l'Unità Laburista - 'A mazzàt' 'ncuoll - Numero 24 del 30 novembre 2019

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Numero 24 del 30 novembre 2019

‘A mazzàt’ ‘ncuoll


Sommario 

L’EDITORIALE/Sardine For Future. Il ritorno del Movimento Giovanile mondiale - pag. 3 di Fabio CHIAVOLINI

Lo tsunami delle Sardine - pag. 9 di Aldo AVALLONE

Sardine libanesi - pag. 13 di Umberto DE GIOVANNANGELI

Gli scioperi operai in Italia dal marzo 1943 all’aprile 1945 - pag. 21 di Giovan Giuseppe MENNELLA

Scarpette rosse - pag. 28 di Antonella GOLINELLI

Sebbene che siam donne paura non abbiamo - pag. 31 di Antonella BUCCINI

La CGIL, Landini e il Mezzogiorno - pag. 34 di Raffaele FLAMINIO

C’è del rosso in Gran Bretagna - pag. 43 di Aldo AVALLONE

Introfada. La rivolta del militante introverso - pag. 46 di Giovam Giuseppe MENNELLA

Un mare di pesce azzurro - pag. 51 di Antonella GOLINELLI 2


Politica

Sardine For Future. Il ritorno del Movimento Giovanile mondiale Fabio CHIAVOLINI

È un po’ che non scrivo per l’Unità Laburista. Da membro del Comitato che ne è editore, preferisco non sovrappormi all’elaborazione dei giornalisti e dei blogger della Testata. Oggi, però, voglio provare a tirare una prima, provvisoria e propositiva linea sotto gli eventi delle ultime settimane, come semplice contributo alla discussione. In origine fu il movimento No Global: in realtà, il movimento fu pienamente glo3


bale ma volle tentare di portare l’agenda dei potenti del mondo sulle necessità della stragrande maggioranza degli abitanti del pianeta, che viveva e vive un’esistenza eminentemente “local”, nella totale impossibilità di seguire le piroette globali del capitale e delle opportunità di lavoro - e, di conseguenza, necessita di tutela sociale, sanitaria, psicologica e dei propri diritti di cittadinanza democratica. Il movimento, che godette di un notevole successo in Italia e fu un momento di rinascita della società civile, intendeva promuovere la democrazia diretta e partecipativa, promuovere il consumo critico e lo sviluppo sostenibile, il pacifismo, l’ambientalismo e l’antiproibizionismo. Lasciamo perdere il mondo, per un attimo, e concentriamoci sul nostro Paese. Dopo la fiammata d’inizio anni ‘2000, il movimento incominciò a dividersi in spezzoni “verticali” (ah! il frazionismo, male oscuro italiano non solo a Sinistra). Alcuni si concentrarono sui temi della democrazia diretta e partecipativa: da quello spezzone nacquero i Meetup, l’embrione del Movimento Cinquestelle degli esordi, quello che parve a molti l’ennesima “costola della Sinistra” e che finì, poi, in un colossale spreco di risorse d’attivismo politico ed in un compostaggio malriuscito dell’idea - in sé non malvagia - della democrazia partecipativa (quella “diretta”, purtroppo, spesso nasconde in sé i semi della “dittatura della maggioranza”). La parte interessata al consumo critico ed allo sviluppo sostenibile diede la stura alla stagione dei Gruppi d’Acquisto Solidale, delle Banche del Tempo, Alimentari, del Farmaco, ecc., a tutto il filone delle aziende “bio” nonché alla pratica del “chilometro zero” e quant’altro: essendo la parte del movimento più legata a temi “ad immediato impatto economico”, fu la prima a venire riassorbita dalle logiche del mercato, finendo per rappresentare la “faccia pulita ed etica” del “capitalismo 4


dell’economia reale” che, se raffrontato al super-liberismo finanziario, sembra quasi “i Soviet più l’elettrificazione” - ma lo sembra solo. La parte pacifista, finite le grandi guerre di W. e schiacciata dalla retorica delle Torri Gemelle, fu forse quella ad avere maggiormente la peggio: senza più un vero nemico, condannata a rincorrere guerre che si svolgono in notti dove quasi tutti i gatti sono grigi, fu e resta quella più in difficoltà. Per capirci: se è facile sostenere il Rojava contro l’Isis e la Turchia, come la mettiamo tra Turchia e Siria? E tra signori della guerra somali o libici? La parte pacifista, alla fine, fu costretta a rinchiudersi in una specie di ecumenico e globale “volemose bene”: non è un caso se, oggi, la leadership del pacifismo è saldamente in mano alle organizzazioni cattoliche. Dell’antiproibizionismo che parliamo a fare? Ha stravinto a livello di cultura popolare: si calcola che faccia uso di droghe leggere e “bio” il 95% dei giovani ed il 55% degli adulti, mentre le droghe sintetiche pesanti sembrano essere appannaggio di un bel 50% dei giovani e del 25% degli adulti (per non parlare degli “utilizzatori atipici” dediti al bungee drinking e alle smart drugs). Nei fatti, “farsi” è ormai accettato socialmente tanto quanto il bere due bicchieri in più: dove resistono legislazioni proibizioniste è perché è interesse delle mafie che, dove le sostanze psicotrope che commerciano vengono legalizzate, vedono polverizzarsi oltre tre quarti del loro giro d’affari. L’ambientalismo è quello che ha avuto la maggior fortuna politica e mediatica: con 5


l’intensificarsi dei cambiamenti climatici e l’aumento degli eventi estremi, l’ambientalismo è diventato istituzionalmente ecologismo. Non difesa dell’ambiente come motivo ideale, quindi - ma come vera e propria necessità di sopravvivenza della specie, prima ancora che del pianeta: supportato niente male anche da grandi concentrazioni di capitali e da personaggi pubblici di spessore mondiale, l’ecologismo è diventato un must, ormai, pure per Briatore. Che c’entra questa disamina della diaspora del movimento No Global con l’oggi, direte voi? Vedete: da alcuni mesi è cambiato qualcosa, a livello globale. Proprio mentre sembrava che i sovranisti ed i populisti fossero ormai padroni incontrastati della scena politica mondiale, in Giappone, Corea, Cina, Indonesia, Thailandia, India, Iran, Iraq, Siria, Libano, Israele, Palestina, Egitto, Turchia, Russia, UE, USA, Canada, Messico, Sud America, Nuova Zelanda, Australia - insomma, ovunque sono tornate in piazza immense folle di giovani: prima per i Fridays For Future e poi con più ampie istanze sociali, politiche, democratiche, antifasciste. Non è un caso che in tutte le piazze e le lingue del mondo risuoni “Bella Ciao”, diventata la canzone identitaria di un movimento che, ormai, non è “globale” ma mondiale. I giovani di tutti il mondo, posti con le spalle al muro e con una pistola puntata alla tempia, hanno deciso di porre in atto una Resistenza: spontanea ma unitaria, senza capi ma organizzata, disperata ma ottimista, non violenta ma decisissima. La convergenza di ieri (seppur parziale) del Movimento delle 6000 Sardine e dei Fridays For Future in Italia, come già accaduto in altri Paesi del mondo, sana una 6


frattura storica: ora esiste di nuovo un unico Movimento che chiede una democrazia partecipativa, un mondo a misura d’uomo e non di consumatore dove la sostenibilità venga prima della “crescita”, pace, cura dell’ecosistema e libertà dai fascismi, dal liberismo e dall’odio. Le

stesse

parole

d’ordine

di

vent’anni

fa,

in

maniera

però

meno

“rivoluzionariamente arrabbiata” e più “pacificamente rivoluzionaria”. Chi pensa che le 6000 Sardine e i Fridays For Future balleranno per poco commette un errore sesquipedale. Gli FFF combattono una battaglia per la sopravvivenza della specie: non è una sfida dalla quale si torna indietro. Stesso si dica per le Sardine: la loro è una dichiarazione di guerra di Resistenza a fascismi, sovranismi, razzismi, sanfedismi. È un’altra battaglia per il loro e nostro futuro. Anche dalla Resistenza non si torna indietro: o si vince o si vince. Si dava per assunto che i “giovani” fossero ormai fuori gioco, che non avessero più nessuna voce in capitolo. E - invece e come sempre - la Storia ti spiazza. Anche perché, come dicevamo, il movimento è mondiale. In tutto il pianeta i giovani si sono risvegliati e non vogliono il “potere”: vogliono cambiare la società. La dirò più grossa: vogliono cambiare il Mondo, renderlo un posto più giusto, libero ed eguale. Senza dogmi, senza “scienza politica”: con la forza della ragione, dei bisogni e dei diritti. 7


I potenti dovrebbero saperlo: quando si sollevano contemporaneamente e con decisione i giovani di tutto il mondo, a prescindere dal potere al comando, non ci si può opporre: è un’onda che tutto spazza. I giovani non fanno mai calcoli: vogliono ciò che è palesemente giusto, lo vogliono tutto e, soprattutto, subito. E trascinano con sé anche i più attempati, i più prudenti, quelli che parevano rassegnati. Prevedo tempi bui per autocrati, poltronisti, mediocrati, imbonitori, furbi e compagnia cantante. In Italia abbiamo le Sardine ed i “gretini”, come i cretini di ogni colore li hanno ribattezzati. Bene: per quel che conta, io sono con loro tutta la vita. Perché sono antifascisti e non violenti. Perché vogliono un futuro - e lo vogliono ora, qui e subito. Perché ci credono. Perché sono meravigliosamente spontaneisti, confusi e situazionisti. PERCHÉ HANNO RAGIONE. Alla politica cercare di dargli una risposta: se no, state certi, se la daranno da soli. Guardate la copertina di questo numero della nostra Testata: è una “cover news” che mostra le sardine a Piazza Dante, a Napoli, in questo preciso momento. La “grande prole” del mondo si è mossa. L’Italia non si lega. Il Mondo non si lega. 8


Politica

Lo tsunami delle Sardine Aldo AVALLONE

I giovani (e i meno giovani) che scendono in piazza sono sempre un bel vedere. Nel giro di poche settimane le nostre cittĂ hanno visto dapprima i cortei del movimento per il clima e poi le Sardine. Se le manifestazioni ispirate da Greta avevano poca o nulla caratterizzazione politica, quelle di questi giorni si contraddistinguono per una chiara connotazione antifascista e anti leghista. Il primo appuntamento a Bologna è stato convocato per contrastare, anche sul piano simbolico, la manifestazione della Lega che, per l’apertura della campagna elettorale in Regione Emilia, aveva riempito il Pala Dozza di 5.700 militanti, giunti con i pullman da tutto il 9


Nord Italia. Ebbene, quattro ragazzi: Mattia Santori, Roberto Morotti, Giulia Trappoloni e Andrea Garreffa hanno deciso di convocare un flash mob in piazza Maggiore, chiedendo ai bolognesi di superare il numero dei leghisti “asserragliati” nel palazzetto dello sport. Quella sera, in piazza erano in dodicimila. Il lunedì successivo, a Modena, oltre seimila persone hanno riempito piazza Grande in occasione di un’altra manifestazione leghista. Da lì, il movimento ha spiccato il volo. Decine e decine di altre piazze in tutto il Paese si sono riempite e si riempiranno nei prossimi giorni in nome di una protesta pacifica e civile contro il clima d’odio che la propaganda salviniana ha instaurato nel Paese. Non è ancora chiaro quello che succederà nei prossimi mesi, ma ciò che già appare evidente è che sia accaduto qualcosa d’importante. Un macigno è piombato all’improvviso a squassare le acque paludose in cui navigava la politica nazionale. Nel silenzio perplesso e omertoso dell’informazione, le onde si stanno propagando in maniera prepotente e sommergeranno come uno tsunami il muro dell’indifferenza mediatica. Un primo risultato è già stato raggiunto: dimostrare che il popolo non è affatto con il leader leghista, come la propaganda continua della “Bestia” ha cercato di far credere in tutti questi mesi. Grazie alle Sardine, oggi nel Paese cresce la consapevolezza che la Lega si può sconfiggere, in Emilia il prossimo 26 gennaio, e in tutto il resto del Paese. Dopo Bologna e Modena ci sono state e ci saranno Sorrento, Palermo, Reggio Emilia, Perugia, Rimini, Parma, Napoli, fino alla manifestazione di Roma del prossimo 14 dicembre dove è prevista la partecipazione di oltre centomila persone che riempiranno come ai bei tempi piazza San Giovanni. Nessun movimento, soprattutto se investe migliaia e migliaia d’individui, può nascere dal nulla. Le Sardine non hanno fatto altro che intercettare un bisogno sopito che, pur presente in larghi strati della popolazione, aveva soltanto necessità di uno stimolo per emergere. Non è possibile interpretare altrimenti un successo indiscusso che sta mettendo in grossa 10


difficoltà la Lega di Salvini e, di conseguenza, tutte le forze di destra del Paese che stanno reagendo in maniera isterica. Le Sardine fanno paura perché non possono essere accusate di legami con i partiti (in piazza non ci sono simboli né bandiere di partiti), non possono essere accusate di violenza (le manifestazioni sono assolutamente pacifiche e lontanissime dal clima di odio che la destra ha instaurato nel Paese) e, infine, ed è forse il segnale maggiormente rilevante, sono gioiose. Di una gioia ingenua e contagiosa, dovuta semplicemente al riappropriarsi, dopo tanto tempo, di spazi di partecipazione, innanzitutto fisici ma anche sociali e culturali. Abbiamo detto che le Sardine non hanno legami con i partiti. E, in un Paese, dove da anni la politica è vista soprattutto come gestione del potere, questa lontananza ha assunto una valenza positiva. Ma ciò non vuol certo dire che le Sardine siano un movimento apolitico. Anzi. Le Sardine rappresentano la politica con la “P” maiuscola, quella fatta dal popolo che si ritrova nelle piazze per confrontarsi e chiedere alla politica “ufficiale” di ascoltarlo, di raccogliere le sue istanze e di cambiare. È ovvio che i partiti siano chiamati in causa da questa richiesta e che, in prima linea, vi siano certamente i partiti che si richiamano ai valori riformisti e progressisti. Per essi, il popolo delle Sardine, che secondo noi è fatto in larga parte da delusi precipitati del vasto magma dell’astensione, rappresenta una sfida da raccogliere, se vorranno davvero battere la destra. Sardine e partiti della sinistra non sono antinomici, al contrario. Le piazze, com’è sempre stato, dovranno fornire l’energia ai partiti affinché questi traducano in progetto politico le istanze che dalle piazze provengono. Sembra un processo semplice, ma non lo è per nulla. Troppe volte, in passato, si è dovuto prendere atto della difficoltà del passaggio. Oggi, però, la situazione è diversa: siamo di fronte a un’emergenza democratica che richiede la massima disponibilità a un percorso unitario improcrastinabile. Pena la consegna della nazione a una destra fascista, razzista, anti europea. E questo il Paese non se lo può as11


solutamente permettere.

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Esteri

Sardine libanesi Umberto DE GIOVANNANGELI

Non accettano bandiere di partito alle loro manifestazioni. Non si lasciano abbindolare da vecchi richiami ad appartenenze etno-confessionali, o partitiche, che sono fuori dal loro sentire comune e dall’idea di democrazia che li unisce. Non sono alla ricerca di un leader mediatico, tantomeno di vecchi arnesi della politica in vena di riciclaggio, ragionano in termini di “noi” e non di “io”. Diffidano da politicanti che pur di mantenersi al potere cercano di rifarsi una perduta verginità dichiarandosi, a parole, al loro fianco. Rispondono con la non violenza e la disobbedienza civile a coloro che conoscono e praticano da sempre il linguaggio della forza. Sono le “sardine” libanesi, i giovani protagonisti della “rivoluzione di velluto” che da oltre 45 giorni sta ridisegnando il volto del Paese dei Cedri. Una speranza di cambiamento che deve 13


fare i conti con la brutalità dei suoi nemici. Arrivano all’improvviso a bordo di motociclette (come i Baji iraniani) sventolando le bandiere di Hezbollah e inneggiando al Partito di Dio sciita e al suo leader Hassan Nasrallah. Armati di spranghe, coltelli, bastoni, pietre, catene assaltano i presidi dei manifestanti anti-governativi. Hezbollah dichiara guerra alla “rivoluzione laica” che da 45 giorni sta scuotendo il Libano. Attaccano a Beirut, a Tiro, incendiano le tende dei manifestanti. Al grido di “sciiti, sciiti” e di “Hezbollah, Hezbollah” in perfetto stile Baji le motociclette passano in mezzo ai manifestanti falcidiandone diversi. I giovani libanesi rispondono urlando “Hezbollah terrorista” e tirando sassi contro i miliziani. E la situazione rischia di precipitare in una nuova, devastante, guerra civile. Raffiche di fucili automatici sono state sparate lunedì sera a Beirut da non meglio precisati uomini armati nel quadro di crescenti tensioni politiche e confessionali nella capitale libanese. Colpi di arma da fuoco sono stati uditi ripetutamente nei pressi dell'incrocio stradale di Cola, poco lontano dal centro della città. L'esercito libanese si era dispiegato stasera in forze nei pressi delle strade che dividono i quartieri controllati dai partiti sciiti Hezbollah e Amal dai quartieri a maggioranza sunnita di Qasqas e Tariq Jdide, non lontano da Cola. Resistono, resistono, resistono. Nonostante la brutale repressione in atto. Amnesty ha parlato con otto manifestanti arrestati durante le proteste e con un avvocato che rappresenta alcune persone in carcere, ha raccolto e analizzato documentazione video e ha esaminato alcuni referti medici. I manifestanti hanno riferito di essere stati arrestati senza mandato, picchiati, derisi e umiliati, bendati e costretti a rilasciare confessioni false. Alcuni sono stati portati in centri di detenzione sconosciuti, senza poter comunicare con avvocati e familiari e senza ricevere cure mediche. Due di loro hanno denunciato di essere stati sottoposti a finte esecuzioni. “Le Forze armate libanesi devono immediatamente porre fine a queste azioni violente e assicurare che, anziché punire i manifestanti perché eser14


citano i loro diritti, la libertà di espressione e di manifestazione pacifica siano protette”, ha dichiarato Lynn Maalouf, direttrice delle ricerche sul Medio Oriente di Amnesty International. “Nelle ultime tre settimane, abbiamo visto i soldati picchiare e trascinare via manifestanti pacifici. In una fase in cui la tensione politica e sociale è elevata, le forze armate devono comportarsi con moderazione. Le loro azioni brutali devono essere sottoposte a indagini serie ed efficaci da parte della giustizia civile e i responsabili devono essere portati di fronte alla giustizia”, ha aggiunto Maalouf. Almeno due manifestanti risultano indagati dalla procura militare. A tale proposito, Amnesty International ha ricordato alle autorità libanesi che gli imputati civili non devono

essere

processati

dalle

corti

marziali.

Secondo il Comitato degli avvocati per la difesa dei manifestanti, la notte del 27 novembre nella provincia di Marjeyoun uomini dei servizi segreti militari hanno arrestato due ragazzi che stavano scrivendo su un muro slogan a sostegno delle proteste. Sono stati interrogati e, il giorno dopo, rilasciati. In altri sette casi documentati da Amnesty International, i militari hanno sottoposto a pestaggi le persone arrestate, rilasciate chi dopo ore e chi dopo sei giorni. Il 14 novembre Samer Mazeh e Ali Basal stavano camminando lungo Gemmayzeh, una strada adiacente il centro di Beirut dove c’era un raduno di manifestanti, quando sono stati fermati da cinque soldati in abiti civili. Poco dopo è sopraggiunto un veicolo militare da cui è sceso un membro dei servizi segreti militari. “Mi ha spinto con la faccia a terra e mi ha ammanettato. Mi hanno fatto salire sul veicolo e mi hanno picchiato. Mi hanno coperto il volto con la maglietta e obbligato a stare a testa in giù. Poi hanno preso Ali, lo hanno fatto salire a bordo e obbligato a sedersi sulla mia testa. Ho detto che stavo soffocando e un soldato ha risposto che a loro non importava niente”, 15


ha raccontato Samer. Una volta giunti all’esterno di un centro di detenzione sconosciuto, i due arrestati sono stati fatti scendere e costretti a camminare sulle ginocchia coi fucili puntati contro la nuca: “Lì dentro mi hanno chiesto di dichiarare, al posto delle mie generalità, che ero un somaro. Poi è arrivato uno che ha chiesto se fossi stato io a insultare il presidente, e mi ha preso a schiaffi”, ha proseguito Samer. In un altro caso risalente al 13 novembre, mentre stava prendendo parte a una manifestazione pacifica nella città di Baabda, Khaldoun Jaber è stato avvicinato da due uomini in borghese che “volevano fare due chiacchiere”. In realtà, è stato arrestato e portato in una zona lontana dalla manifestazione, dove 30 soldati dei servizi segreti militari lo hanno circondato e preso a bastonate sulla schiena. Poi lo hanno bendato e portato in un luogo sconosciuto. “In seguito ho appreso dal mio avvocato che si trattava del ministero della Difesa. Nel corso degli interrogatori mi hanno chiesto chi ci stesse pagando, chi ci spingesse a scendere in strada, chi ci portasse da mangiare durante le proteste. Mi hanno bastonato sulla schiena, sul costato e sulle gambe. Non potevo contattare nessuno. Non mi hanno dato da mangiare e mi hanno vietato di fumare. Mi hanno solo portato dell’acqua”, ha raccontato Khaldoun. Chris Haddad è stato arrestato il 5 novembre a Jal el Dib insieme ad altri otto manifestanti: “Tre soldati mi hanno assalito, armati di bastone. Mi hanno coperto il volto col mio maglione, trascinato via e picchiato per tutto il tragitto fino a dove avevano parcheggiato i loro blindati”, ha raccontato. Questa è, invece, la testimonianza

di

Fadi

Nader,

arrestato

nella

stessa

occasione:

“Mi hanno picchiato violentemente e trascinato dall’altra parte della strada. Ho tentato di fuggire ma mi hanno riacciuffato. Mi hanno fatto salire a bordo del loro veicolo e mi hanno picchiato con un bastone. Sapevano benissimo chi arrestare, molti di noi che prendono parte alle manifestazioni sono volti noti di questo movi16


mento di proteste”. Altre due persone contattate da Amnesty International hanno riferito di essere state arrestate il 26 ottobre a Tripoli, all’interno del negozio dove lavoravano, poco distante da una manifestazione. Entrambi sono stati insultati e picchiati, riportando gravi ferite alla testa. Sono stati trattenuti in una prigione militare, senza poter avere contatti con l’esterno, per sei giorni prima di essere stati rilasciati. Almeno due di queste persone sono in attesa del processo, in corte marziale, che dovrebbe iniziare nel 2020. Ciò che Hezbollah e le Forze che tengono ingabbiato il Libano,non possono

accettare è uno dei meriti maggiori della

“primavera libanese”: quello di voler superare le divisioni settarie che avvelenano il Medio Oriente. “È una grande notizia - annota Pierre Hasky di France Inter su Internazionale - dopo anni segnati dal conflitto tra sciiti e sunniti, dalle persecuzioni contro le minoranze e dal califfato fondamentalista, così come è bello ascoltare lo slogan dei libanesi, ‘tutti significa tutti’, espressione della volontà di lasciarsi alle spalle un sistema politico fondato su un comunitarismo religioso. Certo, non si possono cancellare in un solo colpo secoli di divisioni e guerre, ma un ’libanese nuovo’ sta emergendo dalle manifestazioni: giovane, attivo su internet e deciso a uscire dalla ‘prigione’ mentale settaria”. Quella in atto, a Beirut, è una rivoluzione culturale, ancor prima che sociale: è la rivoluzione dei cittadini, in gran parte giovani, che si sentono iracheni, libanesi, e non sunniti o sciiti, cristiani… Scendono in piazza sventolando bandiere nazionali, esaltando un diritto di cittadinanza che riporta al centro lo Stato-nazione, lo Stato dei cittadini, rompendo le vecchie gabbie identitarie comunitarie. I manifestanti contestano l’alto tasso di disoccupazione e la corruzione della classe politica. Il Paese dei Cedri ha uno dei debiti pubblici più alti al mondo (circa 77 miliardi di euro, corrisponde al 150 per cento del prodotto interno lordo), ma il livello di profitti delle sue banche commerciali, vicine ad alcuni politici e che detengono gran parte del debito, sono superiori a quelli dei 17


Paesi occidentali. Secondo l’ultimo rapporto dell’Undp, l’agenzia Onu per lo sviluppo umano, per ineguaglianza dei redditi il Libano è al 129° posto su 141 Oaesi. L’un per cento più ricco possiede il 25 per cento dell’intero redito nazionale. Nel 2017 il venti per cento di tutti i depositi era concentrato in 1.600 conti correnti: lo 0,1 per cento del totale dei depositi nelle banche libanesi, molte delle quali sono dei politici di turno o dei loro parenti. Le proteste erano iniziate contro il piano del governo di imporre nuove tasse su diversi beni e servizi, tra cui il tabacco, la benzina e le telefonate fatte via internet. A Beirut i blackout programmati vanno dalle 3 alle 6 ore al giorno, fuori dalla capitale si arriva invece anche a 12 ore senza elettricità. Chi può permetterselo, copre le ore di "buco" acquistando un generatore, finendo così per alimentare un business gestito da soggetti (in questo caso vicini a Jumblatt, leader druso del Partito socialista progressista) che hanno interesse nel mantenimento del precario status quo. Anche l'approvvigionamento idrico è un problema - in alcune aree costiere della capitale l'acqua della doccia è salata solo parzialmente lenito dalla presenza di due navi cisterna turche "parcheggiate" sulla costa libanese. A chiunque si trovi in Libano non può sfuggire, poi, l'emergenza rifiuti, che nel 2015 stimolò una prima rabbiosa protesta della popolazione, riunita attorno al movimento della società civile "You stink" (Voi puzzate): il problema, sorto ormai 7 anni fa, non è stato mai risolto. Anzi, in alcuni frangenti si è aggravato, soprattutto dopo la chiusura di alcune discariche, e l'apertura di quella di "Costa brava", sulla spiaggia che lambisce l'aeroporto, che due anni fa provocò anche alcuni problemi di sicurezza (i gabbiani che volavano sopra i rifiuti "sconfinavano" spesso sulle piste di atterraggio). Infine, la logica del "wasta". Tradurlo con "raccomandazione" non renderebbe l'idea del radicato meccanismo clientelare che sottende, insito nel sistema confessionale libanese: chi cerca lavoro in Libano - dove la disoccupazione giovanile ha raggiunto il 40%, cifra che 18


cresce moltissimo se si considerano i non contrattualizzati - nella quasi totalità dei casi deve conoscere qualcuno che lo metta in contatto col politico cristiano, sunnita, sciita, druso (a seconda dell'appartenenza del "richiedente"), che cercherà una occupazione per lui in cambio di una implicita (o esplicita) promessa di "fedeltà". Semplificando, un voto di scambio, che finisce indirettamente per rafforzare la legittimità dell'establishment, oggi integralmente sotto accusa. “Il Libano è un non stato, come ha dimostrato qualche anno fa la paradossale “crisi della spazzatura”, dovuta all’incapacità del potere pubblico di gestire i rifiuti della capitale. Quella era stata la prima avvisaglia di ciò che sta accadendo oggi, con la ribellione di un popolo intelligente e maturo che merita qualcosa di più di un presidente che invita i giovani scontenti a emigrare. Finora soltanto l’esercito è stato risparmiato dalla contestazione, e questo lascia pensare che i militari potrebbero avere un ruolo chiave nell’immediato futuro, rimarca ancora Hasky. ll premier Saad Hariri si è dimesso a fine ottobre. (e nei giorni scorsi ha gettato la spugna rinunciando al tentativo di formare un nuovo governo). E da allora il capo di Stato Michel Aoun non ha ancora avviato le consultazioni politiche previste dalla costituzione. Non riuscendo ad “addomesticare” la piazza, Hezbollah ha deciso di attaccarla. Un’avvisaglia c’era già stata il 25 ottobre. "Se noi scendiamo in piazza, non ci muoviamo finché non raggiungiamo i nostri obiettivi. Tuttavia, quella iniziata come una protesta spontanea, gioiosa e giusta, in cui la gente ha recuperato la speranza di cambiamento, ora viene strumentalizzata da alcuni partiti politici e sta diventando qualcos'altro. Abbiamo informazioni di intelligence secondo cui ci sarebbe uno schema internazionale per delegittimare la resistenza, e ho chiesto alla nostra gente di tenersi lontana dalle piazze. Stiamo entrando in una fase pericolosa", aveva avvertito Nasrallah in un discorso minaccioso trasmesso da al-Manar, la tv di Hezbollah. Gli attacchi susseguitisi nelle ultime 48 ore sono la traduzione 19


operativa dell’avvertimento di Nasrallah. Ma la rivoluzione laica non si fa ingabbiare. Una riprova la si è avuta il 22 novembre, quando migliaia di libanesi sono tornati in piazza a Beirut e nelle altre principali città del Paese nel giorno dell'indipendenza nazionale. I manifestanti hanno inscenato una "parata civile" in piazza dei Martiri e nella vicina piazza Riad Solh, luoghi simbolo della mobilitazione contro il sistema politico, in risposta alla tradizionale parata militare organizzata dalle autorità. Un evento senza precedenti nella storia del Paese dei Cedri. L’abbiamo raggiunta telefonicamente a Beirut. “E’ stata una giornata emozionante – dice Mirna – una giornata di festa. Eravamo, siamo uniti da una comune volontà di cambiamento, non importa se sei sciita, sunnita, cristiano o cos’altro, importa voler costruire un Paese dove vali per quel che sei e non per la tua appartenenza confessionale, o perché ti genufletti a qualche potente locale. Per noi libertà, giustizia, trasparenza, condivisione, non sono parole vuote ma valori per cui vale la pena battersi. Crediamo in un cambiamento dal basso, nell’importanza di investire nell’istruzione e diciamo no ai ladri di futuro. Dicono che siamo degli idealisti. Ma questo per noi è un merito, non una colpa. Sappiamo che giovani con i nostri stessi ideali si sono mobilitati in tanti altri Paesi, non solo in Medio Oriente, ma anche in Asia e da voi in Italia”. In Italia, dico a Mirna, il movimento che riempie le piazze si è autodefinito delle “sardine”. Mirna ride e poi commenta: “L’ironia è una arma potente che fa paura a chi detiene il potere. E poi chi l’ha detto che le ‘sardine’ se sono tante e decise non riescano ad avere la meglio sui vecchi ‘squali’ della politica?”. Meditate gente, meditate...

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Storia e Politica

Gli scioperi operai in Italia dal marzo 1943 all’aprile 1945 Giovan Giuseppe MENNELLA

Nella notte tra il 17 e il 18 aprile del 1945 iniziò lo sciopero operaio insurrezionale di Torino. In realtà, in tutte le città del triangolo industriale molti operai si tenevano pronti da tempo. Alcuni salirono sui tetti delle fabbriche, alla Pirelli a Sesto San Giovanni, alla FIAT Mirafiori a Torino, per sventolare bandiere rosse. Alcuni si predisposero a impugnare le armi. L’ordine d’insurrezione generale nelle fabbriche fu dato a Torino il 24 aprile e il giorno successivo iniziarono gli scontri in città, cui parteciparono in larga misura le maestranze di molti stabilimenti. Ancora il 27 gli operai della FIAT Mirafiori respinsero un attacco in forze dei tedeschi, con autoblindo e mitragliatrici, contro la loro fabbrica. Quella dell’insurrezione generale dell’aprile 1945 fu un’epopea che vide la partecipazione massiccia degli operai non solo a Torino, ma anche nelle al21


tre grandi città del triangolo industriale, Milano e Genova. Tutto il complesso della partecipazione operaia nelle città industriali alla liberazione dell’Italia dal nazifascismo può essere esemplificata e simboleggiata da una poesia di un poeta operaio ternano, Dante Bartolini, che narrò in versi l’irruzione dei lavoratori nella fabbrica di armi di Terni, per impossessarsi delle armi e andare in montagna a fare la resistenza, episodio peraltro mai accaduto ma frutto della fantasia del poeta. Poche ore prima di quella notte tra 17 e 18 aprile, il 16 del mese, il Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia aveva redatto un documento in cui si incitavano gli operai a organizzare nelle fabbriche centri per la mobilitazione e l’insurrezione contro i nazifascisti. L’ordine era di difendere innanzitutto gli impianti e, quindi, non rimanere solo chiusi nelle fabbriche, ma rendersi attivi per andare a combattere e scacciare i nemici. Il movimento vero e proprio degli scioperi era iniziato a Torino fin dal mese di marzo 1945 e culminato il 28 in un primo sciopero insurrezionale. Il giorno dopo fu costituito un apposito Comitato di coordinamento ristretto del CLNAI, a capo del quale furono posti Pertini, Sereni e Valiani. Anche nei dintorni di Milano cominciò la mobilitazione delle fabbriche e le zone più attive furono quelle di Sesto San Giovanni, di Gallarate, di Busto Arsizio, dove era concentrata la maggior parte degli stabilimenti ed era di conseguenza molto forte la presenza e la pressione degli operai. Ma fu Genova la prima città che si mobilitò e insorse. L’8 aprile si tenne una riunione degli antifascisti in cui si decise la ribellione. Gli scioperi iniziarono il 16 e l’insurrezione fu lanciata il 23, con i tedeschi che già il 24 si accordarono per lasciare la città in mano ai partigiani. Così Genova fu la prima città del Nord a insorgere e a liberarsi da sola, senza la sostanziale partecipazione delle truppe alleate. 22


A Milano l’ordine di insorgere fu dato il giorno 24 per cominciare a combattere alle ore 13 del 25, ma i primi scontri cominciarono il 24 mattina a Niguarda. Il giorno 25 tutte le fabbriche milanesi a Sesto San Giovanni furono occupate. Gli operai della Pirelli presero parte agli scontri, mentre alla Motomeccanica, alla OM, alla Innocenti di Lambrate gli operai si asserragliarono a difesa. Il quadro d’insieme fece emergere un’organizzazione del movimento a guida a maggioranza comunista che però non era corrispondente alla situazione generale presente in Italia, dove anche il Partito d’Azione e il Partito socialista erano presenti e fortemente rappresentati. Comunque, nell’ultimo periodo della guerra i comunisti ottennero un rilevante successo facendo fallire alla FIAT Mirafiori, il più grande impianto industriale del Nord, la consultazione elettorale promossa dalla Repubblica di Salò per la socializzazione delle industrie: il 90% degli operai non votò e il rimanente 10% respinse la proposta. Nelle ultime settimane di guerra, gli ordini agli operai date dalle rappresentanze dei partiti politici furono di andare in fabbrica senza lavorare, ma per essere presenti e protestare non per aumenti salariali, come si era verificato nei mesi e negli anni precedenti, ma per la pace e per il pane. Quelle lotte operaie che si accesero negli ultimissimi giorni della guerra venivano da lontano, erano iniziate fin dal 1942. Le ragioni per cui combatterono tutti quegli operai, per lo più organizzati dai partiti e dai movimenti, ma anche con sollevazioni spontanee, non erano omogenee. Un coacervo di ragioni mosse quelle lotte, alcune di fondo, altre contingenti: dalla gioia per l’armistizio e la presunta fine della guerra all’esigenza di riappropriarsi dei quartieri a maggioranza operaia, dal desiderio di vendetta contro i fascisti al fascino del caos, perfino alla voglia di far dimenticare certe compromissioni con il Regime. Durante tutto il corso della seconda guerra mondiale in Italia avvennero cinque on23


date di scioperi operai. Una prima nel marzo 1943, con il fascismo ancora al potere, una seconda nel luglio-agosto dello stesso anno, all’atto della caduta del Regime e dell’insediamento del Governo Badoglio, una terza nel novembre sempre del 1943, ad armistizio avvenuto e a Repubblica Sociale instaurata, una quarta nel novembre 1944, durante l’autunno e inverno più duro per gli antifascisti e i partigiani e, infine, l’ultima nell’aprile 1945, di cui abbiamo già tracciato le grandi linee. In tutto quel periodo, gli interlocutori degli operai nelle fabbriche furono gli imprenditori, le avanguardie dei partiti politici negli stabilimenti e, dopo l’8 settembre, oltre alla Repubblica Sociale, anche i funzionari militari e civili tedeschi dell’occupazione militare. Per quanto riguarda il primo dei cinque periodi tracciati, quello del marzo 1943, non va dimenticato che a quell’epoca in Italia vigeva lo stato di guerra, scioperare era vietato e c’era il coprifuoco. Non si poteva uscire da casa e circolare dalle nove di sera alle sei del mattino. Però, proprio di notte i giovani del fronte rivoluzionario della gioventù uscivano a fare propaganda, a consegnare manifestini, soprattutto a tenere i contatti tra i potenziali ribelli tra zona e zona. Nel 1943 lo sciopero e la serrata erano vietati da un articolo del codice penale Rocco del 1930 ed era prevista una pena pecuniaria superiore al salario mensile di un operaio e la detenzione fino a due anni di carcere. Nel diritto penale si faceva inoltre una distinzione tra sciopero economico e sciopero politico, con il secondo sanzionato più gravemente. Addirittura, nel giugno 1944 fu prevista la sanzione della pena di morte per gli organizzatori di scioperi politici. Queste repressioni tendevano a tutelare la pace sociale, perché lo sciopero era considerato lesivo del principio di ordine e gerarchia. Lo sciopero minava il fronte interno, cioè quello degli operai e dei lavoratori in genere, considerato una sorta di esercito del lavoro, mentre il fronte esterno era quello dei soldati che combattevano in armi. 24


Nel 1943 i salari erano fermi al 1940 ma i prezzi erano saliti vertiginosamente per l’inflazione. Si era verificato tra gli operai un aumento rilevante delle malattie professionali, delle malattie dovute alla denutrizione, che causò in molti anche una visibile perdita di peso corporeo. Era inoltre sensibile il problema della mancanza di alloggi, a causa delle perdite del patrimonio edilizio dovute ai bombardamenti aerei. Gli operai non poterono sfollare fuori delle città sede di lavoro e comunque anche quando lo fecero dovettero arrangiarsi a fare i pendolari. Fin dal 1942 alcune fabbriche avevano dovuto sospendere il lavoro. Le minacce di gravi sanzioni non riuscirono a fermare le proteste perché la situazione degli operai nel 1943 era talmente grave, dalla fame alla perdita delle case, al lavoro durissimo e mal retribuito che fece superare loro ogni paura di punizioni. Gli scioperi operai iniziarono a Torino il 18 marzo del 1943 e si protrassero fino a luglio. Il 18 marzo cominciò un grande sciopero agli stabilimenti di Mirafiori, che divenne un modello di mobilitazione anche per altre città come Genova e Milano. Gli operai protestavano contro il carovita, per il miglioramento del trattamento economico e per l’estensione dell’indennità di 192 ore di salario a tutti e non solo agli operai sfollati per la distruzione della casa. Dal luglio, caduto il fascismo e nominato Badoglio a capo del governo, gli scioperi operai ebbero una chiara connotazione politica, per ottenere l’allontanamento dei dirigenti fascisti dalle fabbriche, per la liberazione dei prigionieri politici, per costringere il governo Badoglio a fare la pace con gli Alleati. Anche il fatto che gli scioperi, pur quando fossero solo economici, si diffondessero a macchia d’olio diede loro una caratterizzazione politica, gli operai si sentirono nuovamente forza di classe, spirito che durante gli anni del fascismo era fatalmente andato perduto. In particolare, l’interruzione del lavoro nel grande stabilimento FIAT di Mirafiori a 25


Torino conferì nuova forza politica al Partito comunista, tanto che, come si è visto, riuscì a far fallire il referendum sulla socializzazione. Altri scioperi operai si verificarono nell’autunno-inverno di quell’anno 1943, quando era stata già costituita la Repubblica Sociale a Salò. Se gli scioperi dell’estate avevano come obiettivo l’allontanamento dei dirigenti fascisti dalle fabbriche e la liberazione dei prigionieri politici, viceversa gli scioperi dell’inverno del 1943 si svolsero a Torino per rivendicazioni economiche. I tedeschi, che ormai con le varie organizzazioni del lavoro del nazismo controllavano la produzione nelle fabbriche del nord, accettarono alcune rivendicazioni ed estesero la concessione di alcuni benefici anche agli stabilimenti di Milano e di Genova, soprattutto per non fermare la produzione di materiale strategico necessario alla Germania per continuare la guerra. Gli operai tentarono di garantirsi livelli economici di sopravvivenza, mentre gli industriali, barcamenandosi, tentarono di salvaguardare la produzione e tenere a bada i tedeschi. Questa situazione diede nuova linfa e agibilità politica alle agitazioni e agli scioperi operai e fu sfruttata sia dal Partito Comunista ,sia dal Partito d’Azione, sia dal Partito Socialista. A Genova nel dicembre del 1943 gli scioperi, di carattere economico, si intensificarono all’Ansaldo artiglieria e diventarono sciopero generale a metà mese, con circa 50 mila scioperanti complessivi che lanciarono parole d’ordine per miglioramenti economici e alimentari. All’inizio di Gennaio del 1944 ci furono altri scioperi, sempre di carattere economico, che però stavolta trovarono una risposta molto dura; i fascisti e i tedeschi fucilarono per rappresaglia otto prigionieri politici. Da marzo a giugno 1944 ci furono altri scioperi e altre repressioni e furono deportati a Mauthausen 1500 lavoratori, alcuni dei quali non tornarono più. L’inverno del 1944-45 fu il più duro per i partigiani sulle montagne e per gli operai nelle fabbriche. I tedeschi misero da parte ogni remora e cominciarono a reprimere 26


duramente ogni ribellione, ma anche a depredare le fabbriche di ogni macchinario e materia prima utile. Cominciò così da parte degli operai e dei partiti organizzati quella che fu definita “la battaglia delle macchine” per combattere lo spostamento degli impianti produttivi in Germania. La battaglia fu combattuta nascondendo i macchinari, facendo lo sciopero bianco, il sabotaggio e la resistenza passiva che causarono rallentamenti nella produzione. In seguito a tale situazione, Vittorio Valletta, amministratore delegato della FIAT, per cercare di incrementare la produzione, nel novembre del 1944, pronunciò un discorso agli operai e alle maestranze in cui invitò tutti a lavorare e a ricostruire perché Torino e il Piemonte dovevano far fronte all’esigenza alimentare, dovevano evitare la fame, visto che la durata della guerra avrebbe potuto essere ancora molto lunga. Molti operai del Comitato di agitazione della FIAT chiesero al CLNAI di condannare Valletta come traditore degli operai. Ma non se ne fece nulla e Valletta continuò a dirigere la FIAT fino agli anni ’60. La presenza delle avanguardie dei Partiti, con in testa il Partito Comunista, in quelle lotte nelle fabbriche, nell’imminenza dell’insurrezione generale dell’aprile 1945, fu particolarmente importante perché la fame e il freddo rischiarono di frenare la lotta. Tutte quegli scioperi e quelle azioni degli anni e dei mesi precedenti il 25 aprile furono dunque prodromici e decisivi rispetto alla Liberazione vera e propria e possono essere definiti pre-insurrezionali, fino a quelli che scoppiarono a Torino nella notte tra il 17 e il 18 aprile 1945.

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Donne e Politica

Scarpette rosse Antonella GOLINELLI

Il 25 novembre è la giornata, credo mondiale, contro la violenza sulle donne. Non voglio addentrarmi nelle sopraffazioni perpetrate ovunque nel mondo, mi limito a parlare di “casa mia”. Tutto un florilegio di camminate in rosso, di panchine rosse, di scarpe rosse, di discorsi altisonanti o meno, uno sciupio di dati corretti o meno. A volte testimonianze dirette. Parliamo di dati. Ognuno fornisce i suoi secondo le proprie necessità. Si è assistito 28


allo strano fenomeno di un consigliere comunale che ha serenamente affermato che il 90% dei fatti è falso perchè... salvo poi smentirsi il giorno dopo affibbiando la colpa all'associazione, non esattamente femminista, che li aveva forniti. Ecco. Non è che sia proprio un genio questo ma nemmeno i fornitori di dati. Anzi no! Questi sono proprio colpevoli. #mognint Discorsi, affermazioni, ragionamenti, se ne son sentiti tanti. Tutti molto alti, a volte persino elegiaci. Pochissimi, per non dire nessuno, che abbia attribuito la colpa, perchè di colpa si tratta, a chi ce l'ha: gli uomini. La responsabilità, la colpa, della violenza sulle donne ce l'hanno gli uomini. Loro la compiono. Punto. Continuo a leggere e assistere ad autoflagellazioni (è colpa nostra! Li cresciamo noi i figli!) (che sciocchezza. Cosa vuoi farti carico di tutti i mali del mondo? Cosa sono dei deficienti i maschi?) (#mognint), flagellazioni (è colpa vostra! Li crescete voi i figli!) (domanda:quindi i padri anche servono?) (#mognint), accuse di varia natura (¼ degli intervistati sostiene che la violenza è provocata dall'abbigliamento delle donne) (#mognint). Sono profondamente contraria a caricare sulle spalle delle donne le colpe degli uomini. Più in generale sono profondamente contraria a caricare sulle spalle delle vittime le colpe dei colpevoli. Scusate il bisticcio di parole. È il principio per il quale passa il bullismo. Un principio sia chiaro a tutti: LA COLPA NON È DELLE VITTIME. Per quello che riguarda la risposta al sondaggio propongo questo: al prossimo, ormai questo è andato, alla risposta stupida corrispondano due smatafloni (per i non romagnoli schiaffoni). Vedrete che certi pensieri non sfioreranno mai più i neuroni presenti. In linea generale io la penso cosi: al mondo esistono due razze i maschi e 29


le femmine. Sono due universi indipendenti e diversi che, casualmente, qualche volta si sfiorano.

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Donne e Politica

Sebbene che siam donne paura non abbiamo Antonella BUCCINI

Di Hanna Gadsby e il suo spettacolo “Nanette” e di Marielle Franco non ne sapevo nulla. Lo confesso. Le ho conosciute entrambe nel giro di ventiquattro ore. Un segno del destino. Hanno un comune denominatore: donne “diverse”, lesbica la prima, bisessuale l’altra. Marielle è anche povera e nera, tutto il corredo, insomma, della “differenza” che segna un futuro netto e senza scampo. Marielle, invece, è da subito una bambina ribelle. Nata nella favella di Rio aspira a emanciparsi, a studia31


re. Intanto resta incinta di un balordo. Alleva da sola sua figlia e riesce a laurearsi grazie all’aiuto di una Ong. Si innamora ricambiata di una donna, si impegna in politica e nel sociale nella stessa favella delle sue origini. Esponente del Partito Socialismo e Libertà è stata consigliera comunale a Rio de Janeiro e attivista per i diritti umani. Viene uccisa in un agguato la sera del 14 marzo 2018. Ne ho dunque ascoltato il racconto da Michela Murgia nel podcast “Storie Libere” dove la scrittrice mette insieme, con la consueta tagliente intelligenza, donne scomode, un po’ stronze, come dice lei, e da prospettive in genere poco frequentate emergono potenti spunti di riflessione. Hanna è tutto e insieme. Ho letto un articolo di Maria Laura Rodotà su “La Repubblica” e l’ho scoperta. Dopo sono andata a vedere su Netflix il suo spettacolo “Nanette”. Dirompente. E’ dunque un’attrice comica australiana, sovrappeso, autistica, lesbica. Anche lei in fatto di diversità non se la cava male. Il suo spettacolo, per il quale ha vinto un “Emmy”, è sorprendente, ironico, graffiante e, a tratti, funziona come un pugno nello stomaco. Succede. Succede quando Hanna racconta del dolore che sedimenta per sempre dopo un’infanzia e un’adolescenza vissuta nell’assoluto disprezzo di se stessa per aver condiviso la condanna della sua comunità. Con altro registro, pure impegnativo, Hanna colpisce nel segno quando spiega la dinamica della comicità e denuncia che solo attraverso l’autoironia è ritenuta legittima l’accettazione della diversità. Queste due donne straordinarie, dunque, appartengono a una minoranza della minoranza. Non solo. All’interno del mondo omosessuale, le donne patiscono un’ulteriore discriminazione. L’omosessualità, infatti, segue una narrazione principalmente maschile e del maschile ha assimilato comunque gli stilemi essenziali. Le donne restano nel sottofondo ma, vivaddio, sono suscettibili di redenzione. E la redenzione passa attraverso lo stupro di gruppo, come sottolinea Michela Murgia nel suo racconto di Marielle, vissuto invece con32


cretamente da Hanna Gadsby. Perché si sa, le donne sono destinate ad amare altre donne solo perché non hanno conosciuto il sacro fuoco di un pene e se ne provano più di uno in contemporanea la guarigione è assicurata. Non so se è ciò che ha pensato quel notabile di Lecco quando ha costretto la moglie allo stupro di gruppo dei suoi amici. Forse no, perché la donna, etero, voleva separarsi. In questo caso la terapia ha assunto una funzione, come dire, di castigo o probabilmente di penalità. Magari al prossimo giro la donna avrebbe cambiato idea. Chissà. Quarant’anni fa Elena Giannini Bellotti scriveva “Dalla parte delle bambine” un testo illuminante sulle dinamiche, spesso surrettizie, che segnano le discriminazioni. Non è infrequente riconoscere alle stesse dinamiche un’attuale pervasività, tuttavia è bene ribadire la consapevolezza di fondo maturata dalle donne dagli anni del femminismo che, nondimeno, oggi, privata di ogni memoria e sottratta a un concreto dibattito politico, appare pericolosamente monca. In una cultura potentemente fallocentrica, quindi, le celebrazioni, le lotte, le denunce che non determinino un rivoluzionario cambio di passo da imprimere nel tessuto economico e sociale per il sostegno e l’uguaglianza di genere sono destinate a suscitare brevi e opachi sussulti. Il 25 novembre è la giornata internazionale contro la violenza sulle donne. Una donna ogni quindici minuti in Italia viene aggredita e ogni settantadue ore uccisa, prevalentemente da uomini conosciuti, molto spesso dal “compagno di vita”. 33


Sud e Lavoro

La Cgil, Landini e il Mezzogiorno Raffaele FLAMINIO

Il Sud continua a tenere banco nell’agenda della CGIL. Il 20 novembre le delegate e i delegati del sindacato di Landini si sono riuniti a Napoli per discutere di dignità degli individui e del lavoro, riprendendo il filo della discussione avviata il 17 ottobre a Bari quando si discusse di credito e Mezzogiorno e il 15 novembre a Caserta, quando si è discusso di capolarato, celebrando il trentennale dell’omicidio di Terry Masloo, migrante sudafricano, attivista anti apartheid, barbaramente ucciso dai ca34


porali nelle campagne di Villa Literno per aver tentato di difendere i diritti dei braccianti sfruttati. La CGIL continua la sua mobilitazione politica per le persone e in nome della Costituzione. All’appuntamento odierno era prevista la presenza del Ministro per il Sud Giuseppe Provenzano, presenti, invece, l’economista Claudio De Vincenti, il professor Gaetano Manfredi, rettore dell’Università Federico II, padrone di casa Nicola Ricci segretario Generale della CGIL Campania,le conclusione affidate a Maurizio Landini segretario generale della CGIL. Le donne della Campania continuano a essere protagoniste delle vertenze aziendali della regione portando il loro prezioso e determinante contributo non solo politico e sindacale, ma principalmente umano, questa è la nuova frontiera del sindacato rosso. Una modalità che si sviluppa e nasce dal basso, lì dove sulla carne viva degli individui fa più male. La CGIL sta accompagnando questo importante cambiamento. Le presenze di Pina Scala, passionaria, della vertenza Whirlpool con Lina Mollo ex dipendente Auchan e la RSU Elena Tramontano, in rappresentanza dei lavoratori di Comdata, sono indicative del cambiamento in atto. Nicola Ricci nella sua relazione introduttiva descrive un quadro macroeconomico recessivo che non risparmia neanche i colossi come Germania e Cina. In questo contesto, l’Italia nella sua interezza ne è coinvolta. Le aree industriali del Nord Est e del Nord Ovest, finora legate interamente all’export tedesco rallentano pericolosamente. Il Sud crolla: ne sono testimonianza le innumerevoli vertenze aperte con le multinazionali che dopo aver usufruito di rilevanti incentivi, abbandonano sfrontatamente e impunemente il Mezzogiorno. Questa prevaricazione, dice Ricci, la CGIL non è disposta a subirla; non sarà consentito a nessuno che le tensioni occupazionali divampino in incendio sociale. La CGIL è il sindacato che si prende cari35


co delle giuste rimostranze espresse dai lavoratori che quotidianamente sono vessati nei diritti e nella loro umanità, capace di convogliare le energie nella giusta direzione, depurandole dalla rabbia circoscrivendo e annullando le possibili lotte tra i deboli. La sala è animata dalla presenza di molti lavoratori di Almaviva Napoli e di Comdata che spesso interrompono la relazione. Lo stato di frustrazione è palpabile tra questi uomini e donne. Le aziende, di cui sono dipendenti, starebbero violando, gli accordi sottoscritti per la salvaguardia dell’occupazione. I lavoratori di Almaviva riferiscono che dopo aver accettato riduzioni di salario e applicazione dei Part time, adesso, sono costretti a trasferimenti in altre sedi, con spostamenti di oltre settanta chilometri. Di fatto, queste lavoratrici e lavoratori sopportano un ulteriore sacrificio economico sui già striminziti salari percepiti, senza che sia corrisposto alcun indennizzo per i trasporti che nelle zone individuate, da Almaviva, sono pressoché inesistenti.

Comdata , azienda vincitrice

dell’appalto per i servizi Inps, capace di macinare utili per un miliardo di euro ha dichiarato parte del personale in esubero, violando l’accordo che

prevedeva

l’assunzione di tutti i lavoratori dopo i 1.700 licenziamenti intervenuti negli anni scorsi. Il nuovo appalto è stato vinto da Comdata con il massimo ribasso. Le vicende di queste due aziende assumono i connotati di una vera macelleria sociale, denunciano i delegati sindacali, la continua violazione degli accordi sottoscritti tra istituzioni, sindacati e azienda scaricano sui lavoratori tensioni, costi economici e psicologici enormi. La conservazione del posto di lavoro non può passare attraverso il ricatto occupazionale e il drastico peggioramento generale delle condizioni di vita delle persone, affermano i delegati. Agli interventi assiste il segretario generale della CGIL, Maurizio Landini, che appare provato e commosso dalle disperate rimostranze di queste persone che rivendicano dignità e progettualità del lavoro. I 36


delegati, continuano i loro interventi, denunciano l’assurdo del lavoro che non paga. Un lavoro è un perfetto bilanciamento di diritti e doveri, di tutele e vita sociale. Landini prende appunti. La tensione è altissima nella sala. In questo luogo si è materializzata, con tutta la sua forza, la drammaticità delle crisi industriali che investono come un uragano le vite dei cittadini della Repubblica a cui la Costituzione provvede con tutele e dignità. Chi lavora non può essere povero, chi lavora non deve scegliere tra la sopravvivenza familiare e l’inalienabile diritto allo studio per i propri figli o per i giovani lavoratori, non si può rinunciare al diritto di curarsi, aggiungono i delegati nei loro composti e lucidi interventi. Accanto a me è seduta Pina Scala, portavoce delle donne e degli uomini della vertenza Whirlpool, che indossa la maglietta simbolo della loro lotta “ Whirlpool – Napoli non molla”. Ha le lacrime agli occhi, tra le mani stringe la cartella contenente il suo intervento, mi guarda e mi dice: “tutto questo non è possibile, è il momento di stare uniti, lottare tutti insieme c’è bisogno di crescere insieme, di essere lucidi”. Pina è invitata ad intervenire, dopo un attimo di esitazione si avvia verso il palco, conscia della difficoltà del momento. Declina il suo intervento con calma, senza concedere spazio all’emozione. La voce è ferma e chiara, richiama la drammaticità del momento e fa appello alla calma e alla determinazione che il momento impone, richiama tutta la CGIL a stare stretta e compatta, Landini ascolta e prende appunti. Nella sala dell’Hotel Oriente di Napoli, torna la calma ma non manca la determinazione, gli applausi sono convinti. Gaetano Manfredi, rettore dell’Università Federico Secondo, riferisce che le facoltà Federiciane ogni anno sfornano 14.000 laureati, oltre la metà in discipline scientifiche. Di questi ragazzi solo una minima parte resta nel territorio della Campania, assistendo al paradosso che la cultura acquisita diventa sinonimo di migrazione. La problematica dell’ alta istruzione e della povertà del lavoro sta desertificando il meridione che investe faticosamente nei suoi 37


giovani per poi vederseli portare via rendendo vani gli sforzi compiuti. Gli accordi di programma e di collaborazione con le industrie ad alto contenuto tecnologico ci sono e riscontrano gradimento e soddisfazione del mondo delle imprese che, però, come per il lavoro fagocitano risorse del Sud senza limiti. Il rettore insiste, affermando, che la crisi è sistemica e a carico di tutto il Paese, che in questa fase congiunturale lunghissima sta coinvolgendo, decisamente anche le aree cosi dette ricche del Nord. Il rallentamento di quell’area si sta palesando drammaticamente. Le risposte devono essere univoche e unitarie. Le riforme del sistema dell’istruzione vanno pensate e condivise, tali da rispondere univocamente alle esigenze dell’intera nazione che resta una e indivisibile. Interviene Maurizio Landini che, in premessa richiama la vicenda Fiat del 2010, dove la questione contrattuale e le flessibilità furono centrali in quella trattativa. Il ragionamento della Fiat, guidata allora da Marchionne, perseguiva la via dell’abbandono del Contratto Collettivo Nazionale, favorendo la contrattazione di sito che assumeva rilevanza di contratto collettivo per negoziare più flessibilità per la catena di montaggio. Quella convinzione si è dimostrata fallace, secondo Landini, infatti le pretese di flessibilità non hanno migliorato le condizioni salariali e di sicurezza, ma hanno denunciato la mancanza d’investimenti produttivi nell’auto in funzione ecologica e innovativa così come in tutti i comparti strategici dell’industria, ingenerando riduzione dei salari e mancate assunzioni. Questo tipo di strategia sta producendo i risultati che in questa sala si sono palesati drammaticamente, continua Landini, nello scenario generale bisogna che “noi” compiamo una scelta nuova. Dobbiamo, prosegue il segretario, entrare nei meccanismi delle riorganizzazioni industriali, approfondire i modelli organizzativi, non possiamo ridurre il nostro compito solo alla contrattazione di salario e orario di lavoro. Proprio perché i cambiamenti in atto sono dirompenti e impattano sulle persone, è neces38


sario cambiare le modalità delle relazioni industriali. Anche l’algoritmo è progettato e gestito da una persona, ragione per cui, se l’impresa chiede la mia intelligenza e la mia opera, deve confrontarsi con le persone e di conseguenza con il sindacato. Questo è il solo modo d’impedire le fughe e gestire l’impatto delle innovazioni e dei nuovi lavori, che, poi, molti nei quali nuovi non lo sono nelle modalità di sfruttamento, basti considerare i riders, i lavori in agricoltura e se ne potrebbero citare tanti altri: in questi settori è il cottimo che imperversa. Dobbiamo sapere che cosa si produce, come losi fa e quali sono le implicazioni di certe scelte. Quale connessione esiste o, si deve costruire tra i territori. A proposito di territori poi, Landini ragionando non solo in chiave meridionale, aggiunge che a seguito della frenata delle economie forti, tutta l’Italia è inserita nel meridione d’Europa. Lo stesso Nord Italia, a causa delle dismissioni industriali e della contrazione degli ordinativi, ha vaste aree depresse e a rischio desertificazione, quindi la questione è di carattere complessivo. È necessario fare sistema, perché ogni regione ha le sue aree interne. Se non esiste un’idea di politica industriale strutturata, non si crea nuovo lavoro e si finisce per non difendere neanche quello che c’è. La leva fiscale è uno di quegli elementi che favorisce il lavoro; in questo senso, continua Landini, l’attuale governo ha incontrato i sindacati che stanno apprezzando lo sforzo che si sta compiendo con i tre miliardi indirizzati alla riduzione del cuneo fiscale, sicuramente ancora insufficiente. Il provvedimento andrebbe esteso per tutti i redditi almeno fino a 35.000 euro e per l’anno prossimo raddoppiare gli importi e rendere il provvedimento strutturale. Non bastano i provvedimenti di detassazione degli utili a fronte del loro reinvestimento in produzione e sviluppo. Tutto deve essere accompagnato da misure congrue per il lavoro. Perché i lavoratori vogliono pagare le tasse, ma devono pur guadagnare e allora qui tutto il discorso si lega. Il segretario generale della Cgil, afferma che di autonomia differenziata non se ne sente proprio 39


il bisogno. In questo paese siamo già abbastanza differenziati, dice sorridendo. Il ragionamento da fare è, invece, come valorizzare le peculiarità dei diversi territori e connetterli tra loro attraverso il sistema infrastrutturale nazionale, quindi contano gli investimenti pubblici. Fare sistema, significa non sprecare le risorse disponibili. Il sistema delle imprese private, da solo, non è in grado di rispondere alle esigenze d’investimento, Landini cita la recente fusione tra Salini - Impregilo con Astaldi e la partecipazione dello Stato attraverso la Cassa Depositi e Prestiti, affermando che operazioni di questa fattispecie liberano risorse e competenze al servizio del paese che si proietta in una dimensione internazionale valorizzando il”saper fare” che è pur presente nel Paese. Continua dicendo che le risorse economico – finanziarie in Italia ci sono. L’ingente quantità di risparmio sui conti correnti rimane inoperoso a causa della fragilità e indecisione che costantemente attanaglia il Paese. L’istituzione di una cabina di regia costituita dal pubblico, il privato, le organizzazioni sindacali, le istituzioni territoriali, significherebbe ragionare positivamente su tutto il comparto produttivo per generare lavoro e competenze di qualità. Il sindacato , e in particolare la Cgil, non si tirerebbe indietro anzi, sarebbe in grado di offrire soluzioni efficaci d’investimento, garantito, attraverso i fondi pensione negoziali e quelli aperti impiegando le risorse per fini costruttivi e utili alla Nazione. Landini riprende poi i temi dell’incontro del 17 ottobre scorso tenutosi a Bari dal titolo “Credito e Mezzogiorno” rilanciando l’idea dell’impiego del risparmio residente in quell’area, affinché esso sia investito per la gran parte a beneficio di quell’area geografica e in direzione delle imprese residenti, con propensione all’innovazione oltre che al completamento di opere pubbliche da ultimare. Il tema del cambiamento climatico è legato strettamente alla tutela del territorio che va inserito nel quadro complessivo dei nuovi assetti delle politiche industriali e infrastrutturali. Il segretario genera40


le della Cgil per chiarire ancora più semplicemente i concetti cardine che il sindacato da lui rappresentato propone, ricorre ancora a degli esempi concreti. In una riunione tenutasi in Germania a cui fu invitato dalla confederazione tedesca, si discuteva della produzione dell’auto elettrica inserita nel piano d’investimenti 2020 poi prorogato al 2023. In quella sede erano presenti le quattro imprese dell’auto, i sindaci dei distretti interessati, le università, il governo federale, le banche, i sindacati di categoria, partiti di governo e d’opposizione, il tutto finalizzato alla creazione di sinergie valide che concorressero alla realizzazione, ognuno per la sua parte, di un progetto che arrecasse beneficio e valorizzasse le peculiarità territoriali per la promozione di una sviluppo armonico nell’interesse generale, escludendo anticipatamente interessi particolari e regionali. Cosi come sta avvenendo in Francia con la prossima fusione Peugeot – FCA nella quale il Governo transalpino ha una quota di partecipazione. Solo in Italia, conclude, i vari governi dichiarano che l’auto è una questione di mercato; il mercato è ben presente nelle intenzioni della proprietà FCA, tanto che continua a dividersi gli utili che dirotta all’estero. Applausi dalla platea. Il sistema produttivo italiano è composito: le imprese di grandi dimensioni sono poche, molte sono le medie e le piccole che scontano, come il resto del Paese, ritardi nella ricerca e nella formazione. Non meraviglia, quindi, che i nostri giovani vadano all’estero ad esprimere il loro enorme potenziale. Il discorso di Landini, poi, si concentra sugli appalti al massimo ribasso e i subappalti, elemento notevolmente distorsivo che precarizza il lavoro e la vita degli individui, come richiamato dalle giuste proteste, delle lavoratrici e lavoratori di Almaviva e Comdata presenti. L’attuale sistema degli appalti, ricorda il segretario generale, concorre drammaticamente a generare una feroce concorrenza tra lavoratori. In qualsiasi settore essi sono presenti, anche nella pubblica amministrazione che 41


se, da un lato crede di risparmiare, dall’altro crea inefficienze e ricadute negative sui servizi al cittadino, sui salari, sulla sicurezza dei posti di lavoro, sulla fiscalità generale producendo pesanti oneri a carico dello Stato e delle sue finanze. Senza contare le infiltrazioni malavitose, la dilagante corruzione; il legislatore, se vuol sciogliere questo nodo,

deve tener presente questi elementi e modificare

l’impianto legislativo, non è possibile continuare con una tardiva repressione continuando a ricorrere alla magistratura. Il sistema deve prevedere una severa prevenzione. Il richiamo agli iscritti è severo, non bisogna identificare il nemico da combattere nella parte più debole delle filiere produttive. Lo sforzo deve essere di comprensione e unità nell’impegno a modificare, se pur faticosamente, la distorsione. Inoltre le occasioni di dibattito tra iscritti sono le giuste sedi per arrabbiarsi e rivendicare l’ascolto, ma non si possono scaricare sulla CGIL le tensioni e le giuste frustrazioni sopportate. La Cgil è impegnata nella comprensione dei cambiamenti in atto che sono vorticosi e improvvisi e, proprio per queste ragioni, è di fondamentale importanza rimanere uniti e contribuire positivamente al cambiamento attraverso la partecipazione e l’assunzione di responsabilità nelle scelte che si compiono. In conclusione, Landini afferma che la difesa dei diritti degli individui è la sola strada per sconfiggere l’isolamento e la solitudine che questo sistema sta inducendo nelle persone; l’idea di sindacato confederale va difesa e rafforzata perché essa racchiude tutte le categorie e le tipologie di lavoro che altrimenti sarebbero spinte, come si sta tentando di fare, all’isolamento. L’idea di ricostruire i legami di solidarietà tra le persone che hanno bisogno di lavorare deve essere l’ingrediente per sconfiggere il corporativismo umano e lavorativo in cui stanno tentando di precipitarci. 42


Esteri

C’è del rosso in Gran Bretagna Aldo AVALLONE

Dopo appena due anni dalle ultime elezioni, il prossimo 12 dicembre i cittadini britannici torneranno alle urne per eleggere i rappresentanti della Camera dei Comuni. Il sistema elettorale è quello del maggioritario puro, per cui sarà eletto il candidato che prenderà anche un solo voto in più in ognuno dei 650 collegi uninominali. A sfidarsi saranno i Conservatori di Boris Johnson, attuale premier, Jeremy Corbyn, leader dei laburisti e nel ruolo di terzo incomodo Vincent Cable, a capo dei liberaldemocratici. Una grossa incognita è rappresentata dal Brexit Party di Nigel Farage, capace alle ultime elezioni europee di finire davanti a tutti con il 30,5% dei voti. E’ ovvio che uno dei temi principali nella campagna elettorale sia quello della Brexit. Johnson spera di ottenere finalmente quella maggioranza, finora mancatagli, che gli permetterebbe di portare a termine il suo progetto di uscita dall’Unione europea. I laburisti, al contrario, in caso di vittoria punterebbero allo 43


svolgimento di un nuovo referendum. I sondaggi, al momento, danno in vantaggio i Conservatori, il cui programma è sostanzialmente riassunto dallo slogan “Get Brexit done” (facciamo la Brexit) ma i Laburisti, che già nella scorsa tornata elettorale furono protagonisti di una esaltante rimonta che li portò ad appena due punti percentuali dalla vittoria, sperano di ribaltare i pronostici. E, per quanto difficile, la rimonta appare possibile. Soprattutto grazie a un programma ambizioso e coraggioso presentato da Corbyn, l’unico capace di dare una scossa a una campagna elettorale finora sottotono. La società inglese è caratterizzata da una disparità sociale accresciuta negli ultimi anni. Il Regno Unito è la quinta potenza economica del mondo ma secondo l’Institute of Fiscal studies almeno un bambino inglese su tre vive in uno stato di povertà relativa. Oltre 3,5 milioni di persone hanno a disposizione poco più di due sterline al giorno per mangiare. A fronte di oasi di grande benessere si contrappongono fasce di povertà sempre più ampia. Il messaggio che Jeremy Corbyn lancia all’elettorato è semplice ed efficace: ridistribuiamo la ricchezza, togliendo a chi nell’era della globalizzazione si è arricchito per dare agli altri e così facendo riduciamo le differenze. Per farlo propone un vasto piano di nazionalizzazioni, dall’energia al gas, dai servizi postali all’acqua. Il programma del Labour Party prevede, inoltre, l’aumento del salario minimo orario a dieci sterline (oggi il limite massimo è fissato a otto), aumenti salariali per il settore pubblico, abolizione delle tasse universitarie, potenziamento dell’assistenza sanitaria gratuita per gli anziani, blocco dell’età pensionabile a sessantasei anni. In politica estera Corbyn rilancia un nuovo internazionalismo che, in sostanza, prevede una presa di distanza dalle politiche americane. Come si vede, si tratta del primo vero programma di una sinistra anti liberista. Un’occasione, forse irripetibile, per portare avanti un progetto di trasformazione di una società capitalista in una socialista e laburista. Un esperimento che se giunges44


se a buon fine rappresenterebbe il seme di un cambiamento che potrebbe germogliare anche in altri Paesi occidentali. La stampa britannica, per la gran parte asservita al potere, non fa mancare critiche rispetto alla copertura economica necessaria alle riforme programmatiche del Labour Party. E anche su questo punto la risposta di Corbyn è netta: a pagare il conto dovranno essere i super ricchi, gli evasori fiscali, gli speculatori e i grandi inquinatori. Coloro che nell’epoca della globalizzazione hanno tratto enormi profitti ottenendo per lungo tempo sconti fiscali dal governo conservatore. Corbyn intende tassare per undici miliardi di sterline le compagnie petrolifere e del gas, aumentare l’aliquota sulle imprese, rimettere la tassa di successione, eliminata dal governo Cameron, e aumentare, altresì, le imposte per chi guadagna più di ottantamila sterline l’anno. Inoltre alcune misure potrebbero essere finanziate in deficit. Secondo l’economista Ann Pettifor, una delle prime ad aver previsto la crisi economica con il libro “Coming First World Debt Crisis” del 2006, le misure a debito previste dal governo saranno ripagate dall’aumento del gettito fiscale nel lungo periodo. Utopia? Forse. Ma Johnson si sta dimostrando elettoralmente debole, incapace di smuovere entusiasmo, mentre Corbyn ha dalla sua parte i giovani, tra i quali la sua popolarità è in netta crescita. Se riuscirà a conquistare parte dell’elettorato di età più matura, tradizionalmente conservatore, potrà sperare di ribaltare un esito che molti danno per scontato. Noi ci crediamo.

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Politica e Psicologia

Introfada. La rivolta del militante introverso Giovan Giuseppe MENNELLA

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Da pochi giorni è uscito un libro di Hanja Ahsan, scrittore angloindiano, che, con un gioco di parole e una provocazione che riecheggia la lotta dei palestinesi, si intitola “Introfada”, dedicato a una potenziale rivolta di tutti gli introversi, i timidi, gli autistici del mondo, . Il libro nasce dalla storia della famiglia dell’autore, perché il fratello fu incarcerato nel Regno Unito per sei anni senza processo, con l’accusa di terrorismo. Nonostante soffrisse della sindrome di Asperger, fu estradato negli USA, dove fu tenuto in cella d’isolamento per due anni. Poi diventò un artista e vinse anche un premio in una mostra d’arte a Lubiana. L’autore ha considerato il comportamento delle autorità britanniche come una manifestazione di discriminazione razziale in quanto un altro detenuto, accusato degli stessi reati, non fu estradato perché non era di origine bengalese, ma anche una discriminazione personale, per via della sua sindrome che porta a un particolare tipo di introversione e di impaccio sociale. Nel libro, metà romanzo metà manifesto di intenti, Ahsan immagina che i Militanti introversi e la loro unità operativa, gli Isolazionisti Armati, mirino a distruggere le politiche suprematiste ispirate alla cultura assertiva propria del XXI Secolo. Sono un movimento d’avanguardia, radicalizzatosi contro il dominio imperialista degli estroversi, che trova rifugio nell’Aspergistan, un territorio governato dalla Ssssh’ria e soggetto all’ideologia pan-timidista. Da notare come giochi con la parola Ssssh’ria che ha il suono onomatopeico del verso che si usa per invitare al silenzio, ma echeggia anche la parola shy che in inglese significa timido. Sempre che non si voglia pensare a una assonanza con sharya, la legge islamica, ma l’ipotesi sembrerebbe azzardata. L’Aspergistan difende i diritti degli oppressi, dei timidi e dei pacati; tutte le sue politiche sono silenziose e di basso profilo. Ahsan la immagina come una nazione utopica, in cui vive il popolo degli introversi e degli autistici di tutti i tipi. Appare 47


evidente l’intenzione di colpire con l’ironia sovversiva tutti i comportamenti di bullismo e di sopraffazione da parte di coloro che, sentendosi più forti, si ritengono autorizzati a prevaricare gli altri. Si tratta di una satira sofisticata che tende a incoraggiare il dibattito per combattere la cultura dominante che porta al colonialismo, all’esclusione sociale, al rischio di perdita della salute mentale nella società capitalistica. In una società siffatta, sembra dire Ahsan, si è costretti a forzare la propria identità individuale. Il lavoratore diventa consumatore e poi performer. Si è costretti a diventare protagonisti per forza, avendo un padrone non più esterno ma introiettato. Uno psichiatra direbbe che rischiamo tutti di assumere una personalità ossessiva. Un esempio non banale di questa condizione è quello che colpì un personaggio famosissimo come Vittorio Gassman. La madre lo indusse a superare il carattere timido e introverso iscrivendolo a sua insaputa all’Accademia di arte drammatica di Roma. Gassman forzò sempre la sua natura diventando come attore e personaggio pubblico l’istrione e il mattatore che tutti conoscono, ma pagando un prezzo elevato da un punto di vista della psiche. Infatti, molti personaggi del mondo dello spettacolo hanno testimoniato che nel privato soffrì di molte manie, di molti tic e di sorprendenti insicurezze, per essere poi colpito nei suoi ultimi anni da una forte depressione. Un altro libro che tratta un argomento in qualche modo legato alle tematiche dello scritto di Ahsan è “La società della performance, ovvero come uscire dalla caverna” di Andrea Colamedici e Maura Gancitano. Gli autori rilevano che oggi si tende a far dipendere la propria esistenza dalle prestazioni altissime richieste dalla società tecnologica. Non si può più avere la possibilità o anche proprio il gusto di sbagliare. Google maps ci farà arrivare più presto in un luogo, ma non potremo più perderci, così non ci sarà più la possibilità di fare esperienza e di imparare qualco48


sa di nuovo e di imprevisto dagli errori. Non ci potrà più essere la figura del “flaneur” di cui trattava Walter Benjamin o la “deriva” di cui si occupò Guy Debord. Si è costretti a rinunciare a priori ad avere torto. Come disse Bertolt Brecht, tutti gli altri posti erano già occupati ed io mi schierai con chi aveva torto. Il sociologo Harold Garfinkel aveva detto e insegnato qualcosa di simile con i suoi cosiddetti esercizi di rottura, aventi lo scopo di invertire il senso di determinati comportamenti e di creare situazioni spiazzanti e apparentemente incongrue rispetto al senso comune razionale e perfezionista, come, ad esempio, insistere per pagare di più un prodotto invece di chiedere lo sconto. Esseri timidi e perdenti può rovesciare il sistema. Ahsan ricorda il movimento delle Pantere nere che nacque come leva di riscatto per la popolazione di colore negli USA emarginata e perseguitata ma finì per diventare qualcosa di energetico e debordante, quasi simile al turbocapitalismo afroamericano. Colamedici e Gancitano sottolineano come la società in cui viviamo sia la società dell’immediatezza in cui la dimensione più pura dell’esistenza è stata sostituita da rappresentazioni, spesso ingannevoli. E’ la società della prestazione, si è immersi in un’epoca in cui l’autenticità ha lasciato il posto all’imitazione, la cura per l’altro alla varietà dei profili social. Mentre si crede di avere il controllo, si è costantemente manipolabili, misurabili, prevedibili. In una parola, lungi dal controllare, viceversa si è controllati. L’uomo contemporaneo vive una condizione che è strutturata per sostituire al mondo l’imitazione del mondo, all’espressione di sé l’esibizione di sé, alla ricerca del senso della vita la ricerca di sempre maggiori benessere e visibilità. Una società che chiede opinioni, condivisioni ed esibizioni ha paura del silenzio. I libri di Ahsan e di Colamedici e Gancitanono cercano di offrire una risposta, o almeno un disvelamento, alla condizione di disagio, attesa e paura di tutti quelli che 49


avvertono di non avere il loro posto nel mondo.

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Politica

Un mare di pesce azzurro Antonella GOLINELLI

Oh! qui si parla di sardine. Sardine ovunque, sui social, giornali, tv e nelle piazze. Mi sono iscritta alle pagine e ai gruppi per vedere le dinamiche. Sono interessanti. Sono anche ciclicamente nello storico. Ho visto questo: - a fronte di una mole molto consistente di entusiasti, di persone che non vedevano l'ora di tornare ad avere un sogno (la volta scorsa qui in Emilia Romagna ha votato il 37 e sblisga per cento. Praticamente quasi niente sugli aventi diritto) si assiste alla presenza rumorosa e fastidiosa di una minoranza che mette in campo una serie di distinguo e obiettivi particolari che nulla hanno a che fare con il fenomeno. Alme51


no al momento. Si assiste pure ad uscite rapidissime con conseguenti posts di indignazione per la non accettazione dei loro desiderata. Mah; - si assiste anche allo strano fenomeno di lancio di proposte di discussione. A che fine non si sa. Non si capisce se per acquisire lustro personale o raccogliere dati; - altro fenomeno sono i sondaggi lanciati. Sondaggi?!?! Ne ho incrociato uno di prossimità e ho chiesto. Sono stata attaccata da trolls. Siccome non sono nata ieri, nemmeno l'altro ieri purtroppo, ho tenuto il colpo. Ma non ho avuto risposte. Colui che l'aveva lanciato (un amante dei mezzi cingolati armati risulta dal profilo) si è giustificato dicendo per sua curiosità personale. Quindi l'omarello per soddisfare la sua curiosità personale invece di leggere i commenti ha pensato bene, per comodità sua, di lanciare un sondaggio con una decina di risposte possibili? Che pigro. Ma dai! Mettiamola cosi: “la bestia” sta perdendo colpi, non hanno una linea e non riescono a trovarla. Infatti si sono buttati in un opa su Roma e sul MES. Di Emilia Romagna non parlano più. In compenso la7 si lancia in reportage su Bibbiano. Con ben pochi risultati, almeno a giudicare dalla nulla discussione della mia bolla. L'altra faccia del fenomeno è il tentativo di accomunare questo fenomeno ad altri del passato animati da intellettuali. A parte che compiono l'errore che abbiamo sempre imputato a five stras, leghisti e vivaisti di decontestualizzare gli avvenimenti, questi intellettuali davvero non capiscono perchè il popolo non penda dalle loro sapienti labbra, come abbiano osato aderire a qualcosa che non parte da loro, dalla loro iniziativa. A mio modesto avviso di ignorantona silvana il punto, la risposta, è proprio nella domanda. 52


Siccome tutta una classe di intellettuali, organici o meno, ha preteso di dettare la linea nel tempo, con scarsi risultati, usando linguaggi non sempre comprensibili e ragionamenti semplici ammantati da strutture linguistiche improponibili, hanno preteso l'omaggio perenne ed esibito una autoreferenzialitĂ non solo indisponente ma distruttiva, non mi stupisce non siano stati coinvolti. Chi poteva arrivare al loro empireo? Nessuno. Non certo noi poveretti che giriamo per la strada. Noi le suole delle scarpe la consumiamo.

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Testata online aperiodica Proprietà: Comitato per l’Unità Laburista, Strada Sesia 39 14100 Asti (AT) Direttore Responsabile: Aldo Avallone - Stampatore: www.issuu.com web: www.issuu.com/lunitalaburista - mail: lunitalaburista@gmail.com - Tel. +39.347.3612172 Palo Alto, CA (USA), 30 novembre 2019 54


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