maggiore, è un prodotto antico. Viene infatti citata in un documento che risale al 1624, uno scritto dell’allora Cardinale di Bologna, redatto in occasione dell’anno del Giubileo: si tratta di una lista di prodotti, con relativo costo, che i pellegrini potevano acquistare passando in città. I tagli di carne di suino utilizzati per la produzione della mortadella Lyon sono spalla, gola, magro di gola,

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Salame Rosa Bonfatti Salumi. ritagli di prosciutto e trippino. Alle carni finemente tritate, tanto da ottenere una pasta finissima, si mescolano cubetti di gola insieme a sale, aglio e pepe nero. L’impasto, una volta pronto, viene insaccato nel budello gentile naturale di suino e legato a mano con spago. Il salume così ottenuto, che può raggiungere il chilogrammo e mezzo di peso, viene appeso ai telai di cottura e introdotto in stufe ad una temperatura che sale in modo graduale fino a raggiungere 85 °C. Insieme alla Mortadella classica, Salame Rosa e Mortadella Lyon qualche anno fa sono entrati a far parte del Presidio Slow Food dei Salumi Rosa Bolognesi: l’obiettivo è recuperare e valorizzare due prodotti in via d’estinzione e sostenere chi ancora oggi realizza gli insaccati seguendo la ricetta tradizionale lavorando in modo artigianale. Per la produzione si utilizza la carne di suino pesante italiano da capi allevati con alimentazione NO OGM. Per chi fosse interessato alla triplice degustazione che recupera il passato della tradizione felsinea, a Renazzo di Cento (FE), di questa arte salumiera emiliana s’è fatta dispensa la GIANNI NEGRINI SRL (www.gianninegrini.com/ bonfatti). Federica Cornia Nota Fonti: www.fondazioneslowfood.com www.slowfood.it www.bibliotecasalaborsa.it

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PRODOTTI TIPICI

L’apparente semplicità del Pane tradizionale dell’Alta Murgia Un presidio Slow Food in cui trovare il sapore della tradizione, della cultura e del legame con il territorio di Chiara Papotti

Pane dell’Alta Murgia. Il suo ingrediente fondamentale è la semola rimacinata di grano duro dell’Alta Murgia barese (photo © foodoteka.com/panificio-la-panetta).

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el corso dei secoli l’uomo ha saputo elaborare tre semplici ingredienti per ottenere una gamma di suggestioni, sapori, forme e profumi che non ha eguali in tutto il panorama alimentare. Farina, acqua e lievito per produrre un unico alimento dai mille volti: il pane. La storia ci insegna che la ricetta base di questo semplice alimento è cambiata nel tempo: pane nero e di segale per la povera gente, pane speziato, con l’arrivo di nuovi odori dall’Oriente, pane di grano e bianco, destinato ai ceti nobili, fino ad abbandonare, oggi, l’immagine di cibo di sussistenza e diventare un alimento di puro piacere gastronomico. Gli ingredienti di base per la produzione del pane hanno trovato nell'ingegno e nella creatività dei panificatori dell’Alta Murgia gli elementi che completano la ricetta e differenziano il pane qui prodotto da tutti gli altri. Ad Altamura, in provincia di Bari, cinque comuni della Murgia nordoccidentale producono giornalmente il pane tradizionale, che è protetto dalla Fondazione Slow Food. Il Presidio di questo pane parte dalla materia prima. L’ingrediente principale è la semola rimacinata di grano duro dell’Alta Murgia barese, un cereale che si presta meglio di ogni altro alla panificazione. Amido, piccole quantità di altri glucidi utili per l’attività del lievito e le ì proteine gliadina e gluteina, impastate con acqua tiepida e sale marino, vanno a formare il glutine che permette all’impasto di gonfiarsi senza rompersi. La lievitazione di questo pane straordinario è ottenuta da lievito naturale a pasta acida, costituito da microrganismi che, nutrendosi degli zuccheri nella farina, sviluppano anidride carbonica e alcol apportando tre fondamentali modifiche: gonfiano l’impasto per rendere soffice il pane, promuovono la formazione di composti chimici che conferiscono al prodotto il suo caratteristico sapore e facilitano il cambiamento di struttura del glutine. Quando l’impasto è omogeneo ed elastico, lo si lascia riposare sotto un panno di cotone per circa tre-quattro ore. Viene poi ripreso, lavorato e modellato secondo il peso desiderato, quindi lasciato lievitare per un’altra ora.

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Parola d’ordine: non sprecare! Il pane raffermo è un ingrediente essenziale per decine di ricette tipiche di tutte le regioni italiane. Pane raffermo lasciato ammorbidire nell’acqua, cipolla rossa, pomodorini, cime di rapa: è la cialledda fredda, conosciuta anche come “colazione del mietitore”, un piatto rinfrescante, leggero preparata dai braccianti pugliesi e lucani che si apprestavano ad una giornata di duro lavoro nei campi di grano. Nella versione invernale gli stessi semplicissimi ingredienti vengono riscaldati col brodo in una sorta di zuppa (photo © ivanmateev).

La cottura nei forni tradizionali in pietra, caratteristici del paesaggio urbano di queste zone, completa la lavorazione e avviene a temperatura compresa tra i 200°-300 °C per circa un’ora e mezza. Il forno è alimentato esclusivamente con legna di quercia, una scelta che conferisce al pane tradizionale profumi più o meno tostati. L’uso del lievito naturale comporta ai maestri panettieri una lavorazione più lenta e faticosa, ma la qualità del prodotto finito è indiscutibile. Il pane tradizionale dell’Alta Murgia si distingue per fragranza e aroma, eccellente digeribilità e maggiore durata del prodotto dovuta alla maggiore acidità dell’impasto che ostacola la formazione di muffe e lo conserva fino a 6/7 giorni. La maggiore durata di conservazione è tipica dei pani del Centro e del Sud Italia. La ragione ha origini storiche: mentre al Sud il pane è sempre stato un alimento di base, da far durare a lungo per evitare di impastare quotidianamente e quindi volutamente preparato in grandi dimensioni, al

Nord il titolo di “cibo di sussistenza” se lo aggiudicava la polenta, e il pane, piccolo e monoporzione per poterlo dosare, era consumato esclusivamente nei giorni di festa. Per questo motivo il pane di Altamura si caratterizza ancora oggi per la tipica forma di cappello a falda larga e per la crosta dorata; pesa solitamente intorno al chilo, ma è anche disponibile in pezzature più grandi, tradizionalmente preferite dai contadini per la lunga conservabilità. In bocca è solubile, pastoso, appena sfornato; compatto ma pur sempre di ottima masticabilità anche dopo parecchi giorni. Sembra nato per sposarsi con l’olio extravergine di oliva e diventa protagonista nella tipica Zuppa di pane “ciallèdde”, preparata con pane raffermo, pomodorini, prezzemolo, cipolla, patate, olive nere, cime di rapa o broccoli. Il contrasto tra l’apparente semplicità degli ingredienti e l’unicità della tradizionale lavorazione dona al pane dell’Alta Murgia uno dei maggiori motivi di fascino. Chiara Papotti

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Comunicare l’identità valtellinese attraverso la Bresaola di Riccardo Lagorio 50

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Valtellina (photo © Marco Introini – stock.adobe.com).

MACELLERIA EMILIO POZZI: BRESAOLE E SLINZEGHE AUTENTICHE el buio di inizio dicembre, a quest’ora del mattino, gli unici incontri per le strade di Sondalo sono l’aria vivace che scende dalla Val di Rezzalo e il respiro lontano dell’Adda, non coperto da mormorii di uomini e cose. L’oscurità perforata dai lampioni conduce verso il bagliore di una sola vetrina, una sola bottega. Una sbirciatina e, dentro, le sagome dei primi clienti e dei banconieri. Da lontano pare che si muovano con lentezza, più da vicino i gesti si mostrano rapidi e precisi. Li coordinano EMILIO e CLEMENTE POZZI, questo il figlio diciannovenne del primo. Già abile e preparato. Ma nella Macelleria Pozzi l’intera famiglia è coinvolta: c’è anche PIA, la matrona, SARA e GABRIELLA, le sorelle di Clemente, e PIERO, suo cugino. Per i Pozzi la bresaola è un modo di comunicare la propria identità valtellinese e il giovane Clemente ne è già un missionario.

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Bresaole in stagionatura alla Macelleria Pozzi.

«La stagionatura è approssimativamente di 20 giorni. Dipende dalla dimensione della bresaola. In ogni caso deve essere graduale e mai troppo veloce per evitare che la parte esterna diventi secca. Per questo vanno verificate quotidianamente la temperatura e l’umidità alle quali le bresaole sono sottoposte». Qui a Sondalo la carne riservata alla produzione di bresaola proviene da allevamenti italiani o spagnoli. Italiani talvolta di casa, poiché uno dei cugini di Clemente Pozzi alleva bovini e cavalli da carne. «La bresaola propriamente detta è la parte centrale

della punta d’anca. Le porzioni laterali ottenute dalla rifilatura, cioè la fesetta, e altre sezioni di muscolo produciamo la slinzega, più piccola. Dalla carne di cavallo otteniamo solo queste ultime». Non esiste grande differenza tra bresaola e slinzega, almeno apparentemente, se non la dimensione e la forma meno lineare e armonica della slinzega. Anche la concia è del tutto uguale per entrambe: sale, pepe, cannella, aglio, Marsala e foglie di alloro. La sosta nella salmistratura è identica, cosicché, in ragione delle più ridotte dimensioni delle slinzeghe, il loro gusto sarà più intenso. La stagionatura delle

Il nostro viaggio dedicato alla scoperta della bresaola prodotta nelle macellerie della Valtellina, alle differenze tra luogo e luogo, tra bottega e bottega, inizia a Sondalo, per poi fare tappa a Tirano e Teglio. La bresaola è uno dei simboli valtellinesi: le prime testimonianze scritte della sua produzione risalgono al XV sec., ma la sua origine è senz’altro antecedente

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MACELLERIA STORICA TIRANO: SPAZIO AL GUSTO DELLA CARNE

Clemente Pozzi. slinzeghe varia tra 10 e 12 giorni, dai 15 ai 20 quella delle bresaole. «Sino allo scorso anno la stagionatura avveniva nelle cantine della macelleria. Abbiamo dovuto trasferirci e, per mantenere uno stretto rapporto con l’aria che crea la bontà della bresaola, esiste un apposito impianto che alimenta le celle di stagionatura» afferma sicuro Clemente Pozzi. Certo: bresaola e slinzega mostrano differenze non da poco. «Esiste una differenza marcata nel momento della vendita: chi acquista l’affettato preferisce la fetta rotonda e regolare. Pertanto acquisterà la bresaola. Chi invece apprezza tagliarsi da sé il salume preferisce comprare la slinzega». Con tutta evidenza i pezzi sono irregolari, anche quelli… più uniformi. Da quanto si intuisce solo chi possiede un palato molto raffinato riesce a comprendere la differenza di gusto, leggermente più intenso nella slinzega.

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Uno degli aspetti centrali nella preparazione dei due salumi è senz’altro il calo del peso iniziale, che è superiore al 30%. In verità le differenze di lavorazione non sono indifferenti. «Per realizzare la slinzega serve più lavoro di manodopera esperta. Infatti le rifilature devono essere eseguite con più attenzione. Di contro, nella bresaola si devono togliere solo le nervature. Da noi la bresaola non presenta marezzature e la differenza fondamentale con le altre tipologie presenti sul mercato è proprio l’assenza, pur sottile, di strisce di grasso. La bresaola deve avere una fetta di colore rosso granata». I due salumi sono privi di insacco per esaltare l’artigianalità del prodotto finale e non vengono neppure lavati, rimuovendo le muffe macroscopiche. La superficie esterna presenta spesso foglie di alloro e frammenti di altre spezie. Immediato simbolo di autenticità.

Tirano è la seconda tappa alla ricerca della bresaola prodotta nelle macellerie della Valtellina. La macelleria è Storica, di nome e di fatto. Risale al 1920 e si trova accanto ad uno degli edifici più rilevanti per la vita della cittadina, il Palazzo Pretorio, l’antica sede dei podestà grigioni. La famiglia Poretti per quasi cent’anni ha esercitato l’arte della beccheria e di piccolo salumificio in queste spesse mura: nel 2012 se ne va l’ultimo erede e si chiude la Macelleria Storica. Storica, e qualificata, a tal punto che al 1933 risale il diploma d’onore ricevuto dal Salon de arts ménagers di Bruxelles proprio per la bresaola. Bisogna attendere sino al 2018 quando STEFANO BESSEGHINI, figlio d’arte dato che la famiglia alleva animali nel vicino comune di Vervio, apre di nuovo la bottega. «Con la stessa ricetta della bresaola che ha caratterizzato il secolo di vita della macelleria, con poche spezie per lasciare spazio al gusto della carne», sottolinea. Pare che il vincolo sia stato imposto proprio dagli eredi, che vedono in Besseghini il successore spirituale della tradizione tiranese della bresaola. Anche se la base di una buona bresaola rimane il pregiato livello della carne che viene utilizzato. «La lieve marezzatura è uno degli elementi che contraddistinguono la carne ideale per produrre questo salume». Peraltro non tutti i soggetti possono essere avviati a diventare profumati salumi, ma solo le femmine, dalla carne più morbida. «A questo scopo — dice Besseghini — vengono selezionate dalla nascita». Si tratta di animali la cui età si attesta intorno ai 18 mesi. Sul taglio da privilegiare non ci sono dubbi. Infatti la punta d’anca non ha rivali perché consente di avere un gusto deciso e un’elevata morbidezza. «Il magatello per esempio è troppo magro e la sottofesa è di grana troppo grossa». A queste condizioni il peso della bresaola può variare dai 500 ai 1000 grammi. Dalle rifilature, anche di posteriori, Besseghini ottiene la slinzega, con dimensioni di circa la metà della bresaola.

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Il mio ERP. Così ho tutto sotto controllo. (੕FLHQ]D WUDVSDUHQ]D ÁHVVLELOLWj ² TXHVWR q FLz FKH FRQWD RUD /·,7 q OD FKLDYH SHU RWWHQHUOR &KH VL WUDWWL GL (53 0(6 PDFHOOD]LRQH H VH]LRQDPHQWR R GL VRIWZDUH SHU OD SLDQLÀFD]LRQH LQWHOOLJHQWH LO &6% 6\VWHP q OD VROX]LRQH FRPSOHWD SHU OH D]LHQGH GHO VHWWRUH &DUQH &RVu JLj RJJL SRWHWH RWWLPL]]DUH OD YRVWUD SURGX]LRQH H GRPDQL GLJLWDOL]]HUHWH O·LQWHUD D]LHQGD Stefano Besseghini con la sua bresaola. Alle pareti della Macelleria Storica c’è la copia del diploma d’onore ricevuto nel 1933 per la qualità di questo salume dal Salon de arts ménagers di Bruxelles. La bresaola tiranese della Macelleria Storica è caratterizzata da una speziatura molto leggera, «per lasciare spazio al gusto della carne» racconta Stefano.

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I locali della macelleria Storica Poretti si trovano accanto al Palazzo Pretorio, uno degli edifici storici cittadini. Di conseguenza anche il periodo di stagionatura si dimezza: per una bresaola bisogna attendere circa 40 giorni per il consumo, mentre per la slinzega sono sufficienti due settimane. «Dalle rifilature, macinando la carne magra, ottengo anche il salame di bresaola, un prodotto da 300 grammi, la vera novità della nostra macelleria» riporta Basseghini. Ma una volta individuato il taglio ideale per ottenere il salume regina della valle, si passa alla pratica della cura della carne che porterà all’ottenimento del salume. «La salamoia in cui vengono adagiati i tagli è composta da poco sale, aglio, alloro, erbe della nostra montagna e vino valtellinese. L’importante è che gli odori siano bilanciati e nessuno prevalga sugli altri» spiega mostrando gli ingredienti pronti per essere utilizzati in una apposita vasca. Da questo momento la carne verrà sottoposta ogni giorno a massaggi che facilitano la fuoriuscita di fluidi e per osmosi l’ingresso degli aromi nei tessuti. Al periodo di stazionamento in questi liquidi odorosi segue l’asciugatura di una settimana in speciali calze che danno la caratteristica forma. E da qui, una volta tolta questa stoffa leggera, alcuni pezzi vengono affumicati per un

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giorno, «ma si tratta di casi abbastanza rari» racconta. «L’insacco in budello influirebbe negativamente sul gusto della bresaola, che è di per sé molto delicato. Pertanto il periodo di stagionatura avviene in negozio, all’aria naturale, appendendo le bresaole al soffitto come si faceva un tempo». Dal lato del consumatore, la bresaola viene spesso acquistata a fette, mentre la slinzega, di dimensioni meno impegnative per le famiglie d’oggi, si acquista intera. Le spedizioni di bresaole e slinzeghe sono all’ordine del giorno, frequenti quelle destinate ai ristoranti. Tra i locali della zona dove si può trovare la bresaola di Stefano Besseghini c’è la Locanda Altavilla di Bianzone (altavilla.info), un luogo sicuro per chi voglia mangiare bene dove si rievoca l’autentica cucina valtellinese grazie alla perseveranza di ANNA BERTOLA. C’è solo un neo nella storia di Besseghini: la mancanza di acquirenti dalla Svizzera. «Sino a marzo del 2020 contavamo molto sulla loro presenza. Gli Svizzeri amano la nostra bresaola. Ma da quando le frontiere sono presidiate con scrupolo a causa della pandemia diventa quasi impossibile per loro venirci a trovare». Coraggio, Stefano, presto, speriamo, ne saremo tutti fuori.

TEGLIO, RICCO DI STORIA E DI BRESAOLA Più delle precedenti tappe, Teglio richiede una sosta lunga, poiché gli incontri con produttori di bresaola da macelleria si moltiplicano. Cöf e Casele: bresaola e slinzeghe “immortali” La prima fermata vede protagonisti gli animali dell’Azienda Agricola Cöf e Casele di MARCO DE FILIPPI e JOLANTA WILKOSZ. Animali insoliti da queste parti, bovini di razza Highlander, che da una decina d’anni vengono allevati poco fuori dal centro abitato, sulla strada che dal paese sale verso la frazione montana di Prato Valentino. «Avevo delle vacche da latte, ma si trattava di un impegno assai gravoso e antieconomico» spiega De Filippi. Le Highlander sono animali che prediligono la pastura libera e difatti per

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In alto: Teglio (photo © Silvano Rebai – stock.adobe.com). A sinistra: Marco De Filippi, Azienda Agricola Cöf e Casele e i suoi bovini di razza Highlander. Il nome Cöf e Casele si potrebbe tradurre con “Fascine e Covoni”. Nel dialetto valtellinese i “cöf” sono le fascine degli steli della segale, essiccati e stretti tra loro come un mazzo di fiori. Le “casele” erano le fascine e covoni ottenuti con gli steli di grano saraceno. La produzione di segale e grano saraceno, alla base di tante ricette locali come pizzoccheri e “sciatt” (palline di formaggio in pastella di grano saraceno, farina di frumento, acqua e grappa), sono pressoché azzerate. 7 mesi all’anno pascolano in uno stato di semi-libertà; da maggio a settembre la transumanza a Prato Valentino e sulle Alpi limitrofe sino a sfiorare i 2000

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metri, dove l’erba è particolarmente fibrosa, come erba olina e trifoglio di montagna. «Si accontentano di quello che c’è e, malgrado questo fatto, for-

niscono una carne di alto livello, con un grado di marezzatura equilibrato. Si tratta di un’ottima opzione per una zootecnia di montagna». Vengono

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macellati i soggetti maschi quando raggiungono i 450 kg, e ciò avviene all’età di 3 anni, ma alcune femmine della mandria raggiungono i 14 anni. «Macelliamo le femmine solo nel caso siano del tutto improduttive e la carne viene fatta frollare per almeno 3 settimane prima di essere venduta in pacchetti da mezzo chilo sottovuoto come noce, fesa e pesce». Del posteriore, girello e muscoli sono avviati a diventare bresaola e slinzeghe. De Filippi e la moglie lasciano le parti anatomiche in una salamoia di coriandolo, spezie, sale, pepe e vino rosso prodotto in proprio (ottime le bottiglie dell’annata 2017) per almeno una settimana, girandole costantemente. A seguire, si asciugano in un frigorifero, lo stesso dove la carne è riposta per la frollatura. «Talvolta le bresaole assumono un colore che i consumatori considerano scuro. È il prezzo che paghiamo per non usare conservanti». Minima immoralia. Moschetti: la bresaola si degusta in cantina Teglio: ricco di storia. Palazzo Besta, belvedere sulla valle e magione del Quattrocento, dista pochi minuti di passeggio dalla macelleria di Mauro Moschetti, aperta dal padre nel 1966. «Era la classica macelleria di paese, poi il mattatoio ha dovuto chiudere perché gli adeguamenti alle normative europee sarebbero stati degli investimenti difficilmente affrontabili». La macelleria di Moschetti si è evoluta ascoltando le necessità del cliente su tre fronti: quella delle carni, dei salumi e della gastronomia. Nell’idea di Moschetti la scelta delle carni deve

Mauro Moschetti. essere quindi in linea con i desideri del cliente e, come esempio, fornirla anche sottovuoto divisa in piccole porzioni. «Solo così la gente torna». Anche per quanto riguarda i salumi è continuamente in atto una trasformazione: «i clienti comprano meno salumi, ma li esigono con qualità superiori, un po’ come è accaduto nel mondo del vino. E, al pari del settore enoico, il salume buono è un utile passaparola per farsi conoscere». Così, Mauro Moschetti ha approntato una sala degustazione sotto la

Indirizzi utili Macelleria Pozzi Emilio Via Giuseppe Garibaldi 2 23035 Sondalo (SO) Telefono: 338 3753010 Web: pozzi-emilio.business.site

Azienda Agricola Cöf e Casele Via Tudori 30 23036 Teglio (SO) Telefono: 328 9566355

Macelleria Storica Poretti Largo Pretorio 1 – 23037 Tirano (SO) Telefono 0342 017440 Web: facebook.com/BesseghiniStefano

Macelleria Mauro Moschetti Largo Giuseppe Morelli 9 23036 Teglio (SO) Telefono: 0342 782154

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macelleria, nelle antiche mura in pietra della casa di famiglia, che è diventato il luogo dove si insegna a capire cosa ci sta dietro a un buon salume. La chiama cantina, con un’aura di venerazione. «La prima volta che le persone entrano nella cantina e assistono alle fasi di salatura, asciugatura e stagionatura ne escono esterrefatti. In particolare per la bresaola». La salamoia in questo caso viene preparata con sale, pepe, noce moscata, aglio, cannella e chiodi di garofano. Niente vino rosso, «perché la carne rilascia di per sé gli umori». Tolta dalla salamoia, la bresaola passa in celle di stagionatura con temperatura più elevata per una settimana prima di approdare nella cantina. Gli esemplari più grandi attenderanno un mese e mezzo prima di essere messi in vendita. A scalare gli altri. La cantina possiede un grado di umidità adeguato alla stagionatura delle bresaole, ma è adatta anche ad ospitare le degustazioni dei prodotti di salumeria, seguiti per lo più dai turisti estivi. Nell’attesa che la stagione 2021 possa segnare un cambio di passo rispetto a quella precedente. Riccardo Lagorio

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Nuove date per Taste 2021: si va a giugno Pitti Immagine ha annunciato che la prossima edizione di Taste. In viaggio con le diversità del gusto, in programma dal 10 al 12 aprile, è stata spostata a fine giugno, dal 27 al 29. Le nuove date comportano anche una diversa collocazione nei giorni della settimana, dal tradizionale sabato-lunedì all’attuale domenica-martedì. Il salone di Pitti Immagine dedicato alle eccellenze enogastronomiche verrà allestito alla Fortezza da Basso di Firenze, una scelta dettata dall’esigenza di tutelare la salute di espositori e visitatori. «Sulla base delle ultime disposizioni governative italiane — dice Agostino Poletto, direttore generale di Pitti Immagine — abbiamo deciso di spostare il salone in una collocazione di calendario che si inserisce nella sequenza degli altri nostri saloni e che risponde all’obiettivo di garantire la massima sicurezza possibile per le nostre aziende e per i visitatori. Confermiamo come location la Fortezza da Basso, e la vicinanza ai nostri saloni della moda — che si svolgeranno nelle due settimane precedenti —, permetterà una gestione ancora più sicura dei controlli agli ingressi, degli spazi comuni e individuali e dei servizi perché già testata sul campo. Siamo più che determinati a realizzare il salone con la qualità e la vivacità di sempre: le tante e convinte adesioni che abbiamo raccolto finora ci dicono che la direzione è quella giusta». L’intero ciclo estivo dei saloni di Pitti sarà caratterizzato da una forte integrazione tra il formato fisico e quello digitale, cercando di sfruttare tutte le possibilità di ampiezza e profondità del servizio che essi offrono.

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LA SALSICCIA FONDANA DI FRANCO PETRILLO di Massimiliano Rella

Salsiccia fondana di Petrillo Franco Polleria Norcineria di Fondi (LT).

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e ha fatta di strada Franco Petrillo da quando, nel 1986, ex garzone di macelleria, decise d’aprire insieme alla moglie una norcineria e polleria in quel di Fondi (LT), noto paese dell’Agro Pontino che vede la presenza del MOF, uno tra i mercati ortofrutticoli più grandi d’Europa, un centro logistico di frutta e verdure in arrivo da varie regioni d’Italia, in particolare dal Centro-Sud. Da allora Petrillo si specializza sulle carni suine e avicole e undici anni dopo, nel ‘97, visto il volume di lavoro e le soddisfazioni per l’apprezzamento dei suoi prodotti — anche da parte della critica gastronomica — decide di fare un altro passo avanti: l’apertura di un ampio laboratorio dedicato esclusivamente alla lavorazione delle carni suine per produrre artigianalmente i tipici salumi fondani. Nel 2014 si ingrandisce ancora… “e per il futuro — recita una nota sulla brochure aziendale — punterà sempre di più sulla specializzazione e l’innovazione”. Cosa ci riserverà nei prossimi mesi quest’appassionato norcino fondano, proprietario della premiata azienda Petrillo Franco? Avremo modo di tornarci su. Per ora accontentiamoci di una linea di prodotti di sicura qualità, a partire dalla Salsiccia fondana, un insaccato ottenuto da un mix di tagli, anche nobili, del maiale, tagliati a cubetti e impastati con paprica e coriandolo; nella versione piccante anche peperoncino.

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Le giuste proporzioni degli ingredienti sono circa 1 kg di coriandolo per ogni quintale di salsiccia, che siano salsicce fresche o secche. Il resto lo fa la stagionatura “lenta” in celle a 13-15 gradi centigradi e umidità dell’80-85% per 20 giorni, «più 7 giorni di asciugatura — sottolinea lo stesso Petrillo — che comincia dai 22 gradi di umidità per scendere ogni 24 ore». Questo crea una sorta di “effetto sauna” che rende la stagionatura omogenea e uniforme, nel cuore del salume quanto fuori. La Salsiccia fondana stagionata ha una durata al consumo di 5-6 mesi. La produzione di Petrillo? Circa 10 quintali a settimana, venduta sul territorio tra negozio, privati e ristorazione. Tutti i prodotti della norcineria sono senza glutine, lattosio e caseinati; e sono messi al bando anche OGM e polifosfati. Questa gamma di eccellenze è certificata con il marchio Natura in Campo, ideato dalla Regione Lazio e realizzato dall’Agenzia Regionale Parchi per sostenere le attività agricole sostenibili e promuovere i prodotti biologici e tradizionali. Quali bontà della tradizione? Ad esempio il guanciale, che Petrillo lascia in salatura per 15 giorni con un mix di spezie comprese peperoncino e coriandolo e in stagionatura per 4 mesi. La salatura avviene in due fasi: la prima con sale e coriandolo, poi viene tolto il liquido “sporco” e si fa una seconda salatura che aiuta a

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Il norcino Franco Petrillo. trasmettere maggiormente il profumo delle spezie. Oppure la pancetta, stesso procedimento ma con stagionatura di 4-6 mesi, e il lonzino, 6 mesi pieni di stagionatura. E ancora: il salame casereccio (produzione di nicchia) aromatizzato di soli sale e pepe, insaccato in budello gentile e stagionato 60-90 giorni; o il salame di cinghiale (un’altra nicchia) che stagiona 2 mesi; infine il fiocco di prosciutto, altra bontà firmata Petrillo che viene insaccata in vescica naturale e stagionata 4 mesi. Premi? Nel 2010, nel 2013 e nel 2016 due medaglie d’oro alla Fiera internazionale Industria della Carne (IFFA) di Francoforte come Miglior produttore di salsiccia dolce stagionata e salame stagionato per la Salsiccia fondana dolce e il Salame fondano. Tutto qui? Certo che no, perché oltre alla mano del norcino il prodotto buono si fa anche in allevamento. Nello spe-

cifico in quello dell’allevatore Roberto Cristofari di Ardea (Roma), dove i suini sono allevati su paglia in capannoni, alimentati correttamente e mandati al mattatoio di Torrice (Frosinone); mediamente 20 a settimana. La trasformazione e il tocco finale, come abbiamo detto, nei laboratori di Fondi. Il paese delle cose buone. Massimiliano Rella Petrillo Franco Polleria Norcineria dal 1986 Laboratorio artigianale salumi Laboratorio: Via Trento 16/18 Negozio: Via G. Toniolo 35/37 04022 Fondi (LT) Telefono: 0771 513666 E-mail: info@francopetrillo.it Web: www.francopetrillo.it Nota Photo © Massimiliano Rella

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ANALISI DEL FOOD

Salumi ovicaprini, alimenti funzionali di Giovanni Ballarini

Italia, per posizione geografica, clima, morfologia e creatività, ha un vastissimo assortimento di carni conservate e salumi, comprese preparazioni a base di carne di pecora e capra. Primi produttori furono probabilmente i pastori dediti alla transumanza, utilizzando le carni degli animali del proprio gregge, senza escludere motivazioni religiose e in particolare l’arrivo in Italia di Ebrei e Islamici. I salumi ovicaprini sono classificati in modi diversi a seconda del taglio utilizzato, del tipo di carne, solo ovina o caprina o con aggiunta di grasso bovino o suino, del metodo di preparazione, stagionatura, confezione e presentazione. Tra i tanti ricordiamo la Salsiccia di castrato di Breno, in Valle Camonica, la Salsiccia di pecora della Sardegna e il Presuttu ‘e Brebei, ovvero la coscia di pecora di razza Sarda salata a secco e anche affumicata, il Salame di pecora delle Marche, la Salamella di “tratturo” in Abruzzo, il Salame di pecora e maiale toscano. In Puglia e Abruzzo troviamo la Muschiska o micischia, strisce di carne secca di pecora (raro l’uso della capra) che assicuravano un apporto proteico ai pastori transumanti. In diverse regioni italiane, dal Trentino alla Sicilia, la coscia di agnello diventa Prosciutto

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cotto di agnello. In Veneto vi è la Carne de fea afumegada della provincia di Belluno, carne di pecora affumicata della razza locale Lamon, mentre in Friuli si usa fare la Peta, detta anche Pitina o Pituccia secondo le zone e la percentuale di carne ovina (pecora o capra) presente nel prodotto. La coscia (o la spalla) della pecora stagionata tipica della Valchiavenna è denominata Violino, per la forma del prodotto molto simile allo strumento musicale. Carni e conserve ovicaprine Anche se le carni di pecora e capra non sono così popolari come quelle di maiale, manzo o quelle avicole, hanno un ruolo rilevante nei consumi a livello globale. Nell’Unione Europea l’allevamento ovicaprino si attesta su circa 92 milioni di capi. I primi quattro paesi produttori di ovini (Spagna, Inghilterra, Romania e Grecia) rappresentano l’80% del patrimonio europeo; l’Italia, che è al quinto posto, con un patrimonio di circa otto milioni di capi, ha una stabilità delle produzioni con un calo dei consumi. A livello mondiale il primo Paese importatore è la Cina e il più importante esportatore è la Nuova Zelanda, principale fornitore sia dell’UE che della Cina. L’UE esporta in Libia, Israele e Libano.

Carni ovicaprine conservate sono molto apprezzate nel Nord Europa, in particolare nei Paesi scandinavi, nell’area mediterranea, in Medio Oriente, Nord Africa o Asia centrale. Anche nei Paesi che non hanno una spiccata tradizione di consumo di carni ovicaprine, però, all’interno dei negozi di specialità gastronomiche o nei mercati etnici si trovano con facilità prodotti trasformati come salsicce, patè o würstel a base di carne ovicaprina, realizzati mescolando a queste carni, meno apprezzate fresche, diverse fonti di grassi animali o vegetali che possono dare ulteriore valore ai prodotti. Sicurezza dei salumi ovicaprini Uno degli svantaggi dei prodotti a base di carne ovicaprina lavorata è l’ossidazione di grassi e proteine e per questo si usano antiossidanti, come il rosmarino, la scorza di kinnow (un ibrido del mandarino), il melograno, l’estratto di broccolo e di origano, il luppolo, il fiore di crisantemo (Chrysanthemum morifolium), l’ascorbato di sodio e l’alfa tocoferolo acetato. In relazione alla sicurezza alimentare, la fermentazione svolge un ruolo positivo attraverso la formazione di acido lattico, acido acetico, acido formico e acido propionico, etanolo, batteriocine, ecc…, spesso combinati

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Salsiccia di castrato di Breno. Ottenuta da carni ovine, è uno dei prodotti tipici di Breno, splendido borgo della media Valle Camonica. Dal 2006 è tutelata dalla Denominazione Comunale (De.Co.), che garantisce le origini delle carni e il processo di produzione (photo © www.bresciatourism.it).

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La Pitina friulana (photo © www.agrodolce.it). con una diminuzione dell’acqua libera e lo sviluppo di microrganismi con caratteristiche probiotiche. Oli essenziali di Avishane Shirazi (Zataria Multiflora) e i chiodi di garofano (Syzygium aromaticum) influiscono anche sulle popolazioni microbiologiche della carne di pecora macinata durante la conservazione refrigerata. La salatura con sale marino di miniera (NaCl) è utilizzata da migliaia di anni, così come è diffuso l’uso di nitrati e nitriti, anche se oggi la tendenza è quella di ridurli se non eliminarli del tutto per motivi di salute (una sintesi disponibile all’indirizzo in nota* spiega perché i nitriti e nitrati sono presenti negli alimenti e quali sono le conclusioni degli esperti EFSA sulla loro sicurezza, NdR). L’atteggiamento positivo dei consumatori nei confronti della riduzione del sale e dell’uso di antiossidanti sottolinea la necessità di sviluppare migliori tecniche di lavorazione della carne a partire da informazioni scientifiche. Qualità dei salumi ovicaprini Riguardo alle qualità sensoriali, in generale i prodotti di pecora sono più succosi e quelli di capra più duri, con un sapore più intenso e acido. Tuttavia i metodi di lavorazione, il tempo di

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conservazione e il confezionamento producono differenze nelle caratteristiche sensoriali. Importante è anche l’uso di additivi naturali come le spezie e tra queste soprattutto il peperoncino o paprika. Per rendere meno intenso il sapore della carne di capra, realizzando quindi un prodotto più accettabile ai consumatori, si usa sostituire il grasso di capra con grasso bovino. Nelle produzioni industriali occorre ci sia uniformità del sapore, dell’aspetto e della consistenza e per questo si usano starter o inoculi di fermentazione, con particolare attenzione agli starter di microrganismi lattici associati a piccole quantità di zuccheri. Futuro delle carni conservate e dei salumi ovicaprini come alimenti funzionali È recente la scoperta che anche nella carne, come nei vegetali, ci siano sostanze bioattive benefiche per la salute: questi composti darebbero alla carne proprietà nutraceutiche, rendendola un vero e proprio alimento funzionale, in grado cioè non solo di nutrire, ma anche di intervenire attivamente su specifiche funzioni vitali dell’organismo come una vera medicina positiva. Queste proprietà sono presenti in modo particolare

nelle carni di animali allevati in ambienti naturali e al pascolo, come avviene con ovini e caprini. I composti nutraceutici della carne riconosciuti essenziali e benefici sono carnitina, carnosina, coenzima Q10, taurina, glutatione e Coniugati dell’Acido Linoleico (CLA). La carnitina si trova in maggiori quantità nella carne magra di ruminanti e interviene nell’assorbimento del calcio, aumenta il metabolismo dei grassi per la produzione di energia aiutando il dimagrimento e riducendo il colesterolo. La carnosina presente nelle carni, e praticamente assente nei vegetali, è antiossidante, combatte l’invecchiamento e la degenerazione cellulare, negli sportivi aiuta il recupero dalla fatica fisica e previene malattie collegabili allo stress. Il coenzima Q10 è un antiossidante contro l’invecchiamento della pelle, proteggendo l’elastina e il collagene. La taurina, un amminoacido solforato derivante dalla metionina, è fondamentale nell’età evolutiva, regola il colesterolo nel sangue ed è un antiossidante. Il glutatione è un tripeptide in grado di potenziare le difese immunitarie, combatte i radicali liberi e migliora la biodisponibilità del ferro non-eme presente negli alimenti vegetali quando carne e verdure sono assunte

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Violino di capra (photo © www.tasteatlas.com). insieme nello stesso pasto. Altri composti nutraceutici delle carni ovicaprine sono i CLA (Coniugati dell’Acido Linoleico), la vitamina E ed il beta-carotene presenti nelle carni di ovicaprini al pascolo. L’uso di colture starter, spezie, oli essenziali e altri additivi può dare vantaggi nutrizionali e sensoriali alle carni ovicaprine trasformate, rispondendo al contempo alla richiesta d’innovazione da parte dell’industria della carne. Si tratta infatti di prodotti che hanno un

grande potenziale commerciale, perché fanno parte delle culture di molti Paesi nel mondo, anche se hanno necessità di essere adattati ai mutati gusti dei consumatori, meglio studiati, caratterizzati e tutelati in termini di certificazioni della loro origine. Una più approfondita conoscenza delle formulazioni, l’ottimizzazione dei metodi di lavorazione, il miglioramento delle procedure di confezionamento e conservazione e di distribuzione e marketing sono azioni

prioritarie per la valorizzazione delle carni ovicaprine, fresche e conservate. La sicurezza alimentare, la tracciabilità e un’informazione dettagliata sono altrettanto importanti. Prof. Em. Giovanni Ballarini Università degli Studi di Parma Nota * www.efsa.europa.eu/sites/default/ files/corporate_publications/files/ nitrates-nitrites-170614_it.pdf

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PROGETTI

Sheep AL.L. Chain di Riccardo Lagorio

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l progetto Sheep AL.L. Chain (Sheep Alpagota Lamon Chain, Filiera per le pecore Alpagota e di Lamon, sheepallchain.it) si prefigge di migliorare la presenza sul mercato degli allevamenti delle razze ovine autoctone del Veneto a limitata diffusione come la pecora di razza Alpagota e quella di razza Lamon. Un programma meritevole di attenzione in quanto tende a preservare e tutelare la biodiversità valorizzando gli allevamenti ovini che si situano quasi esclusivamente in aree marginali (la montagna e la pedemontana bellunese) e migliorare il rapporto dei prodotti col

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territorio. In quanto si tratta di razze in via di estinzione, il programma di recupero genetico e di conservazione si basa su un percorso intrapreso 15 anni fa dalla Regione Veneto nella rotazione programmata degli arieti all’interno di una rete di aziende agricole coinvolte. «La pecora dell’Alpago è una razza che per la sua frugalità risulta di poca spesa poiché riesce ad alimentarsi in terreni marginali e a produrre agnelli la cui carne è ambitissima per il gusto che la caratterizza» spiega ANTONELLA TORMEN, la capoprogetto. La consistenza della razza si è drasticamente ridotta

passando dai 10.000 capi degli inizi del ‘900 al migliaio di capi degli anni Ottanta, per registrare 2.400 capi all’inizio del secondo decennio del XXI secolo. La storia della pecora Alpagota è intimamente legata al passato del Bellunese, come spiegava a fine Ottocento ANTONIO MARESIO BAZOLLE, politico e letterato: “L’allevamento delle pecore fu sempre generale e nazionale in questi paesi, ed anzi nei tempi passati lo era molto più che attualmente… Nella mancanza di commercio, e nella ristrettezza dei mezzi economici, le pecore (e con esse le capre) fornivano prima

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del secolo presente la massima quantità della carne di cui si cibavano gli abitanti del Bellunese… La tenuta delle pecore reca pochissimo lavoro o fastidio ai contadini, e questo è appunto uno dei meriti che i contadini attribuiscono ad esse…”. Non essendo contraddistinta da nessuna specializzazione produttiva la pecora Alpagota si ascrive tra le razze a triplice attitudine, anche se attualmente viene sfruttata soprattutto per la produzione della carne di agnello. Gli agnelli migliori vengono macellati a 60 giorni, quando hanno raggiunto, a peso vivo, 20 kg con una resa del 55%.

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In alto: monti dell’Alpago (photo © Roberto Gobbo). A destra, Ferruccio Brandalise mostra lo speck nella sua macelleria a Spert di Alpago. In basso: le pendole di carne pecora.

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Illari Fullin e il pecorino di Malga Illari. Sul tagliere anche il salame che ottiene dalla razza Alpagota con le carni di animali a fine carriera insieme a carne suina, sale, pepe e grappa.

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La tradizione ci ha consegnato diverse specialità locali che nei secoli hanno avuto lo scopo di utilizzare ogni parte dell’animale. Molto spesso le pecore a fine carriera erano destinate alla preparazione delle pendole. Si tratta di strisce di carne prima conciate con sale e pepe, poi messe a macerare nel vino ed infine appese alla cappa del camino, per essere affumicate, utilizzando fronde di ginepro per aromatizzarle. Si consumano prevalentemente tal quale e per assaggiarle il luogo ideale è la Macelleria Brandalise di Spert d’Alpago, dove si producono, in quantità invero limitate, i salami di pecora. Per evidenti ragioni di vicinanza geografica con la vicina Val Tramontina, nella macelleria si trova anche la pitina, l’impasto di carne di pecora infarinato con granella di mais e affumicato. FERRUCCIO BRANDALISE, il proprietario, spiega che «la pecora dell’Alpago è allevata al pascolo o con foraggi secchi di prati stabili di montagna. La tipicità della razza e l’alimentazione influiscono positivamente sulle caratteristiche della carne, saporita ma non invasiva». Malga Illari, dove FRANCO PIANON e ILLARI FULLIN ospitano 500 fattrici, è un po’ il cardine del recupero della razza d’Alpago e punto di riferimento della Cooperativa Fardjma, che ne commercializza la carne e la lana. «Fardjma corrisponde al periodo d’inizio settembre, quando i montoni si ricomponevano al gregge programmando così le nascite degli agnelli per gennaio e febbraio, utili per le festività pasquali» spiega Franco. Illari svolgeva l’attività di parrucchiera, ma è stata conquistata dal lavoro in malga. Alla sua passione si deve la preparazione di uno squisito pecorino, intenso in giusta misura, da media stagionatura, col latte dell’Alpagota. Ma anche di salame. «Quello che prepariamo qui proviene dalle carni di animali a fine carriera. Utilizziamo carne di coscia, spalla e carré macinata con piastre dal diametro da 7 mm e con l’aggiunta di carne suina». All’impasto si aggiungono sale, pepe e 1 litro di grappa per quintale di carne. All’asciugatura di una dozzina di giorni segue una leggera affumicatura con bacche mature di ginepro e, trascorsi 45 giorni, il salame è pronto per il consumo. «La carne di questa razza — chiarisce — ha

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anche un grasso digeribile e gradevole. Viene utilizzata in diverse preparazioni. Quella più classica è l’agnello al forno o il cosciotto al forno con cottura rosa, che esalta la sapidità e la delicatezza delle carni». In zona sono numerosi i ristoranti e le trattorie che si affidano alla carne di razza d’Alpago per allietare i propri clienti. Alla rinomata Locanda San Lorenzo (locandasanlorenzo.it), PAOLO SPERANZON è ad esempio convinto che l’agnello d’Alpago sia «un tassello fondamentale della cucina, fatta di materia e memoria». Da provare i Paccheri con ragù d’agnello d’Alpago, salsa al pepe-

rone e crumble al curry. Più incentrata sulla tradizione la proposta della Locanda al Capriolo (locandaalcapriolo.it), a due passi dalla foresta del Cansiglio, dove l’agnello d’Alpago è servito con patate al forno. Riccardo Lagorio Macelleria Brandalise dal 1950 32016 Loc. Spert di Farra d’Alpago (BL) Telefono: 0437 472151 E-mail: info.brandalise@gmail.com Malga Illari Loc. Cate – 32010 Chies d’Alpago (BL) Telefono: 340 6179251

Razze Lamon e Alpagota: caratteristiche La pecora di razza Lamon, autoctona dell’omonima area nella provincia di Belluno e diffusa in diverse province del Veneto, Trentino e Friuli, attualmente è presente soprattutto nel comune di Lamon e in alcuni limitrofi della Valbelluna. Le pecore di razza Lamon erano spesso utilizzate in passato nella pastorizia transumante che si spostava dagli alpeggi estivi ai pascoli in pianura, seguendo come punto di riferimento il percorso dei fiumi che attraversano la pianura veneta. Questa razza ovina autoctona, infatti, è molto resistente e ben si presta a lunghi spostamenti, ed era quindi adatta alla pratica della transumanza e non richiedeva particolari ricoveri. Con il venir meno dell’attività transumante come forma di allevamento, in particolare per i connessi motivi socio-economici, la razza ha visto una rapida riduzione della sua popolazione; dai circa 10.000 capi del 1960, nel 1990 ne rimanevano circa 600, e all’inizio degli anni 2000 meno di 300 capi. Considerata una razza a triplice attitudine, attualmente viene allevata solo per la produzione della carne. Classificata tra le pecore Alpine, si distingue dalle altre razze per le sue caratteristiche di rusticità e frugalità coniugate con la sua mole ridotta. Piccola, con un mantello bianco folto, fine e ondulato, che la ricopre totalmente dal ginocchio e dal garretto fino all’osso frontale, e una singolare maculatura scura, la pecora Alpagota, o “Pagota”, dalle orecchie minute, a volte quasi inesistenti, e dal curioso profilo montonino, è una razza tipica dell’altipiano dell’Alpago/Cansiglio, nel Bellunese. Testa corta e leggera, con il profilo leggermente montonino, presenta una fitta maculatura di colore marrone, nero e raramente rossiccio; le orecchie sono generalmente di media lunghezza e mediamente pendenti, frequentemente si trovano anche pecore con orecchie di dimensioni ridotte o ridottissime che prendono l’appellativo rispettivamente di “monche” e “muche o oche” con corna assenti in maschi e femmine. Collo di media lunghezza ben attaccato al tronco che risulta compatto e non molto lungo con arti proporzionati e robusti; maculatura scura nell’inferiore del garretto e del ginocchio. Fonte: sheepallchain.it

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INCHIESTE

ISMEA: UN ANNO DI COVID-19 È stato pubblicato il IV Rapporto Ismea su domanda e offerta dei prodotti alimentari nell’emergenza Covid-19 che da marzo 2020 ha stravolto tutto e tutti. Un’analisi approfondita del mercato agroalimentare italiano 68

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La pandemia ha accelerato la diffusione di pratiche e tendenze di mercato che avevano cominciato a manifestarsi in precedenza: prodotti del territorio e locali, food delivery, attenzione alla sostenibilità e al green, e-commerce sono solo alcune. Anche alla luce della svolta verde dell’UE in campo agroalimentare, nel Rapporto Ismea si sottolinea che la parola chiave di questa fase è e sarà “cambiamento”

La spesa per consumi domestici di prodotti alimentari è una delle poche variabili sulle quali l’emergenza Covid ha avuto un impatto positivo. La tendenza di crescita evidenziata nel 2020 è di gran lunga la più ampia dell’ultimo decennio (+7,4%), raggiungendo il suo culmine a marzo, quando le vendite hanno registrato picchi del +20%

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quasi impossibile descrivere correttamente, mentre è ancora in atto, un fenomeno esteso e profondo come la pandemia da Covid-19. Probabilmente solo l’analisi storica ci darà le reali dimensioni e sarà in grado di descrivere i mutamenti della società a seguito della diffusione del virus. Tuttavia, l’ISMEA, Istituto di Servizi per il Mercato Agricolo Alimentare, ha monitorato l’impatto sul settore agroalimentare del Covid-19 fin dal momento in cui si è capito che il mondo era di fronte a un fenomeno mai visto prima, rispetto al quale nessuno Stato, nessun politico, nessun imprenditore e, soprattutto, nessuno scienziato, era in possesso del libretto delle istruzioni per affrontarlo. A distanza di meno di un anno dalla pubblicazione del primo “Report Covid-19 e agroalimentare”, e sulla base dei dati analizzati e delle indagini realizzate è possibile tratteggiare quali eredità il settore agroalimentare si porterà dietro dopo un anno difficile ma che tuttavia ha avuto il merito di riportare il tema dell’approvvigionamento alimentare tra le priorità strategiche, riattribuendo, allo stesso tempo, dignità e attenzione all’agricoltura, troppo spesso ancora relegata ai margini del sistema produttivo e considerato da molti ancora sinonimo di arretratezza. In realtà, già da alcuni anni i giovani hanno ricominciato ad affacciarsi con curiosità alla produzione agricola e allo studio di materie universitarie strettamente connesse all’agricoltura, mentre fasce sempre più ampie di popolazione sono sempre più attente alle modalità con cui alimentare sé stessi e la propria famiglia. Il tentativo del Rapporto non è solo quello di riassumere le difficoltà sperimentate dal settore agroalimentare a seguito della pandemia. È ormai opinione diffusa, infatti, che, al di là degli impatti più o meno diretti che il Covid-19 ha avuto sui vari settori e sulle varie filiere, la sua propagazione abbia sovente accelerato la diffusione di pratiche o tendenze che avevano già cominciato a manifestarsi in precedenza. In considerazione dell’ottica prospettica con cui si tenterà di approcciare al settore, si deve altresì considerare come, proprio in coincidenza col diffondersi del Covid-19, la politica agricola dell’UE abbia ribadito, in maniera ancora più netta, la priorità attribuita all’obiettivo

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di un’Europa più verde, enunciato con la Comunicazione sul Green Deal del dicembre 2019, fornendo orientamenti che determineranno lo sviluppo del settore per i prossimi anni. Il 20 maggio 2020, la Commissione ha pubblicato due importanti comunicazioni che declinano con chiarezza la svolta verde dell’UE in campo agroalimentare: la Strategia Farm to fork e la Strategia sulla biodiversità. Questo mix contemporaneo di rilevanti mutamenti dal basso e dall’alto guiderà la transizione del settore agroalimentare, delimitando il campo di gioco attraverso numerosi vincoli ma anche fornendo nuove e rilevanti opportunità per chi sarà in grado di coglierle. La parola chiave sarà quindi cambiamento e, nell’ambito di uno scenario in cui il cambiamento sarà protagonista, si prova di seguito, senza alcuna ambizione di essere esaustivi, ad individuare alcune delle principali eredità lasciate dal Covid-19 sul settore agroalimentare: 1. Dal globale al locale. Locale inteso come il negozio di vicinato, come il mercato rionale — contadino o meno — di quartiere, come le aziende agricole e anche quelle di trasformazione situate a una distanza ragionevole e orientate ai “prodotti del territorio” o, infine, al prodotto totalmente made in Italy. La pandemia ha accelerato quel processo di “deglobalizzazione” in atto da qualche tempo, alimentando interesse e voglia di “mangiare vicino”. Il problema è che questo è avvenuto non solo in Italia; 2. Food delivery. Quella che era la mania emergente di qualche pigro teenager, spesso finalizzata a mangiare, a parte l’immancabile pizza, cibi esotici come il sushi, nel giro di pochi mesi è divenuto un rilevante canale di distribuzione, un’ancora di salvataggio cui aggrapparsi per una ristorazione a rischio default e per le aziende agricole orientate all’agriturismo; 3. Consumo etico vs consumo conveniente. È indiscusso che il grado di consapevolezza dei consumatori, soprattutto i più giovani, relativamente alle questioni etiche e di sostenibilità ambientale è crescente e sempre più rilevante nelle decisioni d’acquisto. D’altro lato, la crisi

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La maggior dinamicità nell’incremento della spesa si è registrata per i negozi tradizionali, i piccoli esercizi di prossimità che, pur rappresentando oramai solo il 13% dello share tra i canali distributivi, in questo 2020 hanno visto aumentare le vendite del 18,9%. A tal proposito, è interessante notare come le scelte dei consumatori abbiano delineato chiaramente un apprezzamento crescente per i piccoli negozi di vicinato in senso stretto (in foto, il banco della Macelleria Avagliano, a Sabaudia, Latina; photo © Massimiliano Rella). economica innescata dalla pandemia da Covid-19 lascerà strascichi rilevanti in termini di riduzione della capacità di acquisto di una parte importante di popolazione. Su questo labile confine si giocherà una partita importante per il futuro sviluppo dei consumi agroalimentari; 4. Homeworking. Che sia smart o meno, è ormai diffusa l’idea che non si tornerà indietro, almeno non del tutto. Molti lavoratori avranno la possibilità di organizzare con più flessibilità il lavoro, limitando la presenza in ufficio, organizzando le attività da casa. Durante il primo lockdown, la cucina è diventata un momento importante sia per trascorrere un po’ del tempo a disposizione ma anche per riprendere a mangiare in maniera più sana. Di contro, diventando routine e superando i limiti logistici, sarà fisiologico riorganizzare i pasti dedicando loro il giusto tempo. L’organizzazione dei pasti più frequenti a casa potrà guidare

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una fetta consistente degli acquisti domestici alimentari del futuro; 5. Cibo e salute. Dallo scoppio della pandemia ad oggi, il rapporto col cibo è cambiato e diventato più stretto oltre che multidimensionale. Per un verso, il cibo è stata una delle vie per cercare di mantenere la salute: il boom degli acquisti di arance nell’inverno 2020 ne è uno degli indicatori più evidenti. Nella rarefazione delle relazioni sociali e nelle difficoltà psico-fisiche di questi mesi si è anche amplificato il ruolo del cibo come fornitore di piacere, consentendo anche qualche piccolo deragliamento dal “percorso salutista”; 6. Siamo tutti chef. Il trascorrere delle settimane ha modificato l’atteggiamento dei consumatori nei confronti del cibo: a fronte di un graduale ridimensionamento di interesse per i prodotti “alternativi al fresco” (surgelati e scatolame) e per i prodotti da “scorta dispensa” (latte

UHT, pasta, passate di pomodoro), il paniere “cuochi a casa” (uova, farina, lievito, burro, zucchero, olio extravergine d’oliva) è quello che ha mostrato la maggior tenuta in terreno positivo; 7. Grandi città vs piccoli centri. Qualcuno lo ha definito southworking ma è possibile che sia un fenomeno ancora più ampio. Il lavoro da casa ha riconnesso molti al proprio luogo d’origine o al proprio luogo del cuore dove si possiede una seconda casa. Fatto sta che le vendite di prodotti agroalimentari nei negozi situati in aree a bassa urbanizzazione sono cresciute più incisiva-mente (+6,7%) rispetto a quelle delle città (+0,3%). In questo contesto, inoltre, va segnalata la quasi totale assenza di turismo estero, che ha penalizzato maggiormente le grandi città d’arte. In prospettiva questo fenomeno comporta sia degli effetti di ridistribuzione della ricchezza, sia la necessità da parte

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della produzione agroalimentare e della distribuzione di organizzarsi per poter raggiungere la domanda che si sposta dal Nord al Sud e dai poli urbani verso le altre aree del Paese. Ancora di più, quindi, la questione della logistica diventerà un perno del futuro sviluppo del settore; 8. La transizione digitale. Pur rimanendo ancora un settore nel complesso scarsamente propenso all’innovazione, questo anno contrassegnato dalla diffusione del Covid-19, ha indotto grandi passi avanti in termini organizzativi e di avvicinamento agli strumenti digitali anche da parte di tantissime imprese agricole. Il lockdown, infatti, ha stimolato molte di queste a individuare nuove soluzioni per superare le difficoltà logistiche e organizzative dei canali consueti orientandosi così verso la vendita diretta. Un fenomeno che va letto anche come segnale promettente dell’orientamento verso una filiera agroalimentare più corta e sostenibile. Secondo i risultati di un’indagine ISMEA, l’emergenza Covid-19 ha determinato un sensibile aumento del numero delle imprese agricole che praticano la vendita diretta e, di

conseguenza, il fatturato di questo canale che, nel 2020, ha superato i 6,5 miliardi di euro. I produttori che quest’anno hanno scelto di accorciare la filiera, raggiungendo in autonomia il consumatore finale, sono il 21,7% del campione analizzato, percentuale che aumenta di circa il 5% rispetto al 2019 (17%), destinandovi, peraltro, una quota produttiva ben maggiore (82%) rispetto al 2019 (73,1%). Lo scenario complessivo Dopo la transitoria boccata d’ossigeno del terzo trimestre del 2020, da ottobre in poi la risalita dei contagi ha costretto molte nazioni a rafforzare le misure di contenimento della pandemia, determinando un’ulteriore brusca frenata dell’economia mondiale. Il commercio mondiale in volume è diminuito su base annua del 5,9% nei primi undici mesi del 2020. Nelle prospettive per l’economia di dicembre, l’ISTAT prevede per l’Italia una marcata contrazione del PIL nel 2020 (–8,8%) e una ripresa parziale nel 2021 (+4,0%). Le misure restrittive adottate nel corso del 2020 hanno avuto effetti molto differenziati tra i settori economici. Il comparto agro-

alimentare, sia nella fase agricola, sia in quella industriale, pur non essendo stato soggetto a blocco delle attività, neppure durante il lockdown di marzo, ha risentito dell’emergenza per una serie di fenomeni di filiera. L’incremento delle vendite presso la GDO non sempre ha compensato il calo di quelle HO.RE.CA. Prima di tutto, la chiusura e poi il forte rallentamento del canale HO.RE.CA., in Italia e all’estero, ha impattato in maniera differente tra le varie filiere, a seconda dell’importanza che esso ha nel consumo finale di ciascun prodotto. Se in alcuni settori il calo delle vendite HO.RE.CA. è stato più o meno compensato dall’incremento di quelle presso la Distribuzione Organizzata e non, così non è stato per altri, come il vino, l’ittico e il florovivaismo. Inoltre, le dinamiche appaiono differenziate anche all’interno di uno stesso settore, con vantaggi di quelle imprese che hanno sempre avuto come interlocutore principale la distribuzione o direttamente il consumatore e svantaggi per quelle più orientate verso la vendita nel canale della ristorazione. In Italia, la contrazione del fatturato della ristorazione

Grafico 1 – Variazione della spesa per comparto – Anno 2020/19

All’incremento complessivo della spesa del +7,4% (confezionati e sfusi) hanno contribuito le tendenze positive di tutti i comparti, con incrementi sopra la media per tutti i proteici di origine animale, per i prodotti ortofrutticoli e per tutte le bevande alcoliche, compreso il vino, nonché per gli oli; sotto la media i derivati dei cereali, i prodotti ittici e le bevande analcoliche (fonte: Ismea-Nielsen).

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In relazione ai canali di vendita, i supermercati restano la principale fonte di approvvigionamento (catturando il 41% dei volumi totali), con un incremento delle vendite di oltre il 9,4%, ma con il calo della domanda di bar e ristoranti e l’impossibilità per i consumatori di percorrere lunghe distanze, i punti vendita che si sono dimostrati più adatti alle nuove esigenze di acquisto sono stati quelli con buona posizione e buon assortimento (photo © Hasloo Group). è stata imponente, con un –34,7% nei primi nove mesi del 2020 sullo stesso periodo del 2019, e ha interrotto un robusto trend di crescita manifestatosi nell’ultimo decennio, segnato dal +6% in termini reali della spesa delle famiglie per servizi di ristorazione di fonte ISTAT, a fronte del –2,5% di quella destinata agli acquisti di alimenti e bevande presso la distribuzione. Secondo una stima dell’ISMEA, fatta tenendo conto delle dinamiche del fatturato ISTAT dei primi nove mesi e delle ulteriori misure restrittive messe in atto per la risalita dei contagi a partire dall’autunno, la spesa delle famiglie presso la ristorazione sarebbe diminuita del 42% nel 2020. La riduzione del fatturato della ristorazione nel mondo rallenta l’export agroalimentare Il brusco calo degli affari della ristorazione italiana nel mondo si è fatto sentire sulle esportazioni agroalimentari, che avevano aperto l’anno sotto i migliori auspici, ma che chiudono il 2020 con un deciso rallentamento, anche se ancora

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in terreno positivo. Nel 2020, infatti, l’incremento dell’export agroalimentare si è ridotto dal +7% del 2019 al +1,7% su base annua. Il 2020 si è chiuso comunque con un saldo del commercio agroalimentare in miglioramento rispetto all’anno precedente, con un surplus che, nel complesso, ha oltrepassato i 3 miliardi di euro, dopo il deficit di 37 milioni del 2019. A contribuire a questo risultato è stata, a fronte della tenuta dell’export, la diminuzione delle importazioni del 5,1%. In calo la fiducia degli operatori, ma con prospettive future positive In questo contesto, la fiducia degli operatori dell’agroalimentare non poteva che diminuire. L’indice di clima di fiducia, calcolato come media dei risultati trimestrali, è sceso a –5,9 punti per l’agricoltura, con un crollo della componente relativa alla situazione corrente aziendale, mentre le aspettative per il futuro, a 2-3 anni, sono risultate migliori rispetto al 2019. L’andamento climatico ormai da anni influenza

negativamente i risultati delle imprese del settore primario. Dal 2016 ad oggi il valore aggiunto agricolo ha sperimentato flessioni continue ogni anno, ad eccezione del 2018. Anche per gli operatori dell’industria alimentare l’indice di clima di fiducia è scivolato inevitabilmente su terreno negativo nel 2020, toccando –15,6 punti, per un crollo del livello degli ordini e un incremento delle scorte, mentre le attese degli operatori sulla produzione sono rimaste debolmente positive, pur diminuendo rispetto al 2019. La domanda al dettaglio di prodotti agroalimentari La spesa per consumi domestici di prodotti alimentari è una delle poche variabili sulle quali l’emergenza Covid ha avuto un impatto positivo. La tendenza di crescita evidenziata nel 2020 è di gran lunga la più ampia dell’ultimo decennio (+7,4%), raggiungendo il suo culmine a marzo, quando le vendite hanno registrato picchi del +20%. Col trascorrere delle settimane,

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poi, la ritrovata fiducia nella capacità del sistema agroalimentare di garantire gli approvvigionamenti quotidiani ha progressivamente attenuato il tasso di crescita degli acquisti. Nella cosiddetta Fase 2, con la conseguente riduzione dell’impatto della diffusione del Covid e la graduale riapertura della ristorazione, l’andamento delle vendite è tornato alla normalità con alcune settimane che hanno addirittura visto variazioni negative rispetto al medesimo periodo del 2019 (nel mese di luglio –2,1%). Ma in autunno le nuove restrizioni e il rinnovato timore per la diffusione del Covid hanno generato nuovamente ripercussioni sulle abitudini di acquisto (Grafico 1), con conseguenze sulle vendite che sono aumentate, senza però raggiungere i picchi di inizio pandemia. L’analisi della tendenza dei consumi complessivi (confezionati e sfusi) per area geografica evidenzia ancora una volta come il Nord Est abbia fatto da traino alla crescita nazionale, con incrementi della spesa del +8,4%, decisamente più marcati di quelli registrati nelle altre macro-aree; segue il Centro con +7,3%, il Mezzogiorno con +7,2% e il Nord Ovest con +7,0%. In particolare, si evidenziano reazioni differenti dei consumatori in risposta all’emergenza: al Sud, la spesa — seppur costantemente in positivo — mostra una maggiore variabilità, con il consumo che più sensibile ai decreti restrittivi, con i due picchi più alti proprio nelle settimane immediatamente successive all’emanazione di questi (+19% a marzo e un nuovo record, +12%, a fine ottobre con l’inizio del secondo periodo di restrizioni). Incrementi superiori nelle aree a bassa urbanizzazione Durante il 2020, inoltre, si è verificato un cambiamento nei luoghi di consumo. C’è chi ha lavorato da casa, chi si è spostato di meno, chi è tornato nella propria città di origine e chi è rimasto nella seconda casa; tutto ciò ha fatto sì che le vendite dei negozi nelle aree a bassa urbanizzazione siano cresciute di più (+6,7%) rispetto a quelle dei negozi situati nelle grandi città (+0,3%), le quali, probabilmente, hanno sofferto anche della quasi totale assenza di turismo estero, che ha penalizzato maggiormente le grandi città d’arte.

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Il supermercato resta il canale più utilizzato (41%), ma i negozi tradizionali sono i più dinamici (+18,9% le vendite) In relazione ai canali di vendita, i supermercati restano la principale fonte di approvvigionamento (catturando il 41% dei volumi totali), con un incremento delle vendite di oltre il 9,4%, ma col calo della domanda di bar e ristoranti e l’impossibilità per i consumatori di percorrere lunghe distanze, i negozi che si sono dimostrati più adatti alle nuove esigenze di acquisto sono stati quelli con buona posizione e buon assortimento. La maggior dinamicità si è registrata, infatti, per i negozi tradizionali, i piccoli esercizi di prossimità che pur rappresentando ormai solo il 13% dello share tra i canali distributivi, in questo 2020 hanno visto aumentare le vendite del 18,9%. A tal proposito, è interessante notare come le scelte dei consumatori abbiano delineato chiaramente un apprezzamento crescente per i piccoli negozi di vicinato in senso stretto senza premiare allo stesso modo le superette. All’inizio dell’anno l’incremento delle vendite di negozi tradizionali e liberi servizi (ossia piccole superfici facenti capo spesso a insegne GDO) erano sincrone ma,

a partire dal mese di maggio (prime riaperture), i liberi servizi hanno visto un declino delle vendite, mentre i negozi tradizionali hanno proseguito nel processo espansivo, mantenendo l’incremento a due cifre delle vendite. I liberi servizi hanno sostituito per comodità e limiti di movimento gli acquisti in altre tipologie di punti vendita strettamente nel periodo di limitazione, ritornando ai livelli di vendita precedenti non appena le condizioni lo hanno permesso. Al contrario, i negozi di vicinato sembrerebbero avere capitalizzato le opportunità offerte dalla pandemia riuscendo a mantenere una parte della clientela acquisita nei periodi di maggiore difficoltà. I discount raggiungono i supermercati in termini di fatturato per metro quadro I discount, con una quota del 15%, hanno incrementato le vendite del 9,5% e tagliano un traguardo importante nel 2020: il loro fatturato medio per metro quadro ha raggiunto i 5.800 euro, quasi eguagliando i 5.860 euro dei supermercati, mentre 10 anni fa erano inferiori del 14% rispetto a questi ultimi. Il connubio tra prezzi competitivi e una chiara modernizzazione di assortimento ha portato il canale a crescere costan-

Nel 2020 il canale e-commerce ha registrato un incremento esponenziale nel 2020: +117% rispetto all’anno precedente (28 volte superiore alla crescita dei canali fisici), con un contributo alla crescita del 13% nelle categorie alimentari. Qui in foto lo shop on-line della storica gastronomia milanese Peck, fondata nel 1883 da Francesco Peck, un salumiere boemo di Praga (photo © www.peck.it/it/negozio-online).

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Nel 2020 è cresciuta la spesa per i prodotti lattiero caseari, (+8,3%), grazie soprattutto all’incremento degli acquisti di formaggi (+9,7%), con una variazione più limitata per il latte (+3,9%). Per quanto riguarda il latte è ancora una volta l’UHT a trainare le vendite (+8,7%), mentre continua a flettere l’interesse per il fresco (–5%). Tra i formaggi, invece, sono stati i freschi e i duri a trainare gli acquisti (rispettivamente +12,8% e +8,5%), rappresentati in gran parte da mozzarelle (i primi) e da formaggi da grattugia (i secondi), particolarmente apprezzati in quest’annata grazie all’incremento del tempo dedicato alle preparazioni casalinghe. I salumi, che già nel 2019 avevano dato segnali di ripresa (+1,4%), hanno proseguito con un buon incremento delle vendite anche nel 2020 (+8,3%). A fare da traino i pre-affettati e porzionati disponibili nei frigo a libero servizio (che rappresentano ormai il 58% dei volumi acquistati dalle famiglie) le cui vendite sono aumentate del 15,9%. In tenuta ma senza spunti positivi le vendite del prodotto al banco servito (photo © Daniel Uvegard x unsplash). temente, moltiplicando sia la quota di mercato che la presenza sul territorio nazionale. Nel corso del 2020, gli ipermercati sono stati, invece, quelli che hanno sofferto maggiormente, registrando tendenze negative (–0,8%). La crescita dei canali digitali supera di 18 volte quella dei negozi fisici Garantendo maggiore comodità e sicurezza ai consumatori, il canale ecommerce ha registrato un incremento esponenziale nel 2020: +117% rispetto all’anno precedente (28 volte superiore alla crescita dei canali fisici), con un contributo alla crescita del 13% nelle categorie alimentari. Nell’analisi dei mutamenti nei processi d’acquisto dei prodotti agroalimentari durante la diffusione del Covid-19, è rilevante la categoria socioeconomica di appartenenza degli acquirenti.

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La spesa per le carni è tra quelle che cresce di più (+9,8%) Analizzando la spesa, il comparto delle carni, con un +9,8% rispetto al 2019, ha fatto registrare importanti incrementi. Un anno partito su toni fiacchi, che nel bilancio finale ha però evidenziato una buona resilienza del settore, grazie alla propensione da parte dei consumatori a convertire i consumi “fuoricasa” in consumi “in casa”. Gli incrementi si sono infatti concentrati nei periodi in cui i canali della ristorazione hanno subito le maggiori restrizioni, mentre gli acquisti sono tornati su livelli simili all’anno precedente nel trimestre estivo, quando i canali HO.RE.CA. hanno ripreso a funzionare. La filiera suinicola (...) La pandemia ha evidenziato tutte le debolezze del comparto suinicolo italiano, sia da un punto di vista strutturale

che organizzativo. A partire da marzo 2020, infatti, la chiusura del canale HO.RE.CA. e dell’attività agrituristica ha determinato il crollo della vendita dei prosciutti DOP e di altre produzioni della salumeria di qualità. Per quanto riguarda l’andamento del mercato, già a inizio 2020 erano emersi i primi segnali di indebolimento dei prezzi all’origine dei suini pesanti destinati alle produzioni tipiche, che si sono poi accentuati col diffondersi del Covid-19 (tra aprile e giugno il calo delle quotazioni è stato superiore al 25% rispetto agli stessi mesi del 2019). In particolare, tra maggio e giugno 2020 le quotazioni di tutti i principali prodotti della filiera, dai suini vivi (da ingrasso o da macello), ai principali tagli di carne suina fresca fino ai prosciutti stagionati, hanno raggiunto dei valori eccezionalmente bassi. (...) Tra gennaio e ottobre 2020 si confermano a grandi linee le principali tendenze registrate negli ultimi anni per le produzioni che maggiormente rispondono alla domanda del mercato internazionale: crescono in valore, rispetto a gennaioottobre 2019, le esportazioni di “salsicce e salami stagionati” (+15,7%), dei “prosciutti cotti” (+1,7%) e, soprattutto, delle “pancette stagionate” (+25,7%). In calo invece le esportazioni di “prosciutti disossati, speck, culatelli”, categoria di prodotti che da sola rappresenta circa il 40% dell’export totale del settore: tra il 2018 e il 2019 si registrava una leggera contrazione del valore dell’export (–1,3%), che si conferma anche durante il 2020 con un calo dell’1,7% tra gennaio e ottobre rispetto allo stesso periodo del 2019, che corrisponde a una riduzione dei volumi esportati pari al 13%. Questa categoria di prodotti ha come destinazione principale il canale HO.RE.CA. dei Paesi acquirenti e quindi il loro collocamento sul mercato estero è stato fortemente condizionato dalle misure di contenimento del Covid-19 che hanno portato alla chiusura di molti ristoranti, bar e mense in gran parte dei mercati di destinazione. Fonte: Emergenza Covid-19 IV Rapporto sulla domanda e l’offerta dei prodotti alimentari nell’emergenza Covid-19 Ismea – Istituto di servizi per il mercato agricolo alimentare Febbraio 2021 www.ismea.it

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Martelli: arrosti di pollo e tacchino “free from” e made in Italy Nel 2020 la spesa di alimenti confezionati che segnalano in etichetta la loro italianità è cresciuta del 26,3% e del 25,4% quella dei prodotti “free from”, come rileva l’Osservatorio Immagino realizzato da GS1 Italy e Nielsen. Dall’esperienza del Gruppo Martelli – impresa familiare che controlla e traccia l’intera filiera, dalla nascita degli animali fino alla lavorazione delle carni – arriva ad hoc un prodotto che risponde alle esigenze dei consumatori che sempre più vogliono consumare alimenti di qualità e made in Italy. Con un’etichetta “corta” e pulita, fatta di pochi ingredienti di qualità e priva di additivi, gli arrosti di pollo e di tacchino del Gruppo Martelli rispondono in modo perfetto alle preferenze espresse dai consumatori italiani perché sono realizzati con tagli interi e di alta qualità, provenienti da una filiera 100% italiana, e sono privi di allergeni (come ad esempio il glutine) e di additivi, come i polifosfati. I prodotti Martelli nascono dall’impegno del gruppo nel non utilizzo agglomerati di carni, nella scelta di lavorare solo carni 100% italiane e nell’uso di ingredienti naturali senza aggiunta di sostanze (come amidi, carragenina, soia, polifosfati, derivati del latte o fecola di patate) che alterano i prodotti. La qualità garantita dal Gruppo Martelli ha un altro plus: è trasparente, perché scritta in etichetta. Basta leggere l’elenco degli ingredienti, presente su tutte le vaschette degli arrosti di pollo e di tacchino, per verificare la qualità, la naturalità degli ingredienti e l’assenza di additivi. Gli arrosti di pollo e di tacchino del Gruppo Martelli sono disponibili sia in vaschetta sia al taglio, in una gamma di sette proposte capace di soddisfare ogni esigenza e ogni preferenza. Le tre referenze al taglio includono il Petto di tacchino arrosto di Alta Qualità (in foto), prodotto esclusivamente con petto intero di tacchino maschio italiano e legato, pezzo per pezzo, in modo da dargli la sua caratteristica forma, viene prima cotto a vapore e poi arrostito in modo da esaltarne il sapore e dargli la sua tipica doratura; il Petto di pollo arrosto di Alta Qualità (in foto), fatto solo con petti interi di pollo italiano, sottoposti a una cottura a vapore, e poi arrostiti per renderli ancora più saporiti, dorati e gustosi; infine, il Petto di tacchino arrosto, ottenuto solo da petto di tacchino italiano, aromatizzato con ingredienti naturali, viene prima cotto al vapore e poi arrostito al forno. Quest’accurata tecnica produttiva ne esalta l’aroma delicato e conferisce una caratteristica doratura alle carni. L’offerta preconfezionata comprende quattro prodotti, ready-to-eat, proposti in vaschette ad atmosfera modificata, dal peso di 100 grammi: arrosto di petto di tacchino cotto al vapore, arrosto di petto di pollo cotto al vapore, affettato di petto di pollo di Alta Qualità, affettato di petto di tacchino di Alta Qualità». >> Link: www.martelli.com

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MERCATI

EXPORT 2020: IN PIEDI NONOSTANTE TUTTO di Sebastiano Corona

a pandemia e le relative restrizioni non hanno avuto un impatto solo sul mercato interno del comparto, ma hanno generato ripercussioni importanti anche nei rapporti commerciali con gli altri Paesi, sia per ciò che concerne le merci in ingresso, sia in uscita. Al fine di comprendere ed analizzare questo fenomeno, il CREA, Consiglio per la ricerca in agricoltura e l’analisi dell’economia agraria, ha analizzato l’andamento degli scambi nei primi nove mesi del 2020. Le restrizioni dovute al Covid-19 si sono presentate in un momento favore-

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vole per il comparto, interrompendo un trend di crescita importante. Nel 2019, infatti, si confermava l’andamento positivo delle esportazioni che avevano raggiunto i 44,4 mld di euro. Anche l’import era però aumentato, dell’1,4%, dopo il calo del 2018. Alla vigilia dell’arrivo della pandemia, il peso dell’agroalimentare sul commercio totale di merci tornava a crescere sia per l’import (10,5%), sia per l’export (9,2%). Negli ultimi anni la crescita dell’export era superiore a quella dell’import, con un netto calo del deficit e una bilancia agroalimentare prossima al pareggio.

Rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente, il primo semestre ha fatto registrare un calo del 4,6% del valore delle importazioni, l’export è cresciuto di oltre il 2%, mentre nello stesso periodo gli scambi complessivi di merci dell’Italia si sono ridotti del 16% circa. Il settore agroalimentare ha mostrato, dunque, una maggiore tenuta rispetto agli altri comparti, evidentemente più sensibili alle restrizioni e alla crisi economica che ne è derivata. Un fenomeno similare si era verificato negli anni 2008-09, durante i quali l’impatto della recessione era

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Il Covid-19 ha inciso in maniera significativa su import ed export, ma il comparto agroalimentare tiene, molto meglio di altri settori: lo dice l’analisi dei dati sull’andamento degli scambi nei primi nove mesi del 2020 effettuata dal CREA, il Consiglio per la ricerca in agricoltura e l’analisi dell’economia agraria

Sia per i flussi in uscita che in entrata, dopo un andamento stabile o in crescita nei primi tre mesi del 2020, si rileva un calo ad aprile e maggio fino a una diffusa ripresa a giugno, con valori in linea o quasi con quelli del 2019. Facendo un’analisi per aree di riferimento, si assiste alla frenata del mercato asiatico

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stato, sia per import che per export nazionale, meno rilevante rispetto agli altri comparti produttivi e si era attestato su cifre rispettivamente dell’8 e del 6%, a fronte di un crollo degli scambi complessivi di merci del nostro Paese superiore al 20%. Nel complesso, nei primi 9 mesi del 2020 si è registrato un calo tendenziale dell’import a fronte di una crescita dell’export, ma è bene sottolineare che si tratta di un andamento diversificato. Per ciò che concerne l’import: aprile e maggio sono infatti i mesi più colpiti, ma da giugno si nota un’attenuazione delle contrazioni. L’export ha un’ottima partenza nel I trimestre, un calo a maggio (–11,4%) e una ripresa da giugno, con un saldo positivo nel 2020. Nel 2019, più del 60% delle importazioni agroalimentari era rappresentato da prodotti trasformati. Un terzo dell’import era di prodotti del settore primario, in parte per la nostra industria di trasformazione e, infine, delle bevande (marginale, ma in aumento, con oltre il 4%). Il 2020 si presenta con un aumento già nelle prime settimane, alle quali seguono un aprile e un maggio in contrazione generalizzata per tutti e tre i settori (soprattutto per i trasformati). Da giugno si evidenzia una ripresa dei flussi in entrata per i tre settori, che si chiude, però, ad ottobre — ultimo dato disponibile del CREA —, con un netto calo generalizzato, da imputare principalmente ai prodotti trasformati dell’industria alimentare. Nell’analisi dell’import per prodotti, nei primi 9 mesi del 2020 si rileva che l’85% concerne prodotti finiti per consumo diretto e questa quota si conferma anche nel 2020. Sebbene il calo sia generalizzato e riguardi tutti i principali prodotti, quelli ittici sono i più colpiti, in particolare crostacei e molluschi, soprattutto a causa dell’inoperatività del canale HO.RE. CA. Il caffè greggio dal Brasile ha fatto registrare una minore disponibilità di prodotto, dovuta a difficoltà logistiche e a problemi nell’andamento dell’industria e i 3 principali comparti di importazione, quali carni, prodotti ittici e lattierocaseari — che da soli rappresentano quasi il 30% dell’import agroalimentare dell’Italia — si sono mostrati in calo per una percentuale tra il 7 e il 12. È interessante, tuttavia, osservare anche

all’interno del semestre in analisi, in quali mesi e in concomitanza con quali misure restrittive si siano verificati alcuni fenomeni economici. Si rileva infatti che il calo semestrale dell’import agroalimentare sia imputabile esclusivamente all’andamento del secondo trimestre, con una contrazione in valore che annulla l’aumento del 3,2% dei primi tre mesi. In particolare, in quella fase, rispetto al primo trimestre 2019, a fronte di una stabilità dell’import di prodotti primari, si evidenzia un incremento di quasi il 3% dell’industria alimentare. Nello stesso periodo gli acquisti dall’estero di bevande, che pesano circa il 5%, crescono del 43%, grazie soprattutto alla birra. Un ulteriore dettaglio temporale evidenzia come il netto calo dell’import di prodotti trasformati sia legato quasi esclusivamente all’andamento di aprile e maggio, mentre a giugno è evidente una ripresa, con valori vicini a quelli del 2019. Sia per i prodotti primari che per le bevande, giugno mostra fortunatamente un ritorno dei valori ai livelli del 2019. Focus sull’export Per l’export la contrazione nel secondo trimestre è nettamente più contenuta rispetto a quella dell’import e, nell’andamento complessivo semestrale, non annulla la netta crescita registrata nei primi tre mesi. Come per le importazioni, anche le esportazioni nel primo trimestre aumentano per i tre settori, soprattutto per le bevande, e per i prodotti trasformati, dove l’incremento in valore supera il 10%. Il calo del 3,6% del secondo trimestre è invece imputabile quasi esclusivamente alle minori esportazioni di bevande, con un –14,6% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. Per l’industria alimentare la riduzione in valore è molto contenuta (–0,3%), mentre per i prodotti primari si evidenzia un segno addirittura positivo anche nel secondo trimestre, sebbene molto limitato (+0,3%). Per il settore primario, l’analisi mensile delle esportazioni conferma una sostanziale stabilità. Per i prodotti trasformati, invece, dopo un’ottima performance nei primi tre mesi del 2020, si registra un netto calo ad aprile e maggio e una ripresa solo a giugno, con un indice che torna a crescere rispetto al 2019. Anche per

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Nel fare un’analisi regionale sui primi 9 mesi del 2020, si nota che l’impatto maggiore l’ha accusato il Nord, ma c’è il caso Sardegna, che con Pecorino e Fiore Sardo ha segnato un clamoroso decremento verso tutti i principali mercati, dove il peso degli USA è maggiore dell’80% (photo © sal – stock.adobe.com). le bevande, dopo un andamento nei primi tre mesi sostanzialmente in linea con il 2019, segue una riduzione ad aprile e maggio, mentre a giugno il valore dell’export torna in linea con l’anno precedente. Nel complesso, quindi, sia per i flussi in uscita che in entrata, dopo un andamento sostanzialmente stabile o in crescita nei primi tre mesi del 2020, si rileva un calo ad aprile e maggio fino a una diffusa ripresa a giugno, con valori in linea o quasi con quelli di giugno 2019. Facendo invece un’analisi per aree di riferimento, si assiste alla frenata del mercato asiatico e della Cina. Nei primi 9 mesi del 2020 si osserva comunque la tenuta dei principali clienti: i primi 6 assorbono più della metà delle nostre esportazioni, tutti stabili o in crescita rispetto al 2019. È buono l’andamento delle vendite in Germania, che si conferma un importante mercato per i trasformati come pasta, conserva di pomodoro, ma anche vino, così come per il settore primario. Si registra una crescita anche del Nord America, sia USA che Canada. Verso la Spagna e United Kingdom, invece, calano molti dei principali prodotti.

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Analisi per regioni Nel fare un’analisi regionale sui primi 9 mesi, si nota che l’impatto maggiore l’ha accusato il Nord. Nel II trimestre le prime 4 regioni (peso superiore al 60%) sono in calo di una percentuale tra il 5 e il 10. Incide la composizione del paniere: a Nord soffrono vino, lattierocaseario e carne. Al Sud pasta, conserve di pomodoro e olio. La Sardegna, con Pecorino e Fiore Sardo, segna un clamoroso decremento verso tutti i principali mercati (dove il peso degli USA è maggiore dell’80%), mentre la Calabria accusa il colpo su oli essenziali e succhi di frutta, l’Umbria su tabacco e olio, il Friuli Venezia Giulia sul caffè torrefatto (in particolar modo verso gli USA). Analisi merceologica Passando all’analisi merceologica si nota che, ad incidere sulla riduzione delle importazioni del settore primario nel II trimestre, sono diversi i comparti — primi fra tutti i prodotti della pesca, della silvicoltura e i prodotti degli allevamenti — ad avere contrazioni in valore superiori al 30%. Come già evidenziato, è però bene ricordare che spesso l’andamento dei valori non rispecchia quello delle quantità scambiate. Per i

prodotti della pesca e della silvicoltura la contrazione delle quantità importate è rispettivamente più contenuta e più marcata del valore, mentre per i prodotti degli allevamenti si ha addirittura una crescita delle quantità importate. Altri due importati comparti del settore primario con flussi in entrata in netto calo sono “cacao, caffè, tè e spezie” (–15,9%) e animali vivi (–13,1%). Ad attenuare l’andamento negativo generalizzato delle importazioni nel settore primario c’è la crescita dei flussi di altri importanti comparti. È il caso delle importazioni di cereali (oltre il 6%), come pure frutta fresca e semi e frutti oleosi. Riguardo l’industria alimentare, per tre dei quattro principali comparti di importazione le riduzioni in valore nel secondo trimestre sono rilevanti: carni fresche e congelate (–21,2%), prodotti lattiero-caseari (–12,6%) e prodotti ittici (–25,6%). Per il comparto lattierocaseario l’andamento negativo in valore e quantità riguarda sostanzialmente tutti i principali prodotti di importazione. Generalizzato è anche il calo all’interno del comparto ittico, dove i crostacei e molluschi congelati siano i prodotti più colpiti nel secondo trimestre, con riduzioni superiori al 50% in valore e quantità. All’interno del comparto carni, le prime quattro voci, riferite a carni bovine e suine semilavorate e disossate, mostrano contrazioni superiori al 20% in valore e al 10% in quantità. In generale, per quasi tutti i comparti dell’industria alimentare la riduzione in volume, sebbene rilevante, è più contenuta di quella in valore. Si è trattato dunque di un periodo nel complesso difficile e imprevedibile, da ogni punto di vista, con un andamento schizofrenico condizionato dall’incertezza, che ha generato problemi sul piano commerciale e della programmazione. Sarà interessante osservare ed analizzare i dati degli ultimi mesi del 2020 e dei primi del 2021, per comprendere quale sia stato l’effettivo impatto della pandemia sui mercati. Nella speranza che questa brutta pagina si possa considerare del tutto superata o quasi. Sebastiano Corona Nota A pagina 76, photo © Vasiliy – stock. adobe.com

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Parmigiano Reggiano: nonostante la pandemia le aziende del Consorzio chiudono il 2020 con un bilancio positivo Il 2020 è stato un anno record per la produzione della Dop Parmigiano Reggiano, che cresce complessivamente del 4,9% rispetto all’anno precedente. I 3,94 milioni di forme (circa 160.000 tonnellate) prodotte rappresentano il livello più elevato nella storia del Parmigiano Reggiano. Un giro d’affari al consumo pari a € 2,35 miliardi per la Dop che si proietta sempre più verso l’estero: una valvola di sfogo per una produzione in continua espansione che ha bisogno di nuovi spazi di mercato. Negli ultimi quattro anni, la produzione è infatti aumentata da 3,47 milioni di forme a 3,94 milioni di forme, registrando una crescita pari al 13,5%. Anna positivo anche per quanto riguarda le quotazioni. Se nel primo semestre 2020 il prezzo del 12 mesi (prezzo medio alla produzione Parmigiano Reggiano 12 mesi da caseificio produttore, fonte: bollettini Borsa Comprensoriale Parma) era 7,55 €/kg, alla fine dell’anno ha superato i 10 €/kg. La quotazione media annua (8,56 €/kg) è stata inferiore a quella del 2019, ma con un sostanziale incremento nella seconda parte dell’anno che ha permesso di recuperare marginalità. Il mercato del Parmigiano Reggiano è un mercato che sta diventando sempre più internazionale. L’Italia — che rappresenta il 56% del mercato — ha registrato un incremento dei volumi di vendita pari al 7,9%. La GDO è sempre il primo canale distributivo (61%), seguito da normal trade (13%), vendite dirette (12%), e industria (4%). Il canale Ho.Re.Ca. rappresenta invece solo un 2% — presenta pertanto ampi margini di miglioramento — e ha subito un drastico calo dovuto alla chiusura dei ristoranti nel periodo della pandemia. Il restante 7% è distribuito negli altri canali di vendita. La quota export è pari al 44% (+10,7% di crescita a volume rispetto all’anno precedente). Gli Stati Uniti sono il primo mercato (20% dell’export totale), seguiti da Francia (19%), Germania (18%), Regno Unito (13%) e Canada (5%). Nei mercati più importanti, le performance migliori sono state registrate nel Regno Unito (+21,8%), in Germania (+14,8%) e in Francia (+4,2%). Crescono anche USA (+1,9%) e Canada (+36,8%), così come i nuovi mercati: Australia (+85,4%), Area del Golfo (+62,3%) e Cina (+8%). «Nonostante le difficoltà legate alla pandemia, il Parmigiano Reggiano ha chiuso il 2020 con un risultato positivo che premia la reputazione, la qualità del prodotto Dop di maggior valore nel mondo» ha commentato Nicola Bertinelli, presidente del Consorzio Parmigiano Reggiano. La scelta dei consumatori in tutti i mercati, costretti a rinunciare ai pasti fuori casa per molti mesi, ha indicato una preferenza in maniera netta. Ci prepariamo ad affrontare un 2021 difficile: la marca Parmigiano Reggiano può diventare un vero brand globale e stiamo lavorando in questa prospettiva». >> Link: parmigianoreggiano.it

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BELLE BOTTEGHE

Una bottega storica di Nizza Monferrato, Asti

Vittorio e Loredana: Bue Grasso, Fassona e Salsiccia di Nizza di Massimiliano Rella

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l nostro giro tra le macellerie del Piemonte fa tappa, di nuovo, a Nizza Monferrato (AT), paese al centro di una terra di nobili vini: il Nizza DOCG e la Barbera d’Asti DOCG. Oltre al nettare di Bacco, quest’importante comune del Monferrato vanta macellerie storiche e di qualità, come la

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Macelleria Vittorio e Loredana, dal nome dei due proprietari, marito e moglie, una coppia di macellai con lunga esperienza. Lui, VITTORIO GIOVINE, 68 anni, cominciò a far pratica da adolescente; la signora LOREDANA COVISOLO proveniva invece dal mondo della ristorazione. Nel ‘77, ormai 43 anni fa, decisero di rile-

In alto: Vittorio Giovine e Loredana Covisolo, proprietari della Macelleria Vittorio e Loredana a Nizza Monferrato (AT).

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ANTICA CORTE PALLAVICINA Ristorante “AL CAVALLINO BIANCO” 43010 Polesine Parmense (PR) Tel. 0524 96136 – Fax 0524 96416 www.acpallavicina.com

Nel 1905, nostro nonno Spigaroli Luigi riesce a diventare fittavolo dell’Antica Corte Pallavicina. Il vecchio castello eretto nel 1400 dai Marchesi Pallavicino, trasformato nel 1700 in azienda agricola, è situato sulla riva del Po. Nascono sei figli e l’ultimo, nel 1916, è nostro padre Spigaroli Marcello. Egli diceva che nel castello si stava bene, avevano il traghetto sul fiume, in estate curavano il podere, allevavano come sempre parecchi maiali che in inverno macellavano e facevano i salumi. Salumi che venivano venduti, da prima interi, ai passeggeri del loro traghetto poi, in seguito, al sorgere di una prima baracchetta di legno in riva al Po, affettati insieme al pane, a coloro che, sulle rive del fiume, si recavano in passeggiata anche dai paesi vicini. Da quella baracchetta successivamente ampliata, ma sempre in legno, e divenuta il “Lido di Polesine”, nel quale si ballava e si facevano merende, trarrà origine, dall’immane sforzo congiunto della zia Emilia e dei nostri genitori, il ristorante “Al Cavallino Bianco”. Di posti come il vecchio castello in riva al fiume non ne esistono quasi più, con muri di oltre un metro di spessore, con cantine stupende dove i marchesi stagionavano i loro salumi che inviavano agli Sforza a Milano. Infatti più i salumi e i culatelli sono vicini al grande fiume e più sono buoni!! Tutti quei racconti non li abbiamo mai dimenticati e quando dieci anni fa viene venduta la vecchia Corte Pallavicina decidiamo di acquistarla, con grandi sforzi economici, per poter continuare come il bisnonno, il nonno, il papà a fare dei salumi unici, non sintetici, che mangiandoli scopri da dove vengono e chi li ha fatti. Del resto alla nostra famiglia il senso del buono l’ha insegnato una persona che di cose buone se ne intendeva e noi non ce la sentivamo proprio di lasciar perdere tutta questa esperienza. Massimo e Luciano Spigaroli figli di Marcello.


Salsiccia di Nizza Monferrato: da mangiare cruda, è fatta con carne magra di Scottona e castrato, aromatizzata con sale, pepe, noce moscata, Parmigiano Reggiano e vino bianco Chardonnay.

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Tartare di Fassona.

vare insieme una macelleria storica nel centro di Nizza Monferrato, un negozio vecchio di 200 anni, in cui oggi sopra al bel bancone carico di ghiottonerie, dalla Fassona piemontese alla carne di Bue Grasso, svettano stendardi e gualdrappe di tanti premi conquistati alle fiere bovine, da Carrù a Moncalvo e da qui fino a Nizza. La macelleria lavora tagli di carni pregiate e prodotti gourmet: Fassona Piemontese, Bue Grasso, Scottona, castrato di animali di piccoli allevamenti situati tra Asti e Cuneo — sono 6 i fornitori — alimentati con fieno, cereali, pastone, ecc…, e macellati all’età di 18-22 mesi il castrato e la Scottona, a quella di 5-7 anni il bue grasso, dopo 2-3 anni di pascolo e d’ingrasso. Sono invece di loro produzione i salumi come la Salsiccia di Nizza, una bontà da mangiare cruda, fatta con carne magra di scottona e castrato aromatizzata con un pizzico di sale, pepe, noce moscata, Parmigiano Reggiano e vino bianco Chardonnay. Fanno artigianalmente anche il cacciatorino di bue (80% di bue grasso, 20% pancetta di maiale), il salame cotto, la salamella di scottona, ecc…

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Il Bue Grasso insieme alla Fassona è il simbolo della razza bovina Piemontese. È un animale maestoso e imponente cui sono dedicate ogni anno due fiere storiche, la Fiera del Bue Grasso a Carrù (CN) e la Fiera Bue Grasso a Moncalvo (AT). Noto in tutto il mondo per la qualità delle sue carni, questo bovino adulto dal manto bianco viene castrato entro gli otto mesi d’età (lasciando integra la sacca scrotale) per favorire l’aumento di peso, che può superare anche di molto la tonnellata. Dopo quattro anni di vita l’animale assume la denominazione di bue. Alimentato a base di prodotti naturali a secco (mais, fieno, soia, fave, orzo, etc) — dieta integrabile con uova e altri prodotti — il Bue Grasso deve aumentare di peso lentamente e in modo equilibrato, per valorizzare anche l’estetica del suo portamento e la bellezza dell’animale. Ma la cosa più importante è la qualità della sua carne pigmentata di grasso, di gusto intenso e grande tenerezza. A Carrù, prima della fiera, ancor prima dell’alba, nelle affollate taverne e osterie del paese — già alle 5:00

del mattino — c’è la tradizione di mangiare il Gran Bollito misto, un mix di carni pregiate composto di sette tagli di polpa: tenerone (da collo o coppa), scaramella (pancia e costato), muscolo di coscia, muscoletto (stinco), spalla, fiocco di punta e cappello del prete (sottopaletta). A questi si aggiungono sette ammennicoli: lingua, testina con musetto, coda, zampino, gallina, cotechino e rollata (o tasca ripiena). Il tutto da condire con sette bagnetti o salse: verde rustico, verde ricco, rosso, cren, mostarda, cugnà, salsa al miele. I contorni, invece, sono quattro: le patate lesse, gli spinaci al burro, i funghi trifolati, le cipolle in agrodolce. Massimiliano Rella Vittorio e Loredana Macelleria Storica Via Carlo Alberto 80 14049 Nizza Monferrato (AT) Telefono: 0141 721192 E-mail: info@vittorioeloredana.com Web: www.vittorioeloredana.com Nota Photo © Massimiliano Rella.

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LA CUCINA Status symbol della tavola anni Ottanta, oggi ritorna “rinfrescato” e minimal

I segreti dell’aspic di Giorgia Fieni

on è una delle mie ricette preferite ma ogni volta che la vedo non posso fare a meno di ammirarla a bocca spalancata. Adoro quella marea di gelatina (a volte anche colorata) che nasconde/ rivela una pietanza sorpresa. È come guardare il fondo del mare: sfocato ma meraviglioso. Anche la frutta vi può galleggiare, trasformandosi in tal modo in un fine pasto fresco se mangiato da solo (FIAMMETTA FADDA lo consiglia caldamente per il post pranzo di Natale), oppure in una decorazione per un altro tipo di dessert; ricordatevi di non usare ovviamente il brodo per la gelatina, ma vino bianco dolce, birra o sciroppo (magari aromatizzato con spezie e frutta). Qualche esempio? Un aspic alle pesche e moscato sta sorprendentemente bene su una torta al tiramisù. Uno al Passito di Pantelleria su una al cioccolato. Uno alla mela rossa ed alla mela verde separati da uno strato di biscotti secchi sbriciolati. Uno alle pesche per degli amaretti fatti in casa. Possiamo poi preparare anche un semplice aspic di cacao e pere, al Bellini oppure uno ai frutti di bosco. La descrizione di SONIA PERONACI è favolosa: «Dagli anni ‘70 con furore, insieme alla minigonna, le canzoni dei Beatles, gli orribili motivi optical e un elenco sterminato di serie TV, fino a

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noi è arrivato anche l’aspic. Per dargli una rinfrescata, ho deciso di mettere al bando la versione salata, servita come antipasto o secondo, e di crearne una dolce, che oggi suona come originale e inedita, come quei vestiti della mamma che avevamo chiuso nell’armadio ma, abbinati nella maniera giusta, ci fanno chiedere dalle amiche dove li abbiamo comprati. L’unico neo è che, visto che nell’aspic l’estetica è tutto e il sotto è il sopra (giuro, nessun ingrediente è allucinogeno…), bisogna dedicare più tempo del normale alla disposizione della frutta: ogni strato richiede una copertura di gelatina, al moscato e limone, e 15’ di riposo in frigo, quindi per farne un certo numero almeno 1 h½ ci vuole. Posso dirvi che, però, portati in tavola, rossi e opulenti, fanno subito festa, che sia Natale, Capodanno o Ferragosto». E poi ci sono gli innovativi mix, come il bicchierino con aspic al sapore di arancia (o mango e avocado) che ospita i gamberi o l’anello al melone (magari con un goccio di Porto) che contiene uova sode ed è decorato con roselline di prosciutto crudo. A ritroso nella composizione del pasto, passiamo dal dessert al secondo piatto, spostandoci verso l’aspic di carne. Stavolta la gelatina rende la ricetta ancora più maestosa e ricorda tempi

OGNI VOLTA CHE LA VEDO NON POSSO FARE A MENO DI AMMIRARLA A BOCCA SPALANCATA. ADORO QUELLA MAREA DI GELATINA, A VOLTE COLORATA, CHE NASCONDE/ RIVELA UNA PIETANZA SORPRESA. È COME GUARDARE IL FONDO DEL MARE: SFOCATO MA MERAVIGLIOSO

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Aspic di pollo e carote. È possibile utilizzare anche altri tipi di carni lesse, anche miste, tranci di pesce senza lische, come trota e salmone, crostacei e molluschi (photo © Anjelika Gretskaia – stock.adobe.com).

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Aspic di pesce (photo © alex9500 – stock.adobe.com).

Oltremanica l’anguilla ha una tradizione particolare di cucina povera e popolare, indissolubilmente legata alla storia e alla cultura della zona di cui è tipica, l’East End di Londra. Era infatti una delle poche specie capace di resistere agli alti livelli di inquinamento da scarichi industriali delle acque del Tamigi e, con le sue carni grasse, forniva l’apporto nutritivo necessario a sostenere le lunghe ore di lavoro manuale negli stabilimenti portuali. Tagliata a tocchi e poi bollita in una mistura di acqua e aceto aromatizzati, veniva lasciata a raffreddare nel brodo di cottura che, grazie al collagene di cui è ricca anguilla, si solidificava dando origine alla caratteristica “anguilla in gelatina” (jellied eel), da consumare al cucchiaio, anche in versione “da passeggio”. In alternativa, le anguille potevano essere stufate in un semplice brodo con l’aggiunta di prezzemolo, che dava sapore e colore al piatto, altrimenti piuttosto scarno. In questa versione, l’accompagnamento principe era il purè di patate (mash). Nelle rustiche tavole calde della zona il piatto completo prevedeva perciò, a seconda della disponibilità, anguilla, pasticcio di carne e purè, Eel, pie and mash, che dava anche il nome ai locali in cui veniva servito (in foto, a sinistra, il locale storico F. Cooke Pie and Mash a Broadway Market e Anguille in gelatina a Whitechapel la domenica mattina, 1927, photo © Fox Photos/Getty Images).

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passati dove a illuminare il desco erano candele ed esso troneggiava al centro come l’ospite più importante. Pensate al suo contenere un pollo arrosto al prezzemolo, un coniglio allo sherry, un prosciutto cotto ai pomodorini, un cappone al tartufo e uova di quaglia, un vitello tonnato piccante o un mix di quinto quarto (creste di gallo, lingua salmistrata, animelle di vitello). Ma nell’aspic galleggiano anche le verdure, a creare una sorta di minestrone o di contorno scomposto: funghi, carote, olive e cavolfiore, nella loro interezza, rimangono sospese… e la gelatina è capace di trattenere anche una montagna di insalata russa. O un’intera ricetta vegetariana: ne ho letta una con broccoli, castagne, sciroppo di agave, zafferano, nocciole e cavolfiore. Infine torniamo all’idea del mare con l’aspic di pesce (presente anche nel brodo che ammolla la gelatina). Scorfano con ravanelli e piselli. Salmone al mango e lime. Tonno e uova sode. Sogliola, pescatrice e gamberi (da servire con maionese al Vermouth ed erba cipollina). Pesce affumicato e lenticchie. Astice con sedano e mango in gelatina di gin. Granchio con gelatina alla salsa di pomodoro e sherry. Gamberi e baccalà al tartufo. Trota al lime. D’altronde il primo aspic venduto era di anguilla (si veda il box di approfondimento): si poteva trovare, nel 1900, al Broadway Market di Londra (anche se sappiamo essere presente su alcune mense aristocratiche precedenti a quella data). Da allora è sempre stato un piatto sontuoso, specie negli anni Ottanta, limitato alle occasioni in cui figurare bene era d’obbligo: per non romperlo e rovinarlo, sarebbe meglio immergere lo stampo — di acciaio o rame — per qualche secondo in acqua calda, in modo da staccarlo bene dal fondo, e usare un coltello elettrico. Ma oggi può anche diventare un ottimo modo per riciclare qualche avanzo: prendete esempio da MATTEO BARONETTO, che usa spaghetti al ragù piccante. Perché la gastronomia è fatta così: mescola passato e presente, nobiltà e povertà, gelatina e proteine animali o prodotti vegetali… Non abbiate paura di sperimentare e la vostra tavola sarà sempre una sorpresa! Giorgia Fieni

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STAMPI ALLUMINIO

STAMPI INOX

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STREET FOOD

L’INCREDIBILE STORIA DELL’HOT-DOG DANESE Tra le immagini più belle di Copenaghen c’è sicuramente quella di un venditore di hot-dog che, con tutta calma, si trascina il suo chioschetto lungo una strada trafficata, seguito da una lunga fila di automobilisti per nulla infastiditi. Forse qualcuno lo è, ma sarebbe davvero “poco danese” suonare il clacson o mostrare insofferenza. Gli hot-dog (e i loro venditori) sono un vero mito in Danimarca: tutti li adorano! Ma voi lo sapete il perché? di Hazel Evans

È stato il primo esempio di fast food danese ed ancora oggi è considerato quasi un piatto nazionale. L’hot-dog danese è noto per i suoi gustosi condimenti come cipolle crude e fritte, sottaceti a fettine e tre tipi di salse (ketchup, senape e remoulade). Del classico hot-dog oggi si possono trovare anche versioni rivisitate biologiche, Nordic style e gourmet. Il ristorante stellato Me|Mu di Vejle, ad esempio, ha vinto il Campionato nazionale di hot-dog (sì, esiste!) negli ultimi due anni. Nel 2019, la loro ricetta includeva mele affumicate, chorizo, salicornia locale in salamoia e maionese al peperoncino habanero (photo © Maria Nielsen_pølse).

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I chioschi di hot-dog in Danimarca sono una vera e propria istituzione culturale e soddisfano i palati dei Danesi da ben 100 anni! Il 18 gennaio 1921, infatti, sei piccoli carretti bianchi iniziarono a vendere per le strade di Copenaghen le prime salsicce accompagnate da pane e senape ispirandosi al comfort food tedesco. Un secolo dopo, il classico hot dog danese può essere ancora gustato nei chioschi per le strade in Danimarca, sebbene ne siano rimasti solo il 10% rispetto a quando raggiunsero il periodo di massima diffusione dopo la Seconda Guerra Mondiale con quasi 500 stand di hot dog nella sola città di Copenaghen (photo © LABAN Stories). ià diffusi in Germania, durante la Prima Guerra Mondiale, i chioschi di hot-dog cominciarono a prendere piede anche in Svezia e Norvegia, ma solo nel 1921 arrivarono finalmente in Danimarca. Prima di allora, gli aspiranti venditori avevano presentato ripetute domande al comune per ottenere l’autorizzazione alla vendita in strada, dalla chiusura dei ristoranti fino alle 2:30 del mattino. Tutte le loro richieste erano state però respinte con varie motivazioni, che andavano dai timori di intralcio al traffico, al fatto che mangiare per strada era ritenuto disdicevole. In più, i ristoranti tradizionali ostacolavano in ogni modo le richieste per paura di avere nuovi concorrenti. Finalmente, nel 1921, il danese CHARLES SVENDSEN STEVNS, che da dieci anni gestiva un fiorente chiosco di hot-dog a Kristiania (l’odierna Oslo), ottenne il permesso di venderne anche per le strade di diverse località nei pressi di Copenaghen.

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I primi furgoni per hot-dog danesi erano molto diversi da quelli che conosciamo oggi. Erano piccoli carretti con grandi ruote in legno e solo quelli più elaborati avevano un tettuccio sotto il quale il venditore poteva ripararsi. Le salsicce costavano 25 øre (gli øre sono centesimi di corona, NdR) e per il pane era richiesto un extra di 5 øre. Poca roba per i nostri standard, ma negli anni ‘20 era una cifra considerevole e non tutti potevano permettersi un hotdog. Eppure fu un vero successo! Nel

giro di pochissimo tempo i chioschi conquistarono non solo le strade della capitale, ma anche quelle di Odense, Aarhus e Aalborg. Negli anni ‘30, quando gli hot-dog divennero ancora più diffusi, in Danimarca cominciò a nascere un movimento di protesta. La maggior parte dei furgoni di hot-dog, infatti, era in mano a ricchi imprenditori che guadagnavano tra le 140 e le 700 corone a settimana per furgone, mentre lo stipendio medio dei venditori era di 25 corone a settimana.

Se ogni città può essere collegata ad un profumo, un sapore, Copenaghen sa certamente di hot-dog. Per le strade della capitale danese nell’aria aleggia insistente il sentore di salsiccia e se si ha voglia di uno spuntino veloce questa è la risposta. I chioschi di hot-dog in Danimarca compiono 100 anni: let’s celebrate!

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Da quando l’attenzione al cibo biologico è molto cresciuta tra i Danesi, così come tra i turisti in visita a Copenaghen, DØP è diventato sempre più popolare. DØP sta per “Den Økologiske Pølsemand”, traducibile con “L’uomo della salsiccia biologica”, e identifica un paio di chioschetti di hot-dog molto amati, meta perfetta per un pranzo al volo. Da DØP gli hot-dog sono serviti con un pane a lievitazione naturale oppure c’è una versione senza pane in cui la salsiccia coi suoi condimenti e le sue salse sono servite in una scatola (photo © www.døp.dk). Vendere hot-dog in Danimarca: una “questione personale” Nel 1942, alcuni venditori di hot-dog di Copenaghen si unirono per protestare su questo tema e presentarono al sindaco un’istanza di revisione delle leggi sui chioschi di hot-dog. La richiesta fu accolta e le nuove norme stabilirono che i venditori di hot-dog fossero lavoratori autonomi con permessi individuali alla vendita in determinate zone della città. Nella Danimarca degli anni ‘40, però, potevano essere lavoratori autonomi solo i disabili o gli individui per qualche ragione impossibilitati a svolgere un lavoro tradizionale. Questa riforma cambiò radicalmente il settore della vendita di hot-dog a

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Copenaghen e in molte altre città della Danimarca. Ora che i venditori non erano più dei dipendenti, si dedicavano con maggiore attenzione agli affari e naturalmente anche alla preparazione degli hot-dog! Ecco perché la maggior parte dei chioschi di hot-dog che si incontra passeggiando in qualsiasi città della Danimarca si chiama come il suo attuale o storico proprietario: “Lone’s Sausages”, “John’s Hotdog Deli”, “Harry’s Place”… Vendere hot-dog in Danimarca è una faccenda molto, ma molto personale! Nei decenni successivi alla Seconda Guerra Mondiale, l’hot-dog diventò un vero e proprio simbolo della Danimarca. Ogni cittadina e stazione ferroviaria del Paese avevano il loro chiosco e le vendite raggiunsero livelli mai visti.

Nel 1950 si contavano 400 chioschi solo a Copenaghen. Nel 2010 il numero è sceso a 60, anche a causa della concorrenza di altri fast food e di nuovi cibi da strada arrivati in Danimarca tra la fine del XX e l’inizio del XXI secolo. Nonostante tutto, i chioschi di hot-dog sono ancora un simbolo del Paese e occupano un posto speciale nel cuore dei Danesi che difficilmente verrà rimpiazzato da altri fast food. I chioschi di hot-dog sono tra i pochi luoghi in cui i Danesi mangiano da soli, cosa abbastanza rara in Danimarca. Per questo motivo, spesso è proprio qui che ci si può ritrovare a conversare con un estraneo. Davanti ad un venditore di hot-dog passano ogni giorno persone di estrazione sociale diversa e tutti vengono trattati allo stesso modo, dal politico di spicco al lavoratore più umile al turista curioso. Indipendentemente dal condimento, la maggior parte dei chioschi di hot-dog propone delle variazioni sul tema. Di solito, oltre al “ristet pølse” (il classico hot-dog costituito da una salsiccia infilata in un pezzo di pane con un buco al centro), si trova quello “con la coperta” (in cui la salsiccia è avvolta nella pancetta), il tutto insaporito da maionese, senape, remoulade e ketchup e guarnito da cipolle fritte e cetriolini sottaceto. Per innaffiare, niente di meglio di una bottiglia di Cocio (latte al cioccolato). Per chi volesse spingersi oltre, naturalmente a Copenaghen non mancano gli hot-dog gourmet, quelli vegani e altre originali varianti. C’è solo l’imbarazzo della scelta, i chioschi di hot-dog sono ovunque in Danimarca: nelle principali stazioni, nelle piazze centrali e agli angoli delle strade più note della capitale. Hazel Evans Nota Hazel Evans è scrittore e critico gastronomico con base a Copenaghen ed è il fondatore di Mad About Copenhagen (madaboutcopenhagen.com), un progetto di guida turistica per foodies che è diventato un libro che potete acquistare a questo indirizzo: www.new-mags. com/product/mad-about-copenhagen. La fonte dell’articolo è invece VisitDenmark, www.visitdenmark.it

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Il packaging design fa sempre la differenza Il packaging design, ovvero il modo attraverso il quale sono confezionati i prodotti, è un elemento strategico, ancor di più in tempi di pandemie, delivery e take away. «Questo perché tutti noi siamo persone visuali e cioè giudichiamo quello che vediamo attraverso il senso della vista, prima ancora che con tutti gli altri sensi» spiega in modo semplice Lorenzo Miglietta in Grafigata! (grafigata.com). «È ad esempio per questo motivo che un colore provoca diverso effetto, trasmettendo cioè diverse sensazioni ed emozioni, rispetto ad un altro colore». Un prodotto di packaging design da prendere a esempio? Quello sviluppato per le pizze take away di Pizz’Aria, uno dei locali di ristorazione progettati e realizzati a Montecarlo da Riccardo Giraudi (riccardogiraudi.com) e con prossima apertura anche a Parigi. Il design si può ammirare sul profilo instagram.com/pizz.aria. Personalissimo nello stile, con colori vivaci e illustrazioni dal sapore vintage ma allo stesso tempo contemporaneo, questo pack — che gioca con l’idea delle scatolette di fiammiferi — è una vera meraviglia (photo © instagram.com/pizz.aria).

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CORK, ANCHE L’IRLANDA HA LA SUA CAPITALE DEL GUSTO Piena di luoghi fantastici in cui mangiare e splendidi pub, Cork è nota come la capitale gastronomica d’Irlanda. Tappe imperdibili sono il mercato coperto The English Market, il Cork Butter Museum, che racconta la storia del burro in Irlanda, e il Franciscan Well Brewery, microbirrificio ospitato all’interno di un ex convento francescano di Massimiliano Rella

The English Market a Cork.

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In alto: il pub del microbirrificio Franciscan Well Brewery. A destra: degustazione di birre Franciscan Well Brewery e whisky della Jameson Distillery.

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esce dell’Atlantico, formaggi e carni della campagna irlandese, ma anche bontà in arrivo dal mondo. Se c’è un tempio del cibo nella città di Cork, in Irlanda occidentale, questo è senza dubbio il The English Market (www. englishmarket.ie), un mercato coperto su due piani dentro una struttura a mattoncini con una varietà di negozi di generi alimentari: pane, formaggi, pollame, carne, ortaggi, pesce. Tra questi il rifornitissimo banco di Ballycotton Seafood (www.ballycottonseafood.ie) per il pescato fresco) o la

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macelleria Bresnan’s Butchers (bresnans. ie), presente nel mercato dal 1898, dove vende vari tagli di carne acquistata da allevatori locali. Troviamo inoltre tante prelibatezze di Cork: la trippa, la carne di manzo speziata e il drisheen, un tipo di sanguinaccio che si distingue dal black pudding per la consistenza gelatinosa. Il mercato inglese, le cui origini risalgono ad inizio ‘600, nel 1980 andò distrutto a seguito di un incendio e la ristrutturazione avvenne nel rispetto stilistico del vecchio edificio vittoriano. Una seconda ristrutturazione risale al 1986,

successiva ad un altro incendio. Nel 2011 ospitò niente meno che la regina ELISABETTA II durante la sua visita a Cork. Arrivata al The English Market, la regina non esitò ad aggirarsi tra i banchi, soffermandosi, in particolare, dal pescivendolo PAT O’CONNELL di K O’Connell Fish Merchants (www.koconnellfish.com), da allora divenuto un personaggio. Un altro aspetto dell’anima gastronomica di questa graziosa cittadina della costa occidentale lo scopriamo al Cork Butter Museum, a due passi dalla cattedrale di St. Mary e St. Anne.

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In alto: il Museo del Burro. In basso: la Bresnan’s Butchers. Il piccolo museo racconta la storia del burro in Irlanda: la ripresa del commercio negli anni ‘60, la lavorazione e gli strumenti utilizzati, come vecchie scrematrici, botti e casseruole in legno. Il museo racconta inoltre le sfide del burro irlandese, il cui comparto nel ‘60 si risollevò dalla crisi grazie all’istituzione governativa dell’Irish Dairy Board e del marchio Kerrygold per far crescere la remunerazione del latte. A quel tempo,

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oltre il 66% dei caseifici contadini non aveva neanche l’acqua calda e i servizi igienici, ma nel ‘73, con l’ingresso dell’Irlanda nell’Unione Europea, le cose cominciarono a cambiare. La maggior parte del burro era esportato a prezzi garantiti dalle sovvenzioni europee, poi, tra il ‘70 e l’84, i prezzi del latte triplicarono e la produzione raddoppiò. L’afflusso di denaro permise la modernizzazione del sistema rurale. Tra il 1984

e il 2015 le quote latte imposero però limiti di produzione e, se da una parte il settore si razionalizzò, dall’altra molte piccole fattorie chiusero a poco a poco. Oggi rimangono quattro grandi aziende e una rete di piccoli caseifici artigianali (www.thebuttermuseum.com). L’ultima tappa della Cork più golosa la facciamo al Franciscan Well Brewery (www.franciscanwellbrewery.com), un microbirrificio che da oltre 20 anni fa birre artigianali di qualità nei locali di un ex convento francescano, di cui rimane attiva la fonte dell’acqua, da cui prende il nome. Spazi d’atmosfera, cortile con tavoli all’aperto e una pizzeria italiana al suo interno che sforna ottime pizze cotte in forno a legna da abbinare alle birre della casa, in ben cinque tipi: lager, weisse (di grano), rossa, chieftain IPA e stout. Dal giovedì alla domenica anche tour degustazione tre volte al giorno, ore 14:00, 16:00 e 18:00, quella delle 16:00 in abbinamento a whisky di Jameson Distillery, una famosa distilleria fuori città. E poi musica irlandese il martedì sera e il jazz la domenica. Perché in Irlanda, come in Italia, il cibo è anche un’occasione d’allegria. Massimiliano Rella Nota Photo © Massimiliano Rella.

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Da Piacenza i Cioccolatini alla Pancetta Dop Se l’Emilia è la terra della Food Valley, oltre ai prodotti più noti della gastronomia italiana, come il Parmigiano Reggiano o il Prosciutto di Parma, ce ne sono altri insoliti, dai nomi bizzarri o ingredienti all’apparenza poco consoni. Produzioni particolari e senza dubbio dai sapori unici, piatti e prodotti che esprimono l’identità gastronomica emiliana più innovativa e creativa, prelibata curiosità anche per i palati più esigenti. Un esempio? Il Cioccolatino alla Pancetta Dop. L’idea è del maestro cioccolatiere Aldo Scaglia della Pasticceria Falicetto di Piacenza (www.falicetto.it). Si chiama DiPC ed è un cioccolatino in cui il sapore vellutato del cioccolato fondente ricopre un cuore di cioccolato e croccante Pancetta piacentina DOP (photo © www.visitemilia.com).


WEEK-END A MINORCA

MINORCA, SCRIGNO DI SAPORI E BIODIVERSITÀ ANCHE SUI BANCHI DEL MERCATO di Massimiliano Rella

Photo © Delphine Poggianti

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l turismo e i servizi, prima del coronavirus, rappresentavano l’80% del PIL dell’isola di Minorca, un modello di sostenibilità ambientale ed economica che l’UNESCO, nel lontano ‘93, nell’ambito del programma MAB (Uomo e Biosfera), ha dichiarato Riserva della Biosfera (www.biosfera-

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menorca.org). La superficie agricola utile della perla dell’arcipelago spagnolo delle Baleari copre il 63% del territorio isolano, con prevalenza sull’allevamento vaccino e caprino per la produzione di latticini; 600 gli addetti di filiera. La pesca, invece, non ha mai avuto un peso importante; attualmente conta una set-

tantina d’imbarcazioni di piccole imprese familiari e un centinaio di lavoratori dedicati. Così tutto il pescato è assorbito dal mercato locale, che naturalmente in estate si rifornisce anche dall’esterno. Con l’istituzione della riserva marina a nord di Minorca è stato poi migliorato il controllo e la gestione della pesca per

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garantire la continuità delle popolazioni ittiche. Insomma, la parola d’ordine è sostenibilità, in terra come in acqua. I piccoli pescatori, contadini e allevatori di Minorca trovano la loro migliore vetrina in due mercatini locali, il Mercat de Peix de Maó e il Mercado Claustro del Carmen. Il mercato del pesce della “capitale” Mahón è uno spazio gastronomico unico, con vivaci e guarnite bancarelle di polpi, triglie, orate, merluzzetti, saraghi e frutti di mare freschi e con un’area dedicata a tapas, pinchos, calici di vino e boccali di birra, dove la clientela può fare la spesa e incontrarsi con gli amici per uno spuntino; davanti ai banchi lunghi banconi con sgabelli per consumare qualcosa al volo e fuori anche i tavolini. La storia di questo mercato-pescheria comincia a metà degli anni Venti, quando l’edificio è costruito su progetto dell’architetto locale FRANCESC FEMENIES: una superficie rettangolare con portico perimetrale e una cabina centrale esagonale per il servizio interno. In precedenza, il pesce era venduto al vicino porto, ma fu deciso di concentrare la vendita di carne e verdure nel chiostro del Carme, lasciando il pesce nel cortile centrale. Tuttavia, il progetto non ebbe successo, costringendo alla creazione di un edificio dedicato esclusivamente al pesce. Nacque così il Mercat de Peix de Maó (in lingua catalana). Il vicino e parente Mercat Claustre del Carme fu costruito nel XVIII secolo, adiacente ad una chiesa poi “esautorata” con la confisca del 1835. Attualmente le sue mura e il patio ospitano manifestazioni culturali e un mercato di carne, frutta e verdura in uno spazio a pianta quadrata, su tre livelli, di pietra calcarea. Dopo la confisca fu utilizzato inizialmente come prigione, tribunale e infine mercato. In seguito alla risistemazione realizzata negli anni ‘90 ospita il mercato gastronomico al pianterreno, dove è possibile trovare i prodotti tradizionali dell’isola, a partire da salsicce “a metà” tra la ‘nduja calabrese e il ciauscolo marchigiano fino al prelibato Queso Mahón de Menorca DOP. Ma anche sandali, borse di vimini, cappelli. Quest’isola dell’arcipelago delle Baleari è uno scrigno di sapori oltre che di biodiversità, ricca di paesaggi e comunità marine in gran parte scom-

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In alto: una galleria del Mercat Claustre del Carme, nel chiostro dell’ex monastero del Carme (XVIII sec.), a Mahón. In basso: Sobrassada de Porc negre, salume di suino dolce o piccante spalmabile, al Mercat Claustre del Carme (photo © Massimiliano Rella). parsi dal Mediterraneo, come le praterie di posidonia oceanica, sui fondali di roccia e sabbia fino a 35 metri di profondità. O le alghe marine brune e quella della comunità di Cystoseira, indicatori della qualità dell’acqua. Più in profondità alghe rosse di struttura calcarea, gorgonie, spugne, cnidari (es. il corallo rosso). La riserva marina nel nord dell’isola è un’area protetta che regola l’uso e lo sfruttamento dell’ambiente marino, specialmente la pesca. Frastagliata da insenature, cale, grotte, dirupi e isolotti,

la riserva ha ricchezza di habitat e fondali, rifugio di coralli rossi, datteri di mare e aragoste. Il cuore della riserva è il parco naturale di S’Albufera des Grau, l’isola di En Colom e il capo di Favàritx. Fu realizzato nel ‘95 grazie alla resistenza dei cittadini a un progetto di urbanizzazione, dopo anni di lotte cominciate a partire dal ‘70. L’Albufera, la zona umida più estesa dell’isola (70 ettari), è una laguna salmastra che ospita importanti popolazioni di pesci e uccelli acquatici. Massimiliano Rella

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UNA TRADIZIONE CHE SULL’ISOLA SPAGNOLA VANTA TRE SECOLI DI STORIA

Xoriguer, il gin di Minorca di Massimiliano Rella

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inorca è un’isola curata, piena di muretti a secco, case rurali ben tenute, una qualità dell’ambiente diffusa, centri storici puliti e ordinati, nell’insieme un modello di sostenibilità e sviluppo turistico con 1,4 milioni di visitatori nel 2018. Offre anche un’ottima cucina e prodotti tipici unici, come il Queso de Mahón DOP, tra i migliori formaggi di Spagna, e un gin nato a metà ‘700, forse il più antico del Mediterraneo, creato dai monaci olandesi, i

A sinistra: collezione di bottiglie di gin nella distilleria Xoriguer. A destra: bacche di ginepro essiccate (in alto) nella distilleria Xoriguer, situata nel porto di Mahón nell’isola di Minorca (in basso i locali di lavorazione).

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La Destilerías Gin Xoriguer. L’azienda ha quattro alambicchi, il più antico di 275 anni, tutti alimentati da fuoco a legno di pino e ulivo dell’isola di Minorca. primi a usare le bacche di ginepro, ma nel XVII secolo scoperto dagli Inglesi che lo riportarono in patria dove ebbe successo, complice allora anche la bassa tassazione rispetto alla birra. All’epoca Minorca era una colonia inglese e, proprio nella zona del porto di Mahón, nel 1736 fu eseguita la prima distillazione. Nacquero quattro distillerie. Il resto è un mix di storia e leggenda. Il signor MIGUEL PONS JUSTO lavorava in una di queste, la Fornero, che poi chiuse a causa di un incidente. Trovandosi senza lavoro, Pons Justo decise così di mettersi a produrre lui stesso il gin. Fu scelto come nome il suo soprannome,

Xoriguer, che indicava sia il mulino riportato ancora oggi sulle etichette, che il nome di un falco. Bisogna però arrivare al 1945 per ritrovare il primo documento ufficiale della distilleria dei discendenti di Miguel Pons Just. Oggi la “nuova” azienda, la Destilerías Gin Xoriguer (www.xoriguer.es), è alla terza generazione e produce oltre 3.000 litri di gin al giorno in 4 ricette, a partire da bacche di ginepro importate dai Pirenei ed essiccate quasi due anni prima di finire in alambicco di rame, insieme ad acqua e alcol, per la distillazione a ciclo continuo (testa, cuore e coda). La materia prima viene messa

Dal 1712 al 1802 Minorca, sotto il dominio della corona britannica, era popolata da migliaia di marinai e soldati inglesi che, nelle taverne, chiedevano una bevanda molto popolare in patria: il gin. Fu così che nacque un gin con la personalità mediterranea

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a macerare dal pomeriggio al mattino, quando ha inizio la distillazione. L’azienda ha quattro alambicchi, il più antico di 275 anni, tutti alimentati da fuoco a legno di pino e ulivo dell’isola di Minorca. Il ciclo di raffreddamento utilizza acqua di mare, un bene di facile rifornimento visto che la Destilerías si trova sul lungomare del porto di Mahón, la “capitale” di Minorca. Il gin è insieme al formaggio uno dei prodotti identificativi di questa piccola isola dell’arcipelago delle Baleari. Anticamente l’attività principale era la produzione di calzature. A inizio XX secolo, quando queste attività entrarono in crisi, nacque l’industria dei portamonete d’argento che si sarebbe specializzata nella bigiotteria. Nel XX secolo nacque l’industria del formaggio fuso. Il gin, invece, può vantare quasi tre secoli di storia. Massimiliano Rella Nota Photo © Massimiliano Rella.

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COMITATO TECNICO SCIENTIFICO MARCA 2020

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I VINI DI PREMIATA SALUMERIA ITALIANA

Degustazione: Molise di Laura Franchini

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na regione piccola, ma certamente non per questo poco influente dal punto di vista agronomico, anzi. In particolare la produzione vinicola, pur contando su una superficie vitata relativamente modesta, intorno ai 6400 ettari, si assesta su livelli qualitativi di tutto rispetto, costanti e riconosciuti. La tradizione enoica è infatti di antica memoria in regione, risale addirittura al III secolo a.C., quando PLINIO IL VECCHIO ebbe cura di menzionare i vini di Isernia. I vitigni coltivati sono: Montepulciano, Ciliegiolo, Aglianico, Falanghina, Trebbiano (sia Toscano che Abruzzese), Greco, Bombino bianco e Malvasia. Il Sangiovese è utilizzato in purezza o in uvaggio con il Montepulciano per la produzione del Pentro Doc Rosso. Tra i vitigni internazionali, Chardonnay, Cabernet Sauvignon, Merlot e Syrah.

Una menzione particolare va al viti vitigno autoctono Tintilia (Tintilia del Molise DOP), inserita fino al 2011 nella DOC MOLISE, ora si può fregiare di una denominazione ad essa dedicata. La zona di produzione copre diversi comuni del Basso Molise, della Valle del Biferno, della zona del Fortore e del Trigno, del Molise Centrale, dell’Alto Molise e della Valle del Volturno. Le tipologie ammesse dal Disciplinare sono il rosso, il rosato e il rosso riserva, tutte a base di uve Tintilia per almeno il 95%. La riserva deve subire un invecchiamento minimo di due anni. Ma il Molise del vino è anche fatto di produzioni trasversali e diverse: troviamo vini bianchi adattissimi ai piatti di pesce e rosati intriganti e profumati, produzioni e proposte adatte ad aderire a qualsivoglia desiderio di abbinamento e di gusto.

L’ENOLOGIA DEL MOLISE HA UN’ORIGINE ANTICA, CHE SI È ARRICCHITA NEL TEMPO ATTRAVERSO INFLUENZE DIVERSE. IL VINO MOLISANO È CITATO PER LA PRIMA VOLTA NEGLI SCRITTI GRECI. NEL I SEC. D.C. PLINIO IL VECCHIO ELOGIA PARTICOLARMENTE I VINI PRODOTTI DELLA ZONA DI ISERNIA

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Tintilia del Molise rosso DOP Herero .16 Cantina Herero Herero – Essenze di uve molisane Doc è piccola realtà di Campobasso, che crede fortemente nei vini naturali e nella tradizione, pur con un forte impeto moderno e innovativo nelle pratiche di cantina e di imbottigliamento. Il calice di Tintilia che presentiamo viene prodotto solo nelle annate particolarmente favorevoli, con uve molto mature, coltivate a 550 metri sul livello del mare, affinate per 18 mesi in barriques di rovere francese. Alla degustazione si apre deciso e imponente, con note nette di mora nera e liquirizia, tabacco e rabarbaro, mentre al palato si presenta armonico, con una decisa e forse inaspettata freschezza, sinonimo di estrema perizia di lavorazione. Un calice estremamente elegante, che si abbina perfettamente a piatti importanti di carne, brasati, selvaggina, insaccati, anche adatto al rito della degustazione meditativa. L’abbinamento con la Pezzata di pecora, squisita ricetta molisana a base di spalla di pecora cotta lentamente con salsa di pomodoro e spezie, è assolutamente inebriante.

Cantina Herero Via De Pretis 27 C 86100 Campobasso Telefono: 320 1863986 E-mail: info@cantinaherero.com Web: www.cantinaherero.com

Tintilia del Molise Rosso Dop “S” 2017 Catabbo Cantine È la lungimiranza e il fiuto di VINCENZO CATABBO, il fondatore di questa cantina, alla base non solo della sua nascita, ma anche di tutte quelle scelte produttive che tuttora seguono con perizia i figli SARA, CARLA e PASQUALE. Scelte orientate alla conservazione della tradizione e del vitigno autoctono molisano Tintilia. È infatti un vino prodotto con uve Tintilia in purezza quello che vi presentiamo, già ben incisivo all’aspetto visivo, rosso rubino deciso, quasi imperscrutabile. La degustazione prosegue a livello olfattivo, dove porge copiose note di piccoli frutti scuri maturi e bacche di cacao, ricordi iodati e floreali, spezie a completamento. Il palato è suadente, equilibrato, setoso e armonico, perfette le note tanniche e sapide. Un calice avvolgente, perfetto da solo, da chiacchiera meditativa, ma che si sposa perfettamente a piatti di carne strutturati e importanti, brasati e stracotti, arrosti e formaggi stagionati, Lepre in salmì.

Cantine Catabbo Contrada Petriera 86046 San Martino in Pensilis (CB) Telefono: 0875 604945 E-mail: info@catabbo.it Web: www.catabbo.it

Tintilia del Molise Rosso DOP Macchiarossa 2016 Claudio Cipressi Vignaiolo Natura incontaminata, panorami mozzafiato e forte volontà. Ecco cosa c’è alla base delle scelte imprenditoriali di CLAUDIO CIPRESSI e dei suoi successi. Metodo biologico per la coltivazione dei vigneti, unito ad un grande rispetto dell’ambiente. Sono uve di Tintilia vendemmiate a mano per il Macchiarossa, la cui fermentazione avviene con macerazione sulle bucce per circa 10/12 giorni. Il vino matura poi in acciaio per 24 mesi e prosegue l’affinamento in bottiglia per 6 mesi. Il calice si presenta di colore rosso brillante con riflessi tendenti al granato, mentre al naso esprime un bouquet ricco, lungo, complesso, con profumi che vanno dalla frutta rossa e scura alle note di pepe nero e ginepro, liquirizia ed erbe officinali, ricordi balsamici in chiusura. L’entrata al palato è avvolgente, intensa, vellutata, la morbidezza è assolutamente ben sostenuta, ottimi gli equilibri, non facili, tra le parti. Un vino di grande struttura e finezza, adatto a piatti di carne, grigliate e barbecue, stracotti e arrosti.

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Claudio Cipressi Contrada Montagna 5/B 86030 San Felice Del Molise (CB) Telefono: 335 1244859 E-mail: info@claudiocipressi.it ioci c pressi.it p Web: www.claudiocipressi.it ocipressi.it p

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Biferno Rosso DOC Ramitello 2016 Di Majo Norante

Di Majo Norante Contrada Ramitello Via Vino Ramitello 4 86042 Campomarino (CB) Telefono: 0875 57208 E-mail: vini@dimajonorante.it Web: www.dimajonorante.com

Azienda storica del territorio, che produce vini sin dal 1800, come testimoniano le cantine sotto la piazza e nel vecchio palazzo di famiglia a Campomarino e che, forte di questa lunga esperienza, si approccia alla coltivazione della vite e alla produzione vinicola con grande e assoluto rispetto della tradizione. Il vino Ramitello è prodotto con uve Montepulciano all’80% e rimanente 20% con uve Aglianico, raccolte a mano verso la fine di ottobre. La vinificazione di queste avviene in modo tradizionale, con macerazione sulle bucce per circa 1 mese e successiva fermentazione malolattica. Il vino affina poi in parte in barriques e in parte in vasche di acciaio, riposando per ulteriori 6 mesi in bottiglia prima dell’immissione in commercio. Si presenta di un bel rosso rubino con riflessi viola, mentre all’olfattiva sprigiona profumi lindi di frutta, prugne e marasche, spezie scure, note di cuoio e anice in chiusura. Corpo di spessore e struttura, con grande armonia, freschezza, velluto e classe.

Falanghina DOC Oravera 2019 Terresacre

Tenuta Terresacre C.da Montebello 86036 Montenero di Bisaccia (CB) Telefono: 0875 960191 E-mail: info@terresacre.net Web: www.terresacre.com

Siamo sulle splendide colline di Montenero di Bisaccia con questa tenuta, nata nel 2006. Una cantina che si avvale anche di una struttura agrituristica, per offrire a cliente e avventori una piena proposta di gusto e relax. Il vino in degustazione, Falanghina Oravera, viene prodotto con uve provenienti da vigneti selezionati, il cui mosto viene successivamente fermentato direttamente all’interno di barriques di rovere francese per 8 mesi. Un calice che va servito ben fresco e che regala note generosissime di frutta matura, agrumata e a tratti candita, con note complesse e raffinate di vaniglia e fiori di acacia a completamento. Al palato è altrettanto elegante, con una sua intensità di stile, armonico e ben equilibrato. Note fresche amalgamate, calice perfetto per piatti di pesce, anche mediamente strutturati, formaggi morbidi, primi piatti di pasta all’uovo con ragù di cortile, zuppe di pesce accompagnate con crostini all’aglio.

Biferno DOC Rosato Gironia 2019 Borgo di Colloredo

Cantine Borgo di Colloredo Via Colloredo 15 86042 Campomarino (CB) Telefono: 0875 57453 E-mail: Web: www.borgodicolloredo.com

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Azienda vitivinicola giunta alla terza generazione e che vede i fratelli ENRICO e PASQUALE DI GIULIO, rispettivamente enologo e tecnico agronomo, gestire con passione e competenza vigneti e produzione. Accanto ai vitigni tipici della tradizione, come Montepulciano, Aglianico, Greco, Trebbiano, Malvasia, Falanghina, si è voluto dare spazio all’ampliamento del patrimonio viticolo con uve Garganica, Chardonnay e Syrah. Il rosato Gironia è prodotto con uve Montepulciano per l’85% e Aglianico per il rimanente 15%. Visivamente si presenta di un bellissimo rosato brillante e luminoso, al naso è subito gioviale e convincente, grazie a note piene e fragranti di ciliegie, lamponi e pepe rosa, con ricordi balsamici in lontananza. Morbida ed equilibrata la sorsata, con una spalla acida in armonia e un buon tono sapido, altrettanto equilibrato. Compagno ideale di piatti di salumi e aperitivi, si presta ottimamente all’abbinamento con piatti di pesce e con formaggi maggi di media stagionatura. Perfetto con la pizza.

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SONO 180 GRAMMI, LASCIO? Henry’s Dream, Nick Cave & The Bad Seeds

DI SOGNI E DESIDERI, PECCATI E COLTELLI di Giovanni Papalato

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riferimenti ad animali come simboli in un contesto religioso sono spesso presenti nella scrittura e nell’immaginario di NICK CAVE, ma lo spunto per raccontare il disco di questo articolo non è da cercare in quell’ambito bensì in un riferimento passionale e carnale contenuto in un brano tra i più belli e in un qualche modo precursore nella poetica dell’autore australiano: John’s Finn Wife. È il 1992 quando esce Henry’s Dream, il settimo album per il leader dei BAD SEEDS. Il titolo è una derivazione dalla serie di poemi “The Dream Songs” di JOHN BERRYMAN, in cui vengono raccontati i sogni del protagonista Henry. È il secondo album che succede alla “fuga” da Berlino in direzione Brasile, per una disintossicazione dall’eroina e conseguente rinascita complice anche una storia d’amore con una giornalista locale e la nascita del primo figlio, avvenimenti che lo influenzeranno in maniera decisa. Disco tra i più amati dei fan dei Bad Seeds, ma trascurato dalla critica, vede in formazione il fido MICK HARVEY e il nemico/amico BLIXA BARGELD. Sono passati tredici anni dagli esordi come Boys Next Door e Birthday Party e la discografia e la vita di Cave sono intersecate e complementari come raramente

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accade nella musica. La produzione di DAVID BRIGGS, storica regia di NEIL YOUNG, sarà poco apprezzata da Cave e Harvey, che a lavoro finito remixeranno totalmente l’album. Suona più viscerale rispetto al precedente The Good Son, riuscendo a non essere limitato nello stile e nelle sonorità. Cave prende a piene mani storie e persone dalla sua vita, le trasfigura in racconti ricchi di metafore dove lui è protagonista e narratore. La cifra stilistica è data dalla chitarra acustica che addomestica e allo stesso tempo libera diversi generi che non sembrerebbero poter appartenere ai Semi Cattivi e risultare equilibrati nella loro collettività. La traccia di apertura è la cinematografica Papa Won’t Leave You Henry, in un crescendo apocalittico che parte dalla voce di Cave, chitarra acustica per unirsi a batteria, archi e armonica. È un linciaggio, sono squadroni della morte e bambini che nascono senza cervello, tra realtà e allucinazione è un brano carico di drammaticità, intenso ed epico dove il punk si impossessa del traditional, le braccia al cielo e lo sputo. È impossibile staccarsi dalla sua voce in I Had A Dream, Joe: è un vortice che costruisce e costruisce come in una spirale fino a quando risulta impossibile concentrarsi su qual cos’altro. La chitarra acida e il coro sono le uniche vie di fuga dal vortice di parole che innalzano e abbandonano. Quello che accade in questi primi minuti è una successione di brani che riempirebbero la carriera di molti. La bellezza che si schiude nei primi accordi di Straight To You, nell’interpretazione che omaggia SCOTT WALKER e che si espande tra l’hammond e chitarra acustica, è una tregua dal tormento, è dolore dilatato e quieto, è la certezza di un amore. Un brano che avrebbe trovato sicuramente posto nel disco di qualche anno dopo, The Boatman Call, che figurerà tra i migliori ad opera dell’autore: “All the towers of ivory are crumbling And the swallows have sharpened their beaks This is the time of our great undoing This is the time that I’ll come running Straight to you For I am captured Straight to you

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For I am captured One more time”. È un brano semi-folk di struggente semplicità e urgenza Brother My Cup Is Empty, in cui la sezione ritmica diventa la custode delle oscillazioni della band, scevra delle precedenti distorsioni. I dolci e lusinghieri hammond di Christina The Astonishing sono una promessa di sollievo arcana e opaca, come una lastra di ambra appena sfiorata dalla luce. Ha la struttura di uno spiritual, ma mediata da un arrangiamento pop When I First Came To Town che apre il lato B dell’album. Ha una luminosità che fino ad ora non si era mai affacciata. Ed ecco il riferimento passionale e carnale a cui mi riferivo all’inizio dell’articolo, in uno dei brani più belli di Nick Cave, nel capolavoro di questo disco è che anticipa decisamente il tema di un album clamoroso che uscirà più tardi nel corso della sua carriera e che si chiama Murder Ballads: “Well, midnight came and clock did strike And in she came, did John Finn’s wife With legs like scissors and butcher’s knives A tattooed breast and flaming eyes And a crimson carnation in her teeth Carving her way through the dance floor And I’m standing over by the bandstand Every eye gaping on John Finn’s wife Yeah, every eye gaping on John Finn’s wife”. Con gambe come forbici e coltelli da macellaio, la moglie di JOHN FINN è descritta per spiegare tutti gli sguardi su di lei. È una storia di desiderio, peccato, infedeltà e omicidio ed è una canzone bellissima. È un dramma cupo e livido un crescendo forsennato e armonico assieme. Mentre Cave canta meravigliosamente grazie alla sua capacità narrativa, sparge parole tra l’organo di Harvey sullo sfondo e l’approccio fluido con cui la band asseconda ed enfatizza l’umore mutevole del brano.

Il basso di Casey è un’ancora che calma e trattiene contro l’impazienza nevrotica della chitarra con cui Bargeld, assieme alla tensione che cresce, si raccoglie e scava come la crescente tensione narrata. Poi arriva lei, una coda liberatoria e piena di grazia in contrasto con l’ambiguità geniale dell’ultima frase. I fiori, tolti dai capelli e lanciati a terra dalla moglie dell’uomo appena ucciso, saranno in segno di lutto o un modo per indicare che avevo usato il narratore solo per provocare uccidere suo marito folle? Questo brano per me è l’anello di congiunzione perfetto tra il passato musicale di Nick Cave ed il suo futuro. Negli occhi abbiamo ancora l’immagine delle gambe della moglie di Finn come coltelli di un macellaio, mentre inizia Loom Of The Land, altro apice del disco. Crepuscolare, un perfetto gioco armonico tra prima e seconda voce, la chitarra acustica che ribadisce la sua centralità e la sua indispensabile presenza nell’economia dell’intero lavoro. Ci si ridesta col brano che conclude il disco Jack The Ripper. Non si tratta del letterale squartatore ma dell’epiteto con cui viene chiamato il marito dalla moglie tirannica ogni volta che lui prova a baciarla. I coltelli da macellaio sono diventati il contenuto di un secchio in cui la coppia raccontata nella canzone dorme. Cave si contorce e si dimena in questa canzone che forse più di tutte rappresenta l’idea dietro a questo album: il tentativo di riproporre quella musica di strada brasiliana a volte anche violenta e brutale eseguita con strumenti spesso di fortuna, come quando appunto la chitarra acustica diventa lo strumento che fa da trait d’union tra i due mondi musicali, quello indigeno e quello di Cave. Henry’s Dream è un album di transizione ma che racchiude canzoni che sono di diritto nella cerchia delle più belle dell’autore australiano. Tormentato, pacificato, sempre in continua discussione, capace di incidere dischi che nella loro totalità sono eccezionali senza mai un passo falso. Giovanni Papalato Nota Photo © Lucio Pellacani.

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ARTE

TOULOUSE-LAUTREC E L’ARTE DELLA TAVOLA di Josette Baverez Blanco er secoli gli artisti sono stati più sensibili ai valori pittorici del cibo che alle gioie della tavola, eccezion fatta, nel Cinquecento, per la famosa Compagnia del Paiolo guidata da ANDREA DEL SARTO, pittore di visi di Madonne. Il feeling tra gastronomi e letterati è invece sempre stato particolarissimo, permettendo di costruire la memoria storica delle abitudini alimentari. All’inizio dell’Ottocento osserviamo una sinergia tra pittori, letterati, musicisti e gastronomia, quest’ultima opera di breve durata ma con messe in scena memorabili. Il cibo non è solo un mezzo espressivo, simbolico ed evocativo, bensì un campo di ricerca con particolari canoni estetici. I pittori renderanno immortali certi bistrot oppure certe scene di picnic e déjeuner all’aria aperta, nelle quali sembra quasi di percepire i profumi delle vivande. HENRI DE TOULOUSE-LAUTREC, primogenito del CONTE ALPHONSE e della contessa ADÈLE DE TOULOUSE-LAUTREC, era un esperto gastronomo e si dilettava a proporre al bel mondo di Parigi le sue ricette regionali e i sapori decisi della cucina meridionale. Metteva, nelle sue creazioni gastronomiche, la stessa cura che dedicava alla pittura. Aveva una personalità poliedrica, fatta di raffinatezza aristocratica (la famiglia discendeva dai conti di Toulouse che per secoli avevano regnato sull’Albigese), curiosità inesorabile e della frenesia di assaporare tutti i piaceri della vita sfidando il fisico gracile e deforme. Inquieto e sensuale, nato in una delle culle della buona tavola francese, il sudovest (nei castelli dove aveva trascorso l’infanzia era stato introdotto ai piaceri

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Henri de Toulouse-Lautrec, Confetti, 1894, litografia (photo © fineartbiblio.com).

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della tavola: vini e formaggi invecchiati, salumi stagionati), era arrivato a Parigi sistemandosi a Montmartre, cuore dell’esistenza scanzonata degli artisti ed intellettuali. Era amico di tutti e trasformava ogni invito in una festa dello spirito e dei sensi. Di norma, mai più di otto o dieci ospiti, di formazione ed interessi diversi per arricchire le conversazioni e gli scambi. Disegnava personalmente i menù litografati, tagliava lui le porzioni e la brocca d’acqua... era riservata ai pesci rossi, dando esclusività alla sua scelta di vini francesi pregiati. Era curioso del mondo, potendosi permettere il lusso di scegliere, ovunque andasse, gli indirizzi migliori per soddisfare il proprio palato. MAURICE JOYANT, direttore della Galleria Goupil che aveva lanciato l’Impressionismo, era il suo compagno di avventure e per 10 anni dopo la scomparsa del pittore continuò a radunare gli amici nella serata del mercoledì. Con lui, TOULOUSE-LAUTREC si fermava a Bruxelles a Le Gigot de Mouton, celebre per le beccacce allo Champagne e una cantina eccezionale; a Londra, affranto nel vedere il degrado dell’alcolismo, diventava stranamente astemio per assaporare meglio la montagna di pesci e crostacei che servivano allo Sweetings. Nella casa di campagna di un amico, il direttore della REVUE BLANCHE, si divertiva a sperimentare la cottura del pesce in un buco, nel terreno, sotto la cenere, e ad arrostire all’aperto il montone. Il pittore godeva nello stupire gli invitati: una volta riuscì a cucinare un’aragosta tagliandola viva a pezzi sotto gli occhi dei commensali; un’altra, dopo un incontro di boxe al circo tra un uomo e un canguro, realizzò per gli amici un arrosto a forma di canguro che in realtà era un montone munito di tasca artificiale. Concluse una cena molto raffinata invitando gli amici, dopo il formaggio, ad alzarsi per andare da un vicino musicista e là, piazzandoli davanti all’ultimo quadro di DEGAS che aveva ritratto l’orchestra, disse “Amici, ecco il vostro dessert”. Scomparso troppo giovane (prima di aver compiuto 37 anni), Toulouse-Lautrec aveva già riempito la sua vita e fatto in modo di rimanere impresso nella mente degli amici e delle generazioni future. Josette Baverez Blanco

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Se oggi Toulouse-Lautrec è famoso nel mondo lo dobbiamo a Maurice Joyant, suo ex compagno di liceo e poi direttore della Galleria Goupil, che promosse la sua attività con diverse mostre, impegnandosi perché venisse realizzato, nella sua città natale, Albi, il museo a lui dedicato. Sempre Joyant raccolse e pubblicò l’ampio ricettario, “La cucina di Monsieur Momo”, in cui l’artista propone vivande dai forti sapori di Provenza, alternate a fantasiose preparazioni di pesci e uccelli, arricchite da salse della grande cuisine. In alto: Le Suisse, Menu, 1896. In basso: Toulouse-Lautrec nel suo studio al lavoro sul quadro “Ballo al Moulin Rouge”.

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CURIOSITÀ

Photo © Kidsada Manchinda

Nel mondo 2 miliardi di persone consumano insetti. È ancora un tabù?

Le locuste del Battista di Giovanni Ballarini

«Mele e locuste furon le vivande che nodriro il Batista nel diserto» Dante Alighieri Divina Commedia Purgatorio, canto XXII, vv. 293-294

econdo gli evangelisti MATTEO e MARCO, Giovanni il Battista aveva un vestito di peli di cammello, una cintura di pelle attorno ai fianchi e il suo cibo erano locuste e miele selvatico. Abiti e cibi segno di penitenza e di allontanamento dal potere cittadino, come in seguito fece anche Sant’Antonio abate, ana-

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coreta egiziano del III-IV secolo d.C. Le locuste, spesso confuse e assimilate alle cavallette, dagli Ebrei e secondo la legge mosaica erano ritenute un cibo puro, quindi permesso. Ma come erano mangiate? Qual era la cucina di Giovanni il Battista? Considerando gli stili di vita concessi dal deserto, il modo più probabile di mangiare le locuste era cuocerle sulla fiamma, alla griglia quindi, dopo averle infilate su uno stecco, fino a renderle croccanti e facendone degli spiedini. E il miele? È molto probabile che fosse aggiunto, quasi sgocciolato, sugli spiedini di cavallette, con una ricetta molto simile a quelle ancor oggi in uso in Africa e in Asia, anche se attualmente il miele è quasi sempre sostituito dal

più economico zucchero caramellato. Locuste o cavallette croccanti associate al morbido e dolce miele, una leccornia che forse mal si concilia con l’idea di una rinuncia ai piaceri del cibo, che siamo soliti associare agli eremiti del deserto. Mangiare insetti, presso i romani antichi, non era, infatti, segno di privazione, ma una preziosità gastronomica. Il cossus romano era un piatto molto ricercato a base di larve di Lucanus cervins allevate su farina e vino. In area mediterranea ancora oggi si mangiano formaggi nei quali si sono sviluppate larve d’insetti: il Furmai Nis piacentino, il Casu marzu o Casu fràzigu sardo, il Gorgonzola coi grilli ligure (dove con “grilli” si intendono i

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vermi nell’atto di saltare, NdR), il Bross ch’a marcia (formaggio che cammina) piemontese e altri prodotti tipici di diverse regioni italiane, nei quali gli enzimi lipolitici delle larve sono alla base di caratteristiche gastronomiche piccanti particolari. Anche il miele è prodotto da insetti (le api) che nel loro interno elaborano il nettare dei fiori, trasformandolo nel miele che, rigurgitato, depositano nei favi come alimento per il proprio alveare, e da questo l’uomo lo preleva, come il latte della mucca e altri animali che, destinato ai propri nati, è invece usato come cibo dall’uomo. Nel nostro passato vi è anche l’uso alimentare delle larve del baco e come sottoprodotto di una bachicoltura che produceva la seta; oggi gli scienziati cinesi studiano il Bombix mori come cibo degli astronauti in lunghi viaggi spaziali. In modo analogo non si può dimenticare che alcuni decenni fa, quando si accese un forte interesse per la lombricoltura, un reggiano propose in televisione una torta preparata con questi animali. Del mangiare gli insetti (entomofagia) si è occupata anche GIULIA MAURI (Mangiare insetti: tanti vantaggi, diversi gli aspetti da approfondire, in PREMIATA SALUMERIA ITALIANA 2/2014, pp. 64-65) e l’argomento è tornato d’attualità con Expo 2015. Gli insetti sono presenti nell’alimentazione dei paesi industrializzati e, senza saperlo, ognuno di noi ne mangia circa mezzo chilogrammo l’anno, sotto forma di frammenti e coloranti. In mezzo etto di farina di frumento possono esserci fino a 50 frammenti d’insetti, nel cioccolato 75 e nella pasta 50. Oltre a questi frammenti d’insetti, sono tollerate le loro uova, le larve e i moscerini della frutta o simili. Quotidianamente, nei processi industriali di lavorazione del cibo gli insetti arrivano a contatto coi nostri alimenti, sono mischiati, impastati e poi confezionati, ma non bisogna preoccuparsi perché nessuno di loro è nocivo per la nostra salute. Pochi sanno che alcuni estratti d’insetto (come il rosso cocciniglia, E 120) sono usati per colorare cibi e bevande. Gli insetti rappresentano una delle più vaste categorie fra gli organismi viventi e, fino a oggi, sono state classificate o descritte circa un milione e mezzo di

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specie, ma si stima che quelle ancora sconosciute siano diversi milioni. Occupano quasi tutti gli ambienti compatibili con la vita, hanno strette relazioni con l’uomo e le sue attività, e pertanto hanno da secoli stimolato l’interesse dell’uomo, non ultimo quello alimentare. Le specie d’insetti eduli registrati sono ad oggi 1.745, quarantuno delle quali in Europa. I continenti nei quali l’uso alimentare degli insetti è più diffuso sono le Americhe, seguite dall’Africa e dall’Asia (JOHNSON, 2010). Tra gli insetti alimentari, il gruppo più rappresentato è quello dei coleotteri (maggiolini e coccinelle), seguito dagli imenotteri (api, vespe e formiche) e ortotteri (grilli, cavallette, locuste). Gli insetti eduli rappresentano, da molto tempo, una fonte alimentare in molte aree geografiche, con un consumo che interessa almeno due miliardi di persone. Solo per le cavallette è stimato un uso superiore alle dieci tonnellate annue in paesi come Thailandia, Messico e Algeria, l’impiego di termiti a scopo alimentare arriva nello Zaire a più di una tonnellata il mese e bruchi e farfalle in Messico raggiungono le tre tonnellate l’anno.

Mentre in molti Paesi del mondo mangiare insetti è perfettamente normale, in Europa il tabù si sta trasformando in interesse per i vantaggi dell’entomofagia. Gli insetti trasformano i vegetali in cibo animale molto più efficacemente di altri animali (ruminanti, maiali, polli), producendo minore impatto ambientale, con scarsa produzione di CO2. Sono inoltre molto prolifici e a rapido sviluppo e, secondo la specie, producono proteine di buon valore nutrizionale. Oltre gli aspetti psicologici ancora da superare, diverse sono le questioni che riguardano la diffusione dell’uso alimentare degli insetti nei Paesi industrializzati; tra questi, i sistemi di una loro produzione in quantità sufficienti, la qualità delle loro proteine e grassi, la digeribilità della chitina, i rischi sanitari, le normative di produzione, commercio ed etichettatura. Prof. Em. Giovanni Ballarini Università degli Studi di Parma Nota In alto, lo chef David Faure con un piatto a base di crema di mais, foie gras e grilli (photo © 2013 AFP – www. bloomberg.com).

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EFSA: insetti commestibili e valutazione scientifica dei nuovi alimenti L’EFSA ha pubblicato lo scorso 13 gennaio un insieme di pareri scientifici in esito a richieste di valutazione di nuovi alimenti [Scientific opinion on dried mealworms (Tenebrio molitor) as a novel food]. Tra i pareri compare la prima valutazione completa di un prodotto proposto come alimento derivato da insetti. Le valutazioni EFSA in termini di sicurezza sono una tappa necessaria per la regolamentazione dei nuovi alimenti in quanto la sua consulenza scientifica affianca il lavoro degli enti europei e nazionali che autorizzano tali prodotti per il mercato europeo. Dall’entrata in vigore del regolamento sui nuovi alimenti il 1o gennaio 2018 l’EFSA ha ricevuto un gran numero di richieste di valutazione in merito ad un’ampia varietà di fonti di alimenti sia tradizionali che inedite: prodotti erboristici derivati da piante, alimenti a base di alghe e frutti non autoctoni, oltre a diverse varietà di insetti commestibili. «Le richieste di valutazione di nuovi alimenti sono talmente varie che abbiamo bisogno di competenze scientifiche diversificate per valutarle» ha dichiarato in proposito Helle Knutsen, biologa molecolare e tossicologa, presidente del gruppo di lavoro sui nuovi alimenti. «Tanto per citarne alcune: nutrizione umana, tossicologia, chimica e microbiologia. La composizione del gruppo di lavoro le riflette e, insieme, i nostri scienziati formano un gruppo multidisciplinare di grande esperienza». Insetti commestibili «Gli insetti sono organismi complessi, e ciò rende problematica la caratterizzazione della composizione dei prodotti alimentari da essi derivati» commenta Ermolaos Ververis, chimico ed esperto EFSA in scienza degli alimenti che ha coordinato l’elaborazione del primo parere adottato su insetti usati come nuovi alimenti. «Comprenderne la microbiologia è di fondamentale importanza, considerato anche che si consuma l’insetto intero. Vari cibi derivati da insetti vengono spesso dichiarati fonte di proteine per l’alimentazione. Le formule a base di insetti possono essere ad elevato contenuto proteico, benché i livelli proteici utili possono risultare sovrastimati quando sia presente la chitina, una delle principali sostanze che compongono l’esoscheletro degli insetti. Un nodo fondamentale della valutazione è che molte allergie alimentari sono connesse alle proteine, per cui dobbiamo valutare anche se il consumo di insetti possa scatenare reazioni allergiche. Tali reazioni possono essere provocate dalla sensibilità individuale alle proteine di insetti, dalla reazione crociata con altri allergeni o da allergeni residuati da mangimi per insetti, ad esempio il glutine. È un lavoro impegnativo perché la qualità e la disponibilità dei dati varia, e c’è molta diversità tra una specie di insetti e l’altra». Ci sono anche ragioni non di natura scientifica che rendono impegnativo lo studio dei nuovi alimenti. «La marea di richieste di valutazione comporta una notevole mole di lavoro e i termini di scadenza delle valutazioni sono talvolta troppo ravvicinati, soprattutto se le richieste mancano di dati scientifici essenziali», ha aggiunto la dott.ssa Helle. «Ma la collaborazione tra esperti è stimolante, ed è gratificante sapere di contribuire a salvaguardare la sicurezza dei nostri cibi». La novità di usare insetti nei cibi ha suscitato grande interesse da parte del pubblico e dei media, per cui le valutazioni scientifiche dell’EFSA sono cruciali per i responsabili politici che debbono decidere se autorizzare o meno tali prodotti prima della loro immissione sul mercato dell’UE. Giovanni Sogari, ricercatore in ambito sociale e consumeristico all’Università di Parma, ha commentato: «Ci sono ragioni derivanti dalle nostre esperienze sociali e culturali, il cosiddetto “fattore disgusto”, che rendono il pensiero di mangiare insetti repellente per molti europei. Col tempo e l’esposizione tali atteggiamenti potranno mutare». Mario Mazzocchi, esperto di statistica economica e docente presso l’Università di Bologna, ha affermato: «Ci sono chiari vantaggi ambientali ed economici nel sostituire le fonti tradizionali di proteine animali con quelle che richiedono meno mangime, producono meno rifiuti e provocano meno emissioni di gas serra. L’abbassamento di costi e prezzi potrebbe migliorare la disponibilità di alimenti, mentre la nuova domanda creerà nuove opportunità economiche, che potrebbero però interferire con i settori esistenti». Gli scienziati EFSA continueranno a inserire le numerose richieste di valutazione di nuovi alimenti nella loro agenda, mentre i responsabili delle decisioni a Bruxelles e nelle capitali nazionali decideranno se tali alimenti debbano essere autorizzati per finire nei piatti europei. In definitiva, i consumatori potranno scegliere con fiducia ciò che mangiano, ben sapendo che la relativa sicurezza è stata accuratamente verificata (photo © kikujungboy – Fotolia). >> Link: www.efsa.europa.eu

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MOCA: ipotesi nuove regole UE Photo © ViDi Studio – stock.adobe.com

di Sebastiano Corona

un argomento, quello dei MOCA, fortemente dibattuto, anche alla luce degli infiniti ambiti di intervento a cui si estende. La materia non riguarda infatti tanto o solo coloro che producono e vendono cibo e bevande, ma anche chi produce macchinari, packaging, attrezzatura utilizzata in campo alimentare per la trasformazione, la manipolazione o il confezionamento. Le valutazioni d’impatto della Commissione europea mirano a informare i cittadini e le parti interessate sui piani della Commissione e ottenere un feedback sull’iniziativa prevista. In questo caso, ha lo scopo di fare il punto sulla sua applicazione, ipotizzando possibili opzioni per migliorare la sicurezza alimentare e la salute pubblica. Tema, oggi, particolarmente sentito a tutti i livelli. L’esigenza è ancor più evidente se si considera che le disposizioni fondamentali dell’attuale legislazione comunitaria sono state introdotte nel lontano 1976. Nel 2004, il Regolamento (CE) n. 1935 ha poi dato indicazioni di base per tutti i MOCA, ma ora la necessità di intervenire è legata anche alle nuove politiche chiave della Commissione nell’ambito del Green Deal e del Farm to Fork che

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prevedono l’adozione di misure concrete per migliorare la sicurezza alimentare e la salute pubblica, incoraggiando l’uso di soluzioni di imballaggio innovative e sostenibili, utilizzando materiali rispettosi dell’ambiente, riutilizzabili e riciclabili, riducendo inoltre gli sprechi alimentari. D’altro canto, la normativa esistente si scontra con una serie di problematiche che richiamano la necessità di rivedere la materia. La prima è relativa all’assenza di norme UE specifiche, per la maggior parte dei settori diversi dalle materie plastiche, e il fatto che a livello nazionale in alcuni Stati Membri esistano per determinati materiali regole disomogenee o addirittura superate, creando una protezione sanitaria disuguale e fonte di oneri e complicazioni inutili per le imprese. L’assenza di norme specifiche e la coesistenza di leggi diverse nei vari Stati Membri complica, inoltre, il controllo delle importazioni, in particolare di alcuni oggetti da cucina e da tavola, che contribuiscono ad una parte significativa dei prodotti sul mercato comunitario, la cui sicurezza può essere compromessa. L’attuale approccio regolamentare non privilegia in modo coerente le sostanze

più pericolose, pertanto non si riscontra nemmeno una logica nell’adozione di un approccio più precauzionale per disciplinare determinati gruppi di sostanze, rispetto ad altre meno nocive. Non bastasse, poiché lo scambio di informazioni sulla sicurezza e la conformità nella catena di approvvigionamento è scarso, anche la capacità di garantire conformità è messa a rischio. Ma più di ogni altra ragione, una riforma è opportuna se si considera che l’applicazione delle norme sui MOCA è mediamente scarsa, poiché gli Stati Membri hanno serie difficoltà nel farle applicare. Ci sono pertanto grandi differenze di approccio tra imprese, che però operano tutte nello stesso mercato. Si denuncia da più parti la mancanza di regole chiare per le materie non plastiche e una gravosità eccessiva per quelle specifiche, considerate troppo tecniche ed oltremodo gravose per la maggior parte degli Stati Membri, che attualmente non dispone né di risorse né di competenze sufficienti per applicarle, con conseguenze sul piano pratico operativo ma poi a cascata anche in sede giudiziaria, nei casi in cui si generino contenziosi.

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L’attuale normativa non tiene conto delle specificità delle PMI, né in termini di organizzazione e struttura interna né di dimensioni, delegando talvolta all’imprenditore un compito fuori dalla sua portata. Mentre gli operatori più dimensionati dispongono infatti di competenze e risorse interne per garantire la conformità, quelli più piccoli non hanno strumenti. Le norme tecniche sono talvolta inapplicabili a certe realtà, in altri casi l’assenza di regole specifiche implica che l’imprenditore non possa disporre di alcuna base per garantire il rispetto della norma con conseguenti limitazioni nella commercializzazione sicura delle proprie produzioni. Quanto sopra detto fa il paio col fatto che, in generale, i controlli sui MOCA non costituiscano una priorità per gli Stati Membri, a loro volta disorientati nella corretta applicazione e conseguentemente nella vigilanza. Le attuali disposizioni, così formulate, non hanno riscontri positivi in termini di miglioramento della situazione complessiva e non incoraggiano lo sviluppo di alternative più sicure e più sostenibili, quindi sono sostanzialmente fallimentari nel loro scopo finale. A nulla è infatti valso sinora il Regolamento in vigore nella lotta contro l’eccesso di imballaggi, le misure di prevenzione dei rifiuti e l’aumento del riutilizzo e del riciclaggio. Gli Stati Membri stanno già introducendo divieti di imballaggi in plastica monouso, in parte in applicazione della direttiva sulle materie plastiche monouso (2019/904). Tuttavia, l’attuale legislazione sui MOCA offre poche o nessuna base su cui elaborare norme che sostengano e incoraggino alternative sostenibili o assicurino che tali alternative siano valide. Le migliori intenzioni ambientaliste dell’UE si infrangono di fronte alla realtà delle cose, nell’operatività pratica. Il tema è pertanto attualissimo e riguarda diversi aspetti. Il primo è quello economico: non solo si punta a ridurre i costi sanitari a seguito dell’attuazione di standard di protezione della salute umana più elevati, ma la semplificazione che la Commissione europea va cercando con una ipotetica nuova norma comporterà una maggiore capacità delle imprese di piccole e medie dimensioni nel garantire che i propri prodotti siano sicuri quanto quelli realizzati dalla grande industria,

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migliorando così la competitività e la crescita del tessuto imprenditoriale. Nuove disposizioni porterebbero inoltre ad un’armonizzazione delle norme e, giocoforza, ad un adeguamento nel breve termine, introducendo elementi di regole uguali per tutti coloro che operano in un mercato comune, risparmiando così risorse ed energie. Dopo un primo impatto iniziale, l’armonizzazione nel mercato comunitario, attraverso le nuove norme specifiche, uguali per tutti, potrebbe portare un risparmio sotto tanti punti di vista e avrà anche dei risvolti positivi per le imprese, poiché potrà generare, anche nel piccolo, una maggiore competitività derivante dagli standard più elevati, che saranno, come spesso accade, un motore per sensibilizzare i Paesi Terzi verso le problematiche ambientali e sulla salute del consumatore. Infine, l’UE punta allo sviluppo e alla crescita di materiali sostenibili anche per favorire l’economia circolare e consolidare le strategie ambientali atossiche e di gestione delle materie plastiche o chimiche. L’obiettivo è altresì quello di ridurre sensibilmente i rifiuti e rafforzare l’uso di materiali, come i polimeri, che possono essere facilmente riciclati e riutilizzati in sicurezza, anche come materiali a contatto con gli alimenti. Il fine ultimo della probabile nuova norma sul tema dei MOCA è infatti un aumento complessivo della sicurezza dei prodotti, che abbia un impatto positivo su tutte le patologie legate ai tumori o alle disfunzioni del sistema endocrino. Al di là dell’aspetto sociale e umano, tra l’altro, la riduzione e la prevenzione potrebbero generare sul lungo termine un riscontro positivo sui servizi sanitari e sul loro peso sui conti pubblici dei singoli Stati, a vantaggio della società nel suo complesso. Non è ancora chiaro quale sarà la strada che l’UE deciderà di percorrere. Potrebbe anche non assumere provvedimento alcuno in merito, sebbene l’esigenza di una riforma sia sentita da più parti. Tuttavia, sarebbe opportuna l’introduzione di un sistema normativo omogeneo, a tutti i livelli, che garantisca pienamente la sicurezza alimentare e la salute pubblica, dando certezze alle imprese e a chi la norma la deve applicare nel concreto. Sebastiano Corona


TECNOLOGIE Il CSB-System offre soluzioni al passo con i tempi

WEBSHOP: ORDINO OGGI, RICEVO DOMANI

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l Covid-19 ha causato nel nostro Paese e in gran parte del mondo una crisi senza precedenti in termini sanitari, economici e sociali, che sta mettendo a dura prova la resistenza di tutti. Tra i tanti interventi a sottolineare la capacità di riemergere, le aziende alimentari stanno ampliando l’utilizzo di soluzioni digitali per comunicare in modo ottimale con il cliente e rispondere alle sue esigenze. Il gruppo CSB-System vuole essere al loro fianco e, oltre alle soluzioni classiche, ha potenziato l’offerta di servizi digitali, come i negozi on-line: questi non solo rendono i processi più efficienti, ma aprono anche nuove opportunità di vendita, perché la possibilità

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di eseguire degli ordini on-line facilita la comunicazione tra le parti o a volte è addirittura l’unico strumento per produttori e commercianti di proporre i loro prodotti. Ma, indipendentemente, dalla situazione attuale, la vendita on-line di prodotti alimentari ha anche comunque un grande potenziale, soprattutto per i prodotti di nicchia o in zone a bassa densità di supermercati. Portale web CSB per gestire gli ordini dei clienti Si pensi ad un gruppo formato da tante filiali e/o negozi che giornalmente eseguono degli ordini di fornitura. Ciò che solitamente avveniva per telefono direttamente o tramite rappresentante,

fax ed e-mail è ora completamente online con notevoli risparmi di tempo. Il portale web gestito tramite CSB-System mette a disposizione on-line il registro degli ordini sotto forma di matrice. Tramite un’apposita maschera, che può essere gestita anche tramite tablet, l’utente può scegliere comodamente tra migliaia di articoli, inserendo quantità desiderata e date di consegna. È presente un’area separata per gli articoli in promozione e può anche essere visualizzata la cronologia degli ordini dei singoli articoli. Nel complesso, l’elevato livello di integrazione dei dati tra il CSB ERP ed il portale assicura che non vi sia interruzione del supporto tra acquisizione

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Se si vuole davvero aprire un negozio on-line, è vivamente consigliato l’utilizzo di un sistema ERP come piattaforma base per il carrello digitale. Se i due mondi sono perfettamente integrati, come nel CSB-System, il potenziale è effettivamente grande. ed elaborazione delle informazioni: tutti i dati dell’ordine sono immediatamente disponibili per l’elaborazione nell’impianto di produzione, già nel momento in cui sono inseriti. Si può dire finalmente addio a soluzioni ad isola, doppi inserimenti degli stessi dati, problemi di interfaccia e sincronizzazioni manuali. Quando si è in presenza di un’ampia rete di clienti/negozi/filiali, un ulteriore vantaggio è la gestione integrata dei reclami. Questi possono essere elaborati direttamente nel portale, ma sono anche immediatamente disponibili, con tutte le informazioni, nel gestionale CSB per ulteriori elaborazioni. Il CSB-B2B webshop: processi di esecuzione ordini proiettati verso il futuro Il design del CSB Webshop è ovviamente flessibile. Va sottolineata l’interazione senza interfaccia tra il CSB Webshop e il CSB ERP: i dati degli articoli sono visualizzati nel webshop senza una doppia memorizzazione dei dati, le disponibilità sono visualizzate in varie forme e i prezzi, variabili per indirizzo o cliente, sono estrapolati tenendo conto di tutte le condizioni. È possibile posizionare articoli in scadenza. Il CSB-B2B Webshop offre alle aziende alimentari una soluzione tagliata su misura per trasferire in rete gli ordini in entrata e i processi associati a quest’a-

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rea e quindi minimizzare le spese per personale e infrastrutture.

tempi di risposta rapidi e, con essi, la soddisfazione del cliente.

Il CSB-B2C webshop: grosse potenzialità se l’ERP e il webshop sono interconnessi Anche il B2C-Webshop offre tanto potenziale di vendita non sfruttato. Sebbene i consumatori preferiscano ancora acquistare direttamente nel negozio, alcuni dei loro acquisti di generi alimentari si stanno spostando su internet, soprattutto se l’acquisto riguarda prodotti di nicchia. Ma è necessario che l’azienda operi correttamente e in modo trasparente. Se si vuole davvero aprire un negozio on-line, è vivamente consigliato l’utilizzo di un sistema ERP come piattaforma base per il carrello digitale. Se i due mondi sono perfettamente integrati, come nel CSB-System, il potenziale è effettivamente grande. Oltre alla gestione integrata ed allineata dei prezzi, l’integrazione tiene conto di tutti gli aspetti legati all’alimentazione, quali informazioni sul peso, date di scadenza, dimensioni dei lotti e, soprattutto, tracciabilità. La comunicazione diretta dei moduli CSB col CSB webshop assicura che la disponibilità degli articoli sia automaticamente garantita al momento dell’ordine. Ciò significa che picking e spedizione possono essere attivati immediatamente dopo la ricezione dell’ordine. Sono garantiti dunque

Tecnologia del webshop come ottimizzatore di processo e motore di crescita L’investimento in soluzioni digitali per negozi on-line, in particolare nel settore B2B, offre una vasta gamma di opportunità che consentono di risparmiare tempo e costi, aumentare la fidelizzazione dei clienti, generare più vendite e ottimizzare i processi aziendali. Ma, affinché possa funzionare con successo, la tecnologia scelta è un fattore determinante. L’approccio lungimirante della CSB-System consente ai suoi clienti di avvalersi di soluzioni all’avanguardia per proiettarsi verso l’Industria 4.0.

Referente: • Dott. A. MUEHLBERGER CSB-System Srl Via del Commercio 3-5 37012 Bussolengo (VR) Telefono: 045 8905593 Fax: 045 8905586 E-mail: info.it@csb.com Web: www.csb.com

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CSB FACTORY ERP è il Factory software dell’anno per il 2020! Il CSB ERP specifico di settore per la gestione degli stabilimenti produttivi è stato premiato per la seconda volta come “Factory software dell’anno” nella categoria “Fabbrica digitale” durante il “Congresso digitale sul factory software”. Il gruppo di esperti del centro di applicazioni Industria 4.0, cattedra di informatica economica all’Università di Potsdam, che aveva già premiato CSB ERP nella categoria “Soluzioni complete” nel 2018, ha premiato nuovamente CSB FACTORY ERP come soluzione eccellente in grado di realizzare la fabbrica digitale. La giuria ha apprezzato in particolare il vantaggio concreto fornito ai clienti, il concetto di tracciabilità verticale e orizzontale e la comunicazione a tutto tondo con i clienti, attraverso più canali. CSB FACTORY ERP si interfaccia con l’ERP di gruppo e consente una gestione operativa ottimale degli impianti di produzione. Le interfacce standard garantiscono un’infrastruttura di sistema stabile, flessibile e integrata tra ERP di gruppo e FACTORY ERP. Col Factory software, CSB ha colmato le lacune tra ERP di gruppo e MES. Pertanto CSB FACTORY ERP non supporta solo i processi classici della fabbrica digitale, come gestione costi e ricette, pianificazione delle vendite e della produzione o garanzia di rintracciabilità ma si assume anche l’organizzazione dei flussi delle informazioni tra stabilimenti, dipendenti, macchine, fornitori e clienti coinvolti nel processo. Da una parte CSB FACTORY ottimizza i processi all’interno della fabbrica, dall’altra garantisce l’integrazione verticale e orizzontale dei sistemi coinvolti e gestisce le interfacce verso i partner della supply chain a monte e a valle e verso gli altri stabilimenti aziendali. Con hardware specifici come il CSB Racks, CSB Vision (per il riconoscimento automatico delle immagini), CSB Sorter e soluzioni di automazione, CSB armonizza il flusso di merci e di dati e consente la digitalizzazione dell’intera fabbrica. Grazie ad algoritmi di ottimizzazione delle ricette, della produzione o dei giri, le aziende possono elaborare in modo proficuo i dati raccolti. «Siamo molto soddisfatti di aver ottenuto nuovamente questo riconoscimento» dicono alla CSB System SE. «È la dimostrazione che, assieme ai nostri clienti, stiamo proseguendo sulla strada verso la digitalizzazione, offrendo loro soluzioni già utilizzabili e consolidate nella pratica. Un ringraziamento particolare va perciò ai pionieri, innovatori e change maker della nostra azienda, ai nostri consulenti e programmatori che mettono la loro competenza ed esperienza al servizio del nostro software». >> Link: www.csb.com

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a mia è una storia di sangue e ossa, sono un macellaio. Ho da sempre la passione per il cinema, per l’antropologia dell’immagine. Da dove viene, perché viene fatta e a cosa serve. Vivo regolarmente in un piccolo paese nel centro della campagna Toscana, a San Miniato in provincia di Pisa; abitualmente sono invitato da altri macellai, scuole, università di tutto il mondo per insegnare il mio sapere del taglio delle carni e cerco di

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viaggiare più che posso per nutrire le mie curiosità. Questo è la mia opera prima, omaggio l’evoluzione grafica da come è a come era, una specie di viaggio indietro nel tempo attraverso la mia collezione privata, collezionata durante i miei viaggi”. Sono queste le righe di presentazione che ha scritto Andrea Falaschi (instagram.com/ guidofalaschi) per il suo primo libro L’imbroglio di carta – The paper cheat, fresco di stampa, un’opera per chi ama il cinema e la sua narrazione attraverso

le immagini potenti dei suoi manifesti. Per noi, qui in Redazione, che da sempre seguiamo Andrea nelle sue scorribande carnivore e norcine, questo è un libro emozionante perché dentro c’è lui, con la sua sensibilità. Oltre ai testi e ai vari contributi che approfondiscono il tema dei manifesti del cinema, come quelli di SAM GILBEY, TONINO DE BERNARDI, GIACOMO FORTE e NORIYUKI KAI (quest’ultimo fa un confronto tra i manifesti dei film di MICHELANGELO ANTONIONI italiani e giapponesi) e che

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Andrea Falaschi (photo © facebook. com/guido.falaschi.3). danno al lettore spunti di riflessione e consapevolezza, c’è una lettura “visiva”: il potersi soffermare su ogni manifesto, sui dettagli che lo caratterizzano, elementi grafici e colori. Questa “lettura” è molto attuale. Siamo costantemente bombardati da immagini veloci, mentre sfogliando L’imbroglio di carta le immagini le possiamo elaborare con un ritmo diverso. Scrive ANDREA BORGHINI, filosofo teorico e direttore di Culinary mind (centro internazionale di studi filosofici sul cibo): “Andrea (Falaschi) è una delle persone che più mi ha guidato e ispirato in questi anni per una tematica difficilissima come quella della macelleria e il rapporto tra la vita degli animali non umani e quelli umani”. Borghini traccia bellissimi parallelismi tra l’arte visiva del manifesto cinematografico e l’arte della macelleria, la prima “un’opera d’arte intuitiva e vicaria, fatta per emozionarci”, la seconda, tutto sommato, “un’opera d’arte vicaria dell’arte culinaria”. Nota Tra i tanti manifesti noi abbiamo scelto quello del film Cool Hand Luke (tradotto in italiano con Nick mano fredda) diretto da STUART ROSENBERG nel 1967 e interpretato da Paul Newman.

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L’Oro Nero di Modena Il Balsamico – The Black Gold of Modena Artioli Editore 1899 136 pp. – € 35,00 artioli.it

GIANFRANCO ALLARI, PAOLA CALCIOLARI Magari un che di formaggio Grana Padano nella cucina di casa mia Illustrazioni: Umberto Mischi Edizioni Corraini, 2010 112 pp. – € 18,00 corraini.com

JEAN-ANTHELME BRILLAT-SAVARIN Fisiologia del gusto o Meditazioni di gastronomia trascendente Slow Food Editore, 2014 400 pp. – € 14,50 www.slowfoodeditore.it

Questo libro edito da Artioli Editori 1899, con il patrocinio e la consulenza del Consorzio Tutela Aceto Balsamico Tradizionale di Modena e del Consorzio Tutela Aceto Balsamico di Modena Igp, è un viaggio di 135 pagine nel mondo delle acetaie e del loro “oro nero”. Al suo interno troviamo un approfondimento sulle botti, vero e proprio patrimonio delle acetaie, per conoscerne i legni e le tecniche di preparazione, con i segreti tramandati dai maestri bottai, e le ricette di grandi chef del territorio ed internazionali. La pubblicazione realizzata in doppia lingua, italiano e inglese, dedicata al prodotto principe della provincia modenese, racconta l’affascinante mondo divenendo non solo uno strumento culturale ma anche di promozione del territorio.

Abbinato a mostarde e confetture, cucinato da protagonista o coprimario, ma anche come semplice comparsa, il Grana Padano è per tradizione parte della nostra quotidianità in cucina. Questo libro lo racconta nella spontaneità delle numerose ricette giunte ai fornelli del concorso “Grana Padano nella cucina di casa mia”. Testimonianze di gente comune, idee ed intuizioni di non-professionisti che ci accompagnano dalla colazione al pranzo, e ancora dalla merenda alla cena (fermandosi prima, per un aperitivo a base di finger food). Le ricette di questo volume sono state pubblicate così come sono state presentate dagli autori, senza emendarle delle loro coloriture colloquiali né uniformarle in schemi e lessico omogenei, per ritrovare quello stesso clima coinvolgente di festa e originalità creatosi all’azienda di mostarde Le Tamerici a San Biagio (MN) nella giornata delle premiazioni. Magari un che di formaggio muove dall’esperienza di ognuno per rielaborare in modo originale e conviviale un illustre prodotto della ricca tradizione alimentare del nostro territorio.

Pubblicata nel 1825, la Fisiologia del gusto di ANTHELME BRILLAT-SAVARIN (1775-1826), magistrato, scrittore e gourmet, rappresenta la prima riflessione moderna su uomo e cibo, il primo tentativo, pienamente riuscito, di dare all’arte della cucina e della tavola lo stato e la dignità di scienza. Scandito da una serie di Meditazioni sui principali temi dell’alimentazione e del convivio, il volume comprende racconti, memorie e aneddoti, in un insieme che ne fanno una lettura piacevolissima. Un libro pionieristico, le cui tematiche sono divenute patrimonio della cultura occidentale, indispensabile per ogni cultore della tavola. Disponibile anche su Amazon.

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ALLAN BAY, ALBERTO CITTERIO Delivery e take away Piatti da chef pensati per il consumo a casa Edizioni: Italiangourmet 288 pp. – € 75,00 shop.italiangourmet.it

VALENTINA RAFFAELLI, LUCA BOSCARDIN Scarti d’Italia – Italian Scraps Da Nord a Sud, un’avventura culinaria dove non si butta via niente Edizioni: Corraini 288 pp. – € 38,00 www.corraini.com

Guida I Salumi d’Italia 2021 IV edizione Edizioni: Le Guide de L’Espresso www.guidasalumiditalia.it

365 ricette e molti consigli su tecniche, packaging per un servizio delivery e take away impeccabile e remunerativo: è il nuovo volume della collana iTecnici che vede la firma del critico gastronomico ALLAN BAY e dello chef ALBERTO CITTERIO. “Il dubbio di molti è: il delivery è la soluzione alla crisi che colpisce la ristorazione oggi? La risposta è no, non è ‘la’. Ma è ‘una’ soluzione, una delle tante cose che, a nostro parere, un ristorante deve saper gestire per affrontare al meglio i problemi. Da sola, senza tutti gli altri interventi legati a un ottimale controllo di gestione, non basta. Serve soprattutto la flessibilità, la capacità di adattarsi agli eventi, senza la quale non si va da nessuna parte”. Sono 3 i capitoli principali: piatti freddi, pronti da mangiare a temperatura ambiente, per il quale il cliente non deve fare nulla; piatti che richiedono solo di essere scaldati in forno, classico o microonde; piatti che il cliente deve “montare” a casa in pochi minuti. Seguono due capitoli su pizza e pasta & risotti e due sezioni dedicate a uova, contorni e salse citate nel libro, perché nulla sia lasciato al caso.

Un viaggio in Italia a bordo di un furgone blu trasformato in casa mobile, filo conduttore la cucina del quinto quarto: milza, fegato, lampredotto, piedini di maiale, interiora da cucinare con ricette tradizionali come la trippa alla romana o la coratella brodettata. In dieci mesi on the road, VALENTINA RAFFAELLI e LUCA BOSCARDIN hanno esplorato il paese alla ricerca delle tradizioni gastronomiche legate alle frattaglie, e lo raccontano attraverso disegni, fotografie e ricette regionali. Valentina e Luca hanno incontrato cuochi, ristoratori e allevatori, hanno assaggiato e cucinato, dedicandosi a quelle parti che qualcuno potrebbe definire “di scarto” e riflettendo sul ruolo che può avere la tradizione nel discorso attuale sulla sostenibilità. Libro di cucina atipico, Scarti d’Italia è una ricerca su quello che mangiamo e quello che sprechiamo, un’avventura culinaria dove non si butta via niente.

È uscita la nuova guida I Salumi d’Italia 2021 dedicata all’antica cultura norcina italiana. Un viaggio sul campo per raccontare il meglio della salumeria italiana, un patrimonio unico al mondo per qualità e varietà. I salumi sono stati valutati sulla base di degustazioni sensoriali condotte da degustatori esperti e appassionati: norcini, sommelier e critici gastronomici. Continuità è la parola chiave di questa quarta edizione, se è vero che la salumeria Italiana come tanti altri comparti non è stata risparmiata dal Covid-19 e, di conseguenza, ha dovuto fare il possibile per contenere la pandemia. È altrettanto vero che il comparto non ha mai smesso di lavorare e, a monte di nuove strategie per il futuro, i produttori non hanno dimenticato che la qualità rimane una condizione imprescindibile per il successo.

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