l'Unità Laburista - Virus letale - Numero 33 del 16 febbraio 2020

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Numero 33 del 16 febbraio 2020

Virus letale


Sommario 

Storia di un matrimonio contrastato - pag. 3

di Aldo

AVALLONE 

Il primo congresso nazionale dei Fasci di combattimento - pag. 7 di Giovan Giuseppe MENNELLA Cresce la fiducia degli italiani nel Sindacato pag. 14 di Raffaele FLAMINIO Quanta bellezza nella nuova serie firmata Paolo Sorrentino - pag. 19 di Anita NAPOLITANO Israele, il Piano Trump è la morte della pace. E del sionismo. Intervista a Zeev Sternhell - pag. 22 di Umberto DE GIOVANNANGELI

Ciao maschio - pag. 29 di Antonella BUCCINI

Premesso che - pag. 32 di Antonella GOLINELLI

Intervista a Elly Schlein, una donna coraggiosa, ecologista e progressista - pag. 35 di Aldo AVALLONE Michael Tippett, il musicista prima trotzkista e poi pacifista - pag. 39 di Giovan Giuseppe MENNELLA Affaracci. Egitto, la vergogna italiana - pag. 43 di Umberto DE GIOVANNANGELI

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The Divide (parte prima) - pag. 51 di Raffaele FLAMINIO Son partita da Bologna, con le luci della sera pag. 56 di Antonella GOLINELLI 2


Politica

Storia di un matrimonio contrastato Aldo AVALLONE

Questa storia è accaduta a Napoli, terza città d’Italia per numero di abitanti ma ancora periferia della nazione. Mi si potrebbe obiettare che non ha alcun interesse generale ma narra di un accordo politico che potrebbe rappresentare il germoglio di una pianta da coltivare in tutto il resto del Paese. La storia comincia con un sindaco, Luigi De Magistris, ex magistrato d’assalto, che è al governo della città da ben nove anni con una maggioranza composta da una sua lista “Dema” e tante altre sigle che lo hanno appoggiato richiamandosi a valori e ideali certamente di sinistra. Il Partito Democratico, in consiglio comunale è all’opposizione. Da cittadino napoletano posso affermare con estrema sincerità che 3


l’esperienza amministrativa di De Magistris è stata del tutto negativa. La città, pur beneficiando di un incredibile boom turistico, è totalmente priva di servizi. Cura delle strade, gestione del verde pubblico, raccolta dei rifiuti e, soprattutto, trasporto pubblico sono allo sbando. Il sindaco in questi lunghi anni piuttosto che occuparsi dei problemi della città ha inseguito un “populismo di sinistra” che lo ha completamente isolato dal contesto politico locale e nazionale. Ha litigato con Renzi, quando questi era presidente del Consiglio dei ministri, ha litigato con il presidente della Regione a guida Pd, De Luca, isolando, di fatto, l’Amministrazione comunale, impedendo una corretta collaborazione istituzionale che avrebbe avvantaggiato la città. In questo contesto accade che un collegio senatoriale, che rappresenta circa il 70% del corpo elettorale napoletano, viene a liberarsi per la prematura scomparsa dell’eletto cinque stelle. Pertanto occorrono elezioni suppletive. Mentre nei vari partiti si preparano le grandi manovre, grazie anche al coraggio del giovane neo segretario cittadino del Pd, Marco Sarracino, si giunge a un accordo su un nome della società civile che si presenterà con una lista propria. Il candidato unitario del Partito Democratico, di Leu e del sindaco De Magistris è Sandro Ruotolo. Un giornalista da sempre impegnato nella lotta contro la criminalità organizzata, tanto da essere costretto a vivere sotto scorta. Antifascista, antirazzista, un vero compagno. Anche il movimento delle Sardine napoletane si schiera a fianco del giornalista. A questo punto, per non rimanere totalmente isolata, perfino Italia Viva converge sul nome di Ruotolo. Ci si aspetterebbe, nel mondo variegato della sinistra napoletana, un appoggio incondizionato a una candidatura forte come quella di Ruotolo, valutando, soprattutto, che al Senato l’esecutivo non ha una maggioranza ampia e consegnare il seggio alla destra nuocerebbe alla tenuta del governo. Invece cominciano i distinguo e i 4


mal di pancia perché “i partiti tradizionali della sinistra non avrebbero mai dovuto fare un accordo con De Magistris”. Addirittura due intellettuali napoletani lanciano un appello contro Ruotolo; un appello che raccoglie circa quattrocento firme. Peccato che tra i firmatari figurino elementi dichiaratamente di destra che, ovviamente, non si sono fatti pregare per inquinare le acque di questo percorso unitario. De Magistris non è stato un buon sindaco ma è stato scelto, per due volte, dalla maggioranza dei cittadini napoletani e il suo operato sarà giudicato tra un anno quando si dovrà rivotare per il Comune. Detto questo, il suo elettorato è certamente di sinistra per cui un accordo sulle elezioni suppletive per un importante seggio senatoriale, a mio avviso, è da considerarsi positivo. Come è positiva la convergenza totale di forze diverse quali Pd, Leu e Italia Viva che, per una volta, hanno messo da parte le polemiche e hanno trovato il coraggio di correre insieme per fermare la destra. È auspicabile che anche parte dell’elettorato cinque stelle possa convergere su un candidato importante quale è Sandro Ruotolo. A Napoli si voterà il 23 febbraio prossimo. Solo allora si potrà conoscere l’esito di questo esperimento costruito per battere la destra. Se, com’è augurabile, Sandro Ruotolo sarà eletto senatore, il processo unitario a sinistra potrà accelerare il suo percorso che avrà come prossima tappa le regionali, per le quali si voterà a fine primavera. Anche allora sarà importante non consegnare la Campania alla destra; si potrà discutere sul nome del candidato presidente ma, alla fine, tutte le forze che si richiamano ai valori progressisti dovranno presentarsi unite alla competizione elettorale. Non disdegnando, se sarà possibile, il dialogo anche con il Movimento cinque stelle. 5


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Storia e Politica

Il primo congresso nazionale dei Fasci di combattimento Giovan Giuseppe MENNELLA

Nelle giornate del 9 e del 10 ottobre 1919 si tenne a Firenze, al teatro Olimpia, il primo congresso nazionale dei Fasci di combattimento, fondati da Mussolini a Milano, a piazza San Sepolcro qualche mese prima, il 23 marzo di quello stesso anno. Lo svolgimento del congresso era stato annunciato il 6 ottobre sul giornale “Il Popolo d’Italia”. Nell’articolo lo stesso Mussolini affermò che quello che stava per essere presentato al congresso non era un partito ma un antipartito, un organismo pronto al combattimento, che non prometteva a nessuno il paradiso ma voleva radunare uomini pronti al combattimento, l’aristocrazia del coraggio. Composto da uomini provenienti da tutti gli orizzonti, uniti solo da affinità ideali. 7


Il programma era eterogeneo e confusionario, era conservatore e progressista, conteneva tutte le affermazioni e tutte le negazioni. Negava tutti i partiti ma intendeva completarli. Si poneva fuori e oltre le mura delle vecchie appartenenze. L’iniziativa dei Fasci era stata lanciata nel marzo di quel 1919, con l’appello a tutti gli interventisti e reduci della guerra. Tuttavia, avevano aderito non più di cento ex socialisti, ex repubblicani, arditi e futuristi. Non c’era ancora un segretario politico e lo stesso Benito Mussolini era solo un membro del Comitato centrale. Non aveva ancora assunto il nome di Duce e i suoi colleghi del movimento lo chiamavano semplicemente Benito, oppure compagno oppure professor Mussolini. Chi si occupava degli aspetti organizzativi fu dapprima l’ex aviatore Attilio Longoni e successivamente, dal mese di giugno 1919, Umberto Pasella. Costui era un funzionario organizzativo di professione, che si diede molto da fare per aumentare il numero degli iscritti, dei circoli e delle sedi. Ma, nonostante l’impegno, non è che all’epoca del primo congresso, in quel mese di ottobre, si fossero fatti passi avanti significativi su quell’aspetto. Neanche l’organo di stampa ufficiale del movimento fu “Il Secolo d’Italia”, di cui era proprietario e direttore lo stesso Mussolini, come ci si sarebbe aspettato. Questa funzione fu invece assunta dal settimanale “Il Fascio” che il 15 agosto pubblicò il simbolo del movimento, un pugno chiuso che stringeva un mazzo di spighe di grano. Le rivendicazioni principali e le posizioni movimentiste andavano dall’annessione all’Italia dell’Istria e della Dalmazia, all’opposizione violenta al Partito socialista. Ben presto contro i socialisti si era giunti alla violenza esplicita di piazza. Il 15 aprile una folla di fascisti diede alle fiamme a Milano la sede de “L’Avanti”. L’atto suscitò enorme impressione e riprovazione e può essere considerato il primo episodio della guerra civile in Italia. 8


L’incendio della sede del giornale socialista aveva provocato la reazione dei sindacati con lo sciopero generale e con manifestazioni contro la violenza. Ma Ferruccio Vecchi, ex ardito, e Filippo Tommaso Marinetti, fondatore del movimento futurista, avevano lanciato ugualmente un proclama contro gli imboscati, tra cui annoveravano i socialisti, a sostegno dei quattro milioni di ex combattenti che avrebbero dovuto assumere la direzione e il governo del Paese. I Fasci di combattimento si autoproclamarono avanguardia della rivoluzione italiana, nata con l’intervento in guerra, che avrebbe dovuto portare al governo i combattenti. La loro non sarebbe stata tanto una rivoluzione, quanto piuttosto una rigenerazione. E non doveva essere anticapitalista ma favorevole alla borghesia produttiva che avrebbe potuto imprimere forza al rinnovamento e alla modernizzazione della nazione. Peraltro, il programma originario dei Fasci, quello lanciato il 23 marzo 1919 da piazza San Sepolcro a Milano, era stato fortemente innovativo e di sinistra: abolizione del Senato di nomina regia, voto a tutti i diciottenni e anche alle donne, autonomie locali, giornata lavorativa di 8 ore, minimo sindacale di paga garantito, compartecipazione dei lavoratori alla gestione delle aziende, tassazione dei sovraprofitti di guerra, imposta progressiva sul capitale, sequestro dei beni della Chiesa. Però il richiamo agli interventisti, ai combattenti, ai reduci, non era stato efficace per raggiungere un congruo numero di simpatizzanti e di iscritti. Il movimento dei fasci fu nettamente sopravanzato su questo campo dall’Associazione nazionale combattenti e reduci che nel 1919 contava 500.000 iscritti. Viceversa, nell’agosto di quell’anno, i fasci potevano contare su 37 sedi che poi, per merito dell’organizzatore Pasella, erano presto diventate 148. Ma alla fine del 1919 erano scese di nuovo a 31 e si contavano solo 870 iscritti. Il congresso di Firenze sarebbe dovuto incominciare il 23 settembre, ma fu rinviato 9


per la concomitanza dell’avvio della spedizione sediziosa verso Fiume di D’Annunzio e dei suoi seguaci. Il Prefetto di Firenze monitorò la situazione dei possibili partecipanti e anche dei possibili oppositori del congresso, data la pericolosità della situazione, alla luce di quello che era successo a Milano a maggio con la distruzione de “L’Avanti”. Il prefetto, in data 8 ottobre, specificò che erano stati invitati al congresso esponenti di tutte le organizzazioni politiche, salvo i socialisti e i clericali. Previde l’arrivo di 250 persone da fuori città e prese tutte le misure necessarie per prevenire manifestazioni a favore dell’impresa fiumana di D’Annunzio. In realtà non ci furono conflitti e scontri gravi, se si eccettua una colluttazione tra alcuni socialisti e Mussolini e Marinetti in un caffè cittadino. E comunque l’interesse dei fiorentini fu assai scarso. Finalmente, il 9 ottobre 1919 si aprì il famigerato primo congresso dei Fasci di combattimento. Al teatro Olimpia si iniziò con il discorso di Benito Mussolini che era appena arrivato da Fiume. Fu un discorso piuttosto confusionario e non preparato, lo stesso Mussolini disse che non amava preparare i discorsi e preferiva improvvisare. Esordì riferendo che la situazione a Fiume era ottima; D’Annunzio avrebbe fatto di tutto per assicurare l’annessione della città adriatica all’Italia e le potenze occidentali, Francia e Gran Bretagna, non avrebbero potuto opporsi. Esaltò la mancanza nel movimento di posizioni preconcette verso qualunque situazione politica e sociale e quindi la necessità che si dovesse operare con realismo e dinamismo. Disse che non si doveva avere un culto acritico delle masse popolari, in quanto i calli alle mani non erano garanzia di efficienza e bravura. Ma si schierò anche contro la borghesia che non aveva nessuna intenzione di difendere acriticamente. Però era anche contrario al sovvertimento del modo di produzione capitalistico, perché una rivoluzione politica si 10


sarebbe potuta fare in 24 ore, ma non si sarebbe potuta rovesciare in poco tempo un’intera economia produttiva nazionale, in quanto integrata con quella mondiale. La prima giornata si concluse così con il solo intervento significativo di Benito Mussolini. Nella seconda giornata iniziò a parlare il segretario organizzativo Umberto Pasella che vantò i passi avanti fatti nell’incremento delle sezioni e degli iscritti, anche se le sue affermazioni erano alquanto dubbie e non verificabili. Poi intervenne alla tribuna Filippo Tommaso Marinetti, con il suo solito stile fiammeggiante e immaginifico, anche se impolitico, ai limiti della vociferazione e del vaniloquio. Reclamò la Costituente per instaurare la Repubblica, accentuò la polemica anticlericale auspicando l’abolizione della Chiesa e del Vaticano. Propose l’abolizione del Senato regio, da sostituire con un “eccitatorio” di giovani al di sotto dei 30 anni, l’abolizione delle carceri, l’istituzione di una scuola di arditismo per formare cittadini eroici, l’assunzione del potere politico da parte degli artisti. Il discorso suscitò molti schiamazzi e una diffusa ilarità, essendo accolto per quello che era, cioè una serie di proposte abbastanza strampalate. Si susseguirono poi altri interventi incentrati su una serie di proposte pure innovative, come l’istruzione obbligatoria nel Mezzogiorno del Paese o l’acquisizione in politica di uno spirito del tutto libertario. Un argomento tra quelli trattati si rivelò molto importante, cioè la partecipazione o meno del movimento alle imminenti elezioni politiche generali fissate per il 16 novembre. Mussolini avrebbe voluto partecipare in un blocco di partiti e movimenti interventisti di sinistra. Tuttavia gli altri esponenti dell’interventismo di sinistra, tra cui molti socialisti o ex socialisti, avevano già dichiarato che l’accordo elettorale con i fasci di combattimento si sarebbe potuto realizzare solo se Mussolini non fosse stato inserito in lista. Si alzò allora a parlare Michele Bianchi, un sindacalista calabrese che aveva parte11


cipato fin dall’inizio alla fondazione dei fasci a piazza San Sepolcro e agli scontri contro i socialisti. Bianchi criticò l’intenzione del movimento di partecipare alle elezioni insieme agli interventisti di sinistra, perché questi erano soprattutto socialisti o ex socialisti che avevano nel loro programma la rivoluzione sociale. Bianchi non voleva che i fasci si confondessero con loro perché non vedeva alcuna condizione sufficiente per scatenare una rivoluzione in Italia. Viceversa, propose di superare l’alleanza con forze politiche comunque tradizionali, ma realizzarla con forze innovative come i nazionalisti che ormai cominciavano a essere importanti nell’agone politico. Alla fine, sulle elezioni passò l’ordine del giorno di Mussolini, cioè parteciparvi andando da soli, per contarsi e poi, in caso di insuccesso, ricominciare su basi politiche diverse. Per Mussolini le elezioni furono una sfida che avrebbe rischiato quasi sicuramente di perdere. Dopo alcuni estremi tentativi di allearsi con altre forze, andati a vuoto, alla fine i personaggi rappresentativi compresi nella lista dei fasci furono solo tre: Mussolini, Marinetti e, a sorpresa, Arturo Toscanini. Il famoso direttore d’orchestra si era fatto attrarre già da marzo dal programma inizialmente progressista e innovativo dei fasci, ma più tardi, quando il movimento virò verso posizioni antipopolari, ritirò l’adesione e anzi preferì andare in esilio negli Stati Uniti quando il fascismo divenne un regime dittatoriale. Alle elezioni del 16 novembre 1919 i socialisti e i popolari risultarono il primo e il secondo partito più votato, conquistando cento e più seggi ciascuno. Per la prima volta nella storia d’Italia avevano vinto le elezioni due partiti che non avevano partecipato al Risorgimento e anzi volevano sovvertire lo Stato liberale. I Fasci di combattimento ottennero pochi voti, quasi tutti nella circoscrizione di Milano e nessun loro candidato fu eletto al Parlamento. Mussolini confidò alla sua 12


amante e mentore, Margherita Sarfatti, che avrebbe voluto abbandonare la politica e andare in giro per il mondo a suonare il violino e scrivere saggi e romanzi. Tuttavia, abbiamo la testimonianza di Umberto Terracini, importante dirigente della prima ora del Partito Comunista italiano e conoscitore di Mussolini fin da quel periodo, secondo cui il futuro Duce non ebbe mai intenzione di lasciare la politica attiva e anzi il suo obiettivo fu dal primo momento quello di conquistare il potere sfruttando il malcontento, da lui chiaramente avvertito, della piccola e media borghesia che nel dopoguerra si sentiva defraudata e smarrita e voleva continuare a essere importante e rispettata nel Paese. Viceversa, “L’Avanti” sostenne con poca preveggenza che le elezioni erano state la morte politica di Mussolini. Qualcuno ha ritenuto che sul giornale socialista fosse stato scritto sarcasticamente che si era rinvenuto nel naviglio a Milano un cadavere in avanzato stato di decomposizione, quello di Mussolini. Tuttavia, gli storici non hanno trovato traccia di un tale pezzo nelle raccolte del giornale. Invece fu lo stesso Mussolini che dalle colonne del Popolo d’Italia scrisse un articolo in cui esaltò l’anarchia e affermò di voler lasciare la politica. Ciò, come sappiamo, non avvenne e fu una sfortuna per l’Italia.

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Sindacato

Cresce la fiducia degli italiani nel Sindacato Raffaele FLAMINIO

Il quotidiano del lavoro “Rassegna Sindacale”, edito dalla CGIL, pubblica i risultati di una ricerca Eurispes sull’aumento della fiducia degli italiani nei sindacati. Il rapporto, intitolato “Uno stato da ricostruire” rileva che gli italiani stanno riconsiderando l’importanza dell’azione sindacale. Infatti, l’indice di gradimento, dei lavoratori italiani per i sindacati sale dal 37,9% al 46,4%: un significativo salto di ben 8,5 punti percentuali rispetto a un anno fa. Qualcosa sta mutando nella consapevolezza dei lavoratori italiani che, lentamente, stanno abbandonando l’idea del “chi fa da se fa per tre”. Le verità che esprimono i numeri difficilmente sono controvertibili. Questo poderoso 8,5% in più di gradimento per i sindacati va letto in una sola direzione. Il mondo del lavoro ha un gran bisogno di rappresentanza e rappresentatività. Non più tardi di due settimane fa, sulle pagine de “l’Unità Laburista”, ho sottolineato la 14


forte urgenza di una legge quadro che ridisegni le regole che attengono la rappresentanza. Le norme devono essere scritte con semplicità, chiarezza e coraggio, certificando le iscrizioni ai sindacati maggiormente rappresentativi, scongiurando la pratica dei contratti pirata fioriti in questi anni. Legiferare è compito del potere legislativo, quindi del Parlamento della Repubblica la cui Costituzione all’articolo 1 recita: “L'Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro. La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione”. La delega della rappresentanza in ordine ai rapporti economici sanciti dalla Carta Costituzionale, parte III, è assegnata ai sindacati che sono “Liberi e registrati. I sindacati registrati hanno personalità giuridica. Possono, rappresentati unitariamente in proporzione dei loro iscritti, stipulare contratti collettivi di lavoro con efficacia obbligatoria per tutti gli appartenenti alle categorie alle quali il contratto si riferisce”. Il dettato Costituzionale, quindi, impegna i sindacati a rappresentare unitariamente e univocamente i lavoratori nel loro interesse collettivo. Il risultato della ricerca spinge la palla nel campo sindacale. «Ai sindacati il compito e la responsabilità di ricercare unitariamente le soluzioni che meglio interpretino il bisogno urgente che i lavoratori sentono in questa epoca di repentini e difficili cambiamenti che il lavoro sta subendo» è quanto ha affermato da Maurizio Landini, segretario generale della CGIL, commentando i risultati della ricerca Eurispes. La “Carta Universale dei Diritti” che la Cgil ha proposto attraverso una raccolta di tre milioni di firme dei cittadini per mezzo di una legge d’iniziativa popolare, giace ancora in qualche polveroso cassetto di qualche commissione parlamentare. La politica e i sindacati faticosamente si stanno destando dallo stato di torpore nel quale 15


erano finiti. Merito di ciò è, senza dubbio, la forte necessità dei cittadini lavoratori di essere ascoltati e accompagnati nei difficili percorsi delle molteplici crisi aziendali esistenti in Italia. I sindacati devono dimostrare la loro indipendenza dai partiti e concentrarsi, senza interessi particolari, alla comprensione e all’ascolto delle istanze dei lavoratori che intendono rappresentare. Il compito dei sindacati è stare in mezzo ai lavoratori, sentirne le esigenze, avvertirne le difficoltà. La comprensione dei cambiamenti in atto, deve aumentare la qualità e l’efficacia dell’azione sindacale, i rappresentati sindacali devono essere istruiti, addestrati ed efficaci nella trattazione delle dinamiche lavorative che coinvolgono l’esistenza degli individui. Dalla qualità e dal numero di contratti, oggi presenti nel mondo del lavoro, dipendono la stabilità e la serenità di ogni lavoratore. Le forme di assunzione devono essere circoscritte e codificate in maniera semplice, tali da non lasciare spazi interpretativi. Il tempo, la prestazione, il salario devono essere declinati semplicemente affinché il rapporto di lavoro sia chiaro e lineare per i contraenti. I contratti devono essere tutelanti. La tutela del diritto e dei diritti devono permeare i contratti. Lo sforzo che le organizzazioni sindacali e quelle datoriali devono compiere è il disboscamento delle tante forme di assunzione o presunta tale. Non è ammissibile sconfessare il referendum abrogativo dei voucher nell’anno 2017 e poi, nello stesso anno, promulgare la legge 96 sul contratto accessorio (ad opera del governo Renzi), reintroducendo quella pratica abolita dal quesito referendario. Le ferie, la malattia, una giusta retribuzione, la contribuzione per un’adeguata pensione restano i capisaldi per un giusto contratto di lavoro che insieme alla tutela sindacale esprima un alto tasso di civiltà giuridica tale da impedire lo sfruttamento. 16


Le politiche del lavoro per i giovani sono all’insegna del disagio lavorativo. La povertà dell’offerta lavorativa proposta nel Paese scoraggia i giovani che fuggono: i dati Istat sono impietosi sull’argomento. L’invecchiamento demografico della nazione non lascia scampo. Mette a repentaglio lo stato sociale, concepito e costruito non come strumento assistenziale ma, inclusivo e solidale. Questi elementari concetti sono tradotti in quel + 8,5% di adesione ai sindacati confederali segnalati nei risultati della ricerca Eurispes. Come tutte le cose positive, piccole o grandi che siano, vanno pesati, pensati e misurati traducendo semplici segnali e sensazioni in atti concreti che non deludano l’idea che il Paese ha di se stesso. La comprensione di ciò che accade è semplice. Stare quotidianamente tra i lavoratori è una manifesta volontà improntata al cambiamento. In una fabbrica, in un centro commerciale, in un ufficio della pubblica amministrazione o in una grande azienda privata, ogni giorno si consumano fatti e misfatti che, si ripercuotono negativamente sulle persone. Alzare la testa e trovare chi condivide con te il dolore della mortificazione del lavoro non è cosa da poco. Le parole come Confederazione, Unione, trovino finalmente fattualità nei comportamenti collettivi ed individuali; la paura e la rassegnazione lascino il campo alla consapevolezza, alla combattività all’insegna della democrazia e del progresso. La narrazione dell’ineluttabilità del mercato si è dimostrata fallace. La logica dell’algoritmo che governa la vita, deve essere arginata e modificata. Questo è il compito del sindacato che ha l’obbligo di umanizzare il lavoro, di declinarlo nel rispetto della persona, avversando la logica del solo profitto come motore di progresso. Deve essere prevalente la logica del rispetto, del riconoscimento reciproco senza la 17


quale nessun organismo è capace di vivere.

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Cultura

Quanta bellezza nella nuova serie firmata Paolo Sorrentino Anita Napolitano

«Io non faccio miracoli, mi trovo al centro di tante coincidenze» afferma in maniera molto umana il Papa di Sorrentino, interpretato meravigliosamente da Jude Law. Sky ha trasmesso venerdì scorso l’ultima puntata di “New Pope” e, ancora una volta, il regista premio Oscar ci ha regalato una produzione cinematografica di altissimo livello presentandoci la sua visione del tutto originale del mondo della Chiesa. In New Pope, attraverso il Papa e tutti gli altri esponenti ecclesiastici, sono stati messi in scena Potere, Fede e Umanità, osservati attraverso una lente potente, quella della solitudine umana, che nella Chiesa è ancora più forte e spinge a cerca19


re la compagnia di Dio. Sorrentino ci dà una descrizione della Chiesa e dei suoi scandali, senza mai giudicare e lo fa attraverso la giusta ed equilibrata combinazione tra immagini, musiche, danze e dialoghi. Le scene si susseguono in un ritmo equilibrato, cadenzato da balli e musiche che creano atmosfere nuove e d’avanguardia: nelle austere stanze vaticane corpi femminili estremamente sensuali danzano liberamente a ritmo di musiche modernissime. La nuova serie è sicuramente un cult movie davvero particolare. Il genere scelto è quello della serie Tv che, grazie al potente mezzo di comunicazione di massa, ha permesso al regista di raggiungere un pubblico molto vasto, mantenendo comunque un livello narrativo altissimo riconosciuto dalla critica e dai cinefili. La serie Tv possiede una forza potente, quella della trama che ti aggancia alla televisione, che ti fa immaginare, pensare e persino emozionare. In New Pope c’è un susseguirsi storie che coinvolgono lo spettatore e i personaggi, ciascuno ben delineato nella sua umanità, sono interpretati dai migliori attori in un cast cinematografico davvero eccezionale. La serie è sicuramente un’occasione preziosa di evasione davanti alla TV, ma, soprattutto, dà allo spettatore la possibilità di immaginare, pensare ed emozionarsi, grazie a Sorrentino, che il mestiere del narratore lo svolge in modo eccezionale e sapiente, tanto da metterlo al servizio della buona televisione. Pertanto, invito tutti a guardare New Pope e, per chi non ha visto la serie precedente, anche The Young Pope. Il bello della nuova televisione consiste proprio nella possibilità di guardare i programmi come meglio ci piace. Possiamo scegliere come e quanto vedere gli episodi: uno per volta o tutti nella stessa serata. Perdiamoci, 20


dunque, nelle storie e nelle immagini di Sorrentino. Vi assicuro, ne vale la pena.

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Esteri

Israele, il Piano Trump è la morte della pace. E del sionismo. Intervista a Zeev Sternhell Umberto DE GIOVANNANGELI

È il più autorevole storico israeliano, più volte premiato in patria e nel mondo, già professore all’Università ebraica e alla Sorbona di Parigi: Zeev Sternhell. Sternhell è autore di opere fondamentali, che hanno fatto molto discutere, sull’ideologia fascista e sul sionismo (Nascita dell’ideologia fascista, Né destra né sinistra, Nascita di Israele, Contro l’illuminismo. Dal XVIII secolo alla Guerra fredda, (tutti pubblicati da BCD editore). Nel 2008, il professor Sternhell fu vittima di un attentato che solo per un “miracolo” non gli costò la vita. Trenta settembre: è quasi mezzanotte in un tranquillo quartiere residenziale di Gerusalemme Ovest. Sternhell esce di ca22


sa per chiudere il cancello e, in quel preciso istante, una pipe bomb esplode investendolo in pieno. Per fortuna alcune valigie hanno attutito l’impatto (il professore era appena tornato dall’aeroporto), altrimenti l’esplosione l’avrebbe ucciso. Secondo la polizia, l’attentato è stato meticolosamente pianificato. Qualcuno, appostato nelle case di fronte, ha seguito il professore, registrato i suoi movimenti e infine piazzato la bomba per ucciderlo. Impegnato in prima linea contro la destra oltranzista israeliana, il professor Sternhell è uno dei firmatari di un documento, pubblicato su The Indipendent, durissimo contro il “Piano del secolo” di Donald Trump. Eccone il testo, che fa da apertura all’intervista. “Come israeliani che si battono per un futuro pacifico per il nostro paese e per i nostri vicini palestinesi, dichiariamo la nostra opposizione di principio al piano dell'amministrazione Trump per il conflitto israelo-palestinese. Questo piano non risolverà ma approfondirà il conflitto, generando un grado di disuguaglianza non visto dall'apartheid sudafricano. Questo è un piano bantustan che mette in gabbia i palestinesi in sacche di terra controllate da Israele. Trump e Netanyahu agiscono come due lupi che negoziano come mangiare una pecora. Spinto da Trump, Netanyahu ha già dichiarato la sua intenzione di lanciare formalmente l'annessione della Valle del Giordano e degli insediamenti in Cisgiordania. Tutto ciò è diametralmente opposto al diritto internazionale e alle pertinenti risoluzioni del Consiglio di sicurezza dell'ONU, tra cui 2334 (che afferma che l'attività di insediamento di Israele costituisce una "flagrante violazione" del diritto internazionale e "non ha validità legale"). Siamo profondamente allarmati dalla debole risposta dell'UE finora, che definisce il piano Trump come "un'occasione" per rilanciare i negoziati di pace. Il piano non è tale, ma una tabella di marcia per l'apartheid 2.0. Non porterà pace, né una valida soluzione a due Stati. La leadership palestinese non può che respingerla. 23


Chiediamo all'Europa di respingere anche il piano di Trump e di iniziare a prendere serie misure contro l'annessione israeliana della Palestina, prima che sia troppo tardi”. Oltre a Sternhell, ecco gli altri firmatari: Ilan Baruch, ex ambasciatore israeliano in Sudafrica, Namibia, Botswana e Zimbabwe: professor Eli Barnavi , ex ambasciatore israeliano in Francia; professor Michael Ben-Yair, ex procuratore generale di Israele ed ex giudice della Corte suprema; Avraham Burg, ex presidente della Knesset e capo dell'Agenzia ebraica; Zehava Galon, ex membro della Knesset ed ex presidente del Meretz (il partito della sinistra pacifista israeliana); professor David Harel, vicepresidente dell'Accademia israeliana delle scienze e delle discipline umanistiche, vincitore del premio Israele (2004), vincitore del premio EMET (2010); professoressa Moty Heiblum, vincitrice del premio EMET (2014), membro della Israel Academy of Sciences and Humanities; Miki Kratsman, vincitrice del premio EMET (2011); Alex Levac, vincitore del Premio Israele (2005); Alon Liel, ex direttore generale del Ministero degli affari esteri, ex ambasciatore in Sudafrica e Turchia; Mossi Raz, ex membro della Knesset; Michal Rozin, ex membro della Knesset; professor David Shulman, destinatario del Premio Israele (2016) e vincitore del Premio EMET (2010). Professor Sternhell, l’appello di cui lei è tra i firmatari, è un possente j’accuse contro il “Piano del secolo” messo a punto dall’Amministrazione Trump. ”Quel Piano distrugge ogni speranza di una pace giusta e duratura. E’ la legalizzazione di un regime di apartheid che vige nei Territori occupati palestinesi. E’ la legittimazione delle posizioni più oltranziste della destra israeliana. E’ un affronto al diritto internazionale. E potrei continuare a lungo nell’elencare le nefandezze di 24


questa vergogna spacciata come ‘Piano di pace’”. Un Piano che evoca però uno Stato palestinese... ”E questa è forse la più vergognosa tra le nefandezze di quel Piano. Perché spaccia per Stato un bantustan e, come c’è scritto nel documento da lei citato, è una tabella di marcia per l’apartheid 2.0. Altro che una buona base per la ripresa dei negoziati! Quel Piano certifica la morte del dialogo. Per quanto mi riguarda, ho sempre ritenuto che la pace con i palestinesi e la nascita di uno Stato di Palestina non siano una concessione fatta al “nemico” né un tributo ad un astratto principio di giustizia. Per quanto mi riguarda, la nascita di uno Stato palestinese è un “regalo” che Israele fa a se stesso, perché solo attraverso la fine dell’occupazione è possibile preservare le fondamenta democratiche dello Stato e la sua identità ebraica. Il riconoscimento di uno Stato democratico di Palestina va visto come condizione per porre fine al conflitto e negoziare i futuri confini fra i due Stati sulla base delle frontiere del 1967. Il riconoscimento di tale stato è essenziale per l’esistenza di Israele. E’ l’unico modo per risolvere il conflitto attraverso il negoziato, per evitare l’esplodere di un altro ciclo di violenza e porre fine alla pericolosa condizione di isolamento di Israele nel mondo. La fine dell’occupazione è condizione fondamentale per la liberta dei due popoli, la piena realizzazione della stessa Dichiarazione di indipendenza di Israele e un futuro di coesistenza pacifica. D’altro canto, l'ipotesi di un unico Stato non solo porta all' eliminazione dello Stato ebraico ma apre la strada a conflitti sanguinosi per generazioni. Due Paesi, fianco a fianco, fondati su uguali diritti per entrambi i popoli, questa è la strada giusta e necessaria: ogni altra scelta condurrebbe al colonialismo istituzionalizzato. . Non so se queste considerazioni possano definirsi di “sinistra”. A me pare che siano improntate ad un sano pragmatismo che non dovrebbe avere, in quanto tale, una coloritura politi25


ca. Per tutto questo ritengo il Piano Trump una iattura non solo per i Palestinesi ma per lo stesso Israele”. Una coloritura politica l’ha certamente il movimento dei coloni il cui peso politico è sempre più decisivo nella formazione dei governi, come quello attualmente in carica. “Le colonie sono un cancro. E l’ala più estrema del movimento dei coloni è da tempo una minaccia per la democrazia e non solo per la pace. Se la nostra società è incapace di mettere insieme forza, potere politico e determinazione mentale necessari per spostare qualche colonia, ciò starà ad indicare che la storia di Israele è finita, che la storia del sionismo come noi lo intendiamo, come io la intendo, è finita. Resto fermamente convinto che il sionismo ha il diritto di esistere solo se riconosce i diritti dei palestinesi. E il primo diritto è quello ad uno Stato indipendente, a fianco e non contro lo Stato d’Israele. L’alternativa, che purtroppo già è in atto, non è l’annessione dei Territori palestinesi, ma la realizzazione di un regime di apartheid, che se fosse portato a termine, con il silenzio complice della comunità internazionale, sancirebbe non solo la fine del sionismo ma la morte della democrazia in Israele e per Israele” . Guardando alle frange estremiste del movimento dei coloni, , qual è l'atteggiamento da evitare nei loro confronti? “L'indulgenza. L'indulgenza nei loro confronti ha portato ad una situazione degenerativa che non si ferma ai Territori. L'aggressività, la violenza, il concepire chi la pensa diversamente come un "traditore": al di qua della Linea Verde è stato esportato un metodo di comportamento che quando viene compiuto contro palestinesi nei Territori, viene tollerato, spesso neppure indagato e comunque non approfondi26


to. L'indulgenza. E poi cosa teme? “La connivenza. Quella che porta politici che hanno anche responsabilità di governo a flirtare con le ali estreme del movimento dei coloni”. In un saggio che ha fatto molto discutere, lei ha sostenuto che gli insediamenti impiantatisi dopo la guerra del ’67 oltre la Linea Verde “sono la più grande catastrofe nella storia del sionismo. Perché? “Perché hanno creato una situazione coloniale, proprio quella che il sionismo voleva evitare. Il sionismo si fonda sui diritti naturali dei popoli all’autodeterminazione e all’autogoverno. Ne consegue che questi diritti sono anche propri dei palestinesi. Perciò il sionismo ha il diritto di esistere solo se riconosce i diritti dei palestinesi. Chi vuole precludere ai palestinesi l’esercizio di tali diritti non può rivendicarli per se stesso soltanto. Insisto su questo punto: resto convinto che l’insediamento nei Territori metta in pericolo la capacità di Israele di svilupparsi come società libera e aperta”. Lei afferma che gli intellettuali sono i “migliori ambasciatori” del sionismo. Ma c’è chi vede proprio nel sionismo la radice ideologica e l’esperienza politica “fatta Stato” che è alla base dell’espansionismo israeliano. “No, non è così. Questa è una caricatura del sionismo o, comunque, ne è una traduzione politica strumentale, comunque, ne è una traduzione politica strumentale, in alcuni casi funzionale ad ammantare di idealità positiva una pratica intollerabile. Il sionismo si fonda sui diritti naturali dei popoli all’autodeterminazione e all’autogoverno. Questi diritti naturali dei popoli valgono per tutti, inclusi i palestinesi. Come le ebbi a dire in una nostra precedente conversazione, resto fermamente 27


convinto che il sionismo ha il diritto di esistere solo se riconosce i diritti dei palestinesi. Chi vuole negare ai palestinesi l’esercizio di tali diritti non può rivendicarli per se stesso soltanto. Purtroppo, la realtà dei fatti, ultimo in ordine di tempo il moltiplicarsi dei piani di colonizzazione da parte del governo in carica, confermano quanto da me sostenuto in diversi saggi ed articoli, vale a dire che gli insediamenti realizzati dopo la guerra del ’67 oltre la Linea verde rappresentano la più grande catastrofe nella storia del sionismo, e questo perché hanno creato una situazione coloniale, proprio quello che il sionismo voleva evitare. Da questo punto di vista, per come è stata interpretata e per ciò che ha innescato, la Guerra dei Sei giorni è in rottura e non in continuazione con la Guerra del ’48. Quest’ultima fondò lo Stato d’Israele, quella del ’67 si trasformò, soprattutto per la destra ma non solo per essa. da risposta di difesa ad un segno “divino” di una missione superiore da compiere: quella di edificare la Grande Israele”. Per tornare al “Piano del secolo”. A farlo proprio non è solo Netanyahu ma, anche se con accenti diversi, il suo più accreditato rivale nelle elezioni del 2 marzo: il leader di Kahol Lavan (Blu Bianco) Benny Gantz. ”Gantz si sta omologando alle posizioni della destra israeliana, e questa è una scelta che ritengo gravissima perché preclude la costruzione di un fronte alternativo a quello delle destre. Spero che ciò che resta della sinistra nel mio Paese non lo segua su questa strada. Forse Gantz intendeva accreditarsi agli occhi di Trump, ma se fosse così avrebbe commesso un errore imperdonabile, perché quel Piano è l’ultimo regalo che Trump ha fatto al suo amico Netanyahu. Un regalo avvelenato per Israele e per la pace in Medio Oriente”. 28


Femminicidio

Ciao maschio Antonella BUCCINI

Rosalia Mifsud aveva 48 anni, sua figlia Monica Deliberto 27. Sono state uccise a Mussomeli, provincia di Caltanissetta, da Michele Noto, 27 anni, che non si rassegnava alla fine della relazione con Rosalia. Fatima Zeeshan aveva 28 anni ed era all’ottavo mese di gravidanza. E’ stata trovata morta soffocata con segni di percosse su tutto il corpo. Ad ucciderla il marito, un uomo di 38 anni, pakistano, pizzaiolo in un ristorante dell’Alta Pusteria. Il corpo di Speranza Ponti 50 anni è stato rinvenuto tra gli uliveti a quattro chilometri da Alghero dopo due mesi dalla sua scomparsa. E’ in stato di fermo il compagno Massimiliano Farci. A Mazara del Val29


lo, Rosalia Garofalo, 52 anni, è stata ammazzata dopo tre giorni di botte dal marito Vincenzo Frasillo. Non è un bollettino di guerra. E’ strage di donne e solo degli ultimi giorni. E’ un’emergenza ha dichiarato Conte ma è un’emergenza che non allarma i cittadini né la politica. Del resto i dati dell’ultimo rapporto dell’Istat sui ruoli di genere e l’immagine sociale della violenza sessuale è raccapricciante. Il 24 percento degli uomini del nostro paese sostiene che gli abiti provocanti sono causa degli stupri. Ancora più agghiacciante è che il 40 percento delle donne è convinta che se vuole la vittima può sottrarsi alla violenza. Il 15 per cento ancora imputa alla responsabilità della donna la violenza sessuale se sotto effetto di droghe o è ubriaca. Non è finita. Schiaffeggiare la fidanzata per aver flirtato con un altro uomo è legittimo per il 7,4 delle persone. Il controllo sulla vita della compagna, cellulare, social, è lecito per il 17,7 per cento. Il 10 per cento della popolazione è convinto che spesso le accuse di violenza sessuale sono false, per il 7 per cento le donne dicono no ma in realtà intendono si, per il 6 percento le donne serie non vengono violentate. Mi torna in mente il doloroso “processo per stupro” di 50anni fa che dovrebbe essere diffuso nelle scuole un giorno si e l’altro pure. L’avvocato difensore sostenne, tra l’altro, che quello stupro era l’esito delle aspirazioni delle donne agli stessi diritti degli uomini. Se la vittima fosse rimasta a casa, al suo posto, nulla sarebbe accaduto. Alla luce dei dati Istat siamo davvero così lontani da queste aberrazioni? Al contempo è sempre approssimativa la ricerca di una motivazione sottesa a tanta efferatezza. Cosa spinge un uomo ad aggredire una donna fino a sopprimerne la vita, a devastarne il corpo e l’anima con lo stupro o anche a umiliarne aspirazioni e desideri? Sembra paradossale immaginare una vulnerabilità maschile in tale contesto. Tuttavia è plausibile una forma di incertezza dell’uomo che, pur rinviando ad un vuoto culturale, lasci spazio ad una balbettante percezione del sé. Il bisogno di 30


affermare il potere, brutalmente, che il sentire sociale non ha mai sostanzialmente negato, dove potrebbe collocarsi se non nella paura di quella diversità femminile percepita come divorante, sfuggente e destinata a dare la vita, predisposta ad accogliere e sensibile alla cura, per genere e vocazione. “Dall’alto della mia virilità, vi spermatizzo tutte” dichiara il protagonista di “Ciao Maschio”, film di Marco Ferreri, surreale e grottesco, del 1978, uomo frustrato, feticista, ossessivo, incapace di gestire il proprio ruolo. Ginevra Bompiani nel suo “L’altra metà di dio”, di cui abbiamo parlato su queste pagine, rinviando alle società matrilineari preistoriche, fornisce significativi elementi di una suggestione tutta femminile del mito della Grande Madre di cui evidentemente sono resistiti echi importanti fino a noi. Non ci redime, dunque, solo una rivoluzione culturale, che parta dalla scuola e dalla famiglia, pure tanto invocata. Occorre che al fantoccio virile, disperatamente esibito innanzitutto da maschi ad altri maschi, privato del senso di sopraffazione, subentri la pacificazione dell’uomo con se stesso.

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Politica

Premesso che Antonella GOLINELLI

Premessa. Sono tendenzialmente una giustizialista. Credo profondamente le vittime debbano ottenere giustizia. Sempre. Sono convinta del principio “Nessuno tocchi Caino” però se Abele lo lasciamo un po' in pace magari è più contento. Detto questo (non pretendo certo condividiate, solo ne prendiate atto), mi chiedo quale sia il motivo del cambio di rotta del Matteo bianco (da ora in avanti il vivaista). Partito dalla posizione della vergogna della prescrizione dei reati si è convertito, in tempi recenti, al garantismo totale appellandosi alla sacralità dei principi di quella Costituzione che lui stesso ha fatto di tutto per cambiare. 32


Ora, son ben convinta che solo gli imbecilli non cambino mai idea, però un conto è cambiare idea un altro buttarsi dal lato opposto intraprendendo una battaglia a colpi di ricatti. Dopo lo svolgersi del succedaneo della Leopolda, durante la quale abbiamo assistito ad una sequela di minacce e rivendicazioni; dopo aver assistito a veti e controveti su candidature; dopo aver rivendicato la candidatura per la presidenza della regione Puglia in barba agli esiti delle primarie (cui non hanno ovviamente partecipato). Dopo tutto questo, dicevo, hanno alzato il livello di scontro impazzando per tv e giornali al solo scopo di? Ora, io sono maligna e si sa, ma minacciare ogni due per tre di far cadere il governo (poi no perchè in effetti non se li fila nessuno) non mi pare sia una politica opportuna di mediazione al fine di ottenere un risultato. A me pare solo uno stratagemma squallido per ottenere visibilità. O sarà mero opportunismo? L'ultima dichiarazione del vivaista tramite intervista “Voteremo contro. Se non va bene ci caccino” mi fa capire che il bluff sia stato scoperto. Sta facendo tutto da solo, come sempre, maggioranza e opposizione. I ruoli in commedia li interpreta tutti lui. È un bel fenomeno. Secondo me bisognerebbe lasciarlo dire e lasciarlo andare. Si accollerà gli oneri delle sue azioni, finalmente. Ci sono precedenti illustri in questo senso: Bertinotti, Mastella. Sarà uno di più. Il problema serio è sempre quello dei vivaisti in camuffa, quelli che non si capisce bene perchè stiano dove stanno. Ma anche di questi vedremo le evoluzioni. Comunque, anyway, noi siamo qui alle prese ancora con la crisi, con i problemi legati ai trasporti, con un'epidemia che pare sia sbarcata in Europa, con femminicidi continui e pure con Sanremo e questo parla di prescrizione che è vero riguarda tut33


ti i cittadini E come accusati E come vittime ma che non è certo in vetta ai pensieri dei cittadini suddetti. Tranne forse ai cittadini legulei. Ancora una volta il vivaista ignora la realtà corrente inventandosi una battaglia tesa ad interferire con la realtà e col vissuto di tutti. È già accaduto. Spero sia l'ultima volta. #mognint

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Politica

Intervista a Elly Schlein, una donna coraggiosa, ecologista e progressista Aldo AVALLONE

Una giovane donna magrissima con un’enorme energia, una lucida visione politica e una capacitĂ di coinvolgere fortemente chi le sta intorno. Questa è la mia prima 35


impressione su Elly Schlein, , la candidata che ha ottenuto il maggior numero di preferenze alle ultime elezioni regionali, neo vicepresidente della Giunta regionale dell’Emilia Romagna. Oggi sotto la luce dei riflettori, Elly ha alle spalle una lunga esperienza politica cominciata nel mondo studentesco già nel 2011. Europarlamentare Pd nel 2014, ha abbandonato il Partito l’anno successivo in dissenso alla linea politica del segretario Renzi. Ha dei trascorsi in “Possibile” di Pippo Civati e ha corso alle ultime regionali in una lista unitaria “Emilia-Romagna Coraggiosa Ecologista e Progressista” formata da Articolo Uno, Sinistra Italiana, èViva e realtà politico-associative locali. Ho avuto la fortuna di incontrarla lo scorso 8 febbraio a Napoli, in occasione di un’iniziativa elettorale a sostegno di Sandro Ruotolo candidato unitario della sinistra in un’elezione suppletiva per un collegio senatoriale cittadino. Prima dell’incontro, Elly ha risposto cortesemente alle domande dei giornalisti presenti. Sollecitata a dare un giudizio sulla candidatura di Ruotolo ha affermato che: «credo che candidature come queste servano a rimotivare tanti che si sono sentiti lasciati un po’ a margine in questi anni dalla politica. Sicuramente veniamo da anni di fratture profonde dentro il campo progressista della sinistra e anche ecologista, è il momento di provare a ritrovare una sintesi, per questo mi piace molto il fatto che ci sia questo fronte unitario a sostegno di Sandro, la trovo una cosa preziosa. Le piazze partecipate che si stanno muovendo fuori dalla politica ci chiedono fondamentalmente di ritrovare chiarezza di visione del futuro su temi fondamentali su cui andiamo davvero giocarci la responsabilità che abbiamo presso le prossime generazioni, pensiamo al tema della solidarietà ai migranti, al tema della parità di genere, al tema dell’emergenza climatica che sta mobilitando i più giovani. Ecco ci chiedono chiarezza della visione quindi di ritrovare unità, sì ma nella coerenza delle posizioni». 36


Nella prossima primavera in Campania, come in altre regioni italiane, si voterà per il rinnovo del Consiglio regionale. Su questo tema, Elly ha dichiarato di conoscere poco la situazione locale ma ha voluto ricordare come sono state vinte le elezioni in Emilia: «Posso dirvi cosa è stato per noi vincente: una coalizione ampia, articolata, che ha visto la lista di Bonaccini, che ha avuto anche il supporto di Renzi, Calenda e anche di persone che hanno posizioni politiche distanti, diverse dalle mie, il Pd ma anche appunto sul lato sinistro c’eravamo noi con Emilia Romagna coraggiosa che è insieme una lista civica e politica ecologista progressista e femminista. Io credo che sia stata una vittoria di coalizione, con un significativo risultato di Stefano Bonaccini candidato che ha governato molto bene e che ha saputo anche raccogliere un voto disgiunto, addirittura da un centro moderato che gli ha consegnato una responsabilità ancora maggiore per il prossimo mandato. Ma anche il fatto che la nostra lista ha raccolto un 4% di consensi in tempi record e ha consegnato a me la responsabilità di essere la più votata della regione credo che dia un segnale piuttosto chiaro su quello che serve. Da noi i cinque stelle hanno fatto la scelta di andare da soli, a me dispiaciuto. Vedremo quali scelte faranno nelle prossime elezioni regionali». A nome dell’Unità Laburista ho chiesto a Elly cosa pensi di un eventuale scioglimento del Pd e della creazione di un nuovo soggetto socialista, laburista, inclusivo a sinistra. «Penso che il Pd definirà autonomamente qual è il processo che vorrà avviare. Sicuramente chi come me sta fuori guarda con interesse a quello che si muove dentro al Pd, ai tentativi che sta facendo Zingaretti. 37


Guardo con interesse anche a quello che si muove fuori, cioè le Sardine che s’incontreranno a marzo. Quello che possiamo dire noi è che frequentando in punta di piedi le piazze più belle di quest’ultimo anno di grande mobilitazione spontanea, mi pare che l’unico modo di riaggregare l’intero campo progressista, ecologista e della sinistra sia quello di fare delle scelte coraggiose sui temi sui quali le persone ci chiedono chiarezza, cosa facciamo sui decreti sicurezza, che cosa facciamo sull’emergenza climatica e sui quei diciannove miliardi che ancora vanno ogni anni a sussidi ambientalmente dannosi, cosa facciamo sulla grande evasione ed elusione fiscale delle multinazionali, legali in Europa. Perché quando parliamo di diseguaglianze, dobbiamo anche chiarire che mentre la destra si fa forte di prendersela sempre con gli ultimi arrivati forse è anche un modo di distogliere l’attenzione su chi si è arricchito anche in questi anni di crisi profonda nel nostro territorio. Quindi se la sinistra ritrova chiarezza l’intero campo si può ricostruire, secondo me lo si può fare riaggregandosi e lasciando da parte le logiche di partito, le logiche identitarie, i personalismi. Credo che quelle piazze siano così piene perché se oggi uno di vent’anni si vuole mobilitare in politica da un lato trova grandi contenitori con delle contraddizioni, il partito democratico, il movimento cinque stelle, dall’altra parte si gira e nel nostro lato trova cinque o sei sigle divise soltanto dal nome ma che magari hanno la stessa visione del futuro ed è difficile distinguerle. Quindi un processo di riaggregazione complessiva non può che coinvolgere sicuramente anche il partito democratico a patto che sia disposto a rimettersi profondamente in discussione nei metodi con cui si sta insieme e nella chiarezza della sua proposta». 38


Musica e Politica

Michael Tippett, il musicista trotzkista e poi pacifista Giovan Giuseppe MENNELLA

Il musicista inglese Michael Tippett nacque il 2 gennaio 1905, l’anno della guerra russo-giapponese, la prima del XX Secolo, e morì l’8 gennaio 1998. Il suo percorso umano lo rese testimone impareggiabile di tutto un secolo tragico. Un secolo che lui tentò di cambiare, perché fu l’emblema dell’artista impegnato e militante. A otto anni di età, il 28 febbraio 1913, spedì alla testata progressista “The vote” una letterina in cui auspicò la concessione del diritto di voto alle donne. Sicuramente la mano del bambino era stata guidata da un’altra mano più matura, quella della sua mamma, Isabel Kemp, che era una femminista e militante politica che si batte39


va per le cause progressiste. Anche il padre si era sempre battuto per le cause civili e progressiste. Il bambino Tippett soffrì sempre per le frequenti assenze della madre, spesso impegnata nelle sue lotte politiche e non infrequentemente chiusa anche in prigione. Il giovane Michael come musicista fu un autodidatta, prese lezioni private di pianoforte che però non diedero risultati molto positivi. Si costruì una certa cultura musicale da solo, studiando un trattato di armonia di Charles Stanford. Riuscì a entrare a diciotto anni al Royal College of music, ma il suo percorso in quell’istituzione fu accidentato. Non era un musicista naturale dal quale fluissero con facilità armonie, melodie e invenzioni, ma intellettualistico, mediato, artificioso, compose i suoi pezzi sempre con una certa fatica e dopo molti studi e ripensamenti. Attese i trent’anni per dare alle stampe l’opus numero 1, una serie di quartetti per archi. Non possedeva innata sensibilità musicale, ma piuttosto una chiara attitudine a intervenire nella società per cambiarla. I suoi amici furono tutti attivisti politici e sociali. Il suo amico Bush curava l’educazione musicale dei bambini poveri, figli dei lavoratori. Nel 1933 andarono a Strasburgo per dirigere alcuni cori musicali di lavoratori. Bush era comunista stalinista, mentre Tippett, nella sua ansia di rinnovare la società e la politica, si proclamava trotzkista e cercò di creare circoli politici trotzkisti anche in Gran Bretagna. Bush diceva che la musica avrebbe servito la rivoluzione, mentre Tippett ribatteva che invece sarebbe stata la rivoluzione a servire la musica. A partire dagli anni ’30 entrò in contatto con i circoli pacifisti e antimilitaristi, man mano che si avvicinava la guerra in Europa. Quando la guerra scoppiò veramente, non perse tempo a dichiararsi obiettore di coscienza. Al processo cui fu sottoposto, dichiarò che le persone della sua età erano 40


entrate nella vita adulta già con la sindrome della Grande Guerra. Nel 1922, a diciassette anni, aveva partecipato a raccolte di fondi per aiutare i bambini resi tubercolotici dalle privazioni subite per via della guerra, quando era abbastanza grande aveva visto il film “I quattro cavalieri dell’apocalisse” ed era stato impressionato dai grandi cimiteri delle Fiandre, facendo promessa con i suoi amici di non partecipare mai agli orrori della guerra. Non fu condannato subito a una pena detentiva, anche grazie all’intervento di molti esponenti del mondo culturale e musicale britannico, ma obbligato a partecipare allo sforzo bellico con servizi socialmente utili, lavorando al raccolto nei campi. Quando si scoprì che non partecipava neanche ai lavori agricoli, fu imprigionato per davvero. Il suo amico Benjamin Britten, il più grande compositore britannico e uno dei massimi del ‘900, riuscì a organizzare un concerto in carcere e c’è una foto, alquanto patetica, che immortala Britten che suona il pianoforte e Tippett che gli gira devotamente le pagine dello spartito. Tra le vittime della Seconda Guerra Mondiale ci fu anche Herschel Grischmann, il giovane ebreo che uccise con un colpo di pistola il diplomatico tedesco Von Rath, episodio che diede il via al pogrom antiebraico passato alla storia come “Notte dei cristalli”. A lui Tippett dedicò la cantata “A child of our time” che fu la sua opera più popolare e riuscita. Fu composta tra il 1939 e il 1941 ma fu eseguita solo nel 1944. Avrebbe voluto far scrivere il testo al suo amico, il grande poeta Thomas Stearns Eliot. I due erano amici perché accomunati dalla passione per il gioco del Monopoli, in cui entrambi erano molto esperti. Fu proprio Eliot che lo convinse a scrivere lui stesso il testo, avendo notato che era molto convinto e motivato dall’episodio. Non si può dire che il testo della cantata sia un capolavoro letterario. Infatti, i testi delle sue composizioni cantate non si distinsero mai per bellezza letteraria, proprio perché composti da lui stesso, a differenza di altri compositori, in41


glesi e non, come Britten o Richard Strauss, che si valsero sempre di grandi scrittori e poeti, come Henry James, W.H.Auden, Hugo von Hofmannsthal. Il cerebralismo di Tippett non avrebbe retto alla poetica di Auden. Invidiò sempre Benjamin Britten perché aveva il dono della melodia, della facilità di comporre velocemente, mentre lui aveva tempi molto lunghi di gestazione delle opere. Britten dubitò sempre che Tippett avesse molto ben presente la coscienza creativa. Nel dopoguerra della Seconda Guerra Mondiale, Tippett si interessò sempre di più alla psicanalisi, soprattutto a quella junghiana. I suoi problemi psicologici erano stati causati dai frequenti abbandoni da parte della madre, dal riconoscersi omosessuale, dai gravi atti di bullismo dei quali era stato vittima da ragazzo ai tempi del collegio. Fu influenzato dallo psicanalista junghiano John Layard a tenere sempre presente i due principi in opposizione jin e jang sempre presenti in ciascuno. Così giunse alla convinzione che l’essere umano aveva proiettato l’ombra malefica di sé sul proprio nemico e quindi aveva scatenato la guerra mondiale. La sua produzione artistica successiva fu molto condizionata da questa concezione. Dopo la guerra voltò le spalle anche al trotzkismo e il suo idolo divenne Beethoven, di cui ammirò incondizionatamente lo sforzo eroico per la libertà e la felicità dell’uomo, tanto che in una delle sinfonie citò la nona di Beethoven. Però si chiese se, dopo Auschwitz, Hiroshima, la Guerra di Corea, la guerra del Vietnam, avesse più senso l’inno alla gioia del compositore di Bonn. Pacifista e antimilitarista lo era sempre stato, divenne poi anche ambientalista e filantropo. In una delle sue composizioni corali inserì un frammento del discorso di Martin Luther King “I have a dream”. Quando fu aperto il suo testamento si scoprì che aveva destinato una parte del patrimonio ad associazioni come “Amnesty International” e “Save the children”. 42


Esteri

Affaracci. Egitto, la vergogna italiana Umberto DE GIOVANNANGELI

Pecunia non olet. Anche quando l’odore è quello del sangue. Globalist lo ha anticipato ieri: l’Italia si accingerebbe a vendere due Fregate all’Egitto, nel quadro di un programma di forniture militari che varrebbe 9 miliardi di euro. Le navi, già pronte nei nostri cantieri per la Marina Militare, sarebbero a questa sottratte per essere date all’Egitto in pronta consegna. Altre da cantierare sarebbero consegnate in un secondo momento, assieme ad un certo numero di elicotteri. Si tratta dello "Spartaco 43


Schergat" e dell'"Emilio Bianchi". La prima arrivata presso il Muggiano nel gennaio 2019 e ormai prossima a prendere il mare nei mesi a venire, la seconda appena terminata per la parte strutturale e in procinto di iniziare i lavori di allestimento nel golfo. Si tratta della nona e decima unità del programma per una fregata europea multi missione sviluppato insieme alla Francia, che a sua volta nel 2015 ha ceduto il suo Normandie all’Egitto. La notizia della possibile commessa, ha presto raggiunto Parigi , definita "uno schiaffo" dal quotidiano La Tribune che sottolinea gli storici rapporti con Il Cairo. Nell'operazione, di cui si starebbero definendo gli aspetti tecnico-finanziari, ci sarebbe

il

coinvolgimento

di

Cassa

Depositi

e

Prestiti.

“Garantire

l’approvvigionamento di armi a un Paese come l’Egitto ci fa perdere credibilità, oltre a essere in aperto contrasto con gli impegni assunti da governo e parlamento sulla ricerca della verità”, annota Erasmo Palazzotto (Leu), presidente della Commissione parlamentare d’inchiesta sull’omicidio di Giulio Regeni. “Il governo italiano sta facendo approfondimenti tecnici per decidere se vendere all’Egitto due fregate militari della nostra Marina – dice Lia Quartapelle, capogruppo Pd alla Commissione Esteri della Camera - Servono però valutazioni politiche”. Il finto imbarazzo il 24 gennaio scorso, alla vigilia dell’anniversario della scomparsa di Giulio Regeni, a Palazzo Chigi era in agenda una riunione plenaria sulla commessa aIl Cairo, una “sovrapposizione sgradevole” che la Farnesina ha chiesto di evitare. Ma la riunione si è svolta lo stesso, seppur in forma ridotta e con gli attori necessari. La trattativa è stata seguita in gennaio direttamente dalla presidenza del Consiglio e da 44


Carlo Massagli, consigliere militare di Giuseppe Conte. La riservatezza è svanita quando è stata resa nota - come di dovere - a tutti gli uffici interessati, tra cui quattro ministeri e i vertici delle forze armate. La decisione avrebbe incontrato la delusione della Marina militare che sperava che le navi potessero far parte della propria flotta. Le due fregate dal valore di un miliardo e duecento milioni fanno parte della classe Fremm, ma l'accordo delinea un'intesa di massima per un programma di sviluppo militare che Il Sole 24 ore stima in almeno 9 miliardi di commesse. Il negoziato permetterebbe, secondo le intenzioni di Palazzo Chigi, di far tornare l'Italia più centrale nel quadro geo-politico del mediterraneo meridionale. In ballo ci sarebbero anche pattugliatori, 24 cacciabombardieri Tifone, oltre ad aerei da addestramento Macchi M-346. La Marina egiziana, come riferisce La Stampa, avrebbe già acquistato anche una ventina di elicotteri Leonardo AW149 da impiegare a bordo delle due portaelicotteri acquistate dalla Francia, la Ghamal Abdel al-Nasser e la Anwar Sadat. L’iniziativa è partita dal Cairo, che ha espresso una manifestazione di interesse per le fregate della Fincantieri. L’azienda ha subito informato il governo italiano per avere l’autorizzazione ad andare avanti. Il progetto è quindi di una cooperazione su larga scala nell’industria militare, confermata dal giornale Mada Masr, che ha parlato di contatti con il ministro della Produzione militare Mohammed al-Assar, concretizzati con la firma di “nove memorandum d’intesa”, compresa la realizzazione di una “unità logistica integrata” al Cairo. Questo per il futuro. Il passato, recente, dice che ’Egitto ha pagato all’Italia una cifra record per l’acquisto di armi. I dati sono stati presentati alla Presidenza del Consiglio dei Ministri il 2 aprile 2019. In particolare, la cifra pagata dall’Egitto per l’acquisto di armi, munizioni e sistemi di informazione per la sicurezza di pro45


venienza italiana, nel 2018, ammonta a più di 69 milioni di euro. Tale cifra supera di gran lunga i 7.4 milioni del 2017 ed i 7.1 milioni del 2016. Anche precedentemente, nel periodo 2013-2015, l’Italia ha venduto armi al Cairo per cifre inferiori a quelle attuali, per un massimo di 37.6 milioni di euro. Nel 2018, l’Egitto si è classificato al decimo posto nell’elenco dei Paesi che importano armi italiane, ed è il primo Stato del continente africano, preceduto da Qatar, Pakistan, Turchia, Emirati Arabi Uniti, Germania, Stati Uniti, Francia, Spagna e Gran Bretagna. I beni di maggior rilievo, di cui è autorizzata l’esportazione verso l’Egitto, sono pistole e fucili di piccolo calibro indirizzate all’esercito, nello specifico “armi ed armi automatiche di calibro uguale o inferiore a 12,7 mm”, oltre a bombe, siluri, razzi missili, accessori e pezzi di ricambio per armi americane ma fabbricate in Italia, apparecchiature elettroniche e software per il controllo regionale. Tali armamenti sono volti principalmente all’impiego militare, sia per l’esercito sia per la polizia e le forze di sicurezza. L’ambito relativo ai sistemi informatici risulta essere tra le novità delle relazioni Italia – Egitto. Ma con il regime del presidente-generale Abdel Fattah al-Sisi non sono in ballo solo affari navali. In Egitto l'Eni ha interessi stratosferici ed Edison, Intesa Sanpaolo, Pirelli, Italcementi, Ansaldo, Tecnimont, Danieli, Techint, Cementir stanno piantando tende. Oltre all’Eni, circa 130 aziende italiane operano in Egitto e producono circa 2,5 miliardi di dollari. C’è Edison (con investimenti per due miliardi) e Banca Intesa San Paolo, che nel 2006 ha comprato Bank of Alexandria per 1,6 miliardi di dollari. Poi Italcementi, Pirelli, Italgen, Danieli Techint, Gruppo Caltagirone, e molti altri. Imprese di servizi, impiantistica, trasporti e logistica. L’Egitto fa gola. Ha lanciato grandi progetti di infrastrutture: dai porti e zone industriali lungo il canale di Suez appena raddoppiato, ai fosfati estratti nel deserto occidentale, a un 46


nuovo triangolo industriale tra i porti di Safaga ed el Quseir sul Mar Rosso e la città di Qena sul Nilo, fino a una nuova espansione urbana e industriale sulla costa mediterranea intorno a El Alamein. Il governo egiziano conta di investirvi cento miliardi di dollari, promessi in gran parte dalle monarchie del Golfo, e le imprese di tutto il mondo sperano di partecipare alla festa. Nel 2016 le esportazioni italiane verso l’Egitto hanno prodotto 3.089,11 milioni di euro. .Un caso a parte è rappresentato dall’Eni. Presente in Egitto dal 1954 attraverso la filiale IEOC, la petrolifera italiana è la principale produttrice del Paese con 260,000 boed di gas naturale al giorno. Un report dell’Eni indica il ritrovamento di una nuova riserva di gas a Faghur durante una nuova operazione di esplorazione. È sufficiente pensare a quello che è accaduto il 31 gennaio del 2018 con l’inaugurazione del giacimento gasiero di Zohr scoperto due anni e mezzo prima dall’Eni. Quel giorno l’amministratore delegato della compagnia Claudio Descalzi presenziò alla cerimonia mentre la stampa egiziana celebrava in pompa magna i rapporti tra Italia ed Egitto. Ad agosto 2019 il ministro del Petrolio e le risorse minerali dell’Egitto, Tarek ElMolla, ha firmato tre nuovi accordi per l’esplorazione di petrolio e gas naturale nel Mediterraneo, Sahara Occidentale e il Nilo per circa 139,2 milioni di dollari. Il primo è siglato tra la Compagnia Egiziana di Gas Naturale, Tharwa Petroleum e l’Eni per due nuovi giacimenti nel Mare Mediterraneo dell’Egitto. Il secondo tra l’Autorità Petrolifera dell’Egitto, l’Eni e la croata Ina per l’apertura di nuovi pozzi petroliferi a Raas Qattara e il terzo tra l’Autorità Petrolifera dell’Egitto, Eni e la British Petroleum per quattro pozzi sul Nilo. Nuove scoperte che contribuiscono all’apprezzamento dei titoli di Eni a Piazza Affari. Non basta. Ci sono poi gli interessi di gruppi come Leonardo-Finmeccanica che con l’Egitto hanno relazioni da 47


tempo. Per esempio, la società italiana ha venduto hardware militare al governo egiziano anche nei sistemi di monitoraggio e controllo delle frontiere, fornitura che rientra nell’ambito degli accordi sul controllo dell’immigrazione e dove la dimensione politica, commerciale, economica e strategica si sovrappongono. stando alla Banca centrale egiziana, attualmente l’Italia è il quarto partner commerciale del Cairo dopo Cina, Stati Uniti ed Emirati Arabi Uniti e nell’anno fiscale 2018/2019 gli scambi commerciali tra i due hanno sfiorato i 4,5 miliardi di dollari. Un passo indietro, neanche troppo lungo, nel tempo. Il 4 settembre 2017, l’allora ministro degli Esteri, nel governo Gentiloni, Angelino Alfano definiva l’Egitto un “partner ineludibile dell’Italia” e fa ancora riflettere la descrizione che Naguib Onsi Sawiris, imprenditore egiziano e magnate delle telecomunicazioni, ha fatto dell’Egitto durante un intervento al Forum Rome MED 2017. Naguib Onsi Sawiris è presidente e amministratore delegato di Orascom Telecom, presidente del Consiglio di Amministrazione di Wind Telecomunicazioni Spa e di Mobinil. È uno degli uomini più ricchi dell’Africa ed è figlio di Onsi Sawiris, fondatore del gruppo Orascom. Di fronte a una platea gremita, Onsi Sawiris ha descritto l’Egitto come un “ambiente economico positivo, dove si può investire, e dove molte cose giuste sono state fatte dal punto di vista strutturale”. Morale della brutta favola: a Roma cambiano i governi, variano le maggioranze, ma i diritti umani calpestati sistematicamente dal regime egiziano vengono sempre in secondo piano rispetto agli affari. Così come la verità sull’assassinio di Giulio Regeni. Che si sia trattato di un omicidio di Stato, su questo non esistono dubbi. Solo che i miliardi in ballo oscurano questa verità. E’ la vergogna italiana. 48


Ma Di Maio fa finta di non capire. L’ambasciatore italiano al Cairo, Giampaolo Cantini, è finito nel mirino nelle ultime settimane, accusato anche dalla famiglia di Giulio Regeni di disinteresse nella ricerca della verità sull’uccisione in Egitto del giovane ricercatore. Il caso di Patrick Zaky riapre il drammatico tema dei diritti umani nel Paese nordafricano e sulla presenza di un diplomatico italiano al Cairo. Per il pentastellato ministro degli Esteri non c’è discussione: “Se si vogliono difendere i diritti umani e si vuole la verità su Giulio Regeni non si può prescindere da una relazione con l’Egitto” spiega Di Maio nelle interviste concesse a Corriere della Sera e Repubblica. E questo mentre la famiglia di Patrick George Zaky lancia un disperato

appello per

la

liberazione

del

giovane

studente

egiziano

dell’università di Bologna, arrestato nei giorni scorsi al suo rientro al Cairo. È stato “picchiato e torturato per 30 ore” in Egitto perché volevano conoscere “i suoi legami con l’Italia e con la famiglia di Giulio Regeni” riferisce la famiglia ai quotidiani. “Non sappiamo perché Patrick sia stato arrestato”, aggiunge uno dei suoi avvocati, Wael Ghally. “Abbiamo soltanto due certezze. La prima è che nei suoi confronti è stato emesso un mandato di comparizione il 24 settembre, ma nessuno glielo ha comunicato. Per questo è stato fermato alla frontiera. La seconda è che lì è stato bendato e portato da qualche parte al Cairo. È stato detenuto e interrogato per 30 ore, torturato. Lo picchiavano e gli chiedevano dei suoi legami con l’Italia e con la famiglia di Giulio Regeni. Patrick non sa nulla di tutto questo. Così alla fine lo hanno trasferito qui a Mansura”. Di Maio sottolinea che “il ragazzo è egiziano”, ma l’Italia ha chiesto di “seguire tutti i passaggi del processo”... “Stiamo attivando tutti i soggetti per conoscere che cosa è successo. Abbiamo fatto lo stesso a livello europeo, chiedendo che l’Ue segua tutti i passaggi del processo”. Quanto poi alla vendita di navi da Fincantieri alla Marina egiziana, il ministro ag49


giunge che “sulle fregate Fremm il governo non ha preso alcuna decisione. C’è un negoziato in corso tra Fincantieri e il Governo egiziano, ma seguiamo con molta attenzione quello che sta avvenendo e nessuna vendita è stata approvata”. Un Pilato alla Farnesina.

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Politica

The Divide ( parte prima) Raffaele FLAMINIO

Il libro di Jason Hickel ‘The Divide’, edito in Italia da ‘il Saggiatore’ è una lettura molto interessante. Il testo si propone di indagare le cause delle diseguaglianze sempre crescenti tra il così detto, primo mondo e il terzo mondo, affetto, secondo alcuni, da sottosviluppo strutturale e antropologico,. La nostra testata ha deciso di prendere a prestito quest’opera, per ragionare, insieme ai nostri lettori, sulle ragioni geopolitiche da cui scaturisce il pensiero unico imperante. Cercherò di condurre chi vorrà seguirci pazientemente nell’esplorazione e nella 51


conoscenza dell’avvilente e debilitante condizione di povertà in cui versa il sessanta per cento della popolazione mondiale, percorrendo la storia e chiedendo aiuto ai numeri che tracciano i contorni della diseguaglianza globale. All’inizio del nuovo millennio, le statistiche ci dicevano che il reddito e la ricchezza tra occidente (USA in testa) e il resto del mondo era così distribuito: un cittadino statunitense godeva di un reddito medio pari a circa nove volte quello di un latino americano, ventuno volte più alto di un mediorientale e nordafricano, cinquantadue volte quello di una abitante dell’ Africa subsahariana, circa settantatré volte più alto degli abitanti dell’Asia meridionale. La comparazione di questi dati con quelli del 1960 ci dice che il divario è triplicato. È facile supporre che la frattura tra Paesi ricchi e Paesi poveri sia sempre esistita, un fattore genetico infestante che andava monitorato e curato nell’interesse comune. Ma è una storia forviante inventata da noi, per giustificare e assolvere la nostra coscienza. Invero, le ragioni della diseguaglianza non si generano a dispetto di una parte sull’altra ma causa di una sull’altra. Prima delle scoperte geografiche (1492) non esistevano differenze rimarchevoli tra il resto del mondo e l’Europa di allora; anzi si può affermare con verità storica che alcune regioni del sud del mondo conosciuto fossero più evolute dell’Europa. Quindi, la frattura di cui parliamo non si è generata naturalmente come una faglia sismica, ma è stata creata strumentalmente. La prima e seconda rivoluzione industriale dell’occidente (Europa e Stati Uniti) è avvenuta attraverso la schiavitù e la rapina delle risorse naturali delle colonie. Le esagerate quantità di oro e argento estratte dall’America Latina fornirono il capitale per la nascente industria meccanica e cantieristica, concedendo alle potenze coloniali, attraverso l’uso della forza militare sproporzionata, la necessaria miscela dello sviluppo. Lo sfruttamento latifondista dei terreni coloniali consentì di sposta52


re, nei paesi europei, mano d’opera dalle campagne alle città che via via si industrializzavano. Il Nuovo Mondo subì un Olocausto di 70.000.000 morti in nome del progresso. Le cifre sono raccapriccianti. L’impero di sua maestà britannica nella sola India causò la morte per fame di 30.000.000 d indigeni. “In India e Cina il tenore di vita medio, che prima del periodo coloniale era uguale a quello della Gran Bretagna precipitò, così come, la loro quota di Pil che dal 65% sprofondò al 10% mentre in Europa si triplicò”. (Ha-joon Chang, Cattivi samaritani. Il Mito del libero mercato e l’economia mondiale. Università Bocconi di Milano 2008). Per la prima volta nella storia, la povertà globale fece la sua comparsa e l’imperialismo europeo – guidato dall’imperativo del profitto e della crescita- privava le popolazioni della loro terra e distruggeva le loro capacità di autosostentamento. Lo sviluppo di alcuni significò il sottosviluppo e la mortificazione per altri. Anche la gerarchia della Chiesa cattolica, pervasa dal furore evangelico, contribuì a radicare nella mente delle genti europee il teorema della ineluttabilità della povertà e della misericordia. La storia del sottosviluppo s’intreccia intrinsecamente con fattori psicologici che generano sensi di colpa collettivi nel nord del mondo. La metodica ricorrente utilizzata dai Paesi ricchi, fa leva su questo aspetto. Le pubblicazioni di statistiche sempre più impietose nei numeri della fame e della disperazione, la diffusione di immagini forti di bambini affamati e moribondi, richiamano l’opulento Nord a lavarsi la coscienza attraverso la misericordia che assolve l’iper ricchezza accumulata a danno di altri esseri umani che versano nella disperazione più completa producendo la Grande Bruttura, inguardabile, che colpisce periodicamente l’animo dei ricchi. Il grande successo di alcuni ha bisogno di una narrazione convincente. 53


Per sostenere una causa c’è bisogno di una ragione, una scusa. Se una parte del mondo è florida ed eccellente, una ragione ci sarà? Ed ecco che allora fioccano le istruzioni, per i poveri, che sono tali per incapacità, per struttura sociale, economica e ‘razziale’. L’istruzione da chi ne sa di più, è meglio. Diventa necessaria. Grazie al provvidenziale e generoso intervento, dei paesi ricchi, la povertà avrà vita breve. La narrazione contemporanea propone l’isola che non c’è. E’ come se ogni regione del mondo non fosse connessa all’altra e, che il benessere di alcuni non sia ragione di povertà di altri dove il vecchio adagio latino “MORS TUA VITA MEA” non avesse più cittadinanza. La connessione tra le genti, i continenti, gli stati è l’elemento portante che Jason Hickel incardina nel ragionamento nel testo di cui esponiamo le tesi. A suffragare e a convincerci ancor di più di quanto andremo a trattare sono gli ultimi avvenimenti dettati dalla cronaca contemporanea . Il coronavirus e la crisi ambientale che incombono dimostrano, perentoriamente, che il mondo è globalizzato in tutti i suoi aspetti. Dall’economia al clima, dai diritti alla salute e così si potrebbe andare avanti citando decine di argomenti. Come nasce l’illusione dello sviluppo? Seguiteci e lo saprete.

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Società

Son partita da Bologna, con le luci della sera Antonella GOLINELLI

Il mondo variopinto degli aeroporti non delude mai. Gente di tutti i colori sfreccia in ogni direzione. Irrefrenabili viaggiatori, inarrestabili turisti, ostinati lavoratori, si incontra di tutto in questo non luogo. È il mio primo giro in Albione dopo la Brexit e soprattutto dopo covid-19. Sarà stato certamente un caso ma ho trovato parcheggio in pratica all'ingresso dell'aeroporto. Il caso è continuato al check in. Nessuno. Solo io con cinque postazioni. Wow. Fila irrisoria all'ingresso dell'area imbarchi. Stranamente non ho suonato. E via al controllo documenti. A parte la ragazza invornita che mi ha preso per una romena, che voglio dire! Non ho niente nei colori, nelle fattezze, nei modi, che ricordi l'Eu56


ropa dell'est. Se proprio sei inconsapevole chiacchiera in inglese ragazza mia. In fila per il controllo documenti quello davanti a me non aveva ancora ritirato il documento che quel maleducato dietro di me esclama: avanti signora! E che sei a un semaforo? Mi sono girata, gli ho lanciato uno sguardo di fuoco e un #mognint. Zitto. In attesa della chiamata al gate mi sono guardata un po' attorno. Mascherine due, poi diventate quattro. Orientali nessuno. Medio orientali poca roba. Africani abbastanza, quasi tutti diretti a Casablanca. Mi è sembrato strano. Non è normale. L'arrivo a Stansted è stato piuttosto sconcertante. Non c'era fila. Quattro gatti e un canarino. Ho chiesto alla guardia di frontiera: dov'è la gente? Mi ha risposto: shhh è un momento di calma. ok. enjoy your evening. La valigia è arrivata subito. Mascherine nessuna. Esattamente come prima la vita in paese scorre tranquilla. Gente che passeggia, fa la spesa, fa shopping, prende il tea, chiacchiera. Qui non c'è l'ansia di covid-19 e la Brexit non pare avere effetti. A questo proposito vi informo che gli scaffali sono pieni, le medicine ci sono e i prezzi sono inalterati. Sui giornali si legge dello scapigliato che vuole investire il mondo. Una seconda linea di alta velocità, un ponte e non so quali altre immaginifiche opere. Nei prossimi giorni vado a Londra. Vedrò se è cambiato qualcosa. Comunque, anyway, tutto bene sul fronte occidentale. 57


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Testata online aperiodica Proprietà: Comitato per l’Unità Laburista, Strada Sesia 39 14100 Asti (AT) Direttore Responsabile: Aldo Avallone - Stampatore: www.issuu.com web: www.issuu.com/lunitalaburista - mail: lunitalaburista@gmail.com - Tel. +39.347.3612172 Palo Alto, CA (USA), 30 gennaio 2020 60


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