I N S I DE I N S I DE L’A R C H I T E T T U R A D I U N V I V E R E P O S S I B I L E L’A R C H I T E T T U R A D I UN VIVERE POSSIBILE CladimBooks CladimBooks
L’A R C H I T E T T U R A D I U N V I V E R E P O S S I B I L E CladimBooks
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Università Iuav di Venezia Laurea triennale in Disegno industriale e multimedia Product e visual design / secondo anno Design della comunicazione 2 A 2019 / 2020 Docente Francesco Messina con Giordano Zennaro
Matteo Benvegnù Anna Bernardi Ester Bisighini Giovanni Bolgan Federico Bonamini Alice Cecchinato Anna Censi Nicola Citron Andrea Concheri Francesco Dalla Benetta Elena Dalle Stelle Nicola De Bortoli Giulia De Gregorio Simone De Marchi Francesco De Zen Nicholas Di Paolo Tobia Farinati Alexia Fincato Valeria Frassoni Giacomo Furlan Tommaso Gatti Viola Ghigi Leonardo Gumiero Alessia Hyka Nicole Kolano Chiara Laudonia Francesca Lorenzi Aleksandra Maksimovic Maria Angela Mancini
Claudia Mandara Tommaso Marcon Silvia Marinello Cristina Neresini Virginia Padovani Davide Pegorari Matteo Pelizza Erica Pellizzaro Tommaso Pesiri Arianna Piermattei Sebastiano Preo Alexandre Pugnaghi Lorenzo Putinati Francesco Resini Alena Rodionova Pietro Romanato Valerio Romano Martina Sartori Diego Scaggiante Barbara Spiralska Oliwia Silvia Stramare Filippo Tovornik Elena Trovò Violeta Tufonic Marina Uljancic Luca Vanzetto NicolòVespini Paola Zaia
Pubblicazione fuori commercio. Realizzata con il solo scopo di documentare il progetto degli studenti nell’ambito del laboratorio di design della comunicazione 2 del corso di laurea triennale in disegno industriale e multimedia presso l’Università Iuav di Venezia. Le immagini presenti costituiscono una riproduzione in bassa qualità di immagini tratte da alcuni siti e archivi web generici: trattandosi di un progetto esclusivamente in ambito accademico si è ritenuto ammissibile tale trattamento di riproduzione.
Inside Utopia
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L’architettura dell’utopia
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Tommaso Campanella Civitas Solis
Inside Nature. Le soluzioni migliori sono quelle ideali?
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Biofilia Il benessere sociale nell’utopia contemporanea
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L’umana armonia Sognando l’impossibile
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Le forme dell’arcologia Un’ecologia urbana in una singola architettura
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Vivere e sopravvivere L’ambiente ostile
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Ledoux Il modello utopico neoclassico
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Antonio Sant’Elia La città del futuro
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Usonia: Boadacre City, L’utopia di Frank LLoyd Wright
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Taliesin West Una scuola per uno stile di vita
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Le Corbusier: Chandigar Una città a misura d’uomo
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Auroville La città dell’alba di Aurobindo
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Lous Kahn Il senso del luogo
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Social Utopia dalla Citè Industrielle di Garnier ad Apple
Al cinema 230
Sulla scena dell’utopia L’architettura reale che ha anticipato l’iconico futuro cinematografico
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Il futuro che immaginiamo L’architettura della science fiction
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L’ARCHITETTURA DELL’UTOPIA Evoluzione dell’Homo utopicus «Una città infelice può contenere, magari solo per un istante, una città felice; le città future sono già contenute nelle presenti come insetti nella crisalide». Come diceva Calvino, la ricerca di un modello che superi il presente è qualcosa di connaturato all’uomo, perché egli non è soltanto Homo sapiens ma anche Homo utopicus. L’uomo ha bisogno da sempre di auto-costruirsi e auto-progettarsi, e allo stesso modo la città ha bisogno di essere continuamente riprogettata e ricostruita, per soddisfare le esigenze di tutti e adattarsi alle nuove necessità che insorgono di generazione in generazione. Ognuna di esse, prendendo coscienza che la realtà così come si presenta non risponde più alle proprie esigenze, avverte l’impulso, quasi naturale, di elaborare un nuovo progetto, in linea con i bisogni dell’uomo e quindi dei desideri emergenti.
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(In alto) Utopia, frontespizio del libro stampato con illustrazioni xilografiche di Hans Holbein the Younger, Basilea, 1516. Il bordo del frontespizio è a forma di nicchia rinascimentale con putti e uno scudo sottostante contenente un emblema.
a lungo tempo esiste, nella storia della cultura occidentale, una stretta connessione tra architettura e utopia. È consuetudine considerare il dialogo platonico che tratta, tra l’altro, della città ideale (la Repubblica) come la prima utopia di questa analisi storico-culturale. Il termine utopia è arrivato in realtà molto più tardi: fu introdotto da Thomas More, che presentò una società ideale realizzata sulla lontana isola di Utopia, secondo quanto recita il titolo stesso del suo libro, pubblicato nel 1516. È interessante notare che il neologismo coniato da More, andando a ricercare la radice greca della parola, possa significare sia “ottimo luogo” sia “non luogo”, un luogo inesistente o immaginario. Molto probabilmente questa ambiguità era nelle intenzioni di More, dunque il significato più corretto del neologismo risulta essere la congiunzione delle due accezioni, ovvero “l’ottimo luogo (non è) in alcun luogo”, interpretazione che è divenuta anche il significato moderno della parola utopia. L’utopia è dunque prima di tutto il progetto di una società ideale. Platone ha mostrato come un progetto di questo tipo debba tenere conto di tutti gli aspetti delle attività umane, compreso il rapporto con la natura. Per questo motivo un ampio brano del dialogo platonico tratta anche dell’architettura ideale. Il discepolo di Socrate si è limitato a descrivere un’architettura identica a quella tipica della Grecia del suo tempo, che egli stesso aveva davanti agli occhi nelle sue realizzazioni più raffinate e apprezzabili.
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MEDIOEVO E RINASCIMENTO Ben diversa, più tardi, la situazione per More; il pensatore rinascimentale era in polemica con l’architettura del suo tempo, la quale a suo giudizio, occupandosi solo di simboleggiare le strutture del potere, era di intralcio all’organizzazione democratica della società che egli auspicava. Sulla base di questa critica, proponeva quindi la costruzione di blocchi edilizi privi di qualsiasi ornamento, pur osservando che questo avrebbe potuto provocare una noia pericolosa. Ritornava così a proporre la presenza della natura, di facciate abbellite da fiori e arricchite da rampicanti, a lodare l’arte della cura dei giardini che circondano gli edifici. La natura, diceva infatti, non ha nessuna struttura di potere da proclamare. Il libro Utopia di More esprime il sogno rinascimentale di una società pacifica, dove è la cultura a dominare la vita degli uomini e l’architettura si pone come mezzo fondamentale per la realizzazione di quest’idea. Allo stesso modo ma un secolo più tardi Tommaso Campanella, con la pubblicazione de La città del Sole, ha trattato in maniera approfondita tutta la struttura architettonica e sociale della città, privilegiando anche lui la supremazia dell’erudizione. Queste due opere, per quanto possano risultare fantasiose se lette al giorno d’oggi con sguardo acritico, rappre-
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Inside Utopia
L’architettura serve a creare uno spazio congruo all’uomo, pensato a sua misura e in grado di garantire il vivere civile, per cui l’esigenza di decoro rappresenta un presupposto fondamentale. [ Vitruvio ]
(In alto) Il Palazzo Ducale di Urbino è la più ricordata tra le città reali ispirate a un progetto ideale, la cui grande e complessa concezione monumentale si risolveva, secondo la definizione di Baldassare Castiglione, nella concezione di una “città in forma di palazzo”. L’opera rappresenta la città ideale del rinascimento, basata su scrupolose regole geometriche; l’intento è quello di creare uno spazio simmetrico e armonico attorno ad una piazza ideale. (A sinistra) Pienza è uno dei primi e più simbolici esempi di pianificazione urbanistica. Incarna perfettamente l’idea della città rinascimentale costruita intorno ai suoi abitanti, fatta per rendere la loro vita migliore. Prendiamo ad esempio la piazza principale: a ogni lato del quadrato sono presenti delle sedute che consentono alle persone di incontrarsi, di stare gli uni di fronte agli altri, di trascorrere del tempo insieme.
sentano il grande fermento culturale, politico e sociale di quegli anni; esse sono il risultato concreto di una grande aspirazione al cambiamento e al rinnovamento della società dell’epoca. A partire dal Quattrocento il concetto di utopia è stato il fulcro della riflessione dell’arte, dell’architettura, della filosofia e dell’urbanistica rinascimentale, che ambiva a coniugarvi esigenze funzionali e sensibilità estetica, in un’aspirazione che porta con sé i tratti caratteristici di quel tempo. L’intento era quello di creare uno spazio in cui la vita è più facile e armoniosa, antropocentrizzando l’intera architettura. Inoltre la città ideale aspirava a creare uno stato perfetto in cui le varie sfere della vita comune erano in armonia. Questo aspetto si accompagnava agli aspetti architettonici, che dovevano essere consoni ad ospitare un governo amministrato saviamente e con giudizio. Come sosteneva Vitruvio, l’architettura serviva a creare uno spazio congruo all’uomo, pensato a sua misura e in grado di garantire il vivere civile, per cui l’esigenza di decoro rappresentava un presupposto fondamentale. La sua idea di architettura coincideva con l’arte del costruire.
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Vista prospettica della città di Chaux, 1804. Progettata da Ledoux, sostenitore del principio della razionalità della forma contro il linguaggio del barocco, non fu mai realizzata a causa dell’imminente scoppio della Rivoluzione francese. Si trattava di una piccola città manifatturiera vicina alla foresta di Chaux, la cui costruzione rifletteva la divisione gerarchica del lavoro nella nuova comunità industriale.
ILLUMINISMO E RIVOLUZIONE INDUSTRIALE Contrapposto all’idea di architettura di Vitruvio troviamo Étienne Louis Boullée, il maggiore esponente dell’architettura dell’Illuminismo. Per lui l’arte del costruire era qualcosa di secondario, mentre il primo principio da seguire era la regolarità, la simmetria e il ragionamento. Come soleva dire lui “Nulla è bello se non è ragionevole”. In reazione all’edonismo del barocco e del rococò, Boullée ha privato i suoi edifici di qualsivoglia ornamento, persuaso dall’idea che l’unica insistenza decorativa ammessa fosse l’ombra, plasticamente generata dai contrasti tra le forme architettoniche. L’architettura scaturisce allora da una fusione di scienza e arte, messe però in un rapporto gerarchico preciso, poiché la prima lavora al servizio dell’altra essendo funzionale alla concretizzazione nello spazio del reale dell’idea architettonica. Contemporaneo a Boullée, Claude-Nicolas Ledoux ha progettato la città di Chaux, proponendo un modello di una nuova organizzazione sociale e urbana, nella quale la forma degli edifici indica l’attività che si svolge al loro interno. La forma della città è dunque il simbolo della comunità. Le utopie urbanistiche dell’800 in Inghilterra erano incentrate sui problemi causati dalla prima rivoluzione industriale. Ebenezer Howard formulò il concetto di Garden City. Si tratta di un modello urbanistico che ha, come principale obiettivo, quello di salvare la città dal congestionamento e la campagna dall’abbandono. Lo scopo fu di raggiungere contemporaneamente due vantaggi: gli agi e le comodità della vita urbana e gli aspetti sani e genuini della vita di campagna. Questa teoria, concepita non sotto forma progettuale, aspira a migliorare le condizioni di vita durante il periodo della prima rivoluzione industriale. 8
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Cenotafio di Newton, Bibioteca Nazionale di Parigi, 1784. È una delle più celebri opere di Boullée. Lo scopo del progetto era quello di generare nell’osservatore sensazioni tanto grandiose quanto inquietanti davanti a uno spazio che doveva riprodurre l’immensità dell’universo. La ciclopica cavità all’interno del cenotafio, occupata dal solo sarcofago commemorativo, avrebbe infatti offerto visioni cosmiche diverse.
Garnier progetta la sua città industriale dal primo all’ultimo edificio, concentrandosi quindi principalmente sugli aspetti tecnici. Presenta due considerevoli innovazioni: adotta per tutti gli edifici il cemento armato, e li adorna con uno stile spoglio. Non sono previste né caserme, né chiese, né un tribunale, né una prigione e nemmeno una stazione di polizia: secondo Garnier tutto ciò non aveva ragione di esistere in una società socialista.
Con vent’anni di anticipo Tony Garnier definì quello che sarebbe stato lo “stile internazionale” e con quarant’anni di anticipo stabilì quei princìpi di urbanistica che contraddistingueranno la Carta di Atene. [ Michel Ragon ]
La città industriale di Tony Garnier e la Garden City di Howard sono contemporanee. Con Garnier l’utopia urbanistica si separò definitivamente nelle sue due componenti: progettazione e politica. D’ora in avanti la progettazione sarà neutra, consentendo così uno slancio progettuale che avrà il suo apice nell’attività di Le Corbusier. Spesso la Cité Industrielle è stata contrapposta alla Garden City, ma in realtà essa ha numerosi punti in comune con il piano di Howard, così come con tutta la tradizione utopistica ottocentesca. Garnier attribuì autonomia economica e culturale alla sua città, riservando metà del suolo al verde pubblico. La articolò in zone diverse, come auspicato dai primi socialisti; immaginò una pianta a scacchiera, elemento caratteristico della tradizione utopistica; pose come ossatura della Cité Industrielle il tram elettrico, adeguandosi ai tempi. Allo stesso tempo non cercò di diluire la città in campagna né si basò sull’industria pesante di piccola dimensione, come aveva fatto Howard. Garnier non cercò mai di realizzare la sua Cité Industrielle, che rimase solo un piano sulla carta; ebbe però l’occasione di applicarne i principi ad una grande città, Lione. Anche Le Corbusier, che nel 1908 era stato a Lione proprio per incontrarsi con Garnier, resterà profondamente influenzato dalle sue teorie, che sono alla base della Ville Radieuse. Per combattere la disoccupazione in Inghilterra James Silk Buckingham in National Evils and Practical Remedies, with a Plan of a Model Town, pubblicato a Londra nel 1849, propose un nuovo modello di città da ripetere in serie. La prima di queste nuove città è Victoria, chiamata così in onore della regina d’Inghilterra. Nella città è prevista un’esplicita divisione di classi sociali e di ruoli, che si rispecchia nel modello urbanistico e nelle scelte stilistiche. Buckingham diede grande impor-
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Nella Falange non era prevista alcuna forma di potere coercitivo o di governo: nessuno avrebbe avuto necessità di violare o infrangere l’ordine sociale, risultante in modo spontaneo dalla completa armonizzazione dei desideri e delle necessità di tutti.
tanza agli aspetti igienici della città. Victoria infatti, come le città ideali del Rinascimento, nasce dal desiderio di ordine, che si contrappone al disordine circostante, al caos della città industriale. I principali obiettivi furono unire il massimo grado di ordine, spaziosità e igiene, nella massima abbondanza di aria e luce e nel più perfetto sistema di fognature, col comfort e la convenienza di tutte le classi. Questi principi li ritroviamo anche nei progetti di città realizzati di Bournville e Port Sunlight, nei quali si dà importanza alla salute e all’istruzione dei lavoratori. VITA DI COMUNITÀ Charles Fourier, citato tra gli urbanisti progressivi dalla studiosa Choay, grazie alle sue teorie diede il via ad una corrente interna ai filosofi utopisti chiamata fourierismo. Ovviamente anche questa teoria va calata nel suo tempo: Fourier infatti fondò la comunità socialista utopista chiamata La Reunion. In un periodo come quello della prima metà dell’800 il socialismo è sempre più un argomento centrale nella politica dell’epoca e chiaramente l’idea utopica del tempo si adegua a questo panorama sociale: da questa premessa si può capire il perché delle abitazioni collettive, che vennero abbandonate tempo dopo. Il falansterio di Fourier, ossia la struttura abitativa in cui si svolgeva la vita dei membri dell’unità sociale di base prevista nelle sue teorie e da lui denominata “falange”, avrebbe dovuto fondarsi sulla proprietà societaria ed essere autosufficiente dal punto di vista dei servizi e della produzione. Jean Baptiste André Godin fu un industriale con poco in comune con i riformatori sociali dell’800, tuttavia provò anche lui ad attuare
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Port Sunlight è un esempio di villaggio modello ideato da Lever, in cui la salute fisica e mentale dei lavoratori era al centro dell’attenzione progettuale del villaggio. La produzione principale di Port Sunlight era quella saponaria: in foto un pacchetto di sapone.
Il Karl-Marx-Hof è stato progettato per una popolazione di circa 5.000 persone, il complesso include diverse amenities, tra le quali lavanderie automatiche, asilo, casa del giovane, studi medici e dentistici, una biblioteca, un ufficio postale e uffici commerciali.
La comunità di Godin che nel 1886 comprendeva circa quattrocento famiglie, deve essere considerata l’esperimento più felice, fra quanti furono tentati nel secolo XIX dai teorici del socialismo. [ Leonardo Benevolo ]
una teoria fourierista dopo essere entrato in contatto con Victor Considérant, uno dei discepoli di Fourier. Il familisterio è un ridimensionamento del falansterio ed è basato sull’integrazione tra capitale e lavoro. Il familisterio si differenzia dal falansterio per due caratteri fondamentali: l’impresa produttiva è di carattere strettamente industriale, e non più agricolo-industriale come in Fourier, e ad ogni famiglia residente è concesso un alloggio autonomo. Si rinuncia così alla vita comunitaria prevista nel falansterio fourieriano, pur mantenendo i vantaggi assicurati dai servizi in comune; lo stesso concetto che è tra l’altro alla base della Unité d’Habitation di Le Corbusier. Un altro esempio di vita di comunità, anche se sotto un’ideologia politica diversa, è il Karl-Marx-Hof, che è il più famoso Gemeindebau, (traducibile con Edificio Municipale) di Vienna. All’inizio degli anni venti la zona venne scelta dal Partito Socialdemocratico d’Austria, per ospitare l’edificazione di un grande edificio di edilizia popolare. Il Karl-Marx-Hof venne costruito all’interno del cosiddetto periodo della Vienna rossa, fra il 1926 ed il 1930, su progetto dell’urbanista Karl Ehn. Anche se al momento la struttura dell’edificio è diversa dall’originale a causa delle ristrutturazioni, il Karl-Marx-Hof rimane un simbolo tangibile dei tumulti politici e sociali dell’epoca che sognavano un modo di vivere collettivo e condiviso come quello teorizzato dal fourierismo.
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Manifesto per il congresso del CIAM, “Congres International d’Architecture Moderne”, tenutosi a Bergamo nel 1949, progettato da Max Huber. Il congresso aveva l’obiettivo di discutere sull’applicazione pratica della Carta di Atene del 1933, il testo fondatore dell’architettura e dell’urbanistica moderna attraverso l’utilizzo della griglia, strumento proposto e spiegato da Le Corbusier durante il CIAM VI del 1947, presso Bridgwater, Inghilterra. Il congresso si concluse con la redazione della Charte de l’Habitat o Carta di Bergamo il 30 luglio.
NOVECENTO E AVANGUARDIE Nello stesso periodo si tennero i congressi internazionali di architettura moderna, anche chiamati CIAM, nati dal bisogno di promuovere un’architettura ed un’urbanistica funzionali. Fino al 1959 furono lo strumento più valido ed efficace per la diffusione e la discussione delle idee architettoniche e urbanistiche che hanno caratterizzato lo sviluppo del cosiddetto Movimento Moderno. Al centro delle discussioni ci furono i problemi della ricostruzione dei centri storici, della funzione dell’architetto e fu tentata la formulazione di una carta dell’habitat. I CIAM presentarono la Carta di Atene nel 1933, testo fondatore dell’architettura e dell’urbanistica moderna. Questo testo enunciava i mezzi per migliorare le condizioni di esistenza della città moderna, che devono permettere lo svolgere armonioso delle quattro funzioni umane: abitare, lavorare, divertirsi e spostarsi. Si trattava di un documento chiave per affrontare il problema urbanistico a livello sistematico. I principi cardine affermavano che con la progressiva industrializzazione della società era fondamentale che gli architetti e l’industria delle costruzioni razionalizzassero i loro metodi, adottassero nuove tecnologie e si sforzassero di ottenere una maggiore efficienza. Gli Archigram furono tra i maggiori esponenti di quell’atteggiamento sperimentale che nacque in architettura nei primi anni Sessanta del ‘900 e che, denunciando una forte volontà di emancipazione dalle eredità precedenti, si sviluppò in consonanza sia con il clima di rinnovamento linguistico delle altre discipline creative che con le mutazioni culturali e di costume della scena urbana. Il termine Archigram doveva 12
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Ascesa all’Acropoli. Foto di gruppo davanti ai Propilei. Dal 29 luglio al 14 agosto 1933 il piroscafo Patris II fu teatro del quarto incontro dei CIAM (Congrès International d’Architecture Moderne). Circa cento tra architetti, pittori, musicisti e poeti, provenienti da sedici diverse nazioni, in una crociera attraverso il Mediterraneo da Marsiglia ad Atene diedero vita a un incontro che avrebbe avuto un’enorme fortuna nell’immaginario degli architetti.
Walking City on the Ocean, progetto (prospettiva esterna), Ron Herron, 1966. Attraversando l’oceano, le unità di Herron’s Walking City rappresentano una sorta di utopismo tecnologico: i sottomarini militari sono combinati con esoscheletri simili a insetti e gambe periscopanti. Ogni unità della città contiene un insieme completo di risorse urbane.
Siamo alla ricerca di un’idea, un nuovo vernacolare, qualcosa che possa stare al fianco di navicelle spaziali, computer e pacchetti usa e getta di un’epoca atomico/elettronica. [ Warren Chalk ]
evocare un messaggio: telegramma, aerogramma ecc. Teorizzarono città che si collegavano come punti di una gigantesca rete, con progetti che prevedevano unità di abitazione semoventi e trasportabili o interi edifici che, simili a giganteschi ragni si aggiravano per la città, pronti a soddisfare i bisogni di una popolazione di tipo nomade. La tesi sostenuta da Archigram fu l’inizio di una serie di atteggiamenti mentali e di tecniche ormai divenute consuete per chi progetta gli spazi della città o costruisce con il supporto della tecnologia. Essi riuscirono in ciò non tanto per quello che realizzarono, quanto perché contribuirono a rifondare concettualmente la disciplina, allargandola fino a comprendere ogni elemento che potesse contribuire ad arricchirla, in un percorso di evoluzione culturale. UTOPIA ED ECOLOGIA Dopo aver affrontato l’excursus storico su come l’architettura dell’utopia si è evoluta nel tempo, è importante analizzare come l’eredità di queste idee e ricerche sia arrivata ai giorni nostri. Herbert Marcuse scrive nel libro La fine dell’utopia che le utopie si possono dividere in due categorie. Nella prima categoria rientrano le utopie irrealizzabili, e sono quelle che vanno contro le leggi scientifiche, biologiche o fisiche, per esempio l’eterna giovinezza o la perfezione umana. Le utopie realizzabili sono quelle che al momento non si possono realizzare, non perché sono proposte di progetti non realizzabili, ma semplicemente perché la società non è pronta o le condizioni sociali sono sfavorevoli per la messa in opera di tali progetti. La “fine dell’utopia” te-
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orizzata da Marcuse rappresenta la realistica visione di una modernità tecnologica possibile, in grado di realizzare, nel presente e con le giuste potenzialità economico-sociali, la costruzione di un mondo più giusto, pacifico, creativo, estetico e non alienato. Ci sono effettivamente state delle utopie realizzabili nella storia, come ad esempio la teoria di città ideale di Adriano Olivetti, il quale sognava una comunità che avrebbe accolto tutti, non come individui massificati o atomi sociali senza avvenire, ma in quanto persone pienamente realizzate e sviluppate. Il proposito di Olivetti era conciliare uomo e tecnica, immettere lo spirito nella materia e favorire al massimo grado la cultura e la sua diffusione. Anche il concetto di rigenerazione urbana si fonda sugli stessi precetti di utopia realizzabile preposti da Marcuse. Al giorno d’oggi la panoramica socio-politica è cambiata rispetto alle realtà che sono state analizzate e i problemi che il mondo presenta adesso sono diversi e complessi: per questo l’architettura utopica deve necessariamente stare al passo con i cambiamenti della società. Uno di questi problemi è stato rilevato ed esposto nel libro The limits of growth da una associazione non governativa e non-profit di esperti, i quali hanno trattato il tema della limitatezza delle risorse e il limite della crescita umana. Nelle conclusioni gli autori pongono l’accento sul fatto che, per non arrivare ad una catastrofe ambientale, abbiamo bisogno di una nuova etica e dobbiamo cambiare atteggiamento verso la natura. Nasce da qui la consapevolezza di proteggere l’ambiente che ci circonda. Il libro contiene anche un messaggio di speranza: l’uomo è in grado di creare una società che può vivere indefinitamente sulla terra a patto di porre dei limiti a sé stesso e alla sua produzione di beni materiali, in modo da raggiungere uno stato di equilibrio globale tra popolazione e produzione. Il filosofo norvegese Arne Næss propone di sostituire l’ecologia superficiale odierna con un’”ecologia profonda”, in modo da riallacciare il rapporto concettuale e fisico con la natura, di cui l’uomo è parte e a cui l’uomo non è superiore. Questa teoria è anti antropocentrista (e di conseguenza antispecista) e propone un modo di vedere il rapporto uomo-natura-architettura sostanzialmente ecocentrico. Come è stato teorizzato dall’ecologia morale, per attuare una presa di coscienza generalizzata riguardo alla natura bisogna abbandonare il positivismo, che predica il dominio sulla natura tramite l’evoluzione progressiva della tecnica, il quale è in grado di portare ad una produzione e consumo illimitato di beni materiali.
I sostenitori dell’ecologia poco profonda pensano di poter modificare le relazioni dell’uomo con la natura, all’interno della struttura della società oggi esistente. [ Arne Næss ]
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ECOARCHITETTURA È una branca dell’architettura che si occupa di individuare e realizzare nuovi progetti di architettura sostenibile. Grazie al graduale cambiamento di prospettive dovuto in gran parte all’ampliamento del concetto di sostenibilità, le nuove ipotesi costruttive dell’ecoarchitettura mirano a un graduale sfruttamento delle risorse rinnovabili finalizzate alla costruzione di abitazioni private ma anche di edilizia sociale. La compatibilità ecologica va vista sia nell’ottica dell’utilizzo di materiali locali e sia in relazione al posizionamento dell’abitazione, che dovrà rispondere ai requisiti climatici della zona in cui sorge.
(In ordine, dall’alto in basso) MINIMOD è un’esplorazione sull’esperienza del paesaggio e della tecnologia progettato dallo studio Mapa Architects. Si presenta come un rifugio primitivo con una reinterpretazione contemporanea, che più di un oggetto mira a diventare un’esperienza di paesaggio remoto. Il suo design compatto ed efficiente migliora l’ambiente in cui è installato e li trasforma in paesaggi disponibili. Adagiato su un enorme terreno in pendenza tra le catene montuose, si trova il progetto De Capoc, un resort progettato dallo studio IDIN Architects di Bangkok. Il resort si trova nel distretto di Khao Kho in Thailandia, famoso come area di ritiri spirituali e che offre le migliori viste sul mare di nebbia della valle. Circondato da alberi e montagne, il sito del progetto è completamente avvolto dal verde e dalla natura. L’Art Biotop “Water Garden” progettato dallo studio Junya Ishigami+Associates è un giardino botanico, realizzato nella prefettura di Tochigi, in Giappone. L’architetto Junya Ishigami crea un “paesaggio costruito” usando, come materiali da costruzione, gli elementi naturali a sua disposizione, come alberi e acqua.
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CIVITAS SOLIS IDEA FILOSOFICA DI UNA REPUBBLICA
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a Città del Sole fu scritta nel 1602 dal filosofo italiano Tommaso Campanella, nato in Calabria nel 1568, egli entra giovanissimo nell’ordine domenicano e si forma nella filosofia aristotelica. Nel 1591 ci fu una prima condanna da parte dell’Inquisizione, per eresia ed infrazioni disciplinari; durante il 1599 cercò di organizzare una rivolta in Calabria, per creare una Repubblica organizzata in modo tale da garantire prosperità e felicità ai suoi cittadini. Tuttavia, alcuni congiurati che aveva coinvolto lo tradirono, denunciandolo agli spagnoli. Fu imprigionato e torturato nel Castello Nuovo di Napoli, dove rimase per i successivi 27 anni e lì che scrisse in condizioni di fortuna numerose opere oltre a questo testo. Una volta libero riprese le sue battaglie politiche e religiose, battendosi per l’eguaglianza sociale e per azioni missionarie, concependo il cristianesimo come religione perfettamente razionale. Nel 1634 seppe in tempo che il governo di Napoli l’accusava d’essere il mandante di un’altra congiura e riuscì così a fuggire a Parigi, dove trascorse gli ultimi anni e dove morì nel 1639. La Città del Sole è un utopia e gli utopisti considerano con occhio critico la propria società e ne descrivono una inesistente, ma perfetta e felice. Egli non ha mai rinunciato a questo suo
ideale di rinnovamento radicale, anche se lo ha via via ripensato nelle forme della sua possibile attuazione, lui si sentiva non soltanto filosofo e profeta ma anche politico. L’opera consiste in un dialogo tra un cavaliere di Malta e un ammiraglio genovese, il quale ha appena fatto ritorno dal giro del mondo ed espone al suo interlocutore la vita di una città, chiamata Città del Sole, che si trova sulla linea dell’Equatore e dove esiste una società felice, che non conosce conflitti interni, corruzione, inimicizia, invidie, tradimenti o fame. Il dialogo costruito da Campanella è una sorta di visita guidata alla città gli serve per illustrare la sua teoria ideale sulla migliore forma di governo, viene spiegata infatti tutta la composizione della città, a livello progettuale, sociale, politico. Questa città si trova sull’isola di Taprobana (nome con cui gli antichi greci conoscevano l’isola di Sri Lanka) ed è eretta su un alto colle; è circondata da sette cerchia di mura, praticamente inespugnabili, ognuna delle quali porta il nome di uno dei sette corpi celesti presenti nel sistema solare, mentre le entrate per accedere alla città sono quattro, situate in corrispondenza dei quattro punti cardinali. Alla sommità del monte si trova un tempio di forma circolare, consacrato al Sole, sulla cui volta
A sinistra Copia di una cartina geografica dell’isola di Taprobana (Sri Lanka) disegnata nella mappa del mondo realizzata sulla descrizione contenuta nel libro di Tolomeo scritto circa nel 150 d.C., è il luogo dove originariamente doveva sorgere la Città del Sole, 1580. A destra Dipinto olio su tela del calabrese Tommaso Campanella, viene attribuito ad Antonio Barbalonga, Beauvais, Musée Départemental de l’Oise, 1639.
Civitas Solis
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sono dipinte le stelle maggiori. Esiste anche una gerarchia di poteri che stabilisce un ordine nella gestione della società e delle attività legate ad essa; in cima a questa scala gerarchica è presente il Sole, un sacerdote-capo della città che assieme ad altre figure importanti detti “principi collaterali” amministra la città. L’opera del filosofo domenicano è quindi una preziosa testimonianza della sua passione e delle sue speranze di fronte ad una realtà presente dal carattere tragico. È un’opera che comprende le ambizioni delle menti più pronte d’Europa nel diciassettesimo secolo, di fronte al declino irreversibile del sistema feudale; di fronte alle nuove scoperte geografiche; di fronte alla fine dell’unità spirituale dovuta alla Riforma; e di fronte al progresso scientifico che andava sviluppandosi in quegli anni.
SISTEMA SOLARE
Il primo aspetto che viene trattato nel libro scritto da Campanella è la struttura urbanistica della Città del Sole. L’inespugnabile città presenta una struttura cosmologica basata sull’universo tolemaico secondo cui i pianeti ruotavano seguendo delle orbite circolari, più precisamente la città è costituita da sette cerchi concentrici di mura fortificate che raggiungono un diametro di due miglia e nelle quali si può accedere solo tramite quattro ingressi situati in corrispondenza dei quattro punti cardinali e solo attraversando tutti e sette i gironi si può arrivare alla sommità del colle, che si presenta come un’estesa pianura. I sette cerchi hanno ognuno un nome di un diverso corpo celeste del nostro sistema solare e ognuna di esse racconta una disciplina oppure
una particolare scienza, un po’ come se fosse un’enorme enciclopedia di immagini e forme. Partendo dal più esterno, ovvero Saturno comprende all’interno tutte le figure matematiche, facendo riferimento anche a Euclide e Archimede e all’esterno la cartina geografica della terra e riti, usi, leggi e costumi di ogni popolo; il secondo girone, Mercurio ha all’interno l’elenco di tutte le pietre preziose e non preziose, Di più questo è bello, minerali e metalli, fuori che fra loro non ci è difetto invece sono scritti tutti i mari, fiumi, vini, oli e che faccia l’uomo ozioso, liquori; il terzo cerchio se non l’età decrepita, è Marte e sono elencate quando serve solo per consiglio. tutte le erbe e arbusti presenti nel mondo con tutte le loro proprietà all’interno, mentrer all’esterno ci sono tutti i pesci di lago, fiume o mare; Giove è il quarto cerchio e dentro sono scritti tutti i tipi di uccelli e fuori i rettili, serpenti e insetti; nel quinto girone, ovvero Venere, sono scritti sia dentro che fuori tutti i mammiferi con tutti vari studi relativi; il sesto anello è la Luna che comprende al suo interno tutte le arti meccaniche con i vari inventori, fuori invece sono presenti gli inventori delle leggi e scienze delle armi, profeti e divinità; il settimo e ultimo cerchio comprende il tempio che si trova in cima al colle, che è per l’appunto il Sole. Il tempio del Sole è perfettamente tondo e nella cupola sopra l’altare è presente un’altra più piccola in mezzo (dove ci sono le camere in cui vivono i sacerdoti), con uno spiraglio al di sopra dell’altare, circolare e in croce spartito. Sopra vi sono due mappamondi, uno dov’è dipinto il cielo, l’altro la terra. Sulla cupola sono raffigurate la volta celeste e le stelle, con i loro nomi e per ognuna tre versi che spiegano la loro influenza sulla vita degli uomini.
In alto, a destra Modello eliocentrico del Sistema Solare, estratto dal manoscritto astronomico in lingua latina di Copernico, De Revolutionibus orbium coelestium, Norimberga, 1543. A sinistra Civitas Veri, illustrazione di Bartolomeo Del Bene, 1609.
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con più di vent’anni partecipano alle assemblee e possono esprimere le loro opinioni; le leggi sono brevi e chiare e non esistono lunghi processi o pene detentive: per punire si ricorre alla legge del taglione, inoltre è presente anche un torrione dove vengono mandati e rieducati i ribelli, infliggendo punizioni per “curare” i loro vizi.
LEGAMI FILOSOFICI
IL SOLE E I SUOI PRÌNCIPI
Questa utopia pedagogica è governata da un capo supremo, un Principe Sacerdote, chiamato Sole o Metafisico, dotato del potere sia spirituale sia temporale e il quale ha ai suoi ordini tre prìncipi (i principi collaterali), Pon, Sin e Mor, ovvero il Potestà, Sapienza e Amore. Pon è una specie di ministro della guerra e si occupa infatti, della guerra, della pace, dell’esercito, della fortezza e delle armi. Sin, si cura delle scienze e delle arti, e ha ai suoi ordini degli ufficiali e maestri, “l’Astrologo, il Cosmografo, il Geometra, il Loico, il Rettorico, il Grammatico, il Medico, il Fisico, il Politico, il Morale” e amministra anche la vita intellettuale; Mor si cura della generazione degli abitanti della città, decidendo anche l’accoppiamento, si occupa inoltre dell’educazione, della salute, dei farmaci e del vestiario dei cittadini. Nella città del sole il potere religioso e quello politico sono uniti. Il Sole è sia sovrano politico sia «sommo sacerdote» e per questo motivo egli presiede i sacrifici e le preghiere, inoltre nelle camere presenti nel tempio vivono ventiquattro sacerdoti esperti in astrologia e altri personaggi religiosi. Per quel che riguarda la politica, tutti i solari
La filosofia che caratterizza la Città del Sole si basa sul fatto che il criterio per scegliere il capo è la sapienza, infatti il Sole deve sapere tutto e soprattutto deve essere filosofo; queste due caratteristiche sono per Campanella un antidoto contro la crudeltà e la tirannia. Un altro aspetto da considerare è che non esiste alcuna forma di proprietà privata, infatti, l’abolizione della proprietà privata è l’elemento centrale, e il più radicale, della proposta di Campanella. Secondo lui la proprietà privata causa conflitti, dolori, gelosie e tutti i mali di tipo sociale, quindi se i beni sono comuni, ciascuno ha accesso a ciò di cui ha bisogno e nessuno soffre la mancanza di alcunché. Campanella, che si batte per una profonda rivoluzione sociale e politica, ritiene, come Platone, che cambiando il sapere e l’educazione si apra al rimedio radicale di tutti i mali della società. Infatti, insiste sul carattere non libresco della cultura dei Solari, che educano i bambini, tutti i bambini, non in classi e in banchi scolastici, ma in rapporto diretto con le cose e intorno alle mura della città, sulle quali è illustrato tutto il sapere. Descrive una pedagogia della concretezza, della spontaneità e di sano esercizio fisico, con molta attenzione alle attitudini dei bambini. Il regime economico e politico è comunistico: non c’è proprietà privata, neppure dei vestiti e dei beni di consumo più personali, e non c’è la famiglia. Evidentemente, Campanella s’ispira a Platone, ma radicalizza il modello in senso egualitario. Se Platone limitava la comunione dei beni e l’abolizione della famiglia ai filosofi e ai militari, per avere una classe dirigente unita come una sola famiglia, Campanella estende il regime a tutti i cittadini. Non ci sono classi sociali o ceti privilegiati, non c’è clero né aristocrazia, non ci sono professioni nobili e mestieri ignobili. Conta l’utilità sociale di ciò che ciascuno fa e come lo fa, perché il solo titolo di nobiltà è servire bene gli altri. Civitas Solis
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A Tommaso Campanella, come anche a Thomas More, premeva particolarmente la dimensione morale della politica, valori come giustizia ed equità; entrambi pensano ad un modo di vedere la politica come dovrebbe essere e non come effettivamente era. La visione molto più realistica di Campanella, rispetto a quella di More, ci spiega come lui non creda nella perfezione naturale dell’uomo, al disinteresse altruistico spontaneo, e non lascia perciò che ogni cittadino prenda liberamente quanto gli può necessitare nei magazzini pubblici incustoditi. Tutta l’educazione della Città del Sole mira a sradicare dall’animo umano l’egoismo, i cittadini sono amici tra di loro in modo sincero, perché non esistono amicizie dovute a interessi personali in quanto condividendo tutto nessuno può donare qualcosa a qualcun altro, ma si vuole stroncare ogni possibilità di cadere in fallo; una rigida gerarchia elettiva regola perciò tutti gli incarichi e aspetti della vita sociale. 20
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I D E A D E L L A G I U S TA S O C I ETÀ
Nell’idea proposta Campanella la società è formata da uomini buoni e privi di sentimenti negativi come potrebbero essere, gelosia, rancore e voglia di essere migliori degli altri, infatti nella Città del Sole, tutti gli abitanti sono uguali, di stesso livello sociale, senza che nessuno sia superiore all’altro, ovviamente c’è il Metafisico, lui non è lì perché è risultato migliore degli altri in qualcosa, ma si trova li perché è riuscito ad assorbire tutte le conoscenze in maniera eccellente, tutte le attività, sia quelle amministrative sia quelle manuali, come potrebbe essere l’agricoltura. Tutti gli abitanti infatti, vengono educati in ugual modo, che siano di sesso maschile o femminile, vengono educati alla lotta e all’educazione militare, entrambi i sessi anche in questo caso, tutti devono essere preparati alla protezione della città quando, e se, sarà in pericolo.
In alto, a sinistra Tránsito espiral, Remedios Varo (1918-1963). Opera in olio su tela di una struttura a spirale che rimanda al pensiero utopistico di Tommaso Campanella, 1962. A destra Vtopiae insulae figvra (L’isola di Utopia), Xilografia dalla prima edizione dell’opera omonima, Lovanio, 1516.
Nell’isola di Taprobana gli abitanti lavorano per sole quattro ore al giorno poiché sono in grado di lavorare sia in modo intellettuale che pratico per tutta la durata delle quattro ore (a tal proposito, Campanella, per spiegare che quattro ore al giorno di lavoro per tutti sono più che sufficienti riporta la situazione della Napoli del seicento in cui, in regime di proprietà priEd in campagna, nei lavori vata, su trecentomila abie nella pastura delle bestie tanti lavoravano solo uno su sei e l’ozio e la povertà pur vanno ad imparare; devastavano tutti gli uoe quello è tenuto di più gran mini). Il tempo restante nobiltà, che più arti impara, viene impiegato in attività e meglio le fa. ricreative, attività ludiche che però devono sempre avere un fine riconducibile al sapere. La stessa educazione dei bambini si basa sull’”imparare giocando”. Infatti i bambini vengono fin da piccoli, all’età di tre anni, separati dalla propria famiglia e cominciano ad essere istruiti da dei maestri, che portano i bambini ad ammirare le mura della città poiché colme di tutto il sapere che un cittadino deve possedere, e valutano in quale attività i bambini siano più interessati e portati. Attraverso le immagini raffigurate nelle mura e i libri che vi sono scolpiti, i bambini acquisiscono ben presto un sapere enciclopedico. La scuola non si svolge al chiuso perché ai ragazzi non deve essere imposta l’istruzione. Gli abitanti della Città del Sole non conoscono gli egoismi, gli orrori della guerra e della fame e le violenze che ci sono nel resto del mondo. La città è organizzata in modo totalmente razionale. Essa viene controllata da un gruppo di persone chiamati “offiziali” che vigilano continuamente in modo che nessuno possa compiere azioni non giuste nei confronti di altri cittadini. Esiste un’offiziale per ogni virtù: Liberalità, Magnanimità, Castità, Fortezza, Giustizia criminale e civile, Operosità, Verità e così via. Gli offiziali sono eletti da piccoli in base alla virtù alla quale più sono inclini. Le leggi sono incise su tavole di rame e impongono una condotta di vita molto rigorosa. Non esistono le carceri che però sono sostituite da un torrione dove vengono confinati i cittadini che non seguono le leggi nella loro interezza come invece fa il resto della comunità. Come nella Repubblica di Platone, nella città non vi è la proprietà privata, infatti i cittadini sono tenuti a condividere la stessa mensa ed a indossare i medesimi vestiti, infatti, tutti vestono di bianco dall’età adolescenziale, mentre
quando sono ancora bambini vestono in maniera colorata e allegra, durante il giorno i cittadini possono indossare solo indumenti di colore bianco e di notte solo di colore rosso, mentre il nero è vietato perché considerato “feccia delle cose”, in quanto sinonimo dell’ombra. Inoltre la stessa educazione viene sottoposta ad ogni cittadino ed ognuno di loro ha pari opportunità: i beni privati sono inesistenti perché indurrebbero alla violenza e anche all’egoismo. I “solari” seguono minuziosamente delle regole dietetiche e i loro pasti si basano sull’assunzione di carne, frutta e verdura, poiché pensano che sia le piante sia gli animali soffrano e che quindi tra l’uccidere gli uni o gli altri non ci sia differenza. Gli anziani mangiano tre volte al giorno, i giovani quattro e il resto della comunità due. Non bevono molto: i giovani non possono bere vino prima dei diciannove anni e quando hanno raggiunto quest’età lo bevono mischiandolo con l’acqua. Solo dopo in cinquant’anni lo si può bere puro. La dieta viene decisa ogni giorno dai medici della città, i quali devono fornire anche il loro servizio e le loro cure a tutti, senza distinzioni. Gli offiziali posseggono il cibo più pregiato, ma non raramente decidono di dare il loro cibo a chi, durante la giornata, si è saputo distinguere in gare di armi o di scienze. L’amore nella Città del Sole è un sentimento fondamentale, però, quando si tratta di sentimento tra due persone bisogna fare attenzione, infatti i matrimoni non esistono e uomini e donne possono quindi avere più partner sessuali, questo per favorire la prosperità della città, due persone possono decidere di avere figli, ma se la prole non è sana, non potranno più avere rapporti, finché la donna non sarà infertile. Nella Città del Sole non ci sono discriminazioni, infatti anche i disabili trovano il loro posto dentro la società proprio come gli altri, se gli manca un arto o non lo sa usare al meglio, troverà un lavoro che sarà adatto a ciò che riesce e ciò che può fare. Le madri quando devono concepire vanno a farlo in stanze comuni con altre donne che sono li per la stessa cosa, dopo il parto allattano i bambini fino ai 2 anni di vita, questo per farli crescere nella maniera più salutare possibile, poi vengono separati dalle madri e già a tre anni iniziano ad imparare. La vita dei Solari è solitamente lunghissima e a volte essi riescono ad arrivare anche ai duecento anni, in quanto il loro stile di vita è ottimo e sono capaci di sanare qualunque malattia o dolore, con preghiere e l’uso delle erbe. Civitas Solis
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Per quanto riguarda le usanze che praticano i solari, festeggiano ad ogni cambio di stagione e negli anniversari della fondazione della città, in cui ballano e cantano. I poeti cantano le gesta degli eroi, gesta vere e non inventate. Chi narra storie non vere è punito e non può essere ritenuto poeta. Si costruiscono statue solo in onore dei morti, ma i grandi uomini vengono ricordati per le loro scoperte o imprese nel libro degli eroi quando sono ancora vivi. I corpi dei defunti non vengono seppelliti, ma bruciati, per evitare che diffondano pestilenze e in modo tale che si trasformino in fuoco, elemento vivo, che viene dal sole e torna a lui.
U N C U LT O N A T U R A L E
Il sommo sacerdote è il Sole. Sacerdoti sono anche tutti gli altri offiziali, il cui compito è quello di rendere pure le coscienze attraverso la confessione. Anche gli offiziali confessano i loro peccati, e quelli degli estranei, senza nominarli, a Pon, Sin e Mor, che a loro volta si confessano con il Sole. Questo viene a conoscenza di tutti i vizi che tormentano la città e compie un sacrificio, durante il quale confessa pubblicamente le sue colpe e quelle del popolo, che viene in questo modo assolto. Dopodiché chiede chi tra i cittadini si voglia sacrificare a Dio, garantendo la difesa di tutti i Solari. Colui che si offre viene posto su una tavola legata da quattro funi e mandato sulla cupoletta del tempio, dove trascorre venti o trenta giorni pregando e mangiando a stento cibo datogli dai sacerdoti che vivono nelle celle intorno, ed infine o torna tra gli uomini e viene tenuto in grande stima, o si fa sacerdote. Sopra il tempio vivono ventiquattro sacerdoti che pregano e osservano continuamente le stelle, da cui ricevono notizie su ciò che accadrà in futuro: sono gli intermediari tra Dio e gli uomini. Scendono dal tempio solo per i pasti e non hanno dei rapporti con donne, se non per rispondere alle necessità del corpo. Il Sole li consulta per sapere tutto ciò che hanno scoperto sulla città e sul resto del mondo, mentre nel tempio ogni ora c’è qualcuno che prega; si danno il cambio per quarantotto ore. La religione dei cittadini sembra molto somigliare a quella cattolica anche per il fatto che la popolazione crede in un dio e nella maggior parte dei dogmi del cattolicesimo. Nonostante ciò, i “solari” onorano non solo Gesù, ma anche 22
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Osiride, Zeus, Mosè e Maometto. Sono presenti anche accenni riguardanti l’astrologia, che il cattolicesimo non avrebbe accettato e sicuramente proibito. Non ritengono possibile che l’universo sia eterno, bensì pensano sia stato creato, o dalla fine di altri mondi o dal Caos. Onorano il sole e vi vedono l’immagine di Dio, perciò nella loro città tanti oggetti sono circolari (il tempio, le mura, l’altare…). Non sanno quali siano i luoghi di pene e premi in cui andremo appena morti, ma credono che l’anima sia immortale. Pensano che l’Ente, Dio supremo, e il Niente, l’assenza di essere, siano i due principi metafisici, da cui si crea l’Essere finito. Credono nella Trinità, infatti considerano Dio come unione tra Non temono la morte, Potenza, Sapienza e Amoperché tutti credono re, non come Padre, Figlio l’immortalità dell’anima, e Spirito Santo, perché non hanno avuto come e che, morendo, s’accompagnino noi la Rivelazione. Tutti con li spiriti buoni o rei. gli enti ricevono l’essenza da Potenza, Sapienza e Amore, perché prendono parte all’essere, e Impotenza, Ignoranza e Disamore, poiché partecipano anche al non essere: a cause delle prime tre si comportano virtuosamente e vengono indotti al peccato dalle altre tre.
DIFESA E ISTRUZIONE
La Città del Sole che aveva in mente Campanella era quindi una città di fondazione, ovvero un tipo di città che non è nata spontaneamente, ma che invece è stata studiata proprio nei minimi dettagli a livello urbanistico per poter essere lei stessa un sistema organizzativo di attività, luoghi, ecc.; la parte fondamentale di queste città è detta “nucleo di fondazione”, il quale, tramite un intervento unitario, è di solito realizzato in tempi brevi e con una precisa conformazione geometrica spesso caricata di significati simbolici e modelli ideali (città ideale). Molte città dell’epoca romana sono state realizzate attrverso un preciso piano urbanistico detto “castrum”, basato su due assi perpendicolari: il cardo massimo (molto spesso in asse nord-sud) e il decumano massimo (est-ovest): al loro incrocio, al centro simbolico e funzionale ma non sempre geometrico della città, sorgeva il foro, lo schema che veniva a formarsi era solitamente ortogonale e quin-
A sinistra Copertina della versione in latino della Città del Sole (titolo originale: Civitas Solis) scritta da Tommaso Campanella, Francoforte, 1623. In alto, a destra Piano urbanistico della cittò di Palmanova in Friuli-Venezia Giulia, Braun & Hegenberg, 1593.
di la forma delle città risultava generalmente quadrangolare. Tra le città di fondazione italiane non si può non nominare Palmanova sorta nel 1593 in Friuli Venezia-Giulia, la cui urbanistica può anche essere collegata in un certo senso a quella della Città del Sole. La particolare struttura della città è dovuta dal fatto che durante il periodo veneto la fortezza fu dotata di due cerchie di fortificazioni con cortine, baluardi, falsebraghe, fossato e rivellini a protezione delle tre porte d’ingresso alla città. Palmanova fu concepita soprattutto come macchina da guerra: il numero dei bastioni e la lunghezza dei lati furono stabiliti in base alla gittata dei cannoni del tempo. La sua struttura aveva quindi lo scopo di garantire una maggiore resistenza in ambito bellico, come descrisse Campanella nella sua immagine delle e questa sua conformazione si ripercuote in tutta la parte interna della città, la quale presenta, come la Città del Sole, una divisione a cerchie, anche se non con uno scopo diverso da quelle presenti nell’utopia di Campanella, infatti nel corso della sua storia, Palmanova ha continuato a subire miglioramenti per fortificarne la struttura; la prima cerchia è stata costruita tra il 1593 e il 1620, la seconda nel periodo della Serenissima tra il 1665 e il 1683, mentre l’ultima cerchia, ri-
salente al periodo napoleonico è stata realizzata tra il 1806 e il 1809. “Città del Sole”, è anche il nome dei negozi del gioco creativo, che propongono un’ampia offerta di giocattoli per bambini e ragazzi da 0 a 14 anni. Per il nome del negozio di giocattoli per bambini, Carlo Basso, il prorietario, si è ispirato proprio all’utopia di Tommaso Campanella, facendo riferimento alla grande attenzione nei confronti dei bambini e al principio pedagogico dell’«imparare giocando», per cui «li figliuoli, senza fastidio, giocando, si trovano saper tutte le scienze». Infatti il gioco creativo che caratterizza Città del Sole raccoglie l’eredità dell’“imparare giocando” del gioco educativo, ma evita l’aspetto più didascalico e serioso. Nonostante le poche conseguenze che ha avuto l’ideale utopico di Tommaso Campanella, la Città del Sole resta tutt’oggi un’opera di immenso valore letterario che ci fa capire come il desiderio di una società perfetta sia da sempre insito nella mente delle persone.
Civitas Solis
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IL MODELLO UTOPICO NEOCLASSICO DI LEDOUX
Durante il periodo illuminista nuovi principi di razionalità governano le discipline. Anche l’architettura risponde a nuove istanze, di natura igienica, politica, sociologica ed economica. Claude-Nicolas Ledoux, architetto Neoclassico e rivoluzionario, progetta la città ideale di Chaux: questa nasce come rielaborazione del progetto per le saline reali di Arc-et-Senans, ed è organizzata su pianta circolare, secondo principi di funzionalità.
L’
Mappa generale dei dintorni delle “Saline di Chaux”. Tavola 14 ,Architettura considerata in relazione ad arte, costumi e legislazione, Parigi, 1804
opera utopica che andremo a narrare in questo capitolo è la città di Chaux, in Francia. Teorizzata dall’architetto francese Claude-Nicolas Ledoux, la città è concepita secondo gli ideali illuministi. Le geometrie e forme degli edifici riprendono la corrente neoclassica, anche se con alcune modifiche. Queste correnti del pensiero e delle arti erano le predominanti all’epoca di Ledoux, ovvero il ‘700. L’arte neoclassica è strettamente legata all’Illuminismo, si può infatti definire come “l’arte della ragione”; si manifestò all’incirca tra la metà del Settecento e i primi dell’Ottocento, concludendosi con la caduta di Napoleone, nel 1815. Gli artisti neoclassici condividono la volontà di indirizzare l’arte verso un’indagine scientifica della realtà. Poco spazio viene quindi lasciato all’evasione fantastica e alle deformazioni e distorsioni emozionali, mentre ci si concentra sui valori di rigore, equilibrio, chiarezza. La geometria, le proporzioni e il calcolo anche nel dosaggio dei colori e dei toni chiaroscurali soppiantano gli svolazzi, l’arbitrarietà, la visione spensierata e le frivolezze del Rococò e diventano gli elementi fondamentali con cui si può riconoscere il nuovo stile. Le basi razionali su cui si fondano il disegno, le tecniche e le composizioni delle opere neoclassiche riflettono una profonda necessità di affermare la libertà dell’uomo moderno, raggiungibile attraverso la ragione, la conoscenza e l’intelligenza. Il Neoclassicismo non si è sviluppato soltanto sulla sperimentazione artistica condotta dagli atelier e dalle accademie ma anche su una riflessione teorica articolata ed erudita con una base filosofica nettamente il-
luminista. L’estetica neoclassica, infatti, non è stata teorizzata da artisti ma da intellettuali aderenti all’Illuminismo. Centrale fu la figura dello storico dell’arte e archeologo tedesco Johann Joackim Winckelmann che elaborò la concezione di bellezza ideale. Due furono i suoi scritti principali: le Considerazioni sull’imitazione delle opere greche nella pittura e nella scultura, del 1755 e la sua Storia dell’arte dell’antichità, del 1764. In queste opere fissò i principi del Neoclassicismo, fondati su 4 punti: • una particolare reinterpretazione dell’arte classica, ritenuta come esempio di perfezione assoluta e assunta come modello. • la “nobile semplicità e quieta grandezza”, che si contrappone agli eccessi e alle irregolarità del Barocco e del Rococò. • la “grazia” intesa come armonia, equilibrio e “gradevolezza secondo intelletto”. • l’arte intesa come espressione di valori morali e stimolo al miglioramento etico della società. A differenza di altri architetti del tempo, Ledoux non ebbe esperienza diretta dell’architettura classica con un viaggio a Roma, ma l’acquisì dai suoi maestri. Tuttavia Ledoux maturando sviluppò un linguaggio proprio, lontano dalla ricerca del bello assoluto di matrice greca. Ledoux si discosterà leggermente dalla corrente neoclassica, in quella che verrà chiamata a posteriori Architettura Rivoluzionaria. La sua architettura prediligerà forme pure e subirà il fascino del simbolismo, ovvero, forme futuristiche, con alto valore simbolico e visionario e la stretta correlazione tra forma e funzione, divenendo l’incarnazione di quella che, nel 1852, Léon Vaudoyer definirà “architettura parlante”. Purtroppo i progetti più innovativi di Ledoux sono quelli che meno hanno avuto la possibilità di prendere forma, avendone noi una testimonianza per lo più attraverso incisioni e illustrazioni.
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A sinistra: Claude Nicolas Ledoux, Progetto per l’officina dei carbonai, Sopra: Jean-Baptiste Hilair, Illustrazione del Panthéon di Parigi, 1795, Bibliothèque nationale de France. Ledoux pur facendo parte del movimento del Neoclassicismo se ne discostò in alcune caratteristiche. Comparando il suo progetto per l’Officina dei carbonai con il Panthéon di Parigi si nota la caratteristica delle opere di Ledoux: la ricerca nella costruzione dell’intersezione di figure geometriche e il rifiuto di ornamenti.
Ledoux: Dalle Saline Reali alla città ideale di Chaux
Claude Nicolas Ledoux, architetto. (21 marzo 1736, Dormans, Francia; 18 novembre 1806, Parigi, Francia).
Nato a Dormans nel 1736, pur provenendo da una famiglia modesta Ledoux ebbe l’opportunità di studiare a Parigi al Collège Beauvais, grazie ad una borsa di studio. Presto padroneggiò l’arte dell’incisione al punto da riuscire a mantenersi vendendo scene di battaglie. Col passare del tempo però, si interessò all’architettura, e si iscrisse all’Ecole des Arts, fondata dall’architetto J.F. Blondel, per poi mettere in pratica i suoi insegnamenti dal 1757, presso la bottega di L. F. Trouard. Dal 1771 e per i successivi ventitré anni l’architetto fu ispettore delle saline statali nella Franca Contea. Grazie all’incarico ebbe modo di progettare e far costruire le saline di Chaux, presso il villaggio di Arc-et-Senans, vicino Besançon. All’epoca il sale era un bene di primaria importanza, usato per conservare i cibi e pesantemente tassato. Nella regione si estraeva attraverso pozzi salini, vaporizzando l’acqua con l’uso di forni a legna. Proprio per questo la salina si trova vicino alla foresta, per avere a disposizione legname, mentre l’acqua veniva portata lì attraverso un canale. Le saline furono progettate con nuovi principi di razionalizzazione degli spazi per essere funzionali all’attività industriale. Attorno al progetto delle Saline Reali, Ledoux progettò un’intera città impostata su un anello ellittico il cui perimetro era formato da due serie concentriche di edifici: l’interno riservato agli uffici amministrativi, l’esterno ad edifici per attrezzature, residenze di vario tipo infine l’asse sul diametro minore veniva a coincidere con la casa del direttore e con le officine.
Maison du Directeur costruita dall’architetto Claude Nicolas Ledoux, situata presso le saline reali di Arc-et-Senans.
Il modello utopico neoclassico di Ledoux
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Saline Reali di Arc-et Senans. Esse si trovano nella foresta di La Chaux, presso Besançon, in Francia.
Dal 1775 lavorò alla realizzazione del teatro di Besançon, con l’obiettivo di creare qualcosa di nuovo. Il teatro fu il primo ad introdurre la buca d’orchestra, ovvero il golfo mistico di Wagner, oltre a prevedere balconate ad anfiteatro al posto dei palchi e posti a sedere per la platea. Nello stesso periodo realizzò l’Hôtel Thélusson, residenza famosa come una delle principali attrazioni parigine, introdotta da un arco trionfale ed un giardino all’inglese. Uno degli ultimi grandi progetti di Ledoux a prendere vita fu la cinta daziaria attorno a Parigi, grazie alla quale veniva riscossa la tassa della concessione, per le merci trasportate in città dai contadini. I lavori cominciarono nel 1785, e nonostante i tentativi di nascondere la natura dell’opera Ledoux divenne ben presto impopolare. Critiche arrivarono anche per lo stile architettonico, che combinava bugnato, dorico, forme geometriche semplici e prototipi antichi e rinascimentali, risultando troppo moderno per molti. Ad oggi rimangono solo quattro dei caselli daziari: Barrière de la Villette, Barrière de Chartres, Barrière du Trône, Barrière d’Orléans. Le ultime commissioni a cui stava lavorando Ledoux, il palazzo per il governatore, i tribunali e le prigioni di Aix-en-Provence, furono interrotte nel 1790 a causa della rivoluzione scoppiata l’anno prima. Nel 1793 venne imprigionato, sospettato di legami con la corte francese, e scampò per poco la ghigliottina. Negli ultimi anni si dedicò alla stesura del suo trattato, “L’architecture considérée sous le rapport de l’art, des moeurs et de la législation”, cui aveva cominciato a lavorare durante la prigionia, e che raccoglie i suoi progetti e le sue idee sull’architettura. In particolare questa è l’opera grazie alla quale possiamo ammirare gli studi per la città ideale di Chaux e i suoi edifici, nati da una reinterpretazione dei progetti per le saline di Arc-et-Senans. 28
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Vista prospettica della città di Chaux. Architettura considerata in relazione ad arte, costumi e legislazione. (Parigi, 1804)
La storia della città di Chaux, progettata interamente da Ledoux a partire da un insediamento industriale esistente, ovvero la Salina Reale, è una storia importante perché non solo parla della progettazione di una città ideale, con tutti i suoi edifici, che anticipano le tipologie edilizie come le conosciamo oggi, ma anche una progressiva riflessione sulla città e sui suoi spazi. Alla fine del Settecento si sviluppano nuove idee di pensiero scisse all’origine dal corpus tradizionale della conoscenza architettonica, che si nutre di informazioni e di istanze economiche, sociologiche, igieniche, e soprattutto politiche. Dall’altra parte il “sapere architettonico” rinuncia al ruolo universalistico che aveva caratterizzato l’arte settecentesca, divenendo tecnica combinatoria del tipo architettonico. Tutte queste novità sono espresse nella vasta produzione di Ledoux, in particolare nei progetti per la città utopica di Chaux. Tale idea sembra decadere completamente nella veduta prospettica della città di Chaux, ove a fronte del permanere della forma geometrica della città, e dell’ovale centrale formato dalla salina e dalle caserme, il carattere chiuso, geometrico, lascia il posto a un aspetto più aperto, quasi pittoresco, che certamente riflette l’influenza della nuova moda paesaggistica dei giardini composti secondo gli esempi inglesi. Chaux è presentata come una città ad impianto radiale con 16 viali
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che si prolungano verso la campagna. Il progetto comprende una chiesa a est e il primo schema di un mercato, in sostituzione del tribunale, a ovest. Sul retro sono visibili i bagni pubblici e quello che sembra un primo progetto di borsa. Sono scomparse, invece, le schiere regolari di case, sostituite da edifici vecchi e nuovi: ville neopalladiane, fattorie, monasteri e magazzini. Nella versione definitiva, Chaux diviene una città ideale, la cui forma ellittica ripete il corso del sole. Ledoux sceglie l’immagine del cerchio per rappresentare la genesi e la tendenza ad allargarsi, come i cerchi prodotti da un sasso caduto nell’acqua. Abbandonando via via il superfluo dell’ornamento, le figure elementari della geometria semplice divengono elemento fondante dell’architettura della nuova città. È un atto di forza del progetto, tutto costruito per incastro di solidi platonici, nel significato simbolico dei quali risiede la premessa di un efficace rapporto empatico con l’osservatore. Per quel che riguarda gli edifici privati, una dozzina di diverse “Maisons de campagne” insegnano modi decorosi di abitare a seconda del proprio ceto sociale. Alcuni progetti rispondono a tematiche dimostrative, del tutto al di fuori della realtà, con una geometria di costruzione molto astratta: la casa dei Sorveglianti del fiume Loue è un cilindro ad asse orizzontale attraverso il quale passa, con un sistema di cascate, l’acqua del fiume; la casa delle Guardie Campestri è una sfera, dalla quale dominare il paesaggio naturale; infine la casa del Fabbricante di Cerchi, che altro non è che un ripetersi di intrecci di archi completi che si intersecano a crociera. I segni di questa architettura sono per lo più figure della geometria elementare: Ledoux sembra accettare le estreme conseguenze di un procedimento irreversibile di riduzione culturale, per la quale la casa è un cubo, la colonna è un cilindro, la volta è una sfera, il tetto è una piramide. Ledoux usa un sistema combinatorio per la costruzione dei suoi diversi edifici , instaurando variazioni e sperimentando diverse soluzioni per lo stesso tipo di progetto. Per insediare lavoratori e impiegati, Ledoux predispone una collezione che raccoglie tutti i generi di edifici usati nell’ordine sociale, come afferma nel frontespizio del suo trattato. Si ritrovano anche rielaborazioni degli schizzi di case progettate per il nuovo paese di Mapertuis, nella tenuta del Marchese di Montesquieu, e reinserite nel “l’Architecture” come case della città di Chaux, che si possono individuare nella veduta. Di questa schiera di progetti fanno parte i vari laboratori, con abitazioni per taglialegna, segatori, carbonai, guardie forestali. Dopo la Rivoluzione e la disavventura carceraria, Ledoux stila dei progetti ideali di carattere più astratto, in cui la volontà di salvare la propria reputazione distrutta fa sposare l’idea di una società con valori comuni, riprende infatti le idee di Rousseau e quelle della Massoneria, con un programma simbolico-architettonico che provveda all’istituzione un nuovo ordine della società. Alcuni di questi edifici, come la Casa del Direttore, sono stati regolarmente costruiti e si possono ancora visitare; ad Arc-et-Senans esiste anche un piccolo museo dove sono raccolti disegni, immagini e modelli dai progetti di Ledoux.
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A destra: il progetto de “la casa delle Guardie Campestri”, è una sfera. Architettura considerata in relazione ad arte, costumi e legislazione, (Parigi, 1804)
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Il lascito di Ledoux A sinistra: Progetto de La casa dei Sorveglianti del fiume Loue, riprende la forma di un cilindro ad asse orizzontale,attraverso il quale l’acqua del fiume passa con un sistema di cascate. Architettura considerata in relazione ad arte, costumi e legislazione, (Parigi, 1804)
In basso a sinistra: Wilhelm Wagenfeld & Karl J. Jucker, Lampada Wagenfeld, (1924) In basso a destra: Le Courbusier, Villa Savoye, (1928-1931). In questi due esempi del Movimento Moderno, è evidente la similitudine, con Ledoux, nella scelta di forme pure (sfere, cilindri, parallelepipedi) per la costruzione delle forme e dello spazio.
Dopo la Rivoluzione, la Francia subì un rallentamento dell’attività edilizia, che fu caratterizzata da costruzioni di scarsa originalità. Le promesse di un’architettura completamente nuova vennero meno, schiacciate dalle incertezze legate alla crescita rapida e disordinata delle città ottocentesche, che spinsero molti architetti a cercare un rifugio ideale e sicuro nel passato. Inoltre, i loro principali committenti appartenevano a quella nuova classe borghese arricchitasi rapidamente e animata da grandi energie, ma dotata di scarsa cultura, che sentendosi slegata da ogni obbligo verso le regole del buon gusto, disgregò quell’unità stilistica che aveva caratterizzato l’architettura fino al Settecento, avviando il XIX secolo verso l’eclettismo. In questo contesto, gli architetti rivoluzionari, come Ledoux e Boullée, furono dimenticati dalla storiografia accademica. Successivamente, l’ideale razionalista che caratterizzerà le avanguardie a partire dagli anni venti e trenta del Novecento, con i Bauhaus e Le Corbusier, porterà a una riscoperta del rigore geometrico degli architetti rivoluzionari. Venne ripresa l’idea della dicotomia forma-funzione, la costruzione con forme essenziali e il rifiuto di ogni forma di decoro. La correlazione tra i due stili ha interessato anche il mondo accademico. Lo storico dell’arte Emil Kaufmann, nel suo saggio Von Ledoux bis Le Corbusier, del 1933, troverà molti punti in comune con il mondo neoclassico di Ledoux e l’architettura moderna, inoltre riconoscerà nelle opere dell’architetto le anticipazioni di una architettura sociale e innovativa.
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LA CITTÀ DEL FUTURO DI ANTONIO SANT’ELIA
Nella pagina a sinistra: particolare della Città Nuova, 1914 In alto: foto di Antonio Sant’Elia
Agli inizi del '900, in un’Europa in continua evoluzione per via dello sviluppo industriale, subentra il capitalismo in modo sempre più prepotente e imperialistico; una straordinaria quantità di innovazioni tecnologiche rivoluzionano nel giro di pochi anni la vita quotidiana e continuano a evolvere a gran velocità. Accanto ai treni compaiono motociclette, automobili, dirigibili ed aerei. La luce elettrica sostituisce l’illuminazione a gas e accanto al telegrafo si afferma il telefono. Il fonografo permette una riproduzione quasi illimitata dei suoni, una moltiplicazione della musica nella vita quotidiana e il cinematografo si avvia a diventare uno spettacolo popolare. La produzione industriale stessa viene rivoluzionata dalla standardizzazione, dal formarsi di “cartelli” (trust) e soprattutto dall’introduzione della lavorazione in serie. Dalla consapevolezza che l‘uomo non si è ancora adeguato a questo mondo industriale che cambia così in fretta nasce il Futurismo, questa esigenza di progredire diventa violenta in un paese coinvolto nella trasformazione industriale ma ancora molto arretrato rispetto ai grandi paesi europei e agli Stati Uniti; non a caso la sua città d’origine è Milano, capitale
industriale d’Italia. Questo movimento è proiettato verso l’avvenire e verso l’acquisizione di nuovi concetti e di nuovi mezzi espressivi, ma gran parte delle sue energie sono assorbite dalla polemica contro l’eredità del passato, che in Italia è particolarmente pesante e viene sentita come una zavorra intollerabile. Tuttavia il Futurismo non si limita a perseguire lo svecchiamento della cultura italiana, ma, come si è visto, ha l’ambizione di creare un modo di sentire e di esprimersi all’altezza dei tempi nuovi, che ancora manca anche nei Paesi più avanzati. Questo pensiero nasce e si diffonde grazie al Manifesto del Futurismo scritto da Filippo Tommaso Marinetti e pubblicato nel 1909. Per riportare le parole di Marinetti stesso: “Noi vogliamo esaltare il movimento aggressivo, l’insonnia febbrile, il passo di corsa, il salto mortale, lo schiaffo ed il pugno”. Celebrano l’idea di dinamismo e velocità, l’avanzamento tecnologico e industriale, ma anche la violenza e la guerra come soluzione ai problemi del mondo. Successivamente nel 1914 sul modello del Manifesto del Futurismo si sviluppa quello dell’Architettura Futurista, che proclama che la nuova architettura deve essere basata sul calcolo, l’auLA CITTÀ DEL FUTURO
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dacia temeraria, la semplicità e l’utilizzo di materiali di ultima generazione; tutto ciò per ottenere il massimo dell’elasticità, della leggerezza e della dinamicità con l’uso di linee oblique ed ellittiche. La decorazione viene considerata assurda e superflua e viene celebrato il materiale grezzo e nudo della struttura. L’ispirazione deve venire dal mondo meccanico e non da quello naturale o da quello del passato. Per architettura si deve intendere lo sforzo di armonizzare con libertà e con grande audacia, l’ambiente con l’uomo, cioè rendere il mondo delle cose una proiezione diretta del mondo dello spirito. Un’architettura così concepita avrà come caratteristica la caducità e la transitorietà. Le abitazioni dureranno meno di chi le abita e ogni generazione dovrà fabbricarsi la sua città rinnovandola continuamente.
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Autore di questo manifesto e uno dei più importanti esponenti del movimento fu Antonio Sant’Elia, architetto italiano, nato a Como il 30 aprile 1888 e morto al fronte nel 1916 dopo essersi arruolato come volontario nella Prima guerra mondiale insieme ad altri futuristi come Filippo Tommaso Marinetti.
— Noi vogliamo esaltare il movimento aggressivo, l’insonnia febbrile, il passo di corsa, il salto mortale, lo schiaffo ed il pugno — Le uniche due opere realizzate dell’architetto furono Villa Elisi a San Maurizio e il monumento ai caduti di Como costruito sulla base del suo disegno del 1914, da Giuseppe e Attilio Terragni (1931-33). Portato fin da bambino per il disegno completa gli studi tecnici alla Scuola di Arti e Mestieri G. Castellini sempre a Como e nel 1906 consegue il diploma di perito edile-capomastro. A diciannove anni, si trasferisce a Milano per lavorare e comincia a conoscere la realtà di una città industriale. Nel 1909 si iscrive al Corso di Architettura Superiore presso l’Accademia di Belle Arti di Brera, la frequentazione di tale Accademia consentiva il conseguimento del diploma di professore in disegno architettonico. Nel 1911 ottiene una menzione d’onore al Concorso per un villino moderno bandito nel 1908 dall’Unione Cooperativa “Milanino”, che si proponeva di costruire una città-giardino nell’area compresa fra Cusano Milanino e Cinisello Balsamo. Nel 1912 pro-
A sinistra: Centrale elettrica, 1914 Nella pagina a fianco: bozza della Città Nuova, 1914
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getta Villa Elisi in collaborazione con lo scultore e amico Girolamo Fontana, era un rustico con timpano affrescato in stile klimtiano, dal quale emergeva una evidente influenza della Secessione Viennese. Sant’Elia infatti indicherà sempre Otto Wagner come uno dei suoi maestri e sua fonte di ispirazione. Nel 1913 avvia una riflessione sul linguaggio architettonico più personale, svincolata dal gusto della committenza, progettando i primi elementi della sua Città Nuova; mentre nel 1914, alla mostra collettiva organizzata dall’Associazione Lombarda Architetti, espone le tavole della Città nuova (La città nuova, Stazione per aeroplani e treni, La casa nuova, tre Centrali elettriche e cinque Schizzi d’architettura), che appaiono di una modernità sorprendente e catalizzano l’attenzione del pubblico. Durante il soggiorno milanese vive in diretta i problemi della crescita della metropoli e conosce le innovazioni tecnologiche ed
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igieniche promosse dall’amministrazione milanese. L’aumento demografico e la necessità di adeguarsi a nuovi standard qualitativi avevano indotto a realizzare, anche se in forma parziale, la rete di
— Per architettura si deve intendere lo sforzo di armonizzare con libertà e con grande audacia, l’ambiente con l’uomo, cioè rendere il mondo delle cose una proiezione diretta del mondo dello spirito —
distribuzione dell’acqua potabile, le fognature, l’illuminazione elettrica, edifici destinati alle scuole e ai ricoveri di carità, il Cimitero Monumentale e il Macello. I temi della trasformazione urbana e del rinnovamento della viabilità stradale, resa necessaria dalla crescita del traffico, sono tematiche nuove, colte da Sant’Elia accanto alla questione dell’abitazione popolare, affrontata nei concorsi, nelle esposizioni e nei congressi, e alla quale si tenta di dare risposta con la progettazione di edifici plurifamiliari e multifunzionali, da localizzare in periferia. Sant’Elia integra la visione futurista nei suoi progetti abbandonando gli stilemi secessionisti e cominciando a ideare un’architettura coerente con l’evoluzione urbanistica della modernità. Comincia a formulare ipotesi di espansione abitativa, di nuovi insediamenti produttivi e di veloci mezzi di comunicazione che necessitano di edifici più funzionali. Ini-
A sinistra: Edificio a gradini, la Città Nuova, 1914 Nella pagina a fianco: Sopra: Edificio industriale con torre angolare, 1913 Sotto, da sinistra: Edificio monumentale, 1915 / Studio per centrale elettrica, 1914 / Casa a gradinate su due piani stradali, la Città Nuova, 1914
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Nella pagina a fianco: Casa a gradinata, 1914 In alto a destra: disegno della Città Nuova, 1914
zia a sperimentare una semplificazione degli elementi strutturali architettonici servendosi idealmente dei mezzi più avanzati della costruzione, quali ferro, cemento, vetro. In una serie di disegni, in seguito definiti felicemente “dinamismi architettonici” dai futuristi, delinea volumi agili e sdutti, sagome che non hanno una destinazione precisa, esercitazioni formali dove vengono eliminate tutte le mascherature decorative per dar luogo ad accostamenti e incastri di telai, pilastri, contrafforti, piramidi, torri cilindriche o rettangolari, dando rilievo e spessore a figure geometriche essenziali. Con l’andar del tempo, dopo pochi mesi d’applicazione di siffatti schemi indefiniti
di progettazione urbana, i nudi scheletri di fabbricato si trasformano progressivamente in tante porzioni di città moderne, diventano ipotesi di case d’abitazione, di hangar per aerei e dirigibili, di ponti, di teatri, di centrali elettriche, particolarmente significative per la volontà esplicita di liberarle da qualunque involucro che ne celi o ne mistifichi l’uso pratico. Al termine di questo processo ideativo, i singoli approcci ad un complesso sistema metropolitano si coagulano, indirizzandosi ad un profetico panorama di una megalopoli futuribile in cui, governati dall’energia elettrica, si muovono dovunque veicoli su strade a più livelli, mentre si elevano palazzi gradonati su LA CITTÀ DEL FUTURO
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Sopra e in basso a sinistra: rendering della Città Nuova, 2014 In basso a destra: modellino della Città Nuova
vari piani ai quali si accede mediante ascensori esterni. Al centro di questo “abisso tumultuante”, si colloca una colossale multistazione ferroviaria e aerea, dalla quale si diramano in ogni direzione mezzi celeri di trasporto per masse di abitanti in continuo movimento. E’ il trionfo di una vagheggiata città del Duemila “simile ad un immenso cantiere, agile, mobile, dinamico” e le case “simili a macchine gigantesche”. A Sant’Elia va il merito di aver intu42
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ito la stretta dipendenza tra problema architettonico e problema urbanistico su cui, pur con linguaggi figurativi diversi, si è impostata la progettazione e la riflessione di tutti i movimenti architettonici moderni, influenzando De Stijl, il Razionalismo e l’architettura di Le Corbusier. Nella sua produzione è racchiuso uno dei potenziali percorsi evolutivi ideali che avrebbe forse compiuto l’architettura italiana, se non avesse negli anni venti-trenta, a causa della “vigliaccheria
In basso: illustrazione della Città Nuova, Julien Berneron, 2017
passatista” del regime fascista, troncato i legami con gli inizi storici e gli aspetti filosofici del futurismo e con la base nel mondo della tecnologia. L’aspetto utopico dei progetti di Sant’Elia è da considerare in riferimento allo sviluppo dell’epoca, cioè un periodo che vedeva qualsiasi innovazione tecnologica come progresso e dove l’uomo non aveva ancora avuto un’esperienza diretta del vivere in un ambiente così avanzato tecnologicamente. Oggi, seppur non si sia arrivati al livello della Città nuova, le metropoli moderne presentano molti degli elementi al tempo considerati futuristici, come i sistemi di trasporto interconnessi (le moderne metro) o i sistemi di comunicazione (telefoni/internet).
La civiltà contemporanea è ben consapevole del fatto che vivere immersi nella tecnologia ha molti effetti collaterali e può rendere la realtà alienante e far sentire gli individui isolati, l’aspetto che rimane utopico è l’eccessiva freddezza e standardizzazione presente nel progetto. In sostanza, la città vista da Sant’elia rimane ancora irrealizzabile, e quindi utopia, ma forse non per i requisiti tecnologici, quanto per quelli sociali e culturali.
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L’INFLUENZA DI SANT’ELIA: LIBERA
Nonostante la sua breve carriera, i progetti di Sant’Elia hanno avuto una grande influenza sull’architettura dei decenni successivi. Architetti razionalisti come Giuseppe Terragni e Adalberto Libera seguirono le sue orme nell’ideazione di strutture architettoniche proiettate verso il futuro. Uno dei progetti che riprende al meglio l’ideale futurista di Sant’Elia è la Porta del Mare, un arco monumentale di metallo e calcestruzzo alto circa 200m ideato da Adalberto Libera e Vincenzo Di Berardino per l’E.U.R (Esposizione Universale Roma) del 1942. L’opera non venne mai realizzata a causa dello scoppio della Seconda Guerra Mondiale, ma servì di ispirazione a Eero Saarinen per la progettazione dell’Arco della porta di St. Louis in Missouri. Realizzato tra il 1963 e il 1965, ha un’altezza di 192m ed è interamente ricoperto di acciaio inossidabile; fu aperto al pubblico il 24 luglio 1967.
In alto: manifesto EUR, raffigurante la Porta del Mare, 1942 Nella pagina a fianco: Arco della porta, Eero Saarinen, St Louis
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L’INFLUENZA DI SANT’ELIA: FULLER
Alcuni concetti dell’architettura futurista possono essere riconosciuti nella visione di Richard Buckminster Fuller, inventore statunitense dedicatosi alla ricerca di soluzioni universalmente fruibili e a basso costo per le questioni dell’abitare e del viaggiare. L’architetto viene definito un utopista tecnologico per la fiducia nella tecnologia quale strumento per il benessere dell’intera umanità, nel rispetto del sistema ambientale in cui è inserita. Le sue progettazioni sviluppano tematiche e intuizioni futuriste quali quelle dell’antidecorativismo, della caducità e transitorietà dell’architettura, del mondo come città collegata dalle comunicazioni aeree, della casa mobile, dei veicoli aerodinamici, del dominio su cielo, terra e mare. Fuller è famoso principalmente per le sue cupole geodetiche, che sono parte anche delle moderne stazioni radar, di edifici civili e tensostrutture. La loro costruzione si basa sull’estensione di alcuni principi base dei solidi semplici, come il tetraedro, l’ottaedro e solidi con numero di facce maggiore che possono considerarsi approssimazione della sfera. Le strutture così concepite sono estremamente leggere e stabili. In foto la Biosfera di Montreal, in Canada, costruita come padiglione americano per l’Expo 1967.
USONIA: BROADACRE CITY, L’UTOPIA DI FRANK LLOYD WRIGHT
Frank Lloyd Wright, il visionario architetto americano del XX secolo è nato l’8 giugno 1867 nel Wisconsin, Stati Uniti, dove ha studiato ingegneria civile presso l’Università del Wisconsin. Dopo il suo apprendista con due studi di architettura per alcuni anni, Wright iniziò il suo studio nel 1893. Durante i molti anni della sua pratica era noto per le sue idee ponderate ed era celebrato per essersi connesso con la gente d’America e il mondo, usando l’architettura come strumento per cambiare la vita. Wright si è concentrato sulla costruzione di case. Ha sperimentato nuovi stili e ha ridefinito le idee sull’architettura. Le filosofie di Wright stabilirono una nuova direzione per il modo in cui l’architettura moderna stava prendendo forma e fu riconosciuta per aver coniato l ‘architettura organica e altri nuovi stili nella progettazione degli edifici. Nel 2019, un totale delle sue otto opere, intitolate The 20th-Century Architecture of Frank Lloyd Wright , hanno ricevuto lo status di Patrimonio dell’Umanità dall’Unesco. Nel libro The Disappearing City pubblicato nel 1932, Wright svelò lo sviluppo di Broadacre City, una città del futuro. Sebbene questa visione non si concretizzasse, Wright concepì un nuovo tipo di abitazione che divenne nota come la Casa Usonian, che era un modello per la vita indipendente. Questa nuova città democratica, come immaginata da Wright, trarrebbe vantaggio dalla tecnologia e dalle comunicazioni moderne per decentralizzare la città vecchia e creare un ambiente in cui l’individuo prospererebbe. Nell’autunno del 1934 Frank Lloyd Wright stava parlando al Taliesin Fellowship a Spring Green con il potenziale cliente Edgar J. Kaufmann seduto al suo fianco. Secondo l’ex apprendista Edgar 48
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Frank Lloyd Wright fotografato da Pedro E. Guerrero, 1953
Broadacre City è la città che nel 1934 Frank Lloyd Wright immagina per combattere l’atto disumano rappresentato dalla congestione urbana, la soluzione concreta per civilizzare la vita cittadina. Un anno dopo ne esibisce il plastico al Rockfeller Center di New York in occasione dell’Industrial Arts Exposition. Il modello illustra la edificazione distesa e ordinata in una maglia di isolati quadrati che contengono piccole aziende agricole e altre di medie dimensioni, mercati, centri civici disposti sugli assi stradali e circondati da zone boschive a disposizione per l’espansione futura, stadi e arene per fiere e manifestazioni all’aperto; ma anche edifici multipiano per le funzioni
amministrative e poi scuole, teatri e motel, librerie, luoghi pubblici, luoghi comuni il tutto immerso in terreni coltivati perché la comunità usoniana di Wright dovrà vivere e produrre superando l’opposizione tra città e campagna. Nel 1958 Broadacre City, descritta e illustrata con disegni, rappresenterà il manifesto dell’estetica organica di Wright nel saggio The Living City. Wright, durante gli oltre vent’anni dall’elaborazione all’effettiva divulgazione del suo pensiero urbanistico, non modificò mai le sue idee pur assistendo ai profondi cambiamenti del paesaggio, delle città e della società statunitense: l’evoluzione dell’abitare sarebbe stata ostinatamente orientata a una spazialità decentrata.
Architettura dell’utopia
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Veicoli terrestri immaginati da Frank Lloyd Wright per Broadacre. Lo schizzo rappresenta il sistema viabilistico articolato in tre livelli: la viabilità principale è costituita da strade a sei corsie con incroci su più livelli, la maglia di distribuzione è effettuata con strade a due corsie ed incroci a raso, strade a fondo cieco di dimensioni inferiori conducono a uno o più lotti residenziali.
Tafel che racconta l’episodio nel suo libro Years With Frank Lloyd Wright: Apprentice to Genius, Wright iniziò a esporre la sua teoria per la salvezza dell’America - una nuova città basata sull’automobile - Broadacre City. Sono passati più di 55 anni dalla prima esposizione pubblica dei modelli Broadacre City. Il modello grande di Broadacre City e dieci modelli collaterali fecero la loro prima apparizione come fulcro di una National Alliance of Arts and Industry Exposition al Rockefeller Center il 14 aprile 1935. Tafel accompagnò il modello a New York City dove più di 50.000 persone hanno esaminato i piani di Wright per una nuova città americana. Nell’autunno del 1989 il College of Architecture and Environmental Design dell’Arizona State University iniziò a progettare di creare un secondo modello di Broadacre City di Wright come parte di Arizona Celebrates Frank Lloyd Wright. Inapplicabile ai problemi attuali come potrebbe essere apparsa la Broadacre City di Wright negli anni ‘30, offre oggi uno strumento con cui si può escogitare una nuova critica della moderna forma urbana americana…. La cosiddetta Modern urban theory, si è dimostrata capace di descrivere la realtà urbana nel nostro tempo, per non parlare di migliorarne le condizioni. Ciò che serve più della teoria è una reintroduzione del valore, ed è proprio in quell’area che Broadacre City ha avuto la sua forza. Come Wright ben sapeva, solo quando i valori vengono messi al primo posto la tecnologia diventerà uno strumento piuttosto che un maestro. La visione di Wright per Broadacre City si era sviluppata per molti 50
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Poster della mostra presso l’ufficio di Archizoom, questa mostra presenta una panoramica cronologica dell’evoluzione del design civico.
Vista dell’installazione della mostra Frank Lloyd Wright and the City: Density vs. Dispersal, 2014 (foto di Thomas Griesel, The Museum of Modern Art, New York).
anni, specialmente durante gli anni ‘20, quando la quasi totale mancanza di commissioni di Wright gli fornì l’opportunità di sviluppare nuovi concetti. Molti studiosi concordano sul fatto che non può esserci alcun dubbio sul significato centrale di Broadacre City per gli ultimi 30 anni della produzione architettonica di Wright. Lui ha sempre sostenuto che la buona architettura si è sviluppata da un profondo apprezzamento della vita e dei tempi, delle pratiche e degli ideali della società in cui viveva l’architetto. Secondo Lionel March in Writings on Wright, Broadacre City fu il tentativo di Wright di dare forma architettonica e urbana alle idee democratiche e alle azioni sociali dei suoi contemporanei americani, persone come i pragmatici americani William James e John Dewey; l’economista popolare Henry George; gli economisti istituzionali americani Thorstein Veblen e John Commons; i progressisti politici del Wisconsin come i La Folettes e altri tra cui Jane Adams e Richard Ely. Laddove la città vecchia era vista come il risultato di forze impersonali che avevano diminuito la dignità delle persone e le possibilità di crescita, la nuova città democratica avrebbe approfittato della tecnologia e delle comunicazioni moderne per decentralizzare la città vecchia e le sue concentrazioni di potere e privilegi non guadagnati. Al posto della proprietà assente, Broadacre City ha proposto la proprietà individuale della propria casa, fattoria e luogo di lavoro. Al posto della proprietà aziendale, Broadacre City ha proposto la proprietà pubblica dei servizi di necessità comune: energia, tra-
Il plastico di Broadacre city con la griglia di Wright è un quadrato di 3,2 km di lato che accoglie 1.400 famiglie. L’estensione dell’area è 1.024 ha, la densità abitativa è di 5-7 ab/ha, pur variando in relazione delle diverse funzioni e all’importanza degli edifici. Come le abitazioni, anche le attrezzature, le fattorie, le attività produttive si dispongono liberamente in lotti di forma rettangolare di superficie minima di un acro.
USONIA. BROADACRE CITY, L’UTOPIA DI FRANK LLOYD WRIGHT
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sporti, mezzi di scambio. Invece di affitto della terra, denaro e idee che determinano il corso dello sviluppo della città, Broadacre City ha proposto che la comunità e l’artista abbiano un ruolo maggiore nella progettazione dell’ambiente costruito. Nello studio dei modelli una delle caratteristiche più evidenti di Broadacre City è che contiene molte piccole fattorie e case mescolate. Ogni casa indipendente ha un terreno agricolo ad essa annesso. Durante l’era della Depressione degli anni ‘30, Wright non fu l’unica persona a teorizzare che se le persone avessero un pezzo di terra, per quanto piccolo, sarebbero in grado di sopravvivere. Nel descrivere le case di Broadacre Wright disse: “Sarebbero particolarmente adatte per pianta e contorno al terreno, dove avrebbero realizzato più giardini e campi e boschi vicini di adesso, assicurando una perpetua unità nella varietà…. Tutto ciò che le case di Broadacre chiedono alla società è che siano genuinamente democratiche.” Questa città del futuro, tuttavia, richiede una qualità di pensiero da parte del cittadino e che l’architettura organica da sola al momento presente rappresenta o sembra comprendere una nuova realtà nel nostro modo di vivere e costruire. Nel 1945 la University of Chicago Press pubblicò il libro When Democracy Builds, che era una revisione del primo libro ma illustrato dai modelli di Broadacre City. Nel 1958 Wright ha ampiamente rivisto e ampliato i due libri in un nuovo libro intitolato The Living City. Broadacre City non è mai stata realizzata. Tuttavia, fino alla sua morte nel 1959 Wright affrontò in singoli progetti i concetti di progettazione architettonica e comunitaria che immaginava come l’espressione naturale della nuova città. Broadacre esprime simultaneamente il proprio carattere mediatico di modello da palcoscenico e quello di dispositivo di studio e lavoro. Broadacre infatti non è mai stata realmente disegnata, ma piuttosto delineata nella narrativa di The Disappearing City (1932) e The Living City (1958) e processualmente costruita attraverso il modello. Il recente restauro nei laboratori del MoMA rivela un modello-palinsesto con tracce di successive modificazioni, in cui nuovi edifici venivano costruiti sul tracciato di altri precedentemente demoliti. Come spiega Bergdoll, lungi dall’essere congelato dal suo concepimento, il modello evolveva nel tempo riproducendo meccanismi propri di una città reale.
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THE ILLINOIS Già novantenne l’architetto si cimentò nella proposta di un grattacielo alto un miglio (circa 1609 metri), conosciuto anche come The Mile High Illinois. Nonostante l’idea e la forma attraente dell’edificio, 528 piani snelli e affusolati, questo grattacielo resterà probabilmente uno dei più famosi progetti su carta mai realizzati. Quando venne pensato negli anni ‘50 si presentava come un progetto complesso, fortemente criticabile su alcuni aspetti progettuali. Oltre le notevoli difficoltà degli operai nel lavorare ed essere trasportati ad altezze considerevoli, c’era il problema dell’oscillazione dei piani superiori a causa della flessibilità dell’acciaio e della presenza necessaria di numerosi vani ascensore, rampe di scale antincendio, in misura minore di condutture per lo smaltimento delle acque e impianti fognari, a ridurre la metratura utile dell’edificio. Questo progetto, nato da una visione romantica dell’architettura in cui l’uomo cerca di superare i propri limiti, a tutti gli effetti utopico per l’epoca, sarebbe oggi tranquillamente realizzabile. Lo dimostra un altro grattacielo attualmente in fase di costruzione: il Burj Khalifa a Dubai. Nonostante le proporzioni dimezzate rispetto al One Mile High, la somiglianza tra i due edifici è notevole.
USONIA. BROADACRE CITY, L’UTOPIA DI FRANK LLOYD WRIGHT
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PROGETTARE IL FUTURO SECONDO FRANK LLOYD WRIGHT Il Solomon R. Guggenheim Museum è un museo di arte moderna e contemporanea, fondato nel 1937, con sede al numero 1071 della Quinta Strada, a New York. La sua sede attuale è un’opera di Frank Lloyd Wright del 1943, tra le più importanti architetture del XX secolo.
Lo spazio espositivo immaginato da Wright è rivoluzionario: un unico ambiente avvolgente nel quale visitatori sono dapprima portati al livello più alto da un ascensore, e poi invitati a scendere percorrendo la rampa sulla quale sono esposte le opere. Percorsi e aree espositive sono unificati, non ci sono né sale tradizionali, né remote camere del tesoro. L’intero spazio può essere percepito da ogni punto dell’edificio e i visitatori sanno sempre dove sono e verso cosa si stanno muovendo. Dall’aula centrale la spirale della rampa e le opere esposte sono visibili nel loro insieme. Nel 1936, Johnson Jr. cercò l’architetto Frank Lloyd Wright. Voleva esplorare un approccio più moderno e scartare i vecchi piani. In seguito ha spiegato: “Chiunque può costruire un edificio tipico. Volevo costruire il miglior edificio per uffici del mondo e l’unico modo per farlo era chiamare il più grande architetto del mondo”. La caratteristica più riconosciuta del Great Workroom dell’edificio amministrativo sono le sue colonne chiamate dendriform (a forma di albero), ma molti le chiamano anche ninfee a causa della forma unica dei loro cuscinetti di supporto superiori. Il Marin County Civic Center è stata l’ultima commissione di Frank Lloyd Wright e il più grande progetto pubblico. L’architetto ha sottolineato le sue convinzioni in un’architettura organica vicina alla natura, sostenendo che i paesaggi della contea di Marin erano tra i più belli che avesse mai visto. L’orizzontalità del progetto e la sua collocazione sono in linea con la filosofia di Wright e adattano veramente il paesaggio e ne sfruttano la bellezza. Il progetto prevede anche due spazi centrali in ogni edificio con atri che si allargano man mano che salgono più in alto - un effetto Guggenheim. É considerato come sito del patrimonio dell’Unesco. 54
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Conosciuto come Administration Building Johnson Wax, insieme alla vicina torre di 14 piani, denominata Johnson Wax Research Tower, l’edificio fu costruito fra il 1936 ed il 1939e con decenni in anticipo sui tempi, Wright adottò arredi modulari innovativi e una disposizione open space per rendere più produttivo lo spazio di lavoro.
Il Marin County Civic Center, progettato da Frank Lloyd Wright, si trova a San Rafael, California. Nel 1960, dopo la morte di Wright, e sotto la sorveglianza del protetto di Wright, Aaron Green, ebbe luogo il pioniere del Civic Center Administration Building fu completato nel 1962.
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MARIN COUNTY CIVIC CENTER
Progettato da Frank Lloyd Wright, si trova a San Rafael, California, Stati Uniti. È stata l’ultima commissione dell’architetto e il suo più grande progetto pubblico che comprese alcune funzioni civiche che avrebbero servito la Contea di Marin e San Francisco. Una delle qualità più straordinarie del progetto è che Wright non si è fermato all’architettura, ma ha continuato a progettare porte, segni, mobili e ogni dettaglio.
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UTOPIA
PROGETTARE IL FUTURO SECONDO FRANK LLOYD WRIGHT
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THE UNBUILT CITIES: QUELLO CHE NY E BAGHDAD SAREBBERO POTUTE DIVENTARE
Numerose furono le grandiose idee che Wright sviluppò negli ultimi anni della sua carriera, quasi tutte troppo costose o impraticabili per essere costruite. Questi includevano il Point Park Civic Center, l’Illinois o ancora il piano per la grande Baghdad. James Dennis e Lu Wenneker descrivono questi progetti, in particolare il piano di Baghdad, come Progetti da sogno, ornamenti su larga scala sparsi sul paesaggio. Alcune peculiarità del design di Baghdad, come le rampe a spirale, sono caratteristiche del lavoro di Wright. Questi elementi appaiono in modo memorabile nel Museo Solomon R. Guggenheim e anche in progetti non costruiti come il Gordon Strong Automobile Objective e il Point Park Ci-
Piano per la grande Baghdad, Baghdad, progetto del1957. Vista aerea da nord del centro culturale e dell’università. Inchiostro, matita e matite colorate su carta da lucido, 88.6 x 132.1 cm.
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UTOPIA
vic Center già prima citato. La rappresentazione di temi culturali arabi nell’arco del teatro dell’opera risulta in quella che Wendell Cole descrive come l’architettura più fantastica che Wright abbia mai prodotto. L’isola doveva essere collegata alla terraferma da due ponti. Il Ponte Basso, doveva attraversato il canale occidentale più stretto del Tigri e puntava verso la Mecca. Il Great Bridge più grande doveva attraversare il canale orientale del fiume e collegare l’isola al campus universitario. Un viale doveva percorrere tutta l’isola dalla statua al teatro dell’opera e il centro dell’isola era occupato da musei d’arte e aree commerciali, formando un centro culturale che sarebbe aperto per tutti anche i più poveri. Altro esempio di progetto mai realizzato, fu il Key Project per Ellis Island. Questo suo ultimo disegno prima della morte nel 1959, dove aveva immaginato l’isola come una piccola città futuristica, con appartamenti, hotel, ospedali, un planetario e uno yacht club, in cui le macchine non sarebbero state ammesse e le persone avrebbero dovuto spostarsi soltanto con scale mobili e ascensori. Sarebbe stato, con parole del suo progettista, “un vivere casual e brillante, senza il solito baccano metropolitano.” Nonostante questi progetti furono destinati a rimanere utopie, è indiscutibile affermare che l’architettura di Frank Lloyd Wright ha lasciato un patrimonio inestimabile per gli architetti di oggi. La sua influenza si ritrova chiaramente anche nell’approccio attento ai materiali naturali, nella fusione tra spazi interni ed esterni e nella crescita del design eco-sostenibile.
Vista aerea del Key Project per Ellis Island, ultimo progetto del 1959 poco prima della sua morte. Inchiostro, matita e matite colorate su carta da lucido, 87 x 111.1 cm
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Inside Utopia
TALIESIN WEST UNA SCUOLA PER UNO STILE DI VITA
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aliesin West è un complesso architettonico progettato da Frank Lloyd Wright, situato nei pressi della città di Scottsdale, Arizona. Nel 1982 viene dichiarato monumento nazionale. Wright iniziò a progettare e costruire il primo nucleo di Taliesin West nel 1937 come sua residenza e studio, ed anche come sede invernale della scuola residenziale di architettura, la Taliesin Fellowship, che aveva fondato cinque anni prima. Taliesin West ospita attualmente la Scuola di Architettura di Taliesin e la sede della Frank Lloyd Wright Foundation. Gli storici lo considerano come uno dei suoi capolavori. Questo complesso, insieme a Taliesin (Est) vicino a Spring Green, nel Wisconsin, esprime le teorie educative e la visione della società di Wright, nonché i suoi concetti architettonici maturi: un vero segno distintivo della sua visione organica dell’architettura, l’impegno a stabilire e coltivare l’equilibrio tra gli ambienti naturali e costruiti e ad armonizzare gli stili di vita generati da tutti. Ideato per la prima volta nel 1937 per sfuggire ai rigidi inverni del Midwest, il clima arido del deserto dell’Arizona si rivelò come luogo d’ispirazione per Wright e i suoi apprendisti. L’atmosfera del deserto di Arizona di Scottsdale era un luogo perfetto come residenza, luogo di lavoro e, soprattutto, un luogo in cui imparare. Taliesin West fu costruito e mantenuto quasi interamente da Wright e dai suoi apprendisti, rendendolo tra le creazioni più personali dell’architetto.
Taliesin West: una scuola per uno stile di vita
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L A SCUOL A CHE EMERGE DAL DESERTO
Nel 1932 Frank Lloyd Wright e sua moglie Olgivanna crearono la Taliesin Fellowship, una comunità di apprendisti che, con le loro famiglie vivevano, lavoravano e studiavano con l’architetto. La Taliesin Fellowship è stata fin dall’inizio una comunità in cui tutti partecipavano e contribuivano alle attività necessarie della vita quotidiana infatti il programma forniva un ambiente di apprendimento totale che integrava tutti gli aspetti della vita con l’intento di educare esseri umani responsabili, creativi, colti, con un vasto orizzonte culturale, ma nello stesso tempo abili nell’applicare le proprie conoscenze nelle circostanze in cui vivevano. Il termine “Fellowship” che significa comunione ha lo scopo di far maturare uno stile di vita slegato dal puro insegnamento scolastico e basa la propria filosofia sul concetto del “learning by doing” (imparare facendo). Wright insisteva sul fatto che il curriculum non fosse incentrato solo su libri e conferenze, ma che desse piuttosto priorità alle esperienze pratiche e alle connessioni dirette con il mondo naturale. Ogni settimana veniva stilato un elenco di lavoro che assegnava a ciascun membro della Fellowship compiti specifici: ognuno ruotava dai compiti in cucina, ai lavori di costruzione o di redazione in studio. I coniugi Wright credevano che nessun lavoro fosse troppo banale per essere preso sul serio, e che ogni compito dovesse essere fatto bene, sia che si trattasse di preparare la cena, di organizzare i fiori o di svuotare la spazzatura.
La scuola di Taliesin West fondata da Wright è situata nel nel deserto dell’Arizona Meridionale fuori dal centro di Scottsdale alle pendici delle McDowell Mountains G. E. Kidder Smith Image Collection
Frank Llyod Wright e la moglie Olgivanna Lazović nei pressi di Taliesin West. Olgivanna collaborò con il marito per la fondazione della Taliesin Fellowship nel 1932 e della Frank Lloyd Wright Foundation (1940). Foto da The Frank Lloyd Wright Foundation Archives
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Il Drafting Studio (1938), primo edificio permanente del complesso, era lo spazio di disegno principale per i praticanti ma anche un ambiente comunitario dove si pranzava, ci si riuniva e si ascoltava musica. G. E. Kidder Smith Image Collection
Questa equa distribuzione del lavoro aveva creato una comunità molto affiatata, nonostante qualsiasi differenza di età, o di stato sociale o finanziario. Il duro lavoro era ricompensato con feste e serate formali, con musica, teatro e film ogni settimana. I Wright inoltre riunivano regolarmente tutti per presentazioni e discussioni su una vasta gamma di argomenti e spesso gli stessi membri erano incoraggiati a sviluppare il loro talento nel campo della musica, artigianato, danza, cucina, edilizia e agricoltura. La Compagnia era, in qualche modo, la realizzazione delle idee che l’architetto aveva già espresso in forma scritta, in particolare in “The Disappearing City” (La città che scompare), un libro scritto nello stesso periodo in cui fondò la scuola, in cui avanzava un ideale di società basato su fattorie individuali che permettevano ai cittadini di coltivare la propria terra. La sua idea di scuola che unisse casa, fattoria e industria, deve essere vista come un tentativo di recuperare alcuni dei valori delle relazioni sociali preindustriali, come una critica verso il capitalismo del “laissez-faire” e la disuguaglianza sociale. Secondo Wright il cittadino deve protendere verso una propria individualità caratteristica di un sistema democratico. Se l’uomo si trovasse in una città democratica arricchirebbe con il proprio operato e il proprio pensiero la vita della comunità grazie alla propria individualità. I maggiori benefici che si potrebbero trarre da una città libera provengono da gli stessi uomini che lavorano liberamente perché amano la propria attività.
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Wright e la moglie basavano il proprio insegnamento scolastico sul concetto del “learning by doing” e stilavano un elenco di lavoro che assegnava a ciascun membro della Fellowship compiti specifici, tra cui l’impegno nei campi. Foto da The Frank Lloyd Wright Foundation Archives
Sopra una foto del Movements Pavilion, che era in origine un padiglione per danza e danzaterapia. Distrutto da un incendio nel 1963, venne ricostruito nel 1964 rimpiazzando legno e tela con acciaio e fibra di vetro. Scena da Urizen (“Beasts”), 1963. Foto di Don Kalec, cortesia di OAD Archives. Frank Lloyd Wright e diversi colleghi discutono su un progetto di archittetura nel Drafting Room. Foto di Pedro E. Guerrero
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Cinque apprendisti impegnati nella costruzione di Taliesin West, 1947. Foto di Pedro E. Guerrero
L’idea e la struttura architettonica di tipo organico di Taliesin West, e di tutte le Taliesin in generale, è fortemente influenzata dalla fascinazione di Wright per l’ideale di una comunità autosufficiente, nella quale si potesse vivere e lavorare in comunione con la natura, come quelle dei primi pionieri o delle tribù native americane. John Dewey, riformatore educativo e autore di Democrazia e Educazione, fu uno dei primi a lanciare l’allarme sulla minaccia rappresentata dall’industrializzazione sia per l’istruzione che per la democrazia. La pratica di indirizzare i bambini della classe operaia verso programmi professionali, le ragazze verso le scienze domestiche, i bambini maschi benestanti nelle università aveva riprodotto gerarchie di classe e pregiudizi di genere. I sistemi scolastici avevano naturalizzato queste disuguaglianze. Wright sosteneva che i bambini crescessero ammassati con migliaia di persone in scuole costruite come fabbriche, che correvano come fabbriche, che “producevano” essere umani come prodotti privi di un proprio giudizio, così come le fabbriche producevano scarpe. Il suo modello di istruzione invece basava le proprie fondamenta su concetti quali democrazia, integrazione, equità all’accesso verso l’istruzione, cultura multidisciplinare, rapporto con la natura, approccio pratico. Di importanza fondamentale nella scuola di Wright doveva essere la qualità invece della quantità. Wright traeva ispirazione dall’idea giapponese di una cultura in cui ogni oggetto, ogni umano, ogni azione si integrano per fare di un’intera civiltà un’opera d’arte.
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UN’ARCHITETTURA ORGANICA IN ARIZONA
Wright iniziò a progettare e costruire il primo nucleo di Taliesin West nel 1937 come sua residenza e studio, ed anche come sede invernale della scuola residenziale di architettura, la Taliesin Fellowship, che aveva fondato cinque anni prima. Il complesso venne realizzato all’interno di una proprietà di 240 ettari ai piedi del Monte McDowell, nel Deserto di Sonora, con l’idea che facesse da complemento alla proprietà estiva di Wright a Spring Green, nel Wisconsin (che aveva chiamato Taliesin da una parola gallese che significa “cima scintillante”). Nel progettare (e riprogettare) il complesso, Wright trovò le occasioni per ridefinire i principi di quella “Architettura della Prateria” (Praire School architecture) che aveva declinato a Taliesin, adattandoli e facendo in modo che rispondessero ad un nuovo contesto e a un clima diverso (“ l’Arizona ha bisogno della sua architettura”, aveva esclamato nel 1927 durante la sua prima visita nello stato) e spingendo più in la’ alcuni dei suoi caratteri distintivi; linee e superfici ad andamento prevalentemente orizzontale, gronde fortemente sporgenti, lunghe finestre a nastro, adozione di materiali costruttivi di provenienza locale e un uso discreto della decorazione.
Esterno di Taliesin Wesr del giardino con fontana
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A sinistra: Studenti sui gradini all’ingresso sul giardino del Drafting Room Foto da G. E. Kidder Smith Image Collection In alto a sinistra: Frank Loyd Wright sopra i gradini del giardino durante la costruzione. Foto da The Frank Lloyd Wright Foundation Archives Sotto a sinistra: Foto esterno da una finestra del Drafting Room Foto di Ezra Stoller A destra: Foto fontana all’ingresso di Taliesin West Foto di Pedro E. Guerrero
In Arizona, Wright mise a punto anche un nuovo tipo di sistema costruttivo, che chiamò “Desert Masonry”, ottenuto riempiendo le casseforme in legno con pietre locali di colore diverso, meticolosamente selezionate e posizionate, aggiungendo poi un calcestruzzo ‘asciutto’, realizzato con cemento Portland, sabbia e pochissima acqua (il sito era ricco di sabbia e roccia mentre l’acqua era assai scarsa). Un altro elemento fondamentale fu la gestione della luce naturale, da un lato sfruttando copiosamente il sole dell’Arizona per illuminare gli spazi interni del complesso attraverso un attento orientamento degli edifici e un gran numero di aperture nei tetti tamponate in tessuto (poi sostituto con pannelli traslucidi in plastica acrilica), dall’altro introducendo profondi sporti di gronda per evitare un irraggiamento solare eccessivo all’interno delle stanze. Analogamente, ventilazione e raffrescamento naturali erano ottenuti utilizzando i venti prevalenti nel sito, attraverso aperture e lucernari privi di vetri, accoppiati a specchi d’acqua e vegetazione. Wright progettò infatti anche le sistemazioni esterne del complesso, posizionando con cura alberi e arbusti locali e grandi massi decorati con graffiti nativo-americani.
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Foto del Historical Core che collega le strutture di Taliesin e sullo sfondo lo studio di Wright Foto da G. E. Kidder Smith Image Collection
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Architettura dell’utopia
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Il complesso di Taliesin West oggi è formato da edifici collegati da percorsi pedonali e giardini. Il nucleo originario comprendeva circa 2.700 metri quadrati di spazi coperti. I primi edifici ad essere realizzati, (il cosiddetto Historical Core come viene chiamato oggi, costruito tra il 1938 e il 1941), furono lo studio di Wright, la grande sala multifunzionale nota come Drafting Room, la cucina e la prima sala da pranzo, l’abitazione dell’architetto della sua famiglia, il teatro “Kiva” (poi convertito in biblioteca), gli alloggi per i collaboratori più stretti dell’architetto, un piccolo campanile, ed una officina. Nei decenni seguenti, fino alla morte di Wright nel 1959 ed anche in seguito, Taliesin West venne ripetutamente modificata ed ampliata con l’aggiunta di altri edifici, tra cui una nuova sala da pranzo, un teatro cabaret, un padiglione musicale, una torre idrica, nuovi laboratori e residenze per i praticanti, il personale e gli ospiti. ll Drafting Studio era il cuore di Taliesin West, lo spazio di disegno principale per i praticanti ma anche un ambiente comunitario dove si pranzava, ci si riuniva e si ascoltava musica. 70
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Interno del Garden Room, inizialmente pensata come soggiorno dell’appartamento della famiglia Wright Hedrich Blessing Collection
Sala della Kiva era in origine un teatro, cinema e spazio per spettacoli semi-interrato. Trasformato in una biblioteca nel 1949, è uno dei pochi edifici a Taliesin West interamente costruiti (pareti e copertura) in “Muratura del Deserto”. Foto da Andrew Pielage
Moviment Pavillion è il più ampio spazio per spettacoli di Taliesin West, 126 posti con platea a gradoni e un impressionante tetto a capanna traslucido. Foto da flickr.com
Arredamento iniziale del soggiorno della Famiglia Wright nel Garden Room Hedrich Blessing Collection
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E’ realizzato con pareti in solida muratura che sostengono un tetto inclinato costituito da una serie di travi a C in legno di sequoia, un tempo coperte da pannelli mobili in tessuto (in plastica traslucida oggi). Lo studio di Wright, realizzato in origine nel 1938 e completamente ricostruito venti anni dopo, appare come una versione ridotta della Drafting Room, con spesse pareti in muratura e un tetto inclinato in legno di sequoia con pannelli ombreggianti in tessuto. Il Kiva (che prende il nome da un termine che indica un locale sacro sotterraneo nella lingua Puebla) era in origine un teatro, cinema e spazio per spettacoli semi-interrato. Trasformato in una biblioteca nel 1949, è uno dei pochi edifici a Taliesin West interamente costruiti (pareti e copertura) in “Muratura del Deserto”. L’appartamento di Wright comprende due camere da letto, un tinello, una galleria, una cucina e una sala da bagno che si aprono su un giardino privato recintato. La Garden Room era stata inizialmente pensata come soggiorno dell’appartamento di Wright, ma poco dopo il completamento venne trasformata in uno spazio di socializzazione per tutti quelli che risiedevano a Taliesin West. Spazio luminoso coperto da un tetto inclinato in legno e tessuto, la Garden Room si apre su una terrazza esterna, la Sunset Terrace.
Noi dobbiamo costruire edifici più grandiosi su una base più solida, un ideale di architettura organica che si accordi con l’ideale della vera democrazia.
Sopra ed a sinistra esempi di come viene sfruttata la luce naturale anche negli ambienti al piano terra Foto da gettyimages.no
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Interno del Garden Room, successivamente, poco dopo il completamento, venne trasformata in uno spazio di socializzazione per tutti quelli che risiedevano a Taliesin West Foto di Carol M. Highsmith
Il Movements Pavilion anche conosciuto come Music Pavilion o semplicemente Pavilion, era in origine un padiglione per danza e danzaterapia. Distrutto da un incendio nel 1963, venne ricostruito nel 1964 rimpiazzando legno e tela con acciaio e fibra di vetro. È Il più ampio spazio per spettacoli di Taliesin West, 126 posti con platea a gradoni e un impressionante tetto a capanna traslucido. Il Cabaret (1950), invece, è un teatro semi-interrato per spettacoli dal vivo e proiezioni cinematografiche, in origine con sedute a gradoni per circa 50 spettatori, che rimpiazzò il più piccolo Kiva come spazio eventi principale del complesso. Tetto e pareti sono realizzati in muratura, la soletta di copertura è anche rinforzata con travi in acciaio; si caratterizza per un particolare apparato decorativo di ispirazione asiatica. Grazie all’approccio intelligente e ragionato, Taliesin West è ancora oggi un insieme architettonico eccezionalmente coerente nei suoi aspetti più significativi Vero e proprio “work in progress”, il complesso venne costruito dai praticanti di Wright, in gran parte a mano, utilizzando pietra locale, calcestruzzo, legno di sequoia, acciaio, vetro recuperato e tessuto. Anche i mobili furono disegnati e realizzati da Wright e dai suoi studenti, in base al principio dell’ “imparare facendo” su cui la Taliesin Fellowship si fondava.
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CHANDIGARH In India, nel Pujab, prende vita nel 1953 il progetto di Le Corbusier per una grande città a misura d’uomo
C
handigarh rappresenta la proiezione moderna del sogno urbanistico rinascimentale della “città ideale”, progettata al tavolo da disegno per risolvere i problemi della società quando ancora si credeva nella funzione salvifica dell’urbanistica come scienza sociale. È Ritenuta il capolavoro di Le Corbusier, tra le figure più influenti della storia dell’ architettura contemporanea, viene ricordato come maestro del Movimento Moderno. Pioniere nell’uso del calcestruzzo armato per l’architettura, è stato anche uno dei padri dell’urbanistica contemporanea. Membro fondatore dei Congrès Internationaux d’Architecture moderne, fuse l’architettura con i bisogni sociali dell’uomo medio, rivelandosi geniale pensatore della realtà del suo tempo. Assieme a Mies van der Rohe e Walter Gropius, Le Corbusier ha contribuito alla creazione del Movimento Moderno. Lo stile si definisce per forme lineari, interni aperti e strutture “senza peso”. Naturalmente, la filosofia di Le Corbusier punta tanto alla funzione, quanto alla forma. Gran parte del suo lavoro si incentra infatti sulle modalità con cui l’architettura è in grado di influire sui paesaggi sociali. I principi della sua “Unité d’Habitation” sono esemplificativi della sua visione: blocchi di appartamenti che offrono spaziose soluzioni abitative e vie dedicate allo shop ping o ad altri servizi. Queste case diventano così per le masse luoghi non solo dove abitare, ma dove vi-
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vere. Secondo il pensiero di Le Corbusier non esisteva una sostanziale distinzione tra l’urbanistica e l’architettura, discipline che egli tentò di coniugare con demiurgica perizia. La sua attenzione era principalmente rivolta a studiare un sistema di relazioni che, partendo dalla singola unità abitativa intesa come cellula di un insieme, si estendeva all’edificio, al quartiere e all’intero ambiente costruito.
L’Unité d’Habitation di Marsiglia è la magistrale sintesi di questa teoria e racchiude in sé tutti i princìpi archi-tettonici da lui ideati, divenendo la somma delle funzioni prettamente domestiche coniugate a quelle urba-nistiche, poiché è stata concepita come una vera e propria «città verticale» caratterizzata da spazi individuali inseriti in un ampio contesto di aree comuni; questo equilibrio fu supportato dall’impiego delle più moderne tecniche progettuali e costruttive già scoperte in precedenza dal Razionalismo e dall’esperienza del Bauhaus, con un largo uso del cemento armato e di materiali innovativi.
In questa pagina e a sinistra, l’ingresso della città di Chandigarh che oggi conta 1 025 682 abitanti.
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Il progetto di Chandigarh
La storia di Chandigarh inizia nel 1951, quando il primo ministro indiano Jawaharlal Nehru invita l’architetto Le Corbusier a progettare ex novo la capitale del Punjab, una città modernista pensata per rompere i legami con il passato coloniale del Paese, proiezione moderna del sogno della città ideale rinascimentale. Nasce così Chandigarh, il cui monumentale modernismo prometteva di liberare l’India dalle catene della tradizione coloniale. Progettata come un complesso urbano costruito dal governo indiano per ospitare mezzo milione di residenti, è diventata sia un monumento in declino al modernismo sia una parte importante dell’eredità di Le Corbusier, di cui rappresenta il progetto più ampio. Situata tra le colline dell’Himalaya, nell’India nord-occidentale, Chandigarh è nata dopo che la guerra indo-pakistana del 1947–1948 ha diviso lo stato indiano del Punjab, lasciando l’ex capitale Lahore in territorio pakistano. Nehru e il governo indiano hanno dapprima incaricato del progetto di Chandigarh l’architetto russo Matthew Nowicki e l’urbanista Albert Mayer, ma la morte di Nowicki in un incidente aereo ha reso necessario un sostituto. Le Corbusier accettò la commissione, attratto dall’idea di avere a disposizione lo spazio e il budget per testare le sue teorie architettoniche e urbanistiche, e 76 INSIDE UTOPIA
Sopra, il palazzo dell’assemblea costruito tra il 1951 e il 1962. In basso, la pianta della città progettata da Le Corbusier per una vivibilità migliore.
collaborò con un gruppo di architetti di cui faceva parte anche il cugino Pierre Jeanneret. L’ordinato sistema a griglia progettato da Le Corbusier a Chandigarh appare quasi fantastico in un paese i cui centri urbani sono sinonimo di caos. Qui, al contrario, ampi boulevard collegano tutti i 56 settori della città, ciascuno dei quali è stato progettato come un micro-quartiere autonomo con negozi, scuole e spazi per il tempo libero. Anche i dintorni sono verdi, con parchi e viali alberati per ammorbidire l’effetto degli edifici in cemento, di matrice brutalista. “Il progetto di Le Corbusier è paragonabile a un corpo umano, con gli edifici più importanti in testa, il quartiere centrale degli affari come cuore, le aree industriali sul fianco orientale e quelle dell’istruzione sul lato opposto, come fossero le due braccia della città” spiega al Financial Times Kapil Setia, architetto responsabile dell’urbanistica cittadina. Una precisione che è persino entrata nell’idioma locale racconta lo stesso articolo: i locali usano l’espressione “andare al settore 25” come un eufemismo per la morte, in riferimento alla zona che ospita le aree di cremazione. Il quartiere principale della città comprende il Palazzo di Giustizia, con i suoi enormi pilastri dipinti di giallo brillante, verde e rosso, il Palazzo dell’Assemblea, con l’interno decorato da pannelli a forma di nuvola che contengono cotone per l’assorbimento acustico e il Segretariato, tre architetture progettate dallo stesso Le Corbusier insieme al Capitol Complex, che ha appena ricevuto il riconoscimento di Patrimonio Unesco. Al centro, il simbolo di Chandigarh: una mano aperta in ferro, che si muove con il del vento. È pensato per essere un simbolo di non violenza e pace, perché “una mano aperta non può tenere un’arma”. Nel settore 3 di Chandigarh c’è invece l’India’s Rock Garden, costruito segretamente su una riserva di terra da Nek Chand Saini, un ispettore delle strade cittadine e artista autodidatta, nel 1957, quando fu scoperto dalle autorità. Una sorta di Park Güell dichiaratamente indiano, fatto di rifiuti industriali e rocce: un’enorme distesa piena di panche a mosaico, una casa di specchi e colonne appese ad altalene, cascate e sculture di animali immaginari. Insomma, quanto di più lontano da Le Corbusier ci possa essere. Chandigarh oggi è anche un monumento all’assimilazione, con il tempo, il clima e l’abbandono che lasciano i propri segni sugli edifici e gli adattamenti caotici degli abitanti, che hanno allestito negozi all’interno di edifici in cemento destinati a uffici governativi, bambini che
“una mano aperta non può tenere un’arma”
“La mano aperta” monumento simbolo della città.
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giocano in affollati parchi giochi, o residenze moderniste illuminate per il Diwali, dimostrazione che anche i piani urbanistici più dettagliati devono prevedere un margine di errore, che è la vitalità umana. L’ispirazione per il piano generale di Le Corbusier è stata attribuita a una serie di fonti. La sua enfasi sull’ampio spazio verde tra le sue strade e gli edifici traeva non solo dai principi di Garden City richiesti dal governo locale, ma dal concetto stesso dell’architetto della Ville Radieuse, anche se con gli imponenti grattacieli di vetro sostituiti da sculture che riflettevano lo scopo governativo di Chandigarh. Invece di radere al suolo una delle città della sua nativa Europa per creare il suo paradiso urbano perfettamente ordinato, Le Corbusier ha avuto l’opportunità di utilizzare quegli stessi principi nell’incontaminata campagna del Punjabi. Il sistema di grandi viali di Chandigarh, sembra che derivi da Parigi, la metropoli che ha così disgustato Le Corbusier, il cui desiderio era demolirla a favore del suo schema urbano preferito (esso stesso haussmaniano nella sua visione). È inoltre probabile, che l’ispirazione per queste qualità derivi dal precedente piano per Nuova Delhi, un esempio più locale di pianificazione urbana globale mirata alla glorificazione dello stato. Anche il formato rettilineo complessivo di Chandigarh è stato paragonato alla pianta quadrata della Pechino medievale; la nuova città era quindi basata su almeno tre capitali nazionali di buon auspicio. Anche se il piano principale ha preso forma come Le Corbusier immaginava, non è mai stato soddisfatto delle abitazioni che sorgevano accanto alla sua amata griglia. Dal momento in cui ha preso in mano il progetto, l’architetto voleva applicare il suo concetto di Unité d’Habitation a Chandigarh, inserendo palazzi residenziali per i dipendenti del governo della città nella città altrimenti bassa; nonostante i suoi sforzi, il governo locale esitò e il progetto delle unità residenziali divenne di esclusiva responsabilità di Jeanneret, Fry e Drew. Queste residenze erano suddivise in tredici categorie in base al rango e ai redditi dei funzionari governativi che le avrebbero abitate. Ad ogni categoria è stato assegnato sia un numero che ne indicava il rango, sia una lettera che indicava il suo progettista; tuttavia, tutti erano unificati nella loro moderna semplicità geometrica. L’interesse visivo principale negli edifici altrimenti monoliticamente rettangolari proveniva dalle sporgenze profonde e dalle rientranze utilizzate allo scopo di ombreggiare, insieme a schermi perforati e, in alcuni casi, verande. 78 INSIDE UTOPIA
Deluso e insultato per il fatto che la sua visione di una collezione di torri nei parchi fosse stata annullata, Le Corbusier se ne lavò efficacemente le mani. I suoi concetti originali designavano il complesso come a capo del progetto principale, con disegni della fine del 1951 raffiguranti il Segretariato in una chiara linea di vista con il resto della città e incorniciato dall’Himalaya sullo sfondo. Dopo quello che considerava il “tradimento” della sua squadra, tuttavia, Le Corbusier modificò notevolmente i suoi piani, posizionando colline artificiali tra il complesso del Campidoglio e il resto di Chandigarh, rompendo la linea di vista tra i due. Ciò non è stato casuale: non solo Corbusier ha disegnato una serie di sezioni per verificare che i pedoni non potessero vedersi l’uno dall’altro, ma ha ordinato agli operai di rimuovere un sentiero in cima alle colline con la motivazione che “La città non deve mai essere vista . “ Ormai isolato dal suo contesto urbano, il complesso del Campidoglio ha assunto un vocabolario estetico e spaziale distinto. Il Palazzo del Governatore doveva essere collocato a capo, con l’Alta Corte e il Palazzo dell’Assemblea l’uno di fronte all’altro e il Segretariato a lato, subordinato in virtù della sua posizione poco cerimoniosa. Per le forme degli edifici stessi, Le Corbusier ha applicato una combinazione di caratteristiche classiche tradizionali e innovazioni del design indiano, tutte semplificate e realizzate in cemento.
Una foto di Le Corbusier mentre studia il progetto della pianta della città. 1951
Il Palazzo dell’Assemblea assumeva la forma di una grande scatola in cui sembravano essere inserite le distinte forme delle camere del Senato e dell’Assemblea. La sua facciata principale, che si affacciava sull’edificio dell’Alta Corte, presentava un portico con una curva rovesciata, attraverso il quale si accedeva a un interno cavernoso e ombroso con una griglia di colonne sottili che si innalzavano fino al soffitto oscurato. Dall’altra parte della piazza centrale sorgeva l’Alta Corte, una scatola dai lati aperti che era anche sormontata da un portico composto da curve invertite. Qui, invece, l’asse di curvatura era perpendicolare alla facciata principale, la luce del sole splendeva tra le arcate e il tetto dello spazio abitabile dell’edificio. Le finestre che fiancheggiavano il fronte della Corte erano dietro una grata di brises-soleil, mentre un’apertura spalancata a un’estremità della struttura, punteggiata da tre colonne dai colori vivaci, segnava l’ingresso principale. L’attrazione più famosa e visitata di Chandigarh non si deve al celebre architetto ma a Nek Chand, un poco noto impiegato delle ferrovie indiane. Si tratta del Rock Garden, un originale giardino-museo tra arte e sostenibilità. Questo museo a cielo aperto espone le originali sculture e forme create da Chand utilizzando materiali in disuso e residui provenienti dalle demolizioni di edifici. Grazie alla sua fervida fantasia riuscì a creare battaglioni di pifferai, contadine, bevitori
“Lo spirito di esuberante speranza che sorse nei primi giorni dell’indipendenza indiana sopravvive in molti dei suoi cittadini”
Uno dei viali della città ideato da Le Corbusier, ripresi dallo stile parigino.
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di té, scimmie, ballerine e varie altre figure che potrete ammirare camminando immersi nel verde. Dal momento in cui è stato costruito, Chandigarh ha goduto di una posizione di rilievo sia nel campo dell’architettura indiana che in quello globale. Lo spirito di esuberante speranza che sorse nei primi giorni dell’indipendenza indiana sopravvive in molti dei suoi cittadini, anche se il tessuto della città è stato cambiato dal tempo. Ben oltre la sua popolazione prevista di 500.000 abitanti, Chandigarh e l’area circostante ne ospitano ora il triplo: un boom demografico che ha reso necessaria una serie di controversi sviluppi suburbani nel corso degli anni. Nonostante l’inevitabile crescita della città oltre i suoi confini rettangolari originali, Chandigarh continua a mantenere l’ammirazione e l’affetto della gente del posto e della comunità architettonica internazionale; molto tempo dopo la sua morte e quella di Le Corbusier, la capitale del Punjabi continua a servire come, nelle parole di Nehru, “un’espressione della fede della nazione nel futuro”.
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A sinistra, l’esterno del palazzo dell’Assemblea composto dal portico di fronte al Campidoglio e da due sale per le assemblee. A destra: In alto, il centro della città. In basso, a sinistra, la porta del palazzo dell’assemblea; a destra, il palazzo delle ombre pensato da Le Corbusier tra il 1956 e 1957: per costruirlo è stato studiato l’andamento del Sole e la sua incidenza sull’edificio.
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Inside Utopia
AUROVILLE LA CITTÀ DELL'ALBA DI AUROBINDO “Dovrebbe esserci da qualche parte sulla Terra un luogo che nessuna nazione potrebbe rivendicare come proprio, dove tutti gli esseri umani di buona volontà che hanno un’aspirazione sincera potrebbero vivere liberamente come cittadini del mondo e obbedire a un’unica autorità, quella della verità suprema.” [ LA MADRE ]
Il nome “Auroville” è stato dato in omaggio a Sri Aurobindo, filosofo indipendentista indiano, significa “Città dell'Alba”. Auroville è stata fondata nel 1968 nel distretto di Villupuram dello stato di Tamil Nadu, in India presso la città di Pondicherry da un gruppo sotto le direttive di Mirra Alfassa“La Madre”, donna di origini francesi e devota collaboratrice spirituale di Sri Aurobindo. La città è stata disegnata dall’architetto Roger Anger e da altre figure legate alla progettazione. Ad oggi vivono circa 2.700 persone provenienti da tutta l’India e da 54 nazioni diverse, tra cui l'Italia. Auroville è intesa per essere una città universale, dove uomini e donne di ogni nazione, di ogni credo, di ogni tendenza politica possono vivere in pace ed in armonia, realizzando l’unità umana nella diversità. Una città internazionale che ambisce ad una vita senza denaro, governo, religione o urbanizzazione selvaggia, costruita per tutte le persone, i movimenti culturali e le organizzazioni che vogliono contribuire significativamente. I suoi valori richiamano lo spiritualismo induista, il comunitarismo gandhiano, il marxismo e l’anarchismo. Oggi Auroville è riconosciuta come il primo e unico esperimento in corso approvato a livello internazionale nell’unità umana e nella trasformazione della coscienza, che si occupa ed effettua ricerche sulla vita sostenibile e le future esigenze culturali, ambientali, sociali e spirituali dell’umanità.
A sinistra: Area della Pace, 12 giardini e Matrimandir, foto zenitale A destra: incontro con Roger Anger per la pianificazione della città
L'ARCHITETTURA
Nel suo schizzo del 1965 di Auroville, Mirra Alfassa ha stabilito il concetto di base della città. Con questo schizzo suddivide il sito in quattro zone che costituiscono un aspetto importante della vita della città: industriale (nord), culturale (nord-est), residenziale (sud/sud-ovest), internazionale (ovest). Attorno a queste si sviluppa una Green Belt (cintura verde) composta da aree boschive, fattorie e santuari con insediamenti sparsi per coloro che sono coinvolti nel lavoro verde, un orto botanico, una banca dei semi, erbe medicinali, bacini idrici e alcune comunità. Roger Anger, l’architetto francese, venne incaricato di sovrintendere lo sviluppo fisico della città nel 1966. L’ultimo piano che ha prodotto, insieme a Pierre Braslawski e Mario Heymann, prevedeva una città a forma di galassia in cui diverse “braccia” o linee di forza sembrano svolgersi da una regione centrale che venne definita “Area della Pace”. Il lavoro di Anger ha integrato elementi di arte ornamentale moderna e astratta. Nel 1966 è stato nominato Chief Architect di Auroville. L'architettura si articola in uno spazio ridotto con lo scopo di dimostrare che un'alto standard di vita è possbile senza l'utilizzo di numerevoli risorse. La terra è limitata, le risorse sono limitate, l'acqua, l'eneregia tutte le cose rispondono a questa logica. Questo corrisponde ad uno degli aspetti sperimentali cardine della città. Al centro dello schema sorge l’edificio cuore di Auroville: il Matrimandir. La pianta della galassia mostra le quattro zone, che sono interconnesse attraverso la “Crown”, la seconda strada circolare attorno al Matrimandir. Dal Crown, dodici strade si irradiano verso l’esterno come parte dell’infrastruttura. Alcuni di essi sono accompagnati da un susseguirsi di grattacieli, che costituiscono le cosiddette “Linee di Forza”, essenziali per il quadro della città e per l’integrazione di tutti gli accessi al centro cittadino. Ma il piano non è finito, la città è ancora tutta da inventare.
L'architettura si articola in uno spazio ridotto con lo scopo di dimostrare che un'alto standard di vita è possbile senza l'utilizzo di troppe risorse.
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In questa pagina : in alto a sinistra Area della Pace, 12 giardini e Matrimandir, foto di un drone dall’alto A destra Narendra Modi ( primo ministro) al Matrimandir Nella pagina di destra: ritratti fotografici di Sri Aurobindo e Mirra Alfassa
SRI AUROBINDO, MIRRA ALFASSA Sri Aurobindo (1872-1950), era un filosofo, nazionalista, scrittore, poeta e yogi indiano. Dopo essere stato coinvolto per molti anni come leader all’interno del movimento politico per garantire l’indipendenza dell’India, Sri Aurobindo dedicò il resto della sua vita agli studi dell’evoluzione dello spirito umano e allo sviluppo di una nuova filosofia yoga che sarebbe poi diventata nota come Yoga integrale. Mirra Alfassa (1878-1973), più nota come la Madre, era una collaboratrice di Sri Aurobindo, nonchè la sua compagna. Nacque in Francia, si trasferì in India nel 1920, dove arrivò a guidare i progetti di Sri Aurobindo dopo che questo si ritirò in isolamento fino alla sua morte.
La Madre viveva a Puducherry dal 1920 e fu lì, nello Sri Aurobindo Ashram nel 1964, che l’idea di Auroville fu concepita. Sia Sri Aurobindo che la Madre avevano espresso nei loro primi scritti la necessità di iniziare, ad un certo punto, un esperimento collettivo in condizioni ottimali. La situazione si presentò con Mirra Alfassa, le idee furono tradotte in un progetto dall’architetto francese Roger Anger, stimato dalla Madre per le sue opere in Francia. Venne scelto un sito deserto vicino a Poducherry e diedero inizio ai lavori aiutati da 5.000 persone composte da volontari, progettisti visionari, come lo stesso Roger, oltre che ai fedeli della Madre.
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Il Matrimandir, “tempio della Madre”, è un edificio di significato spirituale per i praticanti di yoga integrale. La costruzione e l'architettura di questo intero luogo si basano esclusivamente sugli insegnamenti di Sri Aurobindo. Il progetto copre un’area di 9 ettari, comprende il tempio principale, un anfiteatro e giardini. Ha la forma di un’enorme sfera circondata da dodici petali che rappresenta simbolicamente l’uovo cosmico. La cupola geodetica è ricoperta da dischi dorati e riflette la luce solare, che conferisce alla struttura il suo caratteristico splendore. All’interno della cupola centrale c’è una sala di meditazione conosciuta come la camera interna. Un percorso processionale corre tutto intorno alla spaziosa camera. Presenta una pianta dodecagonale ed ha un tetto conico. Le sue pareti sono rivestite di marmo bianco e il pavimento è ricoperto di moquette bianca. Una coppia di rampe a spirale fornisce l’accesso alla camera e si trova in un grande spazio aperto, caratterizzato da giardini, chiamato Area della Pace. Al centro della camera interna è posizionato il più grande globo di vetro otticamente perfetto del mondo, il cristallo forgiato dalla Carl Zeiss (70 cm. di diametro) che diventa il punto focale dell’attenzione a cui si aggiunge un eliostato progettato per dirigere i raggi del sole su questo globo. Questa è l’unica illuminazione per la camera di meditazione. Quando il sole non splende, viene utilizzata l’illuminazione artificiale per simulare l’effetto della luce naturale. La super struttura è sostenuta da quattro coppie di pilastri a forma di falce lunghi 38 metri che sono i principali componenti portanti. Questi moli sono stati nominati dalla Madre come Mahakali, Maheshwari, Mahalakshmi e Mahasaraswati, che simboleggiano rispettivamente forza, saggezza, armonia e perfezione. Nel 2008 la costruzione è stata completata e inaugurata.
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IL PIANO UTOPICO
L’intero piano utopico parte dalla visione di Mirra Alfassa. Disegnò uno schizzo che divise il terreno scelto in varie aree specifiche e centrali per la vita ad Auroville. Questo schizzo è diventato nel corso degli anni un simbolo per gli abitanti e i fedeli portando con sé molteplici significati: il punto al centro rappresenta l'Unità, il Supremo; il cerchio interno rappresenta la creazione, la concezione della Città; i petali rappresentano il potere di espressione e realizzazione. La città è un focolaio di eco-sperimentazione creativa, con la trasformazione di una volta deserto in foresta, pannelli solari che alimentano gran parte della città, agricoltura biologica e costruzione sostenibile. AREA DELLA PACE Al centro della città si trova l’Area della Pace, che comprende il Matrimandir ed i suoi giardini, l’Anfiteatro con l’ Urna dell’Unità Umana contenente il terreno proveniente da 121 nazioni e 23 stati dell’India. È presente anche un lago che aiuta a creare un’atmosfera di calma e serenità. CINTURA VERDE L’area cittadina con un raggio di 1,25 kilometri sarà circondata da una Green Belt (Cintura Verde) di 1.25 km di ampiezza. Come zona intesa per fattorie organiche, produzione di latte e derivati, giardini, orti, foreste ed aree per animali selvatici (wildlife), questa cintura agirà da barriera contro l’espansionismo urbano, provvederà una varietà di habitats per animali selvatici, e sarà una fonte di cibo, legname, medicine ecc., oltreché una zona ricreativa. ZONA INDUSTRIALE Un’area di 109 ettari a nord dell’ Area della Pace, la Zona Industriale, una zona per industrie “verdi”, si focalizza sugli sforzi di Auroville di costituirsi come una citta’ auto-sufficiente. Conterrà industrie di piccola e media scala, centri di addestramento, laboratori di arti e mestieri, e l’amministrazione cittadina. ZONA CULTURALE Pianificata su un’area di 93 ettari, situata ad est dell’Area della Pace, la Zona Culturale sarà un luogo per la ricerca applicata all’educazione e all’espressione artistica. In questa zona si situeranno le strutture per attività culturali, educative, artistiche e sportive. ZONA RESIDENZIALE È la più grande delle quattro zone cittadine, comprendente 189 ettari, la Zona Residenziale è circondata da parchi a nord, sud ed ovest. Questa zona vuole fornire un habitat ben integrato tra abitazioni individuali e collettive. Il 55% dell’area sarà verde, e solo il 45% sarà edificato, creando così una densità urbana in equilibrio con la natura. ZONA INTERNAZIONALE La Zona Internazionale, una zona di 74 ettari ad ovest dell’Area della Pace, ospiterà padiglioni nazionali e culturali, raggruppati per continenti. Il suo scopo principale è di creare una dimostrazione vivente di unità umana nella diversità attraverso l’espressione della genialità e del contributo di ogni nazione.
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Nella doppia pagina precedente: una delle entrate principali del Matimandir A sinistra: schizzo della Madre A destra: modellino in scala della pianta di Auroville, 1968; Roger Anger con in mano il modello in miniatura del Matrimandir
ROGER ANGER Roger Anger (1923-2008) si diplomò nel 1947 all'Ecole des Beaux-Arts, era appassionato di pittura e scultura. Il suo studio era pieno di opere d'arte che sfornava continuamente in gran numero fino ai suoi ultimi giorni. Anger è stato capo architetto del comune internazionale di Auroville e membro del consiglio di amministrazione della Fondazione Auroville. Abbandonando l'architettura commerciale, sciolse la sua collaborazione in Francia per accettare il progetto Auroville come lavoro a tempo pieno. Era uno scultore, artista, architetto e progettista. Negli anni '60 Roger era un'architetto conosciuto per diverse opere e progetti in Francia. Aveva già eseguito oltre cinquanta progetti su larga scala ed era noto per il suo stile significativo. Il progetto Auroville iniziò con
l'incontro a Ponducherry con Mirra Alfassa la quale gli presento l'idea e la possibilità di entrare a farne parte. Il lavoro di Roger è stato quello di andare a definire dei criteri di vita e ripensare l'architettura in relazione a questi per la comunità della Madre. La sua responsabilità era quella di garantire la forma urbana di Auroville, e i suoi ultimi sforzi ruotavano attorno alla creazione di una struttura di governo adeguata che promuovesse lo sviluppo della città. Tutta la sua energia è stata spesa per creare le condizioni per la città a venire. Ha prodotto proposte anche per altre città: Salem, Kudremukh e Faridabad. Il fattore che più di tutti ha guidato lo sviluppo complessivo del Matrimandir e l'unico fattore che ha portato all'incarnazione di una bellezza superba era Roger.
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IL MASTER PLAN
Il lavoro di Anger ha integrato elementi di arte ornamentale moderna e astratta. Tuttavia, la serie di edifici educativi lì, sebbene meno immediatamente appariscenti, sono più originali nella forma, e servono come manifestazioni fisiche della visione radicale della Madre per nuovi modelli di educazione. Qui l’architetto Joanne Pouzenc riflette sulla ponderata fusione di funzione, struttura, simbolismo e teoria di Anger. Sin dall’inizio, i primi edifici ad Auroville furono il risultato di una sperimentazione più tipicamente associata alla scultura che all’architettura. Costruita con il tempo non con il denaro. Insieme ad un paio di case unifamiliari, Roger Anger, lavorando secondo la visione della Madre per l’educazione al design, ha costruito quattro scuole, che contemporaneamente forniscono un laboratorio unico per la sperimentazione educativa, pur essendo oggetti architettonici di rara bellezza. Nascoste dietro gli alberi non lontano dall’ingresso principale di Auroville. I quattro edifici siedono insieme come manufatti unici, ciascuno con una funzione diversa e per una fase diversa della teoria educativa della Madre. Gli edifici, Last School, After School 1, After School 2 e No School - i loro nomi sottolineano l’intenzione di superare le nozioni classiche di educazione - emergono come scolpiti dal suolo. Non ci sono aule nelle scuole di Anger, poiché non ci sono materie da insegnare nella comprensione classica del termine. Gli spazi riflettono l’idea di implementare la conoscenza in modo fluido senza una struttura rigida. In queste scuole, gli insegnanti fungono da mediatori e sono invitati a seguire i pensieri degli studenti spiegando un argomento dall’altro mentre si presentano, portando alla teoria dell’educazione una lezione sul potenziale dell’imprevisto. L’approccio del Master Plan è quello di stabilire che le risorse intellettuali ecomiche e umane, che normalmente gravitano nelle aree urbane, possono essere utilizzate efficacemente per diffondere lo sviluppo in modo più uniforme e per creare una società A sinistra: centro Sharanam per lo sviluppo rurale A destra: in alto residence Auromodele di Roger Anger; in basso asilo Nandanam
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equa ed economicamente sana. L’obiettivo sperimentale più ampio del sito e della sua architettura stesso è quello di creare un intero sistema orientato verso una visione dell’abitare che si autogoverna e si autoalimenta. Il concetto di Auroville è quello di costruire una città che economizzerà sui bisogni del suolo introducendo approcci di sviluppo con un mix ottimale di densità e attraenti forme urbane e servizi, mentre la cintura verde circostante sarà una zona fertile per la ricerca applicata nei settori della produzione alimentare, silvicoltura, conservazione del suolo, gestione dell’acqua, gestione dei rifiuti e altre aree che favoriscono lo sviluppo sostenibile.
La città vuole diventare un punto di riferimento per lo sviluppo eco sostenibile e l’innovazione sociale del mondo.
Il Master Plan Auroville prevede la strada come uno spazio comune per tutti. Ovunque il movimento veicolare sia consentito all’interno della stessa Auroville sarà limitato. Comprende questioni ambientali, integrazione di servizi e infrastrutture, traffico non inquinante, raccolta e conservazione dell’acqua, conservazione del patrimonio culturale, interazione con l’agricoltura biologica e progetti di imboschimento, nonché integrazione dei villaggi e esigenze di sviluppo regionale. Per la zona residenziale di 189 ettari, lo sviluppo sarà principalmente limitato a edifici residenziali della comunità, spazi di incontro della comunità, asili nido e bisogni educativi per gruppi di età inferiore, studi di lavoro, centri di pronto soccorso, parchi, parchi giochi, elementi paesaggistici, aree di parcheggio ecocompatibili, chioschi e minimarket, con in più la possibilità di piccoli atelier artigianali. Una città pedonale avrebbe un’atmosfera speciale. L’architettura sarebbe diversa da quella delle città autocentrate, fornendo una “vicinanza” che si trovava nelle città prima dell’avvento dell’automobile. Ci saranno passaggi visivamente interessanti, così come spazi urbani a misura d’uomo. Le principali attività di costruzione in città proseguiranno per molto tempo e, ancora, ad Auroville mancano i mezzi per sostituire il trasporto non inquinante.
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VIVERE AD AUROVILLE
SVILUPPO SOCIALE
Il 45% della popolazione è indiana, mentre l’Italia è la quarta nazione più rappresentata dopo l’India, la Francia e la Germania, con ben 124 residenti. Per diventare residenti permanenti, i nuovi arrivati devono contribuire attivamente alla comunità per almeno due anni, senza mai allontanarsi da essa. Un comitato ristretto analizza poi le richieste di residenza, ed il primo gesto richiesto ad ogni nuovo cittadino è quello di piantare un albero: grazie a questa iniziativa, è nata una foresta in mezzo al deserto. L’intera comunità è finanziata da UNESCO, Comunità europea, governo indiano, e da donazioni private, che insieme contribuiscono ad un bilancio complessivo annuale con circa 5 milioni di euro. La collettività decide come utilizzare i fondi e i profitti delle varie unità produttive vengono divisi equamente tra società, casse comunali e progetti specifici proposti dalla cittadinanza per sostenere le imprese locali e il bene comune. Ad oggi si contano oltre 150 piccole imprese e start up, che beneficiano dalla base interculturale di Auroville per creare progetti agricoli, artigianali, multimediali, culturali; alcuni anche legati all’industria del software e delle traduzioni. Una di queste realtà è Imagination, un’organizzazione fondata nel 1992 da due artisti sudamericani, per creare opportunità di lavoro attraverso la produzione di saponi naturali e prodotti tessili, realizzati con metodi ecocompatibili. Tutti i profitti sono spartiti con l’intera comunità, nessuno percepisce un vero e proprio salario, bensì una sorta di sovvenzione paritaria. Non di rado, però, dato il basso costo della vita e la maggioranza di cittadini stranieri, molti decidono di rinunciarvi, vivendo grazie ai risparmi accumulati con il loro vecchio lavoro nei paesi d’origine. Per i nuovi arrivati, invece, è previsto che le spese del primo anno siano a loro carico; vengono, inoltre, incoraggiati ad investire i propri capitali all’interno della città. Come per ogni utopia che si rispetti, anche qui non mancano le difficoltà e i problemi e sarebbe ingenuo e mistificatorio ometterli. In Auroville ci sono diversi problemi legati alla sicurezza sociale, alla gestione delle risorse e delle proprietà e la comunità sta lavorando per prendere adeguati provvedimenti. In principio il progetto iniziale non era programmato per accogliere un tale numero di persone, infatti le risorse di acqua sono limitate, le proprietà non sono sufficienti per accogliere l’altissimo numero di richieste e l’economia locale stenta. Inoltre, al di fuori di Auroville ci sono delle gang pericolose che puntano la cittadina e bisogna fare particolare attenzione.
UNA CITTÀ CHE FUNZIONA
Il 30 dicembre 2011, il ciclone Thane ha colpito Auroville. Il vento era di 135 km/h, migliaia di alberi sono stati sradicati o decapitati. Molti edifici sono stati danneggiati. Ma l'oasi verde di Auroville rinasceva come una fenice, ben presto le tracce del ciclone sparirono: la città e gli auroviliani resistettero. Durante l’emergenza Covid-19 Auroville ha chiuso le sue porte ai visitatori dal 25 marzo e continua a
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rimanere chiusa. Uno spirito instancabile di volontariato e uno stile di vita autosufficiente sembrano aver aiutato Auroville a mantenere un track record di zero casi di Covid-19 nella sua comunità globale. Infatti, durante un periodo in cui il nuovo coronavirus si stava diffondendo silenziosamente in tutto il mondo, Auroville, aveva ricevuto circa 10.000 turisti da tutti gli angoli del mondo in gennaio e febbraio.
A sinistra: riunione per prendere decisioni comuni A destra: bambina che gioia nello spazio interno della scuola After School 1
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A sinistra: uffici a Bharat Niva A destra: in alto Chantal Gowa, pittrice; in basso Klara Brogli, ex giudice dalla Svizzera
ARTE E CULTURA
L’arte gode di una fama molto venerata nella società aurovilliana e gran parte della comunità è composta da artisti e creativi. Auroville è la patria di una grande piattaforma che mostra e celebra varie forme d’arte diverse. I centri d’arte sono ampiamente diffusi qui. Alcune delle forme d’arte ammirate qui sono la danza, la musica classica, la poesia, la filmografia, solo per citarne alcune. Ci sono molti progetti artistici di gruppo e iniziative in corso qui, il che rende Auroville un luogo ideale per gli artisti in cui trovare asilo. Da un arido deserto, gli Auroviliani sono riusciti a creare una foresta lussureggiante che a volte sembra una giungla selvaggia Organizzata in un centinaio di unità di lavoro, ogni comunità sviluppa un particolare progetto in campi che vanno dall’agricoltura all’istruzione, salute, medicina olistica, artigianato, ricerca scientifica, informatica o architettura. È così che Auroville è piena di scuole, centri musicali e artistici, culturali, botanica, eco-costruzione, progetto di riforestazione, gestione delle foreste e dell’acqua ma anche cinema, case editrici, produzione tessile, centro di meditazione, ci sono progetti tanto rurali quanto urbani. YOGA INTEGRALE
Molti Auroviliani, certamente quelli che sono venuti appositamente per la visione e la chiamata spirituale di Auroville, stanno praticando lo "Yoga integrale" come descritto da Sri Aurobindo, e si riferiscono naturalmente ad esso nelle loro comunicazioni nella vita quotidiana. Lo scopo central è la trasformazione del nostro modo di pensare, vedere, sentire ed essere umano superficiale, stretto e frammentario, in una profonda e ampia coscienza spirituale e in un'esistenza interiore ed esteriore integrata, e della nostra vita umana ordinaria in una interpretazione divina della vita.
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Da un arido deserto, gli Auroviliani sono riusciti a creare una foresta lussureggiante.
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LE ARCHITETTURE DI LOUIS KAHN
IL SENSO DEL LUOGO
QUANDO SENSAZIONE E PENSIERO SI UNISCONO PER DARE VITA AD UNA FORMA IDEALE
Tra i nomi più discussi dell’architettura mondiale è doveroso citare il maestro Louis Kahn, che grazie alla sua mente innovativa e alla sua tendenza nel creare opere in contesti spesso discordanti con l’identità della costruzione stessa, ha dato vita ad un ideale unico, che è subito riconducibile a lui e a lui soltanto. Questa sua visione è la rappresentazione di un’architettura utopica, come possiamo riconoscere sia nelle sue creazioni più celebri sia nelle sue opere minori. Louis Isidore Kahn nasce sulla piccola Isola di Osel in Estonia il 20 febbraio 1901. Alla tenera età di quattro anni, emigra dall’Unione Sovietica e si trasferisce negli Stati Uniti d’America, nello specifico in Pennsylvania. Esegue i suoi studi a Philadelphia dove si laurea in architettura nel 1924. Nel 1935 Louis Kahn si iscrive all’American Institute of Architects (AIA) e apre il suo primo atelier a Philadelphia. La vita di Louis Kahn ruota intorno a tre famiglie; questa sua esistenza frammentata comporta delle complicanze durante la sua vita e al momento della sua morte, avvenuta nel 1974, quando fu stroncato da un infarto alla Pennsylvania Station di New York. Con il suo gusto primordiale e la sua abilità nel sapere organizzare gli spazi ha rivoluzionato l’idea di architettura moderna creando uno stile proprio e iconico. Le opere di Louis Kahn sono da ritenersi un’utopia per le scelte strutturali che l’architetto ha deciso di adottare nel tempo e per la posizione e il contesto ambientale in cui sono inserite. Particolare attenzione merita il pensiero filosofico che si nasconde dietro le opere dell’architetto, la filosofia è il fulcro attorno al quale prendono forma le sue creazioni e il motivo delle sue scelte così discusse. Famoso per il suo stile essenziale e geometrico, ha saputo realizzare opere monumentali, talvolta incomprese per chi le osserva ignorando la visione di questo eccentrico progettista. Per comprendere appieno il suo genio creativo e per conoscere gli argomenti cari all’autore, ripercorreremo i temi più significativi nei suoi progetti, citando le opere più considerevoli che hanno consacrato il suo nome tra quello delle grandi personalità dell’architettura moderna.
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Sopra: l’architetto Louis Kahn nel 1962, chino sulla scrivania del suo atelier a Philadelphia (in Pennsylvania) intento a realizzare gli schizzi del suo progetto per la National Assembly di Dhaka, in Bangladesh. A destra: l’edificio dell’Assemblea Nazionale. Concepito concettualmente nel 1959 dal governo del Pakistan come estensione della sede parlamentare. L’incarico è stato assegnato a Louis Kahn nel 1962, infatti spesso viene accreditato di aver introdotto l’architettura moderna in Bangladesh.
Architettura dell’utopia
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Come ogni grande mente creativa, anche Louis Kahn possedeva una visione che lo ispirava e lo accompagnava nella realizzazione delle sue opere. La sua visione non è elementare da comprendere e non è riconducibile ad una qualsiasi corrente artistica. Questo grande genio è riuscito a creare un pensiero filosofico proprio, unico e ricorrente in tutte le sue creazioni, da quelle più conosciute alle sue opere minori. La sua abilità è stata quella di riuscire a mettere una parte di sé e del suo pensiero architettonico in ogni suo progetto, rendendolo speciale e attribuendogli un’identità. L’operato di Kahn è caratterizzato da più costanti: il senso della composizione, l’uso dei materiali secondo la loro natura, il senso dello spazio come essenza dell’architettura, la luce come elemento di progetto, il rapporto tra uomo e l’ambiente. Innanzitutto si deduce il tentativo di coniugare il suo stile con le forme dell’antichità. Da un lato cercava di dare risposte architettoniche ed epistemologiche alle sue creazioni, dall’altro contestualizzava i suoi edifici in uno scenario immaginario. A prima vista, molti rimanevano perplessi dai suoi elaborati, ma una volta spiegato il contesto in cui operava Kahn, anche le menti più scettiche riuscivano a comprenderne il genio. Non c’è dubbio che Kahn abbia beneficiato degli edifici del passato, soprattutto a livello gnoseologico. Kahn ha sollevato domande sull’architettura che non avrebbero potuto essere affrontate da un recupero formale della storia, in questo senso i suoi progetti rivalutano e ripropongono le lezioni della storia in chiave moderna. Kahn è stato un architetto classico romantico e come tale ha voluto realizzare forme perfette, nette, geometriche. Lui considerava necessaria la riflessione sulle rovine antiche per determinare un rinnovato corso dell’architettura. Tale relazione, in apparenza abbastanza improbabile, si comprende osservando la grande quantità di fotografie di rovine romane e confrontandole con gli edifici progettati da Kahn, a partire dal Salk Institute. Nonostante i suoi edifici siano imbevuti di spirito antico, e abbiano aperto la strada al revival classico, Kahn ha sempre rifiutato l’uso di elementi classici e nel proprio personale modernismo si è sempre limitato ad un processo di astrazione delle nude rovine. Oltre al tema dell’antichità palesemente presente nelle sue opere, Kahn parlava spesso di silenzio e luce. La sua era un’indagine quasi metafisica sulla natura dell’ambiente e dei materiali, e i suoi spazi, sebbene spesso dessero un cortese benvenuto a un gran numero di persone, sembravano nel loro stato più naturale quando erano quasi vuoti. Essere soli nelle grandi stanze di Kahn e sentire il silenzio e vedere la luce penetrare dolcemente attraverso questi spazi silenziosi, dà a questa esperienza una concezione mistica, di pace interiore. Una luce primordiale, lame di luce, luce diffusa, diretta e indiretta. Sono spazi in cui si percepisce il silenzio nella sua potenza, suoni diversi risuonano in essi oltre la capacità uditiva. Il risultato non è casuale, ma dovuto allo
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studio dell’architetto che ha voluto riprodurre nelle sue creazioni quella sensazione metafisica che si prova quando si visitano le grandi opere monumentali del passato, e ci si lascia travolgere da un sentimento antico e trascendentale. La luce naturale è fondamentale per Kahn, essa determina l’identità di una stanza. L’economia naturale degli elementi è stata fin dall’inizio una delle maggiori preoccupazioni di Kahn, che già nei primi progetti ha cercato la partizione razionale dei pieni e dei vuoti. Si tratta sempre di spazi che traggono il loro reale significato dall’uso che ne viene fatto, essendo ripartita la luce con grande accortezza.
L’architettura è definita come elemento organizzatore dell’attività umana, di luoghi in cui è stato giusto apprendere, incontrarsi, esprimersi, vivere.
Alcuni schizzi creati da Louis Kahn nel corso della sua carriera, rappresentativi di quelle che sono state in seguito architetture realizzate e presenti sul suolo americano nella sua città d’adozione, Philadelphia. In alto: vista in psospettiva della City Tower di Philadelphia (1952-1953) In centro: raffigurazione del Civic Center Studies di Philadelphia, in prospettiva. (1955 ca.) In basso: schizzo per il progetto del Civic Center di Philaldelphia, ritratto da una prospettiva aerea (1957). Questo disegno sembra essere ispirato alle costruzioni immaginarie di Piranesi del 18° secolo di Roma. Questo, come tutti gli altri schizzi, sono conservati negli archivi del Museum of Modern Art MoMA PS1, nel Queens.
Nel rifiuto dell’indipendenza tra l’ossatura e il muro, tra spazi e costruzione, Kahn ha trasformato la tecnica in architettura. Il tempo ha dimostrato con evidenza l’importanza dell’architetto, la cui opera rivela uno spirito, un’aura che la distinguono dal lavoro degli architetti contemporanei. I suoi edifici, che costituiscono una delle espressioni emblematiche del finire del secolo, sono primitivi ma totalmente privi di senso dinamico, sembrano quasi trascenderlo, facendo forse riferimento a una matrice diversa. Kahn era certo che esistessero delle verità architettoniche. Non erano, per lui, semplici verità, ed è giusto pensarlo come un ricercatore, pensare alla sua vita come una ricerca, che è ciò che lo distingue così completamente dai modernisti del Bauhaus. I potenti edifici in muratura di Kahn facevano un grande uso di forme geometriche semplici, primordiali, ma non abbracciava uno stile unico; gli piaceva parlare di andare alla radice delle cose, di cominciare dalle basi, di arrivare all’essenza di “ciò che un edificio vuole essere”, per usare una delle sue frasi preferite. La violenza dei suoi edifici è latente, potenziale, per la loro stessa natura di masse statiche e severe, costruite da elementi pesanti in cui le connessioni divengono momenti importanti. L’uso dei materiali secondo Kahn, non può essere casuale, è importante il rapporto tra l’artigiano e la materia. I muri dell’istituto Salk sono l’espressione vivente del calcestruzzo di cui sono fatti. I lavori che Kahn ha eseguito in India gli hanno dato l’occasione di utilizzare il mattone, che è non solo il più comune materiale da costruzione, ma anche il più appropriato. Nelle sue mani il mattone ha ricevuto nuova vita: alternato con il calce-
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struzzo, il mattone originale, ne viene rinforzato, pur salvaguardato nel suo valore. Tutto il suo lavoro è caratterizzato da una perfetta coesione tra la mentalità tradizionale e l’uso razionale dei materiali. Molto importante per Louis Kahn è il concetto dell’uomo. Lui progettava per l’uomo e per il rapporto uomo-comunità, due concetti chiave che accomuneranno la visione di Kahn a quella di altri esponenti dell’architettura come Le Corbusier. Questa affermazione riflette la distinzione che egli amava fare tra l’uomo come specie e l’uomo come individuo. Come ogni altro elemento della natura, l’uomo è soggetto alle leggi naturali; ma nella coscienza di sé e nel silenzio sta il senso profondo del suo “essere umano”, non soggetto a cambiamenti culturali o evoluzionistici.
L’uomo non è natura, ma è originato dalla natura. Io non credo che sia la società a fare l’uomo. Credo che sia l’uomo a fare la società. [ LK ]
In questa pagina: La Phillips Exeter Academy Library, New Hampshire (1971). Sotto: Un’area della biblioteca dedita agli studenti, i quali studiano riuniti ad un tavolo al centro di uno spazio che è soprattutto luogo d’incontro per l’uomo.
L’incontro è allo stesso tempo la ragione e l’origine della città. Per Kahn la città è segno del desiderio dell’uomo di incontrarsi, esprimersi, comunicare. In un periodo caratterizzato da una profonda rivoluzione dei valori umani e sociali, noi dobbiamo a Louis Kahn una ridefinizione del termine “istituzione”. Le istituzioni, come la città o l’architettura, sanciscono, consacrano gli sforzi dell’uomo. Ci sono tre costanti nelle istituzioni, le stesse che si trovano nella storia dell’architettura: la scuola, la strada e gli spazi verdi. Con il termine “scuola” Kahn definisce tutti i luoghi destinati a soddisfare l’aspirazione ad apprendere, che è propria dell’uomo. La strada è aperta ad ogni tipo di uso, ed è innanzitutto un luogo d’incontro, è il vero senso della città. Per quanto riguarda gli “spazi verdi»” Kahn ha esaminato tutti i problemi che si pongono all’uomo nei confronti dei suoi simili, o meglio dell’individuo di fronte alla società, problemi di spazi, di luoghi dove la gente si incontra e tenta di far valere le proprie capacità. Per mettere ulteriormente in relazione lo spazio disegnato a misura d’uomo con il tema delle istituzioni, Kahn ha realizzato opere e edifici destinati a luoghi di assemblea sia per uso laico che religioso. Incarichi quindi molto differenti quali la Phillips Exeter Academy Library, l’edificio dell’Assemblea Nazionale a Sher-eBangla Nagar a Dacca, il Salk Institute for Biological Studies a La Jolla, California e il Four Freedoms Park a New York.
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National Assembly Dhaka
A differenza dei suoi colleghi modernisti, Louis Kahn non ha mai costruito all’ insegna della leggerezza e della trasparenza, né tantomeno utilizzando le nuove possibilità della tecnica, queste connotazioni lo portarono lontano dal tipo di progettazione dei suoi coetanei, come i funzionalisti che bandivano termini come robustezza e forza. Eppure i suoi progetti sono stati fin da subito moderni e all’avanguardia, all’insegna della monumentalità, a volte talmente estremi da restare sulla carta. Infatti Louis Kahn è spesso accreditato di aver introdotto l’architettura moderna in Bangladesh nella sua Assemblea nazionale a Dhaka (1962-1983). L’incarico gli fu assegnato nel 1962, quando il Bangladesh era il Pakistan orientale, e fu completato solo nel 1983, nove anni dopo la morte dell’architetto. La progettazione di questo edificio trattava di decisioni estetiche radicate in una particolare posizione teorica, infatti le scelte adottate si trovavano al di fuori della pratica modernista consolidata dell’epoca sia nell’Asia meridionale che negli Stati Uniti.
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A destra: Sher-e-Bangla Nagar, Dacca, Bangladesh (19621983). Pianta dell’intero complesso. In basso, a sinistra: Ponte d’ingresso all’edificio, dettaglio. In basso, a destra: Edificio dell’Assemblea Nazionale, vista da ovest.
Il National Assembly Building si trova come un’entità enorme nel deserto bengalese; ci sono otto aule allineate concentricamente attorno alla grande camera parlamentare, che non è solo una metafora per porre il nuovo governo democratico al centro dell’edificio, ma è un segno di come Louis Kahn progettasse gli spazi secondo il modo in cui l’uomo avesse interagito all’interno di esso.
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In alto: Copertura dell’Aula dell’Assemblea e dettaglio delle sedute interne. A sinistra: Deambulatorio nell’edificio dell’Assemblea Nazionale, che amplifica l’intento elevato dell’Istituzione fornendo contemporaneamente uno spazio meno formale per l’attività connessa.
Il Palazzo dell’Assemblea Nazionale è stato concepito concettualmente nel 1959 dal governo del Pakistan come un’estensione della loro sede parlamentare. Tuttavia, nel marzo del 1971 la costruzione fu interrotta poiché il Bangladesh aveva dichiarato l’indipendenza dal Pakistan. In origine, Kahn aveva intenzione di realizzare un edificio dalla presenza monumentale, ma dopo che il Bangladesh si era ufficialmente rotto dal dominio pakistano il progetto divenne molto più un simbolo di democrazia e orgoglio per il popolo bengalese. Il National Assembly Building si trova come un’enorme entità nel deserto del Bengala; ci sono otto aule allineate concentricamente attorno alla grande camera parlamentare, che è una metafora per porre il nuovo governo democratico al centro dell’edificio. Fa anche parte degli obiettivi di progettazione di Kahn ottimizzare le configurazioni spaziali in cui i programmi di supporto (uffici, hotel per funzionari parlamentari e un ristorante) proiettano fuori dal volume centrale. Come accennato prima l’architettura moderna non promette nulla di buono con l’identità; la sua identità si colloca all’interno della dicotomia autonoma degli architetti moderni e del loro lavoro lontano dalla cultura e dai precedenti architettonici. Il National Assembly Building è unico nel senso che è modernista in linea di principio, ma è un progetto profondamente radicato nel suo contesto, i cittadini e il linguaggio bengalese. In un periodo caratterizzato da una profonda rivoluzione dei valori umani e sociali, noi dobbiamo a Louis Kahn una ridefinizione del termine “istituzione”. È un’idea più che una realtà, è un principio o un ordine fondato sulle caratteristiche comuni del genere umano. Quando un edificio non ottiene questa approvazione, l’architettura pur assolvendo sommariamente una funzione, non è certo sufficiente a risolvere tutti i problemi in campo, ma deve riuscire ad essere un esemplare di istituzione, che può essere anche inteso da Louis Kahn con la volontà di agire. Le istituzioni, pensate e progettate come luoghi per l’incontro, possono dimostrare il valore dell’individuo, se questi si fanno carico degli interessi della collettività. Per Kahn era dunque urgente arrivare ad una concezione più giudiziosa di questi luoghi, nuovi spazi in cui il mondo potrà divertirsi a piacere con le sue aspirazioni e i suoi bisogni. La progettazione di edifici destinati a luoghi di assemblea offrì a Louis Kahn straordinarie opportunità di espressione dei propri principi. Non tutti i suoi progetti furono realizzati, ma in quei pochi che lo furono la sua visione fatta di principi senza tempo assunse una forma tangibile, e la promessa di una nuova architettura venne mantenuta. A Fort Wayne, Kahn discusse con passione la questione dell’organicità del complesso, come attributo essenziale al suo significato. Portò a termine questa ricerca nonostante gli incarichi ricevuti fossero maggiori di quanti ne
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potesse seguire agevolmente, resi inoltre difficili dalle complessità burocratiche e dai lunghi viaggi in climi non abituali. Kahn credeva che la natura dell’assemblea si definisse a partire da un concetto più ampio rispetto alle componenti laiche o religiose ritenute secondarie. In base al programma ricevuto durante la prima visita a Dhaka, all’inizio del 1963 Kahn preparò alcuni schizzi nei quali indicò la posizione degli elementi principali all’interno dell’area, e nell’angolo inferiore a sinistra evidenziò, con linee marcate, il motivo geometrico che avrebbe informato il complesso dell’assemblea e della moschea: due quadrati, di cui uno ruotato di 45 gradi rispetto all’altro. La prima presentazione del progetto vedeva il quadrato ruotato dell’edificio dell’Assemblea Nazionale, rappresentato schematicamente con una bassa cupola posta quasi al centro della pianta, e contrafforti angolari, che alludevano a minareti, espandevano il quadrato della moschea cui erano contigui. Per configurare il terreno in gran parte piatto e per ripararlo dalle inondazioni, erano previste strade su terrapieni; le costruzioni vennero collocate su altri terrapieni dalla forma geometrica, in parte delimitati dal lago che veniva sfruttato come vincolo di distribuzione e di delimitazione. All’estremità opposta dell’area estesa vennero disposti le scuole, le biblioteche e altri servizi, raggruppati nella Cittadella delle istituzioni a bilanciare la Cittadella dell’assemblea. Gli edifici erano disposti con enfasi, formavano una composizione unitaria in cui l’evidenza delle connessioni sembra fondamentale.
L’architettura della connessione, quella che connette gli spazi utilizzabili… Questa è la misura dell’architetto, l’organizzazione degli spazi di collegamento, quella che offre a chi cammina attraverso l’edificio la percezione dell’intero senso dell’istituzione. [ LK ]
Il progetto di Kahn fu sottoposto alle vicissitudini di un programma complesso e in continuo sviluppo. Quando vennero aggiunti ulteriori componenti, la semplice chiarezza dello schema iniziale fu sostituita da un maggior affollamento di elementi. Per necessità gli associati si occuparono delle residenze e di alcune strutture annesse, sebbene Kahn sorvegliasse per quanto possibile persino i più piccoli elementi durante le sue visite in cantiere. Risulta evidente che egli era più impegnato nel progetto dell’osservatorio (aggiunto al programma nel 1963) e nelle categorie più impor-
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tanti delle residenze dove la sua impronta risulta più chiara. ll tentativo di Kahn di scavalcare il modo in cui il cemento armato era tipicamente utilizzato nel Pakistan orientale all’inizio degli anni ‘60 mostra che cercava di usare la sua autorità come esperto occidentale importato per introdurre pratiche che aderivano alla sua posizione teorica ed estetica personale piuttosto che a quella locale o delle norme internazionali. Inizialmente ha cercato di importare nuove soluzioni progettuali a livello architettonico nella cultura edilizia del Pakistan Orientale, però successivamente fu costretto al compromesso: ha sviluppato un sistema che rispondeva alle richieste pakistane, ossia di fare riferimento alla cultura islamica e alle capacità tecniche dei lavoratori edili locali. L’approccio monolitico di Kahn al calcestruzzo non rappresentava la tecnologia moderna ma l’estetica modernista, ossia la visione del dopoguerra all’interno del movimento moderno, lontano dall’enfasi sulla leggerezza verso un impegno con la monumentalità e la permanenza. Il contributo distintivo di Kahn a questo sviluppo, la sua insistenza su un particolare finale, sarebbe diventata la base di gran parte di quello che venne chiamato regionalismo critico. Ha utilizzato il calcestruzzo per le sue pareti monolitiche, scavalcando la consapevolezza delle incursioni che sia le moderne tecniche di costruzione che le forme moderniste avevano già fatto in città, inoltre il modo in cui ha utilizzato questo materiale differiva dal mainstream internazionale del periodo.
Eroso da ritagli geometrici a più piani sia sulle facciate esterne, sia del principale spazio di circolazione interno, Le forme geometriche sulle diverse facciate aggiungono un impatto drammatico all’edificio. Si tratta di forme astratte che si trovano nella cultura bengalese che hanno lo scopo di creare un matrimonio di identità culturali, oltre a fungere da pozzi di luce e un sistema di controllo ambientale naturale per l’interno. Per Kahn, la luce era un aspetto importante nella progettazione di un edificio, non solo come un modo per illuminare uno spazio, ma anche come concettualizzare la luce in veste di creatrice di spazio.
l’intero complesso è colato con marmo bianco intarsiato, che non è solo una dichiarazione modernista di potere e presenza, ma è più una testimonianza dei materiali e dei valori locali. L’edificio appare per quello che è, non viene rivestito in alcun modo. La massa iper geometrica di questi progetti sfidava le dimensioni architettoniche normative, con vaste aperture circolari o triangolari che bucavano superfici più ampie. Grande attenzione fu riservata per gli “spazi servi”, cioè degli ambienti che hanno un ruolo di supporto al resto delle strutture, come scale e corridoi. Nella realizzazione di questa struttura si leggono ovunque i segni dell’impegno della comunità locale.
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Salk Institute for Biological Studies La Jolla, California
A destra: Salk Institute for Biological Studies, La Jolla, California, (1959-1965). Pianta dell’edificio e veduta della corte verso est. Sotto: veduta della corte dei laboratori verso ovest.
Nello stesso periodo in cui approfondiva il tema dell’architettura per i luoghi di riunione Louis Kahn progettava architetture in cui si realizzava quell’intreccio complesso di attività collettive e individuali caratteristico di scuole, centri di ricerca scientifica e monasteri. Queste istituzioni erano tra quelle definite da Kahn “luoghi dell’ispirazione”, luoghi connotati dall’ispirazione fondamentale allo studio e, al tempo stesso, dalla necessità di accogliere il sapere all’interno di una comunità. Per queste istituzioni Kahn ideò un’architettura radicata nell’ordine naturale e nella tradizione storica. L’apprendimento rappresentava per Kahn una ricerca esistenziale e costituiva nel profondo l’esplorazione della vita stessa. La costruzione di comunità era perciò una delle principali responsabilità del genere umano, e quindi dell’architetto. Come affermò in un’intervista nel 1961: “Volevo soprattutto indicare un modo di vita all’uomo della strada”. Il primo atto progettuale, caratteristico di Kahn, era rappresentato dalla riduzione dei programmi architettonici della committenza all’essenza dell’attività umana che sottendevano. Era dunque in questo modo che Kahn stabiliva il carattere di un edficio, basandosi più sulla propria sensibilità piuttosto che sulle condizioni della committenza. La concezione di Kahn, relativa alle istituzioni destinate allo studio e alla contemplazione, era influenzata sia dalla propria esperienza didattica, che dalle sue idee sulla vita monastica e dalla sua attenzione per un’architettura socialmente impegnata. Nell’idealizzazione dei programmi per questi edifici, Kahn combinava questa immagine del lavoro collettivo dell’educazione con una visione ancora più astratta della solitudine monastica. Come Le Corbusier prima di lui, Kahn fece riferimento al modello abitativo del monastero, citando spesso la famosa pianta del monastero di San Gallo. Nonostante Kahn avesse progettato numerose sinagoghe, chiese e moschee, era personalmente più incline a un tipo di meditazione più intima, di tipo monastico, rispetto alle manifestazioni religiose collettive. Alla contemplazione veniva dunque attribuito un universale significato educati-
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vo, come un modello rilevante per quella parte complementare, indipendente dell’esperienza del sapere. Jonas Salk fu l’intellettuale più autorevole che Kahn avesse mai avuto come comittente. La condivisione dell’idea di porre rimedio alla moderna schizofrenia della separazione tra intelletto e spirito, fu alla base della loro amicizia e collaborazione. Lo sforzo di Salk si incentrava soprattutto su una riconciliazione tra cultura scientifica e umanistica. Aveva previsto una struttura che avrebbe sostenuto la ricerca scientifica ed insieme favorito lo scambio di idee tra scienziati e altri esponenti della cultura. Alla visione di Salk delle due culture, Kahn dette forma attraverso i concetti di “misurabile” e “incommensurabile”, secondo un lessico evidentemente congruente con la concezione, sua propria, di ‘forma’ e ‘design’, accettando infine la sfida di realizzare la visione olistica di Salk come parte della propria ricerca architettonica.
Non ricercavo nulla di piacevole, ma soltanto una chiara espressione di un modo di vita. [ LK ]
La suddivisione complessiva del programma del Salk Institute in tre edifici rappresentava una più generale indicazione del desiderio di Kahn di distinguere ogni funzione attraverso uno specifico carattere architettonico. Naturalmente né gli alloggi né l’edificio di riunione furono realizzati, e soltanto i laboratori, fin dall’inizio connotati in modo distinto, rimangono a rappresen-
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In alto: le ariose torri degli studi. Si tratta di una struttura in calcestruzzo e cubicoli in teak posti a due dei quattro livelli. Attraverso queste, che sembravano celle monastiche rivolte verso la corte, Kahn riuscì a trasferire la propria sensibilità nel progetto con maggiore chiarezza rispetto alle parti della struttura destinate alle attrezzature tecniche. L’attenzione continua di Kahn per i materiali costruttivi si trasformò in una passione assoluta per la definizione dei dettagli e delle rifiniture. Gli standard raggiunti in questi edifici relativamente al calcestruzzo gettato in opera non furono mai superati e raramente furono eguagliati.
tare la grandiosa visione di Salk e di Kahn. L’iniziale soluzione a quattro laboratori, con gli edifici organizzati a coppie intorno a due corti, non rappresentava quella completezza che Salk auspicava per la sua istituzione. Egli riteneva più adatti due edifici, affrontati, separati da uno singolo spazio comune. All’inizio Kahn non fu d’accordo, ma presto giunse ad apprezzare la logica della prospettiva di Salk. Guidato dalle immagini monastiche associate al progetto, Kahn aveva inizialmente concepito questa corte centrale come un giardino verdeggiante, un elemento estraneo rispetto all’arido paesaggio circostante. Tuttavia, anche questa proposta fu rivalutata, lasciando spazio alla realizzazione di una piazza in pietra, una vera e propria facciata rivolta al cielo. Infine, progettò la corte solcata da un canale centrale in cui l’acqua scorreva, sotto l’asse della traiettoria apparente del sole, verso una cascatella artificiale all’estremità rivolta verso l’oceano. Questa fu un’idea che derivò certamente dai giardini moghul visitati durante i soggiorni in India. Ma oltre qualsiasi particolarità di ispirazione, le due superfici della corte rappresentavano l’espressione generale della distanza fondamentale che l’artista deve stabilire tra il proprio lavoro e la natura.
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Four Freedoms Park New York
Il memoriale di Franklin D. Roosevelt al Four Freedoms Park consiste in un parco di quattro acri realizzato per ricordare la memoria del 32° presidente degli Stati Uniti e i suoi “Four Freedoms” ovvero i quattro pilastri della libertà che lui stesso aveva enunciato durante la riunione del congresso del 1941. Il parco si trova a New York City, nel punto più a sud della Roosevelt Island, nell’East River tra l’isola di Manhattan e il Queens. Nel 1973 Kahn ricevette l’incarico molto importante di realizzare il monumento in memoria di Roosevelt, ed essendo Kahn un convinto sostenitore del New Deal, prese molto a cuore questo progetto. L’architetto pensò di sviluppare il concetto di monumento commemorativo realizzando una combinazione di due forme archetipe: “Un memoriale dovrebbe consistere in una stanza e in un giardino. Questo è tutto. Perché penso a una stanza e a un giardino? Essi costituiscono soltanto i presupposti scelti. Il giardino è in qualche modo espressione di una natura privata, di un tipo di dominio personale sulla natura, un insieme di aspetti differenti della natura. E la stanza è il principio dell’architettura”. Kahn collocò questa stanza ideale all’estremità dell’isola, il cui accesso avveniva attraverso un prato incorniciato da fitti filari di alberi. All’inizio egli immaginava la stanza definita da enormi lastre, con una scala imponente, ma la presentazione del modello il 26 aprile 1973, fu ridotta a una piattaforma pavimentata con ambienti protetti su due lati da pareti in semplice pietra, nella quale erano state collocate le statue di Roosevelt insieme a due file di quattro pilastri che rappresentavano le quattro libertà (di parola, di religione, dal timore e dal bisogno). Le pareti dovevano essere costituite da blocchi il più grandi possibile, nei quali le fessure accuratamente studiate avrebbero filtrato i raggi di sole all’alba dell’anniversario della nascita di Roosevelt e al tramonto dell’anniversario della sua morte. Questo allude indubbiamente alla descrizione di Kahn circa l’inizio dell’architettura attraverso la suddivisione dei muri. Il progetto finale completato nei mesi immediatamente
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A destra: Four Freedoms Park (1974). Pianta della struttura con il relativo complesso memoriale all’estremità. Il parco prende la forma dell’isola Roosevelt Island (NYC), adattandosi all’andamento piramidale di quest’ultima. In basso: Visione prospettica della Roosevelt Island.
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precedenti la morte di Kahn, costituiva un’ulteriore riduzione. Gli emblemi delle quattro libertà furono rimossi e dopo aver attraversato la sequenza di gradini dalla forma d’imbuto disegnati da Pattison, il visitatore entrava nella stanza di Kahn la cui architettura era ridotta a un’essenza primitiva che egli definiva lo spazio di un tempio pre-greco. La stanza del monumento, dalle murature di una indiscutibile purezza tettonica e dal soffitto costituito dalla luce del cielo stessa, consentiva la vista solo verso sud sul fiume, e oltre la sede dell’ONU verso il Williambsburg Bridge. Il vicino frastuono di Manhattan e lo spigoloso skyline del centro erano schermati alla vista. Questo era il luogo della quiete alla fine di un viaggio. Insieme al piacere del fare architettura, Kahn ne aveva recuperato l’importanza. Aveva risollevato il modernismo della banalità indotta dal successo commerciale e lo aveva sottoposto a una seria riflessione sui temi della progettazione di luoghi per le attività umane e della definizione dello spazio mediante struttura, massa, luce. Kahn poté fare ciò che alla generazione precedente non era stato consentito. Non più timoroso che la creatività avrebbe potuto essere congelata da qualcosa di più che un’occasionale sguardo retrospettivo nel passato, egli poteva liberamente arric-
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In alto a sinistra: Founders Wall, un’incisione sulla pietra nuda elenca i nomi di coloro che hanno reso possibile questo memoriale. In basso a sinistra: Muro di pietra bianca che riporta incisa una parte del discorso che F. D. Roosevelt tenne durante la riunione del congresso del 1941, nel quale venivano enunciati e spiegati i quattro pilastri della libertà americana.
chire la propria architettura attingendo dal tesoro artistico e filosofico della storia. Perfino tra i colleghi e gli studenti che ammiravano Kahn pochi riconoscevano che la sua filosofia richiedeva che ogni architetto ricercasse la propria personale comprensione delle istituzioni umane e sperimentasse da sè le leggi naturali che definiscono i limiti del progetto. Ciò che essi riuscivano a cogliere era soltanto l’esempio della eloquente architettura di Kahn ed era questo che essi emulavano. I risultati erano spesso infelici poichè nessuno poteva eguagliare la sua abilità nel rendere vivi i materiali pesanti o nel portare la complessa progettazione oltre l’elaborazione degli schemi formali.
In alto, su questa pagina: Statua del capo di F. D. Roosevelt, protetto dalle mura bianche ideate da Kahn, a cielo aperto.
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dalla Cité Industrielle di Garnier ad Apple Facciamo un esperimento: chiudete gli occhi e immaginate la vostra città ideale. Auto volanti? Case tascabili? Mezzi pubblici capaci di viaggiare alla velocità del suono e di portarvi da una parte all’altra dell’Europa in pochissimo tempo? È una citta in cui vi sono diseguaglianze oppure tutti hanno accesso alle stesse risorse? E ora aprite gli occhi, guardatevi attorno e chiedetevi: “è realmente tutto possibile?”. Sicuramente no perché, purtroppo,la realtà non è all’altezza dell’immaginazione, però possiamo andarci molto vicini. Ecco perché, in questo capitolo, parleremo di Social Utopia: le utopie urbanistiche che hanno cambiato il nostro modo di pensare, vivere e immaginare il luogo in cui viviamo.Tre tra le più importanti idee novecentesche di pensare la città: al centro della nostra riflessione i lavori stravaganti e antropocentrici del gruppo di architetti inglese Archigram, attivo nei primi decenni della seconda metà del Novecento. Faremo poi un passo indietro a “La cité industrielle” dell’architetto francese Tony Garnier, capace di anticipare di oltre due decenni l’architettura moderna. E poi torneremo di nuovo negli anni 60 del Novecento, ma questa volta in Italia, con il grande sogno imprenditoriale di uno tra i più importanti industriali nel Mondo: Adrano Olivetti, al quale la Apple dei tempi d’oro di Steve Jobs deve molto. Il denominatore comune che lega queste tre grandi storie? L’idea del valore della persona e di una comunità inserita in una realtà urbana in grado di evolversi alla stessa velocità dell’ingegno umano. Tre grandi realtà, lontane nel tempo, ma proiettate tutte assieme in uno dei migliori futuri possibili a cui possiamo aspirare ancora noi oggi.
Disegnio del progetto The Walking City illustrato nel quinto numero del magazine di Archigram (1964)
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Architettura dell’utopia
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La Cité industrielle, l’utopia urbanistica di Tony Garnier alla fine dell’800
Tony Garnier, architetto francese (Lione 1869 - La Bédoule 1948); precursore dell’architettura razionale, sviluppò uno stile che valorizza la proprietà dei materiali. Studiò a Lione, poi a Parigi; nel 1889 vinse il Prix de Rome, visse a Roma dal 1899 al 1904; fra le sue opere sono notevoli il progetto per la “Cité industrielle” (presentato, e non premiato, nel 1901 per il Grand Prix de Rome, pubblicato ed esposto a Parigi nel 1904), primo tentativo di dare una qualificazione ai diversi settori della città con studio attento dei vincoli edilizî e della proprietà del suolo, senza alcun riferimento agli stili storici degli edifici; a Lione, il macello (1909-13), lo stadio (1918), l’ospedale della “Grange Blanche” (ora “É. Herriot”, 1915-30) e l’Hôtel de Ville de Boulogne Billancourt (1931-34). Le opere lionesi furono favorite dall’incontro con il sindaco radicale É. Herriot.
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e utopie urbanistiche della seconda metà del 900 possono trovare ispirazione concreta nei progetti di alcuni degli architetti più importanti degli ultimi due secoli tra cui, per citarne solo alcuni, Tony Garnier, Le Corbusier e Marco Zanuso. Infatti, già a cavallo tra 800 e 900, molti architetti, urbanisti e filosofi propongono nuovi modelli di città per contrapporsi allo sviluppo caotico non pianificato delle città post rivoluzione industriale. Progetti considerati utopici, ma che in realtà racchiudono in sé i temi fondamentali dello sviluppo urbano in una visione organica della città pensata come l’insieme delle residenze, dei servizi, delle infrastrutture, dei trasporti, il tutto in un’ottica estetica, funzionale e anche sostenibile: è il tema della rigenerazione urbana, argomento ancora oggi di grande attualità. Tony Garnier iniziò l’elaborazione del suo modello di città ideale in occasione del suo soggiorno a Roma, in qualità di vincitore del Prix de Rome del 1899: il piano era terminato già nel 1901, ma fu pubblicato solamente nel 1917 col titolo di “Une Cité Industrielle”, rimanendo, fino alla stesura della carta di Atene, il manifesto dell’urbanistica progressista. Nel 1905 il sindaco di Lione nominò Tony Garnier architetto capo della città offrendogli l’opportunità concreta di realizzare qualcosa di molto vicino a ciò che aveva prefigurato nei suoi studi. In particolare, 118
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Illustrazione del progetto della Citè idustrielle (1917). In pianura è situata l’officina principale, alla confluenza tra un torrente ed il fiume. Al di sopra di essa, su un altipiano si sviluppa la città che è a sua volta sotto agli edifici sanitari: sia la città che gli edifici sanitari sono protetti dai venti ed esposti a sud. Ognuno di questi settori è costruito in modo da essere comunque ampliabile in futuro.
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riuscì a realizzare il mattatoio della Mouche (1909-1913), lo stadio olimpico (1913-1916), l’ospedale della Grange Blanche (1925-1930) ed il celebre quartiere per abitazioni degli Etats-Units. I principi ispiratori di Garnier, codificati, come detto nella sua “Cité Industrielle, Etude pour la construction des villes” sono sostanzialmente l’analisi e la separazione delle funzioni urbane, l’esaltazione degli spazi verdi che svolgono il ruolo di elementi isolanti, l’utilizzazione sistematica di nuovi materiali, in particolare del cemento armato. La Cité Industrielle viene immaginata in base ad un contesto territoriale ben dettagliato, pur se immaginario, come un progetto completo di città, disegnato e progettato non solo alla scala di insieme, ma anche nelle singole parti costitutive (industrie, servizi e abitazioni fin nei particolari costruttivi). La città è una città di nuova fondazione ed il motivo della sua nascita, come dice il nome stesso, risiede nelle necessità di sviluppo industriale: la lucidità analitica di Garnier, oltre alla fondatezza delle sue anticipazioni tecnologiche (sviluppo dell’industria automobilistica ed aeronautica), farà sì che il suo schema di impianto diventerà un modello di riferimento per la creazione delle nuove città industriali nell’Unione Sovietica degli anni’30. Oltre a prefigurare nei dettagli il sito su cui dovrà sorgere la città (il territorio sarà caratterizzato da una parte montuosa ed una in pianura attraversata da un fiume; il nuovo insediamento residenziale sorgerà su un terrazzamento artificiale, lontano dal centro storico ipotizzato più in alto e separato dalla zona industriale dai tracciati ferroviari intesi come elementi di snodo), Garnier ipotizza anche una popolazione di circa 35.000 abitanti, ossia una insediamento di media importanza per dare carattere generale al suo modello, riprendendo un dimensionamento tipico dell’urbanistica utopista. Residenza e industria hanno un impianto ortogonale che contrasta con quello della città esistente; in particolare la zona residenziale è organizzata intorno ad un viale centrale disposto secondo l’asse eliotermico e percorso dai mezzi pubblici, sul quale si attestano i servizi con una concentrazione delle grandi attrezzature urbane nella parte mediane. La distribuzione delle funzioni è descritta con estrema sintesi e chiarezza: (…) Il letto del torrente è sbarrato; una centrale idroelettrica distribuisce la forza motrice e riscaldamento nelle fabbriche ed in tutta la città. La fabbrica principale è situata nella pianura, di fronte al torrente e al fiume. Una ferrovia di grande comunicazione passa tra la fabbrica e la città, essendo situata molto più in alto su di un altopiano. Ancora più in alto sono spaziati gli edifici sanitari; così come la città sono protetti da venti freddi, esposti a mezzogiorno, in terrazze dalla parte del fiume. Ciascuno di questi principali elementi (fabbrica, città, ospedali) è isolato in modo da rendere possibile l’estensione in caso di necessità; (…). Gli isolati dei quartieri residenziali hanno le dimensioni di 150mt nel senso est-ovest e di 30mt nel senso nord-sud e sono ulteriormente suddivisi in lotti 15x15mt; le modalità di aggregazione di questi lotti quadrati, unità minime di frazionamento, possono essere le più varie
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Citè Industrielle, planimetra generale e veduta prospettica dei terrazzamenti sulla valle, disegni di Giovanni Astengo per il libro “Abitazioni e lavoro nella città di domani”
(comprendendo anche funzioni non residenziali), purché si rispetti il principio per cui la superficie costruita deve essere sempre inferiore alla metà di quella complessiva, in modo tale che la rimanente parte di superficie scoperta, mantenuta a verde non recintato (Garnier ipotizzava l’assenza della proprietà privata), vada a far parte di un grande parco pubblico permeabile al libero movimento dei pedoni. I quartieri residenziali sono costituiti da villette allineate in un reticolo uniforme di strade. Il terreno è diviso in isolati di 150 metri nel senso est-ovest, e di 30 metri nel senso nord-sud. Questi isolati sono a loro volta suddivisi in lotti quadrati di 15 metri di lato, che si affacciano quindi sempre con una parte sulla strada. Un edificio può occupare anche più di un lotto, ma la superficie costruita deve essere inferiore alla metà della superficie totale: il resto è destinato a giardino pubblico, transitabile ai pedoni.
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Archigram, una nuova generazione di architettura futuristica
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ll’inizio degli anni ‘60, il clima di tensione nucleare della Guerra Fredda e la corsa allo spazio hanno stimolato l’immaginazione delle persone nel campo dell’arte e del design. Un esempio fu Archigram, un gruppo di architetti che iniziò a lavorare in una direzione diametralmente opposta rispetto ai loro contemporanei. I loro nomi sono: Warren Chalk, Peter Cook, Dennis Crompton, David Greene, Ron Herron e Michael Webb, tutti collegati all’Architectural Association School of Architecture di Londra. Iniziano a firmarsi con il nome di Archigram, nome che deriva dalla combinazione delle parole “architettura” più “telegramma”. Hanno dominato l’avanguardia architettonica negli anni che vanno dal 1960 alla prima metà del 1970 con le loro visioni giocose, pop, di chiara ispirazione futuristica, diventandone poi, i pionieri durante tutta la seconda metà del secolo. Furono un gruppo di architetti britannici che si possono definire tutt’ora assai lungimiranti e che miravano ad incapsulare una nuova realtà, un futuro ipotetico in cui il collasso post-apocalittico della società è una possibilità e in cui l’ingegno della tecnologia umana è orientata alla sopravvivenza. Le visioni neo-futuristiche di Archigram immaginavano un mondo danneggiato, in cui le città e gli edifici sono sostituiti da enormi strutture meccaniche, dove l’abitazione standardizzata, l’intrattenimento, le risorse e i moduli di produzione sono combinati e le macchine sono diventate completamente indipendenti e responsabili
Componenti di Archigram, 1987, da sinistra: Warren Chalk, Ron Herron, Peter Cook, David Greene, Mike Webb e Dennis Crompton. Gruppo incentrato su un approccio alla vita high-tech, leggero e infrastrutturale, centrato sulla tecnologia. Proponendo un immaginario affascinante, il gruppo ha sperimentato macchinari modulari, mobilità attraverso l’ambiente, capsule spaziali e seducenti immaginari consumistici.
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Rappresentazioni raffiguranti le strade e superstrade più iconiche di Santa Monica e San Diego, tipici paesaggi degli anni sessanta intersecati con le innovative e rivoluzionarie strutture proposte da Ron Herron e il gruppo Archigram. Realizzate nel gennaio del 1969 a Los Angeles, questi fotomontaggi rappresentano un primo tentativo, quasi artistico, di mettere insieme presente e utopico futuro.
dell’automazione e della manutenzione di questo nuovo modo di vivere. Ad esempio, un tipo di vita nomade nella visione di Ron Herron, uno dei fondatori di Archigram. Ha immaginato e congegnato infatti, The Walking City, un’arca gigantesca, meccanica e autosufficiente simile a un insetto contenente i suoi abitanti, che si muove all’infinito attraverso i paesaggi ormai desolati della Terra e si connette con altre Walking Cities per creare espansioni, scambiando popolazione e risorse o tenendosi uniti contro le sfide di questa nuova era dell’umanità. Sebbene le idee di Herron e Archigram fossero in qualche modo disapprovate dall’establishment architettonico dell’epoca, in parte a causa della loro cupa visione futuristica, in parte a causa della mancanza di dettagli pratici nel funzionamento interno di questi habitat di macchine, le loro opere, seppur solo cartacee hanno influenzato l’architettura postuma. Prendiamo ad esempio l’Arco di Hammersmith o il Centre Pompidou di Parigi: ovviamente non camminano, ma con un po ‘di immaginazione possiamo riconoscere l’influenza duratura di Ron Herron e Archigram nella visione architettonica. Archigram pubblicarono l’omonima rivista dal 1961 al 1970, il cui nome “Archigram” doveva evocare un messaggio o una comunicazione astratta: telegramma, aerogramma ecc. La rivista costituì lo strumento d’identità del gruppo nella quale poter esprimere liberamente i propri pensieri e idee. Nel primo numero della rivista che porta il loro nome “Archigram”, David Greene scrive: “Una nuova generazione di architettura deve nascere con le forme e gli spazi che sembrano respingere i precetti di moderno ma, che, in realtà, conserva quei precetti. Abbiamo scelto di bypassare l’immagine decadente del Bauhaus, che è un insulto al funzionalismo. L’acciaio si può stendere senza limiti di lunghezza. Si può far salire in aria un palloncino di qualsiasi dimensione. Si possono fare stampi in plastica di qualsiasi forma. I tizi che hanno costruito il Bridge Forth non se ne sono preoccupati.” Nel 1963 è stato presentato un manifesto che rendeva chiara la loro idea, che vedeva la città come un organismo unico, che non viene vista solo come un insieme di edifici, ma come un mezzo per liberare le persone e farle abbracciare la tecnologia, consentendo loro di scegliere come meglio condurre la loro vite. I loro princìpi erano fondati sull’ottimismo, sul rifiuto di essere incatenati a ciò che era il passato. Prendevano in giro gran parte del linguaggio architettonico che li circondava. Uno dei punti di forza era il retroterra culturale diverso dei componenti stessi del gruppo, il che, non faceva altro che accrescere gli entusiasmi nella gestione delle complesse analisi nei confronti delle città. Si erano fatti portavoce di una vita da fantasie nomadi, sostenevano che un’architettura basata sulla mobilità e la malleabilità avrebbe potuto dare la libertà alle persone. I consumatori dovevano essere liberi di scegliere al meglio la tecnologia e di ottimizzarla rispetto alle loro necessità.
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The Walking City: l’eliminazione dei confini culturali e sociali delle città nomadi
Ron Herron, nato nel 1930 a Londra, ha studiato come disegnatore alla Brixton School of Building. Dopo il servizio nazionale a Berlino si è riqualificato come architetto al Politecnico di Brixton e Regents Street (ora Università di Westminster), prima di lavorare al London County Council nel South Bank Arts Centre. I progetti con Archigram includono le spettacolari Walking Cities. Durante Archigram ha anche lavorato al progetto Euston; per Colin St John Wilson; per William Pereira a Los Angeles; e ha insegnato alla UCLA, prima di tornare a lavorare al progetto Monaco di Archigram. Dopo la chiusura dell’ufficio di Archigram, i suoi progetti includevano l’Imagination Building in Store Street. La pratica si è fusa con Imagination 1989-93. Ha insegnato all’AA ed è diventato professore di architettura all’Università di East London nel 1993. Morì nel 1994.
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rogettata da Ron Herron nel 1964, la cosiddetta città a piedi è costituita da edifici intelligenti o robot in formato gigante, di per sé baccelli contenitori vita, che potrebbero vagare per la città. Le Walking City sono strutture abitative lunghe 400 metri e alte 220 e poggiate su otto gambe, che ne permettono gli spostamenti. La forma derivante dalla combinazione di insetti e di maccine è stata un’interpretazione letterale da Le Corbusier, aforisma di una casa come una macchina in cui vivere. I baccelli sono indipendenti, contengono abitanti che potrebbero entrare o uscire in stazioni dove questi occupanti vengono cambiati o dove si ricostituiscono le risorse disponibili. Il cittadino è quindi un nomade non totalmente differente. Il contesto era concepito in un mondo futuro dopo un conflitto nucleare. Walking City immagina un futuro in cui confini e confini vengono abbandonati a favore di uno stile di vita nomade tra gruppi di persone in tutto il mondo. Ispirato dalle torreggianti piattaforme di lancio mobili della NASA, dall’hovercraft e dai fumetti di fantascienza, Archigram ha immaginato feste di edifici itineranti che viaggiano su terra e mare. Come molti dei progetti di Archigram, Walking City ha anticipato il frenetico stile di vita urbano di una società tecnologicamente avanzata in cui non è necessario essere legati a una posizione permanente. 124
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Disegnio del progetto The Walking City illustrato nel quinto numero del magazine di Archigram (1964), strutture abitative lunghe 400 metri e alte 220 e poggiate su otto sostegni, che ne permettono gli spostamenti. Enormi macchine mobili di Walking City che sbarcano davanti a Manhattan, che emergono dal deserto o che appaiono dal mare di fronte ad Algeri. La loro ricerca architettonica non si ferma limitandosi alla gestione dell’ordinario e del fattibile, anticipa, anzi, la speranza che la professione possa finalmente proiettarsi verso l’utopia.
Le strutture sono concepite per inserirsi in utenze e reti informative in luoghi diversi per supportare i bisogni e i desideri delle persone che lavorano e giocano, viaggiano e restano, contemporaneamente. Attraverso questa esistenza nomade vengono condivise culture e informazioni differenti, creando un mercato globale dell’informazione che anticipa i successivi progetti dell’avanguardia Archigram, come Instant City e Ideas Circus. È improbabile che gli ingegneri che hanno progettato le varie strutture mobili a Cape Kennedy abbiano mai sentito parlare del Gruppo Archigram. In effetti, l’idea di una città che cammina probabilmente li terrorizzerebbe. Eppure questi ingegneri hanno progettato e costruito un paio di dozzine di strutture, alcune alte come edifici per uffici di 40 piani, che si muovono serenamente attraverso il paesaggio piatto. Tuttavia, nell’architettura visionaria concetti come appartamenti prefabbricati sollevati in posizione su un telaio scheletrico, per essere collegati a servizi predisposti, sono ancora considerati poco pratici dalla maggior parte dei progettisti e costruttori. Eppure ci sono importanti problemi urbani come il trasporto intra e interurbano, per esempio, le connessioni tra le varie stutture ambulanti. Gli orgogliosi risultati di Cape Kennedy sono la prova della nostra Social Utopia
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capacità di affrontare i problemi più sconcertanti; e, implicitamente, sono un atto d’accusa contro coloro che non spenderebbero lo stesso tipo di sforzo per i nostri mali urbani. Quando si considera la flessibilità economica e la “libertà” create dagli insediamenti mobili, potremmo guardare al concetto d’avanguardia di Walking City come esempio. Il concetto di Herron è qualcosa che è stato nella mente degli architetti per molto tempo. The Walking City venne proposta dall’architetto britannico in un articolo sulla rivista di architettura d’avanguardia Archigram, in cui Ron Herron propose di costruire strutture robotiche mobili massicce e artificialmente intelligenti che potessero vagare liberamente in un mondo post-apocalittico, trasferendosi a ovunque fossero necessarie le risorse delle strutture o le capacità produttive. Varie città pedonali potrebbero interconnettersi tra loro per formare “metropoli ambulanti” più grandi e poi disperdersi quando il loro utilizzo non fosse più necessario. Anche i singoli edifici o abitazioni dovevano essere mobili, spostandosi ovunque il loro proprietario volesse o richiedesse. Pertanto, le strutture mobili condividono gli stessi concetti di una città in movimento, in quanto sono autonome e autosufficienti, possono interagire con altre città in movimento e operano in un mondo dove non esistono confini. “Walking City immagina un futuro in cui i confini vengono abbandonati a favore di uno stile di vita nomade tra gruppi di persone in tutto il mondo” afferma Ron Herron.
Ron Herron, del gruppo Archigram, ha sviluppato il progetto The Walking City, l ’idea è cresciuta come risposta diretta alle minacce percepite dall’era della Guerra Fredda. Concepite come “arche” che fornirebbero protezione post apocalittica alle comunità sopravvissute, queste strutture ambulanti faciliterebbero il trasferimento in zone e risorse più sicure. Le idee folli di Herron erano ovviamente solo di carta, ma fornivano un forte messaggio contro la guerra.Le fotografie qui mostrate si basano rigorosamente sui suoi dettagliati disegni, ma sono rendering più contemporanei.
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Instant City: intrattenimento e informazione dalla metropoli alla periferia
Peter Cook, nato nel 1936 a Southend on Sea, ha studiato architettura al Bournemouth College of Art e all’AA. Co-fondatore di ’Archigram nel 1961 con David Greene mentre lavorava per James Cubitt and Partners. É inoltre direttore di ICA (1970-72), Art Net (1972-1980) e i suoi progetti più famosi con Archigram includono Plug-In Cities, Instant Cities. Scrittore ed educatore estremamente influente, ha insegnando a livello internazionale, prima all’AA e poi come professore e presidente della Bartlett School of Architecture (1990-2005). È stato il vincitore congiunto del RIBA Annie Spink Award for Education con David Greene nel 2002. Cook ha continuato a creare nuove collaborazioni; la partnership con Christine Hawley, Spacelab con Colin Fournier, Kunsthaus Graz e Crab Studios con Gavin Robotham e la collaborazione con HOK.
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nstant City (sviluppata tra la fine degli anni 60 e l’inizio degli anni ‘70) fa parte di una serie di indagini su strutture mobili che sono in collegamento con stabilimenti fissi che richiedono servizi estesi su un periodo limitato per soddisfare un problema estremo ma temporaneo. Un progetto di ricerca basato sulla differenza tra centri locali, culturalmente isolati, e le strutture ben organizzate delle regioni metropolitane. L’obbiettivo era quello di indagare l’effetto e la praticità di iniettare la dinamica metropolitana in questi centri per mezzo di una struttura mobile che trasporta i servizi di informazione, educazione, intrattenimento della città, in modo da estenere i sevizi informativi e le e di intrattenimento anche alle città non fornite. Sul magazine di Archigram viene illustrato una possibile configurazione quando Instant City è collegata a un’area industriale in declino. Le strutture utilizzate sono, veicoli aerei commerciali convertiti a dun nuovo utilizzo, come ad esempio dirigibili. Nella maggior parte dei paesi civili, le località e le loro culture locali continuano a muoversi lentamente, spesso denutrite e talvolta risentite nei confronti delle regioni metropolitane più favorite (come New York, la costa occidentale degli Stati Uniti, Londra e Parigi). Sebbene si parli molto dei legami culturali e dell’effetto della televisione come
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Illustrazione di Instant City (1966). Il concetto di Instant City è che mirava a fornire alle piccole città l’accesso alle attrazioni culturali di una grande città, “Instant City era, in termini molto grezzi, come un circo culturale”, ha detto Cook in un video per Dezeen, nota rivista di architettura.
finestra sul mondo (e l’inevitabile villaggio globale), le persone si sentono ancora frustrate. I più giovani hanno persino il sospetto di perdere qualcosa che potrebbe allargare i loro orizzonti. Vorrebbero essere coinvolti in aspetti della vita in cui le loro esperienze possono essere viste come parte di ciò che sta accadendo. Instant City ha come obbiettivo l’integrazione cultirale e la diffusione di ogni tipo di informazione, trasportando in città non metropolizzate i contenuti fino ad ora non accessibili. Il progetto Instant City reagisce a questo con l’idea di una “metropoli itinerante” , un pacchetto che arriva a una comunità, dandole un assaggio della dinamica metropolitana, che si innesta temporaneamente sul centro locale, e mentre la comunità è ancora riprendendosi dallo shock, utilizza questo catalizzatore come prima tappa di un incontro nazionale. Una rete di strutture di informazione, educazione, intrattenimento, ”gioca e conosci te stesso”. In Inghilterra la sensazione di essere esclusi dalle cose ha per molto tempo influenzato la psicologia delle province, così che le persone diventano iperprotettive riguardo alle cose locali o portano nella mente un ridicolo complesso di inferiorità sulla metropoli. Ma ci stiamo avvicinando a un momento in cui il periodo di svago della giornata sta diventando davvero significativo; e con l’effetto della televisione e di una migliore istruzione le persone si rendono conto che possono fare cose e sapere cose, possono esprimersi (o divertirsi in modo più libero) e stanno diventando insoddisfatte del televisore, del club giovanile o del pub . Con la nostra nozione di robot (il simbolo della macchina reattiva che raccoglie molti servizi in un apparecchio), iniziamo a giocare con l’idea che l’ambiente potrebbe essere condizionato non solo dall’assem-
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blaggio del set, ma da infinite variabili determinate dal tuo desiderio , e il robot riappare nella città istantanea. Ancora una volta dobbiamo riflettere sulla psicologia di un paese come l’Inghilterra, dove c’è un contesto storico che suggerisce che un vasto sconvolgimento sia improbabile. I componenti installati sulle Instant City sono: sistemi di visualizzazione audiovisiva, televisione a proiezione, unità rimorchiate, strutture pneumatiche e leggere e strutture per l’intrattenimento, mostre e luci elettriche. Teoricamente coinvolge anche le nozioni di dispersione urbana e di territorio tra intrattenimento e apprendimento.Instant City potrebbe diventare una realtà pratica poiché in ogni fase si basa su tecniche esistenti e sulla loro applicazione alla realtà. Il programma prevedeva la raccolta di informazioni su un itinerario delle comunità e sui servizi disponibili (club, radio locali, università, ecc.). In modo che il pacchetto “Città” fosse sempre complementare piuttosto che estraneo. La prima fase consisteva nel trasportate l’intrattnimento, le città volanti erano utilizzabili con la maggior parte delle condizioni atmosferiche e con un programma completo. Questi sono stati applicati a località in Inghilterra e nell’area di Los Angeles in California. Successivamente, Cook si interessò alla versatilità del dirigibile, arrivando a proporre questo come un altro mezzo di trasporto dell’assemblea Instant City. 130
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Illustrazione del progetto Instant City, mostra come il dirigibile che trasportà con sé l’evento nelle città di periferia.
Il concept di Instant City è un kit di parti trasportabile che può essere assemblato rapidamente per fornire agli abitanti dei piccoli paesi l’accesso alle risorse e alle attrazioni culturali di una grande metropoli. Cook afferma “Prende l’essenza culturale di una città metropolitana e la porta in giro come un circo, in modo che una piccola città o un villaggio possa diventare una specie di città per una settimana “.
Instant City è anche uno dei primi esempi di architettura di rete, venticinque anni prima della nascita di Internet: rete, flusso e vettore di informazioni, che riunisce frammenti urbani dispersi. È uno scenario che, una volta messo in moto, verrà riscritto da tutti gli abitanti che lo daranno vita. Pertanto, Instant City non ha una forma fissa, né vincoli precedenti. È un esempio di qualcosa di impossibile da rappresentare, una città che non ha esistenza in quanto tale e che è solo un incidente nel tempo e nello spazio. Nella dialettica tra permanente e transitorio, mobile ed effimero, Instant City incarna la visione utopica dell’architettura liberata dalle sue fondamenta, di una città volante e aerea, che trasforma l’architettura in una situazione, in un ambiente reattivo. L’architettura appare sia come oggetto di consumo sia come creazione di un ambiente artificiale. Il progetto Instant City reagisce a questo con l’idea di una “metropoli itinerante”, un pacchetto che arriva a una comunità, dandole un assaggio della dinamica metropolitana. Il lavoro del gruppo si opponeva all’etica funzionalista del periodo; Archigram ha progettato alternative nomadi ai modi di vivere tradizionali, comprese le case modulari e le città ambulanti: un’architettura mobile, flessibile e non permanente ma che fosse in grado di evolversi e mutare con il tempo.
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Plug-in City: dinamismo e modularità delle megastrutture abitative
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lug-in City è una delle tante creazioni vaste e visionarie prodotte negli anni ‘60 dal gruppo di architettura britannico collaborativo radicale Archigram, di cui Cook era un membro fondatore. Questo progetto provocatorio suggerisce un’ipotetica città di fantasia, contenente unità residenziali modulari che si “collegano” a una mega macchina infrastrutturale centrale. La Plug-in City infatti non è una città, ma una “megastruttura” che ingloba residenze, vie di accesso e servizi essenziali per gli abitanti, è stata pensata per favorire il cambiamento attraverso l’obsolescenza: ogni affioramento di edificio è rimovibile e una “gru” permanente facilita la continua ricostruzione. Le preoccupazioni del modernismo erano al centro dell’impulso teorico di Plug-In City, che non limitato al concetto di vita collettiva, integrazione dei trasporti e sistemazione del rapido cambiamento nell’ambiente urbano. Nel suo libro Archigram: Architecture without Architecture, Simon Sadler suggerisce che l’estetica dell’incompletezza, evidente in tutto lo schema Plug-In e più marcata rispetto ai precedenti progetti megastrutturali. L’insoddisfazione per questo status quo spinse il collettivo di architetti sperimentali a sognare scenari urbani alternativi che guardassero oltre al formalismo superficiale e alle tendenze suburbane ottuse comuni al modernismo britannico dell’epoca. The Plug-In City, insieme ad altri progetti come The Walking City o The Instant City, ha suggerito uno stile di vita nomade e, cosa più importante, una liberazione dalla risposta modernista dei sobborghi. Qesto progetto vedeva come obbiettivo quello di creare una megastruttura urbana, così chiamata perché incorpora non solo residenze ma anche vie di accesso e servizi essenziali per i suoi abitanti in un’unica e complessa costruzione. Aveva lo scopo di incoraggiare il cambiamento sradicando l’obsolescenza: ogni affioramento di edifici (case, uffici, supermercati, hotel) aveva la possibilità di essere rimosso e grazie all’utilzzo di una gru si sarebbe facilitata la ricostruzione e l’aggiornamento continui. Plug-in City propone un approfondimento tecnologico e tipologico. Studia dettagliatamente il concetto di prefabbricazione totale dei componenti abitativi. Le cellule edilizie previste sono, infatti, al pari delle automobili e di altri componenti meccanici, realizzate con materiali plastici e ferrosi e assemblate altrove. Con il risultato, di migliorare enormemente le prestazioni dell’oggetto edilizio che esce così dall’arretratezza e dal pressappochismo del processo costruttivo tradizionale. 132
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Capsula abitativa di Plug-in City, disegno presentato nel terzo numero di Archigram Magazine.
Plug-in City è una delle tante vaste e visionarie creazioni prodotte negli anni ‘60 dal gruppo di architettura radicale britannico Archigram. una “megastruttura” che incorpora residenze, vie di accesso e servizi essenziali per gli abitanti, è stata pensata per favorire il cambiamento attraverso l’obsolescenza: ogni edificio è rimovibile e una “gru” permanente facilita la continua ricostruzione.
Permette, inoltre, di prefigurare il funzionamento di una città i cui componenti possano essere facilmente sostituiti nel tempo. Se, in Plug-in City, infatti, le cellule edilizie stanno alla città come le spine elettriche stanno all’alimentazione di rete, è possibile pensare a una loro semplice e indolore sostituzione: la casa, come una lampadina, un televisore o un tostapane, potrà essere sostituita a scadenze periodiche, con una diversa e tecnologicamente più avanzata. Plug-in City , infine, evidenziando e approfondendo l’ analogia formale tra un sistema elettrico e la città, focalizza l’attenzione del progettista sui flussi di informazioni, di immagini, di prodotti che la metropoli, deve continuamente gestire e processare. Radicale e totalizzante, Plug-in City è un progetto utopico. Ma, almeno in parte e nelle sue linee principali, è sicuramente realizzabile. Il progetto Capsule di Warren Chalk (1964), un grattacielo composto da una struttura centrale di servizio sulla quale si agganciano a secco diversi modelli di capsule abitative, dimostra che è possibile, e , effettivamente, alcuni prototipi, come vedremo in seguito, saranno realizzati sul finire degli anni sessanta, pensare a un nuovo modo di costruire, organizzato per componenti prodotti in fabbrica e assemblati in loco, molto più intelligente e produttivo di quello artigianale e scultoreo insegnato nelle scuole di architettura. I piani di Cook per questo spazio urbano teorico erano incentrati su enormi unità modulari che si collegavano letteralmente a una macchina centrale. Questa megamacchina alimentava le torri coniche e collegava i servizi tra loro con gigantesche gru. Ogni torre conteneva residenze, trasporti e tutti gli altri servizi necessari per la vita moderna. Ogni pezzo è trasportabile, rendendolo un ambiente urbano vivo, in crescita e in continua evoluzione. Social Utopia
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A sinistra e nella pagina a destra immagini tratte dal libro di Bublex Alain “Plug-in City” edito da Blaffer Gallery che si ispira all’archtettura pensate da Peter Cook negli anni 60. Mostrano il complesso di edifici e torri caratteristici della città utopistica mai realizzata, illustrando con immagini verosimili ambientate anche il sistema di trasporto delle capsule abitative e del loro alloggiamento all’interno degli enormi edifici modulari.
Il design di Cook rifletteva le preoccupazioni dell’architettura per l’ambiente urbano in rapida evoluzione nei decenni successivi alla seconda guerra mondiale. Cook ha abbracciato il cambiamento. Il suo progetto urbano doveva sembrare per sempre incompiuto, in costante crescita ma anche integrare tutti gli aspetti della vita insieme all’interno dell’ambiente costruito. La vita, i trasporti, il lavoro e l’intrattenimento erano tutti accessibili tramite torri plug-in e gru di trasporto che modulavano la città in base alle sue esigenze in continua evoluzione. Plug-in City è stata una delle tante creazioni vaste e visionarie che Archigram ha prodotto negli anni ‘60. Tra il 1960 e il 1974, il gruppo pubblicò nove numeri provocatori della sua rivista omonima e creò più di novecento disegni esuberanti, illustrando progetti immaginari ispirati variamente dagli sviluppi tecnologici, dalla controcultura, dai viaggi nello spazio e dalla fantascienza.
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Alain Bublex con l’aiuto di gru ed elicotteri reinterpreta a suo modo la Plug-in City di Peter Cook. Attraverso l’utilizzo di immagini realizzate al computer, Alain Bublex illustra il progetto, concepito in modo da risolvere la crisi abitativa. La sua serie mostra città ultramoderne, un gigantesco quadro urbano su cui si innestano le “Unità mobili di abitazione”.
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Il sogno imprenditoriale e sociale di Adriano Olivetti: la fabbrica comunitaria e la città ideale. Adriano Olivetti, nato ad Ivrea nel 1901, eredita la vocazione per il mondo dell’industria dal padre Camillo, un eclettico ingegnere che nel 1908 aveva fondato in città la prima fabbrica italiana per macchine da scrivere. Laureato in chimica industriale al Politecnico di Torino, nel 1924 inizia l`apprendistato nell`azienda paterna come operaio. L`anno seguente, in un viaggio negli Stati Uniti, visita decine di fabbriche all’avanguardia riguardo la concezione e il rapporto con i dipendenti. Tornato in Italia, si dedica alla modernizzazione della Olivetti con una serie di progetti incentrati su una più accurata gestione dei dipendenti, da lui considerati come risorse innanzitutto umane, prima ancora che produttive. Muore il 27 febbraio 1960, nel pieno di una vita ancora vulcanica e intensa.
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erché, a quasi sessant’anni dalla sua morte, trova spazio la figura di Adriano Olivetti all’interno di un discorso legato al futuro della società contemporanea? La risposta risiede in una realtà imprenditoriale che ha realizzato solo parzialmente il progetto, a tratti utopico, ma sicuramente visionario, di Adriano Olivetti nelle sue molteplici potenzialità. Obiettivi, quelli dell’imprenditore eporediese, che tutt’oggi le realtà industriali si trovano a porsi per il futuro. Olivetti, oltre ad essere manager innovatore, era un intellettuale che guardava ben oltre la sua epoca. Aveva compreso che il mondo del lavoro dovesse essere guardato in un contesto più organico. Aveva capito che la qualità del lavoro aveva una grande influenza in quello che la comunità scientifica identifica oggi nel più ampio concetto di qualità della vita. Olivetti è stato non solo un imprenditore, ma anche un uomo visionario che si dichiarò favorevole all’assegnazione dei ruoli di potere alle persone più capaci della Comunità, nonostante egli avesse ereditato la direzione dell’azienda dal padre, quindi per successione. Olivetti ha affidato a poeti, scrittori e critici letterari compiti fondamentali quali il reclutamento del personale e campagne pubblicitarie, in un’ottica multidisciplinare innovativa per l’epoca. Un uomo, Olivetti, che già nel primo dopoguerra aveva compreso la decadenza dei partiti 136
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politici, la loro deriva autoreferenziale volta alla conservazione del potere acquisito, venendo meno al ruolo di rappresentanza affidato loro dagli elettori. Olivetti, socialista, nonostante il problema della politica aveva cercato di far approdare in Parlamento la sua idea di Comunità. Adriano Olivetti era una persona con una mente aperta, pronta ad accogliere e rielaborare anche idee diverse dalle sue, fino a farle proprie. Fuori dal comune per il suo sguardo a 360 gradi, non mono-settoriale. L’idea di una comunità concreta nasce in Olivetti dalla conformazione geofisica del Canavese, quel pugno di comuni all’ingresso della Valle d’Aosta, una realtà da lui realmente vissuta. Questa idea di Comunità è l’esatto l’opposto di sradicamento: la fabbrica, facendosi parte viva e pulsante della Comunità, scongiura l’alienazione e la sofferenza degli operai diventando il mezzo di espressione della stessa Comunità. La cultura è l’arma della crescita: Olivetti, nel 1959, dirà: «Abbiamo portato in tutti i villaggi le nostre armi segrete: i libri, i corsi, le opere dell’ingegno e dell’arte. Noi crediamo nella virtù rivoluzionaria della cultura che dona all’uomo il suo vero potere». La fabbrica ha un ruolo fondamentale, non alienante, ma di promozione umana e culturale. Nella Comunità olivettiana non domina la politica pura, l’accumulazione fine a se stesso. L’idea di Comunità Olivettiana era venuta maturando dall’esperienza concreta della fabbrica. Lo dice lui stesso “Prima di essere una istituzione teorica, la Comunità fu vita”. L’esperienza della fabbrica comunitaria, da lui teorizzata e messa in pratica, ha un fortissimo il legame con il territorio: gli operai di Olivetti
Uno dei più importanti e iconici negozi di Olivetti, realizzato nel 1954 e ubicato al numero 584 di Fifth avenue per opera degli architetti Esnesto Rogers, Enrico Peressutti e Lodovico Barbiano di Belgiojoso dello studio milanese BBPR. Decorato dallo scultore e artista sardo Costantino Nivola, l’edificio, sviluppato su due piani, è famoso per la sua innovativa vetrina e il suo rivoluzionario modo di testare i prodotti di Olivetti al suo interno, qualcosa di completamente nuovo per l’epoca.
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rimangono contadini e questo faceva una fondamentale differenza con realtà industriali relativamente vicine come la FIAT di Torino. Olivetti è un manager, un uomo d’azione, non solo di pensiero. La sua esaltazione della creatività era la rampa di lancio verso una visione umanistica del ruolo del mondo del lavoro. Oggi andrebbero rivisti i ritmi, i rapporti, i luoghi, le gerarchie affinchè la condizione di chi lavora non sembrasse estranea dalla promozione umana. Nel mondo contemporaneo, è difficile ottenere un lavoro, ma soprattutto di mantenerlo e così cresce quel senso di alienazione, di sradicamento. E una soluzione possibile per evitare questo senso di frustrazione sul posto di laborò la si può trovare proprio nelle idee del visionario, e forse non del tutto compreso, imprenditore italiano Adriano Olivetti.
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Ivrea, città inserita nella “World Heritage List” dell’ UNESCO per la moderna visione della relazione tra industria e architettura sviluppatasi tra gli anni 30 e 60 del secolo scorso. La città comprendeva anche le unità abitative degli operai, ma anche luoghi di aggregazione sociale extra lavorativi.
Situata sulla sommità della collina che caratterizza l’area, si trova la Residenziale Ovest, la cui progettazione è affidata nel 1968 a Roberto Gabetti e Aimaro Oreglia d’Isola. L’Unità Residenziale Ovest, meglio nota agli abitanti e ai visitatori di Ivrea con il nome di “Talponia”, doveva ospitare i dipendenti Olivetti residenti a Ivrea.
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Apple: l’eredità di Olivetti nella filosofia aziendale del colosso di Cupertino
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ra Adriano Olivetti e Steve Jobs corre quasi mezzo secolo, ma la mentalità imprenditoriale di Apple deve molto a quella Olivetti. Tuttavia il parallelismo non è esente da alcune importanti differenze tra le due realtà: Olivetti è un’impresa di stampo fordista, conforme al Taylorismo, ossia la fabbrica meccanica nella sua accezione più classica, ma ammorbidita dal modello sociale e politico dell’utopia adrianea. Gli operai di Olivetti vengono considerati nella loro condizione interiore di individui, tanto membri della fabbrica quanto della comunità. Negli anni Cinquanta, la Olivetti di Adriano è un vero e proprio fulcro di innovazione. L’azienda è in grado di collegare senso senso estetico e usabilità e il negozio al 584 della Quinta Strada di New York ne è l’esempio. La Apple di Steve Jobs, che si realizza nella già sia affermata rivoluzione elettronica, è invece una impresa non fordista, al contrario di altre realtà affini tra cui la rivale IBM. Fondata nel 1976 a Cupertino, in California, Apple ha i tratti del capitalismo californiano di quel periodo storico caratterizzato dalla sottostante base della ricerca pubblica e militare e dal rapporto diretto con gli investitori. Il senso dell’estetica si può quindi considerare l’elemento comune tra i due visionari capaci di prendere un loro prodotto, o un loro negozio, e renderlo quasi comparabile ad una opera d’arte (Olivetti) facendolo diventare il simbolo del consumismo nella nostra società capitalista (Apple). Adriano Olivetti era profondamente convinto che lo sviluppo industriale potesse andare in armonia con l’affermazione dei diritti umani e con la democrazia partecipativa, sia dentro che fuori dal contesto fabbrica. Difficile, dopo Adriano Olivetti, “think different” come propone lo slogan di Apple. Il design di quest’ultima è l’incarnazione meglio riuscita di quelle intuizioni. Nessuno poteva sapere che Adriano Olivetti, quando chiede agli architetti Lodovico Barbiano di Belgiojoso, Enrico Peressutti e Ernesto Rogers di progettare un negozio al numero 584 della Fifth Avenue di New York, avrebbe gettato le basi per l’Apple Store più bello di sempre. Come siamo passati dal Negozio Olivetti all’Apple Store? Tutto iniza dal modo di intendere lo “Store”. Deve essere un luogo in grado di comunicare non solo l’eccellenza tecnologica e la funzionalità del prodotto, ma anche la bellezza e la cultura in tutte le sue dimensioni. Ciò definisce uno stile unico e un rigore formale desiderabile, da acquistare e stringere tra le mani. Nel 1954 la rivista Domus scrive che il negozio Olivetti «è una invenzione, è pieno di inediti
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Vista interna dell’Apple Store di Fifth Avenue, un punto vendita Apple sotteranneo, situato a New York, caratterizzato da una grande fonte luminosa data dal foro centrare da cui, attraverso una scala a chiocciola, da cui si accede e si esce. Sono presenti, inoltre, altri piccoli fori per sfruttare a pieno la luce del giorno come illuminazione principale ed è caratterizzato da lunghi banconi per provare i prodotti Apple. Realizzato nella stesso luogo di uno dei negozi storici di Olivetti. Innaugurata nel 2019, progettata da Foster and Partners.
Steve Jobs Theater, inaugurato il 12 settembre 2017 con la presentazione di alcuni nuovi prodotti e costato 14 milioni di dollari, è un auditorium situato nell’Apple Park di Cupertino di proprietà di Apple, dedicato al cofondatore dell’azienda. È stato disegnato dallo studio Foster + Partners. e si colloca nel punto più alto del campus. Alla base di questa scelta c’era la volontà simbolica di indicare che Steve Jobs guardasse tutta Apple dall’alto.
e di valori poetici». Novità è un piedistallo di marmo verde, al centro della vetrina, sulla cui sommità poggia una Lettera 22. I passanti la ammirano, come fosse un pezzo d’arte, ma anche la provano, la usano per scriverci un messaggio da lasciare lì o da portare a casa. L’emozione suscitata è la stessa che possiamo provare oggi, quando andiamo in un Apple Store, scriviamo una nota su un iPad a disposizione del pubblico, la lasciamo lì o ce la inviamo con AirDrop (un bluetooth fra dispositivi Apple) sul nostro dispositivo. Tornando all’estetica, ciò che più accomuna Adriano Olivetti e Steve Jobs, il primo capisce in anticipo che non basta fare un buon prodotto, deve essere anche bello. È importante che sia offerto al cliente in un bel negozio, che con le sue forme e architetture sappia stupire. L’umanità di Adriano Olivetti si vede nell’attenzione che ha per i suoi lavoratori: psicologi disponibili sul luogo di lavoro, fabbriche trasparenti immerse nel verde e attività culturali offerte per ridistribuire bellezza a tutti i livelli aziendali. Questi valori, causa del successo Olivettiano, vengono ripresi in Apple, non solo negli store, ma anche all’interno della stessa azienda e l’Apple Park, ormai fulcro della vita dei dipendenti Apple e sede di tutti i suoi eventi: il perfetto esempio della realizzazione degli ideali dell’imprenditore italiano. Adriano Olivetti e Steve Jobs rimangono ancora oggi due enigmi senza tempo in grado, con le loro idee, di incendiare l’immaginazione.
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Apple Park, inaugurato nel 2017, situato a Cupertino, California, realizzato da Foster and Partners
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Di fronte a un problema, le soluzioni possibili sono infinite. L’equilibrio progettuale risiede nel tipo di risposta voluta. Spesso si ricerca l’ipotesi migliore, ma talvolta è richiesta la soluzione ideale.
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Inside nature. Le soluzioni migliori sono quelle ideali?
Arrivati ormai alla fine del libro, forse è giunto il momento di guardare l’utopia da altre prospettive, molto attuali. Se spesso, anche nell’ambito architettonico, si parla della soluzione migliore, perché invece non pensare a quelle soluzioni ideali, da adottare di fronte a quei problemi reali? In questo capitolo parleremo dell’utopia in un senso più generale, da una prospettiva diversa, meno conosciuta, che spazia dal cinema alla moda, passando “naturalmente” anche per l’architettura. Non si tratta solo di progettare con la natura, ma soprattutto per la natura. Perché ad esempio i bachi da seta devono morire per donarci il loro prezioso prodotto? L’orologio fa tic tac, il ghiaccio è in fiamme, bisogna sbrigarsi: l’unico modo è farlo ora per domani, non domani.
La natura dal suo interno — Ice on fire, Domani Dalla natura per la natura — Silk Pavilion, Ocean Pavilion Il corpo, l’abito — Wanderers
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Il cambiamento climatico è reale. Sta accadendo proprio ora, è la minaccia più urgente per tutta la nostra specie e dobbiamo lavorare insieme e smettere di procrastinare.
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La natura dal suo interno
Ice on fire. Le soluzioni esistono ma l’orologio fa tic tac
Fotogramma tratto dal film Ice on Fire che riprende il metano fuoriuscente dal permafrost.
Ice on Fire è un documentario del 2019 che esplora il potenziale evento del livello di estinzione causato dal rilascio di metano artico e le nuove tecnologie sviluppate che potrebbero invertire il riscaldamento globale sequestrando il carbonio dall’atmosfera. Il documentario è un viaggio per il mondo alla scoperta di soluzioni mai viste prima per rallentare l’aumento delle temperature, riducendo in particolare le emissioni di anidride carbonica. Dalla Norvegia all’Alaska, dall’Islanda al Colorado, dalla Svizzera alla Costa Rica, veniamo a conoscenza delle storie di chi ogni giorno lotta per impedirci di raggiungere il “punto di non ritorno”. Le soluzioni alla crisi climatica, sostiene il film, si sono concentrate prevalentemente sulle energie rinnovabili. Ma dato che le cifre suggerite dall’Accordo di Parigi sul clima sembrano sempre più similiasogni irrealizzabili, saranno necessari altri metodi. Tra i più efficaci vengono segnalate le misure di drawdown, volte a prelevare l’anidride carbonica dall’atmosfera e dagli oceani per poi stoccarla sottoterra o trasformarla in altro, l’allevamento di ostriche e alghe (le mucche nutrite con alghe producono apparentemente il 90% in meno di metano, uno dei gas serra più aggressivi) e foglie artificiali e bioniche prodotte da Harvard che possono teoricamente trasformare l’anidride carbonica in carburante. I nuovi metodi verdi di generazione di energia includono la produzione di energia di marea e acqua salata. Il documentario, girato in nove paesi in tutto il mondo, vede gli interventi di visionari e scienziati, giovani e anziani, che stanno lavorando per mitigare i cambiamenti climatici e minimizzare gli eventi legati al clima, nonostante il pianeta sia sottoposto a un rapido e crescente riscaldamento. Ice on Fire ha lo scopo di far aprire gli occhi ai più e si concentra sulle molteplici soluzioni, mai viste prima, per rallentare la nostra crescente crisi ambientale. Viene sottolineata la necessità di un approccio immediato e duplice per invertire la crisi: occorre ridurre le emisInside Nature
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Sopra, fotogramma tratto dal film Ice on Fire che ritrae lo scioglimento dei ghiacci. Sotto, fotogramma dal film Ice on Fire che ritrae la misurazione dello scioglimento dei ghiacci.
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sioni di anidride carbonica attraverso le tradizionali fonti di energia rinnovabili e non, e attuare misure di prelievo, concentrandosi sui metodi di abbattimento del livello di anidride carbonica nell’atmosfera, compresi gli allevamenti marittimi, le fattorie urbane e il biochar. Mentre gran parte dell’attenzione politica ed economica si focalizza sul settore energetico, il film sottolinea che l’estrazione di CO2 dall’atmosfera e dagli oceani è forse la migliore speranza per mitigare il cambiamento climatico. I luoghi simbolo in cui la produzione ha fatto tappa sono la Usal Redwood Forrest Foundation, nel nord della California, la fattoria urbana di Ron Finley a Los Angeles, la Thimble Island Ocean Farm, al largo delle coste del Connecticut, e Zurigo. Il documentario vanta il contributo speciale di Lenardo DiCaprio che, oltre ad essere uno dei produttori, presta la voce alla narrazione nella versione originale. Domani. Adesso per domani
Domani, Demain, è un film documentario francese diretto da Cyril Dion e Mélanie Laurent, del 2015. Di fronte a un futuro che secondo gli scienziati è un grande motivo di preoccupazione il film ha la particolarità di non cedere al catastrofismo. Ottimisticamente, individua iniziative che si sono affermate in dieci paesi del mondo: esempi concreti di soluzioni alle sfide ambientali e sociali del ventunesimo secolo, che si tratti di agricoltura, energia, economia, democrazia e istruzione. Dopo aver letto un report pubblicato da un gruppo di scienziati sulla rivista Nature nel 2012, che ribadiva la necessità di correre ai ripari, perché il nostro pianeta non può sostenere ancora a lungo l’attuale ritmo di sfruttamento delle sue risorse, Cyril Dion e Mélanie Laurent hanno deciso di intraprendere un viaggio in cerca di soluzioni. Domani è dunque un documentario on the road: dalla Danimarca agli Stati Uniti, dall’India all’Islanda, dalla Francia all’isola della Réunion passando per l’Inghilterra, alla ricerca degli esempi virtuosi in cinque campi, che indicizzano il film in capitoli: dall’agricoltura passando per la democrazia, all’istruzione. Si propone dunque di parlare con chiarezza di tutte quelle strategie già attuate in diverse parti del mondo per riequilibrare la biosfera, superare le crisi economiche, livellare quelle ineguaglianze e rispettare l’ambiente tornando ad essere legati ad esso. Nel film Domani quindi vediamo orti urbani, piantagioni e agricoltura sostenibile e diversificata, permaInside Nature
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Sopra, fotogramma tratto dal film Domani, che ritrae Mélanie Laurent e Cyril Dion insieme agli altri membri del gruppo. Sotto a sinistra, fotogramma tratto dal film Domani. Un vigile si complimenta con la responsabile del progetto ecofriendly Incredible Edible. Sotto a destra, fotogramma tratto dal film Domani. Un esempio di scuola in Svezia, in cui “amare la natura” fa parte della formazione basica.
culture, fonti energetiche rinnovabili, compostaggio, città come Copenhagen nella quale il 65% dei cittadini non usa l’automobile; e ancora troviamo revisioni di un modello economico che mirano alla crescita indefinita, trovando una soluzione nell microvalute e in monete locali per ecosistemi economici complementari. Non solo, si prosegue con modi di lavorare all’interno del sistema per portare il cambiamento o contro di esso con iniziative alternative per raggiungere obiettivi al di fuori del sistema, leggi della Terra e diritti umani e un modello educativo basato su fiducia, tolleranza e collaborazione. In tal proposito Cyril Dion enuncia tali parole:“Volevamo dimostrare che è tutto collegato. Che non è possibile affrontare i problemi separatamente. L’agricoltura occidentale, per esempio, è totalmente dipendente dal petrolio. Cambiare il modello agricolo significa cambiare anche il modello energetico. Ma la transizione energetica costa cara, e quindi bisogna affrontarla in termini economici. Purtroppo, al giorno d’oggi l’economia crea disuguaglianze ed è in larga misura responsabile della distruzione del pianeta, quindi è necessario regolamentarla in modo democratico. Ma perché una democrazia funzioni, bisogna che faccia affidamento su cittadini illuminati ed educati ad essere liberi e responsabili”. Ci sono alcune statistiche ed esempi sorprendenti che confermano la validità delle iniziative proposte dal film. Apparentemente la maggior parte della nostra agricoltura commestibile proviene da piccole fattorie, non dall’agrobusiness, che sono estremamente affamate di energia e dannose per la terra. Ora ci sono piccole fattorie in tutta la città di Detroit che sono sorte nelle aree abbandonate e stanno fornendo cibo fresco e privo di pesticidi a un ampio segmento della popolazione. Quello che colpisce è che non si tratta solo delle utopie di qualche piccola comunità neo-hippie o di estremisti arrabbiati e antisistema, ma di possibilità concrete e reali che riguardano tanto i cittadini con i loro movimenti dal basso, quanto iniziative e coinvolgimenti di governi locali e nazionali. In molti casi si tratta di un ripensamento del nostro stile di vita che, con una necessarietà filosofica prima ancora che comportamentale, porti a rivalutare i concetti di lentezza e limite e considerarli elementi positivi e propulsivi e non zavorre che frenano il progresso.
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L’ideale sarebbe riuscire a cogliere sempre un frutto da un albero da frutto per piantarlo ed ottenere un albero. È semplice, un frutto per un frutto.
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Dalla natura per la natura
Silk Pavilion. Progettare architetture naturali
Dettaglio di due bachi da seta mentre stanno producendo la loro seta.
Il Silk Pavilion è un’installazione progettata nel 2013 da Neri Oxman e il suo Team. È stato notato per il suo metodo di fabbricazione tanto quanto per la sua forma finale. È stato tessuto da 6.500 bachi da seta all’aperto su una cupola con telaio in nylon. Gli esperimenti con i bachi da seta hanno identificato come avrebbero reagito a diverse superfici e cosa li avrebbe incoraggiati a ruotare su una struttura esistente piuttosto che filare un bozzolo. La cornice di una grande cupola poliedrica è stata tessuta da un braccio robotico con sottili fili di nylon e sospesa in una stanza aperta. La cupola è stata progettata con spazi vuoti dove sarebbe stata più calda. I bachi da seta sono stati rilasciati sul telaio a ondate, dove hanno aggiunto strati di seta prima di essere rimossi. Ciò ha coinvolto ingegneria e sericoltura, modellando il sole nella stanza. L’installazione risultante è stata appesa in modo che le persone potessero stare all’interno. Il suo lavoro incarna la progettazione ambientale e la morfogenesi digitale, con forme e proprietà determinate dal contesto. Ha coniato la famosa frase “ecologia materiale” per definire il suo lavoro, inserendo i materiali nel contesto. Generalmente i marchi di fabbrica stilistici includono superfici dai colori vivaci e ruvide con struttura a molte scale e materiali compositi la cui durezza, colore e forma variano su un oggetto. I risultati sono spesso progettati per essere indossati o toccati e ispirati dalla natura e dalla biologia. Associando la creazione di tecnologie su misura per la costruzione digitale con applicazioni del mondo reale, la Oxman e il suo team hanno generato nuovi modi di produzione che si traducono in strutture le cui proprietà fisiche sono state progettate per adattarsi perfettamente all’ambiente in cui vivono. Rigidità, elasticità, colore, trasparenza, conduttività, persino odore e gusto, possono essere regolati individualmente per ogni pixel 3D di un oggetto fisico. La costruzione di prodotti ed edifici non è quindi più limitata a raccolte di parti discrete con proprietà omoInside Nature
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Sopra, dettaglio macroscopico di un baco da seta. Al centro, dettaglio di bachi da seta laboriosi. Sotto, dettaglio di tessitura della seta. A destra, un addetto all’opera all’interno della struttura.
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A sinistra, dettaglio della superficie della struttura. In alto a destra, interno della struttura. In basso a destra, la struttura nel suo complesso.
Ocean Pavilion. Noi ospiti della natura
genee. Piuttosto, gli oggetti, come gli organi, possono essere coltivati computazionalmente, fabbricati in modo additivo e aumentati biologicamente per creare costrutti eterogenei e multifunzionali. “Ma la natura è ideale? Non ci sono parti in natura? Come la Bibbia racconta: Il terzo giorno della creazione, Dio comanda alla Terra di crescere un albero da frutto. Per questo primo albero da frutto, non ci sarebbe stata alcuna differenziazione tra tronco, rami, foglie e frutti. L’intero albero era un frutto. Invece, la terra ha cresciuto alberi che hanno corteccia e fiori e steli.” Così hanno cercato quel materiale biblico, che è sia frutto albero che frutto come tipo di materiale, e lo hanno trovato. Il secondo più abbondante biopolimero del pianeta si chiama chitina, e circa 100 milioni di tonnellate di esso vengono prodotte ogni anno da organismi come gamberi, granchi, scorpioni e farfalle. Hanno pensato che se avessero potuto accordare le sue proprietà, si sarebbe potuto generare, da una singola parte, strutture che sono multifunzionali. Ecco, Ocean Pavilion. Abbiamo ordinato un mucchio di conchiglie di gamberetti, li abbiamo macinati e abbiamo prodotto pasta-chitosan. Variando le concentrazioni chimiche, siamo stati in grado di realizzare una vasta gamma di proprietà: dal buio, rigido e opaco, alla luce, morbida e trasparente. Per stampare le strutture su larga scala, abbiamo costruito un sistema di estrusione controllato da robot con più ugelli. Il robot varierebbe le proprietà del materiale in tempo reale e può creare questi 12 piedi di lunghezza delle strutture in un unico materiale, riciclabile al cento per cento. Quando le parti sono pronte, sono lasciate asciugare fino a prendere forma in modo naturale al solo contatto con l’aria. Allora perché stiamo ancora progettando con la plastica? Le bolle d’aria che erano un sottoprodotto del processo di stampa sono state usate per contenere microrganismi fotosintetici che fecero la loro prima apparizione sul nostro pianeta 3,5 miliardi anni fa. Insieme ai nostri collaboratori a Harvard e del MIT, noi abbiamo batteri incorporati che sono stati geneticamente modificati per catturare rapidamente carbonio dall’atmosfera e convertirla in zucchero. Per la prima volta, siamo stati in grado di generare strutture senza soluzione di continuità e sono la transizione da un fascio di maglia, e se scalato sono ancora più grandi, per le finestre.
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La Terra è una risorsa biologica dalla quale trarre le regole per creare microrganismi in armonia con essa che soddisfino le necessità comuni della vita quotidiana.
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Il corpo, l’abito
Wanderers. Un’esplorazione astrobiologica
Modella che indossa un capo della Collezione Wanderers, Al-Qamar. Foto di Yoram Reshef.
L’impostazione di questo progetto utilizza gli stessi principi con cui si è originato il sistema solare. L’obiettivo è quello di creare abiti che sostengano la vita per i viaggi interplanetari. Per fare questo, è necessario contenere i batteri ed essere in grado di controllare il loro flusso. Così come la tavola periodica, abbiamo anche noi la nostra propria tabella degli elementi: nuove forme di vita che sono state computazionalmente coltivate, additivi fabbricati e biologicamente aumentati. La Oxman crede fortemente che la biologia sintetica sia come l’alchimia liquida, solo che invece di trasmutare i metalli in preziosi, si stanno sintetizzando nuove funzionalità biologiche dentro molti piccoli canali. Si chiama microfluidica. Il team ha stampato in 3D i canali per controllare il flusso di queste colture batteriche liquide. Nel primo pezzo di abbigliamento, si combinano due microrganismi. Il primo è formato da cianobatteri, comuni batteri che vivono negli oceani e negli stagni d’acqua dolce. Poi il secondo, l’E. coli, è il batterio che abita nell’intestino umano. Uno converte la luce in zucchero, l’altro consuma lo zucchero per produrre biocarburanti utili per l’ambiente costruito. Questi due microrganismi non interagiscono in natura, in realtà, non si sono mai incontrati. Sono stati progettati per la prima volta in laboratorio per avere una relazione all’interno di un capo di abbigliamento. Pensate all’evoluzione non tramite la selezione naturale, ma attraverso la progettazione. Al fine di contenere queste relazioni, hanno creato un unico canale che ricorda il tratto digestivo, che aiuterà il flusso di questi batteri ed alterare la loro funzione lungo la strada. L’idea è poi quella di coltivare questi canali sul corpo umano, variando le proprietà del materiale secondo la funzionalità desiderata. Dove serve avere più fotosintesi, si progettano canali più trasparenti. Questo sistema digestivo indossabile, quando è svolto fino alla fine, si estende per 60 metri. Questa è la metà della lunghezza di un Inside Nature
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A sinistra, modella che indossa un capo della Collezione Wanderers, Zuhal. Foto di Yoram Reshef. A destra, Collezione Wanderers, Mushtari. Foto di Yoram Reshef.
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Dettaglio del capo di abbigliamento Al-Qamar. Foto di Yoram Reshef.
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campo di calcio, e dieci volte il nostro intestino tenue. Per la prima volta si assiste alla prima serie di fotosintetici indossabili: dei canali di liquido incandescente che hanno la vita all’interno di un abbigliamento da indossare. Mary Shelley disse: “Siamo creature senza stile, ma solo la metà è stata composta.” Che cosa succederebbe se il design potesse prevedere quale è l’altra metà? Che cosa accadrebbe se potessimo creare strutture in grado di accrescere la materia vivente? Che cosa accadrebbe se potessimo creare microbiomi personali che scansionano la nostra pelle, riparano il tessuto danneggiato e sostengono il nostro corpo? Pensate a questo come ad una forma di biologia modificata. Questa intera raccolta, non è moda di per sé, ma fornisce l’occasione per speculare sul futuro della nostra etnia, sul nostro pianeta, su come combinare conoscenze scientifiche e di abbandonare l’età della macchina per una nuova era di simbiosi tra i nostri corpi: i microrganismi che abitiamo, i nostri prodotti e anche i nostri edifici. Usando le parole della Oxman: “Io chiamo questo materiale ecologia”. Ormai, si sa che la stampante 3D stampi a strati. Ma sappiamo anche che la natura non è fatta così: cresce, aggiunge con raffinatezza. Viaggiare verso destinazioni oltre il nostro pianeta Terra comporta viaggiare verso paesaggi ostili e probabilmente ambienti mortali. Gravità schiacciante, aria monotona, oscurità prolungata e temperature che farebbero bollire il vetro o congelerebbero l’anidride carbonica, eliminando la probabilità di visite umane. Il progetto esplora la possibilità di viaggiare nei mondi al di là dell’immaginario, visitando i mondi interni. I capillari indossabili stampati in 3D progettati per i pellegrini interplanetari sono infusi con microrganismi ingegnerizzati al livello sintetico per rendere l’ostile abitabile e il mortale vivo. I dispositivi indossabili sono progettati per interagire con un ambiente specifico caratteristico della loro destinazione e generare quantità sufficienti di biomassa, acqua, aria e luce necessarie per sostenere la vita: alcuni fotosintetizzano convertendo la luce del giorno in energia, altri bio-mineralizzano per rafforzare e aumentare l’osso umano e un po’ di fluorescenza per illuminare la strada nell’oscurità totale.
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Biofilia
IL BENESSERE SOCIALE NELL’UTOPIA CONTEMPORANEA Dall’alba dei tempi l’uomo ha utilizzato tutto ciò che l’ecosistema aveva da offrirgli per la propria evoluzione. Durante questo processo egli ha dimostrato il suo bisogno di costruire sempre più nuove soluzioni, sfruttando gli elementi della natura che lo circondavano, che rispondessero alla sua domanda iniziale di protezione fino al soddisfacimento di ogni suo tipo di bisogno. Mano a mano dunque, la natura è diventata sempre più bacino di risorse da sfruttare perdendo progressivamente la sua naturale funzione di rifugio e di complemento necessario della vita umana. Rivolgendo lo sguardo al passato si nota come in ogni periodo storico considerato di progresso, la natura avesse un ruolo esclusivamente utilitaristico piuttosto che di unica risorsa inderogabilmente legata al benessere e alla sopravvivenza dell’umanità. Questo progressivo allontanamento dal binomio uomo-natura della società moderna ha portato a sviluppare delle abitudini e dei cicli umani totalmente asincroni dalla natura e per tanto a danneggiarla quasi irreparabilmente. Considerando che un ritorno al rapporto uomo-natura primitivo sia utopico per le società odierne, è necessario considerare di tornare a trovare un equilibrio tra i due. Negli ultimi anni infatti, vistosi le gravi ripercussioni degli operati delle ere passate sull’intero pianeta e la sua salute, l’attenzione per l’aspetto green si sta sempre più assottigliando in ogni campo, grazie a numerose campagne e movimenti che hanno aumentato la consapevolezza della nostra società e risvegliato sempre più coscienze. In questo capitolo intendiamo illustrare, attraverso diverse declinazioni del termine con alcuni esempi, il concetto di biofilia, ovvero quella tendenza innata dell’uomo a concentrare il proprio interesse verso i processi vitali, creare connessioni con la natura e altre forme di vita (Biophilia, 1984, E.O.Wilson). In architettura, intesa come uno dei massimi rapporti di interazione tra l’uomo e l’ecosistema circostante, questa pulsione ha trovato diverse espressioni nel corso della storia e ad oggi la biofilia si esprime tramite il tentativo di eliminare il divario tra l’architettura che rispetta esigenze umane e ecosistemi.
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Architettura dell’utopia
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The Rolex Learing Center Losanna, Svizzera , 2010 Project: SANAA
Creato per il campus EPFL, (Ecole Polytechnique Fédérale Lausanne) Il Rolex Learning Center di SANAA ospita funzioni destinate a servizi per lo studio, l’insegnamento, la ricerca, la socializzazione, l’intrattenimento e l’amministrazione, lo studio SANAA ha dato vita ad un potente dialogo, in forma di edificio, tra ambiente e cultura, oggetto e soggetto. Architettonicamente l’edificio si presenta come un gigantesco e fluido open space a pianta quadrata, dove tetto e soffitto viaggiano paralleli senza interruzioni, seguendo un andamento dolcemente ondulato che crea uno spazio unico di 20.000 metri quadrati. La peculiarità di questa struttura è proprio questa, al suo interno non esistono pareti divisorie, le aree indipendenti sono state create variando le altezze. La modellazione digitale del flusso d’aria, dell’illuminazione e le misurazioni termiche, hanno permesso all’azienda di portare l’efficienza energetica del nuovo edificio a un massimo tecnico. L’illuminazione nelle ore diurne è in gran parte naturale infatti il consumo di energia è ridotto grazie all’alta qualità delle finestre con doppi vetri; ai 20 cm di isolamento del tetto e ai 35 cm di isolamento del pavimento e alle tende esterne. Infine l’installazione di pompe termiche che utilizzano l’acqua del lago garantisce il rinfrescamento a tutto il campus. L’ottenimento della certificazione Minergie è un risultato ancora più eccezionale dato che l’edificio è a pianta aperta.
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In alto la vista aerea del Rolex Learing Center di Losanna. In basso l’utilizo degli spazi sottostanti, per scopi sociali.
Bosco Verticale Milano, Italia, 2015 Project: Boeri
In alto la visione del Bosco Verticale nella stagione autunnale. In basso l’immagine della struttura appena inaugurata dal Boeri Studio.
Gli edifici sono realizzati con una struttura in calcestruzzo armato con solette in spesse 28 cm. Le facciate, rivestite in gres porcellanato grigio scuro si caratterizzano per gli abbondanti sporti dei balconi, profondi fino a 3,35 metri che servono ad ospitare un apparato vegetale composto da oltre cento specie tra cui peri selvatici, roverelle, lecci, noccioli turchi e olivi. Il verde è posizionato in base all’esposizione e alle esigenze di ombreggiatura degli appartamenti, oltre che secondo criteri estetici. Tra il rivestimento interno impermeabilizzante delle vasche e lo strato di coltivo è collocato un sistema antiradice e di drenaggio con strati in polietilene e geotessuto. L’irrigazione delle piante, invece, avviene attraverso un complesso sistema centralizzato con distribuzione ad ala gocciolante, la manutenzione delle piante è affidata alle gru posizionate sul tetto dei due palazzi. Con questo sistema di integrazione del verde nelle grande metropoli si potrebbe ottenere creazione di microclimi, riavvicinare le persone che ci vivono alla natura e diminuire le emissioni di Co2. I costi di installazione e manutenzione del verde verticale però tendono ad oggi a vanificare quanto realizzato di buono sul piano ecologico oltre alle già irrisolte problematiche dei consumi per il raffrescamento e per l’irrigazione, inoltre rendono tali strutture architetture per pochi, non permettendo l’accessibilità alla cittadinanza nel suo complesso.
Biofilia fautrice del benessere sociale nell’utopia contemporanea
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L’Icefiord Center ricorderà una grande tenda, una struttura triangolare in forte pendenza con una pianta a forma di L leggermente curva. Il centro si inserirà dolcemente nel contesto e offrirà al pubblico un percorso di visita interno e uno esterno camminando sulla copertura in pendenza. All’interno le pareti vetrate, alternate alla struttura triangolare portante, offriranno punti di vista privilegiati da cui osservare il ghiacciaio e la valle.
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Icefjord center Greenland 2020 Project: Dorte Mandrup Arkitekter
Dorte Mandrup ha vinto il concorso internazionale per la progettazione dell’Icefjord Centre di Ilulissat nell’estate 2016. Il concorso è stato lanciato dal governo della Groenlandia con l’obiettivo di creare un luogo di incontro locale e internazionale presso l’Icefjord. Situato a 250 km a nord del circolo polare artico, il centro si trova in uno scenario drammatico e caratteristico. Tra le creste montuose dell’Icefjord scorrono i ghiacciai più veloci del mondo, in una corsa verso l’oceano. Sul fronte del ghiacciaio, giganteschi iceberg stanno irrompendo in un dramma fragoroso. Mentre escono attraverso il fiordo, si ribaltano fino a migliaia di metri di iceberg. Lo scenario naturale unico di montagne, mare e il drammatico viaggio degli iceberg dalla calotta glaciale al mare ha conferito all’Icefjord lo status di patrimonio mondiale inalienabile. Da 250 anni gli scienziati seguono il ghiacciaio Sermeq Kujalleq, dove il riscaldamento globale è più evidente. Qui, il ghiaccio interno della Groenlandia defluisce negli oceani a velocità crescente ogni anno. Con l’apertura dell’Icefjord Center nella primavera del 2021, la storia del ghiaccio verrà raccontata a locali, turisti e ricercatori di tutto il mondo. L’area del fiordo di ghiaccio protetta dall’UNESCO trasporta 4.000 anni di patrimonio culturale ed è essenziale per comprendere la crisi climatica. Selezionato dalla giuria per il suo “design poetico, semplice e visionario”, l’edificio assume la forma di una gigantesca capriata in legno, che consente alla struttura di fluttuare delicatamente sopra l’aspro paesaggio della valle di Sermermiut. L’inaugurazione dell’Icefjord Center si è svolta nell’estate del 2019. Quattro mesi dopo, i vetri delle finestre inclinati e 52 esclusivi telai in acciaio si stavano sollevando sopra un lago interno. La forma aerodinamica è ora visibile nel paesaggio, dove è progettata per ridurre al minimo l’accumulo di neve mentre inquadra le viste verso il fiordo. La struttura dell’edificio in legno è coperta da una passerella curva in leggera pendenza che diventa il punto di partenza per il Sentiero del Patrimonio Mondiale e, allo stesso tempo, funge da punto di raccolta e da una piattaforma panoramica e un’area salotto informale offrendo una vista spettacolare e indisturbata della valle di Sermermiut e del fiordo di ghiaccio nel tramonto serale. Le pareti vetrate, alternate alla struttura triangolare portante, offriranno punti di vista privilegiati da cui osservare il ghiacciaio e la valle. All’interno, il progetto ospita un caffè, un’area espositiva e uffici. La forma curva è creata da diversi telai geometrici in acciaio, creando un tetto a doppia curvatura. La struttura è rivestita da una pavimentazione in legno e si attorciglia per toccare il suolo su entrambe le estremità, fornendo accesso alla piattaforma panoramica sul tetto del padiglione. La geometria dell’edificio cambia di sezione con un flusso costante e inquadra le viste in continuo cambiamento. Il centro racconterà la storia del ghiaccio, della storia umana e dell’evoluzione in senso sia locale che globale.
Biofilia fautrice del benessere sociale nell’utopia contemporanea
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The Interlace Singapore, 2015 Project: OMA The Interlace, uno sviluppo residenziale su grande scala progettato da OMA in collaborazione con Ole Scheeren a Singapore, è costruito come una vasta rete di spazi privati e condivisi, una reinterpretazione radicale della vita comunitaria contemporanea. Piuttosto che seguire la consueta tipologia residenziale per ambienti ad alta densità edilizia, il progetto di Interlace trasforma l’isolamento verticale in connessioni orizzontali e ripristina il concetto di comunità come una questione fondamentale per la società contemporanea. I blocchi interconnessi creano una moltitudine di spazi esterni comuni, formando una topografia di giardini terrazzati che attraversano i volumi sovrapposti e sfalsati. In parte appoggiati gli uni agli altri, in parte sospesi, questi volumi si intrecciano per disegnare uno spazio fortemente caratterizzato che collega le residenze private agli spazi comunitari, accessibili e inclusivi. Gli aspetti di sostenibilità sono stati parte integrante della fase progettuale, durante la quale è stata svolta un’attenta analisi ambientale e prevista l’integrazione di strategie energetiche passive a basso impatto. Una serie di studi ambientali del vento, dell’orientamento solare e delle condizioni di luce ha determinato le strategie intelligenti per il complesso edilizio e la progettazione del paesaggio. The Interlace è il vincitore della prima edizione dell’Urban Habitat Award 2014 per i suoi contributi innovativi alla dimensione urbana e alla sostenibilità.
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In alto la vista frontale di The Interlace, con i suoi 31 blocchi residenziali connessi con la vegetazione. In basso il dettaglio dei cortili esterni comuni.
Urban Forest Pechino 2021 Project: MAD
In alto la visione frontale di The Urban Forest, con dettaglio sulla vegetazione. In basso la vista panoramica del progetto nella città di Chongqing, Cina.sit amet diam porta vulputate.
Entro la fine del 2009, MAD ha completato il concept di un complesso culturale metropolitano alto 385 metri nel centro della città di Chongqing - The Urban Forest. Attingendo al paesaggio montuoso del paese, l’edificio a molti piani è costituito da pavimenti curvi e di forma astratta che sono stati stratificati leggermente fuori centro l’uno dall’altro. The Urban Forest si concentra sulle relazioni multidimensionali all’interno di spazi complessi; sky garden multipiano, cortili galleggianti e sereni spazi di raccolta. Alcuni piani non sono altro che open space, mentre altri contengono uffici o spazi residenziali. La forma architettonica si dissolve nel movimento effimero dell’aria, del vento e della luce. Dopo l’installazione, gli alberi sono soggetti a forti venti in quota, il vento può anche interrompere i processi fotosintetici, mentre il caldo e il freddo devastano molte specie di alberi. La copertura verde della vegetazione richiede un substrato di coltivazione, tessuto filtrante, strato di drenaggio, isolamento e membrana impermeabile, rendendo necessari degli interventi continui di manutenzione. Tale edificio non dovrebbe solo spingere la crescita economica e la prosperità materiale, ma anche favorire l’evoluzione dell’essenza culturale della città. The Urban Forest trae ispirazione dal punto di vista della natura e dall’uomo nella filosofia orientale, e lega la vita della città con le esperienze all’aperto.
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The New York Times New York, Usa, 2014 Project: Renzo Piano
Situato a breve distanza da Times Square, il New York Times Building, si è inserito nello skyline della Grande Mela e si è fatto subito notare, non tanto per le sue dimensioni ma quanto per le sue caratteristiche molto particolari, che portano la firma dell’illustre Renzo Piano. L’architetto sostiene che l’edificio del New York Times sulla 8th Avenue ha una presenza di forte carattere urbano. Il progetto è stato realizzato come prolungamento della strada in cui si colloca, e al piano terra presenta un giardino con auditorium. Piano per questa struttura di 52 livelli intende attribuire all’intervento il maggior grado di apertura e trasparenza, come simbolo del rapporto tra il giornale e la città. Per le facciate è stata adottata una combinazione di superfici vetrate trasparenti e una trama di profili in ceramica bianca, sospesi a 61 centimetri di distanza dall’involucro di vetro, che funge da frangisole ovviando la necessità di ricorrere a vetri colorati o a mescole. Il giornale occupa la metà inferiore della struttura, mentre la società immobiliare Forest City Ratner gestisce la commercializzazione del resto dell’edificio. La base di sei livelli accoglie un atrio con punti vendita, ristoranti e un auditorium per conferenze. Il New York Times Building è anche un edificio green ed ecosostenibile: gran parte dell’illuminazione viene fornita dalla luce naturale e ogni ambiente è dotato di un sistema che aumenta o diminuisce l’illuminazione in maniera automatica a seconda della potenza della luce del sole e dalla presenza o meno di persone all’interno. Anche la temperatura e la qualità dell’aria vengono costantemente monitorate attraverso dei sensori che in caso di necessità attivano automaticamente l’aria condizionata o il riscaldamento e le ventole di circolazione dell’aria. A questo si aggiunge poi il fatto che l’edificio è costituito per gran parte da materiali riciclati. In un grattacielo così attento all’ambiente non poteva mancare un giardino, nato da un connubio tra un’oasi di pace e relax in armonia con la natura e una vivace piazza cittadina in cui ci si incontra e si socializza. Il paesaggio naturale richiama alla Hudson River Valley e il microclima viene controllato con un sistema che simula le stagioni. E così ci si ritrova a passeggiare attraverso uno scenario verde smeraldo composto da felci, betulle e altri tipi di piante che regalano splendidi paesaggi rossastri o fioriti a seconda della stagione. Sul giardino, situato al piano terra, si affacciano la lobby e la sala teatro, chiamata Times Center, uno spazio artistico e culturale che evoca le atmosfere dei teatri di Broadway con le sue poltrone rosse e gli arredi in legno. Qui si tengono piccoli spettacoli, seminari, proiezioni di film e concerti. Per la sua considerevole altezza, l’ubicazione centrale e la vocazione, il New York Times Building è una delle più prestigiose commissioni assegnate ad architetti stranieri negli ultimi anni a Manhattan.
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In alto vediamo l’interno dell’edificio che ospita un giardino interno a perto al pubblico. In basso viene mostrato l’interno della struttura che ospita punti vendita, ristoranti e una sala conferenze. A destra viene mostrata che presenta il famoso progetto grafico realizzato da Michael Bierut.
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CopenHill Copenhagen, Danimarca 2017 Project: Neveplast
Il termovalorizzatore Amager Bakke a Copenaghen, in Danimarca è stato progettato dallo studio Big. Il termovalorizzatore è un tipo di inceneritore in cui il calore prodotto dalla combustione dei rifiuti viene utilizzato per produrre energia è stato aperto nel 2017. Il progetto, ideato dallo studio dell’architetto danese Bjarke Ingels, era stato pensato non solo per smaltire i rifiuti ma anche per diventare un punto di ritrovo per i cittadini di Copenaghen. CopenHill prevede una pista da sci realizzata con un materiale sintetico prodotto dall’azienda italiana Neveplast, che permette di sciare tutto l’anno, percorsi per fare trekking e strumenti per fare attività sportiva all’aperto. L’enorme edificio cuneiforme è stato rivestito da centinaia di “blocchi” in alluminio, impilati come enormi mattoncini Lego, per dare continuità visiva sopra la sottostante struttura in acciaio e calcestruzzo. Allo stesso tempo, la forma a spirale conferisce dinamismo ad una enorme costruzione che rischiava di risultare altrimenti tozza e pesante. La copertura di tessuto sintetico verde della pista da sci gli ha conferito un aspetto da collina verde da qui il nome CopenHill. L’impianto brucia 70 tonnellate di rifiuti all’ora, e in un anno è in grado di trattare circa 400mila tonnellate di rifiuti solidi prodotti a Copenaghen, prodotti da 550-700mila cittadini e 46mila imprese. L’idea è di aprire ai cittadini un edificio che di norma viene considerato chiuso e inavvicinabile se non addirittura ostile.
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In alto la vista laterale di Amager Bakke. In basso un particolare della pista sintetica di CopenHill costruita da Neveplast, azienda leader delle piste artificiali per sport e divertimento, che ha prodotto un manto sintetico erboso in cinque colorazioni diverse di verde, atte a renderlo sempre di più una collina. Il comprensorio sciistico è composto da tre piste di diversa difficoltà (azzurra, rossa e nera) con servizi di noleggio sci, quattro skilift, dei punti di ristoro e una scuola di sci, offrendo quindi il “pacchetto completo” per chi volesse avvicinarsi a questa disciplina senza aver bisogno di un manto di neve fresca.
Simmons Hall, Mit Cambridge, Boston, Usa, 1999 Project: Steven Holl Architects
In alto mostra il complesso con la sua forma peculiare. In basso dettaglio delle finestre. I fori sulla facciata sono evidenziati da un trattamento cromatico diverso dalla superficie più esterna.
La nuova Simmons Hall al MIT, progettata da Steven Holl, è un landmark dell’architettura contemporanea americana. L’università di Cambridge è la culla di un nuovo modello di intervento a scala urbana. Nell’intervento di Holl il dormitorio non è più semplicemente un luogo dove riposarsi, ma diventa uno spazio che risponde a un programma di attività pienamente evoluto: un condensatore sociale nel vero senso della parola. Il progettista ha pensato a una serie completa di funzioni sociali: una mensa collettiva, un ristorante raggiungibile direttamente dalla strada e una varietà di spazi comunitari caratterizzati dai singolari pozzi di luce che perforano ogni livello dell’edificio, portando la luce naturale fino al cuore della struttura. All’esterno c’è anche un teatro con annessi impianti sportivi. L’edificio appare come un immenso prisma di dieci piani lungo definito da prospetti regolati da una maglia ortogonale con bucature quadrate. Lunga non meno di 140 metri e alta 10 piani, la Simmons Hall è una vera porzione di città. L’edificio ha cinque grandi aperture che danno agli ingressi principali, ai corridoi panoramici e alle terrazze delle attività all’aperto. Le grandi e dinamiche aperture portano la luce naturale verso il basso e spostano l’aria verso l’alto. Ciascuna delle stanze singole del dormitorio ha nove finestre apribili. Gli arredi sono una serie di elementi componibili che permettono di organizzare la stanza a piacere dello studente.
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Centro culturale Jean-Marie Tjiabaou Numea, 1993 Project: Renzo Piano
Il Centro Culturale Jean-Marie Tjibaou è uno tra i più noti progetti di Renzo Piano, è un centro dedicato alla cultura Kanak della Nuova Caledonia, situato nei pressi della città di Numea sulla penisola di Grande Terre. Il centro è stato realizzato per presentare e promuovere la cultura indigena del popolo Kanak, le sue tradizioni, la lingua, l’artigianato e l’arte. Anche per questo, nel progettare il complesso, Piano ha incluso una serie di riferimenti all’architettura tradizionale canaca. Infatti, il complesso è composto da dieci padiglioni a pianta circolare, ispirati dalla tradizionale capanna conica, detta Grande Case. Diversamente dalle capanne tradizionali, che sono strutture semi-temporanee realizzate normalmente con elementi vegetali raccolti sul posto, i padiglioni sono stati realizzati con materiali durevoli, tra cui legno d’iroko, legno lamellare, alluminio, acciaio e vetro. La decisione di Piano di utilizzare l’iroko, un legno importato dall’Africa, per l’ossatura esterna dei padiglioni è dovuta al fatto che l’iroko è preferibile ai legni locali per le sue particolari caratteristiche di durabilità, bassa manutenzione e resistenza alle termiti nei climi tropicali. Il centro, che sorge su una penisola circondata su tre lati dall’Oceano Pacifico e da una laguna, è caratterizzata da una vegetazione lussureggiante, e la progettazione degli spazi esterni vuole ricreare la stretta relazione tra il villaggio e lo spazio naturale tipico di molte culture locali. I dieci padiglioni sono divisi in tre gruppi funzionali principali. Il primo gruppo accoglie spazi espositivi dedicati alla cultura Kanak; il secondo gruppo contiene una sala conferenze, una biblioteca; il terzo gruppo ospita sale per musica, danza, pittura, scultura e arti applicate; infine, il decimo padiglione accoglie un bar-caffetteria. Il centro, inoltre, organizza un programma di attività ed eventi con lo scopo di raccogliere la comunità. Il progetto del Centro Culturale Jean-Marie Tjibaou è fortemente legato all’idea di una sostenibilità veicolata dall’architettura, invece che da complessi impianti tecnologici. Le strutture hanno un sistema di ventilazione passiva ottenuto grazie a una doppia facciata in cui l’aria circola liberamente tra due involucri frangisole, un sistema di lamelle mobili regola poi il flusso d’aria in base alla velocità del vento. Le facciate rivolte verso sud sono progettate per schermare i padiglioni dai forti venti e dalle tempeste che arrivano dal mare durante la stagione dei monsoni, mentre le facciate a nord, che si affacciano sull’ambiente più tranquillo della laguna, sono più aperte, trasparenti e permeabili. Il passaggio coperto non ha muri perimetrali veri e propri ma è dotato di frangisole in legno, vetro e acciaio, concepiti in modo che la ventilazione naturale lo mantenga costantemente fresco evitando, allo stesso tempo, surriscaldamenti causati da un’eccessiva illuminazione solare diretta. La visita al centro è concepita come una passeggiata attraverso l’ambiente.
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In alto abbiamo la vista posteriore del centro, da cui possiamo vedere la sua collocazione nella natura. In basso una vista frontale del centro. Nonostante l’enfasiposta sulla cultura locale, qui Renzo Piano sposa l’uso del legno e la ventilazione naturale con gli elementi di vetro e alluminio. I padglioni del centro riportano tanto a delle vele quanto ai disegni dlle capanne locali. I suoi riferimenti sotili non sono mai tanto letterali da diventare ovvi.
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Svart Svartisen, Norvegia, 2017 Project: Snøhetta
In alto dimostrazione di come la struttura si fonde perfettamente con l’ambiente circostante. In basso in dettaglio è mostrato il sistema di sopraelevazioe. I pali dell’hotel fungono anche da passerella in legno per passeggiate estive. In inverno, la passerella può essere utilizzata per riporre barche e kayak, riducendo la necessità di garage e spazio di archiviazione aggiuntivo. L’altezza della struttura consente inoltre ai canoisti di remare sotto il corpo dell’hotel.
Svart sarà il primo hotel a energia positiva al mondo, situato ai piedi del ghiacciaio Svartisen che attraversa il comune di Meløy, in Norvegia a nord del Circolo Polare Artico. L’hotel, progettato dallo studio di architettura norvegese Snøhetta, avrà circa 100 camere, un laboratorio di formazione e design e una fattoria sostenibile che produrrà ingredienti per i quattro ristoranti dell’hotel. Svart sarà aperto agli ospiti durante la notte, ai visitatori giornalieri e alla comunità locale. Il corpo circolare di Svart si estende dalla costa ai piedi della montagna Almlifjellet e nelle acque limpide del fiordo Holandsfjorden. La forma offre una vista panoramica sul fiordo e un’esperienza di vita a contatto con la natura. La costruzione in un ambiente così prezioso comporta alcuni chiari obblighi in termini di conservazione delle bellezze naturali, della fauna e della flora del sito. Svart è il primo edificio progettato secondo i più alti standard di efficienza energetica nell’emisfero settentrionale. L’hotel risparmierà l’85% del consumo energetico annuale rispetto a un Hotel moderno e raccoglierà energia solare sufficiente per coprire sia le operazioni dell’hotel, incluso il servizio di navetta in barca, sia l’energia necessaria per costruire l’edificio. La costruzione è basata per quanto possibile su materiali locali e soggetta a rigidi criteri di sostenibilità. Per rispettarli, sono state fatte diverse scelte di design all’avanguardia. Ad esempio, gli architetti hanno condotto un’estesa mappatura di come si comporta la radiazione solare in relazione al contesto montuoso durante tutto l’anno, per ottimizzare il raccolto di energia. Il tetto dell’hotel è rivestito con pannelli solari norvegesi prodotti con energia idroelettrica pulita, riducendo ulteriormente l’impronta di carbonio. A causa delle lunghe notti estive di questa zona, la produzione annuale di energia solare sarà significativa. Le facciate proteggono dall’insolazione dal sole in estate quando è alto nel cielo, eliminando la necessità di un raffreddamento artificiale. Durante i mesi invernali, quando il sole è basso nel cielo, le ampie finestre della facciata consentono il massimo dell’irraggiamento solare per sfruttare la naturale energia termica del sole. La costruzione si ispira all’architettura vernacolare locale nella forma del fiskehjell, una struttura in legno a forma di “A” per essiccare il pesce, e della rorbue, un tipo tradizionale di casa stagionale usata dai pescatori. Il riferimento alla rorbue si traduce nella struttura portante dell’hotel sorretta da pali di legno resistenti agli agenti atmosferici. I pali assicurano che l’edificio collochi fisicamente un ingombro minimo nella natura incontaminata, formano anche una passerella su cui si può passeggiare. Il piano prevede che Svart sia indipendente entro cinque anni dall’attività. Ciò significa che l’hotel, compresi i servizi adiacenti, sarà completamente autosufficiente dal punto di vista elettrico e di gestione dei rifiuti.
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Children Surgical’s Hospital Entebbe, Uganda, 2017 Project: Renzo Piano
Sorto su un terreno di 120 mila metri quadri messo a disposizione dal governo ugandese, prossimo alle rive del lago Vittoria, a circa 35 chilometri dalla capitale Kampala, è una moderna struttura ospedaliera di circa 10 mila metri quadri. I padri di questo edificio sono lo studio Renzo Piano Building Workshop, uno dei più noti architetti italiani, e lo studio TAMassociati, la cui esperienza nel settore della cooperazione è ampiamente consolidata. L’edificio è composto da quattro padiglioni: due corpi di fabbrica principali affiancati, disposti longitudinalmente sull’asse est-ovest, chiusi sul lato est da un terzo volume trasversale a formare una corte alberata, punto focale della prospettiva sull’edificio. Un quarto elemento, più piccolo e staccato sul lato sud, ospita l’area accoglienza e controllo accessi. All’interno dell’ospedale trovano spazio 72 posti letto, tre sale operatorie, il reparto di terapia intensiva, laboratori di diagnostica e tutti i servizi accessori come farmacia, mensa e lavanderia. Sono inoltre disponibili 42 posti letto per i famigliari accompagnatori, considerando che il bacino di utenza sarà quanto più ampio possibile. I volumi si adagiano sul lotto di intervento seguendo l’andamento naturale del terreno. I due piani di ogni edificio si trovano così a volte fuori terra, a volte seminterrati. Il terreno di scavo è stato utilizzato per formare le murature perimetrali, portanti, in terra battuta all’interno di casseri detti pisé. Una soluzione che caratterizza fortemente tutto l’intervento. L’utilizzo di una tecnica tradizionale, economica e che permette una gestione ottimizzata degli scavi è affiancato a elementi dall’aspetto più marcatamente tecnologico: un’esile pensilina di acciaio protegge gli edifici dai raggi solari ed è allo stesso tempo supporto per circa 2.600 pannelli solari, i serramenti sono ad alte prestazioni e dotati di sistemi integrati di schermatura dai raggi. A caratterizzare l’ospedale il rapporto con la natura, con verde e alberi a circondare l’edificio, a rappresentare simbologicamente una “metafora del processo di guarigione”. Il centro è stato realizzato con il supporto di maestranze locali e ospita, oltre alle funzioni di cura, anche un centro di alta formazione per personale medico e sanitario. Si è spesso assistito in anni recenti a operazioni di cooperazione guidate da un certo amore naïf per il vernacolare che a volte, senza dubitare della buona fede, ha ritenuto accettabili dei compromessi tecnologici nei contesti cosiddetti informali. La Ong, nel 2008, ha riunito i ministri della Sanità di nove Paesi africani per discutere come garantire ai cittadini africani il diritto a una medicina gratuita. Da quell’incontro è nato il Manifesto per una medicina basata sui diritti umani e sulla base di questi principi nel 2010 è nata l’ANME che ha l’obiettivo di costruire centri medici di eccellenza per rafforzare i sistemi sanitari. L’ospedale in Uganda ha aderito subito al progetto dell’ANME e ha messo a disposizione il terreno su cui costruire l’ospedale e un finanziamento per coprire il 20 per cento dei costi di costruzione.
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In alto la visione aerea dell’incompleto progetto di Renzo Piano. In basso foto a dettaglio in cui è presnte il tetto che isola termicamente la struttura.
Biofilia fautrice del benessere sociale nell’utopia contemporanea
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L’umana armonia Sognando l’impossibile
Utopia è un buon luogo, ma allo stesso tempo un non-luogo, etimologicamente. L’ambiguità del termine ci porta quindi a pensare che l’utopia sia qualcosa da raggiungere, da ricercare oltre la linea d’orizzonte. In una società dove principi, i ruoli e ritmi quotidiani sono scanditi dal ticchettio soffocante del mondo consumista, immaginare di poter vivere diversamente è un pensiero ricorrente. La colpa del nostro malessere viene quindi affibbiata principalmente ad una società opprimente, e la soluzione consiste nel prendervi le distanze. Coincide quindi con utopia ciò che prevede l’allontanamento dalla macchina del mondo del mercato, al fine di ritrovare sé stessi ed il proprio posto, combattendo l’alienazione e ricostituendo il proprio pacchetto di principi e ideali sani, per avvicinarsi alla natura e ricostituire un nuovo microcosmo sociale. Si tratta quindi di utopia, a tutti gli effetti. Ed esistono esempi concreti che provano ciò sia possibile. Vi sono infatti situazioni diverse, nelle quali gruppi di persone hanno deciso di allontanarsi dalle città, al fine di poter vivere rispondendo al proprio concetto di utopia, unendosi sotto
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Paper Ritual 1, Sea Ranch, 1968. Scatto di Paul Ryan, Archival Pigment Print. Tra il 1966 e il 1968 il fotografo Paul Ryan ha documentato gli workshop sperimentali creati da Anna Halprin, pioniera della danza, e l’artista e architetto paesaggistico Lawrence Halprin. L’evento ha avvicinato diverse personalità, tra cui ballerini, artisti, architetti, designer e urbanisti.
Architettura dell’utopia
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gli stessi ideali e costruendoci la propria casa. Emblematica in questo senso è la comunità del Monte Verità, nata lo scorso secolo sopra Ascona, nel Canton Ticino. Dal 1900 il monte era infatti diventato polo d’attrazione per chi cercasse una vita “alternativa”, per poi trasformarsi nella casa di molteplici personalità, artisti, scrittori, poeti. Vestiti con gli indumenti “della riforma” si costruiscono spartane capanne sul monte Monescia, che poi ribattezzeranno Monte Verità, passando le giornate tra bagni di sole e prendendosi cura di campi e giardini. Gli abitanti del monte adoravano la natura, interpretandola come opera d’arte ultima, oltre a consumare unicamente cibi vegetali. L’organizzazione sociale della comunità si basava su un sistema cooperativo e attraverso il quale si impegnavano ad ottenere l’emancipazione della donna, l’autocritica, nuovi modi di coltivare la mente e lo spirito e l’unità di corpo e anima, può essere definita come una comunità cristiano-comunista. L’ideologia dei primi insediatori richiedeva delle spartane abitazioni in legno a richiamare la struttura di uno chalet con molta luce, aria e scarse comodità. Poco dopo cominceranno a comparire diversi edifici fino ad arrivare alla costruzione di un hotel Bauhaus in stile razionalista. Non si tratta però dell’unico caso nel quale degli ideali utopici hanno portato delle persone a distaccarsi dalla società per poter vivere al loro modo; è il caso di una realtà meno numerosa, ma al tempo stesso di significativo impatto, la coppia di artisti canadesi che hanno fatto di un’isola da loro progettata la propria dimora, chiamata Freedom Cove. Si tratta di una vera e propria oasi volta alla sostenibilità, 12 piattaforme di totale autosufficienza, collegate l’una all’altra attraverso percorsi galleggianti. Freedom Cove è il raggiunto orizzonte utopico, l’opera d’arte totale di una piccola, ma immensa realtà.
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Inside Utopia
In alto, a sinistra: Danza liberatoria all’aria aperta, 1900 ca. Il senso di comunità con la natura è uno dei tratti che accomunano tutti i gruppi di persone che si uniscono per poter vivere secondo uno stile utopico. In basso, a sinistra: In foto una famiglia residente presso il Monte Verità, una scena di vita bucolica, a stretto contatto con la natura. A destra: Spaccato di vita quotidiana a Drop City, Colorado. Il marcato e colorato contrasto che le cupole geodetiche instaurano con l’ambiente desertico ne è l’emento iconico.
Un altro esempio è l’agglomerato di Sea Ranch, edificato lungo le spiagge della costa californiana. Il concept del complesso non consiste nel creare un luogo bello all’occhio, ma un ambiente unico dove abitare; unico nella sua visione, e nell’intento di creare una comunità finalizzata alla cooperazione, al benessere comune, all’intenzione di preservare e prendersi cura dell’ambiente. Un’altra situazione è quella di MeMo House, abitazione progettata dallo studio BAM!, in Argentina, una casa creata su misura della cliente, un’appassionata di architettura con una particolare sensibilità per la questione ambientale. L’intera abitazione risulta autosufficiente e sostenibile, e tutte le soluzioni progettuali studiate dai progettisti sono finalizzate nel sostenere la volontà della proprietaria nel mantenere uno stile di vita che tuteli non solo la propria salute e l’ambiente, ma anche le generazioni future, creando “un precedente” che faccia sentire quest’utopia più come un sogno realizzabile. Esistono quindi piccole ed ampie realtà utopiche, suggestivi microcosmi ed elaborati progetti; ma in tutte queste situazioni troviamo una comune matrice: dare priorità al prendersi cura di ciò che ci è stato affidato, che si tratti di noi stessi, del prossimo, o dello spazio che occupiamo, rendendo prioritari sentimenti di rispetto e cooperazione.
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Architettura, ambiente e idealismo Sea Ranch
Cento miglia a nord di San Francisco, arroccato sul bordo di 10 miglia di costa della California aspra e battuta dal vento, è una pietra di paragone della storia architettonica del XX secolo: il Sea Ranch. Concepito nel 1964 dallo sviluppatore Al Boeke e da un gruppo di architetti della Bay Area, paesaggisti e grafici tra cui Charles Moore, Joseph Esherick, William Turnbull, Lawrence Halprin e Barbara Stauffacher Solomon, questo sviluppo è stato fondato come l’antitesi dello sprawl suburbano. Con l’ottimismo e la mentalità aperta della California degli anni ‘60 come punto di partenza, Sea Ranch è stato intelligentemente progettato come una moderna comunità modello che combina una vita a prezzi accessibili con un’architettura esemplare e un impegno condiviso a vivere con leggerezza sulla terra. Negli anni successivi alla seconda guerra mondiale, diversi imprenditori della California ebbero un’idea diversa. Hanno cercato di rompere questo schema attraverso progetti finanziariamente sostenibili che collegavano valori progressisti con l’architettura moderna. Uno sviluppatore, Alfred Boeke, ha acquisito un lotto di 10 miglia per un miglio di proprietà costiera della California diviso in due da un’autostrada a due corsie. Situato su una costa scoscesa sopra l’Oceano Pacifico, il sito era costituito da una serie di prati delimitati da filari di cipressi Monterey e, al di là dell’autostrada, una fitta foresta sostenuta dal fiume Gualala. Un tempo dimora degli indigeni Pomo, taglialegna e un allevamento di pecore, ora è stato il sito per un esperimento radicale di architettura moderna. La visione di Boeke era quella di creare un piano di sviluppo in due fasi, offrendo prima case a prezzi accessibili per i fine settimana per stabilire la stabilità finanziaria del progetto e poi, nella fase due, creare una piccola città con servizi per i residen186
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In alto: Marker Building, The Sea Ranch, 1965, Lawrence Halprin Collection. La progettazione di Marker Building è attribuita all’architetto Joseph Esherick, mentre il logo riportato sulla facciata dell’edificio è opera della graphic designer Barbara Stauffacher Solomon. A destra: Paper Ritual 2, Paul Ryan, Sea Ranch, 1968, Archival Pigment Print. In foto la comunità progressista di Sea Ranch, in sintonia con la natura, ma anche ispirata da essa.
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ti a tempo pieno. Boeke ha arruolato l’architetto paesaggista Lawrence Halprin e esperti di terra, vento e acqua per studiare il terreno accidentato prima di creare un masterplan. Laddove Boeke vedeva un’opportunità finanziaria, Halprin vedeva qualcos’altro: possibilità sociali e ambientali. Halprin, che aveva sperimentato lo scopo comune della vita in comune mentre era in un kibbutz in Israele, ha incorporato quei valori nel progetto, così come i suoi insegnamenti dal campeggio sul sito del Sea Ranch. Il suo piano generale dava la priorità a vaste aree di prato condiviso e specificava che il 50 percento della terra del Sea Ranch doveva essere accantonato come spazio aperto comune. Le idee includevano la cattura dell’acqua dal fiume Gualala nei pozzi per sostenere la comunità, mitigando il vento oceanico a livello di burrasca attraverso la piantumazione ponderata degli alberi e diradando la foresta incombente per portare la luce del sole. L'idea concettuale di Halprin riguardo il Sea Ranch consisteva nel dare una sensazione di posizione generale, di comunità, in cui l'insieme fosse più importante e più dominante delle singole parti che lo componevano. Riuscendo a collegare edifici e natura in un insieme organizzato piuttosto che solo in un gruppo di case graziose, si può avere la certezza di aver creato qualcosa di utile che non abbia distrutto, ma migliorato la bellezza circostante. Lawrence Halprin e la moglie Anna, celebre ballerina, furono anche tra gli ideatori di workshop, happening, performance e percorsi sensoriali, tenuti all'interno del contesto del Sea Ranch, al fine di enfatizzare la creatività, l'arte e l'ar188
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In alto, a sinistra: Disegno a matita realizzato da Lawrence Halprin, nel 1963 ca. raffigurante la vista panoramica del progetto Sea Ranch. In alto, a destra: Vista di uno degli edifici del villaggio di Sea Ranch, Condominium One, edificato tra il 1963 e il 1965. L’edificio è la prima unità progettata del villaggio californiano, disegnato da Charles W. Moore, Donlyn Lyndon, William Turnbull Jr. e Richard Whitaker. In basso: Driftwood Village 2 , Sea Ranch, 1968. Scatto di Paul Ryan, Archival Pigment Print. Si tratta di uno degli workshop organizzati all’interno della comunità, su idea di Lawrence e Anna Halprin, al fine di promuovere la creativita collettiva.
monia tra l'essere umano e la natura. Queste esperienze rappresentavano un momento di aggregazione non solo per gli abitanti della comunità, ma anche ad un pubblico esterno. Richard Whitaker è stato incaricato di progettare condomini e un centro ricreativo. Comprendendo che il marketing della comunità sarebbe stato la chiave del successo del progetto, Halprin arruolò la graphic designer Barbara Stauffacher Solomon per creare il marchio distintivo del progetto e l’identità grafica, nonché la supergrafia degli interni negli edifici comuni. Il Sea Ranch ha segnato una nuova era nella costruzione che ha tentato di mantenere gli impulsi controculturali e gli imperativi finanziari guidati dagli sviluppatori in un equilibrio comprensivo. La fase iniziale dello sviluppo del Sea Ranch è stata così trasformativa da innescare un’ondata di ispirazione nella forma e nella tipologia, irradiandosi ben oltre la California settentrionale. Ha messo in atto un sistema per l’occupazione sensibile di un paesaggio prezioso che ha riconosciuto il passato operando da una prospettiva decisamente moderna. La proposta del Sea Ranch metteva in primo piano la gestione del territorio, un sistema condiviso di valori e regole di progettazione e l’uso di forme e materiali ispirati al vernacolo della California settentrionale. Utilizzando il linguaggio visivo dei fienili, dei capannoni e di altri edifici agricoli della regione come ispirazione, le sei Hedgerow Houses di Joseph Esherick hanno dimostrato come la progettazione con un impatto minimo sull’ambiente possa anche essere contemporanea, spaziosa L’umana armonia / Sognando l’impossibile
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e bella. I suoi progetti hanno ridotto il disordine visivo per evitare di catturare il vento sempre presente ei loro tetti spioventi imitavano i vicini cipressi. La chiave delle decisioni progettuali per tutto il Sea Ranch è stato il mandato di mantenere le strutture non verniciate e rivestite con legno originario del progetto per consentire loro di integrarsi nell’ambiente. Un comitato di revisione del design ha codificato un linguaggio di progettazione e creato processi per garantire la conformità tra i progetti realizzati e limitare le distrazioni visive come aiuole, auto parcheggiate e superfici riflettenti. Per quanto impattanti fossero l’architettura e il design del paesaggio del Sea Ranch, lo era anche l'identità visiva. A tal proposito Halprin assunse Barbara Stauffacher Solomon per creare un logo, materiali di marketing e i murales interni distintivi negli spazi comuni dello sviluppo, incorporando motivi che si rifacevano alla storia del sito come un allevamento di pecore, Stauffacher ha creato un sistema grafico che era identificabile con questo progetto. Il Sea Ranch è stato inaugurato nel 1964 con un condominio di nove unità completato, una serie di piccole case dimostrative, un ristorante e un emporio, una piccola piscina e un centro ricreativo per il tennis. Nel suo primo decennio, sembrava che i proprietari che credevano nel concetto originale avessero realizzato e sostenuto la visione del Sea Ranch. Eppure, all’inizio degli anni ‘70, sorsero polemiche quando i residenti dell’entro-
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terra, temendo che lo sviluppo costiero limitasse l’accesso del pubblico, intentarono una causa con conseguente moratoria edilizia di 10 anni al Sea Ranch. Questa sospensione ha spostato le priorità degli sviluppatori, che avevano bisogno di recuperare le perdite finanziarie subite in oltre un decennio di inattività. La seconda fase del Sea Ranch, la città per residenti tutto l’anno, non è mai stata costruita e lo sviluppo è stato invece ricalibrato per continuare a concentrarsi sui fine settimana. Eppure lo spirito dei fondatori continua a vivere: gli attuali proprietari del Sea Ranch stanno discutendo attivamente del suo futuro come collettivo. Le filosofie di progettazione attente all’ambiente insieme alla grafica ormai iconica hanno risuonato a livello globale e influenzano ancora oggi l’architettura e il design. Oltre 50 anni dopo, Sea Ranch continua a essere un modello per la vita progressista del 21 ° secolo, dimostrando che uno stile di vita sostenibile e una buona estetica possano convivere.
A sinistra, in alto: In foto Lawrence Halprin durante l’Experiments in Environment Workshop, 9 luglio, 1968. L’obiettivo degli workshop organizzati nel villagio consisteva nel sollecitare nella comunità la capacità di suscitare emozioni, sensazioni e reazioni servendosi degli spazi o dell’arte da loro creata. A sinistra, in basso: Vista della Halprin Cabin, residenza di Lawrence e Anna Halprin, Sea Ranch, 1966. A destra: Spazio spirituale e ambiente interno di un’abitazione progettata da Charles Moore, uno degli architetti fondatori della comunità, Sea Ranch. Scatto presente nella rivista Architectural Digest, giugno 1988.
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Controcultura e architettura Drop City
A sinistra: Dei Droppers, abitanti di Drop City, ritratti in una scena di vita quotidiana mentre si arrampicano sulla struttura di Theater Dome, la cupola-teatro, 1967. In alto: In primo piano The Ultimate Painting, opera realizzata dal collettivo dei Drop Artists, pittura acrilica su pannello, 152 x 152 cm, 1966. Sullo sfondo una delle cupole geodetiche che formano il paesaggio di Drop City.
Il 3 maggio 1965, un artista di nome Clark Richert, per la cifra di 450 $, divenne proprietario in parte di un pascolo di capre di sei acri nella contea di Las Animas, a poche miglia a nord est di Trinidad, Colorado. La comunità che sperava di costruire, insieme a Gene e JoAnn Bernofsky e Richard Kallweit, sarebbe stata un luogo in cui i creativi avrebbero potuto condividere pasti e idee, dove tutti avevano voce in capitolo e nessuno gestiva lo spettacolo, una specie di colonia di artisti senza proprietari o problemi. L’unica regola che si ponevano era che non ci fossero capi. Nel corso dei cinque anni successivi, Drop City si trasformò in qualcosa che nessun capo poteva controllare. Salutata come la prima comune rurale hippie, ha attirato orde di cercatori di coscienza e ha innescato la creazione di una serie di altre comuni, per lo più di breve durata, nel sud-ovest. Il suo caratteristico gruppo di case a cupola, ispirato al lavoro di Buckminster Fuller e che faceva uso di materiali recuperati dalle discariche, vinse premi di design; le persone irsute all’interno delle cupole divennero oggetto di intensa attenzione da parte delle piazze dei media tradizionali, che presumevano erroneamente che il nome del luogo fosse un riferimento all’abbandono o all’uso dell’Lsd. Al suo apice, Drop City era una tappa obbligata per sociologi, registi, musicisti, pellegrini, guru presunti e chiunque altro cercasse di scandagliare o sfruttare la controcultura degli anni ‘60. Uno dei membri principali della comune, il poeta Peter Rabbit, scrisse un libro di memorie che contribuì a cementare la reputazione crescente di Drop City come una voragine di droga, amore libero e stranezza generale. Ancora studente d’arte all’Università del Kansas, Richert sosteneva che le origini e le intenzioni della comunità fossero state molto fraintese. Quando Gene Bernofsky, uno studente di L’umana armonia / Sognando l’impossibile
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psicologia con una predisposizione artistica, si trasferì nel loft di Richert a Lawrence, i due iniziarono a sviluppare quella che chiamavano drop art, una tecnica rappresentativa che consisteva nel far cadere delle rocce dipinte dal tetto della loro abitazione. La drop art, applicata alle diverse situazioni porterà al concepimento della comunità artistica di Drop City. Richert ha continuato a perseguire un percorso di laurea presso l’Università del Colorado. Gene e JoAnn Bernofsky si trasferirono in Africa, alla ricerca di possibili luoghi per una nuova civiltà. Alla fine, però, il gruppo si riunì per poi stabilirsi nei pressi del pascolo di capre vicino a Trinidad. Drop City alla fine avrebbe caratterizzato una varietà di design della cupola, incluso un grande edificio, composto da tre cupole intersecanti, che fungeva da area comune e conteneva l’unico impianto idraulico, inclusi due bagni e un box doccia. La produzione delle cupole costava poco; la maggior parte dei materiali erano “presi in prestito”, donati o di recupero. Presto si sparse la voce su un raduno di Droppers nel Colorado meridionale dove si poteva vivere praticamente gratis, coltivando il proprio cibo o setacciando le discariche per trovare materiali utili di cui l’America centrale si stava sbarazzando. Peter Rabbit organizzò numerose visite a scuole e campus, dove i membri mostravano film da loro realizzati e un dipinto rotante con luci stroboscopiche creato da Richert e altri. Rabbit all’inizio del 1967 organizzò anche un festival, il Joy Fest, intriso di droghe, rock & roll e dropper art. La comunità ebbe il compito di ospitare chiunque volesse abitarci, ascoltare musica, imparare la filosofia o discutere di arte. La principale fonte di reddito A sinistra: La vita in un ambiente apparentemente inospitale come il deserto risulta invece funzionale nel caso di Drop City, nella quale si trasferiranno anche delle giovani famiglie. A destra, in alto: Cupola geodetica in fase di costruzione, alla quale collaborano più Droppers. A destra, in basso: Interno di una delle cupole del complesso. Anche i mobili utilizzati per arredare le abitazioni saranno recuperati, o costruiti dagli abitanti, riciclando materiali altrimenti inutilizzati.
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era davvero l’arte: durante il corso dei primi tre anni, Drop City era principalmente frequentata da artisti, registi e scrittori in cerca di ispirazione, come Bob Dylan, Timothy Learly, Billy Hitchcock, Richard Alpert, Jim Morrison e Peter Fonda. I resoconti dei media su Drop City tendevano a soffermarsi sullo stile di vita hippie dei suoi occupanti piuttosto che sulla sua missione artistica. L’Lsd veniva occasionalmente assunta, ma Richert sostiene che i resoconti del sesso selvaggio e dell’uso copioso di droghe, compresi quelli trovati nel libro di Rabbit, erano notevolmente esagerati. Richert se ne andò nel 1968, dopo che un medico gli disse che sua moglie incinta aveva bisogno di più proteine di quelle che la dieta di Drop City, ricca di riso e fagioli, poteva fornire. All’epoca pensava che un giorno sarebbe tornato indietro, ma non lo fece mai. I Bernofsky erano partiti prima. Rabbit rimase in giro per un altro paio d’anni. All’inizio degli anni ‘70, ciò che restava della comunità si deteriorò rapidamente. I proprietari titolari della proprietà, un gruppo di artisti senza scopo di lucro che includeva Richert, scoprirono di non poterlo gestire da lontano e finirono per prendere la decisione di vendere la proprietà a un vicino, che la trasformò in un centro di riparazione per camion. I Droppers sono stati i pionieri delle opere d’arte che incorporano idee sulla geometria frattale e la simmetria quintupla, e affermano persino di aver pubblicato il primo fumetto underground. Si potrebbe sostenere un caso più ampio che l’esperienza, nella misura in cui è stata l’espressione di una controcultura che desidera liberarsi dei vincoli del consumismo americano e tornare alla terra, ha contribuito a spianare la strada per il The Earth Day e il movimento del riciclaggio, Occupy Wall Street e persino per l’attuale ricerca di Richert di creare un’impresa di co-housing per artisti nell’area di Denver, un luogo in cui gli artisti avrebbero le proprie residenze private ma condividono aree comuni, proprio come la visione originale di Drop City. Molte persone definirono Drop City un esperimento, ma citando lo stesso Richert, «L'arte è sperimentale».
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Un’isola su misura Freedom Cove
A sinistra: La coppia di artisti Catherine King e Wayne Adams fotografati sull’uscio della loro abitazione a Freedom Cove, l’isola da loro realizzata. In alto: In foto uno degli edifici emblematici del complesso di Freedom Cove.
Nel 1992 la coppia di artisti canadesi Catherine King e Wayne Adams decidono di abbondare l’agglomerato urbano, per dedicare anima e corpo nel creare una realtà alternativa ad inseguire uno stile di vita sostenibile al cento per cento. Per coronare il proprio progetto, si trasferiscono sulla costa dell’Isola di Vancouver, vicino a Tofio, nella Columbia Britannica: lì, a 45 minuti dalla città più vicina, danno vita, nel corso di 28 anni, al loro personalissimo rifugio, il Freedom Cove, nato come una semplice casa galleggiante costruita con materiali di recupero, è divenuto con il tempo un’autentica isola circondata da un panorama spettacolare. Per accedervi è necessario usare imbarcazioni. Questo angolo di terra vive con i propri mezzi, senza dipendere in alcun modo dal centro urbano. È un isolotto totalmente autosufficiente, alimentato all’inizio da pannelli solari e recentemente dotato di un generatore elettrico per affrontare eventuali emergenze. Nessun giorno è tipico a Freedom Cove. Devono essere svolte alcune faccende regolari: dare da mangiare ai cani, pulire la casa, fare il bucato, occuparsi dell’orto. Le faccende domestiche cambiano in base alla stagione ma in genere includono il giardinaggio, il taglio della legna, la raccolta di alghe per il compost e la semina di erbe e semi di ortaggi. Il cibo per rispettare l’indipendenza assoluta del villaggio, è autoprodotto al suo interno. Sono state create delle serre, ben cinque, dove si piantano i beni di prima necessità. Solo alimenti naturali e vegetali che si affiancano alla pesca, che viene effettuata nel lago. Per dissetarsi e per irrigare le proprie coltivazioni, utilizzano d’estate l’acqua di una cascata nelle immediate vicinanze e d’inverno quella proveniente dalle precipitazioni invernali. I due coniugi, che provengono l’una dal mondo dello spettacolo e l’altro dell’arte, hanno da sempre avuto il desiderio di creare una L’umana armonia / Sognando l’impossibile
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realtà ecosostenibile e Freedom Cove è il frutto di tanti sacrifici e tanto lavoro, dotato anche delle attrazioni e luoghi di svago. Esistono, dunque, una pista da ballo, voluta espressamente da Catherine King per allenarsi ogni volta lo desidera, casetta per gli ospiti, una galleria d’arte, per alimentare la passione di Wayne Adams, un faro e anche uno studio. A Catherine piace alzarsi la mattina e praticare lo yoga o la danza. Adams invece è un artista, in particolare uno scultore professionista, si occupa di riparare ciò che deve essere riparato o modificato. Lui stesso dichiara aver sempre voluto essere un intagliatore e di essere ispirato dalle forme organiche. Tutti i materiali utilizzati per le sculture provengono dalla natura. Vivere a Freedom Cove gli permette di essere ispirato dalla propria casa, oltre da quello che lo circonda. La coppia ha usato il mondo naturale come ispirazione per le loro opere d’arte. Appena si sono incontrati hanno immediatamente realizzato il loro amore condiviso per la vita all’aria aperta e hanno iniziato cosi a progettare la loro casa dei sogni in natura. “La nostra intera isola galleggiante è un’installazione artistica che si trasforma in qualche modo ogni anno, spesso modificata dai danni causati dalle tempeste invernali”, ha detto Adams, che ha incorporato oltre 240.000 pezzi di materiali ri198
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ciclati e trovati vicino a Freedom Cove in 28 anni. Adams ha costruito l’intera struttura galleggiante per resistere ai venti della forza degli uragani. Il sistema è legato alla riva con grandi funi che consentono a tutta l’isola di muoversi come una sola durante il tempo tumultuoso. Vivere con la natura significa rimanere in balia degli elementi, quindi c’è sempre qualche forma di danno da tempesta a Freedom Cove, ma per Adams risolvere questi problemi è come una parte normale del loro stile di vita. Grazie alla vita che hanno costruito a Freedom Cove, la coppia ha il profondo legame con la natura che avevano sempre sognato. Si vive di piccoli piaceri e con uno stile alimentare piuttosto sano che permette di appoggiare anche un progetto ecosostenibile di grande impatto ambientale. La scelta di creare questa realtà alternativa, coraggiosa e affascinante, e di vivere totalmente fuori non solo dalle città, ma dall’intero sistema (gli americani chiamano questo stile di vita off-grid) ha finito, nel caso di Catherine e Wayne, per trasformarsi nella loro opera d’arte totale, un esempio – dapprima solo sognato e poi realizzato – di coincidenza tra arte e vita. Nelle comunità di tutto il mondo, le persone si riconnettono con il loro ambiente naturale, cercando modi per vivere più sostenibili. Quando si è sparsa la voce su Freedom Cove, le persone sono diventate sempre più interessate alla proprietà per la sua originalità e sostenibilità. Adams e King si divertono a condividere le loro creazioni con il mondo, aprendo la propria isola a turisti, per visite occasionali nel periodo estivo ed autunnale, da giugno ad ottobre, su appuntamento. A sinistra: Visione aerea dell’isola di Freedom Cove nella baia di Cypress, Canada, scattata dal fotografo Carlo Bevilacqua per un progetto protrattosi fino al 2018 Utopie, eremiti e altre storie. A destra, in alto: La foto scattata da Carlo Bevilacqua ritrae Catherine King in canoa, in prossimità dell’isola, raggiungibile solamente tramite l’utilizzo di imbarcazioni. A destra, in basso: Foto scattata da Hannah Cecilie Holmø Bojesen, 2018. Nell’immagine sono immortalati i due coniugi impegnati nel mantenimento e nella cura dell’isola da loro costruita.
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Un microcosmo utopico MeMo House
In alto: MeMo House ritratta all’imbrunire dal giardino della proprietà. In foto sono evidenti le ampie vetrate della zona giorno, che comunicano direttamente con l’ambiente esterno. A sinistra: Vista della facciata della casa che si può vedere osservandola dal giardino. Il tetto è anch’esso fruibile, sfruttato per la coltivazione di piante autoctone.
MeMo House è un’abitazione costruita a San Isidro, a nord della provincia di Buenos Aires, in Argentina. Si tratta dell’unione tra la passione per gli spazi esterni della cliente e la sua convinzione nei riguardi della sostenibilità e dell’ambiente. Il compromesso consiste nello sviluppare un progetto sito in un plot between infill buildings riducendo allo stesso tempo al massimo la possibile perdita di spazi verdi durante l’edificazione della casa. La pianta dell’abitazione è convertita in un giardino tridimensionale che connette tra di loro ognuno dei piani architettonici. Il progetto morfologico è nato come risultato del duplice obiettivo di non sprecare metri quadri di terreno coltivabile e dall’idea di poter far sì che la luce entrasse in un patio, siccome si tratta di un terreno sito nel mezzo di un agglomerato di edifici. La sostenibilità del progetto viene in questo caso considerata come un percorso, basato sugli standard LEED ad i quali sono stati incorporati i concetti di durabilità ed economia, soddisfacendo così i desideri della committenza, creando allo stesso tempo un esempio di abitazione sostenibile e piacevole all’occhio, un caso in grado di recare beneficio sia alla generazione presente, che alle generazioni future. Lo stile di vita sostenibile del fruitore non si limita solo alla vita tra le quattro mura della casa, protraendosi anche negli spostamenti, avvantaggiati dalla posizione del lotto nel quale la casa si trova, un punto strategico, dal quale è possibile spostarsi comodamente in bicicletta o a piedi per svolgere la maggior parte delle sue attività. Inoltre, i fruitori possono anche usufruire della vegetazione autoctona che si trova nei propri giardini, ripristinando così il paesaggio naturale e ridurre gli effluenti dell’acqua piovana. Il consumo d’acqua viene ridotto anche utilizzando l’acqua piovana per l’irrigazione della vegetazione dei giardini. L’umana armonia / Sognando l’impossibile
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Produrre il minor impatto ambientale è l’obiettivo principale, un uso efficiente dell’acqua sarà quindi di fondamentale importanza nel risolvere una richiesta così importante. È infatti stata studiata un’efficiente tecnologia delle acque reflue, ed il consumo d’acqua viene ridotto anche utilizzando l’acqua piovana per l’irrigazione della vegetazione. Per quanto riguarda l’efficienza energetica, l’abitazione dispone di pannelli solari non solo per la fornitura di energia elettrica ma anche per il riscaldamento, la ventilazione e il condizionamento. La casa inoltre è munita di finestre con vetri tipo DVH, che aumentano l’isolamento termico. Entrambe queste misure consentono di ridurre il consumo di energia. Al fine di fornire un ambiente interno ideale, il progetto si basa sull’avere la stessa quantità di luce naturale in tutte le aree della casa, ventilazione trasversale e controllata e viste aperte costanti sul giardino, che fornisce un miglior comfort termico. I progettisti dell’edificio inoltre hanno 202
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A sinistra: Vista dell’abitazione ripresa dall’alto. In foto è evidente l’intento dei progettisti nello sfruttare il più possibile lo spazio a disposizione, cercando di minimizzare lo spreco di terreno coltivabile, utilizzando per quanto possibile le altezze a disposizione. A destra, in alto: Vista della camera da letto, affacciata sul giardino, direttamente accessibile sia dalla zona notte che dalla zona giorno. A destra, in basso: In foto le scale che conducono alla zona notte, illuminate dalle ampie vetrate affacciate sul giardino.
fatto la decisione di lavorare con materiali provenienti dall’area circostante, oltre a cercare di generare la minor quantità possibile di rifiuti riutilizzando tutti i pezzi avanzati. Insieme all’abitazione sono anche stati progettati i sistemi perla raccolta e la separazione dei rifiuti riciclabili e la creazione di compost in giardino per tutti i rifiuti biodegradabili. I punti focali del progetto sono quindi i concetti di durabilità ed economia dei materiali, cercando di garantire i requisiti minimi di manutenzione. Il risultato è un progetto innovativo con una qualità spaziale ottimale, che richiede il minimo utilizzo di risorse e ha impatti benefici sull’ambiente e sulla salute dei suoi abitanti. I limiti imposti dalla committenza si sono rivelati come una grande sfida durante la progettazione, anche perché la casa è costruita per una donna che vive da sola, ma ha anche bisogno di spazio per ricevere clienti e amici e per ospitare temporaneamente i figli. Ciò ha portato a cercare di creare uno spazio flessibile che potesse essere funzionale sia per una sola che per molte persone. La progettazione degli esterni è stata costruita sulla base di una triplice sfida: creare un giardino per produrre alimenti vegetali, costruirlo sulla base di premesse sostenibili e dare un contributo considerevole all’ecologia urbana utilizzando specie, costruendo un micro cerotto urbano composto da piante autoctone. È stato effettuato uno studio botanico dettagliato delle specie specifiche di tale eco-regione, al confine con le foreste della pampa e del fiume, che sono state propagate, raccolte e piantate dalla parte principale di questa casa e giardino.
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UN’ECOLOGIA URBANA IN UNA SINGOLA ARCHITETTURA
LE FORME DELL’ARCOLOGIA
È logico che l’impoverimento della nostra anima e quella della società coincide con l’impoverimento dell’ambiente. Una è la causa e il riflesso dell’altra. PAOL O S OL ER I
L’arcologia è la fusione dell’architettura con l’ecologia per una prospettiva urbana completa. In natura, man mano che gli organismi si evolvono, aumentano di complessità e diventano un sistema più compatto. Una città dovrebbe evolversi in modo simile, funzionando come un sistema vivente. Architettura ed ecologia come un processo integrale, è in grado di dimostrare una risposta positiva ai molti problemi della civiltà urbana: crescita della popolazione, inquinamento, esaurimento delle risorse energetiche e naturali, scarsità di cibo e qualità della vita. L’arcologia riconosce la necessità di una radicale riorganizzazione del vasto paesaggio urbano in città dense, integrate e tridimensionali al fine di supportare le attività diversificate che sostengono la cultura umana e l’equilibrio ambientale. Il termine è stato coniato nel 1969 dall’architetto Paolo Soleri, che riteneva che un’arcologia completa avrebbe fornito spazio per una varietà di strutture residenziali, commerciali e agricole riducendo al minimo l’impatto ambientale umano individuale. Queste strutture sono state in gran parte ipotetiche, poiché nessuna arcologia, nemmeno quella immaginata dallo stesso Soleri, è stata ancora costruita. Il concetto è stato reso popolare da vari scrittori di fantascienza. Larry Niven e Jerry Pournelle hanno fornito una descrizione dettagliata di un’arcologia nel loro romanzo del 1981 Oath of Fealty. William Gibson ha introdotto il termine nel suo romanzo cyberpunk del 1984 Neuromancer, in cui ogni società ha la propria città autonoma nota come arcologie. Sono spesso descritti come autonomi o economicamente autosufficienti. Soleri descrive i modi per compattare le strutture urbane in tre dimensioni per combattere l’estensione urbana (sprawl) in
due dimensioni, per risparmiare sui trasporti e in altre infrastrutture che costituiscono la città. Molte città nel mondo hanno proposto progetti aderenti ai principi di design del concetto di arcologia, come Tokyo e Dongtan vicino a Shanghai. La nostra forma urbana-suburbana contemporanea è incline al materialismo, all’individualismo e allo spreco. Con una crescita esponenziale della popolazione, il lavoro da fare è imparare come possiamo cambiare il nostro comportamento in modo significativo e accessibile. L’arcologia suggerisce una riformulazione completa di come esistiamo all’interno dei nostri ambienti: un nuovo paradigma urbano orientato all’evoluzione culturale, alla resilienza frugale e all’equilibrio con la natura. Allo stato attuale, i nostri ambienti sono su misura per l’automobile, come vediamo nella maggior parte delle città americane e altrove, una tecnologia che si sta rivelando più problematica per l’ambiente e per la popolazione. Man mano che le città crescono, i terreni agricoli vengono allontanati dal centro urbano. Di conseguenza, i cittadini sono distaccati da dove e come vengono acquistati i loro pasti. Nella forma urbana dell’Arcologia, i cittadini sono collegati alla produzione di cibo in un modo che conferma la necessità di sistemi agricoli robusti. Anche l’uso efficiente dell’acqua e dell’energia attraverso le serre e altri sistemi innovativi contribuisce all’efficienza complessiva della città. Utilizzando le tecnologie disponibili, come l’architettura di controllo climatico passivo; Sistemi innovativi di trattamento delle acque e delle acque reflue e l’uso di materiali da costruzione di provenienza appropriata, Arcology si impegna per la riduzione del consumo di materiale ed energia e per una migliore qualità della vita. Le forme dell’arcologia
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Paolo Soleri, i primi progetti Paolo Soleri, architetto visionario. Quasi fosse una professione, quella dell’“architetto visionario”. Una definizione, questa, che insistentemente ritorna nei testi sulla figura di Soleri, la sua attività, la sua vita, la sua morte, avvenuta pochi giorni fa nel deserto dell’Arizona, nella sua “Arcosanti”. Visionario e utopico, Paolo Soleri. Perché “utopica” è sembrata al mondo la sua visione della città: organismo coerente, denso, frutto dell’integrazione fra uomo, costruito, natura e tecnologia, “strumento necessario per l’evoluzione del genere umano” (The city in the image of man, PS 1969). Perché uomo e città sono inscindibili nell’arcologia, la sua personale filosofia urbana, compenetrazione di architettura ed ecologia che sta alla base della progettazione e della realizzazione dell’eco-città sperimentale di Arcosanti. Opera in continuo accrescimento, protagonista di quarant’anni di studio e lavoro dell’architetto torinese, che elesse il deserto del sudovest americano come luogo della propria esistenza; ma anDisegni di Paolo Soleri che raffigurano i proggetti di alcune arcologie utopiche.
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Le forme dell’arcologia
che dell’impegno di migliaia di volontari che anno dopo anno, a fasi e fortune alterne, hanno contribuito alla costruzione, alla progettazione e all’accrescimento di un’utopia che mano a mano diventava realtà. MIL’utopia, per lui, non era che un atto di rinuncia, un eludere l’urgenza umana di avanzare e migliorare. Ottimista, più che utopico. Forse estremo nel teorizzare un’evoluzione che escludesse l’automobile nell’economia della città sostenibile, proponendo in alternativa percorsi pedonali, commistione di spazi, filtri sottili fra pubblico e privato, tempi e spazi minimi a separare e congiungere residenza, lavoro, svago, verde. Tutti elementi realizzati ad Arcosanti, questi, anche se in piccola scala. Un minimo necessario e condiviso, una frugalità elegante, efficiente, un sovrapporsi di abitazioni e attività, complessità e miniaturizzazione, reazione allo urban sprawl americano, al dilagare disordinato della periferia. Questo, per Soleri, non era utopia, ma la concretezza del quotidiano che diventava esempio: minimizzazione dell’uso di energia e di materiali, e riduzione di rifiuti e inquinamento, a guidare verso una riforma, non una riformulazione, del modo di pensare l’abitare e la sua progettazione. Una “crescita entro i limiti”, secondo le parole di Soleri, dove i confini sono stabiliti dalla capacità dell’ambiente di contenere le attività umane; i limiti possono dunque essere ampliati solo con l’utilizzo di risorse rinnovabili. In altro modo non può esserci crescita. MIDa quarant’anni, ogni giorno, Paolo Soleri faceva lezione agli studenti, arrivando a mettere nelle loro mani anche gli strumenti del muratore. Era stato a sua volta allievo del grande maestro americano dell’architettura organica Frank Lloyd Wright, con il quale aveva lavorato alla costruzione di Taliesin West subito dopo la laurea al Politecnico di Torino. Con Wright entrò in grave disaccordo a causa delle teorie del maestro sulla Broadacre City, apoteosi della suburbia orizzontale percorsa dall’automobile. Nonostante la rottura, nell’opera di Soleri è evidente la lezione di Wright sull’anelito alla realizzazione e all’idealizzazione in senso propositivo; ed è inoltre proprio dall’esperienza a Taliesin che l’architetto italiano partì alla ricerca di una propria visione. La trovò prima a Cosanti, primo esperimento della sua furia creativa e poi nei pressi di Scottsdale, Arizona, dove si
Paolo Soleri negli anni ‘60 intento a progettare all’interno del suo studio.
stabilì con la moglie Colly nel 1956. Poiché però quel luogo era troppo ridotto per contenere il complesso piano urbano che aveva intenzione di realizzare, fra la fine degli anni Sessanta e i primi anni Settanta acquistò un terreno più vasto dove sarebbe cresciuta Arcosanti. “La vita è lo studio dell’improbabile, non della media statistica”. E così è la città. Fondata sulla convinzione che l’esistenza urbana sia “un costrutto di vita privata e pubblica articolate in modo da poter fornire a ogni abitante l’accesso pieno, sia fisico che economico, ad entrambe”, scrive Soleri nel ’69, Arcosanti rappresenta oggi l’eredità di un’idea quanto mai attuale, sopravvissuta al consumismo anche dopo gli anni Ottanta. Nonostante i piani del progettista prevedessero una popolazione finale di circa 5.000 residenti, la comunità non andò mai oltre i 200 abitanti degli anni Settanta, e registra oggi una sessantina di strenui volontari. Già da un paio d’anni Soleri aveva rinunciato alla carica della Fondazione Cosanti, che gestisce il suo sviluppo e ne sostiene le attività; il nuovo presidente è Jeff Stein, ex preside del Boston Architectural College, che lavorò per l’architetto ad Arcosanti negli anni Settanta e Ottanta. Il progetto di realizzare la città ideale non morirà dunque con il suo ideatore, ma verrà perseguito da chi fin dall’inizio, come lui, ci aveva creduto. MICittà e campagna: un rapporto sempre più complesso al punto da chiedersi se in effetti esiste ancora tra esse un confine. Quale futuro dobbiamo immaginare per le metropoli post pandemia e dunque per le vite della maggior parte di noi? Non diciamo megalopoli, ma i grandi centri urbani potranno continuare a esistere e svilupparsi secondo gli schemi attuali o è necessario un ripensamento? Sono delle grandi scommesse, diciamo pure sfide da cui dipende il benessere di centinaia di milioni di persone in tutto il mondo. Su queste tematiche l’architettura ragiona già molto da tempo e di proposte magnifiche e per lo più fallite per troppa utopia se ne contano diverse. Per dare una forma alla sua idea, anch’essa sinceramente piuttosto utopica, di abitare giusto 50 anni fa l’architetto Paolo Soleri fondava Arcosanti, città tuttora in progress in Arizona. Torinese di nascita e studi, in America Soleri ci era andato subito dopo la laurea, nel 1947, direttamente alla corte di Frank Lloyd Wright. Ci rimase un paio d’anni, assorbendone le idee per trarne spunti futuri. Negli States sarebbe tornato
definitivamente nel 1956. Scomparso nel 2013, l’anno scorso si è ricordato il centenario della nascita. E nel 2000 aveva ricevuto il Leone d’oro alla Biennale di Architettura di Venezia. Dall’Arizona, il gran torinese Paolo Soleri lancia un sos alla Cina: «È pronta per un leap, un salto che potrebbe in qualche modo scavalcare il materialismo dell’Ovest e dare inizio, possibilmente, a una nuova civiltà. Facendo leva sulla loro tradizione di frugalità». Frugalità, o meglio “lean” (asciutto, agile), è la parola totem della filosofia dell’architetto e il motore dietro Cosanti e Arcosanti, rispettivamente quartier generale e villaggio-laboratorio urbano in quel di Paradise Valley e Mayer, Arizona. MIIniziata nell’agosto 1970, la città di Arcosanti è estremamente interessante per la filosofia che vuole esprimere, le strutture sono infatti poche: anche se nel piano finale dovrebbe ospitare cinquemila residenti fissi, infatti, finora ne sono state costruite solo il 4 per cento. Perché i fondi arrivano, oltre che da timide donazioni di asceti privati, solo dalla vendita delle Soleri wind bells, campane in ceramica e bronzo, caratteristiche per il sottile velo di metallo che gli permette di suonare a forza di vento. Tra i building operativi – ci sono il Colly Soleri Music Center, anfiteatro all’aperto da 500 persone intitolato alla defunta Mrs Soleri, e la Sky Suite da 75 dollari a notte. La visione di Soleri, laureatosi nel 1946 al Politecnico di Torino, si basa su un sistema in cui costruzione e persona interagiscono come organi in un “essere” altamente evoluto. Teoria tradotta in building multiuso, topografica a misura d’uomo con eliminazione del trasporto privato, vicinanza della natura per un facile accesso all’agricoltura e quindi un’efficienza logistica anche nella distribuzione del cibo. E infine orientazione solare passiva per luce, riscaldamento e condizionamento. Con sistemi come il generatore a energia eolica (usato con successo ad Arcosanti); o la “garment architecture” che, come vuole il nome, si “veste” in base alla stagione: per l’inverno membrane trasparenti che il sole attraversa alterando la temperature interne, per l’estate parasole per avviluppare d’ombra la struttura. O un’altra forma usata con lode ad Arcosanti: “apse effect” o “effetto abside”, che mitiga gli effetti del feroce sole estivo e sfrutta i benefici del pallido sole invernale. Il tutto per schivare quelle che Soleri considera tre iatture della società degli iperconsumi. Le forme dell’arcologia
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Struttura esterna di Arcosanti in cui sono visibili gli archi caratteristici dello stile di Soleri.
Arcosanti, il sogno sostenibile di Paolo Soleri Arcosanti è un prototipo di arcologia, una città “esperimento” iniziata a costruire da Paolo Soleri e numerosi volontari nel 1970 in Arizona. La città in particolare è progettata per autoalimentarsi e autogenerarsi, in uno scambio continuo con la natura: per dire, è un luogo in cui sin dai primi anni di vita, le automobili erano vietate, proprio quando tutti desideravano possederne una, e gli spostamenti si sono sempre misurati in minuti di cammino. MILe costruzioni, realizzate in cemento, sono gettate in opera solo parzialmente: la maggior parte degli elementi è realizzata con il metodo della formatura a terra, che sfrutta l’argillosità del terreno semidesertico dell’Arizona per creare le forme all’interno delle quali viene gettato il cemento. Una volta induriti gli elementi cementizi, essi possono essere assemblati in strutture anche molto complesse. L’architettura di questo luogo esalta la percezione con forme morbide alla vista e al tatto, con accostamenti audaci di colori e talvolta con l’aggressività delle forme. spreco di terreno (una volta completato, Arcosanti avrà utilizzato solo 25 acri sui 4060 disponibili), segregazione edilizia e inquinamento. «Lo sviluppo suburbano tipico 2085
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delle città americane è catastrofico», sentenzia Soleri. «Di questo passo agricoltura, biosfera, foreste andranno a rotoli. E tutto ciò è il prodotto di una società ipertecnologica e iperproduttiva, quella dell’“homo faber”, che non sa resistere alla magia del trasformismo. E produce quello che io chiamo “eremitaggio planetario”, ovvero case familiari a distanze siderali l’una dall’altra, che spezzano le famiglie». Soleri ha idee granitiche su parecchi argomenti. Alle defunte Torri Gemelle ha dedicato un esemplare bozzetto, “New World Trade Center”, sorta di cattedrale secolare che prevede scivoli d’evacuazione al posto degli ascensori. E dice: «Le Torri sono un po’ un capriccio dell’orgoglio e del dominio; non sono così funzionali. MICome nel Medioevo, quando il duca o il despota voleva la torre come segno di dominio e di potenza». Poi ci sono le costruzioni che Soleri chiama “orchidee”, splendide ma anche veri e propri atti di egoismo che fronteggiano la comunità. «La società degli architetti contemporanei vive in un limbo che non ha molto a che fare con la realtà. Frank O. Gehry è un gran produttore di orchidee, strutture magnifiche per il sociale, la cultura, in genere per il settore pubblico e rappresen-
Tramonto visto da uno degli oblò di Arcosanti. Foto di J. Jameson.
Bar di Arcosanti, il punto di ritrovo ideale per gli abitanti della città che si affaccia sulla vallata desertica.
tativo, ma che non vanno al cuore del problema principale, che è quello dell’habitat. Food e habitat sono fondamentali e, a oggi, l’umanità non è messa bene in nessuno dei due». Altro esegeta di orchidee era, secondo Soleri, il suo mentore Frank Lloyd Wright, che nel 1947 lo volle con sé fresco di laurea, prima a Taliesin West, poi a Taliesin East, le costruzioni-simbolo del suo pensiero. Le teorie di Soleri sono a disposizione dei mortali tutti i mercoledì dalle 16 alle 17,20 in “School of Thought Meetings” nel cuore di Arcosanti. Così come i workshops da cinque settimane e 1.175 dollari, vitto e alloggio compresi, dove si partecipa anche alla costruzione di una “arcologia” e si dà una mano ai vari dipartimenti in loco, planning, landscaping, metalshop e organic gardens. Perché Arcosanti va avanti grazie al cervello corsaro di Soleri ma anche alle “braccia” di chi ne condivide le idee. Come Mary Hoadley, al suo fianco dal 1970 e attuale site coordinator, passata da Cosanti per due settimane e rimasta a vita, anche lei in crociata perenne contro le “praterie urbane” tipo Los Angeles. Mary ha un pensiero felice per Venezia: «Una proto-arcologia, con la sua natura pedonale e di breve distanza». MIE passano da Roma, dove apre una retrospettiva su Soleri patrocinata dal Ministero per i beni e le attività culturali e presentata in due sedi: a Palazzo Fontana di Trevi e al MAXXI, il Museo nazionale per le arti del XXI secolo. Un’altra soddisfacente apparizione italiana per Soleri (dopo Palermo, Genova e Vietri sul Mare), già “beatificato” nel 2000 con il Leone d’Oro alla Biennale di Venezia. Ma lui sottolinea di essere «sempre stato ignorato» dalla sua Torino, che avrebbe
potuto dargli spazio in vista delle grandi manovre del 2006. Anche se dare spazio a Soleri, paladino dell’alveare e del verticale, per molti ha valore di anatema. S’intuisce che i concetti occidentali hanno stremato l’Architetto Maximo. Ma come l’Occidente (sia pure per tutt’altri motivi) anch’egli guarda alla Cina (ha in programma un’apparizione alla Conferenza Suzhou a Shanghai). Forse un giorno colonizzerà (a buon fine) la sua Arcosanti? Settemila studenti vi hanno lavorato fino ad oggi, contribuendo alla crescita di una cittadina visitata ogni anno da decine di migliaia di persone. Per questo Arcosanti rimane un’utopia realizzata, o magari una concreta possibilità di riscatto attraverso una diversa idea di spazialità, di struttura dei rapporti sociali, di rapporto con risorse e natura. Un’idea tridimensionale di possibile futuro, frutto di un pensiero e di una pratica lunghi più di quarant’anni. MINella visione di Soleri, applicata poi ad Arcosanti e sviscerata nel volume “Arcologia: la città ad immagine d’uomo”, si ricorre a soluzioni per comprimere e compattare le strutture urbane verso il tridimensionalismo e combattere l’espansione urbana in maniera incontrollata. Questo sogno fantascientifico finirà per somigliare negli iperbolici disegni di Soleri a città coperte da cupole e somiglianti ad alveari umani, che nel pieno del boom dell’architettura radicale avrà molto successo. Era un periodo in cui la realtà del progresso, del consumo e della pubblicità aveva già cominciato a risultare troppo presente e incalzante per alcuni, e Soleri si inserisce coerentemente all’interno di questo movimento, con strutture azzardate e futuristiche. E’ importante però sottolinearne gli aspetti più avanguardisti di riflessione sull’impatto dell’impronta umana sullo spreco delle risorse, sul risanamento del territorio e sull’eliminazione della maggior parte del trasporto privato a vantaggio di quello pubblico. MIIl progetto di Arcosanti, realizzato parzialmente e comunque ancora in lenta evoluzione, ha richiesto numerosi compromessi, primo fra tutti quello economico, provando a sfruttare, dove possibile, sistemi autonomi di sostentamento a tecnologie “pulite”, e ottimizzando la qualità dell’architettura in base alle condizioni climatiche esterne con studi sull’ombreggiamento e sulla ventilazione degli edifici. E’ un organismo che ha cercato di adattarsi alla natura che lo circonda.
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L’invenzione delle città organiche, il Marriott hotel
Vista esterna del Marriott Marquis hotel nel centro della città di Atlanta.
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Conosciuto come uno degli architetti più influenti e controversi del ventesimo secolo, John C. Portman Jr. non solo ha creato la moderna Atlanta come è oggi, ma ha anche costruito una filosofia di design che respira in tutte le sue opere, come l’Atlanta Marriott Marchese. Nel suo concetto architettonico originale per l’Atlanta Marriot Marquis, Portman esprime i suoi principi e le sue teorie del design applicato come funzione, ordine e varietà; natura e movimento; e infine, partecipazione umana e spettatore. MIInvece di progettare il Marriott Marquis come palcoscenico per le nuove tecnologie, come hanno fatto altri architetti, Portman afferma invece: “Gli architetti devono reindirizzare le loro energie verso un’architettura ambientale, nata dai bisogni umani e rispondente a fondamentali aspetti fisici, sociali, educativi ed economici circostanze. La preoccupazione principale era creare uno spazio completamente funzionale basato sulle persone che lo avrebbero usato piuttosto che avere la funzione che seguiva la forma, come tanti altri architetti hanno e faranno. In tutto il suo concetto Portman allude a un’idea che è diventata uno dei punti cardine della sua fama “Gli edifici dovrebbero servire le persone, non il contrario”, la funzione dell’hotel Marquis dimostra questo punto valido come l’ottantacinque per cento delle attività di meeting o convention sono tutti su un unico livello per una facilità di funzionamento per soddisfare al meglio le esigenze delle persone. Nel suo concept architettonico per il Marchese Portman condivide “Le persone richiedono ordine nella loro vita, ma desiderano anche varietà”; l’esterno e la struttura del Marchese giocano come un primo esempio di questo concetto. Il colore e la trama dell’esterno, anche se alcuni lo chiamano insipido, è stata una scelta intenzionale per l’hotel di fondersi con il resto del Peachtree Center, cedendo all’ordine. MILa struttura ha anche un gioco di armonia, che Portman ha articolato bene dal suo concetto originale. Le estremità est e ovest forniscono ordine con la loro verticalità e larghezza più sottile, mentre le estremità nord e sud, più lunghe, si incurvano, e terminano in una forma rettangolare. L’esterno mostra pensiero e moderazione, mentre osservando c’è quasi uno squilibrio nell’armonia, ma proprio mentre la sensazione quasi affiora la
struttura si assottiglia e l’armonia si risolve. Una volta che lo spettatore irrompe nello spazio, ha un senso di grandezza e quasi un sentimento di superamento. L’ordine e la verticalità sono rappresentate solo dalle linee rette del lato dell’ascensore e del lato opposto, queste vengono poi sopraffatte dalle curve non solo dalla struttura esterna, ma dai balconi curvi avvolgenti, che se visti tutti nel contesto danno una somiglianza a una grande cassa toracica. Sebbene nel suo concetto lui sostenga “Non è destinato ad essere travolgente, ma invece a servire come esperienza interna dello spazio come elemento della natura”, l’atrio percorre una linea molto sottile dell’ordine tra vicinanza e familiarità con la varietà di grandezza e scala. MIUna volta sopra l’atrio, guardando in basso c’è una maggiore comprensione dell’ordine e della varietà della struttura, nonché un più facile accesso a spazi più familiari e non grandiosi; le due grandi scale tentano di appesantire l’altezza dell’atrio dando un po ‘di tensione ma l’altezza la supera comunque. Al quarantasettesimo piano la visione in basso dà allo spettatore una sensazione quasi scoraggiante e inquieta, una tensione data dalle forme ripetute dei balconi avvolgenti ad ogni livello che sembrano non finire mai. MIVedi uno spazio quasi vuoto e spoglio ma in alto il lucernario lo apre dandogli un respiro che lo spazio disperatamente richiede. L’approccio di Portman al design proviene da una diversa direzione del tempo, e con ciò arriva la volontà di dare priorità ai problemi per risolverli e far convergere le forme in un design armonioso. Portman afferma inoltre che le persone necessitano di ordine e varietà: “Le persone sono anche innatamente sensibili alla natura”, quindi include la natura e il movimento per soddisfare il bisogno di un ambiente orientato alle persone piuttosto che alla creazione di monumenti. Gli elementi della natura agiscono come movimento all’interno dell’hotel dalla luce proveniente dagli stretti lati est e ovest e dal lucernario sull’atrio. Portman osserva che la luce è meno compresa da architetti e sviluppatori perché sia la luce naturale che quella artificiale possono cambiare l’intera personalità dell’ambiente. L’interno ottiene una sensazione quasi eterea dalla luce naturale durante il giorno, e di notte la luce artificiale è stata pensata per non togliere lo spazio.
La hall dell’hotel mostra la particolare forma organica della struttura. Foto di J. Ardiles-Arce.
Gli architetti devono reindirizzare le loro energie verso un’architettura ambientale, nata dai bisogni umani e che risponda a circostanze fisiche, sociali, educative ed economiche vitali J OH N P O RTM AN
Il movimento mostrato all’esterno non solo accompagna la struttura curva, ma è anche un’espressione della natura. MIAcquista la luce che si muove lungo la forma dell’edificio durante il giorno regalando una diversa sensazione rispetto alla maggior parte degli altri edifici. Maggiore movimento è mostrato dall’ascensore di vetro, dando agli ospiti la richiesta di muoversi nello spazio. Portman vede i suoi ascensori come sculture cinetiche con la sensazione che “Guidare un ascensore è un’altra importante esperienza di transizione e non c’è motivo per cui devi viaggiare in una scatola chiusa”; invece di nascondere un ascensore come la maggior parte fa, apre invece le pareti sostituendole con il vetro e sporgendo i pozzi per vedere l’ambiente circostante. Il concetto di tirare fuori l’ascensore e usarlo come elemento importante era geniale; conferisce al grande spazio dell’atrio il movimento naturale di cui ha bisogno in modo che non sia visto come fermo e silenzioso, inoltre dà una divisione allo spazio massiccio dell’atrio. MIOltre agli elementi strutturali dell’hotel, Portman fornisce anche l’ovvia rappresentazione della natura posizionando piante, fontane e vegetazione in tutto lo spazio; ag-
giungendo movimento organico allo spazio. Le persone sono al centro della filosofia di John Portman; “Coinvolgere le persone nella mia architettura, sia come spettatori che come partecipanti”. Le persone sono la ragione e gli utenti previsti per lo spazio, quindi ha senso che l’ambiente si adatti a loro, ma ciò che altri architetti e sviluppatori perdono è consentire alle persone di essere una parte attiva degli elementi del design. MIPortman esegue il suo concetto di partecipazione al Marchese in molteplici aspetti come le passerelle che collegano gli ascensori ai balconi, aggiungendo un movimento necessario a un altrimenti statico ambiente. L’andirivieni degli ospiti in tutta la hall è un elemento necessario al piano terra che è bilanciato dal movimento degli ascensori che fungono sia da opportunità di partecipazione che da spettatore. MII balconi aperti consentono la partecipazione degli ospiti mentre avvolgono i diversi piani delle loro stanze aggiungono movimento ma possono anche utilizzare lo spazio come luogo per osservare l’ambiente circostante come il concetto di spazio condiviso di Portman, che richiama il linguaggio e le forme dell’utopia. Le forme dell’arcologia
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Arcologia in movimento, città sul mare Duecentoventottomila tonnellate di stazza lorda, in 362 metri di lunghezza per 66 di larghezza. La Symphony of The Seas è la nuova primatista assoluta di grandezza tra le navi da crociera. Siglata Royal Caribbean, è partita oggi dai cantieri Stx di Saint Nazaire, per imboccare la parte finale dell’estuario della Loria, alla volta di Malaga. Da lì comincerà la sua prima crociera, nel Mediterraneo. Quarta delle cruiser della classe Oasis della società di fondazione norvegese con base a Miami, Symphony sorpassa di 2mila tonnellate la (quasi) gemella Harmony. Una città galleggiante costata un miliardo di euro e capace di accogliere quasi novemila tra passeggeri (6680) e membri dell’equipaggio (2200). Tra le altre cifre, 18 ponti, di cui 16 accessibili ai passeggeri e 24 ascensori per il pubblico. MITra le sue caratteristiche, la suddivisione in sette “quartieri”, dove trovano spazio una sorta di mini Central Park con 12 mila specie vegetali, una teleferica. A poppa, l’Aqua Theater, che di giorno è parco acquatico, mentre la sera diventa scenario di coreografie e acrobazie in acqua: il tutto per oltre 66mila metri quadri di spazi tra ristoranti e aree di svago. Una minicrociera tra Malaga e Barcellona, dal 27 marzo, precede la crociera inaugurale, che toccherà anche l’Italia: si navigherà infatti tra Barcellona, Civitavecchia e Napoli. La stagione estiva vedrà il nuovo gigante
Ampio piazzale interno che rimanda ad un quartiere turistico.
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dei mari impegnato nel Mediterraneo, tra Barcellona, Palma di Maiorca, Marsiglia, La Spezia, Civitavecchia e Napoli. Da ottobre, la Symphony farà base a Miami. E MIMa alle navi da crociera della dimensione di un paese siamo oramai abituati e le novità si scoprono solo salendo a bordo. Iniziamo dall’urbanistica. Come ogni borgo che si rispetti la nave è divisa in sette quartieri tematici, dove gli ospiti trovano le attrazioni più adatte al proprio stile di vita e alla proprie esigenze. Se siete green potete passeggiare per Central Park, uno spazio all’aperto – ma protetto dal vento – con più di 12000 piante e alberi, dove rilassarsi, leggere un buon libro, riposare, sorseggiare un caffè o un aperitivo e chiacchierare con gli amici. MIPer gli sportivi alla ricerca di qualcosa di avventuroso ed adrenalinico ecco la zona piscine dove cimentarsi su The Ultimate Abyss, uno scivolo che con i suoi 45 metri sopra il livello mare è il più alto mai realizzato su una nave da crociera e sul quale confesso non ho osato avventurarmi. In attesa di poterlo fare in qualche spiaggia isolata si può surfare sui due simulatori di surf FlowRider mentre la zip line permette di volare a 25 metri di altezza su ben nove ponti. E se tutto questo non vi basta ecco The Rock Climbing, l’ardita parete da arrampicata che guarda piscine e mare. Curiosa la scelta di dotare una nave che navigherà nei Caraibi anche di una pista di pattinaggio su ghiaccio al coperto, ancora più curiosamente scelta come uno dei punti di raccolta per l’esercitazione obbligatoria sulle misure di sicurezza in caso di incidente. Con passeggeri in costume e maglietta a tremare dal freddo. Beh dopo tutto questo sport ci siamo meritati un po’ di relax, ed è l’ora dell’aperitivo. Splendida la scena dello shakeraggio, un po’ meno la scelta di versare il tutto in un anonimo bicchiere di plastica. Forse non si fidano del tutto della delicatezza del barman bionico. MIPoi viene l’arte contemporanea, tutta la nave infatti è cosparsa di dipinti e stampe ma, con una scelta un po’ sacrilega, proprio vicino al casinò – il più grande sul mare - si trova un’ampia galleria d’arte galleggiante. Dicono che sulla Simphony of the Seas si trovino più opere d’arte che nelle sale dedicate alla pittura del Louvre. La nave da crociera del futuro si preoccupa anche delle famiglie con bambini e magari nonni al seguito. Ecco
La Symphony offre un’intensa vita notturna di attrazioni per i suoi ospiti.
La Symphony è la nave da crociera più grande al mondo.
quindi l’Ultimate Family Suite. Un vero e proprio appartamento di 125 metri quadrati sue due piani con scivolo colorato che porta dalla camera da letto bambini al salotto, parete di mattoncini Lego, hokey da tavolo, sala cinema, macchinetta per fare pop corn e vasta scelta di videogiochi. Sul terrazzo privato un tavolo da biliardo, una simil parete d’arrampicata e una vasca da idromassaggio affacciata su piscine e mare. Guardando questo villaggio navigante alto 72 metri con quasi 9000 abitanti non si può fare a meno di pensare al suo impatto sull’ambiente marino. Hanno tentato di renderlo meno traumatizzante possibile, con le attuali tecnologie. Motori più efficienti, recupero dei vapori, maggiore idro dinamicità hanno ridotto del 25% i consumi di energia. Vetro (diviso per colore), plastica, carta e alluminio vengono recuperati, compattati se necessario, per poi essere inviati a impianti di riciclaggio. MI Le acque sporche sono bio-depurate. Insomma la nave dedicata grande attenzione alla sua invadente presenza nell’ambiente naturale marino, cercando di passare nel modo più leggero possibile, nonostante le dimensioni. Infine ci sono cibo e intrattenimento. Venti i ristoranti e le cucine da pro-
vare, tanti gli spettacoli da vedere tra i quali HiRo, nuovissimo show acquatico a base di acrobazie e tuffi nella piscina più profonda mai costruita su una nave. MIIl resto ve lo lasciamo scoprire da voi, questa primavera-estate durante le crociere nel Mediterraneo, con i primi freddi oltreoceano, su quelle nei Caraibi. E se cercate i segni del made in Italy a bordo, oltre a parte di un equipaggio proveniente da oltre 60 paesi nel mondo, troverete capsule di caffè, acque minerali, formaggi, prosciutto crudo e vini provenienti dalla penisola.Tra le innovazioni di cui è dotata ce n’è una pensata per eliminare file e attese al check-in. L’imbarco sulla nave sarà velocizzato grazie a una combinazione di riconoscimento facciale, codici a barre e tecnologia beacon (per il tracciamento delle persone). Gli ospiti potranno, quindi, effettuare il check-in tramite una app mobile dedicata e caricare già da casa i selfie di sicurezza per creare il loro account di bordo. Sulla carta dunque, l’unico rischio nella nave dei primati potrebbe essere quello che i passeggeri si scordino di scendere a terra nei porti preferendo restare sulla città galleggiante piuttosto che visitare quelle vere.
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Arcologie nelle visioni cinematografiche Laputa – Castello nel cielo, è il terzo lungometraggio di animazione diretto da Hayao Miyazaki. Il primo prodotto dallo Studio Ghibli, fondato l’anno precedente insieme al collega Isao Takahata. MIIl film si ispira a due libri della cultura europea, ovvero L’isola del tesoro di Stevenson e I viaggi di Gulliver. Dal primo riprende la struttura del racconto, dal secondo l’idea di un’isola i cui abitanti erano capaci di sollevarla e regolarne il corso a loro piacimento. Laputa – Castello nel cielo come tutti i film di Miyazaki fonda le sue basi oltre che nella letteratura anche nella realtà. Per la realizzazione del film il regista infatti si recò in Galles per studiare le ferrovie, le miniere di carbone e le terraced house, le tipiche case a schiera dei minatori. MIAltro elemento su cui il film si basa è la rivoluzione industriale. Più precisamente sulla grande ed eccessiva fiducia che l’uo-
Il castello nel cielo persente nel film di Miyazaki, Laputa.
mo ha sempre avuto nel progresso e nella sua visionaria ambizione. Il mondo in cui è ambientato il film è nel pieno del progresso tecnologico. Vi è quella che Isaac Asimov ha definito la nostalgia del futuro. Laputa è un «romanzo di fantascienza scritto alla fine del diciannovesimo secolo». Parole dello stesso Miyazaki, dove troviamo un mondo che si è evoluto ma che guarda con malinconia a quel progresso ormai perduto per sempre. MILaputa e la sua tecnologia avanzata vivono nella memoria e nelle leggende tramandanel tempo e nei suoi pochi eredi. Una 21411
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civiltà che se da una parte aveva raggiunto l’armonia tra natura e tecnologia, dall’altra proprio quest’ultima ne ha decretato la sua fine poiché portatrice di morte. Così come Atlantide, il Castello nel cielo è un luogo mitologico simbolo di un’utopia irrealizzabile e di un passato idealizzato smentito dalla storia. Emblematico è il finale che vede i resti di Laputa che fluttuano alla deriva nel cielo. La storia ormai perduta di una progredita civiltà è tenuta insieme dalla natura, simbolo della vita che continua. Anche dove regnano ormai oblio e distruzione. Un amore per le rovine ed il passato che viene magistralmente rappresentato in maniera poetica in quest’ultima sequenza. MIProprio il passato e l’eredità che porta con sé è uno dei punti cardine della pellicola. Laputa nonostante da molti sia creduta una leggenda, conserva la storia e la memoria di un popolo che ormai non c’è più. Storie ormai perdute nel tempo. Neanche Sheeta, che ne è la custode, ne conosce la provenienza e quindi è ignara dell’immenso potere che ha ereditato. La conoscenza della ragazza è superficiale. Tutto ciò che sa gli deriva dalle filastrocche insegnatele dalla nonna. Solo la sua volontà di conoscere la porterà a sapere la verità sul passato della sua famiglia. La magia risiede anche nel volo, elemento onnipresente nei film di Miyazaki. Non vi è un anime del regista in cui non siano presenti delle macchine volanti; o comunque siano previste scene di volo. Tali marchingegni divengono così metafora di libertà ed indipendenza. Sono sinonimo di sogno e l’unico mezzo per arrivare in posti fantastici. Il castello di Laputa è la personificazione di tutto ciò. È un luogo magico sospeso nel cielo il cui popolo viveva in piena autonomia. MIIn Elysium invece Blomkamp, alla regia del suo secondo lungometraggio dipinge due mondi distinti e separati: una Terra sovrappopolata e alla deriva e Elysium, la stazione spaziale realizzata dall’uomo per i multimilionari. Se nel 2013, sei astronauti vivono e lavorano nella stazione spaziale internazionale che orbita a circa 250 miglia dalla Terra, nella visione di Blomkamp, tra 150 anni, queste umili origini porteranno alla realizzazione di abitazioni dotate di tutti i comfort per le persone più abbienti. “Da una parte l’idea è assurda” ha dichiarato il regista. “L’idea di portare pietre, malta, cemento, piscine e tut-
Fotogramma tratto dal film Blade Runner in cui è presente l’imponente stazione di polizia di Los Angeles.
La futuristica città nello spazio presente nel film Elysium.
to quanto è necessario per costruire queste costosissime dimore su una stazione spaziale è ridicola. È un modo per ribadire il concetto che è al centro del film, ossia che la gente di Elysium è straricca e usa le proprie risorse per creare un ambiente tutto per sé, separato, sintetico, quasi ermetico. Da questo punto di vista Elysium è l’altra medaglia di una invasione aliena: siamo ancora alle prese col tema dell’uomo che tenta di proteggere il proprio stile di vita, ma invece di combattere sulla Terra scappa nello spazio.” MILa Los Angeles di Blade Runner invece è un’ antitesi di utopia che però assume in alcuni tratti le forme di un ambigua arcologia. Un gigantesco ghetto sovrappopolato, vessato da una continua pioggia e “iperglobalizzato”, nella peggiore delle accezioni. Un girone dantesco a settecento anni dalla Divina Commedia. Quando Dick scrisse il romanzo, sul finire degli anni sessanta, l’immigrazione asiatica negli stati uniti aveva largamente superato quella europea degli anni venti. La popolazione cinese in America stava crescendo così tanto da far pensare che presto avrebbe ‘preso il controllo’ di alcune zone della città. Le ‘chinatown’, oggi diffuse in tutte le metropoli, sono una versione edulcora-
ta e in piccolo della nefasta profezia di Dick: quartieri che rappresentano il fallimento dell’integrazione, nei quali la cultura cinese ha praticamente soppresso quella autoctona, imponendo le proprie lingue e le proprie tradizioni. Una città dentro una città, ma anche una sorta di ‘prigione’ sociale. La Los Angeles del film però non ha alcuna identità; è una megalopoli che ha reciso totalmente i legami con il passato e la sua storia, un crogiolo di culture che non sembrano fuse ma solo affiancate. Guardando Blade Runner si nota come la California del 2019 (anno in cui è ambientato il film) non abbia nulla a che vedere con quella del ’68. MIWGli edifici antichi sono stati rasi al suolo, eliminati in favore del progresso e della tecnologia, la quale si è capillarmente infiltrata nella vita dell’uomo. Il concetto di “monumento” è stato dimenticato e la nuova era è arrivata come un virus; in un mondo in cui sono le multinazionali a definire lo skyline (come d’altronde definiscono l’esistenza umana replicandola artificialmente) e in cui ogni cultura coesiste ma mantiene la propria lingua, in una realtà urbana confusa ma sempre identica a se stessa.
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Arcologie per il futuro Render dell’immensa cupola che coprirà Astana City Vision e permetterà di creare un isolamento termico dal clima rigido del Kazakistan.
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Le forme dell’arcologia
Astana City Vision è il progetto per una nuova struttura in grado di accogliere fino a 30.000 residenti, lavoratori e visitatori. Questo progetto trova la sua giusta collocazione nella giovane e vivace capitale del Kazakistan, dove lo sviluppo urbano è amministrato con cura soprattutto in previsione dei prossimi eventi internazionali a cui la città è chiamata a rispondere come l’EXPO 2017. MIConcepito e progettato con criteri innovativi in termini di architettura, ingegneria, sostenibilità ambientale e tecnologia, questo ambizioso progetto ha il duplice scopo da un lato di tracciare le linee guida per una città più efficiente, e dall’altro di trovare una soluzione al problema climatico di Astana (con è considerata la capitale più fredda del mondo con temperature da -40 in inverno a +40 in estate). Astana City Vision apre la strada all’idea di città che diventa efficiente e funzionale, diventando la risposta concreta alla crescita non regolamentata delle città che dissipano risorse ed energia. L’accesso alle fonti energetiche determina direttamente scenari concreti di sviluppo sociale, economico e ambientale. La ricerca tecnologica e i progressi scientifici relativi all’ottimizzazione delle varie fonti di energia, definiscono gli approcci funzionali delle società e portano a un futuro energeticamente sostenibi-
le. Astana City Vision apre la strada all’idea che la città diventi efficiente e funzionale, diventando la risposta concreta alla crescita non regolamentata delle città che dissipano risorse ed energia. L’accesso alle fonti energetiche determina direttamente scenari concreti di sviluppo sociale, economico e ambientale. La ricerca tecnologica e i progressi scientifici relativi all’ottimizzazione delle varie fonti di energia, definiscono gli approcci funzionali delle società e portano a un futuro energeticamente sostenibile. MIAstana City Vision si svilupperà su un’area di 1,75 kmq a est della città di Astana. Designer come progetto insediativo verso il futuro, l’immagine che abbiamo di questo nuovo sviluppo urbano non è tanto una smart city, ma una “Città Sensibile”, capace di funzionare come un organismo capace di raggiungere gli impulsi e modificarne la struttura tecnologica e la funzione in base alle necessità del vero protagonista di questo progetto: i cittadini. MILa necessità di realizzare una grande cupola (1500m di diametro e 350 metri di altezza) è stato il primo passo per creare un microclima in grado di rispondere al problema climatico Astana. Questa struttura geodetica ci dà la possibilità di controllare il clima interno migliorando la temperatura interna
Il Khan Sathyr center riprende e realizza il concetto di isolamento termico.
in modo sorprendente, e allo stesso tempo limitando la dissipazione delle risorse energetiche. Il masterplan del progetto prevede la realizzazione di aree residenziali e commerciali, complessi alberghieri, palazzina uffici, edifici religiosi e in più tutte le funzioni tradizionali di una città, oltre a creare aree dedicate allo sviluppo di economie legate al settore digitale, investendo pesantemente nell’industria high-tech e l’emergere di nuove star-up. Si svilupperà così un sistema economico e industriale totalmente nuovo che non richiederà spazi e infrastrutture come l’industria tradizionale, che ha portato al fenomeno della delocalizzazione della produzione fuori dalle città. MIL’industri digitale riporterà i lavoratori in città, gli spazi di lavoro e di produzione saranno ridisegnati secondo questi nuovi parametri. E le fabbriche di quella che molti chiamano la terza rivoluzione industriale diventeranno da BIG a SMART. L’area di ebollizione sarà di ca. 2 milioni di metri quadrati, mentre ampi spazi saranno riservati alle aree verdi e alle strutture ricreative. La mobilità all’interno della struttura sarà consentita solo con veicoli elettrici o biciclette. I cinque varchi di ingresso saranno collegati alle aree di parcheggio dove saranno parcheggiati i veicoli a benzina sia dai re-
sidenti che dai visitatori occasionali. Questi cinque varchi di accesso saranno il punto di partenza per i cinque maggiori che porteranno al centro della struttura dove si ergerà un grattacielo di 250 metri quadrati. MIQueste strade sono anche collegate tra loro tramite una tangenziale che corre attorno al perimetro della cupola. Fungono anche da divisori tra le cinque aree in cui verrà costruito tutto l’edificio come le strutture per il tempo libero e le aree verdi. Tutti gli edifici compreso il grattacielo sono concepiti come strutture polifunzionali con usi diversi, che vanno da quello residenziale a quello amministrativo e industriale. Astana City Vision è una vera e propria proposta di progetto sociale in grado di dare vita a una nuova comunità urbana, culturalmente ed ecologicamente sostenibile. Concepito e progettato con criteri innovativi, questo ambizioso progetto ha un duplice scopo: primo - creare un nuovo modello intelligente per una città più efficiente, secondo - trovare una soluzione al problema climatico di Astana. La cupola sarà realizzata utilizzando cuscini d’aria in ETFE (Etilene tetrafluoroetilene) montati su una leggera struttura metallica. Lo spazio tra due strati protettivi sarà utilizzato per scopi tecnici: estrazione di aria inquinata, scioglimento della neve, recupero dell’acqua. Le forme dell’arcologia
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Edificio principale costruito per l’EXPO 2017 ad Astana.
La struttura della Cupola sarà una pelle dinamica, che si adatterà all’ambiente esterno. Quando il clima sarà più mite, alcune finestre verranno aperte dal Sistema di Gestione Centrale e sarà consentito il passaggio dell’aria attraverso la “pelle”. In caso contrario, quando il clima sarà lontano dalle condizioni ottimali, le finestre saranno tenute chiuse e l’ambiente interno sarà protetto dai fenomeni atmosferici. MIQuando la Cupola sarà chiusa, il ricambio d’aria sarà assicurato da canali interrati alimentati da cappe eoliche installate sul perimetro esterno. Il movimento dell’aria sarà principalmente guidato dal vento. Il progetto prevede un sistema integrato di gestione delle acque, dove l’acqua piovana o neve verrà raccolta dalla copertura grazie a tubazioni installate nell’intercapedine tra gli strati di pelle e sarà convogliata in serbatoi dedicati. Il sistema sarà impostato in modo da massimizzare l’uso dei guadagni solari in inverno per risparmiare energia e mantenere un ambiente caldo sotto la Cupola. Durante l’estate il surriscaldamento sarà evitato dai dispositivi dinamici di schermatura solare inclusi nello strato esterno della pelle. Le celle fotovoltaiche saranno integrate nella superficie esterna del Duomo al fine di garantire la produzione di energia da fonti rinnovabili. La smart grid raccoglierà le informazioni da tutti i dispositivi, monitorando il clima esterno, modificando la configurazione della pelle protettiva e gestendo tutti gli usi energetici all’interno degli edifici. Sotto la Cupola saranno ammessi solo veicoli elettrici e saranno previste stazioni di ricarica nei punti focali. Expo Astana 2017 si discute dei modi per produrre energia pulita, affrontando la questione della disponibilità energetica, della sostenibilità e dei trend di sviluppo delle rinnovabili che ci si attende nei prossimi decenni. Il tema scelto dal Kazakistan è probabilmente la questione più imminente da affrontare e su cui è necessario che i governi di tutto il mondo riescano a collaborare, sulla scia dell’Accordo di Parigi sul clima e dell’Agenda 2030 di sviluppo sostenibile adottata dalle Nazioni Unite. MIMa il tema è centrale soprattutto per il futuro, non solo in termini di ambiente e di salute pubblica ma anche in relazione alla crescita economica e sociale delle comunità che vivono sul nostro Pianeta. Ed è per questo che, nelle intenzioni degli organizzatori, non si può fare a meno di avviare un confronto tra i vari governi che prenda in seria consi-
derazione le problematiche che i Paesi in via di sviluppo si trovano a dover affrontare, anche in termini degli effetti dei cambiamenti climatici sulle economie locali. L’esposizione internazionale di Astana prevede di coinvolgere 5 milioni di visitatori da ogni parte del mondo. Il sito di Expo 2017 occuperà ben 174 ettari, uno spazio più grande di quello che Milano ad Expo 2015 aveva dedicato al tema “Nutrire il pianeta, energia per la vita” con 110 ettari di superficie espositiva. Il simbolo dell’esposizione è il padiglione del Kazakistan: la più grande struttura sferica mai costruita al mondo, con ben 80 metri di diametro, tutta in acciaio e vetro, il centro fisico e simbolico dell’area. MISu iniziativa del Primo Presidente del Kazakistan Nursultan si è tenuta la mostra internazionale. Il complesso espositivo dall’aspetto futuristico con Nur Alem Sphere al centro è cresciuto su 25 ettari, guadagnando immediatamente popolarità tra i visitatori. Il complesso espositivo dall’aspetto futuristico con Nur Alem Sphere al centro è cresciuto su 25 ettari, guadagnando immediatamente popolarità tra i visitatori. Alla mostra erano rappresentati 115 paesi e 22 organizzazioni internazionali, a cui hanno partecipato anche 4 milioni di visitatori, di cui 650 000 turisti stranieri. Al termine dell’evento globale, il Kazakistan ha implementato il concetto post-utilizzo delle strutture espositive approvato da Nursultan Nazarbayev e ha incorporato le migliori pratiche da centri commerciali di fama internazionale. L’ulteriore sviluppo del tema “Energia futura” è implementato dal Centro internazionale per le tecnologie verdi e i progetti di investimento creato sotto gli auspici dell’ONU. Contribuisce in modo significativo allo sviluppo dell’economia verde del paese introducendo soluzioni avanzate di energia rinnovabile. MIIl Museo dell’Energia Futura “Nur Alem” è diventato un nuovo simbolo della giovane capitale della Repubblica del Kazakistan. È diventato il luogo più popolare per gli ospiti per scattare foto memorabili contro la futuristica Sfera. Il sito espositivo è pensato non solo per scopi lavorativi e scolastici, ma anche per il tempo libero e l’intrattenimento dei cittadini e degli ospiti della capitale. C’è un hotel Hilton Astana a cinque stelle, bar, ristoranti, parchi e un parco giochi, che può essere utilizzato anche da bambini con bisogni speciali. Il sito dell’EXPO è sicuramente diventato un nuovo centro commerciale e turistico della capitale del Kazakistan. Le forme dell’arcologia
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Vivere e sopravvivere L’ambiente ostile
Dal 1969 con lo sbarco sulla luna non si è mai parlato dello spazio come ora. Numerosi personaggi pubblici, uno su tutti Elon Musk, sembrano sempre più sicuri di vedere in Marte un futuro viabile per l’umanità. Sorge dunque spontaneo il dubbio sul piano etico della irresponsabilità, del fuggire dalla realtà che nella pratica è l’unica che possiamo dire di conoscere e che nel tempo abbiamo deteriorato. Che l’abbandono del nostro pianeta sia la soluzione migliore è ampiamente dibattuto e contrastato da molti, tuttavia è interessante vedere e analizzare le opzioni che ci vengono proposte. Alcuni dei progetti che abbiamo esplorato propongono infatti soluzioni “intermedie” ovvero dove la vita può dunque esistere in entrambi i pianeti, e spingendosi addirittura più in la, viene suggerito che questi tentativi di creazione di nuove civiltà potrebbero materialmente migliorare la condizione terrestre. Ora non ci è dato sapere nello specifico se siano delle speculazioni per distogliere l’attenzione dai danni materiali che il nostro pianeta sta subendo o se siano concrete speranze di ambiziosi progettisti, ma abbiamo scelto di non soffermarci troppo su questo versante molto delicato e fragile del dibattito per analizzare nel modo più imparziale possibile le proposte visionarie della colonizzazione di un nuovo corpo celeste.
Le proposte per i due specifici momenti della colonizzazione del nuovo pianeta.
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Sopravvivere. Il progetto Marsha.
Fase di stampaggio dei pod sulla superficie marziana.
Per far fronte alle ostilità marziane bisogna che gli edifici abitativi siano vere e proprie macchine per la sopravvivenza che tutelino la salute sia fisica che mentale di ogni individuo. AI SpaceFactory, società di architettura e tecnologia con sede a New York, progetta così Marsha, un alloggio verticale stampato in 3D direttamente sulla superficie marziana. Questo edificio sfida l’immagine convenzionale delle strutture iper-funzionaliste associate con la vita nello spazio, approfondendo anche gli studi sulla vivibilità dei futuri abitanti. L’obbiettivo dei progettisti è stato quello di costruire una unità abitativa resistente, veloce da realizzare e confortevole. È stata testata una miscela innovativa e non inquinante composta da fibre di basalto, estratte dalla roccia marziana, e bioplastica rinnovabile, derivata dalle piante coltivate su Marte, eliminando così la dipendenza dal mondo terrestre. Per via del suo piccolo ingombro e della sua particolare forma a “uovo”, i pod Marsha vengono stampati utilizzando una macchina fissata al terreno e senza il bisogno della supervisione da parte dell’uomo nell’intera procedura. L’intera struttura si sviluppa su un’altezza di 34 metri, in 4 piani: a terra c’è il collegamento con l’esterno, al primo la cucina e l’hub principale, al terzo livello le cabine, i servizi igienici e il giardino idroponico e all’ultimo piano c’è la skyroom, dedicata all’attività fisica e ricreativa. Su Marte essendoci una forte escursione termica si è dovuto realizzare un strato tra la zona interna abitabile e la parete esterna protettiva, ottenendo un sistema a doppio involucro che garantisce l’isolamento. La luce penetra dall’ampio lucernario pieno d’acqua, utilizzata per filtrare
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le dannose radiazioni solari, posto all’estremità superiore della struttura, e scende attraverso lo spazio tra i due gusci per illuminare cosi l’intero edificio in modo naturale. Ogni piano è dotato di ampie finestre che non ripetono mai la loro posizione rispetto alla circonferenza dell’edificio, consentendo così di poter godere dell’intero panorama del territorio circostante senza nemmeno dover indossare la tuta spaziale e abbandonare il pod. Vista la complessità e l’importanza delle future architetture marziane, la Nasa aveva indetto un concorso per trovare progetti che rispondessero a determinate caratteristiche di resistenza, pressione e schiacciamento per le nuove abitazioni e che potessero venire stampate in 3D; a vincere questo prestigioso premio è stata proprio l’agenzia AI SpaceFactory con Marsha, che oltre a soddisfare i requisiti del concorso ha scelto di non sacrificare gli studi sul design degli interni e la sua influenza sul benessere dell’uomo. Marsha, è stato realizzato per far fronte ad un primo insediamento su Marte e quindi per rispondere alle esigenze di prima necessità. Il concetto di unità abitativa forse non è la soluzione migliore per vivere su un altro pianeta ma può tranquillamente essere considerato come uno strumento di sopravvivenza in un luogo del tutto inesplorato e nuovo.
Anche l’estetica degli arredamenti è stata considerata nella progettazione.
Particolari delle zone comuni. Il benessere e la socialità non sono stati sacrificati nel progettare gli interni.
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Vivere. Il progetto Science City.
Vista esterna di una configurazione di cupole che formano l’insediamento.
Progettare una casa è sempre una sfida per un architetto, progettare una città è una sfida ancora più grande, ma progettare un intero ecosistema su un pianeta diverso dal nostro è una sfida epocale. Il continuo progresso scientifico ci ha permesso di porci nuove domande. Se una volta a parlare di colonizzazione di altri pianeti diversi dal nostro del sistema solare erano i film di fantascienza, oggi è la scienza stessa. I nuovi razzi studiati da aziende come Space X, capitanate dal visionario Elon Musk, che sono in grado sia di decollare che atterrare senza finire distrutti, permetteranno un viaggio Terra-Marte in tre mesi, lo stesso tempo che impiegò Magellano per raggiungere il Sud Africa dall’Europa. Tra i primi a rispondere all’appello troviamo lo studio di architettura BigStudio, guidato dal premiato architetto danese Bjark Ingels, a cui è stato commissionato dal governo degli Emirati Arabi Uniti il polo Mars Science City, un prototipo di città marziana. Questo progetto, seppur dal sapore utopico, inizia a risultare sempre più realistico di quello che sembra, ma quali sono le sfide a cui è andato in contro il progetto? Il pianeta marziano, nonostante risulti il più simile al nostro, presenta numerose differenze rispetto al nostro. Senza un campo magnetico, il pianeta mantiene una pressione troppo bassa e una quantità di radiazioni troppo alta per la vita umana. Le temperature medie sono molto basse, vicino a quelle del circolo polare artico, solamente nei crateri risulta quasi mite. Per il suo progetto il gruppo si è ispirato sia alle abitazioni delle popolazioni paleolitiche della Tunisia, i quali scavavano intere città sotterranee per difendersi dal calore e dai raggi del sole, sia agli igloo delle popolazioni della Groenlandia. Ingels ha ideato questo
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nuovo ecosistema all’interno di enormi strutture gonfiabili a forma di igloo sotto le quali si sviluppano come strutture sotterranee stampabili in 3D. Le cupole permetterebbero una corretta pressurizzazione mentre le strutture riparerebbero dalle radiazioni. Dentro questi ambienti sarebbe pure possibile coltivazioni idroponiche alimentate dall’acqua dei numerosi ghiacciai, ma l’architetto esclude la possibilità di alimentazione carnivora per gli abitanti, eventuali allevamenti non sarebbero sostenibili. Ma il vero dubbio rimane uno, abbiamo davvero bisogno di trasferirci su Marte? La risposta dell’architetto la troviamo nel progetto. Tra i diciassette obiettivi di sostenibilità che i governi delle nazioni unite si sono posti otto di questi trovano eventuali soluzioni nelle città marziane. Su Marte, come sulla terra, avremo bisogno di salvaguardare ambiente e risorse, riciclare, sviluppo sostenibile ecc., dunque, i principi che ci permetteranno di vivere sul pianeta rosso saranno gli stessi che ci permetteranno di essere buoni custodi del nostro. Utopia? Probabile, ma come diceva lo scrittore uruguaiano Eduardo Galeano: -“A cosa serve l’utopia? Serve a camminare”. Ogni cupola verrà installata per uno scopo specifico. Qui in particolare si vedono gli studi botanici sulle coltivazioni idroponiche al fine di foraggiare i coloni.
Anche lo svago avrà uno spazio dedicato.
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Marin County Civic Center
Sulla scena dell’utopia L’architettura reale che ha anticipato l’iconico futuro cinematografico
Non è semplice immaginare l’architettura di domani, ciò nonostante più di un designer di fama internazionale si è già cimentato in progetti estremi, ai limiti dell’utopia. Il cinema, fin dalle sue origini, ha ricoperto un ruolo fondamentale nella costituzione dell’enciclopedia visiva dell’uomo moderno, e di conseguenza nella diffusione dell’immagine architettonica in virtù della capacità del cinema stesso di trasportare lo spettatore in una posizione di osservatore privilegiato; egli si ritrova così immerso in una riproduzione della realtà senza eguali grazie all’addizione del movimento, e quindi del fattore tempo, alla staticità pittorica e fotografica. Il cinema è l’arte della modernità per eccellenza, di una modernità della quale è anche figlio, nato dal connubio di tecnologia e mutamenti sociali. Interessante è individuare quelle strutture architettoniche utopiche che sono riuscite ad anticipare il futuro che viene narrato nei film e serie televisive. Dal Marin County Civic Center di Frank Lloyd Wright al Burj Khalifa commissionato allo studio SOM, si presentano ora le architetture utopiche intramontabili.
Maryn County Civic Center, 1957 The Chemosphere, 1960 Sculptured House, 1963 Brenton House, 1969 Ciudad de las artes y las Ciencias, 1996
Guggenheim Museum Bilbao, 1997 Maison à Bordeaux, 1998 ESO hotel, 2002 Phaeno Science Center, 2005 Burj Khalifa, 2010 Sulla scena dell’utopia
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MARYN COUNTY CIVIC CENTER, 1957 FRANK LlOYD WRIGHT L’uomo che fuggì dal futuro, George Lucas, 1971 Gattaca, Andrew Niccol, 1997
Frank Lloyd Wright
Non è un caso che il Marin County Civic Center a San Rafael, California, opera di Frank Lloyd Wright del 1957-66 (conclusa dopo la morte del maestro nel 1959), sia adottato quale location in due film di fantascienza. L’edificio appare quale sorta di navicella con copertura azzurra adagiata a margine delle colline: una sottile diga-ponte antimonumentale composta da due ali lievemente ruotate congiunte da un corpo centrale, a pianta circolare e cupola ribassata, segnato da un elemento verticale. Ogni ala è composta da due corpi laterali paralleli collegati da un percorso longitudinale centrale composto da ballatoi su più livelli e aperto verso il cielo, in seguito coperto da una vetrata continua. La scelta di Frank Lloyd Wright nel 1957 per progettare il Civic Center fu controversa. Il progetto del Civic Center era il più grande progetto pubblico di Wright e comprendeva un intero campus di strutture civiche. L’ufficio postale è stato l’unico progetto del governo federale della carriera di Wright. Il design di Wright prese in prestito idee e forme dal concetto di sviluppo urbano di Broadacre City di Wright, pubblicato per la prima volta nel 1932.
A sinistra: uno scatto della fase costruttiva del Marin County Civic Center. Sulla destra una foto d’epoca risalente ai primi anni della costruzione.
L’umanità è relegata sottoterra, interamente controllata da macchine e da poliziotti-robot, il sesso vero è vietato (sostituito da macchine masturbatrici con ologrammi: si veda “l’Orgasmatic” del film di Allen…), le persone sono costantemente mantenute sotto sedativi e contraddistinte solo da un numero. Il protagonista THX 1138/Robert Duvall e la coinquilina iniziano a non assumere pastiglie, fanno l’amore, sono scoperti e processati: inizia la fuga del protagonista attraverso spazi e con 232
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Marin County Civic Center
personaggi onirici. Si intravedono agglomerati urbani sotterranei e strade lungo le quali sfrecciano automobili. THX ruba un veicolo e fugge attraverso lunghissimi tunnel (in realtà la non conclusa rete di tunnel di San Francisco) inseguito da poliziotti in moto; la caccia viene interrotta poiché il budget è superato. Il protagonista sbuca all’esterno in un desertico e assolato paesaggio. Protagonista dell’edificio di Wright è lo spazio centrale a più livelli, in questo esempio immaginato sotterraneo e accostato a brani di città futuribile. A sinistra: un frame da L’uomo che fuggì dal futuro, il primo film girato da George Lucas nel 1971 come sua tesi di laurea. Fu successivamente riadattato per la versione in DVD.
Il futuro immaginato da Andrew Niccol nel film Gattaca: la porta dell’Universo del 1997, mostra un’umanità divisa in “validi” — dotati di un corredo genetico perfetto — e “non validi” cioè concepiti in modo naturale e di fatto emarginati. Vincent viene concepito in modo naturale e le sue aspettative di vita sono di 30,2 anni, morte prematura e possibilità di cardiopatia del 99,9 per cento. Fugge da casa, sopravvive con umili mestieri finché acquista l’identità di Jerome — individuo geneticamente perfetto ma paraplegico a causa di un incidente — ed è assunto a Gattaca, l’ente aerospaziale dove intende coronare il suo sogno di diventare astronauta. La complessa trama è sviluppata quasi esclusivamente all’interno del vero protagonista, l’edificio di Wright (Gattaca): il profilo dell’edificio sulla collina, l’ingresso con scala mobile, lo spazio centrale a più livelli dalla cui vetrata zenitale si vedono partire le navicelle spaziali lanciate nello spazio, la grande copertura azzurra, gli spazi interni con soffitto a volta ribassata segnata da oculi, senza tralaciare la stupenda fattura di particolari architettonici quali serramenti, frangisole, infissi e corrimano. A sinistra: vista esterna del Maryn County Civic Center in Gattaca Sotto: immagine tratta dal film Gattaca.
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In alto: vista esterna del Maryn County Civic Center. Sotto a sinistra: sketch del centrale del Civic Center. Sotto a destra: navata centrale del Civic Center.
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The Chemosphere
THE CHEMOSPHERE, 1960 JOHN LAUTNER The Duplicate Man, Gerd Oswald, 1964 Body Double, Brian De Palma, 1984 Charlie’s Angels, Joseph McGinty Nichol, 2000
John Lautner
Promossa dal cinema hollywoodiano, le forme di The Chemosphere fanno eco alla mitologia degli Ufo. Costruita nel 1960 sulle alture di Hollywood, la Chemosphere di John Lautner ha fatto alcune apparizioni in The Duplicaye Man, nell’Omicidio a luci rosse (Body Double) di Brian De Palma o ancora in Charlie’s Angels. La Chemosphere House è stata utilizzata nelle riprese in esterni come casa del personaggio del Capitano Emmet in The Duplicate Man, episodio della serie televisiva The Outher Limits. Ambientato nel 2025, in The Duplicate Man non manca la presenza di zoo spaziali e cloni umani, quali indistinguibili dagli originali viventi. L’architettura diventa, in The Body Double, la villa ottagonale presa in prestito da Scully, un attore disoccupato che viene accolto nel lussuoso appartamento per poi essere coinvolto in un bizzarro piano omicida, mentre spia una bellissima donna vicina di casa. The Chemosphere è stata inoltre location della famosa saga Charlie’s Angels, ripresa in gran parte nei suoi moderni e non convenzionali interni.
Da sinistra verso destra immagini dei film: Body Double; The DuplicateMan; Charlie’s Angels.
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Sculptured House
SCULPTURED HOUSE, 1963 CHARLES DEATON Il dormiglione, Woody Allen, 1973
Charles Deaton
Edificata sui pendii della Genesee Mountain nel 1963 e già conosciuta per le sue forme futuristiche, la Sculptured House di Charles Deaton incontra il grande pubblico con Woody Allen. Deaton ha progettato questa casa per vivere con la sua famiglia, è stato il suo unico progetto residenziale, ma non è mai riuscito a portarla a termine in ogni sua parte, soprattutto all’interno, non potendo arrivare ad essere abitata e trovandosi in uno stato semirruinoso. Solo nel 1999 quando l’architettura fu acquisita dal milionario John Huggins, che spese diversi milioni di dollari per il suo restauro, la Sculptured House acquisì il meglio di sé. Huggins si è avvalso dell’aiuto dell’architetto Nicholas Antonopoulos e di sua moglie, l’interior designer Charlee Deaton, figlia di Deaton, per il restauro e l’ampliamento della casa. Come accadde con altre case futuristiche dell’epoca, con il suo peculiare design, la Sculptured House dell’architetto John Lautner non sfuggì ai produttori di Hollywood, che apparve nella commedia di fantascienza di Woody Allen Il dormiglione nel 1973, (in inglese The Sleeper) per il quale la casa è anche stata ribattezzata Sleeper House. Fu il primo che decise di vivere lì fino al 2010 quando non poté continuare a pagare il mutuo e la casa gli fu pignorata.
A sinistra: uno scatto dell’epoca della struttura A destra: frame del film Il dormiglione.
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Brenton House
BRENTON HOUSE, 1969 CHARLES HAERTLING Il dormiglione, Woody Allen, 1973
Charles Haertling
La Casa Brenton a Boulder & CO, è uno dei più importanti marchi del dell’architetto Charles Haertling. La casa è stata costruita per il dottor Stanley Brenton e la sua famiglia che ha scelto un luogo domestico in Wonderland Hills Suddivisione a Boulder per la costruzione della loro nuova casa. Il sito è stato idilliaco arroccato sopra un lago. Charles Haertling seguì il concetto modernista per la costruzione della Brenton House ispirandosi alle forme della natura come le piante di Yucca, funghi, foglie, ... Ancora oggi il suo stile iconico ci fa viaggiare con la mente ad un futuro prossimo in cui natura e modernità si uniscono in un duo sinergico per portare alla luce un concetto quasi utopico di società sostenibile non solo a livello produttivo ma anche a livello visivo. La Brenton House si distingue per la sua apparizione nel film futuristico Il dormiglione 1973 di Woody Allen. Il metodo di costruzione della struttura era poco ortodosso e coinvolto principalmente la schiuma di poliuretano spray su un telaio di rinforzo. La casa fece molto scalpore al suo completamento tanto da meritarsi un posto in un articolo di colonna Nazionale Enquirer “Case strane”.
Fotogramma tratto dal film Il dormiglione, sullo sfondo possiamo scorgere l’opera di Charles.
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Foto superiore: scatto dei primi due padiglioni alla città dell’arte e della scienza. Foto inferiore: scatto del lato di uno dei padiglioni, possiamo notare la singolare forma a scheletro.
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CIUDAD DE LAS ARTES Y LAS CIENCIAS, 1996 SANTIAGO CALATRAVA Westworld, Michael Crichton, 2016 Tomorrowland, Brad Bird, 2015
Santiago Calatrava
La Città delle Arti e della Scienza è un complesso architettonico, chiaramente aderente all’architettura organica, progettato dall’architetto spagnolo Santiago Calatrava e Fèlix Candela. Il progetto integra perfettamente le qualità costruttive d’avanguardia e la tradizione mediterranea del mare, attraverso giochi d’acqua e di colori. Il progetto assume proprio le dimensioni di una piccola città, si estende lungo le rive del fiume Turia, oramai deviato in seguito a straripamenti avvenuti in passato, su un terreno di circa 1.600.000 mq. Il complesso è costituito da cinque edifici: il Palazzo dell’Arte, il Museo della Scienza, l’Umbracle, il Parco Oceanografico e l’Hemisfèric. Dentro si svolgono mostre ed eventi internazionali riguardanti l’arte, la scienza e la natura. La visita completa della Ciudad impegna circa due giorni, per poter visitare ogni edificio al suo interno e ammirare le tecniche e lo stile con cui sono costruiti i vari edifici del complesso. L’architettura più stupefacente è l’Hemisfèric, situato su circa 13.000 mq. La struttura si mostra all’esterno come un grande occhio che si riflette in uno specchio d’acqua, regalando immagini suggestive di sera. Quello che dall’esterno somiglia ad un “bulbo oculare” in realtà è una piccola cupola dove si trova uno schermo concavo di circa 900 mq per le innumerevoli proiezioni cinematografiche, rendendo l’Hemisfèric la più grande sala cinematografica di Spagna.
Fotogramma tratto dalla serie televisiva Westworld, sullo sfondo possiamo intravedere la sezione laterale del padiglione Hemisfèric.
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Fotogramma tratto dalla serie televisiva Westworld, sullo sfondo possiamo scorgere l’opera di Calatrava.
Westworld dove tutto è concesso è una serie televisiva fantascientifica statunitense, creata da Jonathan Nolan e Lisa Joy per HBO. È basata sul film omonimo del 1973, scritto e diretto da Michael Crichton. La storia si svolge negli anni cinquanta del XXI secolo a Westworld, un parco dei divertimenti a tema WildWest immaginario e tecnologicamente avanzato, popolato da “figuranti” androidi. Il parco si rivolge ad “ospiti” altamente facoltosi che possono sbizzarrirsi con le loro fantasie più selvagge all’interno del parco senza timore di ritorsioni da parte degli ospitanti, i quali sono impediti dalla loro programmazione a danneggiare gli umani. Tomorrowland, Il mondo di domani diretto da Bird e Damon Lindelof è un film ottimista che ci consente di dare uno sguardo a come potrebbe essere un modo utopistico. Frank Walker, un ex enfant prodige ormai disilluso, e Casey, un’adolescente ottimista e intelligente, figlia di un ingegnere aerospaziale, sono legati da un destino comune. I due intraprendo una pericolosa missione insieme, per svelare i segreti di una misteriosa dimensione spazio-temporale nota come “Tomorrowland”. Le loro imprese potranno cambiare sia il mondo che la vita di Frank e Casey, per sempre se riusciranno a superare l’opposizione del terribile David Nix. Fotogramma tratto dal film Tomorrowland, sullo sfondo possiamo scorgere l’opera di Calatrava.
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Foto superiore: vista laterale del padiglione Hemisfèric. Foto inferiore: vista frontale del padiglione Hemisfèric.
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GUGGENHEIM MUSEUM BILBAO, 1997 FRANK OWEN GEHRY The world is not enough, Michael Apted, 1999
Frank Owen Gehry
Il Guggenheim Museum Bilbao è un museo di arte contemporanea situato in un edificio progettato dall’architetto canadese Frank O. Gehry. Si trova a Bilbao nei Paesi Baschi, nel nord della Spagna. Il Guggenheim di Bilbao è uno dei vari musei della Fondazione Solomon R. Guggenheim. Il museo venne inaugurato nel 1997, nel contesto di rivitalizzazione della città di Bilbao e della provincia di Biscaglia intrapreso dall’amministrazione pubblica dei Paesi Baschi. Sin dalla sua apertura il museo si è trasformato in un’importantissima attrazione turistica, richiamando visitatori da numerosi paesi del mondo, diventando così il simbolo della Città di Bilbao Fu sede di alcune riprese per il film di Michael Apted 007, The world is not enough seppur di sfuggita possiamo cogliere tra i frame della pellica la monumentale opera di Frank O. Gehry. Considerato un capolavoro dell’architettura del’900 è un po’ il fiore all’occhiello del grande piano di ristrutturazione urbana per rilanciare un’area della Spagna gravemente depressa. Dal punto di vista economico, in Guggenheim ha contribuito in maniera decisiva, al rilancio della città come meta turistica e centro culturale. A sinistra: un fotogramma tratto dal film 007, The world is not enough. A destra: una fotografia scattata durante le riprese del film con sfondo il Guggenheim Museum.
Fotografia contemporanea dell’opera di Frank Owen Gehry.
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MAISON À BORDEAUX, 1998 REM KOOLHAAS Koolhaas Houselife, Louise Lemoine, Ila Bêka, 2008
Rem Koolhaas
La Maison à Bordeaux, il progetto di Koolhaas in Francia, è stato definito dal Time magazine come il Best Design del 1998. La casa è il risultato delle necessità di una coppia, la cui vecchia casa era diventata una prigione per il marito, costretto su una sedia a rotelle a seguito di un incidente d’auto. La coppia comprò una collina che gode della vista della città di Bordeaux ed il marito disse a Koolhaas: “Io voglio una casa complessa perché definirà il mio mondo”. Koolhaas propose una casa su tre livelli, adagiata sul pendio, con un passo carraio circolare nel cortile. La parte più bassa è come “una serie di caverne intagliate nella collina per la vita più intima della famiglia”. La parte più alta è divisa in spazi per la coppia, e spazi per i loro bambini: camere da letto contenute in un volume massiccio in calcestruzzo. Stretto in mezzo vi è il soggiorno vetrato, un ambiente definito dal vetro quasi invisibile, metà all’aperto, dove il cliente ha il proprio spazio da vivere. Un elevatore, di 3 m x 3,5 m, permette di accedere comodamente a tutti i livelli. La casa fu oggetto e soggetto delle riprese nel film documentario Koolhaas Houselife diretto da la Bêka e Louise Lemoine.
Fotografia dal giardino esterno della casa a Bordeaux progettata da Rem Koolhaas.
Immagine tratta dal film Koolhaas Houselife, possiamo notare come la domestica, protagonista del film, stia utilizzando l’iconico ascensore della Maison à Bordeaux.
Sulla scena dell’utopia
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Foto superiore: prospettiva esterna dell’ESO Hotel. Foto inferiore: interni dell’ESO Hotel con vista sul giardino centrale.
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Inside Utopia
ESO HOTEL, 2002 AUER / WEBER Quantum of Solace, Marc Forster, 2008
Fritz Auer e Carlo Weber
Per consentire alle persone di vivere e lavorare nel remoto Osservatorio del Paranal, un lodge, noto come Residencia, è stato costruito a soli tre chilometri dalla cima del Cerro Paranal, consentendo agli astronomi di fuggire dall’arido ambiente desertico. La premiata costruzione in cemento, acciaio, vetro e legno è stata progettata dagli architetti tedeschi Auer, Weber, Assoziierte come una forma a L sotterranea, con una cupola di 35 metri che copre un giardino interno. L’edificio è apparso anche nel film di James Bond Quantum of Solace e ha ricevuto l’attenzione di tutto il mondo. La produzione di Bond è stata attratta dalla location speciale e dall’architettura eccezionale della pluripremiata Paranal Residencia, una vera oasi nel deserto. Oltre alle sparatorie alla Residencia, si svolgeranno ulteriori azioni sulla pista di atterraggio del Paranal. La produzione di Bond è stata attratta dalla location speciale e dall’architettura eccezionale della pluripremiata Paranal Residencia, una vera oasi nel deserto.
Fotogramma tratto dal film Quantum of Solace dove si può scorgere l’esterno della struttura in una delle scene d’azione.
Sulla scena dell’utopia
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PHAENO SCIENCE CENTER, 2005 ZAHA HADID The International, Tom Tykwer, 2009
Zaha Hadid
Zaha Hadid è considerata la più importante rappresentante, in età contemporanea, dell’architettura declinata al femminile: vera e propria archistar di fama mondiale, prima donna a vincere il Pritzker Prize nel 2004, ha però iniziato la propria carriera come artista e si è occupata spesso di design d’arredo. Il Phaeno è un museo della scienza a Wolfsburg dedicato ai fenomeni naturali ed ospitato in un edificio futuristico. Esteso su una superficie di 27.000 metri quadri, è una struttura di forma fluida “progettata per esaltare trasparenza e permeabilità – con il volume principale, destinato agli spazi espositivi, sollevato dal suolo a formare la copertura di una piazza pubblica”. L’edificio del Phaeno è rapidamente diventato uno dei simboli della città di Wolfsburg, in Bassa Sassonia, grazie al suo aspetto che ricorda una nave spaziale appena atterrata nel bel mezzo della città. Il progetto si fonda su un’insolita logica di volumetrie e strutture. La struttura è stata utilizzata nel film The International, diretto da Tom Tykwer, assieme al mitico Guggenheim Museum di New York di Frank Lloyd Wright che funge da spazio per una delle scene principali. Le città in cui è stato girato il film includono Istanbul, Berlino, Lione, Milano e New York, mostrando nel complesso un catalogo di architettura “Internazionale”.
Fotogramma tratto dal film The International, nello sfondo Phaeno Science Center.
Fotografia degli spazi interni di Phaeno Science Center, Zaha Hadid, 2005.
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Inside Utopia
Phaeno Science Center
A sinistra: uno scatto del palazzo da uno dei quartieri adiacenti. A destra: alcuni fotogrammi tratti dal film Mission Impossible: Ghost Protocol.
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Inside Utopia
BURJ KHALIFA, 2010 SKIDMORE / OWINGS / MERRILL Mission Impossible: Ghost Protocol, Brad Bird, 2011
Studio SOM: Skidmore, Owings e Merrill
La torre progettata da Skidmore, Owings and Merril nel 2002 e inaugurata nel 2010 è attualmente l’edificio più alto al mondo con i suoi 828 metri di altezza. Commissionata dall’emiro di Dubai allo studio SOM — Skidmore, Owings and Merrill nel 2002, durante il rilancio dell’Emirato sulla scena finanziaria ed immobiliare. Assume infatti tra i vari primati della sua realizzazione, quello di primo esperimento urbanistico a Dubai di torre-icona come fulcro e motore di un masterplan di scala ineditamente grande. La scena più elettrizzante e acrobatica di Mission Impossible: Ghost Protocol è stata girata sul Burj Khalifa. Tom Cruise lo teneva d’occhio fin dai tempi della sua costruzione: era in cerca di nuove strutture da scalare e da cui potersi lanciare, nei panni dell’agente segreto Ethan Hunt. Anche i produttori J.J. Abrams e Bryan Burk, visitando il Medioriente nel 2009, ne erano rimasti stupiti ed affascinati. La troupe si è installata al 123° piano per sistemare tutta l’attrezzatura, gli impianti di perforazione, le gru e il necessario per la scalata esterna della star. Dopo aver rimosso tra le 15 e le 20 vetrate sono iniziate le riprese di una delle acrobazie più impressionanti e memorabili della serie, con cadute libere e lanci nel vuoto a faccia in giù, un’impresa memorabile anche per il nostro attore Tom Cruise.
A destra: una fotografia panoramica di Dubai con al centro il palazzo.
Sulla scena dell’utopia
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Il concetto di Utopia ha sempre sedotto il cinema. Sia nella sua accezione positiva, sia in quella negativa di un futuro totalitario, disumanizzato e senza via di fuga. I film proposti in questo capitolo si interrogano sul significato e sul valore dell’Utopia come movente dell’agire umano. Vengono presi in considerazione il genere 254
Inside Utopia
cinematografico e letterario di accezione più utopica ma anche più distopico. Si cercherà di fare una panoramica che in ordine cronologico racconti come l’architettura influenza la società e il modo di vedere l'umanità in un futuro prossimo e di come la visione di un mondo ancora inesistente sia spesso caratterizzato dall’oscurità.
L’architettura della science fiction
IL FUTURO CHE IMMAGINIAMO
(A destra) Dal fumetto di Moebius, la vista di un mondo tanto fantastico quanto realistico. Una navetta fluttua in un paesaggio naturale quasi riconoscibile, dove sorgono edifici di chiave fantascientifica. (A sinistra) Una vista aerea della cittadella di Wakanda, centro ipotetico di una comunità formata dalla commistione di tutte le tribù.
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uando, durante il ‘900, le Utopie si sono esaurite, la ricerca nel campo delle architetture visionarie resta prerogativa della fantascienza e del fantasy, del cinema e del fumetto. Gli stimoli visivi cui la nostra immaginazione è continuamente sottoposta ci hanno, infatti, reso familiari architetture di fantasia, del cinema, della letteratura e dei fumetti, ormai entrate a far parte del nostro immaginario. La forza di queste ambientazioni sta nel rendere accessibili tramite linguaggi più immediati e dalle qualità semantiche, quei luoghi che attraverso le immagini di progetti utopici e città futuribili, per quanto dettagliati e realistici, rimangono pur sempre di difficile diffusione. Le visioni urbane del cinema di fantascienza, della letteratura fantastica e del fumetto, si sono avvicinate a descrivere un mondo per lo più distopico. In effetti negli ultimi vent’anni il cinema ci ha abituati ad una visione distopica del futuro. Una forma di utopia distorta, un’illusione di progresso, a cui il vecchio cinema ci aveva abituato, ma che invece di farci progredire ci fa sprofondare in un oscuro baratro. La distopia sembra aver trovato nel grande schermo un terreno fertile per seminare dubbi e far nascere messaggi preoccupanti. C’è forse il rischio che il cinema, non sia più in grado di raccontare una liberazione,
ma solo in grado di raccontare l’attualità, la drammaticità di una crisi, senza però saper indicare una via d’uscita? Viviamo in una realtà a tal punto problematica che la distopia è il tono che più di ogni altro contribuisce a definire il mood a cui si accordano la maggior parte delle visioni del futuro prodotte dalla nostra cultura. La nostra capacità di immaginare ciò che verrà domani appare dominata da visioni cupe e pessimistiche. Tuttavia proprio nel cinema, nei fumetti non mancano esempi positivi di futuri idilliaci dove l’umanità vive in ambienti di straordinaria bellezza e benessere. Come afferma Gianni Rodari nel suo libro La grammatica e la fantasia: «occorre una grande fantasia, una forte immaginazione per essere un grande scienziato, per immaginare cose che non esistono ancora, per immaginare un mondo migliore di quello in cui viviamo e mettersi a lavorare per costruirlo». IL FUTURO CHE IMMAGINIAMO
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Metropolis, Fritz Lang, 1927
MEGALOPOLI DEL XXI SECOLO La fantascienza al tempo del muto
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a città di Metropolis, mostra uno scorcio di una società in cui le metropoli futuristiche distopiche sono progettate e costruite in verticale, gli strati sono basati sul riflesso dei vari status sociali. Oggi l’architettura di Metropolis potrebbe essere facilmente vista e riconosciuta in diverse grandi città di tutto il mondo, mostrando influenze di una serie di stili architettonici, tra cui lo stile futurista, Art Déco e gotico. Il film presenta due distinti ambienti urbani, ciascuno dei quali rispecchia il modello dello stile di vita che vige. Nella città dei designer, torri moderne e scintillano tra le vie di transito fluide, gli edifici sono imponenti ma agraziati, con forme diverse che suggeriscono una ricchezza di dettagli e materiali. La gerarchia sociale è presente in tutto l’ambiente urbano: più alto e decorato è l’edificio, più potere e ricchezza vengono
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INSIDE UTOPIA
espressi. Così l’ufficio di Frede l’immensa Torre di Babele, diventa l’edificio più alto e iconico della città. Questa città sopraelevata è in netto contrasto con la parte sotterranea dedicata ai lavoratori, che rimarca l’idea di stratificazione sociale basata sulla cosmologia medievale che prevede la distinzione di parte sacra, che sta in alto e profana, situata in basso. Questa gerarchia diventa poi tecnica comune per costruire le distopie sociali all’intarno di molti film. Nella Città dei Lavoratori tutti gli edifici si assomigliano e hanno dimensioni nettamente inferiori rispetto a quelli del soprasuolo. Gli stessi lavoratori in uniforme sono identici gli uni agli altri. Gli edifici di ispirazione brutalista qui sembrano non avere alcun dettaglio, nessuna decorazione, vengono solo costruiti per pura necessità. Aleggia ovunque un senso di monotonia che si aggiunge alla sensazione di un ambiente disumano. Lo stile di vita della classe operaia è così rispecchiato nella banalità dell’ambiente urbano, in contrasto con l’abbondanza e le comodità delle classi superiori chiaramente rappresentate nei graziosi ma imponenti spazi urbani soprastanti.
(Sopra) Vista attraverso l’enorme stradone dell’edificio principale, la Torre di Babele, che si staglia imponente sulla città, diventando il centro dell’intera narrazione. (A sinistra) Una panoramica della città sopra il suolo, gli edifici in cemento di impronta brutalista si collocano gli uni affianco agli altri creando una sorta di piramide che culmina nella torre.
Thor, Kenneth Branagh, 2011
IL MONDO DI ASGARD L’utopia delle divinità (Sopra) Vista completa del regno di Asgard. (Sotto) Uno scorcio della città costituita da alte guglie e ponti di collegamento, in particolare il ponte Bifrost attraversa l'intero abitato e collega i nove regni.
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sgard fa parte dei Nove Regni ed è la patria degli Asgardiani, si trova nella distesa infinita dello spazio; vivere nello spazio significa imparare a guadagnare ciò che è necessario per sopravvivere. L’architettura dell’insediamento è progettata specificatamente per stare in orbita ed avere strutture in grado di soddisfare le mutevoli ed estreme esigenze. Il mondo è costituito da edifici molto complessi con delle guglie inserite al loro interno. Il collegamento a tutti e nove i regni è il ponte Bifrost. All’interno della città si trova il palazzo di Odino, circondato da statue e colonne disposte come canne di un organo. La cittadella di Asgard era una delle caratteristiche più importanti della serie Thor. Creato principalmente con software per computer, il regno di Asgard aveva dettagli architettonici intricati e la città stessa è stata influenzata dalla geometria frattale per creare un mondo di caos organizzato. Molte scene dei film presentano colonne decorative che prendono ispirazione dall’architettura greca. Dobbiamo ricordare che Asgard, la sua gente e la sua cultura sono presentate come eclettiche.
La tecnologia che usano è così avanzata che la maggior parte di noi non può distinguerla dalla magia, ma in realtà è solo il frutto di uno sviluppo tecnologico e scientifico. In Thor: The Dark World, vediamo armi energetiche e macchine antigravitazionali, simili rispettivamente a lance e barche. Quando si utilizza questo tipo di tecnologia, i moduli utilizzati riflettono le preferenze e la cultura delle persone. Ci sono diverse città nel mondo di Asgard: Skinngard è la città splendente, Svartgard è la città oscura di Jotunheim e Steinngard è la città di pietra. Le statue di Steinngard sono diverse dalle statue di Skinngard, quest'ultime sono enormi, dorate e lucenti, esse rappresentano figure di guerrieri, che spesso impugnano asce di metallo lucido, spigoli vivi completati da curve spezzate, indossano elmi secondo l’esplicita tradizione asgardiana dell’eccessivo ornamento. A volte compaiono teste di animali, attorno a un trono, in stile dell’Odinismo asgardiano. Troviamo luminarie d’oro scintillanti in tutta Asgard che illuminano le strade. In particolare ne vediamo una nelle prime scene del film. IL FUTURO CHE IMMAGINIAMO
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Oblivion, Joseph Kosinski, 2013
L’AVAMPOSTO ESTREMO Quando un pianeta diventa invivibile
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a visione avvincente di Joe Kosinski per l’architettura, la tecnologia e il mondo di Oblivion ha richiesto l’invenzione di un design unico basato sulla trama e il coordinamento di quel linguaggio tra gli artisti in tutto il progetto. Lo scenografo, Darren Gilford, ha fissato un livello estremamente alto per l’eccellenza del design e ha mantenuto un ambiente collaborativo molto stimolante nonostante la produzione del film a volte fosse disseminata in luoghi diversi. Andree Wallin ha creato centinaia di illustrazioni sviluppate nel corso di quattro anni che sono state fondamentali per definire l’atmosfera e l’aspetto generale del film. La maggior parte del lavoro di progettazione di Thom Tenery per Oblivion si è concentrato sullo sviluppo della Sky Tower. A Futuristic Modern Architecture Box – soprannominato Sky Tower – si libra sopra le nuvole nell’ambientazione surreale del film. La casa prende un’ovvia ispirazione dalla Stahl House dell’architetto Pierre Koenig. La casa ha alcuni evidenti miglioramenti con l’esteso eliporto sopra la piscina a sfioro in acrilico trasparente. Le fondamenta della casa sono su un’unica colonna incredibilmente sottile, che sembra non subire l'influenza del vento per l'intera durata del film. Quando si guarda la Sky Tower, non si può
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INSIDE UTOPIA
fare a meno di pensare alla somiglianza della struttura della casa Farnsworth di Mies van der Rohe, caratterizzata da linee orizzontali e verticali e dal suo sembrar fluttuare sopra il terreno. Il direttore Joseph Kosinski ha concepito il design della torre del cielo con i primi rendering di modellazione 3d che ha realizzato. Joseph Kosinski si è laureato in Architettura alla Columbia University e ciò spiega i forti elementi di design moderno nel suo lavoro. Kosinski ammette che il suo team di scenografi ha perfezionato le sue prime idee in una realtà compiuta. La casa ha un design nitido e pulito e le pareti di vetro prive di cornice si aprono automaticamente. L’aereo, chiamato Bubbleship, è un veicolo incredibilmente moderno e si adatta perfettamente alla casa. Il concept designer del veicolo è Daniel Simon. Sorprendentemente i progettisti hanno costruito un set completo della casa e del veicolo in modo che la cgi non fosse utilizzata per fabbricare gli scatti dettagliati. La Bubbleship è stata costruita da una società chiamata Wildfactory situata a Camarillo, in California. Il filmato dietro le quinte mostra la cura straordinaria e le tecniche di fabbricazione realistiche che sono state utilizzate per creare questa tecnologia fantascientifica.
(Sopra) La casa prende un’ovvia ispirazione dalla Stahl House dell’architetto Pierre Koenig. (Sotto) Una scena del film che mostra come la terra ormai sia priva di vita e gli unici edifici siano diroccati, ad eccezione di alcune strutture provenienti da fuori la terra.
The Giver, Phillip Noyce, 2014
L’UGUALIANZA NELLA SOCIETÀ Un risvolto distopico
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(Sopra) Il centro del mondo di The Giver è l’Odeon, una struttura simile ad uno stadio. Lo stadio Mandela di Cape Town è servito come prototipo per la costruzione dell’edificio centrale. (A destra) Scena del film che riprende dall’alto l’organizzazione della città e prevede che le abitazioni standardizzate siano disposte secondo un preciso schema.
prima vista, il mondo presentato in The Giver sembra un posto meraviglioso in cui vivere. Questa società pacifica esiste separatamente dal resto del mondo, in un momento imprecisato nel futuro. Inoltre, la società in The Giver si basa su una comunità utopica che fa parte di una visione più ampia, presumibilmente sulla Terra, ed è stata attentamente pensata alla perfezione. Utopia significa nessun luogo, il che suggerisce che le società ideali possono esistere solo nella letteratura o nell’immaginazione. La comunità si trova in una parte remota del continente, lontano dal resto della civiltà. Il centro del mondo è l’Odeon, una struttura simile a uno stadio in cui le persone si riuniscono e si trova al centro della comunità. C’erano molti progetti per l’Odeon a cupola, ma i creatori cercavano di trovare la giusta combinazione di realtà architettonica e fantasia. Lo scenografo Ed Verro ha avuto un’enorme influenza sull’aspetto del mondo e gran parte del nostro progetto finale si è basato sui suoi disegni e sulle decorazioni dei locali pubblici. Lo stadio Mandela di Cape Town è servito come prototipo per la costruzione dell’edificio centrale.
Una scala costruita dal lato dell’Odeon conduce direttamente al ponte di osservazione, dove le persone possono vedere la nebbia in tutto il mondo. Diverse location per The Giver sono state girate vicino al confine namibiano in Sud Africa, in una località chiamata Augrabis National Park. Tornando al tema dell’uguaglianza nella società, vale anche la pena menzionare esattamente le stesse abitazioni in cui vivono gli abitanti della città: esse sono costituite da blocchi separati dello stesso colore, l'interno è costituito da soggiorno e camere da letto. La stanza contiene solo il minimo indispensabile, nessun decoro o deviazione dalla norma, niente specchi e serrature solo mobili standard. Tutto rispecchia la vita delle persone all'interno delle case.
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I guardiani della galassia, James Gunn, 2014
IL PIANETA XANDAR L’utopia spaziale
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ames Gunn ottiene un vero successo di pubblico e critica con la realizzazione del film nell’universo Marvel, realizzato nel Regno Unito e filmato in gran parte su set spettacolari costruiti agli Shepperton Studios, a sud-ovest di Londra nel Surrey. Il più grande dei set era il Kyln: la prigione spaziale in cui i protagonisti Quinn, Rocket, Gamora, Groot e Drax vengono raggruppati insieme, prima di unire le forze per diventare i Guardiani. L'intero set è stato costruito su tre livelli, utilizzando cento tonnellate di acciaio; in seguito è stato proposto più volte per diverse finalità, tra cui diventare il museo di cose straordinarie di un collezionista. Il set per il pianeta di Xandar era solo la base per un gigantesco ambiente virtuale, ispirato al lavoro dell’architetto spagnolo Santiago Calatrava, in particolare alla monumentale stazione ferroviaria di Liegi-Guillemins in acciaio, vetro e cemento bianco. Calatrava, a tal proposito, ha anche progettato il fiammeggiante Padiglione Quadracci del Milwaukee Art Museum, che è stato usato come galleria d’arte automobilistica nel film Transformers: Dark Of The Moon da Dylan Gould. Ma questi set e le immagini digitali traggono ancora vantaggio dall’essere radicati in un mondo solidamente credibile.
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Nella scena del film in cui la nave da guerra Dark Aster di Ronan the Accuser minaccia di schiantarsi sulla superficie di Xandar, la folla in preda al panico fugge lungo la passerella sopraelevata, che i londinesi potrebbero benissimo riconoscere come il Millennium Footbridge, che attraversa il Tamigi collegando le attrazioni della South Bank con la Cattedrale di St Paul e la città. Soprannominato il “ponte traballante” quando è stato aperto per la prima volta nel 2000, a causa della sua tendenza a oscillare in modo snervante, è stato rapidamente chiuso poichè violava le norme di sicurezza, finché non è stato riaperto dopo averlo stabilizzato. Ci sono anche un paio di posti iconici alla periferia della capitale. L’ospedale, in cui il giovane Peter Quinn dice addio alla madre morente prima di essere portato a una nuova vita nello spazio, è l’Hemel Hempstead Hospital, a nord-ovest di Londra nell’Hertfordshire. Mentre nel Surrey, precisamente a Tilsey Farm, Horsham Road, Bramley, troviamo i campi verdi ondeggianti, dove Yondu lancia le sue frecce controllate attraverso il suo fischio dopo che la sua nave spaziale è stata abbattuta.
(Sopra) Una scena del film riprende dall'alto il pianeta Xandar nella sua interezza. (Sotto) La grande stazione aerospaziale di Xandar trae ispirazione dal lavoro dell’architetto Santiago Calatrava, in particolare alla stazione ferroviaria di Liegi-Guillemins in Belgio, costruita in acciaio, vetro e cemento bianco.
Valerian e La città dei mille pianeti, Luc Besson, 2017
STAZIONE ALPHA Il pianeta città
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l film è basato su una serie di fumetti intitolata Valerian and Laureline, scritta e illustrata dai grafici Pierre Christin e Jean-Claude Mézières, che amalgama elementi di fantascienza classica, opere spaziali e viaggi nel tempo. La pellicola prende però ispirazione anche da una precedente sceneggiatura di Besson intitolata il quinto elemento, dove taxi volanti sfrecciavano tra le vie di una New York futura. In Valerian e La città dei mille pianeti una stazione spaziale si è lentamente espansa diventando una vera e propria città. La metropoli Alpha, situata nel XXVIII secolo è una città in continua espansione dove specie diverse condividono culture, conoscenze e intelligenze. Un luogo che fa da crocevia per tutte le civiltà, dove si incontrano società provenienti da più di mille pianeti, compresa tra questi anche il pianeta terra. Per soddisfare tutte le specie che ci abitano, Alpha contiene ambienti diversi, strutture mutevoli dai colori pulsanti ed esotici. Il potere è in mano agli umani che
stabiliscono regole e gestiscono tutte le comunità. L’architettura che diventa scenografia è un elemento fondamentale del film che permette allo spettatore di conoscere e capire meglio la trama, ogni specie si colloca all’interno di una specifica architettura, in Alpha ogni razza costruisce un proprio segmento che collega la stazione al proprio mondo, ogni ambiente è adattato alle esigenze specifiche degli abitanti, il filo che le accomuna tutte è però l’utilizzo di materiali futuristici ad alta tecnologia. Il messaggio che si legge tra le righe è quindi un messaggio utopistico di una società che non fa distinzioni, dove tutti sono unici e non sostituibili: indispensabili. Un mondo dove dove ogni società ha il suo stile e le sue caratteristiche, che si riflettono quindi anche nel modo di vivere e quindi sulla forma stessa dell’architettura. Un film che non basa la sua forza su trama, personaggi o azione ma su ambientazioni e scenografie che diventano protagoniste. le ambientazioni inoltre sono originali e innovative, scostandosi così da un futuro ormai vecchio e già saturo di molti altri film.
(A destra) La metropoli intergalattica Alpha, dove diverse civiltà convivono in armonia, condividendo la stazione spaziale che diventa un esplosione di stili architettonici, ma che purtroppo non lascia spazio a nessun tipo di ambiente naturale. IL FUTURO CHE IMMAGINIAMO
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Blade Runner 2049, Denis Villeneuve, 2017
LA CITTÀ DI LOS ANGELES All’estremo di una globalizzazione
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n classico degli anni ‘80 che mostra la città di Los Angeles sotto un’atmosfera fantascientifica che cerca di plasmare lo spazio urbano, prende spunto dall’architettura della città di Hong Kong, richiamando però anche la visione futuristica delgli artisti Sant’Elia e Moebius. Responsabile dello sviluppo di questa visione distopica sono il designer Syd Mead e Rydley scott. Per ricreare la città di Los Angeles sono state usate però tecniche prettamente analogiche. Manifestazione di una globalizzazione incontrollata e aggressiva che si ripercuote sulla città, gli imponenti grattacieli sorgono su una metropoli in macerie. Un futuro immaginato ma che suggerisce un avvenire di guerre razziali e un instancabile avanzamento a discapito dei valori umani. Un paesaggio che ha raccolto i peggiori effetti del nostro modello economico, che vive in uno stato di degrado e che favorisce la costruzione di mega strutture a discapito dei sobborghi che vengono, invece, spazzati via dalle industrie. Il paesaggio urbano di Blade Runner 2049 è stato fortemente influenzato da forme brutaliste. Ma la società iper-capitalista in cui si svolge il film è completamente in contrasto con la filosofia di fondo dello stile.
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Questa associazione brutalista è però del tutto intenzionale. In un’intervista per Variety, il direttore della fotografia di Blade Runner 2049, Roger Deakins ha spiegato che molta dell’architettura brutalista a Londra è diventata la chiave dell’intero film. Si voleva che fosse brutalista, che riprendesse e richiamasse quella severa architettura in cemento iniziata proprio durante gli anni ‘50. Guardando il film, però, emerge un problema nell’applicazione di questo particolare stile: la società estremamente capitalista e le scene poco popolate all’interno di tutta la trama contraddicono le intenzioni socialiste originali degli architetti del movimento brutalista, il cui punto centrale era sulla crudezza materiale e l’onestà al fine di creare una ipotetica e ideale forma di abitazione.
(Sopra) Skyline della città di Los Angeles nell’anno 2049, dopo che una bomba sporca è caduta sulla metropoli devastandola. (Sotto) Molte scene sono state girate nei dintorni di Budapest, all’interno della città tutto il grigio del cemento è acceso da spot pubblicitari illuminati con luci al neon che creano un sottofondo biancastro in tutta la città.
(A destra) L’architettura di Blade Runner 2049 si ispira alla città di Hong Kong, intrecciandola a quella che nasce nelle pagine di Moebius all’interno del fumetto The Long Tommorrow e dagli schizzi della Città Nuova progettata dall’architetto Sant’Elia appartenente al futurismo.
La periferia della città è piena di pubblicità al neon. Slogan e icone sfumano in un rumore bianco, combattendo contro la scarsa attenzione che il personaggio principale, dall’aspetto decisamente cupo, gli da, è la figura del consumatore perfetto, solitario e individuale. Una singola società domina questo paesaggio urbano, la Wallace Corp. Guidata dall’oscuro industriale Niander Wallace, la società sembra aver stabilito un monopolio sull’agricoltura sintetica, ed a causa del collasso degli ecosistemi del mondo, anche sull’approvvigionamento alimentare dell’umanità. Man mano che la trama procede, è chiaro che questo potere ha offerto a Wallace l’opportunità di agire come se fosse completamente libero dallo stato di diritto. Il governo appare solo come strumento di controllo, nella forma della polizia di Los Angeles, mentre la mancanza di servizi sociali è sottolineata dalla quasi totale assenza di famiglie e, soprattutto, di bambini. In effetti, gli unici bambini che vediamo nel film sono emarginati, condannati a lavorare in un’officina del lavoro minorile fuori dai confini della città. Una metropoli che a causa di una bomba sporca scaricata sugli edifici di Los Angeles ben cinquant’ anni prima è diventata uno dei luoghi più tossici della terra.
La maggior parte del film è stata girata su set cinematografici dentro e intorno a Budapest. Gli eleganti uffici all’interno della Wallace hanno preso ispirazione dal giappone, pavimenti e pareti sono infatti state rivestite in un legno simile a quello usato negli antichi templi che lo scenografo aveva visitato mesi prima. Sarà proprio da questi pavimenti che prenderà spunto per il nuovo sistema di sicurezza di Wallace, i parquet schicchiolanti del giappone usati come vero e proprio allarme sono stati inseriti anche nel film con l’aggiunta di una pozza d’acqua che amplificherà i suoni. Poiché Metropolis e Blade Runner 2049 lavorano su temi simili, un confronto tra loro sembra appropriato, i due film infatti condividono un senso di gigantismo urbano e di forma geometrica. Mentre la Nuova Torre di Babele domina lo skyline di Metropolis, è la piramide del quartier generale della Tyrell Corporation che funge da nucleo della città. La presenza dell’edificio evoca un forte senso di potere finanziario, come per Metropolis rivela la struttura di classe attraverso la sua architettura verticale. Molteplici sono le fonti di ispirazione, tra le tante non bisogna dimenticare il fumettista Moebius che con le sue ambientazioni tenebrose ha contribuito all’ideazione di questo mondo. IL FUTURO CHE IMMAGINIAMO
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Black Panther, Ryan Coogler, 2018
IL REGNO DI WAKANDA L’utopia afro futuristica
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’eclatante civiltà utopica nel film della Marvel Black Panther è Wakanda. Wakanda è un immaginario paese dell’Africa, che vanta una tecnologia incredibilmente avanzata grazie ad un potente metallo fittizio noto come Vibranio. È una visione futuristica di ciò che il popolo africano avrebbe potuto creare in assenza di invasioni. Wakanda, apparso per la prima volta nel numero 52 del fumetto Marvel Fantastic Four pubblicato il 1° luglio 1966, è stato poi ripreso in diversi film della Marvel, diventando infine protagonista nel film Black Panther. La costruzione dell’intero regno è stata opera del lavoro della scenografa designer Hannah Baechler e del suo team. Non hanno solo ricreato un paese dei fumetti per il film di Ryan Coogler, ma l’hanno portato in vita. Nella sua realizzazione hanno ben tenuto a mente di creare una società che non sembrasse una fantascienza eccessivamente extraterrestre, ma che rappresentasse uno sviluppo tecnologico da parte dell’uomo anticipato di almeno 50 anni. Al Regno di Wakanda viene addirittura trovata una collocazione nell’Africa Centrale, che venne via via cambiata nel corso dei suoi precedenti fumetti e film, fino a stabilirsi con il film Black Panther, in un luogo reale sito vicino al Lago Turkana, al confine con Uganda, Kenya, Etiopia e Sud Sudan. La nazione africana è stata protetta e nascosta per generazioni, celata alla vista
di tutti i non Wakandiani attraverso uno speciale scudo olografico. Per trovare il look di Wakanda, Beachler e il suo team hanno esplorato la cultura, i paesaggi e il design africani per fonderli con una tecnologia all’avanguardia. Wakanda è la realizzazione dell’utopia panafricana, nella quale le varie tribù si conciliano in un unica nazione mantenendo i loro individualismi. La capitale di Wakanda è Birnin Zana, chiamata anche la Città d’oro; è divisa in diversi quartieri, tra cui Step Town, la zona residenziale e la Città dei Morti, una vasta necropoli dove sono sepolti i Wakandiani defunti. La cosa sorprendente dell’architettura di questa città utopica è che nella sua evoluzione sia rimasta saldamente radicata alle origini. Tecnologia e natura non sono (Sopra) Una scena importante del film mostra le strade popolari del regno. (A sinistra) I colori e le forme degli edifici fanno riferimento al villaggio di Tiebele del popolo Kassena in Burkina Faso e al villaggio Dogon a Mali.
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INSIDE UTOPIA
(A destra) Gli edifici di Wakanda sono stati ideati dalle tradizionali strutture architettoniche presenti in Africa. Possiamo distinguere alcuni elementi e forme degli edifici. (Sotto) Da sinistra a destra vediamo i profili da cui prendono ispirazione: le capanne alte del popolo Musgum a Camerun settentrionale, le case Ginnas del popolo Dogon a Mali, i granai dello stile Ghorfa a Maghreb, le abitazioni Zulu Kraal in Sud Africa e la già citata moschea di Timbuktu.
in conflitto, ma convivono e si fondono per creare qualcosa di unico. Wakanda è stata costruita sulle tradizioni architettoniche vernacolari e sociali, e sulle edilizie antiche di case e di strutture religiose. Negli edifici rivediamo le architetture africane realmente esistenti: i grandi grattacieli rotondi si ispirano alle moschee di Timbuktu e le piramidi di Mali. Ritroviamo la tradizione anche lungo le strade, ricche di bancarelle con i prodotti tipici, negli edifici dipinti con colori vivaci, che si ispirano al villaggio di Tiebele del popolo Kassena in Burkina Faso. L’architettura inoltre viene influenzata dai lavori dell’architetto Zaha Hadid per l’organicità e la forma curvilinea, che utilizza questi elementi per creare un ambiente biomimetico e confortevole per l’uomo. La grande sfida di Baechler era di creare spazi intimi in un film di supereroi, dove tutto è enorme e maestoso, di portare quindi l’intimo su larga scala, ciò che
Zaha Hadid realizza nel mondo reale, le sue strutture sono enormi, ma non si sente quella dimensione come qualcosa di irraggiungibile ed estranea. Gli ambienti sono resi accoglienti tramite piccoli accorgimenti: pareti che sembrano un ibrido di corteccia d’albero e pietra, scale a chiocciola ed elementi naturali. La concezione dell’innovazione tecnologica non è in contrasto con la natura e la tradizione, essa funge da supporto, non da sostituzione e continua a comunicare con l’aspetto più umano delle persone. Diverso quindi da un immaginario di futuro, che vede l’uomo sottomesso all’intelligenza artificiale, come spesso avviene nelle visioni distopiche del cyberpunk, dove l’uomo si trova a lottare contro la macchina per la sua sopravvivenza. In conclusione, Wakanda è il sogno di un'utopia che concilia una cultura antica con una tecnologia mai vista prima in modo davvero originale.
IL FUTURO CHE IMMAGINIAMO
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IL FUTURO DISEGNATO
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l fumetto è la cartina di Tornasole che ci rammenta il possibile o ci fa sognare l’impossibile senza sottrarci alla capacità di critica del reale. Nell’ambito dell’architettura attraverso l’immaginazione vediamo luoghi altrimenti invisibili, utilizziamo percezioni, segni, colori, che tramite il disegno diventano sostanza architettonica. Pur partendo da presupposti differenti, il mondo dell’utopia architettonica, stimolato dall’idea di migliorare la società contemporanea, sfiora gli ambiti della fantasia attraverso l’idealizzazione di luoghi non esistenti in grado di sviluppare una visione positiva e lineare dell’architettura. A sua volta, la città dei fumetti, rispetto a queste raffigurazioni che propongono un modello urbano concentrato sul linguaggio dell’architettura portato ai suoi estremi, è quella che, per la sua natura di immagine disegnata, ha meglio saputo evidenziare e comunicare gli aspetti fantastici dell’architettura, proponendone anche elementi innovativi. Qui, pur nella finzione, l’oggetto architettonico riacquista il suo rapporto con chi lo abita, diventa spazio dinamico e modello urbano in bilico tra realtà e utopia. Le ambientazioni di fantasia 266
INSIDE UTOPIA
dei fumetti creano mondi alternativi dall’architettura concreta in grado di influenzare l’immaginario anche di altri media come il cinema, la letteratura e della stessa architettura. Tra architettura e fumetto, più che di una semplice affinità, si tratta infatti di influenze reciproche. Ambedue convergono, tramite i loro percorsi e le loro opere, verso un obiettivo comune: la visione della città. Il fumetto diventa mezzo per scrutare la realtà e le metamorfosi della città contemporanea e per decifrarne i futuri sviluppi. D’altronde vi è una profonda affinità tra l’architetto e il disegnatore di fumetti: ambedue disegnano architetture non esistenti, provano diverse soluzioni, esercitano l’arte di costruire scenari urbani attraverso cui raccontare la città, condividono la stessa memoria e lo stesso immaginario architettonico. In conclusione, possiamo affermare che un fumetto ci permette di vedere un futuro sia positivo che negativo, così come il cinema funziona in entrambe le direzioni, ma a differenza del cinema, possiamo guardare a lungo le immagini dell’architettura, e per un artista è un’opportunità per mostrare l’intero spettro della sua immaginazione.
(A sinistra) La città che prende forma nel fumetto The Long Tomorrow diventa mezzo per scrutare la realtà e le metamorfosi della città contemporanea e decifrarne i futuri sviluppi. Un personaggio si affaccia tra grattacieli dalle forme familiari e macchine volanti super futuristiche, a indicare che, anche se il futuro sarà diverso, rimmarrà sempre qualche traccia del presente.
Jean Giraud (Moebius)
LE METROPOLI SOTTERANEE
Un realismo straniante in un futuro lontano
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ean Giraud, in arte Moebius, è stato un fumettista francese considerato uno dei maestri del genere fantastico e fantascientifico, le cui opere hanno influenzato la storia del cinema, del fumetto e della letteratura. Un’intera vita dedicata a dare forma alle nostre visioni del futuro, in cui The Long Tomorrow rappresenta uno dei punti più alti. Una storiella noir nella quale c’è di tutto: città sotterranee composte da un numero infinito di livelli, auto alla Virgil Exner volanti, robot antropomorfi, creature disgustose. Siamo in un universo lontanissimo, ma piccoli particolari lo rendono familiare, come lo sferragliare dei suoi mezzi pubblici, l’odore della folla, la sporcizia agli angoli delle strade sono quelli di New York, Parigi o Milano.
«Moebius è stato un grande precursore di una fantascienza ruvida e realistica. Prima di Moebius, la fantascienza era costituita solo da astronavi scintillanti» dice Kim Thompson di Fantagraphics. I popoli futuri di The Long Tomorrow vivranno anche in capolavori di ingegneria architettonica, ma ai cui margini continueranno a sorgere baraccopoli. Le macchine voleranno, ma la gente si ubriacherà, andrà a prostitute e finirà comunque in giri loschi e malavitosi. La sua volontà di unire punti lontani tra loro – etnici, temporali, culturali – come se non esistessero più distanze rimane ancora uno dei fondamenti della fantascienza contemporanea e al contempo una visione lucida sul domani che verrà.
(A destra) La visione urbana di Ter 21 in The long Tomorrow di Moebius. La città si sviluppa all’interno della fenditura del pianeta su vari livelli discendenti, incrociando una ragnatela infrastrutturale di sopraelevate, scale e ascensori, in uno spazio urbano caotico e aggrovigliato. Ci sono grosse pubblicità, ponti sospesi, gente a spasso su balconi protratti sul vuoto. Si tratta chiaramente di una realtà sovrappopolata, come una megalopoli sviluppata in verticale. IL FUTURO CHE IMMAGINIAMO
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François Schuiten e Benoît Peeters
LE CITTÀ OSCURE
L’architettura diventa allegoria
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li autori Francois Schuiten e Benoit Peeters nella serie di fumetti Le Città Oscure hanno creato città ideali di un universo fantastico e distopico, le cui diversificate architetture servono a comunicare le caratteristiche delle città e come esse vogliono mostrarsi all’esterno. Le Città Oscure è ambientato su una contro-Terra, un pianeta simile al nostro che esiste esattamente sul lato opposto del sole, le città sono versioni delle nostre, ma sono governate da architetti, dunque l’architettura diventa la forza trainante del mondo. Costruiscono ogni nuovo spazio urbano secondo progetti distinti e ideali utopici, ma portati a estremi stimolanti. L’architettura diventa allegoria. Le vite dei loro personaggi sono spesso dominate, perfino sopraffatte, dalle straordinarie psyco-architetture ove sono costretti
ad abitare. L’organico lega la città con l'uomo e l’ambiente lo costruisce, lo rivela o lo distrugge. La serie de Le Città Oscure pone in primo piano i temi dell’architettura e dell’urbano. Non stupisce dunque che esse siano un riflesso immaginario del mondo reale sospeso in una sorta di futuro anteriore dai confini ampi e sfumati, in cui si fondono estetica Art Noveau, suggestioni rétro e visioni utopiche di ogni epoca. Un senso del meraviglioso che investiva molteplici aspetti della realtà, primo tra tutti quello dell’architettura e della pianificazione urbana, e che si è ormai irrimediabilmente perduto. L’architettura totalizzante è d’altronde una caratteristica peculiare di tutte Le Città Oscure, infatti Schuiten e Peeters vogliono tratteggiare è un’utopia imperfetta, nel quale l’architettura è assoluta.
(A sinistra) Due particolari de Le Città Oscure mostrano come l'architettura sia diversa e diviene allegoria della propria città. Ogni nuovo spazio urbano è costruito secondo progetti distinti e ideali utopici, ma portati a estremi stimolanti. 268
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Nihei Tsutomu
L’ARCHITETTURA IN BIANCO E NERO Il cyberpunk nei manga (A destra) Due vignette del fumetto Blame! mostrano come l’ambientazione è ricoperta da tubi, fili, travi, pilastri e le strutture urbane appaiono come componenti biologiche di un corpo che è la città stessa. L’architettura esprime la perdita di controllo sulla città da parte dell’uomo.
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l cyberpunk è un sottogenere della fantascienza in un contesto futuristico distopico che tende a concentrarsi su una combinazione di low life e high tech, mostrando una tecnologia avanzata, giustapposta ad un cambiamento radicale nell’ordine sociale. Le città appaiono costruite in serie e la loro grandiosità e freddezza provoca un’inquietudine che esprime la perdita di controllo sulla città da parte dell’uomo.Questa visione distopica del futuro è la protagonista dei manga del fumettista giapponese Tsutomu Nihei. I suoi ambienti riflettono le trasformazioni dell’architettura contemporanea, influenzate dall’elettronica e dalla digitalizzazione, in cui il confine tra reale e virtuale diventa sempre più sottile. Lo spazio, come lo conoscevamo, si trasforma in entità amorfa e viva, non più catalogabile e in continua trasformazione, dove la meccanizzazione della città
appare, come connubio di distopia, disumanizzazione e distorsione della realtà. La città dell’avanguardia fondata sull’ottimismo verso il progresso e la meccanizzazione, si rivela in contrasto con ogni umanità e sentimento, dove l’individuo appare come una pedina in mano a giochi più grandi. In particolare il suo fumetto Blame! è ambientato in un futuro lontanissimo, in una mega struttura che è arrivata ad inglobare quasi l’intero sistema solare, chiamata semplicemente La Città. La Città è interamente automatizzata, ma l’umanità ne ha da tempo perso il controllo. L’intelligenza artificiale governa sui Costruttori, su internet, e soprattutto sui sistemi di sicurezza, ora ostili agli umani. Priva di controllo, La Città cresce senza limiti, separando in livelli impenetrabili e isolati le ultime frange di umanità e creature transumane. IL FUTURO CHE IMMAGINIAMO
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