Ente promotore: Stato Maggiore dell'Esercito Generale di Corpo d'Armata Salvatore Farina V Reparto Affari Generali Generale di Brigata Fulvio Poli
Progetto e testi Federica Dal Forno !lustrazioni Massimiliano Notaro (Tavole 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8, 9, 16, 18, 19, 25, 26, 28)
Alessandro Nespolino (Tavole 10, 11, 12, 13, 14, 15, 17, 20, 21, 22, 23, 24, 27)
Consulenza scientifica Marco Pascoli, Paolo Pozzato /
Grafica Emiliano De Ascentiis Edizione e Stampa Gemmagraf 2007 S.r.l. ISBN: 978-88-945153-7-4
Con il sostegno di:
Vittoria Assicurazioni
Dalle sconfitte nascono le grandi vittorie Vittorio Veneto capolavoro strategico del Generale Diaz
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Q\lr:5TO VOL\JMr: - - - •t•-- -
DI C.05A PARLA Questo racconto vuole narrare di due grandi battaglie, Caporetto e Vittorio Veneto, in un dialogo fra sconfitta e vittoria, cercando le ragioni dei fatti sia nell'animo dei protagonisti che nell'efficienza delle armi a disposizione. Ciascun evento è presentato sia dal punto di vista dei vincitori che dei vinti, nella speranza che, pur nell'estrema sintesi e semplificazione dei fatti, il quadro generale appaia più chiaro. Alcuni fra i protagonisti della Grande Guerra raccontano in prima persona quello che seppero, videro e pensarono allora, cercando di rompere quel muro di facili giudizi che ancora avvolgono questi fatti e che sono frutto del nostro "senno di poi". Naturalmente, per mantenere una certa continuità narrativa, si fa cenno anche alle battaglie del Piave, che furono l'inizio della Vittoria italiana. Tuttavia, questa incursione fra le pagine della storia non mira a narrare compiutamente tutti gli accadimenti di quegli anni ma, al contrario, tenta di individuare i motivi per cui italiani ed austro-ungarici vinsero, persero, continuarono a combattere. Giacché, in ultima analisi, proprio l'animo e la volontà dei soldati furono decisivi nello stabilire le sorti della Grande Guerra, forse più delle armi.
AC.HI È RIVOLTO Il volume è dedicato a tutti coloro che nella vita quotidiana lottano per qualcosa di buono e di importante, per sé e per gli altri, pur temendo di non arrivare ad ottenerlo. In queste pagine si cela infatti una grande dose di coraggio mista ad un po' di sana riflessione. È parimenti rivolto a chiunque abbia voglia di scoprire alcuni "luoghi meno comuni" della storia di Caporetto e Vittorio Veneto: con qualche pillola di storia militare e qualche mappa semplificata, scoprirà in breve di riuscire a destreggiarsi in mezzo alle battaglie come mai ha fatto. Per i cultori della materia ... beh, per loro il tutto è fin troppo semplice, ma le immagini sono splendide e non potranno fare a meno di apprezzarle.
C.OME ÈFATTO Questo volume offre più livelli di lettura, pensati sia per coloro che vogliono semplicemente conoscere qualche pagina di storia, facendosi guidare dalla curiosità e dalle splendide illustrazioni, sia per coloro che vogliono acquisire alcune "chiavi di lettura" utili per poter affrontare testi più complessi sull'argomento. Gli strumenti a disposizione sono: • Sezioni "dal punto di vista di": i protagonisti raccontano i piani preparatori e l'andamento di alcune battaglie tramite delle soggettive che aiutano il lettore a capire obiettivi e criticità di entrambe le fazioni;
• Narrazione per immagini: alcuni degli eroi della Grande Guerra raccontano gli avvenimenti che li riguardano in prima persona. Il lettore si troverà letteralmente "catapultato" nella vicenda, aiutato in questo dalle illustrazioni; • Note lessic~li e di approfondimento: in queste pagine si forniscono gli strumenti essenziali per comprendere i principi generali che regolano una manovra militare come la ritirata, pur senza essere degli esperti in materia. • Mappe semplificate: aiutano a focalizzare i principali luoghi menzionati nel testo, nonché la collocazione e l'orientamento delle tavole grafiche che accompagnano il racconto.
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INDIC.r. Qr.Nr.KttLr.
Prefazione del Sig. Capo di SME, Generale di Corpo d'Armata Salvatore Farina .................. . p.
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Vittoria Assicurazioni partecipa al futuro ricordando la storia ........................................ . p.
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Nota introduttiva:
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Parole in guerra: equipaggiamento essenziale per il lettore ................................. . p.
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Mappa semplificata n. 1 (riferimenti geografici tavole 1-6} ............................. . p.
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Verso l'offensiva di Caporetto ............................................................................ .. p.
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CAPORETTO:
08 Nella conca del Naklo ........................................................................................ . O Sfondamento "miracoloso" ................................................................................. . O l:inatteso ......................................................................................................... . O Gli alpini del Rombon ....................................................................................... .. O Rommel alla conquista del Matajur ..................................................................... .
M
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p.
25
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38
Mappa semplificata n. 2 (riferimenti geografici tavole 7-9) ............................ .. p.
42
G Ardito di nome e di fatto .................................................................................. .. O Caricat! ............................................................................................................ . · O Morire per un ponte .......................................................................................... .
p.
43
p.
47
p.
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Come la madre di tutte le sconfitte ebbe per figlia la vittoria ................................. .. p.
55
Nota Lessicale:
Dalla Strafexpedition a Caporetto: ritirate più o meno famose... ma non disfatte! ..... p.
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TRA CAPORETTO E VITTORIO VENETO:
Nel mentre della Battaglia d'Arresto ................................................................... .. p.
62
G:) "Diavoli Rossi" alla conquista dei Tre Monti ....................................................... .. p. G) l:incredibile conquista di Corno Battisti ............................................................ .. p.
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Verso la Battaglia del Solstizio ... .. ............. ... ..................... ....... ................. .... ...... . p.
CDG La sorpresa di Segre .......................................................................................... .
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Nel mentre della Battaglia del Solstizio ............................ .................................. . p.
81
CD Tandura, una spia nel cielo ................................................................................. . G La migliore propaganda: D'Annunzio ................................................................... .
p.
84
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Verso Vittorio Veneto ......................................................................................... . p.
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Mappa semplificata n. 3 (riferimenti geografici tavole 10-13, 16, 25} ............. . p.
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Gn canto nostalgico dei cecoslovacchi ................................................................... .
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Mappa semplificata n. 4 (riferimenti geografici tavole 14, 15, 17, 19-24) ...... . p.
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VITTORIO VENETO:
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G Soldati in.gondola ... ........ .... ...... ........... ..... ... .... ... ..... .... ... ...... ... .... .... .... ...... ... .... G Viribus unitis: l'unione fa la forza ....... .. .... ...... .. .... ............ ..... ... ... ...... .... ..... ... ..... G> Un ragazzo del '99
p.
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p.
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............................................................................................. p.
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G Un assalto contro le regole
... .... ... .. ......... ............ ..... ... .... .... .... ... ..... ..... ...... .. ....... p.
116
$ Ardimento ........................................................................................................ p. 119
G Sernaglia della Battaglia G> I:inseguimento
.................................................................................... p.
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.................................................................................................. p.
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Q Vittorio ...... .... ..... ... ..... .... ......... ... ...... ... ..... ... .... ... ....... ... .. ... ... .. .. ... .. ......... ... .... ...
p.
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......................................................................................... p.
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Mappa semplificata n. 5 (riferimenti geografici tavole 18, 26-28) .................... p.
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C) I:Audace ..... ..... .... ..... ... ..... ... .......... ... ... .... .. ... .. .. ... .. ........ ............. .... .. .. .... ...... ... .. p.
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G L'ultima volata .... ...... .. ..... .. ..... ...... ..... ... .... ..... ... ... ....... .. ... .... ...... ......... .... .... ..... ..
p.
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G) Gli ultimi eroi .... .... .... ... .... .. .... ....... .. ...... .. ..... ....... ... ....... ... ............. .. ..... ..... .... .... p.
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La fama e la memoria . .... ............. .. .. .... ... ..... .. ........ .. . .... . ... . ............ ..... .. . .. .. ..... ... .. p.
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Scheda di approfondimento: La manovra in ritirata. Schemi esemplificativi ........................................................ p.
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G Lotta per l'armistizio >
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f7Kr:rAZIONI: DEL 51Q. çAJlO DI 5ME. QENERALE DI çoRl70 D·~RMATA SALVATORE FARINA fronte, il loro proteggersi nelle trincee e il lanciarsi all'attacco. I disegni sembrano così esulare dalla mera rappresentazione dell'evento rendendo le tavole opere uniche. Le tinte fosche degli acquerelli raccontano la guerra con grande forza ed efficacia, narrando con sentimento e partecipazione il dramma umano accanto ai fatti. Ogni particolare viene riprodotto così come si presentava all'epoca del conflitto e anche i soldati sono raffigurati riportando con esattezza le insegne dei corpi e delle unità realmente presenti in quel determinato momento e luogo.
Quando nel 2017 mi sono immerso nella lettura di "Non chiamatelo fiume. Dal Grappa al Piave, storia illustrata di un monumento d'Italia", ricoprivo l'incarico di Comandante del NATO Joint Force Command di Brunssum. Non saprei quale aggettivo sia più indicato per definire tale opera, scritta e curata dalla Prof.ssa Federica Dal Forno. Appassionante, entusiasmante? Ritengo che "coinvolgente" renda meglio l'idea. I testi, accompagnati da vignette abilmente illustrate, trasportano letteralmente nel passato, cento anni indietro nel tempo, facendo vivere le emozioni dei soldati, apprezzare il loro coraggio, avvertire le loro paure. Un'opera che riesce a catturare il lettore, tenendolo saldamente ancorato alle sue pagine. Per queste ragioni, poco dopo aver assunto l'incarico di Capo di Stato Maggiore dell'Esercito, ho accolto con entusiasmo e interesse la proposta dell'autrice che, incoraggiata dal successo del primo libro, ha inteso scrivere un nuovo testo, un volume che rappresentasse un continuum con il precedente lavoro. L'opera ''Per cosa si combatte. Dalle sconfitte nascono le grandi vittorie" chiude simbolicamente le commemorazioni del Centenario della Grande Guerra, relazionando i fatti bellici avvenuti dal 24 ottobre 1917, data dello sfondamento del nemico a Caporetto, fino alla battaglia finale di Vittorio Veneto. Proprio in questo confronto si inquadra il dialogo tra sconfitta e vittoria, un contraddittorio che prende dunque in considerazione entrambi gli eventi, analizzandoli dal punto di vista sia italiano sia austro-tedesco. Attraverso le prodigiose matite di fumettisti del calibro di Massimiliano Notaro e Alessandro Nespolino, con tratto sapiente e di emozionante tridimensionalità, vengono rappresentati i soldati in grigioverde, raccontando il susseguirsi del paesaggio, il cambio delle stagioni, gli spostamenti delle truppe sul
Nei testi non viene fornita una visione esaustiva e risolutiva dei fatti. Lo scopo vuole essere, piuttosto, quello di invitare il lettore ad approfondire, a considerare le molte contraddizioni del conflitto, guardando alla guerra senza dare giudizi affrettati sull'operato degli uomini di allora e tentando di confrontarsi con la complessità delle scelte condotte in un momento tanto tragico. A tal fine, a garanzia dell'esattezza dei contenuti, l'autrice ha voluto accanto a sé la consulenza storico-scientifica del Dott. Marco Pascoli e del Prof. Paolo Pozzato, grazie ai quali la narrazione storica è stata resa ancora più preziosa e accattivante. Gli scontri si susseguono quindi davanti al lettore come se fossero osservati da uno spioncino, dal buco di una serratura al di là del quale si dipanano i fatti del passato. Caporetto e Vittorio Veneto: due tappe cruciali nella nostra storia. La prima, una località che a seguito della sconfitta diventa sinonimo di disastro, di caos. Sono molti gli interrogativi su quel lontano 24 ottobre del 1917. Quel terribile giorno di ottobre per gli italiani nulla andò per il verso giusto. La battaglia di Caporetto, o dodicesima battaglia dell'Isonzo, rappresenta tuttora la più grave ritirata dell'Esercito Italiano. Gli storici
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attribuiscono varie ragioni a quanto successo, ma risulta difficile affermare con certezza quale sia quella esatta: un uso improprio delle artiglierie, fino ad allora orientate ad una battaglia di tipo offensivo e non difensivo; la stanchezza delle truppe italiane, duramente provate· dalle precedenti undici battaglie; o ancora, le condizioni meteorologiche avverse che impedirono alle prime linee di individuare in tempo utile l'avanzata dei nemici.
A ogni modo, Diaz decise di sfe rrare l'offensiva finale dopo aver ripianato le deficienze nel settore delle artiglierie e aver ristabilito la forza organica, anche grazie alla chiamata alle armi dei cosiddetti "ragazzi del '99". Così, il 24 ottobre 1918, si realizzò la "Caporetto" austriaca, con un attacco che ebbe inizio sul Grappa a un anno esatto dalla sconfitta italiana, proprio per spronare ancor più la volontà di riscossa. Si trattò, stavolta, di una vera e propria disfatta, conclusasi il 3 novembre 1918 con l'armistizio di Villa Giusti (entrato in vigore alle ore 15. 00 del giorno successivo), che sancì ufficialmente la fine della Grande Guerra. Fu un conflitto a cui presero parte non solo i nost ri soldati, ma la popolazione italiana intera, un impegno corale rivelatosi fondamentale per il conseguimento del successo. Basti pensare all'eccezionale ruolo ricoperto dalle donne, che contribuirono allo sforzo bellico in numerosi settori, operando tanto negli stabilimenti industriali quanto a diretto supporto delle prime linee: una sinergia e comunione di intenti che può essere sicuramente additata ad esempio ancora oggi. La Grande Guerra, pur nella sua immane drammaticità, rappresenta quindi un momento di fondamentale importanza per il nostro Paese, diventato una Nazione coesa e, per la prima volta nell'era moderna, assurta al ruolo di grande Stato europeo. L'eredità di quell'evento storico, l'insegnamento ritenuto più importante concerne l'eccezionalità del nostro popolo: orgoglioso, coraggioso e operoso, capace di ritrovarsi nei momenti di maggiori difficoltà, riuscendo a dare il meglio di sé anche quando tutto sembra perduto. A voi, cari lettori, l'onore e l'onere di tramandare la memoria del conflitto, affinché i fatti e gli uomini che l'hanno combattuto e ai quali sono dedicati, in tante città italiane, centinaia di monumenti in ricordo del loro sacrificio, non vengano dimenticati.
Ciò su cui tutti convengono è che la sconfitta, cui seguì la decisione di avvicendare il Generale Luigi Cadorna con il Generale Armando Diaz, spronò gli italiani a una rapida riorganizzazione. Per la prima volta dall'inizio del conflitto, l'intero Paese percepì davvero il pericolo di un'invasione e reagì. Le truppe diedero prova del loro valore fermando il nemico nella successiva Battaglia d'Arresto, permettendo così all'intero Esercito di difendere a oltranza il Monte Grappa e il Piave, dove la resistenza italiana si consolidò e si tramutò nella successiva controffensiva di Vittorio Veneto. Altra città, quest'ultima, che . si collega immediatamente alla Grande Guerra, ponendo interrogativi sulle ragioni per cui Diaz attaccò proprio in tale luogo. Da un punto di vista militare, esso rappresentava un settore in cui due Armate nemiche si congiungevano, quindi un "punto debole" dello schieramento nemico, ma anche l'area in cui confluivano gli itinerari dei loro rifornimenti logistici e l'afflusso delle loro riserve. Taluni, addirittura, ritengono che tra i vari motivi legati alla scelta dell'abitato di Vittorio come obiettivo vi fosse il nome stesso della località. Infatti, occorreva motivare l'Italia tutta, inducendo i militari e gli italiani alla speranza, all'ottimismo, stimolandoli a considerare quell'offensiva come l'ultima, la "vittoria-sa" (la città nacque nel 1866 con il nome di "Vittorio" in omaggio a Vittorio Emanuele II, primo re d'Italia; solo nel 1923 cambiò la propria denominazione in quella attuale di Vittorio Veneto).
Vi auguro, quindi, una buona lettura!
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VITTORIA f.1551C.\.I RAZIONI 17ARTr.C.IPA AL r\JT\JRO RIC.ORDANDO LA STORIA
---·•--Vittoria Assicurazioni ha instaurato una collaborazione ormai trentennale con il Ministero della Difesa, dando sostegno partecipe ed attivo alle Forze Armate Italiane, sia in occasione di numerose missioni di pace che mediante convenzioni riservate ai suoi appartenenti.
È con l'intento di dimostrarsi ancora una volta vicina ai valori dell'Italia e degli italiani che Vittoria Assicurazioni ha aderito all'iniziativa di "Per cosa si combatte", un volume illustrato nato con il proposito di divulgare la storia della Grande Guerra in tutte le sue contraddizioni, al fine di far riflettere giovani e meno giovani sul valore della pace che ci è stata consegnata, una conquista tutt'altro che scontata, un valore da proteggere e perseguire sempre. "Per cosa si combatte" è un invito a guardare alle difficili scelte e sfide che la vita impone, spesso non prive di sconfitte, che tuttavia non devono mai abbattere obiettivi e progetti davvero importanti, soprattutto se essi si prefiggono il bene della collettività.
È per questa ragione che Vittoria Assicurazioni si unisce agli autori e promotori di questo volume nel voler incoraggiare e sostenere chiunque creda e voglia realizzare un futuro migliore.
Vittoria Assicurazioni S.p.A. L'Amministratore Delegato Cesare Caldarelli
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NOTA INTKOD\JTIIVA
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Se conoscete lo schema generale di "ripiegamento" di un esercito all'epoca della Grande Guerra e sapete cos'è un "combattimento di retroguardia" potete saltare questa nota lessicale, altrimenti eccovi qualche piccola nozione di carattere generale che vi permetterà di comprendere al meglio la nostra storia.
PAROLE IN Q(JERRA: EQ(JlflAQQIAMENTO E55ENZIALC PER IL LETTORE
rinforzata da sacchetti di terra e muretti di pietre, con posti avanzati per le vedette e postazioni per le mitragliatrici. Sentieri protetti, chiamati camminamenti, collegavano la prima alla seconda linea, nonché quest'ultima alla terza e ad eventuali altre linee più arretrate. Se la prima linea vedeva lo scontro diretto con il nemico, bersaglio di fucili e mitragliatrici, la seconda e la terza erano ugualmente esposte ai tiri delfartiglieria di medio e grosso calibro, ossia cannoni, obici e mortai. Dietro le suddette linee difensive, si estendeva l'ampia zona della retrovia, dove trovava posto l'intero impianto logistico che doveva organizzare e rifornire quotidianamente centinaia di migliaia di soldati e le loro armi.
Ogni Nazione ha sempre richiesto spiegazioni per le sconfitte, mai per le vittorie, per le ultime solitamente è sufficiente esultare. Eppure, come cercheremo di dimostrare, spesso le vittorie debbono parte del loro esito proprio alle sconfitte, più di quanto comunemente si pensi. Il successo italiano di Vittorio Veneto dovette molto allo "smacco" di Caporetto, un evento da cui occorre necessariamente partire per giungere ad una più chiara descrizione dell'epilogo del conflitto. Il lettore, che affronta per la prima volta i movimenti delle truppe al fronte durante la Grande Guerra, potrà usufruire di alcune nozioni basilari di seguito proposte. In particolare, i concetti chiave riguardanti la manovra militare "in ritirata", si riveleranno utili a comprendere sia quanto avvenne a Caporetto da parte italiana, sia quanto avvenne (o meglio, non avvenne) a Vittorio Veneto da parte austriaca. La parola "ritirata", o per meglio dire "ripiegamento", viene tutt'oggi spesso confusa con "rotta" o "disfatta" per non dire "resa", la prima non esclude sempre e del tutto le altre, ma sono concetti assai diversi che affronteremo in questo volume un po' alla volta.
LO SCHIERAMENTO Durante la Grande Guerra, gli eserciti avversari si fronteggiavano sul campo di battaglia schierati . in più linee difensive, variabili per numero e caratteristiche a seconda del momento storico e del territorio. Di fronte al nemico, vi era la prima linea, una trincea non molto profonda,
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ATTACCO E SFONDAMENTO Prima di un'offensiva, l'esercito attaccante iniziava a radunare un quantitativo enorme di armi, munizioni e uomini nei pressi dei punti in cui intendeva aprire una breccia nello schieramento avversario. La vittoria dell'azione era infatti strettamente connessa alla superiorità delle forze impiegate, che dovevano sopraffare nel numero il nemico, prima ancora di ·altre considerazioni strategiche. Ogni attacco, a qualsiasi quota e condizione di terreno, era preannunciato da un violento bombardamento, effettuato dall'artiglieria (cannoni, obici e bombarde), tale da inibire il più possibile le difese avversarie. Nei primi anni di guerra, ad andare all'assalto della prima linea nemica era la fanteria, in seguito, grazie al progresso nella tecnica bellica
-------·•·----e degli armamenti, fu possibile affidare l'operazione ad un minor numero di uomini meglio equipaggiati ed addestrati al compito, ossia le cosiddette "truppe d'assalto", corrie gli Arditi italiani e le Sturmtruppen austriache. Essi aprivano la strada al resto dell'esercito che sarebbe avanzato in forze dopo di loro. Naturalmente, per "sfondare", occorreva incunearsi nello schieramento degli oppositori riuscendo a ''bucare" la prima, la seconda ed anche la terza linea avversaria, quella di massima resistenza. A quel punto, iniziava la penetrazione nel territorio avversario del grosso delle truppe ammassate nelle retrovie, che fino a quel momento aveva atteso il buon · esito dell'azione. Giunti alfi.ne nel campo libero alle spalle dello schieramento nemico, i soldati attaccanti correvano in due direzioni: alcuni si dirigevano avanti a sé, verso gli obiettivi strategici da occupare nel territorio nemico; altri cercavano invece di prendere alle spalle quelle truppe che erano ancora ferme nelle loro posizioni avanzate. LA MANOVRA DIFENSIVA IN CASO DI SFONDAMENTO Di fronte ad un'azione di sfondamento, l'esercito attaccato, per bloccare gli invasori e non rischiare di rimanere accerchiato (rischiando così di perdere la guerra, non solo una battaglia), doveva necessariamente reagire con una manovra in ritirata. Per rendere l'idea del movimento che i soldati a quel punto dovevano compiere, pensiamo per un attimo a cosa accade in un campo .da calcio quando un attaccante conquista la palla e corre verso la porta. In quel preciso istante tutti i difensori della squadra avversaria scattano indietro all'unisono, cercando di arrivare nei pressi della porta prima dell'attaccante per poi affrontarlo e fermarlo, impedendogli di fare goal. Ora torniamo ai nostri soldati in guerra: quando l'esercito attaccante penetrava tutte le linee avversarie, iniziando a correre verso i suoi obiettivi, l'azione di contenimento dell'esercito attaccato assomigliava a quella dei giocatori di calcio: correre indietro a difendere gli obiettivi strategici, cercando al
contempo di fermare la sua corsa quanto prima. L'azione contenitiva aveva successo quando tutti i "difensori" riuscivano a rischierarsi in una nuova linea davanti all'attaccante, creando una barriera tanto efficace da fermare il nemico. Naturalmente, se l'attaccante era così veloce e forte da raggiungere gli obiettivi cruciali prima che l'esercito "difensore" riuscisse a bloccarlo con un nuovo schieramento, la partita, ossia la guerra, era persa. Se, ad esempio, gli austro-tedeschi durante l'offensiva di Caporetto fossero riusciti a superare il Piave ed a conquistare Venezia ed altre città "chiave", l1talia si sarebbe dovuta arrendere, uscendo dalla guerra sconfitta. Possiamo ora facilmente comprendere come la corsa deU'Esercito Italiano verso il Piave non fosse in realtà una fuga di fronte all'avversario, alla ricerca di un argine qualsiasi dietro cui ripararsi (come ahimè, capita ancora talvolta di sentire), ma una manovra militare prestabilita, che fin dal 1882 stabiliva proprio quel fiume quale migliore linea di difesa in caso di invasione nemica su quel fronte. [Per chi volesse approfondire ulteriormente la manovra in ritirata fin qui brevemente accennata, potrà ,trovare ulteriori spiegazioni e schemi esemplificativi nella scheda di approfondimento a pag. 153] COMBATTIMENTI DI RETROGUARDIA Durante la manovra in ritirata, mentre la gran parte dell'Esercito attaccato doveva correre a creare uno sbarramento efficace davanti all'esercito nemico, l'azione di "frenaggio" dell'attaccante in corsa era affidata a piccoli reparti di soldati, che ingaggiavano battaglia pur essendo estremamente inferiori per numero e armi. Queste azioni di contrasto prendevano il nome di "combattimenti di retroguardia" ed erano condotte senza alcuna speranza di vittoria, con l'unico scopo di dare il tempo al grosso del proprio esercito di approntare la vera barriera, ossia scavare trincee, schierare uomini, artiglieria e tutto quanto fosse necessario a fermare definitivamente la penetrazione del nemico. Molti degli episodi più toccanti di questo racconto, avranno come protagonisti i soldati che combatterono queste battaglie ad armi impari.
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ochi mesi prima, nel caldo torrido di agosto, i soldati italiani avevano dato l'anima sulla Bainsizza, un altopiano sito a Nord di Gorizia. Dopo furiosi combattimenti condot ti in un ambiente inospitale e riarso da un sole cocente, riuscirono con molte perdite ad attraversare il fiume Isonzo, a risalire i pendii sovrastanti l'ormai devastato borgo di Canale ed a conquistare il Monte Santo. L'esercito austriaco fu costretto alla ritirata ai margini dell'altopiano, lasciando dietro di sé 20.000 prigionieri e centinaia fra pezzi d'artiglieria e mitragliatrici, ma riuscendo infine a tenere saldamente il piede in quell'ultima linea difensiva. I soldati italiani, convinti che quell'offensiva sarebbe stata "l'ultimo sforzo" prima della vittoria, erano esausti e delusi, non essendo riusciti a infliggere il tanto desiderato "colpo finale" alla resistenza nemica. Gli austroungarici erano a loro volta stremati delle forti perdite, tanto che l'imperatore Carlo si era rassegnato all'impossibilità di chiedere ulteriori sforzi ai propri uomini. A malincuore, aveva infine deciso di chiedere aiuto all'alleato t edesco in termini di divisioni e artiglieria pesante: si rivolse dunque al Gran Quartier Generale di Hindenburg, il feldmaresciallo che comandava tutte le forze della Germania, paventando la minaccia della perdita del fronte dell'Isonzo alla prossima offensiva italiana di primavera. Hidenburg si consultò con Ludendorff, il suo primo quartiermastro (una sorta di vice), che si dimostrò propenso ad aiutare l'Austria-Ungheria, a patto che il comando dell'armata e dei piani d'attacco fosse affidato ad un generale tedesco. I due comandanti erano tuttavia un po' contrariati: com'era possibile che il loro alleato non riuscisse a tenere a bada da solo la "piccola Italia"?
----•+•----19 7 solleticava l'alleato, l'impero austro-ungarico, sin dalle guerre napoleoniche. Era praticamente un chiodo fisso, un piano lungamente preparato ben prima dell'inizio della Grande Guerra, quando l'Italia, pur essendo ancora legata a loro da un patto, era da tenere sotto controllo. Ora, dopo l'undicesima battaglia dell'Isonzo che aveva lasciato gli italiani saldamente padroni dell'altopiano della Bainsizza, con il pericolo di guadagnare ancora terreno, i comandanti austriaci contavano sull'aiuto della Germania per attuare un attacco mirato a farli retrocedere e desistere da ulteriori velleità di conquista. Così, i suoi superiori l'avevano chiamato in causa. Aveva già parlato con Hindenburg: il feldmaresciallo concordava con lui sul fatto che non era possibile mandare troppi uomini su quel fronte e nemmeno lasciarli al comando austriaco... gli alleati si sarebbero dovuti accontentare di sette divisioni, fra le più valorose senz'altro, ma soltanto sette e sotto il comando tedesco! Inoltre, anche se gli austriaci miravano a respingere gli italiani soltanto oltre il Matajur e lo Stol, von Below non aveva intenzione di scomodare il suo esercito per così poco, quantomeno occorreva farli arret rare dietro il Tagliamento. Così facendo, l'Austria-Ungheria avrebbero respirato un po' e la Germania sarebbe stata finalmente libera di concentrarsi nel vincere la guerra, abbattendo le grandi potenze francese e britannica!
DAL PUNTO DI VISTA DI...
Cadorna, forte dell'ultima conquista, a inizio settembre era dell'idea che per quell'anno non ci sarebbero più state battaglie campali: la battaglia della Bainsizza aveva logorato entrambi gli eserciti, si era dato fondo a tutti i proiettili di artiglieria e, giacché l'inverno era alle porte, tanto valeva dare un po' d1 tregua alle truppe, mentre i giovani ufficiali di complemento giungevano a supplire ai vuoti di comando inflitti dai duri combattimenti. Tutte le grandi battaglie erano state fino ad allora condotte prevalentemente nei mesi temperati; d'inverno, fra neve e ghiaccio, tutto si paralizzava, anche la guerra. Certo, l'Italia aveva portato avanti le sue offensive sull'Isonzo anche in autunno inoltrato... ma quell'anno era differente, la stanchezza verso una guerra logorante ed ancora senza apparente
on Below era uno dei migliori comandanti d'armata dell'esercito tedesco e ne era ben consapevole. Al pari di Ludendorff e di altri grandi generali, apparteneva alla "scuola" del conte Schlieffen, l'ex Capo di Stato Maggiore dell'esercito tedesco famoso maestro della "manovra per ala", ossia quella che prevedeva di prendere il nemico alle spalle dopo averne sfondato un'ala del suo fronte (vale a dire una delle due estremità dello schieramento interessato dai combattimenti), disarticolando la difesa ed innescando la rotta dell'esercito avversario. Below sapeva che l'idea di un'operazione offensiva sull'alto Isonzo
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via d'uscita aveva portato la crisi in t utti gli affamata, esausta ... che più di ogni altra cosa eserciti, nessuno escluso, con l'aggravarsi di desiderava la pace. "Se il Re ed il Parlamento manifestazioni di dissenso e d'insurrezione come non sanno fare la pace, la facciamo noi!" gridava mai prima di quel momento. Occorreva arrestarsi, qualche traditore mollando il fucile. Toccava far prendere fiato, portare alla ragione. Cadorna reprimere senza esitare queste insurrezioni, interrogava i suoi comandanti sull'umore dei la dura disciplina era l'unica barriera alla so,ldati, sulle voci sediziose, tutti rispondevano diserzione ... Sbatté un pugno sul tavolo per la ottimisticamente. Forse le intemperanze che stizza, non amava punire i propri uomini, sapeva gli giungevano all'orecchio erano soltanto che non erano canaglie, erano solt anto esausti, sporadiche o forse erano i suoi generali a demotivati... ma non aveva alternativa. Aveva ritenere di poter far presto rientrare il dissenso impegnato tutti quegli anni in attacchi volti a con la naturale pausa invernale, tuttavia, era finire il prima possibile la guerra, sacrificava i meglio essere prudenti. Quell'autunno non suoi uomini in attacchi titanici sperando sempre avrebbe ordinato nessun'altra attacco: decise che sarebbero stati gli ultimi, ma i comandanti di far diramare l'ordine di cambiare l'assetto avversari facevano il medesimo calcolo e così si delle posizioni da offensive a difensive. Se lui finiva sempre punto e a capo ... eppure, sarebbe riteneva inopportuno sferrare un attacco in bastato un solo, grande, sfondamento! Tuttavia, quel momento - tanto più che nebbie, neve e ora doveva arrendersi di fronte alla troppa freddo stavano giungendo in anticipo - di certo stanchezza delle truppe, occorreva bloccare le lo stesso valeva anche per gli austriaci che offensive per dare tempo all'inverno di far tornare ancora dovevano digerire l'ultima batosta ... le energie e l'ottimismo ai suoi uomini, tanto più ma non era detto, gli erano giunte notizie che le notizie dei moti in Russia non erano certo di una possibile offensiva, era meglio farsi rassicuranti.. . non poteva correre il rischio di trovare pronti. Il Càpo dell'Esercito rifletteva un'insurrezione anche qui, nel suo Esercito. amaramente su come la stampa e la politica non facessero altro /che minare lo spirito combattivo Krauss, in una pallida e fredda giornata di delle sue truppe con vile propaganda: non se ne fine settembre, presso Kronau, salutava l'arrivo poteva più del disfattismo sempre più subdolo e del collega tedesco von Below. Il severo generale dilagante. Cadorna era stato il primo a chiedere austriaco condusse immediatamente l'alleato una maggiore ponderatezza nel valutare all'osservatorio del Celo. Da quell'altura posta l'opportunità di un'entrata in guerra quando il ai piedi del Mont e Svinjak, la Conca di Plezzo governo, oramai tre anni prima, aveva deciso si apriva sotto di loro, potendo osservare i di dar retta, d'un tratto, agli interventisti ... monti e le alture digradanti che la attorniavano, ma che ne sapevano loro di guerra? Era bastata lasciando intendere le gole, i passi e le valli qualche battaglia per far cambiare a tutti idea. che, tortuosamente, conducevano al fiume Ma ormai erano in ballo e occorreva ballare, gli Tagliamento. Krauss, brillant e veterano del avevano dato il compito di vincere quel malnato fronte balcanico, uomo preparato ed energico, conflitto ed ora il suo esercito era finalmente in nonché convinto anti-italiano, era uno dei pochi grado di combattere con armi adeguate, giacché ufficiali austro-ungarici stimati dai colleghi l'industria bellica sfornava cannoni, bombarde e germanici. Secondo il piano del generale tedesco munizionamento a ritmi sostenuti. Finalmente. von Below, le divisioni di Krauss erano dest inate Non aveva senso mollare ora. Eppure sapeva che a coprire l'ala destra dell'attacco germanico, i soldati, non appena mettevano il naso fuori sferrando un'offensiva agli italiani che li tenesse dalla trincea e tornavano per qualche tempo impegnati quanto bastava per permettere al a casa, elusa ogni forma di censura, venivano gruppo dell'ala sinistra delle truppe di Below di a sapere che non stavano combattendo per sfondare e penetrare in profondità, finendo col un'Italia unita, concorde, ma per un'Italia divisa, cogliere lo schieramento avversario alle spalle.
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Ma Krauss non ci stava, non voleva avere un ruolo secondario in quella partita tanto importante lasciando tutta la gloria alle truppe germaniche. Occorreva un'offensiva sull'ala destra? Benissimo, ma non si sarebbe limitato ad un fuoco di paglia, aveva tutta l'intenzione di attaccare seriamente, sfondare e raggiungere la cima dello Stol. Con le dovute cautele, l'intraprendente Generale espose le sue intenzioni al collega. Below rifletté in silenzio, infine annuì: l'attacco a fondo non costituiva forse la miglior azione di "fiancheggiamento"? Inoltre, Krauss poteva riuscire ad aprire una falla proprio sulla linea di giunzione del XII Corpo d'Armata e la 2• Armata italiani, permettendo di piombare alle spalle della 35a Divisione italiana che così sarebbe rimasta in trappola. Per quanto il comandante tedesco non amasse mettere i propri uomini agli ordini di un alleato, decise che avrebbe concesso a Krauss una divisione di Jdger tedeschi (truppe celeri, paragonabili ai bersaglieri italiani) ed il 35° Pionier Bataillon provvisto di 912 tubi lancia gas elettrici. Krauss era soddisfatto, poteva avvalersi così di ben quattro divisioni (tre austro-ungariche ed una tedesca), per un totale di circa 80.000 uomini, più o meno 45.000 fucili. Oltre alla forza dei numeri, poteva contare sulla superiorità tecnica delle nuove mitragliatrici leggere, LMG 08/15 tedesca e HMG 07 /12 austriaca, armi che potevano essere maneggiate da un solo uomo e che gli italiani non avevano neppure mai visto. Fino a quel momento, le mitragliatrici in uso erano considerate un'arma pesante, per essere spostate e per essere impiegate necessitavano di almeno cinque uomini: due per il trasporto dell'arma, due per le taniche d'acqua. di raffreddamento, uno per le cassette di munizioni. Le nuove mitragliatrici austriache e tedesche necessitavano invece soltanto di un uomo per il trasporto e di un servente per le munizioni, con il risultato che una sola delle sue compagnie ( circa 250 uomini) avrebbe avuto la capacità di fuoco pari a quella di un battaglione italiano ecirca 1000 uomini). Se la fortuna gli avesse arriso, gli italiani, attaccati in piena notte, sentendo la portata di fuoco delle sue truppe in avanzata, avrebbero potuto immaginare di avere davanti
almeno il triplo degli uomini effettivamente schierati! Sorrise compiaciuto. Se l'inganno fosse riuscito, gli italiani stessi avrebbero stimato di non essere in grado di difendere le loro posizioni e, dunque, avrebbero optato per la soluzione più ragionevole: ritirarsi.
Cadoma, preoccupato, tornava e ritornava con la mente a quanto gli aveva riferito il Col. Marchetti, Capo del Servizio Informazioni. Non aveva motivo di dubitare della veridicità di un pericolo imminente: che i disertori catturati fossero davvero dei traditori dell'Austria oppure delle spie inviate appositamente per fornire informazioni fasulle, in ogni caso era chiaro che un'offensiva sarebbe stata condotta a breve contro l'Italia. Quello che andava compreso era se le informazioni date in relazione ad un attacco nell'Alto Isonzo fossero veritiere, oppure se l'assalto era in realtà programmato altrove e quegli uomini fossero stati inviati appositamente per far spostare mezzi e attenzione del Regio Esercito verso il punto sbagliato. Non erano quelli i primi disertori a fornire dettagli su un attacco previsto per quell'ottobre, tuttavia, fino a quel momento, gli informatori avevano parlato di un concentramento di forze dietro le linee nemiche atto a condurre un'offensiva molto più a sud, sulla via di Gorizia, se non addirittura passando per Monfalcone. Se l'intenzione era quella di attuare un poderoso sfondamento che conducesse l'Austria alla vittoria, di certo, quella a sud sembrava l'opzione migliore sia in senso operativo che strategico. Cadorna, non si era neppure sentito di escludere un'offensiva "a tenaglia", di quelle che piacevano tanto ai comandi austriaci, ovvero un attacco simultaneo sul basso Isonzo e sul Trentino. Ma il servizio informazioni italiano non rilevava particolari movimenti che facessero presumere una seconda Strafexpedition. Rimaneva l'Isonzo. Cadorna non volle fidarsi degli ultimi disertori, decise di posizionare le riserve, ovvero le truppe che sarebbero accorse in aiuto delle linee difensive attaccate, nella pianura friulana. In questo modo contava di riuscire a spostarle agevolmente sia più a sud, qualora la direttiva dell'offensiva avesse preso la via di
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fomentando ancora una volta il malcontento. Senza contare come l'arretramento avrebbe inciso pesantemente sul morale dei soldati che avevano dato il sangue, solo qualche mese prima, per quei pochi metri di terreno. Come giustificare questo "cedere terreno" ai loro occhi? Avrebbero potuto pensare che i loro sacrifici e le loro conquiste non erano poi così importanti per il comando, spingendoli ad abbandonare anche quell'ultimo presidio o, peggio ancora, a disertare. E infine, come chiedere loro, la primavera seguente, di riconquistare di nuovo le medesime posizioni per proseguire l'avanzata e spingersi ancora oltre? Era impossibile spiegare loro le esigenze strategiche del conflitto ... non le avrebbero mai comprese, non vedevano il quadro generale. Tuttavia, non si poteva nemmeno far conquistare ai soldati un terreno in agosto per "sguarnirlo delle difese", apparentemente senza motivo, in ottobre, per poi chiedere loro di riconquistarlo a febbraio! Questa opzione non sembrava affatto una via percorribile. Dunque, per arginare un possibile attacco, si doveva prevedere un'azione difensiva minima a cui far seguire un'immediata controffensiva, ovvero ribattere ad un attacco con un altro attacco, così da far rimanere artiglieria e soldati dove si trovavano. Per queste ragioni, aveva pensato bene di affidare l'azione controffensiva al VII Corpo di Armata del Gen. Bongiovanni, piazzata dietro il punto di giunzione di altri due corpi d'armata, il IV del Gen. Cavaciocchi e il XXVII del Gen. Badoglio, rafforzando così il punto in cui ipotizzava più probabile un eventuale attacco. Del resto, le confessioni di alcuni disertori austriaci lasciavano intendere che vi sarebbe stata un'imminente offensiva proprio lì, sul fronte dell1sonzo. Capello, in verità, lo riteneva piuttosto improbabile date le avverse condizioni atmosferiche e la situazione geografica dell'Alto Isonzo, tuttavia doveva tenersi comunque pronto. Mentre il Generale ripercorreva ancora una volta mentalmente le disposizioni impartite, si affacciò alla porta il Gen. Montuori. È ora, pensò sospirando dalla sua poco piacevole posizione. I.:auto che lo avrebbe condotto in ospedale lo stava attendendo fuori, sotto la pioggia sottile di quel 20 ottobre. I dolori lancinanti lo fecero quasi svenire mentre tentava
Gorizia o Monfalcone, sia verso nord, qualora l'Austria avesse deciso di tentare l'improbabile azzardo di un attacco tra Plezzo e Tolmino.
Capello, il Generale a capo della 2a Armata, era intento a riflettere, steso sul suo giaciglio al posto di comando, in quell'uggiosa giornata di fine ottobre. I.:ufficiale medico aveva dato il nome di nefrite a quel dolore intenso che da giorni lo stava logorando alle reni, gli aveva intimato un ricovero, ma il Generale non gli aveva ancora dato retta, non voleva lasciare il campo, non senza aver dato tutte le disposizioni del caso. I.:ordine di Cadorna di assumere posizioni difensive, pur essendo una diposizione di per sé oculata nell'imminenza del periodo invernale e nell'eventualità di una contromossa nemica, non andava d'accordo con il suo schieramento attuale. La sua prima linea, conquistata con la battaglia della Bainsizza, risultava il punto finale della spinta offensiva di qualche mese prima, non era una sistemazione pensata per la difesa, ma, al contrario, per dare agio ad un'ulteriore azione d'attacco. La seconda e terza linea, invece, occupavano in più tratti posizioni dominanti, dando modo all'artiglieria di sorvegliare il fronte e agire cannoneggiando il nemico dall'alto in caso di attacco. Certo, la posizione dei cannoni era molto avanzata, la loro azione si sarebbe dovuta esplicare alle prime avvisaglie di offensiva, un ritardo in tal senso avrebbe comportato un tiro troppo lungo rispetto all'esercito attaccante che si sarebbe spostato velocemente in avanti, a ridosso della prima linea, ossia troppo vicino per essere colpito. Era necessario far presidiare maggiormente le trincee ancora troppo sguarnite, aumentare le sentinelle, così alla prima mossa del nemico ... Del resto, far arretrare le truppe per guadagnare una maggiore efficienza difensiva, avrebbe comportato perlomeno lo sgombero dell'altopiano della Bainsizza dalle artiglierie pesanti, lasciando soltanto la prima linea avanzata a presidiare la zona ed a coprire la manovra. I soldati in prima linea si sarebbero sentiti "abbandonati" dall'artiglieria, il loro "scudo" in caso di attacco: l'arretramento dei cannoni, pur funzionale proprio alla difesa di quelle linee, li avrebbe impensieriti,
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di rimettersi in piedi, di certo, lo convinsero più del medico dell'ineluttabilità del suo ricovero.
bene in attacco, non avevano mai sperimentato dei combattimenti difensivi, per lo meno la gran parte di loro. In caso di un serio attacco o, ancor peggio, di una ritirata, quale garanzia si poteva avere che non avrebbero semplicemente abbandonato le posizioni? Avrebbero saputo combattere nel mentre di un'azione di ripiegamento? Il problema per ora non aveva soluzione, ma guardando gli schieramenti sulla carta topografica si convinse che si poteva comunque fare di meglio. Decise quindi di spostare i punti di giunzione fra i due corpi d'armata di Cavaciocchi e Badoglio, così come da ordini del Generale Capello. Guardò l'orologio e vide che oramai era l'alba. Prese il foglio per scrivere gli ordini della giornata, per prima cosa, in alto a destra, mise la data: 21 ottobre.
Montuori rifletteva sulla situazione e sugli uomini che gli erano stati affidati. Il Generale, poco meno che sessantenne, ostentava ben due medaglie d'argento al valor militare, la commenda dell'Ordine Miliare di Savoia ed una ferita guadagnata in Bainsizza, a testimoniare che lui le battaglie le viveva sul campo. Aveva persino comandato la Scuola di Guerra, quanto a strategia militare, era certo di sapere il fatto suo. Quella sera sedeva alla scrivania del suo superiore, il Gen. Capello, scorrendo le carte dell'Alto Comando che lo informavano sull'imminente attacco fra Plezzo e Tolmino. Mah! - disse fra sé e sé - è alquanto improbabile. Il tempo era pessimo e gli austriaci si sarebbero davvero complicati la vita in quel settore impervio. Se mai ci fosse stato un attacco, era decisamente più sensato che avvenisse a sud. Tuttavia era il caso di valutare bene la situazione, se davvero si fossero decisi a compiere una qualche azione proprio lì, non voleva certo rischiare di fare qualche errore. Esaminando le carte sparse sul tavolo, notò come in alcuni punti del fronte, ad esempio al Passo di Zagradan, la seconda e terza linea fossero talmente vicine fra loro da formare quasi un unico complesso, dunque, un bombardamento nemico ben fatto avrebbe potuto aprire dei varchi in entrambe in una sola volta e dopo quei presidi. . . non vi erano altre barriere. Accigliato, decise di affrontare quelle criticità più avanti, assieme al Generale Capello, di certo la cosa non doveva essergli sfuggita. Scorse sull'elenco i nomi dei nuovi sottotenenti: la battaglia della Bainsizza aveva falcidiato molti ufficiali inferiori, costringendo il comando a numerose promozioni fra gli elementi della truppa distintisi sul campo. Questa risoluzione non era per nulla rassicurante, il coraggio non poteva sempre supplire alla mancanza di preparazione al comando, figuriamoci alla "personale interpretazione" della disciplina. Si era fatta richiesta di far giungere al fronte quantomeno dei giovani aspiranti ufficiali, a quanto ne sapeva, sarebbero dovuti arrivare entro qualche giorno al massimo. Come non bastasse, i soldati, che pure fino a quel momento si erano comportati
Krauss, il Generale a capo del I Corpo austroungarico, in piedi a lato di un tavolo su cui era stesa un'ingombrante pianta topografica dell1sonzo, istruiva i suoi uomini sul piano d'attacco. «Sapete cosa fare» intimò, concludendo il suo discorso «le truppe alpine migliori, 3a Edelweiss e 55a Divisione K.u.K., attaccheranno gli avamposti sulle dorsali montane, mentre gli altri avanzeranno sul fondovalle, qui e qui» disse premendo il dito sulla carta «fino ad occupare la stretta di Saga». I Generali presenti rimasero in silenzio, un po' sconcertati. Il piano di Krauss contraddiceva tutti i fondamenti tattici: invece di conquistare prima le cime e poi le valli, così da avere un sicuro controllo di tutta la situazione dall'alto, proteggendo dalle pos12ioni sopraelevate l'avanzamento dell'esercito, ebbene, ci si intrufolava dal basso. Krauss, lesse sui loro volti quanto non osavano dire e proseguì: «Lo so cosa state pensando,· ma non dobbiamo conquistare molto terreno, ci basta far capire agli italiani che non renderemo loro la vita semplice ancora per un bel po'. Quindi li faremo arretrare, ma per farlo occorre prenderli di sorpresa. Mentre ci aspettano con il grosso delle truppe sulle cime, noi attaccheremo e avanzeremo in valle, sotto di loro, per prenderli infine alle spalle. Non avranno nemmeno il tempo di capire cosa accade. Se questo piano spiazza voi, spiazzerà anche loro».
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NELLA CONCA DEL NAKLO
aga, in sloveno Zaga, è un piccolo paesino del comune di Plezzo. Circa un chilometro e mezzo a monte dell'Isonzo, proprio in direzione del capoluogo, la vallata si restringe molto: questo luogo, in tempo di guerra, era chiamato la "Stretta di Saga". La seconda linea italiana che si distendeva in quel punto, "linea di difesa ad oltranza", si presentava allora come una delle migliori, dotata di ottimi appigli tattici forniti dalle impervie montagne che la sovrastavano. Tutto l'intorno era denso di trincee, appostamenti per mitragliatrici e reticolati preparati con cura dal IV Corpo di Armata in ben due anni di presidio. Il motivo era l'importanza cruciale di quel passo che apriva la porta alle truppe avversarie per calare sulla pedemontana friulana oltre che, seguendo l1sonzo, su Caporetto. Nonostante in un primo momento non credessero al reale pericolo di un imminente attacco austro-germanico in quel punto, i Comandi italiani decisero di rinforzare ulteriormente la difesa della Stretta di Saga, facendo arrivare uomini ed armi in gran numero. La sera del 23 ottobre 1917, stavano giungendo le ultime truppe e batterie ivi assegnate, quando, qualche chilometro più avanti.1 ebbe inizio l'offensiva concepita da Krauss.
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alloncello del Naklo, 24 ottobre ore 02:00 (Illustrazione 1 e 2 a p. 26 e p. 27) Sono le due del mattino quando un paio di soldati tedeschi innescano il dispositivo che attiva gli 894 proiettori gaswerfer, i terribili tubi lancia proiettili a gas, un ufficiale spara un razzo di segnalazione per consentire ai propri uomini, pronti all'attacco, di vedere per un istante le barriere avversarie che avrebbero dovuto superare di lì a poco nel buio . L'aria si riempie di migliaia di sibili seguiti da esplosioni sorde, mentre si sparge nel buio un terribile odore di fie no marcio che i soldati italiani in prima linea percepiscono con consapevole orrore. Il segnale martellante di latta battuta conferma il pericolo, è gas mortale. Gli italiani schierati in difesa indossano immediatamente le maschere e rimangono in attesa per ben quattro ore e mezza, sotto la pioggia di migliaia di proiettili di gas asfis~iante, prima che inizi il tuonare dell'artiglieria nemica che segna il passo della seconda fase dell'offensiva. Fortunatamente, la nuvola tossica sembra essersi dispersa in parte, il vento l'ha allontanata e quando_ le truppe d'assalto nemiche si lanciano all'attacco, s'infrangono in buona parte contro la resistenza pronta della prima linea. I furiosi combattimenti vedono lo sfondamento della linea italiana tenuta dall'37a Fanteria Brigata Friuli: i soldati della 22a Divisione Schutzen, armati delle terribili mitragliatrici leggere, riescono a passare ma soltanto a prezzo di molte perdite, inflitte dai reparti avversari che li respingono con ogni mezzo. Tuttavia, nel fondovalle, il gas ha mietuto le sue vittime anche in prima linea: due battaglioni dell'87a vengono annientati, le truppe nemiche possono contare su una breccia di almeno un chilometro. In aiuto alla Friuli giungerà anche una compagnia del Battaglione alpini del Ceva: di 230 alpini, solo 20 riusciranno
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Soldati tedeschi innescano il dispositivo dei proiettori
gaswerfer, un ufficiale spara un razzo di segnalazione a ritirarsi. Nel marasma dell'attacco, si percepisce l'assenza di parte dello schieramento italiano: il II Battaglione ed alcune compagnie del V Battaglione, dislocati tra Plezzo e l1sonzo, acquartierati nel valloncello di Naklo, rimangono in silenzio. Quando le truppe austro-ungariche conquistano il piano e giungono al piano ribassato del valloncello, rimangono essi stessi impressionati dalla vista delle truppe italiane di rincalzo, nelle retrovie per il turno di riposo. La morte fetida li ha colti nella fissità del momento del sonno, della partita a carte o dell'ultimo giro di corvée. Immobili nelle loro attività, come manichini esanimi, asfissiati in pochi istanti, giacciono accanto alle mute bestie che li hanno seguiti nel crudele destino. L'immane nube t ossica non aveva dato tempo ai soldati ancora desti di porre mano agli allarmi anti-gas: la realtà dell'attacco si era palesata troppo tardi per alcuni, affatto per altri. I pochi superstiti, privi di forze, vengono fatti prigionieri dagli Schutzen austriaci, soltanto una piccola parte riesce a ritirare verso ovest . Il massacro, i cui numeri sono ancora discussi, vide la mort e di centinaia di fanti.
5rONDAMENTO "MIRA<:OL050"
CONTESTO STORICO l piano di von Below, prevedeva una serie di attacchi compresi nella zona tra Plezzo e Tolmino, la maggior parte di essi avevano il solo compito di tenere seriamente occupate le truppe italiane su di un tratto di fronte molto ampio, così da disperderne le forze in tanti combattimenti. I numerosi attacchi avrebbero dunque impedito all'Alto Comando italiano di riuscire a concentrare le truppe nel punto in cui era previsto il vero sfondamento, ovvero a sud, nei pressi di Tolmino. Tuttavia, il Generale Krauss, che con le sue truppe austriache attaccava a nord nei pressi di Plezzo, aveva tutta l'intenzione di avanzare arditamente molto più di quanto von Below avesse preventivato. Nondimeno, l'impegno maggiore rimaneva riservato all'ala sinistra dell'esercito attaccante, formata per lo più dalle migliori fra le divisioni tedesche, che avrebbe dovuto aprire un varco nella difesa italiana a Tolmino per poi avanzare in profondità verso Cividale ed infine al Tagliamento. Al centro dello schieramento austro-tedesco, vi era invece la 12a Divisione slesiana, proveniva dal fronte francese e, degli orrori di quella guerra, non le era stato risparmiato davvero niente. Von Below mai avrebbe affidato alle truppe slesiane un compito diverso da quello di semplice fiancheggiamento delle eccellenti truppe dell'ala sinistra, nelle quali riponeva tutta la sua fiducia per il successo dell'offensiva. Ma i piani dell'Alto Comando austro-tedesco, come spesso avviene in guerra, dovettero fare i conti con una realtà inattesa. Mentre le divisioni tedesche dell'ala sinistra avanzavano con fatica di qualche chilometro combattendo contro le truppe di Badoglio, la 12a slesiana riuscì ad attuare l'azione più incredibile di sfondamento, al centro dello schieramento austro-germanico, proprio nel fondovalle dell'Isonzo, dove nessuno se lo aspettava.
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Quando il Generale Montuori, qualche giorno prima, aveva dato l'ordine di spostare la linea di contatto fra i due corpi d'armata italiani che si toccavano all'alt ezza di Gabrje, a nord-ovest di Tolmino, non immaginava di certo il danno che ne sarebbe conseguito. Nel momento in cui la 12à slesiana iniziò la sua offensiva, si trovò di fronte ad una zona pressoché sguarnita di soldati italiani, giacché la gran parte erano impegnati a spostarsi sul fronte per occupare le nuove posizioni assegnate, rivelando una grave discontinuità nello schieramento italiano; Fu così che i soldati slesiani poterono infiltrarsi in quel preciso punto delle linee difensive con relativa facilità e con loro stesso stupore. Dovettero preoccuparsi soltanto di annientare le poche resistenze che incontravano lungo la valle dell'Isonzo, già in parte represse dal preciso e violento bombardamento che aveva preceduto la loro marcia verso il paese di Luico ed il monte Matajur, obiettivi che avevano l'ordine di conquistare al di là del fiume. La situazione era drammatica per gli italiani, la superiorità numerica e tecnologica delle truppe avversarie era quasi schiacciante. Alle nuove mitragliatrici leggere si aggiunse l'azione coordinata delle
artiglierie tedesche che, dalle postazioni nei pressi di Tolmino, colpirono con un tiro di precisione le linee italiane, la loro azione era infatti richiesta e ben indirizzata dagli stessi comandanti della 12a slesiana, grazie a linee telefoniche stese simultaneamente alla loro avanzata. Se le truppe in attacco poterono contare su collegamenti telefonici costanti con le artiglierie ed i loro comandi, per contro, il violento bombardamento che aveva interessato le postazioni italiane aveva danneggiato irrimediabilmente i loro mezzi di comunicazione, tagliando fuori le truppe dai loro comandi e le artiglierie da ogni possibilità di coordinamento. Fu così che le truppe italiane, colte di sorpresa ·durante il loro avvicendamento sul fronte, si trovarono all'improvviso ad osteggiare le schiere nemiche, di molto superiori per numero e potenza di fuoco, mentre già marciavano compatte sulle rive dell1sonzo, alle loro spalle. Le artiglierie italiane, anch'esse troppo avanzate per avere un tiro utile e comunque nell'impossibilità di avere ordini ed indicazioni di tiro per il fuori uso delle comunicazioni, caddero presto in mano all'avversario. Da quel momento, il ripiegamento divenne l'unica contromossa possibile.
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amno, 24 ottobre ore 12:30 (Illustrazione 3 nella pagina all'interno)
Ora, saldo alla sua mitragliatrice, egli tiene testa all'attacco nemico che miete tutti i suoi compagni all'intorno. Non sbaglia un colpo ma sa che questo non gli varrà come lasciapassare per il ritorno a casa, dalla moglie in dolce attesa. Gli italiani resistono combattendo quanto più possibile mentre alcuni di loro tentano di ripiegare sulla via che conduce a Caporetto. Piscicelli, vedendo il massacro, si alza disperatamente in piedi da dietro la barricata di fortuna, deciso a morire sì, ma colpendo quanti più uomini possibile grazie alla visuale finalmente libera. Spara all'impazzata fino a che non viene colpito a morte. Vittima delle nuove armi portatili, Piscicelli cade riverso a terra gridando "Viva L1talia". Accanto alla via di salvezza, sulla quale poterono riparare alcuni dei suoi uomini grazie al suo sacrificio, una grande lapide di marmo, da poco inaugurata, ricorda il grande tributo di sangue versato dalla Brigata Emilia proprio in quei luoghi, appena un anno prima.
Le truppe del 23° e del 63° fanteria slesiano marciano compatte rispettivamente sulla riva destra e sinistra dell1sonzo in direzione di Luico e Caporetto, dietro le spalle delle prime linee dell'Esercito Italiano, complice la nebbia che ne cela l'avanzata. Le uniche resistenze le incontrano principalmente alla loro destra, dove le truppe italiane, aggirate e bloccate fra i due schieramenti nemici, tentano di ostacolare la loro marcia ed al contempo di ripiegare, precedendo gli avversari in direzione di Luico ed il Matajur. Alle 10.30, non appena il paesino di Kamno inizia a profilarsi sotto le pendici del monte Spika, il 63° incontra l'ultimo reparto italiano di fondovalle, un battaglione del 147° Reggimento fanteria Caltanissetta, che blocca la via verso Caporetto. TI comandante tedesco ordina all'artiglieria un violento bombardamento davanti a sé, che si protrae per mezz'ora sulla linea italiana che tuttavia resiste. n comandante decide allora di inviare alcune delle sue mitragliatrici a tenere testa a quel gruppo di combattenti mentre il resto del 63° continua a marciare verso i propri obiettivi. Fra i soldati italiani, vi è l'ufficiale Maurizio de Vito Piscicelli, un tenente colonnello not o per la mira eccezionale non meno che per le sue imprese in Libia, dove aveva meritato la prima Medaglia d'argento, mentre la seconda era arrivata appena un anno prima in quella medesima guerra.
Quel che accadde dopo Krauss, nelle sue memorie, non esiterà a chiamare il successo della 12a slesiana e dell'intera offensiva il "miracolo di Caporetto", confermando implicitamente la parziale natura fortuita dello sfondamento. Subito dopo il cedimento del fronte a Caporetto, verranno riportate cifre spaventevoli di "sbandati" ovvero disoldatiche "mollaronoilfucilee fuggirono", più che ritirarsi. In realtà, molti, classificati come tali, erano invece semplicemente soldati portaordini, addetti ai servizi, alla logistica, ecc ... necessari sul fronte in gran numero nelle retrovie, ma ovviamente non pronti con l'arma in pugno, giacché non era il loro compito combattere. Questi soldati, unitamente agli artiglieri direttamente interessati dallo sfondamento, furono i primi a ritirarsi ed i carabinieri che avevano l'onere di catturare i fuggiaschi, testimoniarono in seguito che molti uomini fermati come "sbandati" in realtà appartenevano alle categorie di cui sopra, per questo furono lasciati andare. La gran parte dei soldati in prima linea sul fronte fra Plezzo e Tolmino, nel momento in cui fu sotto attacco, combatté e morì ove gli venne richiesto, ripiegò soltanto sotto l'ordine di un superiore, quando ormai era chiaro che non aveva più senso fare altrimenti.
Maurizio de Vito Piscicelli cade riverso a terra gridando "Viva [Italia"
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CONTESTO STORICO
'attacco austro-tedesco venne sferrato contemporaneamente sull'intero tratto di fronte compreso tra Plezzo e Tolmino. Ovunque ci si trovasse, il tuonare dei cannoni austriaci contro le linee italiane riempiva l'aria di un crepitare sordo ed intenso in lontananza, forte e terribile all'intorno. In mezzo al sonoro martellare dell'artiglieria, vi furono degli scoppi poderosi, dei boati tremendi che vennero percepiti, in tutta la loro tragica differente realtà, soltanto da coloro che ne caddero vittima. Si trattava dell'esplosione di alcune mine che fecero saltare rovinosamente in aria parte delle trincee italiane. Una di queste, fu innescata sul Monte Rosso, situato quasi al centro dello schieramento italiano tra Plezzo e Tolmino, dove ebbe luogo lo scontro tra r80° Fanteria austropolacco ed il 223° Reggimento Brigata Etna .
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onte Rosso, 24 ottobre, ore 07:30 (fllustrazione 4 a p. 33) Alle 7 del mattino riuscire a vedere qualcosa olt re il parapetto del trincerone italiano è un'impresa. Il t empo uggioso e la nebbia offuscano la luce del sole che inizia solo ora a divenire poco più intensa, la neve rallenta i movimenti ed ovatta i suoni, ma non la voce imperiosa dei cannoni austriaci che faticano a colpire la roccaforte a 2163 metri di altezza. L'artiglieria cessa il suo tuonare all'improvviso, come da manuale, mentre dentro le trincee gli it aliani attendono l'assalto dei fanti austriaci che si scatenerà a momenti. Passano i minuti e ancora nessuna avvisaglia, il che risulta un po' strano. La cima del Monte Rosso, sebbene molto alta, t ermina con una sorta di pianoro a cui stanno avvinte le due trincee, italiana ed austriaca, a circa 50 metri l'una dall'altra. Non si dovrebbe aspettare davvero molto prima di vederli arrivare, sono lì, a due passi, che aspettano? Eppure non si
ode altro che il silenzio. Gli italiani della Brigata Etna si guardano interrogativamente, mentre
d'un tratto ... un boato. Massi enormi si alzano dalla terra di nessuno e vengono scaraventati in aria, i corpi dei soldati dell'Etna sono scagliati lontano o polverizzati. L'esplosione avviene proprio accanto alla prima linea italiana ma l'onda d'urto ed i detriti coinvolgono anche una parte dello schieramento austriaco. I due soldati che hanno innescato l'ordigno, celati in una caverna, rimangono essi stessi annichiliti dall'imponente deflagrazione. Non avevano idea di quello che sarebbe realmente accaduto, i calcoli dei minatori austriaci si erano rivelati esatti, ma bastava qualche metro in più di errore ed a saltare in aria sarebbero stati proprio loro. La voragine aperta dalla mina fa intravvedere le interiora rocciose del monte fino a quel momento celate dalla neve, nella fossa i resti di una camera di scoppio lasciano intuire come l'ordigno sia stato posizionato scavando silenziosamente una galleria sotto la postazione italiana per colmarla infine di esplosivo. La breccia nello schieramento avversario è stata aperta, ora l'attacco austriaco può avere inizio.
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Due soldati austro-ungarici, dall'interno cli una caverna, fanno deflagrare la mina
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QLI ALl7INI Del KOM1'0N
CONTESTO STORICO entre la 12a slesiana, al centro dello schieramento austrotedesco fra Plezzo e Tolmino, risaliva le rive dell'Isonzo per poi andare alla conquista dell'abitato di Luico e del monte Matajur, le truppe dell'estrema ala destra comandate da Krauss, si lanciavano alla conquista delle postazioni italiane sul massiccio del Rombon, a nord di Inezi o. Nevicava abbondantemente mentre il 59° Fanteria Rainer austro-ungarico andava all'attacco delle truppe italiane che tenevano saldamente la cresta del Cukla, la cima più vicina alle postazioni austriache arroccate sulla vetta Rombon, da cui prende nome tutto il massiccio. Nel frattempo, · gli Schtitzen del 26° Reggimento austriaco tentavano a valle di conquistare le postazioni di Pluzne, ad ovest di Plezzo. La conquista dei due presidi avevano in realtà il medesimo obiettivo, owero arrivare a prendere possesso dell'intero massiccio del Monte Canin, a cui pure Rombon appartiene. Mentre il 59° Rainer tentava di arrivare al suo obiettivo, passando per colletta Cukla, il 26° Schtitzen, con la conquista di Pluzne, tentava di tagliare i rifornimenti alle truppe italiane, per costringerle alla resa. Infatti, proprio da Pluzne partiva la mulattiera che collegava Plezzo al Cukla, owero la principale via per il transito di viveri e munizioni.
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ukla, 24 ottobre ore 12:00 (Illustrazione 5 a p. 37)
Quel che accadde dopo
Questa mattina il sole si percepisce appena, pallido, dietro quella che non si capisce se sia nebbia o nuvolaglia, a 1700 mt di altezza. La neve è sconvolta da ore di · furiosi combattimenti, il suo manto è macchiato di sangue ed ombre scure supine, senza vita. n terribile bombardamento dell'artiglieria austriaca cessa improvvisamente, dopo aver sconvolto le trincee presidiate dagli alpini del gruppo Rombon. Tutti sanno cosa significhi, gli italiani che stavano accucciati a terra sperando di venire risparmiati dal cannoneggiamento , ora si rialzano e riposizionano al meglio le loro armi sul parapetto sconnesso. La cima del Rombon, bianca di neve, li sovrasta magnifica e silente. D'un tratto, l'offensiva del valoroso 59° Rainer riprende, non ci si può credere! Attaccano in salita, inerpicandosi disperatamente sulla china che li separa dalle trincee italiane, avanzando in massa a gruppi sparsi, il loro coraggio non lascia indifferenti gli italiani. Le mitragliatrici, tuttavia, non esitano a fare fuoco, gli austriaci cadono sotto le raffiche, a ondate, come canne piegate dal vento. Dietro di loro ne giungono altri e altri ancora. Eppure essi sono consapevoli di non avere praticamente speranze, le postazioni italiane hanno il netto vantaggio di essere sopraelevate, difficili da raggiungere persino camminando, figuriamoci di corsa e con il fucile in pugno. Esplodono gli ultimi tiri di artiglieria, forse italiani, forse austriaci, cosicché rischiano di essere colpiti i due schieramenti allo stesso momento. Un flammiere aust ro-ungarico si fa largo con il suo terribile lanciafiamme, aprendo la strada ai suoi. Gli italiani fat icano non poco a fermare quell'orda di uomini che si scaglia sulle loro linee, tuttavia riescono a tenere testa ai reiterati assalti. Le perdite da ambo le parti sono gravissime.
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Ore 18:30, agli alpini stremati del Rombon, arriva un ordine terribile: bisogna lasciare le postazioni così strenuamente difese. Gli alpini del Ceva, che tenevano testa agli attacchi del 26° Schi.itzen giù a Pluzne, sono stati sopraffatti mentre nel fondovalle gli italiani hanno perso Plezzo e stanno sgombrando la Stretta di Saga, pur non ancora raggiunta. È necessario, per le truppe del Rombon, ritirarsi al più presto: l'imbocco alla via dei rifornimenti che parte da Pluzne per il Cukla, è in mano nemica. Prima che lo schieramento austriaco abbia il tempo di agire ulteriormente, occorre cercare di ripiegare dietro le nuove postazioni italiane, verso Sella Prevala. Inizia una marcia disperata in cresta, sotto la tormenta di neve alcuni soldati esausti rimangono indietro, si perdono, si accasciano, alcuni cadono nei crepacci. La retroguardia, rimasta sul Cukla a coprire le spalle al ripiegamento, cade prigioniera. Gli austriaci, accortisi dello sfilamento delle truppe sull'unico sentiero che porta a Sella Prevala, decidono di attaccare parte delle truppe sul costone del Vratni. La colonna in marcia si arresta ed iniziano nuovi scontri. Riescono finalmente a ripiegare, sono quasi giunti a Sella Prevala ed ecco arrivare la loro salvezza: alcune aliquote di fanti del 134 ° Benevento, inviate dal Colonnello Cavarzerani sono giunte in supporto! I fanti si schierano insieme agli alpini a difesa delle nuove postazioni italiane di Sella Prevala e della mulattiera che li ha condotti fin lì, consentendo il ripiegamento di molte truppe alpine che avevano difeso le postazioni del Rombon fino a quel momento. Le truppe di Cavarzerani concorreranno con gli alpini a condurre valorose azioni di retroguardia, senza subire sconfitta, riuscendo infine a ripiegare da Sella Prevala e Sella Nevea il 27 ottobre. Cavarzerani per quest'impresa verrà insignito della Croce dell'Ordine Militare di Savoia e del titolo di Conte di Nevea.
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ROMMEL ALLA CONQ\.115
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a 12a slesiana, vinte le ultime resistenze sulla riva sinistra dell'Isonzo, riuscì ad attraversare il fiume e, nel primo pomeriggio del 25 ottobre, occupò il caseggiato di Luico, il suo primo obiettivo. È quest'ultimo un paese situato su una erbosa propaggine che si lega al complesso montuoso del Matajur, chiamata appunto "sella di Luico". Sulle medesime pendici, più ad ovest, vi è l'abitato di Potava. Da Luico partiva una camionabile che era la principale via di rifornimento per le truppe sulla cima del Matajur, ossia il caposaldo italiano che costituiva il secondo grande obiettivo dell'avanzata austro-tedesca. Va da sé che bloccare quella strada avrebbe obbligato alla ritirata i soldati che presidiavano il Matajur, inoltre, avrebbe privato tutti gli italiani schierati in quella zona di un'importante via di ripiegamento. Mentre la 12a slesiana, il 24 ottobre si avviava verso la conquista di Luico,
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poco più a sud, parte dell'Alpenkorps tedesco ,era intenta ad affrontare le pendici del complesso montuoso del Kolovrat. Questa barriera naturale, composta da una lunga catena di cime e rilievi fra loro variamente collegati, rappresentava per l'esercito italiano uno dei punti di difesa chiave contro l'esercito austro-ungarico già dai tempi della Repubblica di Venezia. All'ufficiale che avrebbe conquistato le postazioni italiane ivi distribuite, il comando austro-ungarico promise l'alta onorificenza "Pour le merite" che fu conferita al sottotenente Schèimer che, con la sua unità, conquistò le postazioni sul Podklabuc. L'Esercito Italiano tentò invano di riconquistare le posizioni perdute con numerosi contrattacchi,
ma senza successo. Fra le truppe che si distinsero nella conquista di queste postazioni, vi furono
due compagnie dell'Alpenkorps tedesche più una compagnia di mitragliatrici guidate dal giovane Tenente Rommel, appena ventiseienne. Queste ultime partirono la mattina del 24 ottobre dalle pendici dél Bucenica, non appena concluso il bombardamento delle artiglierie austriache sulle linee italiane. Investirono Costa Raunza parallelamente al corso dell'Isonzo, salirono sul Monte Piatto e, vincendo ogni resistenza sul loro cammino, aggirarono da sud il monte Kuk per piegare ad ovest verso Palava. Qui ingaggiarono battaglia sulla camionabile già ingombra di truppe italiane in ripiegamento, passarono dunque per Luico, già conquistata dalla 12a
slesiana, prima di iniziare l'ascesa al complesso montuoso del Matajur, di cui conquistarono la cima il 26 ottobre.
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amionabile Luico-Polava, 25 ottobre ore 14:00
decisamente in superiorità numerica rispetto alle dotazioni italiane. I bersaglieri combattono e cadono fino all'ultimo uomo, soltanto per permettere ai compagni di riparare più all'interno ed organizzare una migliore difesa. È il primo pomeriggio del 25 ottobre quando il 20° bersaglieri, proveniente da Luico, dopo aver percorso la tortuosa camionabile aggrappata a mezza costa alle estreme pendici del complesso del Matajur, giunge nei pressi di Polava (sinistra dell'immagine). Gli italiani non sanno che, nascosti fra i fitti arbusti, gli uomini di Rommel stanno tendendo loro un agguato. I tedeschi e le loro mitragliatrici avevano trovato il modo di infiltrarsi alle spalle delle linee difensive italiane, arroccate sulle vette del complesso del Kolovrat, ed ora sono riusciti ad aggirare anche i soldati che stanno ripiegando da Luico. Li attendono per coglierli alle spalle, dove meno se lo aspettano. Non appena la colonna comincia a transitare sotto di loro, ad un cenno di Rommel, le truppe tedesche iniziano
(fllustrazione 6 all'interno della pagina seguente) Presso Ltlico (a destra dell'immagine) si è appena concluso l'intenso bombardamento dell'artiglieria austro-tedesca, quando la 12a slesiana si lancia nuovamente all'assalto, mentre da alcune postazioni del Kolovrat le truppe dell'Alpenko,ps aprono un fuoco micidiale sul fianco sud degli italiani. Davanti al caseggiato, gli arditi del N Reparto d'assalto, provenienti dai bersaglieri ciclisti, stanno disperatamente combattendo in retroguardia al ripiegamento delle truppe del 14 ° e del 20° Reggimento bersaglieri che già stanno percorrendo la strada che conduce verso Polava ed oltre. I cadaveri dei soldati italiani giacciono numerosi a terra, vittime delle bombe ma anche delle molte mitragliatrici in mano agli slesiani,
Gli arditi del IV reparto davanti al caseggiato di Luico combattono la 12• Slesiana
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Lo sbarramento di Rommel sulla camionabile nei pressi di Polava
Quel che accadde dopo
a sparare all'impazzata sul convoglio di mezzi ed uomini in movimento: raffiche di proiettili ed una pioggia di bombe a mano colpiscono in ogni dove, mentre i bersaglieri tentano di ripararsi dietro i carri ed il muretto che fa da argine al ripido pendio. Alcuni soldati staccano i pochi cavalli dai gioghi, lasciando i carri in mezzo alla strada, balzano in sella e tentano di allontanarsi per portare notizia ai comandi dell'imboscata e chiedere rinfo rzi, ma è t utto inutile. I bersaglieri rimasti t entano svariati assalti per infrangere il blocco tedesco, ma alla fine, i pochi sopravvissuti cadono prigionieri.
Cadoma tent ò di far arrivare sul fronte le riserve dislocate a sud, dove aveva ritenuto più probabile lo sfondamento, ma il loro arrivo fu tardivo ed il loro impiego azzardato. I rincalzi furono lanciati subito nel pieno dei combattimenti, non appena giunti sul posto, sovente del tutto impreparati sull'andamento del territorio che andavano a difendere e con scarsa dot azione di mitragliatrici e munizioni. Nondimeno queste truppe combatterono con alt o spirito di sacrificio, tentando il tutto per tutto nell'intento di bloccare l'avanzata austro-tedesca (Battaglia di Cividale).
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• I principali luoghi menzionati nel testo • La collocazione e l'orientamento delle tavole grafiche che accompagnano il racconto
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CONTESTO STORICO
rano già trascorsi 4 giorni dallo sfondamento del fronte fra Plezzo e Tolmino, le rive dell'Isonzo oramai dovevano considerarsi perdute, così come i monti attigui. Durante la notte t ra il 26 ed il 27 ottobre, Cadoma aveva dato disposizione ai suoi per un ripiegamento generale che doveva attuarsi in due fasi: fermare l'avanzata aust ro-ungarica sul Tagliamento e, se fosse stato necessario, dirigersi infine verso il Piave, considerata la migliore linea di contenimento in caso di conflitto con gli stati centrali fin dal 1882. L'esercito austro-tedesco stava avanzando sempre più nell'entroterra friulano, mentre l'Esercito italiano, che lo precedeva di poco, cercava di riparare dietro le nuove linee di resistenza, con difficoltà estreme sia per le marce estenuanti che dovevano superare in velocità quelle avversarie, sia per l'urgenza di approntare immediatamente delle trincee non appena arrivati, nelle posizioni indicate dagli alti comandi. Mentre il grosso del Regio Esercito riparava in questo modo dietro il Tagliamento ed in seguito dietro il Piave, poco più indietro, altre compagini di soldati - chiamate da altre zone del fronte non intaccate dallo sfondamento - scavavano buche, posizionavano le mitragliatrici ed attendevano infine le truppe nemiche ehe stavano arrivando, al solo scopo di rallentarne la
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marcia. Niente barriere di filo spinato, niente trappole o buche a frenare l'assalto dei nemici, avrebbero/ dovuto affrontare una carica di una forza soprannumeraria di uomini in corsa e armati di mitragliatici leggere, potendo contare più sul proprio coraggio che sulle armi, consci più che mai che da quegli scontri difficilmente sarebbero usciti vivi. Cadorna nel frattempo cercava di organizzare delle difese . migliori dietro il Tagliamento, facendo approntare trincee e sfruttando vecchie fortificazioni, sperando che la nuova linea di fuoco e la barriera naturale del fiume fossero sufficienti ad arrestare per un po' l'avanzata degli austrotedeschi, tanto da permettere una migliore riorganizzazione del proprio Esercito. Gli austriaci, da parte loro, non avevano nei piani di proseguire oltre, non si erano neppure preoccupati di portare gli equipaggiamenti da ponte necessari a superare le acque del Tagliamento, giacché lo stesso Alto Comando tedesco aveva previsto come limite massimo di sfondamento le rive di quel fiume. Le medesime
truppe germaniche non riuscivano nemmeno a superare in velocità quanto rimaneva dei soldati della 2a Armata italiana interessata dallo sfondamento, nonostante questi ultimi fossero spossati ed in grave difficoltà per la ritirata. Questo avvenne perché l'Alto Comando t edesco, a differenza di Krauss, non aveva riposto grandi speranze nell'impresa di riuscire a superare gli sbarramenti italiani con un attacco lanciato "nel fondovalle", ancora meno confidava che questa avrebbe aperto le porte alla conquista di ampi territori. Ora che l'improbabile impresa era andata a buon fine, l'esercito austro-germanico si trovava sprovvisto di truppe celeri, ciclisti o cavalleria che fossero, tali da poter guadagnare il terreno davanti a loro in velocità. Alle truppe tedesche, non rimaneva che tallonare l'esercito italiano in ripiegamento, tentando invano di superarlo e bloccarlo con azioni di accerchiamento. Fu questo l'errore che permise all'Esercito Italiano di uscire dall'impasse e di rovesciare le sorti della guerra.
---------------- ---•---- --1917 onte Cuzzer, 27 ottobre, ore 21:00 (fllustrazione 7 a p. 45) Il buio si è già mangiat o ogni cosa da qualche ora, le nubi coprono la luna mentre la pioggia non fa che intirizzire i soldati esausti e coperti di terra che avevano passato il pomeriggio a scavare la grossa buca in cui ora stanno riparati, tesi e nervosi. I giovani mitraglieri della 1203• compagnia mitragliatrici Fiat, aggregati al Battaglione alpini Pinerolo, cercano di posizionarsi come meglio possono a ridosso del ciglio della buca, preparando le cassette di munizioni accanto alla mitragliatrice, puntata verso la nera valle che si stende invisibile sotto di loro. Le orecchie sono tese alla minima avvisaglia che annunci l'arrivo dei nemici. Il tempo peggiora ed i lampi di un furioso temporale squarciano il cielo, illuminando a tratti l'erboso pendio sotto la buca, il Rio Barman al centro della valle ed il profilo familiaré del monte Canin all'orizzonte. Un portaordini striscia a t erra fino alla buca dei mitraglieri e allunga un foglio zuppo all'aspirante ufficiale Ardito Desio. L'ordine è di combattere fino all'ultimo uomo. Desio non si scompone, è entrato in guerra da volontario e non ha nessuna intenzione di deludere la sua Nazione proprio ora. Nei giorni precedenti aveva visto morire o cadere prigionieri t utti gli uomini del Nucleo Minelli di cui faceva parte, chiamato dal turno di riposo per coprire la ritirata all'Esercito, solo la sua formazione era riuscit a a salvarsi. Quella sera sarebbe toccato a loro. Ancora un tuono e poi uno squarcio apre di nuovo il cielo, illuminando la valle. Par di scorgere dei movimenti, laggiù in fondo: «attaccano!» comunica a mezza voce un mitragliere, mentre cerca di mirare davanti a sé nel buio. Si sentono allora le prime raffiche di mitragliatrice che paiono avvicinarsi e arrancare con i soldati che salgono correndo verso di loro. La mitragliatrice italiana è puntata nel buio
Ardito Desio riceve il messaggio dal portaordini
verso quelle sventagliate, un lampo nel cielo li illumina di nuovo, finalmente, tante macchie nere che si spargono sul versante erboso che precede la buca ... la Fiat Revelli scarica tutti i suoi colpi sugli assaltatori che in parte cadono colpiti, in parte corrono ancora. Sono troppi.
Quel che accadde dopo Le truppe italiane schierate in Val Resia resistettero fino al 28 ottobre sulle proprie posizioni, quindi si ritirarono, combatterono verso Resiutta, giungensero infine al Tagliamento, e, nel novembre rimasero accerchiati durante la battaglia di Pradis di Clauzzetto. In quest'area Desio ed i suoi caddero prigionieri. Desio approfittò della det enzione per imparare il tedesco. A fine guerra si laureò in scienze naturali, divenendo in seguito uno dei più importanti geologi ed esploratori italiani. La prima ascesa della storia al K2 fu pianificata da lui e rimase fra le imprese più celebri legate al suo nome. Fu anche molto discussa, in parte proprio in ragione dell'impostazione rigida e militare che diede alla missione, giacché organizzò i partecipanti alla conquista della vetta come aveva fatto con i suoi alpini in guerra.
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C.AKIC.ATI
CONTESTO STORICO l 29 ottobre alle 3.30 del mattino, il comandante del VI Corpo d'Armata, generale Lombardi, ordinò al Gen. Filippini, comandante della 1a Divisione di Cavalleria di schierare i propri uomini presso Pasian Schiavonesco e Pozzuolo del Friuli, allo scopo di coprire il fianco alla za Armata in ritirata, nonché per dare il tempo alla 3a Armata di olt repassare i ponti a sud del Tagliamento. Il giorno seguente i Dragoni di Genova, comandati dal Col. Bellotti, ed i Lancieri di Novara, comandati dal Col. Campari, si schierarono a protezione della cittadina di Pozzuolo che assieme agli altri piccoli centri abitati all'intorno ,costituiva una piccola linea difensiva dell'Esercito Italiano che, ben lungi dall'essere bastevole a contenere l'invasione, era tuttavia utile a rallentare l'avanzata nemica sulla direttrice volta ai ponti di Madrisio e di Latisana. Le truppe di cavalleria poste a retroguardia, avevano dunque il compito di tenere occupati gli austro-tedeschi almeno fino alle 18 del giorno dopo, concedendo al resto dell'Esercito Italiano il tempo necessario a ripiegare oltre il fiume ed organizzare un più congruo sbarramento difensivo. La
questa divisione si trattava infatti della prima battaglia. Da est stava arrivando invece la 60a Divisione austro-ungarica, costituita da truppe bosniache, considerate tra i migliori combattenti dell'Imperiale Regio Esercito. Le truppe germaniche si stavano preparando a circondare il paese, mettendo un presidio presso ogni possibile accesso e via di fuga. Prima che l'accerchiamento venisse portato a termine, i Lancieri di Novara ebbero l'ordine di far uscire dal caseggiato uno squadrone a cavallo e di attaccare le truppe austro-tedesche che bloccavano le strade. A condurre l'azione fu il giovane Capitano Giannino Sezanne, un bolognese di appena 28 anni, che con i suoi uomini uscì dal paese, diretto in aperta campagna, per poi cogliere alle spalle le truppe nemiche appostate appena fuori dal caseggiato. I lancieri riuscirono a mettere in fuga le pattuglie che incontrarono allo scoperto, ma le mitragliatrici causarono loro non poche perdite. Sezanne venne ferito.
notte successiva, transitò da Pozzuolo l'ultima retroguardia della zaArmata, ossia i bersaglieri / della divisione al comando del Generale Boriani, che lasciò in rinforzo duecento uomini ed un paio di mitragliatrici. Vennero dunque piazzate le mitragliatrici ai piani alti delle case, raccolti nei cortili un migliaio di cavalli, erette le barricate lungo le numerose strade di accesso al paese ed infine inviate pattuglie di cavalieri in continua perlustrazione, per identificare le località che il nemico andava rapidamente occupando a nord ed a est. L'attacco era imminente. Le truppe austriache e tedesche arrivavano da diverse zone del fronte isontino: buona parte proveniva dalla famosa ala sinistra dello schieramento austro-tedesco che attaccò a sud, nei pressi di Tolmino. Fra queste truppe, era particolarmente temibile la 117a Divisione slesiana che non aveva direttamente partecipato all'attacco, ma era stata invece inviata dopo lo sfondamento a guadagnare terreno con la rapida avanzata dei suoi uomini non ancora provati dai combattimenti: per
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al centro del paese. Il Col. Bellotti corre dai Lancieri di Novara: serve un'altra carica che spazzi via le truppe che stanno attaccando sulla via di Sammardecchia. Sezanne non ci pensa due volte, si met te alla guida del suo squadrone e si lancia nuovamente all'attacco delle t ruppe bosniache, incurante della ferita. Nei giorni a seguire, il sottotenente Eberhard della 117a Divisione slesiana, narrerà quei fatti così: "Scalpitio di cavalli, galoppo, cavalleria. É questione di secondi. Arrivano a spron battuto. Quello in test a dev'essere un ufficiale! Le redini infilate nel braccio, nella destra la sciabola nella sinistra la pistola, egli grida: «Viva l'italia, viva il Re!». Un capo brillant e! Lo vedo ancora saltare
ozzuolo del Friuli, 30 ottobre, ore 15:00
(Illustrazione 8 a p. 50) La pioggia battente non da tregua. Le truppe italiane, asserragliate nel cent ro abitato di Pozzuolo, tengono valorosamente testa ai reiterati tentativi di assalto da parte degli austrotedeschi. Finiscono le cartucce in dotazione, mitragliat rici e fucili sono costretti al silenzio mentre i bosniaci intuiscono il fatto e si lanciano in un attacco da est. Inizia un furioso corpo a corpo per cercare di impedire alle truppe avversarie di penetrare
Il giovane Capitano Giannino Sezanne si lancia all'attacco contro le mitragliatrici avversarie
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Il centro abitato di Pozzuolo e la via verso Sammardecchia da cui parti la carica di cavalleria
Pochi minuti dopo - avevamo avanzato appena di cento metri - ecco una seconda carica di cavalleria che termina in modo anche più drammatico. I nostri uomini l'attendono in piedi, facendo fuoco con due mitragliatrici. Intanto la compagnia avanza in direzione della piazza del mercato, di barricata in barricata. Da tutte le case si spara. Prendiamo d'assalto quattordici barricate. Mi affretto a fare ritorno al posto di comando, per riferire al mio superiore. A circa cento metri da esso trovo l'ufficiale italiano che aveva fatto la prima balenante carica: era immoto presso il suo cavallo grigio, morto. n suo contegno mi aveva colpito. Mi faceva veramente pena: un giovane bell'uomo di appena vent'anni!".
una mitragliatrice, attraverso la barricata. A cinque o dieci metri dietro di lui seguono circa dieci cavalieri. Io grido agli uomini a me vicini: «Fuoco! Fuoco!». Tutti sono sbalorditi! Babel estrae la pistola, il colpo non parte. Un colpo di lancia ci sfiora. Un altro lanciere colpisce di lancia il caporale Rossel che -riceve anche una sciabolata sulla testa. Finalmente il primo colpo di fucile. Ora spara anche il secondo dei due uomini. I cavalieri si curvano sulle selle, fanno dietro front, cadono, gridano. La mitragliatrice che era stata saltata dall'ufficiale italiano è nuovamente in azione. Knappik la solleva, e tenendola imbracciata come un fucile, spara da solo. Ra-ta-ta! La bella cavalleria è distrutta.
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CONTESTO STORICO
a 12a Divisione slesiana, la stessa che il 24 ottobre dal centro dello schieramento austro-tedesco aveva superato le linee difensive italiane dirigendosi verso Caporetto e Luico, infiltrandosi alle spalle delle truppe avversarie, ecco, quella medesima divisione aveva in seguito proseguito la sua avanzata nella pianura friulana per giungere infine, il primo novembre, presso le rive del Tagliamento. Già il 27 ottobre, von Below aveva impartito alla sua 14a Armata austro-germanica l'ordine di "conquistare i ponti sul Tagliamento, prima che il nemico li distrugga" ed ora quelli che la 12a slesiana aveva davanti erano i primi che la compagine austro-tedesca avesse raggiunto. La conquista dei ponti era l'unica possibilità che l'esercito imperiale aveva di oltrepassare le acque tumultuose del fiume, che in quel momento era in piena. Agli slesiani giunti nel pressi del grande corso
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d'acqua, si era unita la 503 Divisione di fanteria K.u.K. nonché l'artiglieria e un reggimento della 13a Divisione Schiitzen. Poco più a nord, per prendere il ponte di Comino, operava la 55a Divisione austro-ungarica del Principe Felix Schwarzenberg. Mentre il grosso dell'Esercito italiano riparava dietro il Tagliamento per poi proseguire infine verso il Piave, Cadorna, come aveva già fatto in precedenza, faceva arrivare, dalle retrovie non interessate dall'urto dello sfondamento di Caporetto, delle truppe che mantenessero ancora efficienza e combattività tali da poter ingaggiare degli scontri di retroguardia con le divisioni di punta dell'esercito austrotedesco, che stavano arrivando nei pressi del grande fiume friulano. Occorreva rallentare più possibile la loro avanzata, altrimenti non ci sarebbe stato il tempo di organizzare al Piave
una difesa adatta a fermarle definitivamente. Sapeva che le truppe più avanzate dello schieramento nemico stavano giungendo all'altezza del medio Tagliamento, nei pressi di Monte Ragogna che sovrastava il ponte di Pinzano. Chiamò quindi a difesa di quei luoghi le divisioni 20a e 33a della 3a Armata comandate dal Generale Antonino Di Giorgio, uno dei migliori comandant i al seguito di Cadorna. Già il 26 ottobre le due divisioni tentarono di arrivare sul posto ma, a causa della congestione dei trasporti ferroviari, il 29 riuscì ad arrivare soltanto parte della 33a Divisione. Giunsero dunque la Brigata Bologna, destinata ad arrestare l'arrivo dei nemici da Monte Ragogna, quattro battaglioni della Brigata Barletta, un reggimento della Brigata Lario e l'intera Brigata Lombardia destinati alla linea di massima resistenza, il tutto sulla riva destra del fiume. Quanto ad artiglieria, le due brigate potevano contare soltanto sull'appoggio di poche batterie di piccolo e medio calibro appostate sulle alture al di là del Tagliamento, per altro con scarsa dotazione di munizioni, mentre le trincee di cui disponevano sulla medesima riva erano appena abbozzate. Nel frattempo, per impedire l'attraversamento del fiume alle truppe austrotedesche, i ponti sul fiume venivano tutti minati, così da poterli far saltare in aria non appena gli ultimi soldati italiani li avessero oltrepassati, chiudendo la ritirata. Il ponte di Pinzano non faceva eccezione, anch'esso venne minato mentre la Brigata Bologna stava per affrontare le prime truppe avversarie giunte sul posto, coprendo l'attraversamento del ponte da parte degli ultimi raggruppamenti della 2a Armata. All'alba del 1 novembre, dopo un furioso bombardamento preventivo, la 12a Divisione slesiana, armata delle micidiali mitragliatrici leggere, e la soa austro-ungarica sferrano l'attacco decisivo verso le postazioni italiane di monte Ragogna.
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ressi del Ponte di Pinzano, 1 novembre, ore 11:25
(Illustrazione 9 all'interno di questa pagina) Sotto
attacco, la Brigata Bologna combatte con ogni mezzo gli assalti delle truppe tedesche: furiosi corpo a corpo riescono a bloccare l'avanzata avversaria a 300 metri dal ponte ma la situazione è ormai disperata. All'intorno piovono le bombe dell'artiglieria italiana che spara dall'altra riva in direzione dell'assalto, colpendo entrambe le fazioni. Drappelli di truppe germaniche, armate di piccoli cannoncini e Minenwerfer (lanciamine) mirano alternativamente ai soldati italiani davanti a loro oppure all'altra sponda, nell'intento di danneggiare il sistema di accensione delle cariche di mina che i gruppi di minatori hanno posizionato per far saltare il viadotto. L'imminente pericolo che il ponte di Pinzano cada intatto nelle mani degli slesiani obbliga il Generale Carlo Sanna, comandante della 33a Divisione, a dare il via alla demolizione dell'arcata occidéntale del ponte, prima che la Brigata Bolog,na abbia il tempo di attraversarlo, riparando sulla riva dest ra del fiume. L'ordine che gli uomini della Bologna avevano ricevuto prima della deflagrazione era di combattere fino all'ultimo uomo ed a quest'ordine tengono fede. Con piena visione e consapevolezza del sacrificio imposto e della lotta impari, la Brigata Bologna ed alcune aliquot e della Brigata Barletta non si arrendono e rendono onore fino all'estremo al compito loro affidato. Dall'altra parte del ponte di Pinzano, sfilano gli ultimi soldati della retroguardia in mezzo ai carri del corteo disperato dei profughi, che qualche ora prima aveva affollato le strade che conducevano al viadotto, così riporta un testimone di quei fatti: "migliaia e migliaia di veicoli di ogni genere e di ogni forma, cannoni di ogni calibro, trattrici, macchine, buoi dispersi, morti distesi attraverso la strada. I fossi ai lati erano pieni di vetture rovesciate e di cavalli ancora attaccati che si contorcevano inutilmente
La Brigata Bologna combatte sulla riva sinistra del Tagliamento
e disperatamente [... ]. I veicoli giungevano gli uni sugli altri, tentavano di sorpassarsi, si urtavano, si scontravano, si rovesciavano, sbarravano la strada sì che più non passavano nemmeno gli uomini [... ]. Appena si faceva un breve vuoto, dieci veicoli vi si precipitavano in velocità per sorpassare i pigri carri dei buoi e le carrette traballanti dei profughi e tutti si incastravano nel vano e non riuscivano più a proseguire. [... ] S'era fatta una gran ressa tumultuosa alla testata del ponte, ove vedevo pochi uomini tentare inutilmente di trattenere quei folli. Tutti volevano passare, tutti spingevano, tutti urlavano, tutti a gomitat e cercavano di guadagnare t erreno. Erano frammisti uomini e donne, soldati e borghesi in una sola mandria irrequieta ed urlante". Quel che accadde dopo Sul campo vennero raccolt i nei giorni successivi allo scontro circa 400 cadaveri, soltanto 600 uomini su 5.500 dell'intera brigata riuscirono a mettersi in salvo al di qua del Tagliamento, a tutti gli altri, catturati nei combattimenti dal 30 ottobre al 1 novembre, spettarono i campi di concentrament o degli imperi centrali. Prima di confinarli, il generale von Below volle rendere loro l'onore delle armi, per il valore e lo spirito di sacrificio dimostrato in battaglia. Già nel pomeriggio del 1 ° novembre, fu imbastita una cerimonia castrense a San Daniele del Friuli per i prigionieri della Bologna.
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aporetto, fin da subito, suscitò negli italiani due diversi tipi di reazione: lo scoramento, in tutte le sue declinazioni che possiamo immaginare, e quello che oggi chiameremmo "l'ottimismo della resilienza", arrivando fino all'esaltazione vera e propria. Se la prima declinazione apparve, e appare tuttora, giustificabile e naturale, la seconda ci lascia perplessi oggi come allora. Eppure, fra le due, fu determinante la seconda ed ancora ci si interroga su come ciò avvenne. Come fu possibile che una sconfitta così sofferta sia riuscita a portare all'istante i soldati da un sentimento di estremo sconforto alla determinazione a vincere? Come poterono i vinti di Caporetto, colpiti e decimati dallo sfondamento, riparare sfiniti sul Grappa e trasformarsi, istantaneamente, nei fieri vincitori della battaglia che riuscì ad arrestare l'avanzata nemica? Come vi riuscirono senza trincee, con armi ancor inferiori per numero ed efficienza, dopo una corsa disperata, dopo aver visto morire migliaia di commilitoni ed aver lasciato in mano al nemico così tanta parte del suolo patrio? Adolfo Omodeo, un professore in uniforme che riuscì a portare in salvo la sua batteria dopo lo sfondamento di Caporetto, qualche tempo dopo confessò a Giovanni Gentile il sentimento di vergogna ed il senso di impotenza provati.
L'interventista e futurista Marinetti, di quella sconfitta fece una malattia. Moltissimi ufficiali ne rimasero tanto sconvolti da non essere in grado di parlarne fra loro e nemmeno con i loro soldati. Alcuni comandanti coinvolti - fra tutti il comandante della 19a Divisione che aveva perduto lo Jeza ed il senatore interventista Franchetti si suicidarono, altri ne ebbero il pensiero, fra questi persino il ministro Leonida Bissolati. Fra i membri del governo, Francesco Nitti fu turbato dalla cattura del primogenito, Benedetto Croce disse che gli "pareva d'impazzire", Gaetano Salvemini si dichiarava ancora incapace di pensare e scrivere ad un mese dalla ritirata... Eppure, sebbene possiamo immaginare che fra i soldati al fronte i pensieri fossero analoghi se non peggiori, sul Grappa e sul Piave, l'Esercito resisteva. "Le colpe si espiano in piedi e combattendo" scriveva Croce, che quanto alla colpa alludeva non tanto alla sconfitta in sé, quanto alla rimarchevole conseguenza di aver perduto parte del territorio italiano. Fu proprio quetta perdita a dare la spinta agli italiani, soldati in trincea o politici che fossero, a reagire, combattere e resistere: non si t rattava più della conquista di territori dai nomi stranieri difficili persino da pronunciare, ma al contrario di difendere la propria terra ed il proprio onore di italiani! Fin da subito, nel pieno della crisi, si rilevò una reazione in positivo t ra gli effetti di quella grave sconfitta, quantomeno nel modo di affrontarla. Ora l'Italia non era più
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così divisa sul proseguire o non proseguire il conflitto, ma si univa al dolore delle centinaia di migliaia di profughi friulani e veneti, per poi trovarsi finalmente solidale anche con i soldati, che ora combattevano per riscattare quelle terre a cui non si poteva davvero rinunciare. E questa nuova realtà, questo appoggio unitario alla loro missione, finì con il rincuorare e motivare anche gli uomini in trincea. I politici con Diaz ebbero modo di mettere in atto una serie di misure per migliorare le condizioni dei combattenti, tramite l'ufficio di Propaganda, denominato Servizio P. Questa istituzione arrivò ad occuparsi non solo di tutte le esigenze del soldato ma anche a tutelarne economicamente la famiglia in sua assenza ed in caso di morte del capo famiglia. "C'è voluto Caporetto per capire che bisogna farsi capire. C'è voluto Caporetto perché ci si occupasse davvero, con la propaganda, che vale uno, con l'assistenza, che vale dieci, e con l'amore, che vale cento, del nostro popolo. Ed esso ci ha compensato con quella cosa enorme che è la vittoria" sostenne Prezzolini a fine guerra. Ma tutto questo fu molto dopo Caporetto, dopo il successo della Battaglia d'arresto ... e dunque, cosa mosse i soldati a resistere fin da subito? Cosa spinse il soldato a reagire alla sconfitta dopo esser giunti sulla linea Grappa Piave, immediatamente dopo il trauma della ritirata? Curzio Malaparte si espresse così al riguardo: "[il soldato] da sé e da solo ... riprese la sua coscienza morale ed il suo valore, istantaneamente, alla prova immediata di una sanguinosa e lunga battaglia". Quel che è. certo è che i soldati che erano arrivati a riparare oltre il Piave, erano fortemente intenzionati a combattere. Del resto, chi fra di essi non aveva sperato di far altro che dileguarsi o arrendersi, nel marasma della ritirata lo aveva già fatto o per lo meno ne aveva avuto la possibilità. Inoltre ormai era noto che le condizioni nei campi di prigionia all'estero non erano meno letali delle trincee: uno su sei moriva per la debilitazione indotta dalla farne, costituendo di fatto il più valido disincentivo alla diserzione. A questo si aggiungeva l'azione sanzionatoria dello Stato anche verso le famiglie del disertore,
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costrette a condividere l'infamia della viltà dell'uomo. A incidere fu anche il tipo di combattimento stesso che passò da offensivo a difensivo, di certo il secondo è certamente più istintivo e spontaneo nell'uomo prima ancora che nel soldato, ancor più se ad essere difesa è la propria terra. A questo si aggiunse una maggiore autonomia concessa ~ Diaz alle unità minori: invece di condurre le truppe punto per punto all'obiettivo, il Comando Supremo si riservava ora soltanto di definire quest'ultimo, sulle modalità di conseguimento si dava invece libertà decisionale alle divisioni ed alle aliquote minori, che potevano valutare sul campo le migliori opportunità. Questa nuova formula, oltre ad essere più oculata sotto il profilo tattico, faceva sentire anche le piccole unità sul fronte degne di fiducia, direttamente coinvolte nell'azione singola e collettiva, protagoniste dell'impresa e dell'eventuale successo. Soldati e ufficiali combattevano ora molto più uniti e solidali, in un clima di esaltazione per noi difficilmente immaginabile senza le test imonianze dell'epoca. Ecco come descrisse il morale degli italiani Armando Lodolini durante la Battaglia del Solstizio, in pieno attacco austriaco sulle rive del Piave, appena otto mesi dopo la grande ritirata: "Capisco allora perché gli austriaci non passeranno, malgrado la baldoria, la confusione, il frammischiarnento di cento reparti: perché dunque ci sono italiani fieramente decisi a ridere ed a morire. Non ho mai visto tanta allegria... Ecco l'anima collettiva che trasforma la folla vile in un quadrato di prodi. Ufficiali e soldati ci diamo a raccogliere fucili e bombe sparsi per ogni canto e a distribuirli: ognuno vuol aver per primo un'arma qualunque, come i bambini intorno ad un tavolo di doni. Cinque, dieci, trenta arditi intonano l'Inno di Mameli (non ancora inno d'Italia, ndr.)... Mi par di sognare. Mi prende un accesso di allegria, come me tutti ridono. Così arrivano le avanguardie austriache: pare che siano un migliaio di uomini. Non ho mai visto un ardore di battaglia come quello che c'invade tutti. .. !". Nonostante la storiografia abbia indagato e scritto molto sull'argomento,
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cercando di comprendere l'animo degli italiani e dei soldati nel terribile frangente della Guerra, nonché le variegate declinazioni di sentimenti e di emozioni che diedero vita ad inaspettate risoluzioni e propositi, le risposte risult ano sempre, quantomeno, poco soddisfacenti. Ad interrogarsi sulle ragioni dell'efficienza dell'esercito vi è an che Giorgio Rochat che forse fornisce la risposta che più si avvicina al vero: nonostante vi fosse un margine di diffuso dissenso per la brutalità della guerra in quanto tale, "la realtà dominante era l'obbedienza ed il consenso dei soldati [ ... ] nessuno potrà mai spiegare in termini esaustivi perché costoro abbiano affrontato gli orrori della trincea e la morte. La ricerca storica può arrivare
fino ad un certo punto, oltre rimane solo il rispetto per questi uomini ed il loro sacrificio". Tuttavia, come rileva Fortunato Minniti: "politici e milit ari, poeti e musicisti, studenti e _ professori ... si dettero corpo e anima a rinforzare, militarmente alcuni, moralmente altri, la cima del Grappa e l'argine destro del Piave, tr~scinando con sé buona parte di coloro che avevano minore o nessuna consapevolezza della situazione e del significato che la resistenza assumeva in quel momento militare e politico. Soltanto per questa concentrazione di volontà e di sforzi tesi a sfruttare positivamente un evento demolitore, la madre di tutte le sconfitte ebbe poi per figlia la vittoria".
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DALLA STKAiEXf7EDITION AC.Af70KETTO: KITIKATE 171~ O MENO iAMOSE ... MA NON DISFATTE!
La Grande Guerra fu piena di "ritirate" attuate da tutti gli eserciti belligeranti, alcune addirittura "famose", come l'epilogo della "Strafexpedition" austriaca, dileggiata a lungo dai soldati italiani che trovarono un nuovo significato al verbo "strafare" con cui scherzare sul fronte. In effetti, nel 1916, la cosiddetta "Strafexpedition" vale a dire "spedizione punitiva", progettata ben prima dell'inizio della Grande Guerra dal nemico storico dell'Italia Gen. Conrad, veniva finalmente messa in atto lanciando all'attacco un quantitativo davvero imponente di armi ed uomini - potremmo dire "esagerato" in relazione alle forze schierate dall'avversario - pur di riuscire ad infliggere al vecchio alleato italico una sconfitta, ossia una . "punizione" memorabile. Per poco Conrad non vi riuscì, il Regio Esercito faticò nel tentativo di arginare quell'attacco che, fortunatamente, si esaurì con un parziale ritorno sui propri passi degli austro-ungarici. Il ripiegamento dell'esercito
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imperiale fu determinato in quel caso non solo dalla caparbietà della risposta italiana, ma ancor più dalla posizione sfavorevole raggiunta, troppo avanzata e dunque poco rifornibile, che non consentiva all'esercito attaccante di "tenere" le nuove posizioni, compromettendo di fatto l'integrità del fronte. Fu così che quell'azione degli austriaci sembrò agli italiani proprio un voler "strafare", un lanciarsi in un'impresa troppo grande, tanto da risultare ingestibile. Ecco che i soldati iniziarono a scherzare sul significato di "strafare" , alternando al significato italiano il significato tedesco di punire ("strafe") usato nell'accezione di "punire senza costrutto" oppure giocando con altri significati più o meno negativi, tendenti all'esagerazione: "con questo bello scherzo, i cartoni impermeabili della tettoia sono andati in malora, bisognerà andarli [i soldati responsabili] a strafare [a punire] ... In guardia! Altrimenti ti strafano
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uesto racconto non vuole soffermarsi su ogni singolo avvenimento accaduto nell'ultimo anno di guerra, giacché l'obiettivo non è una rappresentazione completa ed esaustiva dei fatti , quanto piuttosto promuovere ad una riflessione su due macroeventi, ossia la più grande sconfitta e la più famosa vittoria italiana nella Grande Guerra. È come guardare due medaglie che mostrano facce diverse a seconda di come le si guardi: Caporetto è la maggior sconfitta italiana ed al contempo la più grande vittoria austro-tedesca su questo fronte, per contro, Vittorio Veneto è la più importante vittoria italiana ma anche la più terribile sconfitta austriaca. Se non fosse che la seconda battaglia fu definitiva e sentenziò la fine della guerra, le due medaglie apparirebbero assai simili: guardando i due eventi dalla parte dei vinti osserveremo come in entrambi gli schieramenti subentrò una crisi tattica e militare unita ad una morale e politica ancor più grave. Furono gli esiti ad essere differenti. Nel primo caso (nella sconfitta italiana a Caporetto) si ebbe una ritrovata coesione in virtù di un riconoscimento unanime dell'identità nazionale, nel secondo caso (nella sconfitta austriaca a Vittorio Veneto) si ebbe una disgregazione dell'Impero, dovuta alla ribellione dei popoli appartenenti che non
riuscirono più a riconoscersi nell'unitarietà di quei confini. In entrambi i casi, la crisi, morale nel primo e identitaria nel secondo, precedette quella militare, contribuendo in modo assai diverso (e controverso) ad innescarla. Accostare questi due avvenimenti, osservare entrambi i lati di ciascuna "medaglia", cercare di vedere con gli occhi di ciascun schieramento, aiuta a comprendere meglio quanto avvenne. Ciò nonostante, non possiamo passare direttamente dal racconto degli accadimenti di Caporetto alla narrazione dei fatti di Vittorio Veneto senza nemmeno fare un cenno a quanto intercorse fra questi due eventi, ovvero durante le due battaglie del Piave. Infatti, queste ultime, meglio contraddistinte come Battaglia d'Arresto e Battaglia del Solstizio, per una fazione crearono le condizioni della vittoria, per l'altra costituirono i prodromi della sconfitta. Cercheremo dunque di raccontare ciò che accadde dai primi di novembre del 1917 a fine giugno del 1918, attraverso le voci di alcuni fra i principali protagonisti, proponendoci di rendere la portata complessiva ed essenziale di queste due battaglie e dei retroscena interni a ciascuna fazione, in relazione a quanto è l'oggetto ed il fine di questa narrazione, evitando la menzione di tutti i singoli scontri che ciascun lettore può facilmente reperire ed approfondire da sé. Alla fine di questo piccolo racconto nel racconto, incontreremo due protagonisti d'eccezione, ossia una spia ed un eccentrico letterato: Tandura e d'Annunzio ci condurranno in volo direttamente alla battaglia di Vittorio Veneto.
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NEL MENTRE DELLA 1'ATTAQLIA DIAKKE5TO
stessa Italia lo voleva colpevole di tutto. Con i Generali aveva tentato di stimolare i soldati alla rivalsa, con un proclama che condannasse la resa ed il tradimento, voleva che questo fosse un pungolo tale da far ritrovare la voglia di riscossa alle sue truppe. Ma quell'arma gli si era rivoltata contro, completamente travisata nelle intenzioni. "Cadorna accusa i soldati della sconfitta, si prenda invece le sue responsabilità!" avevano tuonato i suoi avversari, a nulla erano valse le obiezioni sulla buona fede di quegli ufficiali che con lui si erano trovati d'accordo per quel proclama. Sedette al tavolo del comando un'ultima volta, mentre la luce del sole iniziava appena a filtrare da dietro le tende ancora accostate. "Ordine del giorno, 7 novembre 1917" scrisse. Il giorno precedent e, a Rapallo, gli alleati avevano chiesto la sua sostituzione, dubitava molto che qualcuno potesse convincerli altrimenti quell'oggi, nel prosieguo della riunione. Il suo avvicendamento era il prezzo richiesto per le undici divisioni francesi e britanniche che sarebbero giunte in aiuto sul fronte italiano. Scrisse le ultime parole al suo esercito, sperando che questa volta ne cogliessero la reale volontà di fondo. Si appellò a quella Strafexpedition che t anto era sembrata una vittoria nella sconfitta: "Già una volta sul fronte trentino, l'Italia fu salvata dai difensori eroici che tennero alto il suo nome in faccia al mondo ed al nemico. Abbiano quelli di oggi l'auste:ra coscienza del grave e glorioso compito a loro affidato, sappia ogni comandante, sappia ogni soldato qual è questo sacro dovere: lottare, vincere, non retrocedere di un passo", scrisse. I suoi soldati ora dovevano difendere la linea Grappa-Piave e combattere una partita che non aveva uguali con la precedente: "Noi siamo inflessibilmente decisi: sulle nuove
DAL PUNTO DI VISTA DI...
adorna, quindici giorni prima dell'attacco di Caporetto, si era trovato ad ispezionare i lavori di fortificazione che i suoi uomini stavano effettuando a Cima Grappa, valutando l'efficienza delle strutture difensive nel caso in cui un possibile attacco a tenaglia avesse coinvolto anche il settore trentino, insieme a quello dell'Isonzo. Appurato che non sembravano esservi avvisaglie di un nuovo immiµente attacco in quel settore, parimenti sentenziò: «Il Grappa deve essere imprendibile, poiché, quod Deus avertat, dovesse avvenire qualche disgrazia sull'Isonzo, io qui verrò a piantarmi». Era passato meno di un mese e quella disgrazia era divenuta reale, mentre proprio il Grappa diveniva il centro focale del nuovo schieramento. Già ai tempi della Strafexpedition aveva t emuto un simile evento, tanto da aver ordinato i lavori per un possibile arretramento sulla linea GrappaTreviso-mare, facendo scandalizzare Salandra che minacciò di sostituirlo, qualora una simile ipotesi si fosse avverata. Anche per questo, ora era chiaro che il suo incarico sarebbe volto al termine. Era riuscito miracolosamente nell'impresa di far ripiegare le sue truppe dietro la linea Grappa-Piave, ora si stavano di nuovo schierando ed erano pronte a combattere, la guerra non era ancora perduta, ne era più che convinto. Tuttavia, era adirato con l'It alia dei neutralisti, che aveva minato il suo esercito con propaganda disfattista.. . ed ora, quella
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gli aveva finalmente permesso di costituire un Comitato di Guerra che potesse regolare le spese e dirigere l'azione polit ica di guerra nella forma più efficiente. Cadorna aveva sempre respinto l'idea di un comitato simile, per non essere condizionato nelle sue decisioni, ma Diaz era stato più accomodante e lo aveva accettato. Per tutte quelle spese si sarebbe dovuto attingere all'ennesimo prestito nazionale, al razionamento o alle requisizioni delle materie prime . .. certamente delle misure non popolari, che avrebbero dovuto essere sostenute e giustificate da un'adeguata comunicazione, da delegare all'ufficio propaganda. S'illuminò. Ecco, anche quest'ultimo ufficio dev'essere ampliato! Si risollevò sulla sedia per scrivere un'ulteriore appunto su un lungo elenco che teneva lì accanto: "Ufficio P." scrisse, "aumentare l'assistenza ai soldati". Aggiunse un punto esclamativo. Era un provvedimento essenziale da discutere.
posizioni raggiunte, dal Piave allo Stelvio, si difende l'onore e la vita d'Italia". Se davvero l'Italia con le sue chiacchiere lo aveva tradito, ora si appellava al suo Esercito ancora una volta, affinché presso quell'ultimo baluardo la salvasse: "morire, non ripiegare!".
Nitti, ministro del Tesoro, si reggeva pensosamente la testa fra le mani mentre fissava con aria t ruce i fogli di un faldone tratto da un'enorme pila di documenti che, lì accanto, aspettavano il t urno di essere a loro volta esaminati. Da Caporetto in avanti, tutto era cambiato. Mentre sul Grappa e sul Piave si combatteva disperatamente per contenere l'avanzata degli austro-tedeschi, sul fronte diplomatico l'Imperatore austriaco Carlo tentava di mettere sul tavolo delle trattative un accordo con gli avversari britannici e francesi, appoggiato dalla Santa Sede. L'alleato tedesco Guglielmo non ne sapeva ancora nulla, altrimenti la sua reazione - non di certo entusiasta - sarebbe giunta fino a Roma. Gli esponenti italiani erano divisi, anche sull'ipotesi di accettare o meno un accordo che mettesse fine al conflitto, tuttavia, qualora gli austriaci avessero avanzato delle proposte appena accettabili, il governo ed il parlamento le avrebbero prese in seria considerazione, ne era certo. Sonnino, chiuso nella sua convinzione della bontà del Patto di Londra, stanco di difendere le sue posizioni, ormai non parlava quasi più con nessuno. Nel parlamento fremevano coloro che non intendevano arrendersi, circa 280 tra deputati e senatori si stavano mobilitando per costituire un Comitato per la Difesa Nazionale al fine di attuare delle misure che aumentassero il consenso verso l'impegno dei soldati. Accantonò il primo faldone e ne prese un altro. Otto miliardi di lire di materiali perduti nella ritirata, questa era più o meno la stima che gli era stata fatta. Avrebbe dovuto finanziare e promuovere la sostituzione di tutto quel materiale, senza contare la "normale" alimentazione dello sforzo bellico ancora in corso. Avrebbe dovuto parlare con Dall'Olio per questo. La sostituzione di Cadorna
Diaz guardava spazientito il giovane ufficiale che gli stava innanzi con fare incerto, mentre la sera sembrava essere giunta anche per quel fatidico 16 novembre. «Allora?» chiese. «Vogliono sapere se ci sono novità dal Grappa, cosa devo riferire?» il ragazzo rigido sull'attenti con lo sguardo "rivolto all'infinito" rispose esponendo i fatti brevemente ma con cura. Diaz sospirò. Erano passati pochi giorni da che aveva assunto il comando dell'Esercito al posto di Cadoma e già le truppe austrotedesche avevano sferrato l'attacco sull'intero fronte che dagli altipiani proseguiva sulla linea Grappa-Piave fino al mare. Quel giorno era stato particolarmente critico: sulle propaggini più adest del massiccio del Grappa, presso la stretta di Quero, si combatteva una battaglia accanita e cruenta per difendere l'accesso alle vie che conducevano alle alture di quel complesso montuoso nonché alla roccaforte di cima Grappa. Gli era giunta notizia che le t ruppe d'assalto tedesche stavano arrivando a dare man forte agli austro-ungarici che lì stavano già combattendo e questo non deponeva certo bene. Quel giorno se l'erano vista brutta anche gli alpini tra
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Monte Prassolan e Col del Prai, nella zona nordoccidentale del Massiccio, soltanto l'intervento dei bersaglieri del LX Battaglione e dei fanti della "Trapani" aveva evitato il peggio, ossia, essi avevano impedito la conquista del Pertica lì accanto, respingendo il terribile attacco degli Schiitzen austriaci. Il Duca d'Aosta e la sua 3a Armata erano invece alle prese con l'offensiva sul Piave, presso le località di Zenson e Fagaré, dopo aver respinto nei giorni precedenti l'attacco mosso dalle Grave di Papadopoli, ossia le insidiose isole di detriti in mezzo al Piave che ne facilitavano l'attraversamento. Come non bastasse, all'estremità sud dello schieramento, presso la foce del Piave, proprio quel giorno gli austro-ungarici avevano cercato di superare lo sbarramento italiano aggirando via mare la foce del fiume con un paio di corrazzate, al fine di sbarcare le truppe oltre le linee avversarie, per prenderle alle spalle ancora una volta. Grazie al cielo la Regia Marina era riuscita a tenerli a bada. Diaz, guardò stancamente il giovane ufficiale ancora immobile davanti a lui, in attesa. Aveva accettato di tenere informato il governo di ogni sua manovra, nonostante non ne avesse alcuna voglia. Ma doveva dare un segnale forte che lui non era Cadorna, che con lui si poteva ragionare, altrimenti non gli avrebbero permesso di rimanere al comando a lungo. Congedò il ragazzo e dettò all'addetto di turno un breve resoconto della giornata. La ritirata aveva condotto con sé anche qualche vantaggio: il nuovo fronte, attestato dietro il Piave, era più contratto rispetto alla linea dell'Isonzo, questo consentiva di presidiarlo con la medesima concentrazione di uomini fino allora impiegata, pur schierandone un minor numero complessivo. Ma se il fronte stava miracolosamente tenendo, questo era anche merito suo. Stava realizzando una bella rivoluzione nell'Esercito: forte dell'esperienza di Caporetto, aveva distribuito equamente le truppe nelle prime linee ed in profondità, cosicché nelle postazioni avanzate vi fossero unità bastevoli a contenere l'urto del primo attacco, mentre nelle postazioni più arretrate
le truppe potessero muoversi intervenendo massicciamente nei punti del fronte maggiormente minacciati. Inoltre, alle unità minori aveva lasciato una maggiore autonomia discrezionale sui movimenti dei propri uomini in ragione della tattica studiata sulla base della conformazione del territorio, delle condizioni atmosferiche e dello schieramento nemico, consentendo libertà di richiedere l'intervento a proprio sostegno dell'artiglieria. Aveva anche intenzione di aumentare il numero delle Armate riducendo il numero di uomini per ciascuna di essa, rendendole così più "snelle e agili" nei movimenti sul territorio, ma anche per quello occorreva più tempo. Decise che doveva concedersi qualche ~ ora di riposo, si sdraiò senza nemmeno svestire l'uniforme, sapeva che tanto non lo avrebbero lasciato tranquillo per molto. "Eppure, non è sufficiente", pensò guardando il soffitto. I suoi ufficiali ed i soldati avevano capito che la musica era cambiata, ma temeva per la loro tenuta morale, benché finora avessero dato prova di grande forza, digerendo l'accusa di Cadorna. Di allentare la morsa dei provvedimenti contro le defezioni non se ne parlava, semmai doveva convincerli a non disertare! Occorreva motivarli, non come soldati, ma come uomini. Entro pochi giorni avrebbe diramato il suo primo proclama, come da poco aveva fatto il Re, intendeva incitare i suoi uomini a difendere la terra, la casa, lafamiglia e l'onore. Solo la difesa di questi valori non li avrebbe fatti desistere.
Dall'Olio, generale nonché Ministro per le Armi e le Munizioni, si trovava a dover mettere una toppa ad una falla gigantesca. Il ripiegamento di Capo retto aveva fatto perdere un quantitativo esorbitante di pezzi d'artiglieria e munizioni. E quel che era peggio, una parte significativa di quelle armi e munizioni ora era pronta e carica in mano agli avversari, aumentando ancor più il dislivello fra la loro efficienza in attacco e le possibilità difensive dell'esercito italiano. Bisognava porre un rimedio all'istante, per questo aveva già parlato con Nitti che gli aveva garantito i fondi necessari. Il ministro del
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vecchio confine austro-ungarico, recuperare gli approvvigionament i da quei luoghi e portarli fino al nuovo fronte era un'impresa! E se il vettovagliamento era sempre scarso e difficile da far arrivare, figurarsi l'artiglieria. Tali difficoltà consentivano alla macchina dell'Esercito austroungarico di alimentare la lotta sul Grappa ma soltanto a costo della rinuncia di una vera offensiva in forze anche sul Piave. Le truppe non meno degli ufficiali inferiori, galvanizzate dalle recenti conquiste, si sentivano in qualche modo frenate e non supportate nell'ultima parte dell'offensiva - proprio ora che erano giunte sul Grappa e sul Piave! - ritenendosi abbandonate dall1mperatore Carlo I e dall'Alto Comando, che accusavano entrambi di incompetenza. Krauss era irritato per queste manifestazioni e riteneva che le forze politiche e l'Imperatore stesso non avessero compreso la gravità di questi fatti. A dimostrazione di questo vi era proprio l'inattività dell'impero nell'arginare il dissenso. I:Italia "fedifraga" si era mossa alla conquista di terre che non le spettavano, voleva tutto, da Trento a Trieste, dal Brennero alla Dalmazia. I:Austria-Ungheria avrebbe dovuto muovere una propaganda efficace, che inducesse i propri cittadini alla ferma volontà di far rispettare i propri diritti territoriali, difendendo con ogni mezzo i propri confini! Per contro, si trovava costretto, con sommo disappunto, ad ammirare la costanza con la quale la propaganda italiana martellava la propria nazione in senso inverso, ed i risultati si vedevano! Krauss non perdonava nemmeno all'alleato tedesco il comportamento tenuto quasi quattro anni prima, quando nell'agosto del 1914 non si era dichiaratamente_ messo contro l'Italia ma aveva cercato un accordo su Trento ... questo le aveva dato l'errata convinzione di averne in qualche modo diritto! E come perdonare l'attraversamento delle truppe tedesche in Belgio, chiedendo permesso? Un'onestà che rasentava la dabbenaggine! La Germania aveva pieno diritto di attraversare quelle terre! Krauss scosse la testa, tornare con il pensiero a quei fatti lo fece arrabbiare adesso come allora. Si tolse gli occhiali, li depose sulla
Tesoro aveva già chiesto aiuto agli Stati Uniti, che avevano da poco dichiarato guerra anche all'Austria-Ungheria, inoltre sarebbe ricorso al quinto grande prestito nazionale, nonostante le proteste delle Banche. Tuttavia, le materie prime di certo non abbondavano, quindi la crescita della produzione bellica sarebbe stata possibile soltanto entro i limiti del reperimento dei materiali. Le grandi industrie si erano impegnate ad aumentare la base produttiva di oltre trecento stabilimenti entro la fine di quell'anno, anche se non di elevata specializzazione giacché ci si trovava costretti ad assumere donne e ragazzi al posto di operai qualificati. Con queste misure il recupero del materiale perduto diventava possibile, sperando che la qualità dei prodotti migliorasse... alcuni generali si erano già lamentati dopo le prime consegne di pezzi d'artiglieria Ansaldo. Sembrava che avessero difetti e problemi di fabbricazione ... se invece di ammazzare il nemico, bombe e cannoni finivano con l'ammazzare i nostri, esplodendo in mano, non era un problema da poco! Ah, in guerra era sempre tutto maledettamente complicato.
Krauss, si trovava nel suo comando a Feltre. Era appena rientrato da una visita ai suoi Jiiger nel fondovalle tra Monte Tomba e Monfenera. I:indomani, il 25 novembre, avrebbero dovuto vedersela con la Brigata Re ed egli era andato sul campo proprio per discutere - poco gentilmente con un suo comandante di brigata sulle modalità di condurre quell'attacco. Che importava, da quanto aveva visto, quell'impresa difficilmente sarebbe andata a buon fine. I:enorme offensiva partita oramai un mese prima sotto tanti e promettenti buoni auspici, stava prendendo una brutta piega e per molte ragioni. Nonostante la conquista di tutto quel territorio italiano avesse fruttato un bel po' di viveri non meno che pezzi d'artiglieria e munizioni abbandonate dall'Esercito Italiano, a causa della ritirata e dall'incalzare delle sue truppe, ora tutte le riserve tornavano nuovamente a scarseggiare. Le reti ferroviarie adibite ai rifornimenti si fermavano al
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scrivania e si strofinò gli occhi, per poi lisciarsi la barba che in quei giorni si era fatta un po' troppo lunga. Gli erano giunte voci che gli austriaci, quando venivano catturati non si dichiaravano austriaci. Diamine! I francesi si dichiaravano francesi, gli italiani si affermavano italiani, i tedeschi sarebbero morti sulla loro origine ... gli austriaci no! Gli austriaci, dopo la cattura, si rifiutavano di essere schedati come austriaci, bensì si dichiaravano cechi, polacchi, tedeschi, croati, ungheresi e tutto il resto. Pareva che, non appena percepissero di non essere più sotto il controllo dei comandi della loro nazione, si trasformassero in persone diverse e non si crucciassero affatto di non poter più sacrificarsi nel difendere fAustria. E questo perché gli austriaci non erano in grado di immaginare la guerra come un viatico per ottenere una condizione migliore per loro, le loro famiglie ed il loro popolo in quella patria che era fAustria-Ungheria. Non vi era un traguardo di carattere nazionale che valesse la pena di raggiungere attraverso la guerra e con la guerra. Questa era la peggior mancanza degli esponenti politici del suo Paese, non essere riusciti a delineare un traguardo al di là della guerra per il loro popolo, anzi, per i cento popoli che potevano cogliere l'occasione della guerra, di un nemico comune e di un obiettivo comune, per sentirsi veramente uniti. Non così l1talia. Questo lo imbestialiva: la piccola Italia, ancor prima che con le armi, stava battendo la sua nazione su un campo nel quale lui non era in grado di combattere.
Sul finire del 1917
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"DIAVOLI K055I" ALLA CONQ\JI5TA Del TKc MONTI CONTESTO STORICO cosiddetti Tre Monti, ovvero Monte Val Bella, Col del Rosso e Col D'Echele, che dopo Caporetto erano entrati a far parte della linea di massima resistenza italiana, caddero uno dopo l'altro in mano nemica durante la cosiddetta "offensiva di Natale" (22-25 dicembre 1917). Ma ancora una volta gli italiani diedero prova di valore, riuscendo a fermare l'avanzata austro-tedesca. Tuttavia, le nuove posizioni non erano agevoli da difendere, la linea italiana si trovava infatti troppo sbilanciata all'indietro, prestando il fianco a nuovi e più decisi attacchi avversari. La riconquista dei Tre Monti si dimostrava così necessaria, non ultimo per ridare vigore all'animo dei soldati: dopo circa due mesi dalla ritirata, dopo aver dimostrato con enorme fatica di saper "vincere" in difensiva riuscendo a fermare gli avversari, era necessario tornare a vincere anche in offensiva, iniziando con il riprendere possesso delle posizioni più sicure dell'Altipiano dei Sette Comuni. In quel frangente, a riconquistare il terreno perduto, venne chiamata la pluridecorata Brigata Sassari (151 ° e 152° Reggimento fanteria), famosa per essere composta prevalentemente da irriducibili sardi, il cui valore in battaglia era ormai ben noto a tutti.
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alde occidentali di Col del Rosso, 31 gennaio, ore 01:30 (fllustrazione 1O a
afferrare la matita con la mano destra fasciata alla bell'e meglio su uno squarcio da scheggia di granata, niente da fare: a parte il dolore, con la manovra la ferita si stava riaprendo ed il sangue avrebbe di sicuro imbrattato il foglio, rendendo qualsiasi parola di conforto il più terribile dei messaggi, specie per una madre. Si risolve a scrivere con la sinistra. Il dolore pulsante alla gamba ed alla testa non gli danno tregua, eppure, gli esiti dell'ultimo scontro a fuoco, lungi dal fiaccarlo, sembrano ricaricare le sue energie per la prossima azione che intende assolutamente portare a termine alla guida dei suoi uomini. Per questa ragione, pur potendo ottenere il permesso di allontanarsi dal fronte a causa di quelle fastidiose ferite, ha deciso di rimanere a combattere anche l'indomani. Lancia uno sguardo fuori dal tugurio quando giunge la consueta sventagliata di "confetti" di medio calibro a scandire le ore ed a sconvolgere il terreno all'intorno, a cui seguono subito le
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Il Capitano Eugenio Niccolai, con una smorfia mal celata di dolore, siede sulla cassa di munizioni cercando una posizione comoda per scrivere, facendosi spazio in quella specie di grossa tana di volpe scavata nella parete della trincea, ingombra di oggetti di ogni sorta e fiocamente illuminata da una lampada dalla schermatura in carta. Ad osservarla bene, riflette, sembra una di quelle lanterne di sapore orientale che piacciono tanto alla madre. Ecco, appunto, deve necessariamente scriverle due righe per farla star tranquilla. Cerca di
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tirando sassi e contrattaccando alla baionetta al grido di "Avanti Sardegna!" e "Forza Paris!", sorprendendo e disorientando gli avversari. Ed ecco avvenire l'insperato: gli austriaci abbandonavano la loro posizione, ahhhh, quale vittoria! Col d'Echele, Col del Rosso e Monte Valbella erano ancora italiani! Ancora qualche ora ed Eugenio dovrà riprendere il comando del II Battaglione per andare a dare man forte agli arditi, che tenteranno di avanzare ancora su quelle alture. Vorrebbe scrivere tutto questo al padre, alla madre ... ma il tempo è poco, scrivere con la sinistra disagevole e lo spazio sulla cartolina troppo piccolo. "Carissimi -scrive- sono lontano da qualsiasi pericolo" sorride fra sé e sé, in fondo in quel preciso momento è quasi vero, sotterrato com'è in quel buco di rifugio a quell'ora di notte "Ho partecipato con entusiasmo ed onore alla grande azione. Saluti e Baci". La grafia è proprio terribile, pensa, chissà il cruccio della madre vedendola ed immaginando chissà quali sventure! Aggiunge: "Sto benissimo. Scriverò più a lungo. Eugenio." Sospira soddisfatto. Depone la cartolina nella sacca che passerà a prendere l'addetto al servizio postale e si corica cercando di riposare un poco. Dannazione!- impreca fra sé e sé- Le ferite dolgono meno quando si combatte che quando si dorme!
consuete imprecazioni in dialetto sardo da parte dei suoi soldati, che stavano tentando di riposare qualche ora. Sono proprio "Dimonios", "diavoli rossi", cocciuti, burberi, irriducibili e fratelli, così dannatamente orgogliosi d,ella terra da cui provengono da farne bandiera, accanto a quella d'Italia per cui combattono. Il loro è praticamente un senso di appartenenza regional-nazionale. Questo sentimento era apparso da subito chiaro ai Generali che avevano pensato bene di costituire una Brigata costituita in buona parte da sardi, perché si sa, non vi è niente di meglio che la coesione, la determinazione a vincere e lo spirito fraterno per rendere imbattibile una schiera di soldati. I suoi pensieri vengono interrotti dall'entrata di un suo parigrado, il Capitano Lussu, che come di consueto si accuccia a sua volta accanto alla lampada: "La vedo un po' malconcio mio caro Eugenio'' lo provoca con aria scherzosa "Non starà mica scrivendo il testamento!" Eugenio gli risponde a tono: "Badi bene Capitano, che domani non tocchi anche a lei farsi un po' male ... ". Lussu fa una smorfia, mettendosi a dormire. Eugenio inizia faticosamente a scrivere con la sinistra. Chissà che avrebbe pensato la madre alla vista di quella pessima grafia. Di questa guerra Niccolai aveva visto il peggio, come non ricordare la Bainsizza e poi Caporetto, quando dovette combattere in retroguardia per permettere ad altre unità di ripiegare! Pochi giorni prima aveva dovuto assumere all'improvviso il comando di un intero battaglione, giacché il Maggiore, che ne era a capo, era caduto gravemente ferito. Avevano appena fatto in tempo a conquistare Col d'Echele e Col del Rosso che l'artiglieria nemica si era scatenata sui suoi uomini, ovviamente con un tiro di precisione infallibile, giacché gli italiani stavano occupando delle posizioni che gli austro-tedeschi conoscevano fin troppo bene. Tagliati i rifornimenti di cibo e munizioni, erano rimasti in balia di un attacco nemico impossibile a sostenersi. Dovettero indietreggiare. Eppure i suoi "diavoli" non si lamentarono, né diedero il minimo cenno di sconforto nemmeno allora, anzi, non avendo munizioni, iniziarono a difendersi
Quel che accadde dopo Alle 06:30 del mattino i "sassarini" del II Battaglione del 151 ° Fanteria si lanciarono fuori dalle trincee alla conquista di nuove postazioni avversarie. Primo fra tutti, al comando dell'assalto, vi era Eugenio Niccolai, che con slancio incitava i suoi uomini. L'artiglieria austriaca riprese a fare fuoco sugli assalitori, tempestandoli di proietti. Niccolai cad~e colpito al cuore da una scheggia di granata. Il suo corpo giacque sul campo di battaglia tutto il giorno, giacché i continui bombardamenti non ne consentirono il recupero fino a notte fonda. Il giorno dopo la salma di Niccolai, caduto a soli 22 anni e mezzo, venne tumulata in un cimitero da campo. Il 29 Maggio 1919 gli venne concessa la Medaglia d'oro al valor militare alla memoria.
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L'INCKr:DIDILL CONQ\JI5TA DI COKNO D~TTI5TI CONTESTO STORICO sservando il mass1cc10 del Pasubio, è possibile distinguervi una guglia di rocce verticali che sovrasta i boschi della Vallarsa non troppo lontano da Rovereto. Questa vetta, prima della Grande Guerra era not a soltanto come "il Como", vi si aggiunse "Battisti" in seguito alla cattura del noto irredentista assieme a Filzi, che si concluse con la loro impiccagione. Cesare Battisti era infatti originario di Trent o (all'epoca sotto il dominio asburgico) ed aveva addirittura ricoperto l'incarico di deputato in Austria tentando di ottenere l'autonomia del Trentino e il riconoscimento della lingua italiana in quella parte dell'impero, Fabio Filzi invece risiedeva a Rovereto ed era avvocato. Entrambi, , all'inizio della guerra, avrebbero dovuto militare nelle fila dell'Esercito Imperiale, invece fuggirono, dichiarandosi italiani e preferendo indossare il grigioverde sotto falso nome, giacché sapevano bene che se fossero caduti prigionieri e la loro vera identità si fosse palesata, gli austro-ungarici li avrebbero messi a morte come traditori. Fu, in definitiva, proprio quello che avvenne. Entrambi stavano partecipando ad un'azione di conquista del monte Como quando furono catturati. Pare
che uno dei soWati austro-ungarici, un certo Bruno Franceschini, conoscesse bene sia Filzi che Battisti e che non abbia esitato a riconoscerli pubblicamente entrambi, incurante della sorte alla quale li stava condannando. Battisti e Fllzi morirono due gipmi dopo impiccati, invocando l ' ~ del Trentino all1tàlia, divenendo l'l'liC.;'1rt;H !l.é)'ffl.e
deltmédentismo. che ~ta
giacché era una postazione utile a controllare le valli sottostanti. Tuttavia, l'attacco diretto alla vetta era un'impresa assai rischiosa e difficile, in quanto da un lato occorreva scalare una parete verticale di roccia friabile, considerata da sempre una via impraticabile, mentre dall'altro lato si doveva superare un versante non troppo scosceso, ma interamente sotto il tiro di coloro che avevano conquistato la sommità del Como. Per superare l'impasse, austriaci e italiani iniziarono a scavare gallerie di mina e contromina, al fine di far saltare la vetta del monte assieme alle postazioni avversarie. Era il 9 maggio quando il rumore degli scavi provenienti dalla galleria di contromina austriaca palesarono agli italiani l'imminente pericolo. Si decise di andare all'attacco della cima, per prendere così agevolmente possesso anche di tutte le gallerie ed evitare il rischio di saltare in aria. L'ascesa venne attuata nella notte del 9, ma il piano, per quanto ben congegnato, fu rallentato dalla difficile salita che comprendeva il superamento di burroni e tratti rocciosi al buio, impedendo di trasportare con sé l'armamento pesante. Al sorgere del sole, pochi uomini erano riusciti ad arrivare in tempo a ridosso delle posizioni austriache, rischiando per altro di essere scoperti dal nemico. Fu allora che il Sottotenente Fulvio Bottari ruppe ogni indugio e con alcuni arditi si lanciò all'attacco, riuscendo a cogliere di sorpresa gli avversari e, in un furioso corpo a corpo che durò poco più di un'ora, a conquistare l'ambita vetta e tutte le gallerie, pur sotto un accanito bombardamento dell'artiglieria nemica. Gli austro-ungarici tentarono ben pl! là rlco:nqùista ed il 1,;3 sera, :QJ;t :te.J?.,arto di
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orno Battisti, 13 maggio, ore 15:00
Thévenot, controlla il pugnale e si avvia verso il canalone seguito da cinque uomini. Mezz'ora dopo, le vedette della Vallarsa non credono (fllustrazione 11 a p. 71) Il Tenente Carlo Sabatini ai loro occhi. Sabatini, Degli Espositi ed altri si accosta alla feritoia che quattro uomini stanno salendo per la parete meglio mostra la porzione ripida e rocciosa che mai nessuno s'era sognato del monte Corno in mano di scalare. I commenti non tardano: "Sono pazzi, agli austriaci. Sospira. È quella roccia è traditrice, non ce la faranno ... esattamente appena sotto ecco uno che abbandona! Torna indietro, ecco gli la vetta, dalla part e in cui frana l'appiglio sotto le mani...". Ma Sabatini ed i un ripido declivio erboso suoi non demordono, incredibilmente scavalcano conduce alle postazioni l'ultima roccia e piombano dall'alto sugli italiane più prossime e poi più giù, fino alla avversari, appostati nelle trincee appena sotto trincea dalla quale sta osservando. Attaccare da la vetta, gli sono addosso, scoppiano i petardi, quel versante è l'equivalente a morte pressoché inizia il corpo a corpo, qualcuno vola di sotto, nel certa per lui ed i suoi arditi, che dovrebbero parapiglia gli austriaci non riescono ad avere la uscire per primi in una disperata corsa in salita. meglio, nemmeno quelli rintanati nelle gallerie, Il Sergente Maggiore Degli Espositi giunge alle talmente sono increduli nel vedersi attaccati da sue spalle, di ritorno da una perlustrazione quella parte! Da dove diamine erano sbucati? dell'unica altra via che conduce alla vetta: "Signor Tenente, sono andato a vedere il canalone, è Quel che accadde dopo una follia: vi sono almeno cento metri di parete Il Sottotenent e Fulvio Bottari, per la sua verticale da salire, la roccia è friabile ed il salto impresa nella conquista delle postazioni di di sotto è di almeno mille metri!". Carlo si scosta Monte Corno, fu insignito della Medaglia dalla feritoia, il suo volto è risoluto: "O come d'argento al valor militare, ment re al Tenente stambecchi o impallinati, io credo che avremo Sabatini, per l'intrepida ascensione e per la più possibilità n7l primo caso. Se riusciamo nella definitiva presa della vetta, fu assegnata la scalata, gli austriaci li prendiamo alle spalle e Medaglia d'oro al valor militare. Le posizioni sul di sorpresa,,.persino in pieno giorno! Chi è con Monte Corno continuarono ad essere oggetto di me?" Alcune mani si alzano fra gli arditi della continua contesa fra italiani e austriaci, durata I sezione mitragliatrici. Si rivolge al Caporale: sino all'ultimo giorno di guerra. Tuttavia, le "Mandate a dire alle vedette di tenere d'occhio vicende fin qui narrate rimasero nella memoria la parete, tra poco ne vedranno delle belle!", popolare fra i racconti più straordinari legati si toglie il fucile, prende qualche altro petardo alla conquista di questa cima.
Il Ten. Sabatini ed i suoi uomini, scalata la parete rocciosa del Monte Como, piombano alle spalle degli avversari
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Vt:K50 LA DATIAQLIA Dt:L 50L5TIZI0 --·•·--imperatore a firmare un'intesa pan-tedesca che lo obbligasse a port are a termine quella guerra al suo fianco, inolt re, ora pretendeva un'offensiva austriaca in Francia, in modo da alleggerire il fronte dalla pressione degli eserciti avversari. Arz era consapevole che le sue truppe avevano dat o un'ottima prova di sé con l'inaspettato sfondamento del fronte italiano t ra Plezzo e Tolmino, tuttavia, ora erano di nuovo allo stremo e le riserve alimentari a cui attingere erano esaurite. Anche mettendo alla fame il popolo con il razionamento dei viveri, cosa che avevano sostanzialmente già fatto, Arz non riusciva a nutrire adeguatamente i suoi soldati. Le derrate alimentari consistevano ormai, pressoché int eramente, in surrogati di qualche tipo. Così non si poteva andare avanti a lungo, occorreva finire al più presto quella guerra o la fame avrebbe indotto i suoi uomini alla rivolta. Quanto alle richieste di Guglielmo, spostare le sue divisioni da un fronte all'altro con i problemi sempre più evidenti del sistema ferroviario austriaco, per poi condurre un attacco sul fronte francese, era proprio da escludere. Meglio richiedere tempo, in cambio dello sfondamento definitivo sul fronte italiano, cosa che sembrava molto più attuabile. In fondo non erano stati ad un passo dalla vittoria? Bisognava soltanto sferrare l'ultimo _ colpo decisivo, al più presto!
DAL PUNTO DI VISTA DI •..
rz era da circa un anno Capo di Stato Maggiore dell'esercito austro-ungarico, dopo che l'iinperatore aveva rimosso dal ruolo il suo predecessore, il Generale Conrad. Non che quest'ultimo l'avesse presa bene. Era già la seconda volta che gli toglievano quell'incarico e questa sembrava quella definitiva, anche se comunque rimaneva al comando di uno dei due fronti cruciali della guerra contro l'Italia, oltretutto quello da lui sempre privilegiato, il cuneo trentino. Da sempre nemico dichiarato degli italiani, fautore della tanto discussa Strafexpedition, Conrad non riteneva che lui, Arthur Arz von Straussenburg , fosse adatto a ricoprire quel ruolo. Non mancava mai di rivolgersi ad Arz rimarcando, con la voce e con fare ironico, il suo titolo di Generaloberst, come a sottolineare che lui, Generalfeldmarschall Conrad, rimaneva in qualche modo sempre il più "importante" fra i due. Del resto, Arz non poteva che sorvolare sulle intemperanze di un uomo che ancora aveva fin troppa influenza sulla maggior parte degli ufficiali superiori, cresciuti alla sua "scuola". Soprattutto, assieme al suo nuovo incarico gli erano giunti ben altri problemi a cui pensare. Carlo aveva fatto la sciocchezza di tentare un armistizio segret o con Inghilterra e Francia, dato che Clemenceau lo aveva ripagato rendendo pubbliche le trattative, ovviamente siglate dal rifiuto. L'alleato tedesco Guglielmo, Imperatore di Germania, era furioso. Aveva subito cost retto il giovane
Conrad spianò sul tavolo del suo comando la cartina geografica del Grappa. Era in preda ad un'emozione febbrile, che gli faceva brillare gli occhi. Erano anni - dieci anni! - che lui aveva sperato di poter piegare e punire adeguatamente i due paesi ribelli, che ambivano all'indipendenza di una parte delle terre austro-ungariche, Italia e Serbia! Fino a quella benedetta guerra gli era sempre stato impedito di attuare le sue
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quell'immaginario t rionfo! Serviva un nome che fosse di buon auspicio per quell'offensiva, magari avrebbe contribuito a convincere l'imperatore a dargli credito: l'avrebbe chiamata "Operazione Lawine", ossia valanga, perché dalle alture del Trentino doveva scendere a valle e travolgere ogni cosa. All'attacco più imponente sull'Altopiano, magari esteso al settore ovest del Grappa, Carlo non avrebbe comunque potuto obiettare nulla. Avrebbe battezzato l'intera offensiva, formata dall"'Operazione Lawine" e dall'attacco sul Grappa e sull'altipiano, "Operazione Radetzky'', in onore del Feldmarschall che ammirava per aver battuto Napoleone e governato il Lombardo-Veneto .
"spedizioni punitive" verso l'Italia, che egli giudicava misure preventive indispensabili a smorzare la sua inopportuna ambizione. Quanto alla Serbia, occorrevano azioni ancor più "severe". Era persino stato destituito dal suo incarico di Capo di St ato Maggiore dell'esercito perché voleva ostinatamente condurre questi popoli alla ragione con la forza. Quell'incarico gli venne restit uito comunque in un tempo opport uno, un paio d'anni prima dello scoppio della guerra che, guarda caso, si doveva combattere proprio contro Serbia e Italia! In seguito, con la sua Strafexpedition era quasi riuscit o a mettere in ginocchio l'Italia, ora, dopo la grandiosa avanzata di Caporett o, era finalmente arrivato il momento buono per batterla definitivament e. Ma, ancora una volta, era stat o rimosso dal suo incarico dal nuovo Imperatore Carlo, poco più che un ragazzo, che non condivideva appieno i suoi piani. Questi aveva incaricato Arz di sostituirlo, come se ne fosse davvero in grado ... Ad ogni modo, occorreva procedere con l'attacco definitivo e, anche se ora disponeva direttamente di solo una parte delle truppe austro-ungariche, di certo aveva le idee ben chiare su come condurle alla vittoria. Spianò ancora una volta la mappa puntando l'attenzione a ovest del massiccio del Grappa. Il grosso delle sue truppe avrebbero attaccato presso l'altopiano dei Sette Comuni, mentre alcune divisioni avrebbero ingaggiat o battaglia con le truppe italiane di Cima Grappa; lo scopo era quello di riuscire a superare le difese italiane sull'Altipiano per sfociare nella pianura e prendere alle spalle lo schieramento italiano sul Piave. Occorreva soltanto aggiungere un'ulteriore offensiva di portata minore che calasse dal Trentino, così da tenere impegnato l'esercito italiano in un secondo attacco molto più a nord-ovest, impedendogli di concent rare le t ruppe nel punto esatto dello sfondament o, ovvero sull'alt ipiano di Asiago. Sospirò. Se fosse riuscito a strappare il consenso all'imperatore per un numero superiore di divisioni in Trentino, avrebbe potuto aspirare ad un ulteriore sfondamento che poteva arrivare persino ad aprire le porte di Milano! Ah, i suoi occhi si perdevano in
Diaz, aveva appena ricevuto l'ennesima pressione da parte di Orlando, l'allora presidente del Consiglio dei ministri, perché desse una mano agli Alleati. Hindenburg, Capo di Stato Maggiore dell'esercito tedesco, dopo il ritiro della Russia dalla guerra, aveva potuto recuperare tutte le t ruppe fino a quel momento impegnate sul fronte orientale per concentrarle su quello occidentale francese ed britannica. I due alleati erano dunque in difficoltà: il generale tedesco Ludendorff aveva lanciato le sue truppe in nuove offensive sul territorio francese, al fine di tenere impegnat e le truppe su quel fronte per poi tentare uno sfondamento in forze soltanto sul settore britannico. Tra maggio e giugno di quell'anno, sul fronte occidentale erano stati condotti ben tre attacchi tedeschi, l'ultimo dei quali aveva visto il pericoloso dilagare delle t ruppe germaniche verso la Marna. Gli Alleati, giacché l1talia si era ormai stabilizzata sul fronte GrappaPiave, avevano richiamato sul fronte francese sei delle undici divisioni mandate in supporto dopo il ripiegamento di Caporetto ed avevano chiesto a Orlando più volte di convincere Diaz ad attaccare l'Austria-Ungheria, così da alleggerire la pressione sul loro fronte. Se l1talia avesse messo in sufficiente difficolt à l'esercito austriaco, la Germania avrebbe dovuto allentare le offensive per correre in aiuto dell'alleato. "La situazione internazionale politica e militare consiglia un ardit o intervento italiano; però la responsabilità è vost ra: decidete per il meglio" diceva il telegramma di Orlando. "Sì, no, nì" annotava a margine Diaz.
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-------------•-----------19113 per garantire una maggior difesa di queste ultime rispetto alla valle, che era rimasta parzialmente sguarnita dalle sue truppe e da quelle di Cavaciocchi soltanto perché erano impegnate, proprio in quel momento, a raggiungere i nuovi rispettivi settori di competenza. In sede di inchiesta, Montuori lo aveva persino proposto per una Medaglia d'argento. In quel momento Badoglio era il numero due dell'Esercito, mentre lui lo avevano mandato a presidiare un settore ritenuto particolarmente delicato. Ora il Generale era certo, grazie al servizio informazioni, che a breve si sarebbe verificato un nuovo attacco da parte austriaca. Del resto, l'ultima offensiva in Francia da parte tedesca non era andata a buon fine, era logico dunque prevedere ora un attacco austro-ungarico contro gli italiani. E giacché fra i comandati in campo vi era il "vecchio" e astioso Conrad, dove mai avrebbero potuto attaccare? "Come minimo sull'Altipiano!" mormorò fra sé e sé Montuori con un amaro sorriso "magari cercando di forzare il punto di saldatura fra la mia armata e quella di Giardino!". Del resto, Conrad oramai era diventato prevedibile e, proprio per questo, ad attenderlo su quel varco ora vi erano truppe italiane ben più numerose che a Caporetto. Proprio lui, Montuori, che forse più di tutti si era rammaricato di quella beffa, non vedeva l'ora di fargliela rimangiare quella "vittoria miracolosa" al fin troppo fortunato "Feldmaresciallo".
Se non fosse stato così tragico, ci sarebbe stato da ridere. Il generale scosse la testa, allontanando con un gesto stizzito il pensiero di quell'azzardo bellico. Non era un buon momento, aveva avuto notizie di un possibile ed imminente attacco avversario sul Grappa e l'altipiano di Asiago ... Purtroppo, aveva già rifiutato più volte quella richiesta, che ora diventava sempre più assillante. Stava ancora rimettendo in sesto l'organizzazione dei suoi uomini ed ultimando le linee difensive sul nuovo fronte, il suo schieramento non era ancora in perfetto assetto .... Parimenti, sapeva di. non potersi più sottrarre a lungo a quella richiesta di aiuto. Decise che l'unica soluzione possibile era organizzare un'offensiva proprio dove sembrava che l'avversario volesse a sua volta sferrarla a momenti, ovvero sul Grappa e sull'altipiano di Asiago. Nel frattempo, diede ordine alla 4a armata di stare all'erta e di essere pronta a rispondere con fuoco intenso e sostenuto alle primissime avvisaglie di un cannoneggiamento nemico. A Conrad, non voleva nemmeno dare la soddisfazione di iniziare un'offensiva come si deve: grazie agli osservatori ed all'aviazione, l'Esercito Italiano era perfettamente al corrente delle posizioni dell'artiglieria austriaca sia sul Grappa che sul Piave, i cannoni italiani potevano riuscire ad inibirla fin da subito. Che fosse toccato davvero a lui, oppure a Conrad, il compito di iniziare la partita, in entrambi i casi avrebbe fatto in modo di cogliere il venerando generale austriaco di sorpresa.
Boroevic, il taciturno generale austriaco, era appena rientrato dalla riunione con Conrad e l'Imperatore Carlo I. Era al contempo furioso e soddisfatto di quella riunione. Conrad, con la sua solita sicumera, aveva già dato per certo che il suo piano sarebbe stato l'unico valido e vantaggioso, ma lui gli aveva ben dimostrato di sapere il fatto suo, non si era certo guadagnato la fama di "leone dell'Isonzo" standosene con le mani in mano. It suo piano di attaccare sul Piave per cogliere il nemico alle spalle aggirando le truppe sul Grappa era praticamente speculare a quello proposto da Conrad ed altrettanto ineccepibile. Carlo stesso glielo aveva riconosciuto, ma non era stato in grado di schierarsi né dall'una né dall'altra parte, limitandosi a chiedere se
Montuori, era appena giunto al comando della 6° Armata a presidio dell'altipiano di Asiago. La Reale Commissione d1nchiesta, che il governo aveva preteso operativa già a febbraio di quell'anno per appurare le cause (e ovviamente le colpe) della sconfitta di Caporetto, lo aveva visto testimoniare, insieme a Badoglio e Cavaciocchi, sullo spostamento delle truppe che aveva favorito l'infiltrazione della 12a Divisione Slesiana sull1sonzo. Lui e Badoglio erano stati scagionati, mentre a Cavaciocchi non era andata altrettanto bene. Del resto, lui, Montuori, non aveva forse rigorosamente rispettato gli ordini superiori, di cosa potevano incolparlo? Era anche convinto della buona fede di Badoglio che, avendo ritenuto più probabile un attacco sulle alture, aveva optato
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l'attacco, avrebbero bombardato inutilmente · un terreno vuoto. Era parimenti vero che ora disponevano di un maggior numero di munizioni, ma l'abbondanza non era tale da poter permettere un tale spreco, cosicché avrebbero rischiato di non aver proietti a sufficienza nel momento in cui il nemico si sarebbe davvero deciso ad attaccare. "Ma è così! Attaccano ora!" aveva sbottato Segre, ne avevano t utte le prove: l'Ufficio informazioni era assolutamente certo della data dell'attacco, l'offensiva avrebbe avuto luogo di lì a poche ore! I disertori austro-ungarici lo avevano confermato e le ultime ricognizioni aeree avevano individuato truppe nemiche in marcia di avvicinamento e gli schieramenti avanzati dell'artiglieria .. . dovevano agire subito, quella notte stessa, con tiro lungo così da coglierli di sorpresa mentre ancora erano in movimento e le batterie non erano ancora completamente schierate, rifornite e pronte al fuoco ... ! Montuori aveva sospirato, ben sapendo che niente lo avrebbe distolto da quell'idea. Tuttavia, in fondo , si trovava d'accordo con lui. Montuori fece un ultimo tentativo: "Lei sa bene cosa mi sta chiedendo? ! Se mi prendo questa responsabilità e l'attacco austriaco non è imminente, passeremo un bel guaio ... " Segre sorrise, certo di averlo oramai convinto. Assicurò che si sarebbe assunto tutte le responsabilità riguardo a quella scelta, e che avrebbe attuato il fuoco di contropreparazione anticipata soltanto con gli uomini sotto il suo diretto comando, così il resto dell'artiglieria avrebbe comunque risparmiato munizioni mantenuto la sua efficienza. "Ma non mi sbaglio! " concluse determinato, prima di congedarsi e guadagnare la porta di gran carriera. Montuori, a breve, avrebbe sentito l'artiglieria iniziare il tiro di controprepara.zione, in netto anticipo su una qualsiasi a.zione offensiva da parte dell'avversario, mentre lui, ripensando a quella risoluzione, si chiedeva se avesse fatto davvero bene a fidarsi del parere di quel Generale così intraprendente.
non fosse possibile mettere i piani delle due offensive a sistema, in un attacco "a t enaglia". Una domanda che risultava, in ultima analisi, un ordine. Era chiaro che non aveva voluto scontentare nessuno dei due, essendo stati entrambi degli ottimi comandanti in passato. La sua "Operazione Albrecht" sul Piave avrebbe dovuto essere contemporanea alla "Radetzky" ed alla "Lawine" ordite da Conrad. Avrebbe di gran lunga preferito impegnare l'esercito in un'unica grande offensiva, impossibile da arginare persino per le ostinate difese italiane, ma forse, tutto sommato, l'idea della "tenaglia" non era neppure così malvagia. Le probabilità di intercettare un punto debole dello schieramento nemico erano maggiori. Montuori, con la sua 6a Armata, doveva presidiare e difendere la zona degli altipiani: la sua giurisdizione si spingeva fino ad una parte delle pendici del Grappa, la cui sommità era invece sotto il comando della 4a Armata del Gen. Giardino. Solo qualche ora prima si era presentato presso il suo comando il Gen. Segre, a capo dell'artiglieria dell'Armata, chiedendo udienza con t ono calmo ma piuttosto contrariato. Se il Generale veniva a disturbarlo a quell'ora -erano oramai le 21:00- per giunta il giorno prima di un supposto attacco austriaco, beh, la questione doveva essere importante. Non appena fu entrato, Segre espresse tutto il suo disappunto in relazione all'ordine che gl'imponeva un "fuoco di contropreparazione immediata" : "Dovremmo dunque far fuoco soltanto dopo il cannoneggiamento nemico? Addirittura mezz'ora dopo? Troppi danni Signore ne potremmo avere!" i suoi grossi baffi fremevano. Il Generale non aveva tutti i torti, ma del resto sapeva anche bene come la pensava il Comando Supremo e quali fossero le sue direttive. Fare fuoco con l'artiglieria prima di avere certezza di una vera offensiva da parte austro-ungarica, era azzardato. Infatti, qualora le truppe nemiche non fossero ancora state spiegate in massa sulla linea del fronte per
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LA 50KY.Rl:S?1 DI Sl:QRI: CONTESTO STORICO 'offensiva era stata preparata dal comando austro-ungarico fin dal mese di marzo. Come anticipato, i piani subirono tuttavia diverse modifiche, giacché si dovette arrivare ad un compromesso fra i generali austriaci: l'offensiva sarebbe stata scatenata contemporaneamente sugli Altipiani, sul Grappa, sul medio corso del Piave verso il Montello e sulla parte meridionale del Fiume, con una troppo ottimistica ripartizione delle forze in campo. Da parte italiana, il Comando Supremo, memore della lezione di Caporetto, munì al massimo le linee degli Altipiani e sul Grappa, con l'ordine di resistere fino all'estremo sacrificio giacché alle spalle non ci sarebbero stati che il vuoto ed una pianura praticamente indifesa. Gli austriaci, fecero convergere per l'attacco cinquantacinque divisioni appoggiate da 7900 pezzi di artiglieria e 540 velivoli. L'Italia, nel frattempo, dispose cinquanta divisioni italiane, tre britanniche e due francesi, con 7040 cannoni e 666 velivoli. Stava per aver luogo uno scontro di gigant esca portata.
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ostazioni di artiglieria della 6a Armata, 13 giugno, ore 23:00 (Illustrazione 12 a p. 78)
con il fuoco di sbarramento. "Vogliamo rendergli proprio la vita difficile questa notte!" puntualizza con un certo sarcasmo il Colonnello avviandosi all'osservatorio. Il Gen. Segre convoca anche il Col. De Pigner e gli intima: "Si attacchi al telefono Colonnello, voglio che tutti i Corpi d'Armata, nonché i reggimenti francesi e inglesi siano avvisati dell'inizio del nost ro fuoco di contropreparazione preventivo, non ho autorità di comandare le loro artiglierie, ma se vogliono partecipare alla festa, sono i benvenuti! Fra poco la raggiungerò anch'io per dare le dovute indicazioni, ma per prima cosa salgo all'osservatorio, voglio assistere ai primi colpi, per vedere ciò che accade. Mancano pochi minuti alle 23, vuole dare egli stesso il via alle danze, così si dirige verso la postazione di un mortaio da 210 per far partire il primo colpo. Si mette in silenzio dietro gli artiglieri che si affannano nel caricamento, non appena tutto è pronto, fa un cenno. Il contraccolpo del lancio del proietto ed il fragore che ne segue fa tremare il terreno e la cornice boschiva in cui avevano posizionato il mortaio. Nemmeno in pieno giorno sarebbe stato facile per gli austriaci individuare la posizione dei pezzi di artiglieria, li avevano ben distribuiti e camuffati in mezzo al bosco, praticamente impossibili a vedersi. Al primo colpo segue il consueto concerto di tutti
Il Gen. Segre, subito dopo aver parlato con Montuori, torna al Comando dell'Artiglieria d'.Annata, presso il 67° raggruppamento, agguanta il Col. D'.Ascoli che gli stava andando incontro e gli ordina subito di salire al "Gioppino", l'osservatorio principale, per dare l'ordine di eseguire subito un'azione di fuoco lontano, vale a dire di battere con un sonoro bombardamento a mezzo di grossi calibri le linee più arretrate, le retrovie e gli schieramenti d'artiglieria del nemirn . Il programma dei tiri prevede due o tre riprese di fuoco, di cui una a gas, ripartite dalle 23:00 fino alle 03:00 del giorno dopo. Obiettivi: le aree di concentramento delle truppe, le vie di afflusso, i rovesci delle posizioni nemiche, alcuni nuclei di batterie. Quindi si attenderà l'inizio del fuoco di preparazione nemico: non appena inizierà a tuonare l'artiglieria austro-ungarica, appurato che l'offensiva sia davvero iniziata, si deve procedere
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------------------•----------1916 gli altri cannoni all'intorno, mentre in lontananza
il pianoro si accende dei lampi di altrettante deflagrazioni. "Speriamo che là in fondo, siano davvero alle prese con i preparativi dell'offensiva. . ." pensa Segre allontanandosi.
ronte austriaco sull'altipiano dei Sette Comuni, 13 giugno, ore 23:00 (Illustrazione 13, p. 80) Dietro le linee austriache migliaia e migliaia di uomini si spostano per raggiungere la prima linea, schierando i nuovi obici nelle postazioni preventivate e puntando i medesimi dietro le indicazioni degli osservatori d'artiglieria già presenti sul posto. A dire il vero, quest'ultima operazione è fatta un po' a casaccio, in quanto l'artiglieria di quel settore non ha le idee chiare su dove si possano trovare le batterie avversarie: gli italiani non solo hanno camuffato gli obici nel bel mezzo della boscaglia, ma continuano a spostarli, persino all'ultimo momento, per cui è praticamente impossibile prevedere il punto in cui li avrebbero piazzati, per annientarli prima che entrassero in azione. Gli austriaci sperano dunque che schierare 350 pezzi in più, possa essere sufficiente a compensare la mancanza di precisione dei tiri. Il buio avvolge ogni cosa, il chiarore delle stelle permette di intravvedere appena l'immane tappeto di sagome scure che brulica come un formicaio e che si riversa alternativamente in punti di raccolta per poi colmare le trincee o incamminarsi verso questo o quel punto dell'altipiano. Pare impossibile che t utta quella marea di gente riesca a spostarsi in rigoroso silenzio, giusto qualche lamento contenuto arriva talvolta dalle artiglierie, per gli sforzi richiesti nello spostare i gigant eschi obici, o per qualche dito schiacciato nel caricarli al buio. Il febbrile lavorio di uomini e mezzi è ancora in piena attivit à, quando dal bosco in fondo all'altipiano parte un poderoso colpo da un 210 che si schianta in mezzo ad una colonna di
Il Generale Segre
uomini in marcia aprendo un cratere gigantesco. Tutti si fermano, trattengono il respiro nel buio cercando di scrutare il fronte nemico e cercando di capire che succede. . . che cosa significa quel colpo a quell'ora di notte? Dopo qualche istante l'artiglieria italiana inizia a tuonare tutta, a ciascun soldato appare subito chiaro cosa sta avvenendo: questa non è una sporadica azione di disturbo, questo è fuoco di cont ropreparazione, che prende in contropiede la predisposizione del loro attacco, tanto che le truppe sono ancora in movimento e non completamente schierate mentre l'artiglieria è operativa soltanto a metà! Ma non sarà per caso che gli italiani stanno sferrando un'offensiva? Proprio nello stesso giorno in cui si conta di annientarli?! Che diamine vorranno mai fare? Colpit a dal poderoso bombardamento, la fanteria austriaca inizia a correre ai ripari, sparpagliandosi. I preparativi per l'attacco previsto di li a poco vengono paralizzati, le comunicazioni telefoniche ben presto interrotte, gli osservatoriavanzati neutralizzati. tartiglieria austriaca risponde al fuoco con grande violenza ma i colpi cadono in modo disordinato e poco efficace. Alle 07:00 l'esercito imperiale regio decide comunque di partire all'attacco, ma i soldati si lanciano all'assalto con minor impeto e forse con minor fiducia verso un'imminente vittoria. Inizia così l'attacco in cui tanto confidava l'Alto Comando austro-ungarico, con ingenti perdite di uomini e mezzi, ancor prima che le truppe siano entrate in linea.
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NEL MENTRE DELLA t,ATTAQLIA DEL 50L5TIZI0 --•+•--
DAL PUNTO DI VISTA DI...
di Montuori, dove le truppe nemiche tentavano di aprire un varco. A contrastare l'assalto vi erano i Fanti del 60° e di parte dell'Abruzzi, quasi tutti "classe '99", che pur giovanissimi e ancora pressoché inesperti, stavano offrendo una resistenza coraggiosa e disperata, riuscendo a rallentare l'avanzata avversaria. Giardino si stava affannando a coordinare con adeguate direttive le artiglierie, le divisioni ... cercando di capire se e dove era il caso di mandare riserve a supporto. A complicare il tutto vi era il marasma generato dal cannoneggiamento dei suoi, unito a quello degli attaccanti, nonché la nebbia artificiale ed i lacrimogeni lanciati dagli austriaci, che impedivano agli ufficiali interpellati telefonicamente sul posto di giudicare se l'attacco fosse stato effettivamente fermato oppure ... Il telefono squillò: «Pronto!» urlò nella cornetta, era Badoglio che chiedeva informazioni su quello che stava accadendo là fuori. Il Generale piemontese provò con la sintesi: «A l'è un ciadèl!» ("E un casino!").
iardino, il comandante della 4a Armata sul Grappa, alle 10:30 del 15 giugno era alle prese con l'attacco austrotedesco di Conrad che era principiato quel mattino. Come da ordini superiori, alle prime avvisaglie dell'attacco, le sue artiglierie avevano risposto con fuoco terribile e formidabile: dall'una alle cinque del mattino il fiammeggiare dei cannoni italiani aveva illuminato il Grappa come una lanterna. Gli avversari, tuttavia, non si erano fermati, affrontando i pendii del massiccio di corsa, contro quell'infinità di proietti che gli avevano sparato contro. Fino a quel momento il poderoso attacco austroungarico era riuscito a prendersi il Valderoa, i Solaroli, Col Moschin e Col Fagheron ... sembravano inarrestabili! Stavano tentando di chiudere in una morsa a tenaglia Cima Grappa, prendendo le cime attigue e stringendo la roccaforte di Galleria Grappa ed i suoi cannoni in un accerchiamento, per far capitolare il caposaldo principale. Occorreva inviare rinforzi, si dovevano riconquistare le posizioni perdute. La minaccia maggiore si presentava ora proprio nel punto di contatto fra la sua 4a Armata e la 6a
Pennella, il generale a capo dell'8a Armata dislocata presso il Montello, la sera di quel medesimo giorno non aveva pace, .camminava avanti e indietro nella stanza, i pugni fissi sui fianchi, non ci poteva ancora credere! Avevano attaccato proprio lì, ancora una volta dove nessuno avrebbe mai scelto di attaccare! Solo qualche giorno prima aveva riso con chi gli aveva prospettato quella possibilità: «Ma volete
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proprio che il nemico venga a rompersi le corna contro il Montello, contro la posizione più forte, quando può agevolmente forzare il fiume in altri settori?» Orbene, era proprio accaduto. Il colle del Montello, un ampio altipiano erboso non particolarmente alto e proteso sul Piave, era guarnito di ben quattro trincee difensive italiane, insidiose e poco visibili poiché la folta vegetazione del luogo e la conformazione del terreno ben si prestavano a celarne le postazioni. Non di meno, quella mattina le truppe italiane stavano eseguendo l'avvicendamento dei reparti in prima linea quando venne sferrato l'attacco ... sembrava proprio che gli austriaci riuscissero in qualche modo a conoscerne la data, possibile che si trattasse soltanto di dannata sfortuna?! Gli attaccanti avevano dapprima usato ingenti quantità di fumogeni per nascondere le truppe in attraversamento sul Piave, infine erano partiti all'attacco, quando lo · stesso colle era ancora parzialmente invaso da queste nebbie artificiali, non permettendo ai mitraglieri italiani di sparare se non a casaccio, con il solo risultato di rendere nota la loro posizione e beccarsi così una bomba a mano o la fiammata di un lanciafiamme. I soldati ancora ,impegnati negli spostamenti erano accorsi a difendere le posizioni, ma la nebbia e la sorpresa fecero sì che riuscissero a tenere salda soltanto l'ultima delle quattro trincee! Diaz, fortunatamente, era stato in grado di garantirgli in poche ore l'afflusso di ben tre divisioni dell'armata di riserva, grazie a 500 autocarri previsti per una simile emergenza, appena prodotti e nuovi di zecca.
il Piave riuscendo a conquistare delle teste di ponte sul Mont ello e fra Candelù e Capo Sile, ma finendo drammaticamente respinti altrove. Le sue truppe d'assalto avevano ripreso gli attacchi l'indomani, ma le divisioni italiane di riserva erano state fatte arrivare tanto tempestivamente da rendere fin da subito difficilissimo proseguire oltre. Tutto sembrava volgere contro la loro azione: l'alta vegetazione, gli acquitrini insidiosi, i fossi, le paludi. .. ogni più piccolo caseggiato diveniva un covo di mitragliatrici e, se non arrivavano dagli anfratti e dalle case, le raffiche di morte arrivavano dal cielo, ossia dai caccia alleati che avevano ormai il dominio dell'aria e concorrevano alla difesa a terra con mitragliamenti a bassa quota. Conrad, doveva ammetterlo a malincuore, era riuscito sul Grappa a conquistare del terreno, ma anche in quel caso si trattava di ben poca cosa. Già la sera del primo giorno era chiaro che anche quell'offe nsiva era fallita, la prospettiva di uno sfondamento vittorioso non era più credibile. La battaglia, ad ogni buon conto, continuava, pur divenendo sempre più dura. Non voleva ancora crederci, eppure, suo malgrado, in quella sconfitta vedeva già distintamente il preludio di ben più foschi presagi.
Montuori, il 19 giugno camminava nervosamente avanti e indietro, nel suo ufficio, al comando della 6a Armata a presidio dell'altipiano di Asiago. Già a dicembre 1917, vi era stata un'offensiva austriaca per tentare di conquistare i cosiddetti "Tre Monti", ovvero il triangolo formato da Col del Rosso, il Col d'Ecchele ed il Monte Valbella appena ad ovest del fiume Brenta, ma l'artiglieria del Generale Zoppi era stata formidabile nel respingerla. Agli inizi di gennaio erano stati gli italiani ad attaccare riprendendo parte del terreno perduto, ora, gli austriaci si erano lanciati nuovamente alla conquista di quelle posizioni, che ora toccava a lui difendere, giacché se foss ero cadute nelle loro mani, sarebbero potuti facilmente irrompere nella Val Brenta e cogliere alle spalle lo schieramento italiano del Grappa e, proseg1Uendo a sud, anche quello del Piave.
Boroevic si spinse indietro sulla sedia chiudendo gli occhi. Erano passati soltanto due giorni dall'inizio dell'offensiva e già vedeva chiaramente davanti a sé l'imminente disastro . Le sue truppe avevano attaccato la linea sul Piave in forze e fin da subito qualcosa non quadrava. L'artiglieria nemica aveva risposto con un tiro di precisione massacrante, ancora prima che fosse terminata la prima salva dei suoi cannoni. Non appena era stato possibile, con l'aiuto della nebbia artificiale, i suoi uomini avevano varcato
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La situazione era sempre più drammatica, gli Schiltzen della 26 3 Divisione austriaca erano riusciti ad inchiodare i loro artigli sulla prima linea tenuta dai britannici, presso Cesuna, ma l'artiglieria del X Corpo d'Armata italiano era intervenuta per ordine di Caviglia, riuscendo a far loro mollare la presa. Pur sotto l'attacco feroce degli austriaci, determinati a prendersi l'intero caposaldo, i suoi uomini stavano combattendo su quel fronte come mai prima d'ora. Gaeta, era un giovane impiegato delle poste italiane e, come tutti i napoletani, la musica e le canzoni le aveva nel sangue, tanto che si dilettava a scriverne alcune ottenendo un discreto successo. Aveva imparato da solo a suonare, da piccolo, nel retrobottega del negozio di barbiere dello zio, dopo che un signore aveva dimenticato là il suo mandolino che diventò all'istante il suo inseparabile compagno di giochi. Quella sera, oramai trentaquattrenne, rientrando a casa dai genitori, non stava nella pelle. Preso dalla frenesia, rifiutò il pasto mentre con un sorriso e gli occhi lucidi e febbrili, disse: «E' vinta!» e corse a chiudersi in camera, lontano da qualsivoglia altra domanda. Quella notte, la sua penna scrisse una canzone
sulla guerra, su tutta la guerra, perlomeno il suo racconto terminava proprio con gli avvenimenti di quel giorno, il 23 giugno 1918. I protagonisti erano i soldati d'Italia, senz'altro, ma fra di essi, imponente e magnifico, ve n'era un altro, il Piave! Il Piave che mormorava e che combatteva al fianco degli italiani, perché la sua piena era giunta proprio a proposito in quei giorni di battaglia disperata, sembrava l'avesse fatto apposta a spazzare via ponti, passerelle, soldati austriaci che volevano superare le sue acque in armi, nel momento più difficile di quella battaglia che il caro d'Annunzio aveva ribattezzato "del Solstizio". La sua penna correva su quel pezzo di carta di poco conto, mentre la melodia, che doveva essere il ritornello, gli ronzava in testa già da ore .. . e infine, la chiusura: "il Piave comandò: «Indietro va', straniero!»". Benedetto Piave e benedetti i soldati! Era finita in vittoria quella battaglia e, se ci aveva visto bene, forse presto sarebbe finita anche la guerra! Agli austriaci avevano fatto passare la voglia di prendersi l'Italia e gli italiani! Piegò lo scritto, afferrò il mandolino e con il cuore in tripudio corse fuori, a cantare la sua "Leggenda" a chiunque volesse ascoltarla.
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CONTESTO STORICO
in dall'inizio della guerra il cosiddetto "servizio informazioni" di ciascun schieramento operava per reperire più dati possibili sugli avversari. Conoscere in anticipo le mosse del nemico, come fossero articolate le trincee e dove si trovassero le artiglierie, quanti uomini presidiassero quel punto e quanti ne stessero arrivando in vista di un'offensiva... queste e tante altre informazioni risultavano essenziali ad ogni esercito belligerante. In particolare, per l'osservazione del fronte, ci si valeva della neonata aviazione, giacché gli aerei, prima ancora di essere impiegati come armi, furono utilizzati per ricognizioni sui campi di battaglia, unitamente ai palloni aerostatici che venivano innalzati a qualche chilometro dalle linee nemiche. Spie adeguatamente preparate venivano al contempo inviate nei territori stranieri, questi si facevano passare spesso per soldati dello schieramento
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avversario fuggiti da un campo di prigionia, se non disertori veri e propri. In Italia, dopo che lo sfondamento di Caporetto aveva lasciato in mano austriaca una parte dei territori italiani, il Servizio Informazioni del Regio Esercit o, per conoscere le posizioni del nemico, si avvalse anche dell'aiuto della popolazione rimasta al di là del front e. La comunicazione, inutile dirlo, era assai rischiosa ma venne attuata spesso con grande coraggio, fo rnendo alle t ruppe it aliane notizie preziosissime. Il mezzo di trasmissione più usato fu il piccione viaggiatore. Il sistema era noto fin dall'antichità: poiché questo volatile ha una forte indole sociale, si allontana "da casa" soltanto per procurarsi il cibo, rientrando sempre e puntualmente ogni sera presso la comunità di individui a cui appartiene. I piccioni venivano dunque allevati dai soldati in piccionaie collocate presso i comandi, che i volatili riconoscevano come comunità di appartenenza. Quindi, venivano messi in piccole gabbie ed inviati con vari mezzi in alcuni punti strategici del fronte, presso le trincee o le artiglierie. Quando si rivelava necessario per quel particolare punto del fronte comunicare con il comando,
era sufficient e inserire il messaggio dentro un apposito astuccio legat o alla zampetta dell'animale, lasciandolo infine libero di tornare alla sua comunità, presso il comando. Un soldato, addetto alla mansione, avrebbe raccolto il messaggio e avrebbe comunicato quanto necessario ai superiori. Questo sistema, pur funzionando a senso unico, era tra i più efficaci. Veniva impiegato per comunicare sullo stesso fronte, ma poteva essere utilizzat o anche per recuperare informazioni dalle spie presenti sul territorio nemico. Sul Piave, un buon numero dì piccioni, chiusi in piccole ceste di vimini, venne paracadutato dagli aerei italiani al di là del fronte. Raccolti dalla popolazione o da spie inviate a osservare· le manovre delle truppe austro-ungariche, i piccioni venivano infine liberati, nat uralmente dopo aver affidato loro il prezioso carico di notizie, che sarebbe puntualmente arrivato ai comandi. Fra le spie inviate al di là del Piave, nell'estate del 1918, vi fu Alessandro Tandura, che non solo si avvalse dei piccioni, ma fu anche il primo soldato italiano a sperimentare il loro pericoloso mezzo di trasporto, ancora agli esordi: il paracadute.
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Il capo del servizio informazioni dell'8a Armata, Colonnello Dupont, gli aveva tirato un bello scherzo. È vero che aveva deciso di entrare negli arditi per combattere più e con maggior periglio di tutti, sapeva che lo avrebbero atteso imprese non meno che mortali e disperate e per quest o era pronto a tutto. Eppure, quello che gli avevano chiesto di fare era al di là di ogni sua immaginazione. Sentiva i suoi piedi penzolare nel vuoto, mentre l'aria fredda sulla nuca ed il frastuono del motore dell'aereo, un Savoia-Pomilio SP3, lo stordivano. All'intorno, l'oscurità avvolgeva fortunatamente tutto, ecco, intravvedeva appena le acque del Piave stendersi sotto le ali del velivolo, tinte dalla luna di qualche riverbero d'argento. Bene, stavano superando le trincee nemiche, gli sembrava impossibile che laggiù, per quanto fossero piccoli e distanti, gli austriaci non sentissero quel frastuono infernale! Eppure non una raffica di mitragliatrice, non uno sparo, sembrava ce l'avessero fatta finora. Le cinghie che lo imbrigliavano e correvano sotto il suo sedile ribaltabile lo stringevano troppo, ma non osava far nulla per non rischiare di imbrogliare qualcosa. Gli avevano detto che non doveva fare niente, ad un certo punto il sellino si sarebbe girato e lui sarebbe caduto in basso trascinandosi dietro l'ombrello nero di quell'affare che chiamavano paracadute. Poi chissà! Aveva chiesto di fare una prova ma non si poteva, i paracadute erano "pochissimi e costavano assai" quindi toccava incrociare le dita e sperare che funzionasse. Girò la testa, non osando muoversi oltre, guardando di sbieco, per quanto gli riusciva, il pilota e l'ufficiale osservatore della RAF che stavano alle sue spalle, dritti nel senso in cui comunemente si viaggia su un aereo. Era lui a stare al contrario, per qualche assurda ragione che dovevano avergli persino spiegato. I due
Lenzuola bianche stese a terra ad indicare il punto di atterraggio per i paracadutisti
gli avrebbero fatto un qualche cenno prima di azionare la leva? Ogni tanto, nel frastuono del motore, li sentiva parlare fra loro una lingua incomprensibile, se anche avessero detto qualcosa rivolta a lui, non lo avrebbe di certo inteso. Aveva pure iniziato a piovere. Un paracadute zuppo era ancora buono? Neanche il tempo di pensare, lo stomaco in gola, tutto si ribalta e si sente precipitare nel vuoto, uno strattone, caduta libera, non capisce più dove sta il sotto ed il sopra, un altro strattone e ... finalmente percepisce che la sua discesa sta rallentando. Che diamine, funziona! Spalanca gli occhi nel buio, il vento e la pioggia gli sferzano il viso, niente, non vede niente, nient e ... ah, ecco i campi, li riconosce, sono le terre del suo paese! Ecco le bianche lenzuola stese a terra, il segnale per i piloti, lasciate dagli italiani del posto per far sapere i punti buoni dove sganciare i piccioni. .. e anche lui. Si avvicinano troppo in fretta, un colpo, un dolore al petto e più nulla. La terra bagnata e l'erba sul viso sono la sua prima sensazione non appena rinviene, si risolleva e ancora non ci crede. Stava nel bel mezzo di un vigneto, dall'aria familiare. Si toccò la faccia, era ancora tutto intero, ora doveva soltanto raggiungere la casa dei genitori, laggiù nella valle.
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momento dati dalle autorità per "sbandati" o "disertori", in realtà sfuggiti alla cattura austrotedesca e impossibilitati nel raggiungere il proprio esercito al di là del Piave. Con questi ultimi organizzò delle "bande armate" per contrastare il nemico in quello stesso territorio. Sabotarono così i treni adibiti al t rasporto di uomini e munizioni, modificarono le indicazioni stradali per creare caos negli spostamenti delle t rupp e austro-ungariche e nei trasporti in genere, infine, quando il 30 ottobre le avanguardie italiane stavano raggiungendo Vittorio dopo aver varcato il Piave, essi cercarono di stringere il nemico combattendolo da nord, fornendo un valido aiuto alle truppe in avanzata. Tandura per la sua impresa, per il coraggio ed il valore dimostrato venne insignito della Medaglia d'oro al valor militare, la sorella e la fidanzata di quella d'argento.
Quel che accadde dopo Il giovane Tenente Alessandro Tandura, appena venticinquenne, atterrato accanto ai vigneti sul limitare dell'orto del parroco di San Martino di Colle Umberto, riuscì poco dopo a raggiungere la sua casa natale. Fu il primo paracadutista italiano della storia, lanciatosi in missione di guerra dietro le linee nemiche. In seguito, con l'aiuto della sorella e della fidanzata, raggiunse Col Visentin dal quale, a mezzo di piccioni viaggiatori, riuscì a fornire al comando italiano dell'8a Armata importantissime informazioni sulle attività e sulle posizioni assunte della truppe austro-ungariche al di là del Piave. La sua missione durò ben tre mesi, dal 10 agost o al 30 ottobre, durante i quali venne catturat o dagli aust riaci due volte, riuscendo in entrambi i casi a sottrarsi con fughe rocambolesche. Fu raggiunto in quei giorni da molti compatrioti, fino a quel /
Alessandro Tandura seduto al contrario sul seggiolino ribaltabile del Savoia-Pomilio SP3, con i piedi penzoloni
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LA MIQLIOKr. 17KOl7AQANDA: D' ANN\JNZIO
CONTESTO STORICO abriele d'Annunzio, Vate, scrittore, poeta, drammaturgo, giornalista nonché uomo di indiscusso successo, prima dello scoppio del conflitto, a causa delle sue relazioni amorose pericolosamente condotte e discusse, nonché a motivo della predilezione per la bella vita che lo indusse a sperperare ogµi sua sostanza, fuggì in Francia, per sfuggire alle molte amanti gelose, ai mariti infuriati, ai creditori assillanti. Nessuno avrebbe mai immaginato che un uomo tanto eccentrico potesse, alla veneranda età di 51 anni, rientrare in Patria e fare il diavolo a quattro dapprima per promuovere l'entrata in guerra dell'Italia, in seguito per . venire arruolato, combattendo valorosamente e indefessamente per terra, per mare e persino in aria, guadagnandosi la fama di eroe. Aveva combattuto nei lancieri di Novara, lanciato volantini da un aereo sulle città di Trento e Trieste, perduto un occhio dopo un volo sull'Istria, si era infine unito ai fanti nella conquista del Veliki Hribach e del Dosso Faiti sul Carso, mentre con i "Lupi di Toscana" aveva tentato di conquistare "Quota 28". Ripreso il volo, aveva partecipando alle incursioni sulle città di Pola e Gorizia, dalla quale tornò ferito al polso e con l'aereo crivellato di colpi. Aveva dunque
partecipato al bombardamento sulle Bocche di Cattaro, condotto infine la cosiddetta "beffa di Buccari" facendosi, appunto, beffe del nemico a bordo dei motosiluranti MAS. Il due giugno e poi ancora l'otto, d'Annunzio aveva tentato inutilmente di portare a termine l'ultima arditissima impresa che progettava da più di un anno: il volo su Vienna. Ma la fortuna sembrava proprio non arridergli: la prima volta gli aerei avevano dovuto desistere per le condizioni atmosferiche pessime, la nebbia aveva infatti reso impossibile il volo della sua squadriglia di tredici SPAD, rendendone addirittura inutilizzabili tre; durante il secondo tentativo, un forte vento contrario aveva di nuovo impedito il completamento del viaggio. Come non bastasse, durante l'ultimo volo, uno
degli aerei in difficoltà aveva dovuto sganciare un ingente carico di volantini in territorio austriaco per alleggerire il velivolo che altrimenti non sarebbe riuscito a rientrare alla base. L'effetto sorpresa era compromesso. Del resto, percorrere mille chilometri in dieci ore di trasvolata in balia di aerei di legno e tela non era esattamente uno scherzo, ma, altrimenti, non sarebbe stata un'impresa degna di lui. Doveva ritentare un'ultima volta l'indomani, prima che i volantini perduti avessero il tempo di rivelare il suo intento. Il 9 agosto, alle 5:30 del mattino, undici aerei SVA partivano dal campo di aviazione di San Pelagio, nei pressi di Padova, determinati a portare a termine l'ennesima arditissima impresa di propaganda voluta dall'ormai celeberrimo poeta.
ieli vittoriesi, 9 agosto, ore 09:10 (fllustrazione 15 a p. 91) Nonostante il cappotto di pelliccia, casco, guanti, occhialoni e sciarpa, faceva un freddo infernale. Gli avevano concesso l'onore di volare nel posto anteriore di quello SVA e quell'onore gli stava regalando anche tutto il vento in faccia, che se lo avessero fatto sedere dietro, dove ora stava il pilota, forse era meglio. Del resto, per farlo partecipare a quell'impresa, gli avevano modificato quel velivolo appositamente e con tanta premura, trasformandolo in tempi record da monoposto a biposto, così non aveva osato eccepire su nulla. Aveva giusto fatto una battutina sul suo sedile posizionato proprio sopra il serbatoio, chiamandolo scherzosamente "la seggiola incendiaria". Meglio così, se proprio un incidente doveva capitare, preferiva la certezza di saltare in aria senza troppi "ma" e "se". In realtà, con un occhio solo, era già molto che gli avessero permesso di essere lì, si preoccupavano troppo
per lui e per la sua incolumità, fosse anche soltanto per le ripercussioni negative sulla propaganda che avrebbe avuto un suo fallimento o, ancor peggio, la sua dipartita. Ormai, aveva rischiato la pelle incoscientemente così tante volte che si erano quasi rassegnati alle sue pazzie, del resto gli era sempre andata bene ed i risultati pagavano. «Vienna!!!» urla d'Annunzio, scuotendosi dal torpore dei suoi pensieri ed agitando le mani in direzione dell'enorme agglomerato urbano
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D'Annunzio a bordo del suo SVA in volo su Vienna
che inizia a profilarsi all'orizzonte. Si volta con fatica verso il suo pilota, imbacuccati come sono, nessuno dei due può vedere niente del viso dell'altro, per cui sono le mani ad agitarsi in un frenetico etiforico gesto di vittoria. Sugli altri sette SVA, in formazione a cuneo, gli altri piloti fanno cenni nello stesso modo. Inizia la discesa, 1000, 900, 800 metri! Gli abitanti di Vienna fuggono sentendo il boato dei loro motori sempre più vicini e riconoscendo il tricolore nemico dipinto sotto le loro ali. Alcuni rimangono bellamente a bocca aperta, con il viso rivolto all'insù, mentre una pioggia di volantini volteggia sopra le loro teste. Cinquantamila piccole bandiere italiane portano un messaggio di sfida ed un invito alla resa al contempo, sopra di esse le parole del Vate e di Ugo Ojetti, in italiano e tedesco: gli austriaci scelgano pure quale aggrada loro di più, ma si arrendano infine, non alle armi, bensì al coraggio indomito degli italiani!
Vienna, solo otto riuscirono a compiere l'intero volo, due dovettero rientrare poco dopo la partenza per un'avaria, un terzo invece, pilotato dal tenente Giuseppe Sarti, per un guasto dovette atterrare in territ orio nemico. Sarti fece appena in tempo a dare alle fiamme il velivolo prima di cadere prigioniero di alcuni ufficiali austriaci. Il volo su Vienna ebbe ampia eco in Italia, riaccendendo gli animi con una propaganda fatta non solo di parole ma anche di coraggio. Parimenti si ebbe una forte reazione anche a Vienna, dove i quotidiani austriaci accusarono le autorità di non essere in grado di gestire un possibile attacco: se infatti gli aerei fossero stati carichi di bombe si sarebbe verificato un terribile disastro, senza che la popolazione fosse avvisata in tempo e senza che alcun sistema antiaereo avesse rilevato e ostacolato l'incursione nemica. Un giornale rilevò già allora la stessa mancanza di cui Krauss, a fine guerra, accusò l'impero: ' Dove sono i nostri d'Annunzio?".
Quel che accadde dopo Degli undici velivoli partiti per l'impresa su
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Vt:K50 L'orrt:N51VA DI VITTORIO Vt:Nt:TO - --·•·-- classe dei giovanissimi del '900, come avrebbe combattuto? Come avrebbe resistito? Diaz non intendeva iniziare un'offensiva senza prima avere le spalle coperte dall'America .. . la speranza dell'apport o americano era l'unica vera garanzia che questa volta avrebbero piegato gli austro-tedeschi e, allora, la guerra sarebbe stata vinta. Del resto, non st avano forse i francesi ora già beneficiando dell'aiuto delle truppe a stelle e strisce? Ebbene, anche l'Italia aveva il diritto di avvalersene. Tuttavia, era costantemente pressato da richieste di offensive da parte degli alleati ed il suo procrastinare rischiava di costargli il ritiro delle ultime divisioni francesi e britanniche lasciate in Italia, con la scusa che potevano essere utili su alt ri fronti. Anche Diaz aveva pianificato un'offensiva generale sul Piave e attendeva il momento più propizio per attuarla, nel frattempo, per accontentare gli alleati, aveva predisposto un'azione dimostrativa sul fronte della l3 Armata sul Pasubio. Afferrò dunque la cornetta per contattare il Generale Pecari Giraldi e Cavallero.
DAL PUNTO DI VISTA DI...
iaz, presso il suo comando ad Abano, teneva fra le mani l'ennesimo telegramma di Orlando. La richiesta, nella consueta formulazione "sì, no, forse, ma veda lei", in buona sostanza era sempre la medesima: attaccare l'Austria-Ungheria. Secondo gli Alleati, non esisteva un momento più propizio: il Generale tedesco Ludendorff era impegnato a contenere la terribile offensiva degli Alleati (a cui si erano unite finalmente anche le truppe statunitensi) che stava tenendo sotto pressione l'esercito imperiale tedesco sul fronte francese. Inoltre, la guerra stava portando all'esasperazione il fronte interno in Aust ria così come in Germania, dove il dissenso continuava ad aumentare. Francia e Regno Unito insistevano dunque affinché questo momento di debolezza degli avversari fosse sfruttato per attaccarli in forze e l'Italia era t enuta a fare la sua parte. Grazie al cielo, rifletteva Diaz, ora nel suo Esercito le cose andavano diversamente, l'umore delle truppe non era nemmeno paragonabile a quello dei tempi di Caporetto. Il felice esito della Battaglia del Solstizio aveva avuto una risonanza positiva persino verso gli eserciti alleati, che ora si aspettavano uno sforzo ulteriore. Ma Diaz non voleva e non doveva dimenticare Caporetto, almeno lui la lezione l'aveva appresa. Non poteva chiedere troppo alle sue truppe, intendeva andarci piano: oramai, aveva un esercito di giovani per le mani. Già durante la Battaglia del Solstizio aveva cercato di risparmiare il più possibile i ragazzi del 1899, ma se la guerra si fosse protratta troppo? A seguire rimaneva la
Bargagli Petrucci, il Capitano al comando di un Gruppo Bombardieri chiamato a supporto della 1a Armata, si stava avviando anche quel giorno presso la zona di scarico dell'ultimo tronco di teleferica che, dalla valle ai piedi del Pasubio, arrivava in quota, ossia dove il Gen. Pecori Giraldi aveva spedito lui ed i suoi bombardieri. Petrucci, figlio di un conte, laureat o in legge, docente di storia dell'arte e Soprintendente dell'Istituto delle Belle Arti di Roma, ad inizio guerra non aveva esitato ad arruolarsi come volontario nei Lancieri di Novara, giacché, come gli intimava sempre il padre, il suo rango gl'imponeva d'esser cavaliere. Ben presto tuttavia, finì con l'interessarsi all'arma di artiglieria e, non appena vi fu occasione,
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chiese di essere messo al comando di un Gruppo di Bombardieri. Infatti, la bombarda, un'arma antichissima che a prima vista poteva sembrare una sorta di rudimentale cannone, aveva suscitato in lui un grande fascino: ancora ad avancarica, si rivelava indispensabile per colpire le trincee, giacché il suo tiro a parabola finiva con il cadere perpendicolare al terreno, dritto in testa al nemico. Al contrario, il tiro teso dei cannoni, a meno di non dover colpire un qualcosa di rilevato dal terreno - come un fortificazione od una postazione di montagnaera pressoché inutile contro le buche delle linee difensive, giacché la traiettoria del suo proietto viaggiava parallelamente al terreno, finendo con lo sradicare al massimo qualche guglia di filo spinato o qualche albero, ove non avesse incontrato altro. Il Capitano Petrucci, da qualche settimana era stato inviato sul Pasubio affinché le sue bombarde andassero a colmare gli spazi vuoti fra quelle già schierate in linea. Ebbene, questa richiesta non l'aveva digerita bene, giacché/ non gli andava di dislocare qui e là gli uomini e le armi della sua unità, peralt ro così ben affiatata ... ma questo si era rivelato ben presto il punto meno complicato della questione. Infatti, durante l'offensiva che sarebbe stata sviluppata di lì a pochi giorni, il Generale lo aveva incaricato di far eseguire ai suoi bombardieri un'azione che rasentava l'impossibile. L'obiettivo della sua sezione era quello di distruggere i reticolati della vetta del Dente in mano agli austriaci, nonché le teleferiche ed i baraccamenti che stavano dall'altra parte. Fin qui, tutto regolare. Ma dopo arrivava il bello: alla fanteria lanciata all'attacco occorreva garantire un fuoco di copertura che le spianasse la strada, man mano che si fosse spinta innanzi a conquistare terreno. Generalmente si risolveva il problema allungando il tiro, ma in questo caso non era sufficiente. Gli avevano dunque ordinato, una volta partiti i fanti, di smontare una Batteria di bombarde da 240 e, con l'aiuto del personale di
altre tre Batterie, di trasportarla a mano fin sul Dente Austriaco, per rimontarla subito e fare fuoco sul Col Santo e le retrovie avversarie. Tutta quell'operazione gli era sembrata fin da subito un'opzione impraticabile, davvero senza speranza, e si chiedeva se davvero non vi fosse alcuna alternativa... piuttosto sconfortato, stava riflettendo su queste considerazioni quando venne fatto chiamare dal Colonnello Comandante del settore. Subito, il Capitano gli fece notare che le bombarde non avevano ruote, non disponevano inoltre né di cavalli né di muli e pesavano parecchi quintali! Senza contare che tutta l'azione si sarebbe svolta sotto il fuoco nemico. E poi non bastava portare i tubi di lancio , vi erano gli affusti, i paioli, i sottopaioli, le cariche, le bombe che pesavano 68 chili l'una e che necessitavano di due uomini per trasportarle. E poi occorreva tempo per rimontare le bombarde, orientarle, fissarle e infine fare fuoco ... Il Colonnello aveva capito, ma rimaneva stranamente irremovibile. Il Capitano si rassegnò: aveva detto le sue ragioni ed ora non discuteva più, pronto ad eseguire l'ordine. Era oramai passata qualche settimana da quel colloquio, i suoi uomini avevano preparato tutta l'operazione con cura ed ora non vedevano l'ora di passare all'azione. Ma l'ordine di attaccare non arrivava mai. Qualcosa non gli tornava, eppure erano giunti in visita persino degli ufficiali Alleati, proprio per appurare che i preparativi per l'offensiva fossero a buon punto: si erano fermati a vedere le bombarde e gli avevano persino chiesto quale fosse il piano di attacco. Eppure, da quel momento, più niente.
Cavallero, Capo Ufficio Operazioni del Comando Supremo, era un colonnello di nuova nomina. Aveva ottenuto il suo incarico grazie al prestigio conquistato durante il ripiegamento di Caporetto e la sua partecipazione ai piani per la Battaglia del Solstizio. Era ora alle prese con quello che poteva divenire il piano di attacco per la battaglia
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Il Colonnello riprese a studiare le carte che definitiva, quella che avrebbe condotto alla tanto gli erano familiari, occorreva individuare vittoria. Diaz non si era ancora risolto a sferrare l'ennesimo colpo all'esercito austro-ungarico, la "cerniera" dell'esercito austro-ungarico, ovvero nonostante quel suo attendere il momento il punto di maggior debolezza, dove le armate opportuno gli venisse rimproverato pressoché andavano a toccarsi. Gli sembrò di aver fatto ovunque, soprattutto dagli immancabili ed quadrare il cerchio: i settori di montagna sarebbero intraprendenti strateghi da caffè e da Gazzetta. stati fermi ad impegnare le truppe avversarie in Ma molta più importanza stavano prendendo le combattimenti mirati a non far convergere le notizie, seppur confuse, che arrivavano in merito truppe sul Piave, dove sarebbe invece avvenuto alla "salute" delle nazioni avversarie: cechi, l'attacco decisivo, ovvero nel punto di contatto fra ungheresi, croati, sloveni erano in ammutinamento il Gruppo del Grappa e la 5a Armata avversarie. e stavano per proclamare la loro indipendenza, Lì avrebbe avuto luogo lo sfondamento vero e già da tempo influenzati dalle possibilità espresse proprio: la 10a, la 12a e l'8a Armata avrebbero dai quattordici punti proposti da Wilson a oltrepassato il fiume, dando all'armata "italiana", gennaio, che aprivano le porte al riconoscimento l'8a appunto, la possibilità di insistere sulla della libertà di autodeterminazione dei popoli. direttrice Conegliano - Vittorio, puntando infine L'unità dell'impero bicefalo stava scricchiolando verso Belluno. Proprio lì si trovava la principale fortemente ... tanto che anche l'Italia si era mossa via di rifornimento per le truppe austro-ungariche per approfittare di queste fratture. Orlando e schierate sul settore di montagna, interrompere Sonnino avevano convocato quanti erano in Italia quella via avrebbe segnato la loro capitolazione. Si alzò e chiamò il maggiore Ferruccio Parri fra rappresentanti di questi popoli "dissidenti" verso l'impero austro-ungarico e, con il Patto perché portasse a Badoglio le carte del suo di Roma, avevano dato loro la possibilità di piano: se avessero trovato la sua approvazione, combattere al fianco dell'Italia contro l'Austria per le avrebbe esaminate anche Diaz, per poi finire in la propria indipendenza. Avevano costituito così esame al Consiglio Interalleato di Versailles. ben due divisioni di prigionieri e disertori cechi e Parri era un giovane ufficiale di collegamento, slovacchi che ora rimpolpavano le fila italiane, ma sembrava si stessero muovendo in tal senso anche da poco assegnato al Comando Supremo dopo esponenti iugoslavi, romeni e polacchi. L'impero aver fatto un corso "someggiato", come usavano austriaco oramai consapevole della sua fragilità sminuirlo i colleghi, ovvero un corso "celere" interna chiedeva insistentemente la pace, la per il servizio di stato maggiore. Soltanto altri Germania cercava di trattare con Wilson affinché quattro ufficiali avevano avuto l'onore di essere la resa non fosse incondizionata ma Francia prescelti per quell'incarico così importante e di ed Inghilterra non ci stavano e insistevano nel fiducia e lui se l'era certamente meritato sul piegare militarmente la Germania guglielmina. Se campo, aveva infatti un buon numero di cicatrici l'Italia non si fosse gettata alla riconquista delle e ben tre medaglie d'argento a testimoniarlo. sue terre, i punti di Wilson avrebbero reso nullo Quel mattino, aveva consegnato a Diaz i piani il Patto di Londra e chissà ... Proprio per questo, per un possibile attacco italiano, firmati da Diaz si era infine convinto dell'inevitabilità di Cavallero e Badoglio. Parri era un appassionato sferrare un ultimo vero attacco. Aveva chiesto alle di geografia, come Cavallero del resto, infatti proprie armate alcune proposte su cui basare una possedeva nel piccolo ufficio assegnatogli i tre prossima offensiva, ma le risposte non lo avevano volumi del Trattato generale di Geografia di esattamente convinto, quindi aveva chiesto a lui Hermann Wagner, tradotti in italiano proprio dal Colonnello. Sulla parete invece, troneggiava di lavorarci.
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fare, ai soldati e probabilmente sarebbe sceso solo molto più tardi, a piedi fino al Pian delle Fugazze. Orbene, Petrucci aveva ben altro di cui occuparsi: per prima cosa avrebbe dovuto litigare, per l'ennesima volta, con il teleferista che non ne voleva sapere di far salire in quota gli ultimi proietti previsti per le sue bombarde. Il Capitano era piuttosto preoccupato, oramai era arrivata la fine di settembre e ci si aspettava l'ordine di attaccare sul Pasubio a momenti. Invece, del tutto inaspettato, il Colonnello Cambria gli si parò innanzi e gli consegnò nuovi ordini del Comando di Divisione: "La stavo cercando", disse "smonti tutto, deve spostare le sue bombarde sul Piave, l'attacco avverrà lì!" n Capitano rimase di stucco: "Ma come? E perché mai questo cambio di rotta?". "Non se la prenda", rispose il Colonnello, "sembra che questo fosse il piano fin dall'inizio. L'abbiamo fatta venire qui per ingannare il nemico: come avrà visto, non appena lei ha schierato le sue bombarde su questa zona del fronte, l'esercito imperiale si è subito premurato di preparare il comitato d'accoglienza dall'altra parte del Pasubio, con tanto d'artiglieria di grosso calibro. Mentre loro concentrano qui le loro forze, credendo che l'offensiva abbia luogo su questi monti, noi invece li sorprenderemo attaccando sul Piave." Il Capitano non sapeva se esserne contento o scontento. Si era quasi abituato all'idea di quell'azione, i suoi uomini non vedevano l'ora di partecipare al combattimento ed ora invece doveva comunicare loro che si sarebbe ricominciato tutto da capo, sul Piave. "Il Generale le vuole già far sapere che, dalle rive del Piave, dovrà bombardare San Pietro in Barbozza e Santo Stefano" continuò il Colonnello, allungandogli delle mappe. Petrucci, srotolò i cartigli, fece due calcoli mentali e sbottò esasperato: "Ma per riuscirci dovrei piazzare le mie bombarde nel bel mezzo del fiume!". "Buona fortuna allora!" Il Colonnello sorrise.
un enorme cartina del fronte, che egli stesso aveva reperito non senza una certa fatica. In quel momento, era occupato a scrivere un problematico riassunto sulle faccende di numerose armate che Cavallero, puntiglioso com'era, voleva sintetico ed esaustivo. Possibilmente in quattro righe. Era quello il tormento di tutti gli ufficiali del reparto, che in gergo chiamavano il "cavalluccio", ovvero un sunto di carattere generico di poche righe in cui, secondo i superiori, potevano benissimo far rientrare anche la Divina Commedia. D'un tratto sentì aprirsi d'impeto la porta, sollevò lo sguardo dal proprio foglio e scorse Diaz entrare stizzito per poi piazzarsi davanti all'enorme carta appesa, fissandola e cercando di trovare una località. Farri scattò subito in piedi sull'attenti, fra l'attonito ed il contraddetto, non osando proferire verbo. Dopo qualche istante, Diaz volse seccato il viso verso di lui e indicando con il dito la carta disse: «Addo' sta stu c... 'è Vittorio?!». Pani sorrise, Vittorio era un paese troppo recente per quella vecchia mappa, non lo avrebbe trovato di certo: sulla carta c'erano solo i nomi originari dei due paesi che, uniti, formavano quel centro abitato, ovvero Serravalle e Ceneda. Bargagli Petrucci, piuttosto irritato, si stava dirigendo di gran carriera verso la postazione telefonica che gli avrebbe permesso di comunicare con le stazioni teleferiche del Pasubio. Gettò uno ~guardo distratto ad un gruppetto di soldati stranamente inquadrati ed evidentemente emozionati, finché non notò il motivo di tanto scompiglio: il Re! Doveva essere salito in teleferica, ecco perché tutto si era fermato! Da un giovane tenente, seppe che aveva già visitato tutte le postazioni, si era affacciato a tutte le bocchette, percorso tutte le trincee. Si era fermato a guardare con il binocolo le posizioni nemiche, facendo fotografie dal parapetto e sul parapetto, facendo stare con il fiato sospeso i Generali che lo accompagnavano e non osavano avvertirlo del pericolo per non essere ringraziati della troppa premura. In quel momento stava parlando, come era solito
Don Bonini, era cappellano militare presso la Brigata Bisagno, inquadrata nella 3a Armata del Duca d'Aosta, che presidiava il tratto di
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fronte che da Nervesa giungeva al mare. Stava per intrattenere le truppe distraendole dal passeggiando nelle retrovie, osservando i triste luogo di fatica e morte che dovevano soldati che erano impegnati in attività ludiche, ciclicamente affrontare. Ora, quando era durante il meritatissimo turno di riposo. Sorrise possibile, i soldati potevano persino concedersi quando gli giunse alle orecchie il motivetto di qualche passeggiata nelle città vicine, giacché una canzone che lui stesso aveva scritto per oramai la popolazione era tutta dalla parte loro: "Ai dolci passi del piano/ o folle tedesco dei soldati, dato che dopo la rit irata sul Piave non scendi!/ Ricorda che al varco aspettiamo/ era sparito ogni rigurgito di "disfattismo". noi, piccoli fanti tremendi/ che fummo di E quale sollievo anche per i ragazzi, poter guardia a Lossòn!" La battaglia di Lossòn non dormire qualche giorno lontano dal fronte, avrebbe mai smesso di riecheggiare nei racconti senza i bombardamenti nelle orecchie ed di quella guerra, pensò il sacerdote, troppo il pensiero che quelle esplosioni potessero grande e ardita fu l'impresa che vide quei soldati toccare anche i ricoveri nei quali stavano riconquistare la pericolosissima testa di ponte riposando! Ad ogni buon conto, gli ufficiali del austriaca che si protendeva nelle terre oltre la servizio P, continuavano ad essere gli occhi e le barriera del Piave ... "Da quelle tombe, a sera/ orecchie di Diaz fra i soldati al fronte, stilando si leva una canzon:/ Sorgono stretti in schiera/ periodicamente dei resoconti sull'umore i Morti di Lossòn ... " continuava la canzone. delle truppe. Questi documenti potevano Quanti morti in quei giorni e quanti feriti! Ma essere letti ma non modificati dagli ufficiali quella vittoria aveva rinvigorito tutti. Persino in comando: si voleva infatti evitare l'errore il Gen. Sanna, l'indomani dell'impresa, li aveva di Caporetto, ossia che gli ufficiali potessero elogiati nell'ordine del giorno. Quante cose sottovalutare i malumori delle truppe. Vennero erano cambiate da Caporetto, stentava quasi a anche istituite delle polizze assicurative, che riconoscerli i suoi soldati, perlomeno quelli che avrebbero rimborsato le famiglie in caso di erano sopravvissuti. Doveva ammetterlo, Diaz morte del congiunto. Questo provvedimento ci sapeva proprio fare. Dopo Caporetto, aveva era stato essenziale nel rinfrancare l'animo implementato negli obiettivi, nella struttura dei soldati meno abbienti, che temevano di e nel coinvolgimento della società civile il lasciare le famiglie ancor più povere con la loro servizio P, di propaganda, che si occupava in dipartita. Certo, potendo scegliere, era meglio toto del benessere dei soldati e dello spirito sopravvivere, ma se proprio la mala sorte li combattivo delle truppe. La spettanza rancio doveva toccare, era anche confortante avere era finalmente migliorata ed i turni di riposo la certezza di ricevere le tradizionali esequie: erano rigorosamente rispettati. Le truppe più infatti, Diaz aveva ripristinato, ove possibile, valorose in battaglia non erano più "spremute" l'uso di seppellire i defunti con un funerale fino all'ultimo, come accadeva sotto Cadorna, anche nei pressi del fronte, al posto di un ma anche a loro era garantito il riposo al pari interramento veloce. Anche per gli ufficiali degli altri, limitando così di fatto le diserzioni. le cose erano cambiate: i "siluramenti" tanto Infatti, le ribellioni erano state più frequenti rapidi di Cadorna erano oramai un ricordo, proprio fra le truppe più valorose, a causa della mentre, per contro, si tentava di raggiungere stanchezza esasperata dai turni massacranti, un migliore utilizzo delle risorse, basato sulle richiesti proprio in virtù del loro successo reali capacità di ciascuno. Il Comandante in guerra. Ora, le valenti imprese venivano Supremo aveva dato prova di volersi fidare dei premiate con una medaglia ed una sosta dai propri collaboratori, la sua mente era aperta combattimenti, non certo con un altro giro in alle novità ed alle proposte, tanto che più di prima linea! Quanto al riposo nelle retrovie, una volta aveva accolto buone idee e sostenuto erano stati chiamati gruppi di attori ad esibirsi iniziative non provenienti direttamente presso i dormitori o piccoli teatri al fronte, dall'Alto Comando. Don Bonini ne aveva avuto
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lui stesso riprova, come nel caso della rete di spie organizzata addirittura da alcuni ufficiali di complemento, tra cui il Manacorda, che il sacerdote conosceva bene proprio perché stava lì con lui, nella 3a Armata. Tanto era importante per Diaz questa condivisione di idee, che aveva previsto di impegnare i comandanti in riunioni periodiche in cui ciascuno portava le proprie esperienze positive dal fronte, ossia come era stato possibile superare un'impasse piuttosto che portare a buon fine un attacco utilizzando un approccio inedito. Senza contare il coinvolgimento dei comandanti delle truppe francesi e britanniche in un proficuo scambio di idee e tattiche militari, creando così una perfetta sinergia tra eserciti
differenti sul campo. Don Bonini tutto questo lo aveva inteso ed appurato in tanti mesi al front e, ascoltando le innumerevoli confidenze di soldati e ufficiali di ogni grado, protetti dal segreto della confessione. Ora si era fermato ad osservare quelli che soleva chiamare "i suoi ragazzi": alcuni dei soldati più giovani, poco più che adolescenti, erano intenti a scherzare fra loro, gettati per terra su un lacerto di prato. Li benedì nella sua mente e alzò una preghiera a Dio, che ben facesse intendere a Diaz come finire quella guerra ... "magari vincendo eh?!" Si preoccupò di raccomandare alla fine. Chinò il capo e si diresse al camposanto accanto all'ospedale di retrovia, anche quel giorno lo avrebbe atteso l'ennesimo triste uffizio.
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• I principali luoglù menzionati nel testo • La collocazione e l'orientamento delle tavole grafiche che accompagnano il racconto
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IL C.ANTO N05TALQIC.O DLI C.LC05LOVAC.C.111 CONTESTO STORICO
ll'interno dell'AustriaUngheria, molti erano i malumori tra le popolazioni, con spinte anche indipendentistiche sempre più manifeste. Del resto, la stessa guerra era iniziata proprio a causa di un separatista serbo-bosniaco, dunque non ci si doveva stupire che, soprattutto negli ultimi anni del conflitto, altri popoli, le cosiddette "nazionalità oppresse", decidessero di "sfruttare" il clima di guerra per cercare di ottenere la propria indipendenza dall'Impero asburgico. Fin dall'inizio del conflitto, alcuni prigionieri austriaci avevano dichiarato di voler combattere accanto all'Italia, in cambio del riconoscimento della loro nazionalità, fra questi vi erano romeni, polacchi e soprattutto cecoslovacchi. Questi ultimi in particolare, si organizzarono intorno alla figura del Generale Milan Rastislav Stefanik già dal 1916, riuscendo a conquistare il diritto di partecipare ad operazioni di spionaggio (ben si possono immaginare le remore dei Comandi nell'arruolare dei prigionieri dell'esercito avversario!). In un primo momento vennero impiegati per opere di propaganda verso il nemico: furono infiltrati fra i prigionieri austro-ungarici nei campi di detenzione per ottenere informazioni, oppure mandati nelle trincee in piccole unità "di contatto",
della medesima nazionalità ancora fedeli all'impero asburgico, mirando ad indebolirne il morale, ricavarne informazioni e favorirne la diserzione. Il loro operato fu efficace, tanto che a partire dall'aprile 1918 si iniziò la costituzione del Corpo Cecoslovacco in Italia, riconosciuto in data 3 maggio 1918 al rango di divisione. Il 24 maggio 1918, a Roma, sull'Altare della Patria, venne consegnata solennemente la bandiera di combattimento ad una rappresentanza del Corpo Cecoslovacco in Italia, la cerimonia ebbe luogo alla presenza del Presidente del Consiglio, Vittorio Emanuele Orlando, e di altri membri del Governo. Era ufficialmente nata la Legione Cecoslovacca, che da quel momento avrebbe imbracciato anche le armi al fianco degli italiani, indossando l'uniforme grigioverde. Ai legionari vennero affidati due simboli di quella che allora era considerata l'eccellenza militare: il cappello alpino ed il pugnale degli arditi. Tuttavia, sul cappello, al posto dell'aquila, venne cucito il falco, il sokol, che rinviava alla ideologia dell'omonimo movimento irredentista cecoslovacco, fondato nel 1862. Fu proprio questo il primo riconoscimento ufficiale del diritto di affermarsi della Nazione Cecoslovacca agli occhi del mondo. Giacché i legionari erano considerati traditori dell'impero austro-ungarico, se catturati, sarebbero stati giustiziati per impiccagione ed
incaricate
esposti àl pubblico ludibrio.
di
avvicinare
soldati
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onte Altissimo, 5 ottobre 1918, ore 23:00 (Illustrazione 16 a p. 103) Il giovane soldato cecoslovacco Milos, aspetta pazientemente in trincea l'arrivo dei suoi compagni. Erano andati a procurarsi della cioccolata e del pane, giacché la sera precedente li avevano esauriti tutti nella loro consueta missione. Questo era davvero l'ultimo tentativo, l'indomani sarebbero partiti per raggiungere a Padova il neonato Comando del Corpo d'Armata Cecoslovacco, agli ordini del Generale Graziani. Nelle ultime settimane, erano riusciti ad avere qualche contatto promettente con il nemico appostato nelle trincee di fronte a loro: dai
quattro sparuti dialoghi notturni che erano riusciti ad intavolare, avevano inteso che là vi fossero almeno tre cecoslovacchi in preda alla tentazione di disertare. Se avessero insistito, forse avrebbero ottenuto informazioni utili all'offensiva italiana che sarebbe iniziata a breve. Oppure gli austriaci li stavano gabbando solo per prendersi il pane e la cioccolata, che Milos ed i suoi puntualmente lanciavano dall'altra parte, tutto era possibile. Quel giorno aveva saputo dal Colonnello che, qualche giorno prima, in un discorso al Parlamento, Orlando aveva pubblicamente riconosciuto il Consiglio Nazionale Cecoslovacco come la base.del futuro Governo della Cecoslovacchia. "È davvero fatta!" pensa Milos "L'indipendenza è così vicina!!!" Lo vuole comunicare anche agli austriaci al di là del filo spinato, sperando che non pensino ad uno scherzo, ordito per convincerli a disertare.
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Veduta del Lago di Garda dal Monte Altissimo
grosso masso adatto a proteggerli nel caso gli austriaci dovessero decidere di non gradire più la loro visita e di voler sparare qualche colpo. Mentre gli altri due rimangono stesi a terra, Milos si accovaccia sotto al masso, estraendo la sua chitarrina. Uno dei suoi compagni sta per lanciare di là pane e cioccolata, ma viene bloccato da Milos, che inizia subito a suonare sommessamente un motivo dolce e nostalgico. Quelle poche note, sembrano riscaldare il buio della notte fredda, in un'atmosfera surreale e senza tempo. Ecco che canta nella lingua natale, con la bella voce fonda, un canto colmo di malinconia: "Dov'è la casa mia?/ Dov'è la Patria mia?/ Nella regione, se la conosci, diletta da Dio/ ... Quella è la terra bella, la terra Boema, la Patria mia". D'un tratto, alla sua voce se ne uniscono altre, "cecoslovacchi austriaci" e "cecoslovacchi italiani" cantano della loro terra fino alle lacrime quella notte, la loro bella Patria che sta anelando alla libertà.
Finalmente i suoi compagni sono arrivati: si riempiono il tascapane di cioccolato e gallette, Milos infila la sua piccola chitarrina nello zaino che tiene sulle spalle e si avviano. "Oh no, ti porti ancora quell'aggeggio infernale?" lo pungola il suo compagno, indicando il contenuto dello zaino. Milos sorride iniziando a salire la scaletta che conduce fuori della trincea, nella terra di nessuno che li separa dalle linee avversarie. L'aveva trovata la prima notte in cui era giunto nel campo di prigionia italiano. Era semi distrutta, così l'aveva aggiustata con le sue mani e, anche se il suono non era dei migliori, era sempre meglio di niente. Milos, seguito dai suoi compagni, si spinge sempre più avanti, procedendo a carponi in direzione della trincea nemica, in un punto che di giorno è impossibile raggiungere senza finire impallinato. La luna è coperta, nel buio si percepiscono soltanto ombre indistinte. Se non conoscessero quel luogo come il palmo della mano, a quell'ora sarebbero già ruzzolati di sotto, per quella ripida dorsale erbosa che sovrasta il Lago di Garda. Di giorno, da lassù, la vista di quello specchio d'acqua incastonato fra i monti è davvero mozzafiato. I giovani soldati strisciano a terra trattenendo il respiro, finché non raggiungono la posizione prefissa, ossia un
Quel che accadde dopo Se i "cecoslovacchi austriaci" cedettero o meno alla tentazione di disertare di fronte al canto di Milos, non lo sappiamo. Milos infatti è uno dei due personaggi di questo volume a non avere una precisa corrispondenza con la realtà, ma
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al suo posto esistettero davvero centinaia di soldati come lui. Infatti, abbiamo voluto qui raccontare un episodio che riflette la vera storia dei tanti soldati della legione cecoslovacca che operarono sul fronte italiano per convincere i compatrioti a disertare, il cui nome è stato taciuto dalla storia. Certamente alcuni di loro pagarono caro questo approccio al "nemico", senz'altro pericoloso. Ancora più numerosi
furono i legionari che combatterono e perirono con le armi in pugno al fianco dell'Italia, molti caddero prigionieri degli austriaci e furono impiccati come traditori. In alcuni paesi, i loro nomi sono scolpiti in monumenti dedicati al loro sacrificio, come nel caso di Antonin Jezek, Josef Jiri Slegl, Vaclav Svoboda e Frantisek Karel Novacek ad Arco.
Milos intona il suo canto, mentre il commilitone si appresta a lanciare la cioccolata agli avversari
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MAPPA 5EMPLIFIC.ATA N. 4
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• I principali luoghi menzionati nel testo • La collocazione e l'orientamento delle tavole grafiche che accompagnano il racconto
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SOLDATI IN QONDOLAI
CONTESTO STORICO
'offensiva italiana per come era stata concepita da Cavallero, prevedeva due attacchi contemporanei: il primo, sul Piave, prevedeva l'attraversamento del fiume da parte delle truppe di Caviglia, che sarebbero infine avanzate in direzione prima di Vittorio, poi di Belluno; il secondo, sul settore del Grappa, era comandato da Giardino e aveva il compito di superare le difese austroungariche per dirigersi verso Feltre. L'attacco mosso da Caviglia sul Piave, vedeva il concorso di altre due piccole armate, disposte come sue ali a destra e sinistra, che avevano il compito di supportare l'azione principale nonché rispondere ad un'esigenza di opportunità politica verso gli Alleati. Dunque, a sinistra dell'8a di Caviglia, vi era la 12a Armata, costituita da tre divisioni italiane ed una francese, affidata al generale francese Jean César Graziani, con obbiettivo il Monte Cesene poi Feltre; a destra la 10a, formata da due divisioni italiane e due britanniche, comandata dal generale inglese Lord Cavan, con obiettivo il fiume Livenza. Nonostante i due attacchi sul Grappa e sul Piave dovessero essere sferrati all'unisono, la cosa risultò impossibile per la pioggia abbondante che aveva gonfiato terribilmente le acque del Piave, causandone la piena, con grande disappunto di tutti. Così Prezzolini: "Appena aperta l'offensiva, il Piave si mette a fare l'austriaco: sta piovendo e lui si gonfia ", mentre l'altrettanto deluso Marinetti sosteneva che il fiume si era presentato alla prova ubriaco oppure era impazzito. Le sue acque, che tanto erano risultate opportune e "italianissime" nel momento della piena durante la Battaglia del Solstizio, ora non ne volevano sapere di aiutare il Regio Esercito a riconquistare i territori persi a Caporetto. L'offensiva, per come è riportata nei documenti ufficiali, vide quindi i generali italiani costretti a ordinare l'attacco prima sul Grappa, il 24 ottobre, e solo qualche giorno dopo sul Piave, una volta placata la piena. Tuttavia, se la storiografia ed i bollettini di guerra riportano come data di inizio dell'offensiva proprio la mattina del 24 e soltanto sul Grappa a causa della piena del Piave, è parimenti accertato che, proprio nella notte del 23, le acque del patrio fiume furono solcate da una davvero insolita e temeraria traversata, su iniziativa delle truppe britanniche ...
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ido delle Grave di Papadopoli, 23 ottobre, ore 23:00
(Illustrazione 17 all'interno della pagina precedente) È buio, una nebbia fitta copre ogni cosa, lo scorrere irruente della piena del Piave si ode dalla prima linea italiana, a circa 50 metri dalle sponde, ma non si vede nulla. Occorre accostarsi al fiume, arrivare ad inzaccherarsi le scarpe, prima di vedere apparire nella notte la sua ombra scura e turbinosa, sotto una coltre di nebbia appena dispersa dal movimento delle acque e illuminata da qualche pallido raggio di luna. "È un suicidio", pensano i soldati brita~nici, i cui volti sono pallidi come la morte che si vedono innanzi, pur non osando dire nulla. I reparti d'assalto del 21 ° Battaglione della Honourable Artillery Company (H:A.C.) e del 1 ° Battaglione dei Royal Welsh Fusiliers, sono fermi a pochi metri dalla sponda destra del Piave, in attesa (a sinistra dell'immagine). Non si curano nemmeno di nascondersi, per non farsi vedere dagli austriaci appostati sull'altra riva, poiché la visibilità è praticamente nulla. Il loro comandante, il generale Shoubridge, è intento a comunicare sommessamente con un giovane capitano italiano, grazie all'aiuto di un interprete. D'un tratto, si vedono scendere dal fiume delle imbarcazioni dalla sagoma decisamente famosa, sembrano gondole, con tanto di barcaioli armati dei classici lunghi remi! Appaiono nella nebbia come tante piccole imbarcazioni fantasma, solcano quelle acque turbinose e mortali con la consueta eleganza, come se il fiume non le lambisse nemmeno, consentendo ai gondolieri di condurle docilmente verso di loro. Quando le barche si accostano alla riva, i soldati britannici possono salirvi sopra, appurando che l'eleganza e la facilità con la quale le barche erano giunte fin lì, ha provato non poco i barcaioli italiani a bordo, che devono fare una fatica del diavolo per governare il natante in mezzo alla piena. Dodici "gondole", sette soldati britannici per gondola, in pochi
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Soldati britannici salgono sulle "gondole" italiane
minuti un nutrito gruppo del reparto d'assalto è in grado di mettere piede sull'isolotto del Lido in mezzo al Piave, attaccando di sorpresa le truppe austro-ungariche che lì avevano le prime trincee destinate a proteggere l'obiettivo principale, l'isola maggiore di Papadopoli. Gli austriaci si trovano sopraffatti dall'improvviso e inaspettato attacco sul fianco dello schieramento, non sanno come spiegarsi l'arrivo del nemico in mezzo alla nebbia e con il fiume talmente arrabbiato da essere la miglior barriera possibile, in un punto in cui la sua ampiezza supera persino i sessanta metri! Dalle linee attaccate parte qualche razzo di segnalazione nel tentativo di far luce nel buio e nella nebbia, ma invano: nel marasma i soldati del XVI corpo austro-ungarico si difendono come possono ma vengono ben presto sopraffatti. Poco lontano, sulla riva destra del fiume, alcuni soldati scozzesi con l'inconfondibile kilt (a destra dell'immagine), dopo essersi coordinati con le altre truppe britanniche, si stanno avviando per raggiungere i colleghi a sud delle grave di Papadopoli, dovendo oltrepassare le acque in quel punto al fine di conquistare un'altra testa di ponte per facilitare l'irruzione di Caviglia dal Montello.
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Quel che accadde dopo I barcaioli del capitato Odini, erano dei soldati che prima della guerra facevano i gondolieri a Venezia e che furono appositamente convoca.ti per l'impresa. Essi continuarono anche nei giorni seguenti con le loro imbarcazioni simili a gondole ad aiutare i soldati britannici nel tentativo di conquistare le Grave di Papadopoli, cercando di superare il problema del fiume in piena che non consentiva il gittamento di ponti o passerelle e rendeva ingovernabile qualsiasi altro natante. La sera del 26 ottobre, il comando austriaco stava già organizzando una controffensiva, per liberarsi della spina nel fianco della testa di ponte conquistata dai britannici sul Lido, quando, essendosi sopit a
la piena del Piave, i genieri italiani riuscirono finalmente a completare il primo ponte a Salettuol, così da consentire alle truppe di Shoubridge di attraversare in forze il fiume, contrastando adeguatamente il nemico. I diarist i britannici furono i primi a dare il merito dell'impresa agli italiani: "E' impossibile esagerare parlando dell'assistenza prestataci allora dai barcaioli it aliani. La loro abilità era semplicement e fantastica. Da principio eravamo dubbiosi, poi, incredibilmente, il miracolo era sotto i nostri occhi. [ ... ] abilità a parte, anche il loro impegno indefesso e coraggio sono stati eccezionali. Nessuno degli stranieri ha fatto per l'esercito britannico più del capitano Odini nelle notti dal 23 al 26 ottobre".
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Soldati britannici sbarcano sull'isolotto del Lido in mezzo al Piave
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VIKID\JS \INITIS: L'\JNIONr. rA LA rOKZA CONTESTO STORICO opo la ritirata di Caporetto, l'Austria-Ungheria aveva tentato più volte di aggirare via mare le linee difensive italiane disposte sul Piave, tentando uno sbarco nei pressi di Venezia. A difesa della laguna, così come di tutte le coste italiane, operava la Marina Italiana, con truppe di mare e di terra. Contro le incursioni austro-ungariche, la Regia Marina aveva già dato prova di carattere, attaccando con i MAS i porti avversari, come nel caso di Buccari e Trieste. Tuttavia, gran parte della flotta austriaca trovava riparo nel porto di Pola, una vera roccaforte naturale facilmente difendibile con pochi e ben muniti presidi. Colpire quella rada significava dunque mettere in seria difficoltà l'intera flotta austriaca, ecco perché Pola rimase un chiodo fisso per gli italiani, fino alla fine di novembre 1918. In particolare, un Tenente medico della Marina Militare, un certo Raffaele Paolucci, non si dava pace. Da più di un anno si allenava duramente nelle acque gelide della laguna, con l'obiettivo di riuscire in un'impresa davvero ardita: superare le difese subacquee dell'insenatura di Pola grazie ad un MAS (motoscafo armato silurante), lasciarlo all'imbocco del porto per non essere visto, proseguire infine a nuoto per andare a minare una nave da guerra austriaca, naturalmente conducendo con sé l'ordigno necessario a farla saltare in aria. Il Capo di Stato Maggiore della Marina, Paolo Thaon di Revel, era un uomo particolarmente incline a promuovere le iniziative dei suoi uomini, specialmente se innovative sotto il profilo tattico. Quando Paolucci di propose di tentare quell'impresa, decise di incoraggiarlo, nonostante non confidasse molto che un solo uomo potesse portare a buon fine una tale missione tutto da solo. Da qualche mese, un Maggiore del genio navale, Raffaele Rossetti, stava lavorando ad un promettente mezzo, una torpedine semovente che aveva ribattezzato "Mignatta". La forma era quella di un siluro, era dotato di motori ad aria compressa e due alloggiamenti in testa / per ordigni a tempo. Lo scopo di t ale marchingegno, era quello di permettere lo spostamento silenzioso in mare di due operatori muniti di cariche esplosive (di 17 5 chili l'una con spoletta comandata a tempo), che avrebbero così potuto avvicinare una nave da guerra senza essere uditi, ancorare alla sua chiglia le bombe a scoppio ritardato ed avere il tempo di allontanarsi prima dell'esplosione. Naturalmente il tutto doveva avvenire durante la notte. Thaon di Revel pensò che se i due Raffaele fossero riusciti a raggiungere i loro obiettivi, l'unione delle loro forze avrebbe reso possibile un'impresa memorabile!
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ido di Venezia, 23 ottobre, ore 23:00 (fllustrazione 18 a p. 111) Stanno nuotando da appena tre ore ed il freddo delle acque gelide della laguna si faceva sentire. Prima di entrare in acqua, Raffaele
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Rossetti e Raffaele Paolucci si erano cosparsi del consueto olio canforato sotto la tuta di stoffa impermeabile: dagli esperimenti che il Tenente medico aveva condotto su di sé fino a quel momento, sembrava quello l'unico sistema che aiutasse un poco a resistere alle basse temperature di quelle acque, in cui sarebbero rimasti immersi per almeno altre 4 ore. Quello era uno degli ultimi allenamenti notturni
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che avrebbero potuto fare prima della loro missione, prevista di lì ad una settimana. A momenti sarebbe iniziata l'offensiva italiana e loro vi avrebbero partecipato con un'azione davvero ardita! Paolucci si sente percorrere da un brivido d'eccitazione, mentre cerca di resistere alle onde del mare, reggendo una grossa pietra fra le mani, allenandosi a sostenere la fatica del manovrare la "mignatta" anche a motori spenti. Chiama il compagno con un gesto, è ora di tornare al porto, passando sotto il naso delle vedette italiane che non sanno del loro allenamento. Rischiano di finire impallinati dai loro stessi compagni, ma anche quello fa parte della loro preparazione: a Pola li avrebbero attesi le vedette austriache e loro dovevano abituarsi ad essere invisibili e silenziosi, muovendosi nell'acqua come pesci. Anche per questo, si erano inventati un copricapo a forma di fiasco, cosicché, in caso di avvistamento, avrebbero scambiato le loro teste per bottiglie vuote alla deriva. Tornano a nuoto al molo, Rossetti è evidentemente stremato, giacché si sta allenando all'impresa solo da qualche mese, mentre Paolucci nuota così da oltre un anno. Legata al molo, c'è l'invenzione di Rossetti, quella che oramai chiamano "mignatta", perché la forma ed il tipo di ancoraggio delle sue mine fanno pensare al fastidioso verme acquatico. A sorvegliare l'apparecchio, vi è un marinaio della Brigata Marina, che appena li vede arrivare slega le cime e le getta verso di loro. "Si traina!" mormora fra sé e sé Paolucci, stringendo i denti e mollando la grossa pietra vicino alla riva. I due giovani ufficiali iniziano a trainare quella specie di siluro, finché Rossetti non decide che è ora di provarne ancora una volta l'efficienza, accendendo i motori e facendosi trasportare per un lungo tratto di costa. Paolucci indica un punto ben lontano da dove si trovano in quel momento. Rossetti sospira, sa che il ritorno lo avrebbero fatto tutto a nuoto, trascinando a peso morto la sua splendida invenzione. Rossetti accende i motori della Mignatta che, silenziosa, li fa correre veloci sulle onde del mare, facendoli sentire fieri ed invincibili.
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Quel che accadde dopo Qualche giorno dopo, il 31 ottobre, Rossetti e Paolucci furono accompagnati da un MAS fino all'imbocco del porto di Pola, da qui proseguirono trainando la Mignatta a motore spento oltre gli sbarramenti di sicurezza del porto, infine la misero in moto e giunsero in prossimità della corazzata austriaca Viribus Unitis alle 4:45 del 1 novembre. Rossetti riuscì ad ancorare il primo ordigno allo scafo della nave ed ad innescarlo, ma non appena raggiunse Paolucci che lo attendeva governando la mignatta fra le onde generate dal brutto tempo, le sentinelle nemiche li scoprirono, illuminandoli con un proiettore. Furono catturati, ma prima Paolucci riuscì prontamente ad innescare anche il secondo ordigno ed ad affondare la mignatta, che andò a posizionarsi sotto al piroscafo Wien, ormeggiato a poca distanza. Quello che non sapevano i due ufficiali era che l'Austria-Ungheria, poche ore prima, resasi conto che oramai la guerra era persa, aveva ceduto tutta la sua flotta ad uno stato neutrale appena formatosi, lo Stato degli Sloveni, dei Croati e dei Serbi (non ancora riconosciuto), allo scopo di impedire che le proprie navi finissero in mano agli Stati dell1ntesa. Paolucci e Rossetti, non appena vennero a conoscenza del fatto, preferirono salvare l'equipaggio della nave, comunicando al comandante della Viribus Unitis, Janko Vukovié, che a bordo si t rovava un ordigno. La nave fu evacuata, ma poiché l'esplosione tardava ad avvenire, il comandante pensò che avessero mentito e risalì a bordo con l'equipaggio ed i due incursori italiani. La bomba saltò in aria poco dopo, la corazzata affondò in pochi minuti, Rossetti e Paolucci riuscirono a salvarsi tuffandosi in mare, ma il comandante della nave fu meno fortunato e perì a seguito dell'esplosione insieme ad una parte dei suoi uomini. Poco dopo, una seconda esplosione danneggiò anche il piroscafo Wien. I due ufficiali furono liberati il giorno dopo l'armistizio e vennero insigniti della Medaglia d'oro al valor militare. Conclusa la guerra, venuti a conoscenza del precario stato economico della vedova del Comandante Vukovié, decisero di aiutarla economicamente, pagando gli studi al figlio che divenne medico a Vienna.
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CONTESTO STORICO
econdo gli ordini dii.ramati dal Comando Supremo, i movimenti delle truppe al fronte dovevano terminare entro il 10 ottobre e le azioni offensive da parte di tutte le armate coinvolte sarebbero dovute iniziare il giorno 16 ottobre, con l'azione determinante sul Piave. Invece, le piogge e la piena del fiume avevano tenuto bloccato il Regio Esercito in pianura, impossibilitato a superare in forze le acque vorticose del corso d'acqua. Per questa ragione, l'attacco fu procrastinato di una settimana, mentre l'azione principale venne spostata sui monti. Di conseguenza, sul Grappa la 4a Armata dovette iniziare l'offensiva, prevista per il 24 ottobre, da sola. Infatti, se inizialmente aveva ricevuto ordine di cooperare con un attacco preparatorio e diversivo all'azione principale dell'8a , 10a e della 12a Armata, successivamente gli ordini erano cambiati: ora doveva attaccare a fondo, doveva dare ai nemici l'impressione che lo sforzo principale, finalizzato allo sfondamento, fosse incentrato sui monti, a partire dal massiccio del Grappa.Proprio li, fra le cime del noto massiccio, si trovava il Monte Pertica, uno dei baluardi più contesi della Prima Guerra Mondiale. Legato a cima Grappa da un ripida cresta, si rivelava una postazione di estrema importanza sia per una fazione che per l'altra. Le linee difensive del Pertica proteggevano l'accesso alla ben più importante roccaforte di Cima Grappa e per questo i cannoni della Galleria Vittorio Emanuele m le tenevano sotto controllo, cannoneggiandole senza tregua non appena l'esercito imperiale ne prendeva possesso. Gli austriaci, d'altro canto, avevano pensato bene di occupare la dorsale alle spalle del Pertica, il Vallon, ricco di cavità nelle quali poter ammassare grandi quantità di uomini e materiali, al riparo dal fuoco dell'artiglieria italiana. Un grande concentramento di forze veniva dunque periodicamente impiegato da parte austriaca nel mantenersi saldi alla vetta, mentre con altrettanto impegno veniva ritentata la conquistata da parte italiana, al fine di mantenere le truppe avversarie il più lontano possibile dal passaggio che conduceva alla cima. Fu così che quel monte finiva tanto più spesso a rassomigliare ad un inferno, in un perenne ribollire di scontri a corpo a corpo e terribili bombardamenti, inferti dalle artiglierie di entrambi gli schieramenti, che spesso non riuscivano stare al passo con i repentini cambi di possesso delle trincee. La mattina del 24 ottobre, le linee austro-ungariche di Monte Pertica erano occupate dalle truppe della 4ga Divisione della 1a Armata. Le Brigate italiane Pesaro e Cremona, dopo un intenso fuoco di preparazione di artiglieria, erano andate all'attacco dal costone che univa il Grappa al Pertica, riuscendo a conquistare le trincee nemiche ma dovendo in seguito ripiegare a causa di un poderoso contrattacco austriaco. Fallito il primo tentativo, due battaglioni appartenenti al 239° e 240° Fanteria ebbero l'ordine di andare alfassalto della cima, erano quasi le 10 del mattino.
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onte Pertica, 24 ottobre ore 09:45
(Illustrazione 19 a p. 114) I soldat i italiani del 240° fanteria fremono nelle 1oro postazioni sul costone che porta a cima Pertica. Poche ore prima avevano visto le mitragliatrici austriache della cima falcidiare i commilitoni all'attacco, giacché dovevano correre esposti sulla pietraia che conduceva sulla sommità del monte. Ora, c'è da pregare che l'artiglieria sul Grappa abbia individuato dove si trovano i nidi di mitragliatrice e sia pronta a fare fuoco. Filippo Bucci, uno dei veterani, un ventiquattrenne che di anni se ne sente quasi quaranta, guarda un giovanissimo sottotenente, teso come un arco, pronto a scattare allo scoperto nella corsa disperata verso la vetta. Si era appena fatto largo fra i soldati per passare avanti ed essere fra i primi ad uscire dalla trincea. "Non arriverà a sera", pensa tristemente il veterano, aveva persino cercato di farlo ragionare nei giorni precedenti, "non abbia fretta di morire!" gli aveva detto. La forza e l'ostinazione di quei giovinetti, a malapena diciottenni, non finiva di stupirlo. Riuscivano a contagiare con il loro patriottico entusiasmo persino gli "anziani", che oramai di quella guerra non ne potevano davvero più. Romano e superbo, ecco cos'era quel ragazzetto dal cognome difficile, Cadlolo. Romano e superbo come l'antica stirpe da cui discendeva e di cui vantava le virtù millenarie, lo sapeva bene Bucci, giacché era nato a Rieti. In Cadlolo l'amor di Patria rifulgeva come un astro nascente, brillando negli occhi ed illuminando ogni suo discorso o parola. Lo aveva sentito ripetere spesso che la Patria non doveva aver definizioni: "è un qualcosa che ci sta qui, nel cuore e nella gola, per cantarla e per amarla!" sosteneva. I suoi discorsi erano riusciti ad infervorare le nuove leve ed ora, primo della fila, era pronto a dare in prima persona l'esempio. "Non ha alcuna paura di morire, quel ragazzo non arriverà a sera" ripeté fra sé e sé il veterano, cercando di allontanare l'affetto che, suo
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Alberto Cadlolo sventola il tricolore
malgrado, in quei giorni aveva sentito nascere nei suoi confronti. Ora, si concentra sul fucile, sulle pietre che conosce a memoria e che tra poco deve superare, correndo con tutto il fiato che ha in corpo. Decide di affrontare l'ascesa prendendo la sinistra, evitando la cresta e scendendo un po' sulla costa. Occorre fortuna. L'artiglieria italiana finalmente diminuisce il fuoco, viene dato il segnale. Escono tutti dagli appostamenti correndo e urlando come invasati, Cadlolo è davanti a tutti. Bucci riesce ad attraversare la terra di nessuno, si salva evitando per miracolo scoppi di granate e raffiche di mitragliatrice, solo una scheggia gli sfiora la guancia, sente il sangue colare giù per il collo. Riesce a superare il parapetto della trincea appena in tempo per vedere Cadlolo sferrare fendenti in un furioso corpo a corpo. Una grossa macchia vermiglio scuro gli imbratta i pantaloni laceri sul ginocchio, Bucci t enta di accorrere in suo aiuto ma un austriaco gli si para davanti. La lotta è tremenda ma viene interrotta da un colpo di granata alle spalle dell'austriaco che lo uccide. Gira lo sguardo verso Cadlolo e lo vede riverso sul parapetto della t rincea: con la voce straziata dal dolore, grida rivolto ai compagni che ancorarisalgono la china "Forza Italia!", una mano tesa in alto a sventolare il tricolore.
Quel che accadde dopo Alberto Cadlolo perirà quel giorno, colpito a morte da un colpo di fucile alla tempia, meritando la Medaglia d'oro al valor militare. Filippo Bucci morirà il giorno seguente cercando di riconquistare quelle medesime trincee, Medaglia d'argento al valor militare.
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CONTESTO STORICO
a mattina del 24 ottobre, tutte le cime del massiccio del Grappa furono interessate da violenti scontri. Fra queste vi è anche il monte Valderoa, un contrafforte che dal nodo centrale di Cima Grappa si diparte verso settentrione. Caduto in mano austriaca durante la Battaglia del Solstizio, la sua riconquista era fondamentale per aprire la via verso Feltre e facilitare così la marcia verso Vittorio Veneto dell'8a e della 10a Armata che a breve avrebbero oltrepassato il Piave, piena permettendo. Incaricate della conquista del Valderoa erano le t ruppe del 5° e del 6° Reggimento della Brigata Aosta, comandate dal Gen. Bencivenga. Egli, dall'inizio della guerra fino ad un anno prima, aveva fatto parte del gruppo dei più stretti collaboratori di Cadoma, divenendo infine il Capo Ufficio della Segreteria del Comando Supremo, seguendo e coadiuvando tutte le decisioni più importanti. Ma ad agosto del '17, a causa di alcune divergenze con Cadoma, venne bruscamente allontanato e si vide infliggere tre mesi di arresti in fortezza. Venne quindi inviato a combattere sul Grappa, poi sul Piave ed infine ancora sul Grappa, dove ora comandava la Brigata Aosta. Fino a 'quel momento si era distinto sul campo non meno che nella pianificazione strategica che aveva portato il Regio Esercito ai successi in Trentino, a Gorizia e sull'Isonzo. Ora toccava al Valderoa. Aveva stabilito di optare per quella che veniva definita una manovra "antitattica", ossia far compiere ai proprio soldati un attacco che contraddiceva tutte le regole basilari previste per un'offensiva. In pratica, voleva far percorrere loro la via più difficile e pericolosa, quella che avrebbero escluso persino gli avversari. Fino a quel momento gli attacchi alla vetta erano stati attuati partendo dalle postazioni in cresta o a mezza costa, situate sui pendii meno aspri del rilievo. Per contro, mai si era tentato l'assalto per il versante di massima pendenza: la ripida salita era troppo difficoltosa, inoltre nidi di mitragliatrici nemiche erano posizionati sui fianchi della via, ad impedirne il passaggio. Ma Bencivenga, proprio perché tale opzione era considerata impraticabile, era certo che con un po' di fortuna, sfruttando l'effetto sorpresa, i suoi uomini sarebbero riusciti a risalire la china ed a cogliere gli austriaci di sorpresa, mentre erano impegnati a tenere d'occhio le consuete vie d'assalto al monte.
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di tempo quella testa calda, devo cambiargli le fasciature e misurargli la febbre, prima di spedirlo all'ospedale da campo nelle retrovie! E speriamo che non faccia storie . . ." un pensiero lo fa sobbalzare, corre fuori, cerca nei dintorni, niente! "Iannellooo! Accidenti!" Corre dal Capitano Medico nella postazione chirurgica: "Signore! Iannello ... quel pazzo di Iannello ... " tartaglia mortificato. Il medico alza lo sguardo dalla ferita che sta scarificando, fa cenno di aver compreso: "controlli che non sia svenuto da qualche parte" poi riprende il lavoro in silenzio. Sono oramai le sette del mattino e viene dato l'avvio all'assalto del Valderoa. I soldati del 6° Reggimento della Brigata Aosta corrono come pazzi in salita, verso le trincee che li aspettano sulla sommità. Gli austriaci non percepiscono subito il pericolo, non aspettando un attacco da quel versante, così impiegano tempo prezioso a dirigere il fuoco verso gli assalitori. Ben presto i nuclei di mitragliatrici austro-ungarici iniziano a scaricare tutte le loro munizioni sui fianchi dell'orda di soldati in corsa, ma è troppo tardi,
alderoa, 24 ottobre ore 07:00 circa
(Illustrazione 20 all'interno della pagina successiva) Il 6 ° fanteria si sta preparando a dare l'assalto al Monte Valderoa affrontando il versante più erto e pericoloso del rilievo. Mitragliatrici in caverna ai lati dell'aspra salita avrebbero ben presto fatto fuoco, non appena iniziato l'assalto. I soldati, terrei in volto, si lanciano sguardi e cenni l'un l'altro, a metà fra un incoraggiamento ed un addio. Poco lontano, in una postazione di primo soccorso, discosto dalle linee di fuoco ma non troppo, un aiutante di sanità osserva incredulo un giaciglio vuoto e sporco di sangue, fino ad un istante prima occupato da un soldato. "Iannellooo!" tuona "Dove diamine sei finito! Iannello ?? ! !" Urla di nuovo, sporgendosi fuori dalla baracchetta e gettando un occhio verso le latrine, convinto che sia da quelle parti. "Mi fa perdere un sacco
Mit ragliatrici in caverna ai lati dell'aspra salita
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i primi italiani riescono a raggiungere la cima ed inizia un'asprissima lotta. Cadono le prime linee avversarie, il Valderoa è preso! Sul declivio erboso, le mitragliatrici falciano gli ultimi soldati della Brigata Aosta. Fra questi, vi è un giovane aiut ante di campo con la testa ed una spalla fasciata, pallido e febbricitante che, reggendo il fucile, corre quanto più gli è concesso. Era stato ferito negli scontri avvenuti qualche ora prima, mentre tentava l'assalt o ad una postazione nemica al seguito delle mitragliatrici italiane di cui era servente. Non appena medicato, nonostante gli avessero intimato di non muoversi, era fuggito
La morte di Iannello Pasquale
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dall'infermeria, non volendo mancare all'assalto decisivo. Muore così, con un sogno di vittoria ancora vivido negli occhi.
Quel che accadde dopo A Iannello Pasquale, per l'amor di Patria che dimostrò con l'estremo sacrificio reso in battaglia, fu conferita la Medaglia d'oro al valor militare. Il Generale Roberto Bencivenga, qualche decennio dopo la fine della guerra, redasse in più volumi le sue memorie del conflitto, contribuendo a gettare una nuova luce anch e su quanto avvenne a Caporetto.
ARDIMENTO CONTESTO STORICO
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partire dalla sconfitta di Caporetto, Diaz aveva compreso l'importanza di avere truppe preparate e motivate all'assalto, implementò così la formazione dei reparti di arditi, uomini destinati ad irrompere per primi nelle t rincee ed a neutralizzare il nemico con bombe a mano e l'immancabile pugnale, al fine di aprire la strada all'arrivo in forze delle fanterie. Gli arditi erano volontari, preferibilmente celibi, provenienti dalla fanteria o cavalleria, a cui si univano ufficiali di tutte le armi. Meglio nutriti, allenati fisicamente, esclusi dai turni in trincea e condotti sul fronte con autocarri per non farli stancare con le marce prima di un attacco, sembravano l'élite dell'Esercito; tuttavia, il loro compito era il più pericoloso e mortale, ognuno di loro era consapevole che difficilmente avrebbe fatto ritorno a casa. L'immagine dell'ardito, con l'uniforme dal collo aperto, il fez nero, la prestanza fisica ed il grido autoreferenziale "A chi l'onore? A noi!", rispondeva, al cont empo, al bisogno di costruire una nuova immagine di soldato italiano, forte e vittorioso, che fosse d'ispirazione per gli altri combattenti e per il Paese. Dopo Caporetto, ad ogni corpo d'armata e reggimento di fanteria, venne assegnato un reparto o un'aliquota minore di arditi, con il compito di principiare l'attacco e, in seguito, sostenerlo al fianco degli altri soldati. La mattina del 25 ottobre, sul versante ovest del massiccio del Grappa, due battaglioni del 139° fanteria avevano il compito di riconquistare le postazioni sul Monte Asolane, quindi proseguire
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sulla dorsale del medesimo fino ad arrivare ad occupare Col della Berretta, il "cuore" della difesa austro -ungarica in quel settore. Il IX Reparto d'Assalto era stat o assegnato al 139° con il compito di anticiparlo sull'Asolone, neutralizzando la prima linea fino all'arrivo dei fanti, in seguito avrebbe dovuto coprirgli il fianco sinistro durante l'avanzata sulla dorsale che conduceva a Col della Berretta, inibendo i nidi di mitragliatrici austriache appostate a lato della direttrice di marcia. Infine, gli arditi avrebbe dovuto proseguire ed assaltare per primi le postazioni di Col della Berretta aprendo la strada, ancora una volta, all'arrivo in forze delle altre truppe. Fu così che alle ore 8:28 del 25 ottobre, due minuti prima che cessasse il fuoco d'art iglieria italiano verso le postazioni aust ro-ungariche, le truppe d'assalto del IX Reparto, capitanate dal giovane maggiore Giovanni Messe, reduci dal clamoroso successo di Col Moschin, si lanciarono d'impeto fuori dalle trincee italiane, correndo mentre ancora i proietti dei cannoni sibilavano sopra le loro teste esplodendo poco più avanti, nei pressi della prima linea nemica. In pochi minuti, gli austriaci, colti di sorpresa nelle buche e nelle caverne usate come riparo durante i bombardamenti, caddero in mano agli intrepidi arditi italiani che li stordirono con i loro petardi Thévenot, obbligandoli infine alla resa. I fanti del 139° arrivarono subito dopo ad occupare le postazioni appena conquistate sull'Asolone, mentre gli arditi erano già impegnati ad attraversare la dorsale che conduceva a Col della Berretta, tenendosi sul versante sinistro, sotto il fuoco dell'artiglieria nemica, certi che il 139° li avrebbe seguiti nell'impresa di lì a poco.
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ol della Berretta, 25 ottobre ore 11:00 (fllustrazione 21 a p. 121) Messe, il maggiore a capo del IX reparto d'assalto, è giunto con i suoi a Col della Berretta, riuscendo ad evitare le bombe, le mitragliatrici ed i cecchini, riuscendo infine a conquistare le prime postazioni austriache. Ma ora, voltandosi indietro, si accorge che sono soli. Il 139° fant eria è invisibile dietro una cortina di fumo ed esplosioni intensissime generata dal tiro di sbarramento delle artiglierie austriache verso le linee italiane sull'Asolone. Per i fanti è impossibile raggiungerli in quel momento, l'artiglieria nemica avrebbe potuto continuare a bombardare per ore, creando un muro
invalicabile di proietti tra il 139° in attacco e loro che sono già arrivati all'obiettivo. Messe ed i suoi arditi sono troppo pochi per riuscire a tenere quel caposaldo nemico da soli a lungo . Già gli austriaci, che hanno di fronte, si stanno preparando al contrattacco, eccoli! Occorre ripiegare, Messe si rivolge ai suoi uomini ordinando di ritirarsi, mentre solo lui, con un pugno di arditi, si sarebbe fermato a combattere, per coprire le spalle al ripiegamento. Gli austriaci, avvicinandosi, capiscono che su quel caposaldo sono rimasti soltanto pochi soldati, quindi iniziano un contrattacco, armati delle loro mitragliatrici. Accanto a Messe è voluto rimanere anche il porta stendardo, il sottotenente Dario Vitali, in quel momento una scheggia di granata gli porta via un occhio, ma lui non smette di sparare, difendendo il tricolore che tiene
Dario Vitali ferito, accanto al tricolore, spara contro il nemico. In piedi Giovanni Messe
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Enrico Picaglia viene condotto lontano dal fronte da due arditi, ma vengono colpiti a morte
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accanto a sé. Messe spara sfrontatamente in piedi, sa c;he nessuno degli avversari lo vuole colpire giacché, essendo l'ufficiale famoso anche in Austria per l"'impresa eroica di Col Moschin", sulla stampa austriaca sarebbe figurato meglio da prigioniero, più che da morto. Stanno per soccombere quando arriva la loro salvezza: dal Monte Asolone alle loro spalle, in mezzo ai fumi ed alle terribili esplosioni, sbuca un altro gruppo di arditi. Alla loro testa, il capitano Picaglia, si lancia all'attacco sparando verso il nemico, seguito dai suoi uomini, ma viene colpito ad una gamba. Cade a terra e due dei suoi arditi si affrettano a soccorrerlo, lui rifiuta, ma viene ugualmente sorretto e trascinato indietro verso posizioni più sicure. I compagni sparano all'impazzata, intervenuti per permettere anche a Messe ed alla sua retroguardia di ripiegare. Una raffica di mitragliatrice nemica colpisce tutti e tre, Picaglia insieme ai due arditi, che pagano con la vita il loro atto eroico e generoso nei confronti Messe ed i suoi uomini in difficoltà.
Quel che accadde dopo Gli arditi di Messe e Picaglia, ebbero la meglio: in questo ultimo attacco finirono prigionieri altri 30 austriaci, che si andarono ad aggiungere ai circa seicento già catturati. Il IX Reparto, nel tardo pomeriggio del 25, rientrò a Pove. Nella dura lotta sostenuta sull'Asolone e Col della Berretta, esso aveva perduto 13 ufficiali e 170 arditi tra morti e feriti. Il corpo di Picaglia non poté essere recuperato dal campo di battaglia, a causa dell'incessante martellare dell'artiglieria di entrambe le fazioni. Nelle t estimonianze rese dai prigionieri catturati quel giorno, gli aggettivi "intrepido, meraviglioso, impareggiabile" furono quelli maggiormente adoperati da ufficiali e soldati austriaci per esprimere la loro ammirazione nei riguardi del IX Reparto arditi per la sua impresa. Dario Vitali ed Enrico Picaglia, per il loro coraggio ed ardimento, furono insigniti della Medaglia d'oro al valor militare.
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51:KNAQLIA Dl:LLA DATIAQLIA
'obiettivo dell'offensiva sul
paese tuttavia, questo non era possibile senza prima prendere possesso della Piana di Sernaglia e delle colline circostanti. Mentre in pianura gli italiani riuscivano ad impedire agli austriaci di spiare i loro movimenti dall'alto, giacché avevano abbattuto tutti i campanili al di là del Piave e l'aviazione italiana non consentiva ai draken di innalzarsi, al contrario, presso Sernaglia, i rilievi circostanti facevano un brutto servizio al Regio Esercito, giacché consentivano agli austroungarici di avere ottimi punti d'osservazione. Questo consentiva all'artiglieria nemica di colpire con estrema precisione le postazioni italiane e le truppe durante i loro movimenti. La sera del 27 ottobre, con il Piave ancora in piena, i tre Corpi d'armata che costituivano
l'~a Armata di Caviglia, si trovavano dispiegati nel settore centrale del Piave, da Comuda a
Nervesa, impegnati nel tentativo di superare le acque vorticose del fiume per poter finalmente muovere l'attacco principale previsto per quell'offensiva. Fra questi, vi erano le truppe del XXII Corpo d'Armata comandate dal Generale Vaccari, che occupavano il settore davanti al Montello. Non appena calò il buio, i genieri italiani si apprestavano ancora una volta a costruire i ponti necessari al superamento delle acque, ma era un vero martirio: se non erano le acque vorticose del Piave a rapire uomini e materiali, era il fuoco dell'artiglieria austriaca che martellava le acque del fiume ad intervalli irregolari, con devastante precisione. Anche quella notte, scattò immancabile alle 23 il tiro nemico, che fece saltare ogni passerella. Proprio il Corpo d'Armata di Vaccari aveva il compito di superare il Piave, conquistare una testa di ponte sulla Piana di Sernaglià, il più ampia possibile, per poi spingersi attraverso la vallata del Soligo verso la cittadina di Vittorio. Per questa impresa, Vaccari aveva a disposizione la I Divisione d'Assalto del Generale Zoppi a cui era assegnato il consueto compito di aprire la strada al grosso delle truppe in assalto. Gli arditi, impossibilitati all'attraversare il Piave sui ponti, tentarono l'assalto per altra via...
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ernaglia, 27 ottobre, ore 23:30 (fllustrazione 22 a p. 125) Nonostante il buio della notte nasconda i movimenti degli italiani, l'artiglieria austriaca martella il Piave con un terribile fuoco di sbarramento preventivo da oltre mezz'ora. Gli arditi di Zoppi, radunati nei pressi della riva, sono nervosi e scalpitanti, sono tre giorni che aspettano invano di poter condurre quell'impresa! Finalmente le barche erano arrivate, la piena del Piave è ancora forte e tormentata, ma l'attraversamento va tentato: le truppe schierate sul Grappa non possono condurre l'offensiva da sole ancora per molto. Questo è il momento buono, gli austro-ungarici credono che il tentativo maggiore di forzamento del fronte sia sui monti, invece loro
sono pronti a batterli proprio lì, davanti al Montello, dove gli avversari si sentono più forti. Le prime barche iniziano a solcare il fiume, gli arditi sbigottiscono, in pochi istanti vengono travolte e spazzate via dalla corrente. Nemmeno un sussulto dai soldati a bordo, sono tutti inghiottiti in silenzio, spariti. L'impresa sembra disperata, mentre all'intorno una pioggia di proietti solleva enormi colonne d'acqua, vengono messe in acqua nuove imbarcazioni. Gli arditi continuano a salire, lottando con la corrente, le onde generate dalle esplosioni ed i proiettili vaganti. La riva davanti a loro s'incendia all'improvviso del fuoco dell'artiglieria italiana che ha preso a sparare furiosamente sulle linee austriache, per spianare la strada al loro attacco. I cannoni aust riaci, nel frattempo, non sono da meno e continuano a sparare nella loro direzione, sembra l'inferno! Finalmente approdano sulle sponde che conducono alla piana di Sernaglia, gli arditi corrono determinati alla conquista,
Gli arditi di Zoppi approdano sulle sponde che conducono alla piana di Semaglia
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Gli aerei italiani lasciano cadere sulla riva casse di viveri e munizioni
bersagliati da ogni dove, verso la strada che porta a Vittoriò, alla vittoria! Complice il buio, hanno già preso possesso delle ignare prime linee austriache, mentre dall'alto gli aerei italiani lasciano cadere sulla riva casse di viveri e munizioni che permetteranno ai sopravvissuti della divisione d'assalto di resistere e difenç.ere quella porzione di terreno appena conquistata, fino all'arrivo dei rinforzi.
Cosa accadde dopo Quella sera stessa, a svariati chilometri di distanza, l'Imperatore Carlo prese la sua decisione ultima: chiedere l'armistizio ed una pace separata. Dopo aver scritto una lettera all'imperatore alleato Guglielmo in cui gli comunicava della sua risoluzione, nonostante il generale Arz non fosse d'accordo, scrisse una seconda missiva al presidente statunitense Wilson in cui prometteva di riconoscere l'indipendenza cecoslovacca e jugoslava nonché di rompere la sua alleanza con la Germania in cambio della fine dei combattimenti su tutti i fronti.
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Nel frattempo, sui campi di battaglia, i soldat i continuavano a combattere. Presso le rive del Piave, la piena ed il fuoco dell'artiglieria costrinsero gli ardit i di Zoppi a difendere da soli la posizione raggiunta, di fronte ad un nemico preponderante per numero e armi, per un intero giorno. La t rasmissione degli ordini da parte di Vaccari ai propri arditi isolati sull'altra riva del fiume avveniva grazie ai piccioni viaggiatori oppure attraverso i "Caimani del Piave", truppe composte da nuotatori provetti che si erano allenati a tale scopo nelle gelide acque del Brenta. Finalmente, la sera del 28, il Generale si lanciò con i suoi uomini in attraversamento sull'unico ponte costruito e rimasto integro, con grande coraggio e periglio, giacché la passerella fu completamente distrutta soltanto pochi istanti dopo. Vaccari riuscì dunque a portare aiut o ai suoi arditi, ampliando la testa di ponte di Sernaglia e creando solide basi per la conquista della riva sinistra del Piave, che portò in seguito al ripiegamento delle truppe austro-ungariche.
CONTESTO STORICO entre avveniva la conquista della piana della Semaglia, la 10• Armata di Lord Cavan conduceva il definitivo assalto alle postazioni austriache al di là del Piave, muovendo dalle isole delle Grave di Papadopoli appena conquistate. La notte del 27, dopo aver martellato le linee nemiche con il bombardamento dell'artiglieria, il XIV Corpo d'Armata britannico e l'XI italiano riuscirono finalmente a sopraffare i soldati della 7a e 29• Divisione austro-ungarica. Agli scontri durissimi, vennero a sommarsi le molte perdite, di ambo le parti, per annegamento nei canali della zona. L'ago della bilancia si era finalmente spostato a favore degli italiani: sfruttando la posizione conquistata sulla sponda sinistra del Piave, gli italiani comandati dal Generale Basso iniziarono a risalire le rive del Piave verso nord, liberandole dalla presenza austriaca e permettendo così il gittamento dei ponti da parte delle truppe italiane rimaste sull'altra sponda. Da parte loro, gli avversari stavano sempre più perdendo il controllo della situazione: ai comandi arrivavano rapporti contraddittori ed i combattimenti si svilu ppavano tanto velocemente da risultare già ingovernabili quando la loro notizia riusciva a giungere alle orecchie dei
generali. Boroevic inviava messaggi preoccupati all'imperatore: si doveva
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considerare la possibilità " di abbandonare il Veneto per organizzare una nuova linea difensiva più efficace. Se infatti gli italiani avessero continuato ad avanzare, avrebbero potuto coglierli alle spalle, infliggendo all'esercito austro-ungarico un'enorme perdita di uomini e armi. Bisognava preservare l'integrità dell'Esercito se si voleva anche solo mantenere l'ordine in Patria e preservare la monarchia asburgica. L'Italia, forte dei primi sfondamenti, era intenzionata a riconquistare al più presto i territori perduti a Caporetto nonché quelli ambiti ad inizio guerra, tentando al contempo di scompaginare e catturare quanti più prigionieri e armi possibili al nemico. L'Austria, dal canto suo, era determinata a difendere quanto più possibile le terre del Trentino, Veneto e Friuli dalle truppe italiane lanciate alla conquista, facendo ripiegare al meglio le proprie truppe dietro nuove linee di resistenza. La motivazione era la medesima per entrambi gli schieramenti: arrivare al tavolo delle trattative di pace, ormai inevitabili, con un prezioso "pegno territoriale" ottenuto con l'azione militare. L'Italia avrebbe reclamato la sua conquista, a cui aggiungere la volontà di autodeterminazione dei popoli friulani e trentini come italiani (in quanto avevano più volte acclamato il loro arrivo), in ottemperanza ai principi wilsoniani; l'Austria, invece, avrebbe quantomeno potuto usare il Veneto come merce di scambio per ottenere
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più miti condizioni di resa. Tuttavia, l'Esercito austro-ungarico, dal momento in cui gli italiani avevano sfondato la linea del Piave, si era trovato in così gravi difficoltà da convincere il Comando Supremo austriaco a ordinare la ritirata generale fino ai confini nazionali, ultimo utile baluardo di difesa. Non era passato nemmeno un giorno da questa risoluzione che, già la sera del 28 ottobre, al generale Arz erano giunte notizie terribili dal settore trentino e dalle armate di Boroevic: si moltiplicavano defezioni e ammutinamenti tra i reparti, tanto che a causa delle condizioni delle truppe la manovra in ritirata era inattuabile. L'unica soluzione era chiedere un armistizio immediato e senza condizioni. Alle 9:20 della mattina del 29 ottobre, il delegato del Generale Weber, il capitano Kamillo Ruggera, superò le linee italiane a Serravalle reggendo una bandiera bianca e rischiando di farsi impallinare. Consegnava poco dopo una lettera in cui si chiedeva di aprire le trattative per l'armistizio, ma quando il Comando Supremo italiano ne fu informato, quest'ultimo ne contestò la validità, chiedendo che fossero mandati dei delegati plenipotenziari per iniziare una trattativa. La lettera di Weber, lungi dall'aver indotto i comandanti italiani a cessare le ostilità, metteva ancor più premura e iniziativa a lanciare i propri soldati alla conquista dei territori ambiti giacché, ora ne avevano certezza, i nemici non erano più in grado di fermare efficacemente l'avanzata del Regio Esercito.
----·•·----------------1916 auto, ed ora, in mezzo ad una lunga colonna di n pianura, in direzione di Vittorio uomini in armi, avanzano lente e terrificanti Veneto, 30 ottobre delle torrette d'acciaio armate di mitragliatrici, (Illustrazione 23 montate su un'automobile completamente all'interno della pagina ricoperta di una corazza che, in verità, sa di lamiera. Davanti a loro, ormai lontani e non successiva) Impressionante. A più visibili, i dragoni si sono già lanciat i alla chiunque osi rischiare riconquista del territorio italiano, incalzando la vita per vedere il nemico in ritirata. Insieme alle autoblindo, quanto sta avvenendo fitte colonne di bersaglieri cavalcano le loro sulla strada per biciclette. Poco lontano convergono i fanti ad Vittorio Veneto oggi, non può venire unirsi alla colonna in marcia, per ultimi. Gli in mente nessun'alt ra parola. A austriaci sono in marcia forzata davanti al lungo malapena ci si è da poco abituati alle convoglio, occorre raggiungerli ... Un rombo nel
Gli aerei it aliani bombardano il terreno proprio innanzi l'esercito in ritirata, costringendolo a fermarsi e ad arrendersi alle truppe celeri italiane
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Insieme alle autoblindo, fitte colonne di bersaglieri cavalcano le loro biciclette
in profondità, di riconquist are i chilometri di terreno del vecchio confine ed ancora oltre. Per questo, ora le pianure venete e friulane si colmano di truppe celeri, per impedire alle schiere nemiche di riuscire a riparare, come avevano fatto i soldati italiani dopo Caporetto. Il Regio Esercito non avrebbe fatto lo stesso errore degli austriaci, non si sarebbe limitato a tallonare il nemico con i fanti, al contrario, era intenzionato a battere in velocità lo schieramento avversario, accerchiandolo, ghermendolo, rendendolo inerme. L'Italia non avrebbe vinto solo quella battaglia, ma la guerra, privando l'avversario del suo esercito.
cielo fa intendere ai soldati italiani che le truppe avversarie in ripiegamento sono poco lontane: gli aerei italiani bombardano il terreno proprio innanzi l'esercito in ritirata, costringendolo a fermarsi, arrendersi alle truppe celeri nemiche che li incalzano oppure combattere ancora. Il grosso dei contingenti austro-ungarici tenta ancora di allontanarsi mentre alcune aliquote minori si fermano a combattere, cercando di frenare l'avanzata delle truppe italiane, combattendo valorosamente ma in situazione disperata. L'Italia, con la compagine di cavalieri e bersaglieri che lancia all'attacco, dichiara di aver superato il Piave con piena intenzione di andare
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VITTORIOlii
CONTESTO STORICO
'esercito austro-ungarico era vittima della crisi identitaria che serpeggiava fra le sue compagini da tempo ed era venuta ad acuirsi dopo il 16 ottobre, giorno della proclamazione dello stato federale austriaco. I reiterati "esodi" interni allo schieramento, se fino allo sfondamento italiano sul Piave non avevano costituito una seria minaccia per la tenuta del fronte in termini numerici, per contro avevano minato fortemente il morale e la motivazione a combattere dei soldati dell'impero che avevano deciso di rimanere a battersi per l'Austria. Anche questi ultimi sembravano chiedersi: "per che cosa combattiamo?". Alle defezioni, si andarono infine ad aggiungere anche le sconfitte militari sul fronte, così ai soldati austriaci non rimase che ripiegare. La ritirata dietro le linee di massima resistenza austriaca del Monticano e della Livenza, era dettata dall'impossibilità di difendere le posizioni, sia per la sconfitta subita, sia per l'abbandono del campo di battaglia da parte delle
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truppe ungheresi, ceche, slovacche, rumene, slovene e polacche. L'Italia, da parte sua, non poteva far rientrare in Patria l'intero esercito nemico in ritirata, magari permettendogli di condurre con sé la quantità di armi e cannoni ancora operativa e forte che aveva distribuita sul fronte. Le trattative di pace sarebbero state avviate a breve, questione di giorni, lasciare un Esercito in forze in mano al Paese che doveva arrendersi, equivaleva a non aver certezze in fase di trattativa. L'Austria poteva costituire un nuovo fronte: anche dai confini nazionali la guerra poteva sempre riprendere. Occorreva dunque fermare la corsa dei soldati e catturare quanti più prigionieri ed armi possibili. Tuttavia, molti soldati austriaci continuavano a combattere accanitamente, con combattimenti di retroguardia, pur consapevoli che ormai per l'Austria-Ungheria la guerra era persa. Infatti, la prospettiva di finire prigionieri dopo tanti anni di guerra, di certo non li allettava, mentre combattere significava pur sempre difendere
il loro diritto di tornare a casa. Dopo la richiesta del 29 del generale Weber di iniziare una trattativa, venne diramato l'ordine alla 3a Armata del Duca d'Aosta di oltrepassare subito il Piave, mandando innanzi quattro divisioni di cavalleria a est verso la pianura e la pedemontana friulana, superare i nemici in fuga e bloccarli prima che avessero il tempo di attraversare il Tagliamento e di riorganizzarsi. Anche Caviglia pensò bene di accelerare l'avanzata delle truppe della sua sa Armata in direzione ConeglianoVittorio, lanciando al contempo in avanti la sua cavalleria affinché inseguisse le truppe della 5a Armata austro-ungarica che tentava di riparare dietro la Livenza. La mattina del 3O novembre, i lancieri di Firenze entrarono a Vittorio Veneto accolti dalla popolazione festante, mentre conducevano con sé un centinaio di soldati austriaci sopravvissuti agli scontri di retroguardia, catturati mentre cercavano di coprire le spalle ai loro compatrioti in ripiegamento sulla Livenza.
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ittorio Veneto, 30 ottobre ore 15:00 (Illustrazione 24 a p. 133) I Dragoni italiani tengono il loro moschetto puntato sui prigionieri. In realtà non ve n'è alcun bisogno, giacché i loro volti sono la rassegnazione stessa. Stremati dalla marcia forzata, dai combattimenti, dalla mancanza di sonno che la ritirata ha loro imposto, prostrati dalla fame, non sono più soldat i, hanno smesso di essere tali. Ora nei loro occhi si legge solo il desiderio di ritornare a casa, finalmente. L'unico accenno di rabbia, balenante negli sguardi sfuggenti e alteri, è per non esser riusciti, nonostante tut to, a ritirare. Dopo tutt i quegli anni di guerra onoratamente combattuti, finire prigionieri a conflitto praticamente finito, è uno smacco intollerabile. Ma non v'è più né la volontà né la forza di ribellarsi
al destino. Rimangono docili in attesa di essere condotti altrove, nella speranza che la loro prigionia si riveli breve. Ai cavalieri italiani, per contro, sembra incredibile di poter ripercorrere le terre del Veneto che non vedono da oltre un anno, riconoscere il profilo familiare dei paesi, per quanto vi siano ineluttabili segni di razzie e qualche incendio. La soddisfazione di scorgere il sorriso sui visi dei pochi abit anti rimasti a presidiare le case disabitat e, li ripaga di qualsiasi sacrificio. Le donne corrono a prendere le scarne provviste di cui ancora dispongono per offrirle ai soldati italiani, per rifocillarli e festeggiare al contempo, raccomandando di non farsi ammazzare, ma di ricacciare lontano l'esercito avversario, che non possa più ritornare. Piangono e chiedono notizie dei figli, si adirano coi prigionieri, il nemico che glieli ha port ati via, finché poi le prende la compassione, perché anche quei disgraziati da qualche parte devono avere una madre.
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Dragoni italiani scortano i prigionieri nelle vie di Vittorio Veneto
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CONTESTO STORICO a mattina del 30 ottobre Boroevic si trovò costretto ad una riunione con i suoi generali per valutare la richiesta giunta dal fronte Trentino di cessare immediatamente i combattimenti e trattare una resa addirittura senza condizioni. Per il Generale, la cosa era impensabile, la situazione doveva per forza sembrare più grave di quanto non fosse, il suo esercito era certamente in difficoltà ma, proprio preservandone l'efficienza con una ritirata ben eseguita, era certo di poter ancora salvare l'impero dalle minacce esterne ed anche interne, quali sommosse e tentativi di disgregazione. Nel frattempo, era prioritario fermare l'avanzata italiana con un armistizio dalle condizioni accettabili, che permettesse ai suoi uomini di ritirarsi dietro i confini nazionali. Giacché il tentativo del capitano von Ruggera non era andato a buon fine, il Generale Weber ebbe l'ordine di andare personalmente a mediare l'armistizio, accompagnato dal colonnello Schneller e dal tenente colonnello von Seiller.
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trada camionabile per Avio, 30 ottobre ore 17:00 (fllustrazione 25 a p. 137) Il Generale Weber, sale a bordo dell'auto con il gruppo dei suoi ufficiali in silenzio. L'auto ad attenderli è senza capote ma, nonostante il freddo sia sempre più pungente, il Generale è grato per quell'aria fredda che gli sferza il viso, quasi un balsamo che lo costringe a riscuotersi dal cupo rimuginare di quel giorno. L'aut o parte con fatica, la strada dissestata è un vero disastro e l'autista pena n on poco a condurre il mezzo che sembra in procinto di ribaltarsi ogni poco. "Vada piano!" gli intima urlando sopra il frastuono del motore von Seiller, girandosi a dare un'occhiata preoccupata ai volti dei superiori. Manca solo di rimanere impantanati da qualche parte! Tutte le strade versano in
condizioni penose: gli autocarri dell'esercito imperiale sono oramai tutti privi di gommatura, costretti a muoversi sui cerchioni di ferro rovinando irrimediabilmente le carreggiate, cosicché, paradossalmente, soltanto mezzi ridotti a quella maniera possono continuare a transitarvi senza rischiare di rimanere per strada. Arrivati a questo punto non vi sono davvero più alternative: il foraggio per i cavalli è finito per integrare l'alimentazione dei soldati e quelle poche bestie che rimangono non hanno nemmeno il fiato per trainare i carri, le ferrovie sono state tutte bombardate dall'aviazione italiana e quelle ancora percorribili vedono i convogli muoversi con una lentezza esasperante, giacché anche le locomotive sono troppo logore. L'impossibilità di operare spostamenti celeri di truppe e mezzi era una delle cause della sconfitta dell'esercito austriaco, giacché l'Alto Comando non poteva spostare efficacemente le riserve dai settori meno minacciati a quelli più minacciati.
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Il Generale Weber sull'auto di fronte al Comando italiano ad Avio
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Gli italiani gli hanno fatto sapere di dirigersi ad Avio, anche se lui vuole parlare direttamente con Diaz. Ma oramai deve adeguarsi, non è più nella posizione di dettare condizioni. Il suo esercito non è più affidabile, le diserzioni diventano sempre più frequenti non garantendo continuità al fronte, ci si può fidare soltanto dei soldati austriaci di etnia tedesca che tuttavia non possono sobbarcarsi l'intero onere di contrastare il dilagare dell'esercito italiano in corsa. Eppure, in buona sostanza, sono proprio loro a resistere a qualche chilometro
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di distanza, con combattimenti disperati di retroguardia, mentre lui lì, in auto, tenta di fermare una guerra e l'avanzata del nemico prima che tutto volga al peggio, prima di perdere territori, esercito, impero e la Patria per la quale molti anni prima era sceso in campo. L'auto si ferma nel piazzale davanti al comando italiano, una piccola folla di soldati si raduna in una sorta di silenzioso capannello intorno al mezzo, gli sguardi curiosi di dare un volto al generale della resa.
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• I principali luoghi menzionati nel testo • La collocazione e l'orientamento delle tavole grafiche che accompagnano il racconto
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PALMANOVA PARADISO
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CONTESTO STORICO
entre il Generale Weber veniva trattenuto ad Avio in attesa di avere un riscontro dal Comando Supremo stanziato ad Abano riguardo alla proposta di armistizio, Diaz diramava una direttiva generale per l'inseguimento delle truppe austriache sul fronte, delineando gli obiettivi principali: l'arresto delle truppe in ripiegamento sul saliente trentino, sul Tagliamento e l1sonzo, nonché la conquista delle città simbolo dell'unità nazionale, Trento e Trieste. Occorreva guadagnare più terreno possibile prima della fine della guerra. Nel pomeriggio del 31 ottobre il generale Weber venne t rasferito con gli altri rappresentanti austro-ungarici a Villa Giusti, una residenza nei pressi del quartier generale di Abano, dove l'indomani avrebbero esaminato il documento d'armistizio concordato con gli Alleati e trasmesso dalla Francia. Il primo novembre, i soldati italiani continuavano l'inseguimento dell'esercito austroungarico in ritirata: le truppe sull'altipiano arrivarono a minacciare le linee difensive a sud di Trento, dal
Grappa la 4a Armata riusciva a scendere verso valle, mentre le Divisioni del Corpo di cavalleria il 2 novembre erano addirittura arrivate al Tagliamento. Nel mentre, nell'esercito austroungarico si stava amplificando la situazione di caos generata dalle defezioni, questo accadeva dopo il comunicato del nuovo ministro della guerra ungherese Linder che ordinava alle truppe magiare di cessare i combattimenti e deporre le armi, in nome di una nuova autonomia della neonata Repubblica Democratica d'Ungheria. L'odine venne ritirato poco dopo dal generale Arz, giacché il nuovo governo ungherese avrebbe dovuto comunque garantire un'uscita dalla guerra al fianco dell'Austria, ma oramai il danno era fatto: le truppe ungheresi che fino a quel momento non avevano lasciato il fronte, ora stavano già invadendo le strade verso la nuova Patria. La sera del 2 novembre il testo in francese del trattato di armistizio fu inoltrato a Vienna, dove Carlo, non senza tentennamenti e con un certo disappunto, finì con l'approvarlo. n giorno dopo alle ore 15:00 Weber poté comunicare l'accettazione dell'armistizio, comunicando al contempo che nella notte era già stato fatto diramare l'ordine all'esercito austro-ungarico di cessare le ostilità. Badoglio, irritato, rifiutò di accettare questo
dato di fatto, giacché era stato concordato in precedenza che i combattimenti sarebbero cessati 24 ore dopo la firma del trattato, ovvero soltanto alle 15:00 del 4 novembre. Weber era a dir poco contrariato, i suoi uomini avevano già gettato i fucili, mentre le truppe italiane potevano ancora combatterli e catturarli fino all'indomani. Del resto, l'ordine di cessare il fuoco non era stato concordato, Carlo aveva cercato di forzare la mano tentando di far cessare la guerra in anticipo per impedire all'Italia di infliggergli ulteriori perdite militari e t erritoriali, ma non vi era riuscito. La componente irredentista di Trieste, città sotto il dominio austriaco da 500 anni, nell'ultimo cinquantennio aveva particolarmente sofferto l'azione dell'Austria-Ungheria che, dal 1868, aveva favorito le etnie tedesca e slava ai danni di quella italiana. A Trieste, già dal 30 ottobre la città era insorta proclamando il suo legarne con l1talia ed aveva costituito un Comitato per la Salute Pubblica, con a capo l'ex podestà italiano Alfonso Valerio destituito nel '68, dichiarando "la decadenza dell'Austria dal possesso delle terre italiane adriatiche". L'impero austro-ungarico, che già aveva ben altre e più gravi minacce da fronteggiare, il giorno seguente aveva lasciato la città.
------·•·-------------1916 olo San Carlo di Trieste, 3 novembre, ore 17:00 (Illustrazione 26 all'interno di questa pagina) Quel mattino la cacciatorpediniera Audace era partita molto presto da Venezia, alle 6:00, con obiettivo Trieste. La navigazione era stata lenta, occorreva aggirare le numerose mine disseminate in quel tratto di mare a difesa della laguna e delle coste italiane. A bordo delrAudace c'è Carlo Petitti di Roreto, comandante del XXIII Corpo d'Armata, ed il Generale Coralli, mentre sulle navi del convoglio, li accompagnano i bersaglieri di due reggimenti, il 7° e 1'11 ° della II Brigata. Il molo San Carlo di Trieste si avvicina sempre più, sulla riva e ovunque fin sulla Piazza Grande si scorge una grande folla di persone in attesa del loro arrivo. Petitti di Roreto è giunto fin li per assumere il ruolo di Governatore della città, direttamente dalle mani di Alfonso Valerio, riportandola definitivamente sotto l'egida italiana. L'Audace finalmente attraé'ca, le passerelle sono approntate, i soldati,scendono mentre la folla, provata dai raziona.m enti e dall'epidemia di spagnola, saluta festante ed in visibilio il loro arrivo. La gente si accalca, i soldati sbarcano schierandosi
La folla festante di Trieste accoglie i bersaglieri
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I bersaglieri sfilano dopo essere scesi dal convoglio dell'Audace
sul molo, qualche ragazza si protende per dare loro un bacio di benvenuto. Gli squilli di tromba sembrano a tutti la più dolce melodia, la corsa dei bersaglieri si dirige verso Piazza Grande! Cosa accadde dopo Il diarista dell' 11 ° Reggimento Bersaglieri descriverà così quel giorno sul rapporto ufficiale: "L'accoglienza fatta dalla popolazione ai primi soldati d'Italia sbarcati a Trieste è entusiastica, delirante. Tutti vogliono baciare i nostri bersaglieri e portare in trionfo i nostri capi. La città è imbandierata, i bersaglieri passano sotto una pioggia di fiori. Il comando ed il battaglione prendono stanza alla Caserma Grande, già santificata dal martirio di Oberdan". Il molo San Carlo di Trieste, nel dopoguerra sarà ribattezzato molo "Audace" ed a ricordo dello sbarco verrà apposta una rosa dei venti realizzata con il bronzo delle armi nemiche, al centro della quale campeggia il memento: "Approdò a questo molo la R. Nave Audace prima col vessillo d'Italia, III novembre MCMXVIII". Il 20 dicembre successivo, sarà proprio Alfonso Valerio, reintegrato nella sua funzione di sindaco, a commemorare ufficialmente per la prima volta Guglielmo Orbedan, nella sua città, insieme al Re d'Italia Vittorio Emanuele III.
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n questa guerra fatta di innovazioni belliche incredibili e mai viste, di cannoni immensi, di t erribili mitragliatrici e lanciafiamme, di aerei bombardieri, di radio per le trasmissioni, gas micidiali, autoblindo e carri armati, ebbene, in questa corsa tecnologica che dettava gli esordi dell'era moderna, la cavalleria, oramai an acronistica ma ancora indomita ed efficace, volle chiudere in bellezza il suo impiego sul campo, rendendo all'Italia un grande servizio. Mentre le truppe appiedate correvano alla conquista dei monti e, compatibilmente alle loro possibilità, cercavano di occupare gradualmente il t erritorio secondo le direttive imposte dal Comando Supremo, le truppe celeri incalzavano il nemico, arrivando a superarlo, per andare a occupare gli obiettivi cardine utili per rivendicare alcuni territori al tavolo delle trattative di pace. In questa fase la cavalleria ebbe un ruolo determinante, rimaneva infatti il mezzo più rapido per spostarsi sul territorio, attaccare se necessario le ultime difese nemiche e occupare la zone d'interesse, difendendole fino all'arrivo dei rinforzi. Fu così che l'arma "nobile" fu la prima a raggiungere Trento alle 15:00 del pomeriggio del 3 novembre, con i cavalleggeri del reggimento Alessandria, mentre le Divisioni di cavalleria raggiunsero il Tagliamento, avanzando fino ad Udine. Il Corpo di cavalleria italiano comandato da Vittorio Emanuele di Savoia Aosta, fratello minore del ben più celebre Duca d'Aosta, vide le sue truppe montate raggiungere e conquistare in seguito anche Tolmezzo, Cividale del Friuli, Cormons, Palmanova e San Giorgio in Nogaro, infine Aquileia, dopo aver catturato intere divisioni austriache.
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n canale a nord-ovest di Aquileia, 4 novembre ore 14:30
(Illustrazione 27 a p. 144) Alcuni uomini della 2a Divisione di cavalleria sfiancano i loro cavalli per arrivare il prima possibile alle porte di Aquileia, come da ordini superiori. Nessuno di loro ha mai visto la città, le sono indicazioni stradali state distrutte dagli abit anti del luogo per confondere le truppe austro-ungariche in ripiegamento, per cui cercano di attene;rsi alle indicazioni di massima ricevute prima di partire dalla zona del basso Tagliamento. I cavalli che stanno montando sono oramai esausti, li hanno impegnati tutto il giorno in lunghe cavalcate e combattimenti di scarsa intensità, contro contingenti di soldati austro-ungarici che hanno difeso soltanto la loro voglia di tornare in Patria. Non devono essere troppo lontani, mentre guadano un canale scorgono l'apice di un'antica torre campanaria dietro gli alberi. Fra di essi, un giovane ufficiale, provato dagli eventi della giornata si regge in sella soltanto per la forza dei suoi nervi e per l'adrenalina che lo t iene pronto a scorgere il nemico dietro ogni anfratto. Discendente di una nobile famiglia lombarda, prima di andare in guerra, studiava arte all'università. Ora, quando gli capita di pensarci, non gli paiono nemmeno reali quei giorni, come se i ricordi fossero inventati oppure appartenenti ad un altro. Non gli sembra nemmeno di conoscerlo quel giovane uomo studioso, innamorato di mosaici ed affreschi di lontana memoria. Ma proprio ora, in sella e nel bel mezzo di un'avanzata, non appena il suo cavallo supera d'un balzo il canale, si ritrova a governarlo in mezzo ad un terreno cosparso di antichi resti di civiltà perdute ed ha un sobbalzo. Rallenta al passo la bestia per osservare quelle pietre che lo colpiscono come un pugno in faccia, a ricordargli l'uomo che era. I suoi compagni sono già avanti, proseguendo cauti per valutare eventuali presenze ostili
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La cavalleria varca i canali
all'intorno. Getta un'ultima occhiata a quelle pietre e con rammarico li raggiunge. Superati gli alberi, si dispiega loro innanzi la splendida basilica dell'XI Secolo, il giovane cavaliere rivede all'istante i mosaici ben più antichi conservati all'interno e riportati in bianco e nero nei suoi amati libri, riconosce le pietre appena superate come l'antico porto fluviale ... non ha il tempo di riaversi che i suoi compagni si sono già lanciati verso il centro del paese. Si riscuote e sprona il suo cavallo a seguirli. Invidia quelle pietre, mute e silenti, testimoni ignare di innumerevoli guerre, morte e dolore. Si chiede se il mondo tornerà mai ad essere lo stesso. Nota Il giovane cavaliere è uno dei due personaggi di questo volume a non avere una precisa corrispondenza con la realtà, l'episodio vuole essere emblematico dei molti giovani che lasciarono mensione nei loro diari di riflessioni simili a quella qui descritta.
QLI \JLTIMI LKOI
CONTESTO STORICO
ra la mattina del 4 novembre, ancora un pugno di ore e l'armistizio sarebbe entrato in vigore, quando i reparti dell' 8 ° Reggimento Bersaglieri e dei Cavalleggeri di Aquila passarono il Tagliamento sul ponte diroccato di Madrisio di Varmo. Proseguirono oltre, superando con difficoltà il fiume Stella, dove alcune mitragliatrici nemiche stavano appostate sull'altra riva. Superato anche quest'ultimo ostacolo, inseguirono il nemico in ripiegamento fino alla borgata di Paradiso. Mancavano soltanto cinque minuti alle 15:00, quando gli italiani giunsero al trivio alle porte del piccolo paese, dove incontrarono l'ultimo nido di resistenza austro-ungarico. Fra i bersaglieri dell'8° reggimento, si trova il giovanissimo Alberto Riva di Villasanta, classe 1900. Alberto era fuggito da casa appena diciassettenne per arruolarsi come volontario, dopo aver sofferto la morte del padre, deceduto nel 1916 sull'altipiano di Asiago con il grado di maggiore e due medaglie d'argento. Se non fosse bastato questo lutto ad animarlo della voglia di combattere contro gli uccisori del padre, sopraggiunse anche la morte in guerra di tre dei suoi cugini ed il ferimento del fratello, soldato al suo fianco. Combatté in prima linea sul Piave con il 90° Reggimento Fanteria, quindi frequentò il corso Ufficiali, venne infine promosso sottotenente e assegnato al comando del reparto arditi dell'8° Reggimento Bersaglieri. Nella Battaglia del Solstizio conquistò una medaglia d'argento al valor militare, ma ancora non gli bastava. Voleva combattere l'invasore, che lo aveva privato di così tanti cari_, fino all'ultimo istante di guerra.
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rivio di Paradiso di Pocenìa, 4 novembre, ore 14:55 (fllustrazione 28 a p. 147) Superato il fiume Stella sul ponte semidistrutto, arrangiando due tavole per permetterne l'attraversamento, i cavalleggeri si arrestano, attendendo sull'altra riva i bersaglieri dell'8° Reggimento che avanzavano con loro. Gli austriaci che li hanno con- trastati fino a qualche tempo prima, si sono allontanati ma hanno poco vantaggio. Si devono essere appostati non molto lontano, occorre un'azione coordinata per stanarli e catturarli, alt rimenti le loro mitragliatrici possono avere la meglio su arditi, cavalli e cavalieri. Davanti al contingente di italiani si apre alla vista un susseguirsi di campagne e piccoli caseggiati, collegati da stradine di poca importanza. La cavalleria decide di proseguire tenendosi a breve distanza dai fanti: alle prime avvisaglie del nemico, si sarebbe allontanata compiendo un gran giro per prenderli infine"alle spalle, mentre i bersaglieri
Morte di Alberto Riva di Villasanta
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li avrebbero nel frattempo trattenuti con un combattimento frontale. Arrivano nei pressi del paesino di Ariis, lo superano senza aver alcuna avvisaglia della presenza nemica. Si dirigono sulla strada che lambisce il villaggio di Paradiso e, poco prima di giungere al vicino trivio, una raffica di mitragliatrice falcia numerosi uomini. Gli austriaci si sono appostat i con una mitragliatrice dietro la bassa vegetazione e li hanno attesi. Alcuni cavalli vengono colpiti da proiettili e bombe a mano, trascinando con sé a terra i loro cavalieri. Alberto Riva di Villasanta gridando la carica si lancia all'attacco con i bersaglieri ma viene colpito mortalmente. Il grosso del gruppo di austro-ungarici tenta di ritirare, mentre i mit raglieri cercano di coprire la loro fuga con fuoco di sbarramento, la cavalleria nondimeno si lancia all'inseguimento. Sono le 15.00, l'armistizio entra in vigore, ma al trivio di Paradiso nessuno sembra esserne al corrente. A terra giace Alberto, uno dei più giovani soldati della guerra, fra gli ultimi caduti d'Italia, che paga con la vita il prezzo di quelle terre su cui torna a sventolare il vessillo tricolore.
LA fAMA e LA nr:MORIA
e Caporetto ebbe l'immeritata fama di "rotta" e "disfatta", Vittorio Veneto non fu a sua volta risparmiata da giudizi assai severi, sebbene in misura minore. Ancora una volta, gli italiani si dimostrarono negli anni bravissimi nell'autocritica per nulla costruttiva, ossia nell'esaltare le proprie sconfitte e nell'affossare le vittorie. Prezzolini, nel 1920 affermava: "Vittorio Veneto è una ritirata che abbiamo disordinato e confuso, non una battaglia che abbiamo vinto ... a Vittorio Veneto non abbiamo battuto l'esercito austriaco che era già vinto; non abbiamo distrutto l'Austria che era già in pezzi...". Possiamo solo immaginare quale dolore possa aver provato a fine guerra un reduce del Grappa nel leggere queste parole. Ma proprio qui sta il punto: Prezzolini parlava ad un'Italia che la guerra l'aveva vista e combattuta, che ben sapeva come prendere le sue parole, ossia come l'ennesima provocazione di un noto fustigatore della politica, che ben altro mirava a sostenere. Solo chi, come noi, la guerra non l'ha né vista né vissuta può fraintendere. A Vittorio Veneto furono 36.000 le perdite subite dall'Italia, fra queste più di 7000 morti, certo cifre più contenute rispetto alle carneficine dell'Isonzo e del Solstizio, ma non si possono nemmeno considerare poco rilevanti. Se è vero che la divisione interna dell'Austria-Ungheria aveva portato a numerose defezioni nell'esercito, da parte di quei popoli che aspiravano ad ottenere l'indipendenza dall'Impero, è anche vero che buona parte dello schieramento era ancora saldo nelle sue posizioni e che resistette combattendo valorosamente, finanche negli ultimi scontri. Se e quando mancò lo spirito patriottico, fu
lo "spirito di corpo" a prenderne il posto ed a conservare la coesione delle truppe austriache sul Grappa e sul Pertica, spingendole a resistere, a onorare la propria bandiera in memoria dei commilitoni lasciati sul campo in quattro anni di lotta, ad immolarsi in combattimenti oramai senza speranza fino all'ultimo giorno di guerra. Non solo, nella compagine austroungarica era ben radicato il rifiuto a cedere quelle terre alle istanze risorgimentali italiane, nonché l'intento di preservare ad ogni costo un'identità militare forte, su cui costruire il futuro stato nazionale che stava ormai sostituendo l'impero asburgico. Sebbene l'esercito d'Austria-Ungheria fosse uscito dalla Battaglia del Solstizio est remamente provato, avendo subito perdite ingenti e trovandosi in difficoltà con gli approvvigionamenti, l'Alto Comando era nondimeno pronto e determinato a difendere il Veneto ad oltranza, giacché era l'unico pegno che poteva barattare al tavolo delle trattative di pace che, a ben intendere, avrebbe dovuto presto affrontare. Se dunque le notizie dal fronte interno incentivavano una parte delle truppe alla diserzione, è anche vero che il servizio di propaganda austriaco faceva di tutto per mantenerle fedeli quanto meno ai propri comandi. Il risultato sul campo di battaglia, come riporta Tullio Marchetti, era una "scorza dura" delle prime linee, forte dei soldati di origine tedesca, mentre lé truppe maggiormente influenzate dalla crisi interna al Paese erano quelle di riserva o di rincalzo, che avrebbero dovuto entrare in campo solamente dopo lo sfondamento delle prime linee. Per gli italiani non fu per niente facile rompere quella "scorza", che resistette quasi una settimana prima di cedere. Quello che invece fu alla base del successo finale, fu la capacità delle truppe italiane di sfruttare lo sfondamento, riuscendo ad accerchiare in
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breve tempo molte grandi unità nemiche, raggiungendo infine gli obiettivi prefissi prima di una riorganizzazione dell'esercito avversario, grazie all'invio delle truppe celeri ( cavalleria e bersaglieri). Si verificò, a parti invertite, quanto era già avvenuto a Caporetto, con la differenza sostanziale che gli austriaci, nella loro offensiva, non avevano previsto truppe veloci da lanciare alla conquista del territorio, giacché non contavano di poter puntare verso obiettivi tanto lontani. La fortuna aveva loro arriso oltre misura, aprendo una porta che non si aspettavano di varcare e davanti alla quale giunsero non del tutto preparati. Anche per questo, non fecero in tempo a circondare il Regio Esercito che riuscì dunque a ripiegare sul Piave. Non altrettanto avvenne a Vittorio Veneto: le truppe italiane lanciarono subito cavalleria e bersaglieri alla conquista delle città chiave, mentre l'aviazione bombardava senza tregua le truppe in ritirata, arrestandole e facendole cadere prigioniere della fanteria che avanzava. A quel punto, per gli austriaci non vi era più una linea dietro cui riparare, perché le truppe erano decimate ed il grosso dell'artiglieria in mano al nemico. A completare il quadro, si deve certamente aggiungere anche l'ammutinamento dei soldati delle nazionalità che oramai aspiravano all'indipendenza. Anche qui, è importante cogliere la differenza fra quanto avvenne durante la ritirata fra i soldati italiani a Caporetto e quanto avvenne fra gli austriaci a Vittorio Veneto. L'indomani della penetrazione austro-tedesca fra Plezzo e Tolmino, le diserzioni che inevitabilmente si accompagnarono alla ritirata, avvennero sulla base del rifiuto della guerra e della sua utilità, tuttavia, fra le truppe italiane non subentrò mai un vero e proprio rifiuto dei comandanti, ancor meno una reale messa in discussione del sovrano e del governo. I soldati chiamati a combattere prima in difesa e poi in retroguardia, non si sottrassero certo al compito . Anche quando, nel caso della 2a Armata, si "ruppero le righe", si trattò di un effetto temporaneo legato allo sfondamento, ma in seguito fu possibile recuperare quelle
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truppe e restituire loro capacità operative. Al contrario, a Vittorio Veneto fra le file dei soldati imperiali si ebbe un reale e definitivo disconoscimento dell'autorità militare e civile, soprattutto fra le truppe di rincalzo. Ecco perché in questo caso e a buon titolo si può parlare di "disfatta" o "rotta": dopo lo sfondamento italiano, invece di lanciarsi nella battaglia, la maggior parte dei corpi oppose più o meno espliciti rifiuti di obbedienza, inneggiando all'indipendenza e avviandosi verso oriente, con un reale "disfacimento" della compagine dell'esercito. Dopo Vittorio Veneto, non sarebbe più stato possibile recuperare "gli sbandati" e reintegrarli nello schieramento, perché buona parte dei soldati austriaci, dopo la rotta, erano entrati a far parte di eserciti differenti, in nazioni neo costituite. Tuttavia, occorre ricordare che anche durante la ritirata austroungarica non mancarono i reparti capaci di conservare la coesione, di battersi tenacemente come retroguardie, di reagire fino all'ultimo istante ai tentativi di penetrazione italiani. Dunque aveva ragione Prezzolini nel negare un reale scontro? Di certo non aveva ragione nello sminuire la battaglia di Vittorio Veneto che fu decisamente combattuta e sofferta dagli italiani, soprattutto sul Grappa. Ma Prezzolini non voleva sostenere questo, voleva piegare il discorso verso un altro scopo. Voleva rimarcare la valenza di Caporetto in relazione a Vittorio Veneto, sostenere la Battaglia del Solstizio quale vittoria umile e più salda di quella finale. Voleva denunciare tutti quelli che a frotte erano saltati sul carro del vincitore, cancellando tutto il "sano" dolore precedente, che aveva cambiato l'Italia rendendola migliore, più umile e finalmente unita. Voleva sottrarre da sotto i loro piedi il pomposo alloro, per far tornare l'Italia, ebbra di vittoria, con i piedi per terra. In questo, per certi versi, aveva le sue ragioni, visto che alla Prima Guerra Mondiale ne seguì una seconda, scatenata cavalcando l'onda della vittoria italica, con velleità di nuove e improbabili conquiste. Vittorio Veneto è una battaglia che non si può riassumere soltanto negli eventi che vanno
---·•·--dal 24 ottobre al 3 novembre 2018. Vittorio Veneto trae le sue origini da Caporetto, trova radici solide nelle battaglie difensive delle Battaglie d'arresto e del Solstizio, infine si consolida nella vittoria finale. Questo perché i soldati della ritirata furono in gran parte i medesimi della vittoria, non erano cambiati se non nell'animo. Non vi furono soldati perdenti e soldati vincitori, essi in gran parte furono gli stessi (si escludono ovviamente i caduti). Nell'esercito, il primo grande artefice del cambiamento fu Diaz: egli prese a cuore il soldato non trattandolo più da mero esecutore degli ordini, ma spiegandogli la ragione del suo combattere, il valore del suo sacrificio, dando fiducia ai propri ufficiali, motivando e rendendo migliore e più coesa la compagine armata. Sul fronte interno, i profughi furono l'incentivo migliore, perché tutta la penisola dovette prendere atto del dramma delle migliaia di famiglie che avevano dovuto lasciare tutto e che ora chiedevano asilo fra le lacrime e lo sconforto. Non si andava più alla conquista di terre straniere, ma di paesi, campi e monti dai nomi familiari. L'Italia intera cambiò dopo Caporetto, mettendosi a fianco del soldato che vide finalmente riconosciuto il proprio sacrificio. La classe politica comprese i propri errori: l'aver voluto una guerra di conquista, facile e rapida, per poi lamentare le morti e le privazioni che essa comportava. D'innanzi alla ritirata, nessuno poteva più sottrarsi alla colpa: ad essere sconfitti non erano solo i soldati, ma chiunque quella guerra l'aveva voluta e, non ultimo, tutti coloro che avevano promosso l'idea della resa, minando l'animo di chi stava combattendo anche per loro. Scesero allora in campo non solo i soldati, ma l'Italia intera. Durante la Battaglia del Solstizio alle falde del Montello, i contadini incitavano i soldati ed al contempo continuavano a mietere imperterriti il grano, mentre intorno a loro cadevano le bombe degli aerei nemici ed a poche centinaia di metri si combatteva aspramente. Mietevano il grano perché quello era il loro compito, il loro campo di battaglia, ognuno faceva il proprio dovere, pur conscio
del pericolo. Ecco cosa aveva fatto Caporetto. L'errore che si fece, sminuendo o esaltando oltremodo la conquista di Vittorio Veneto, era pensare che fosse disgiunta da questa presa di coscienza. Tutto partì dall'estremo dolore della perdita, fu proprio la più grande sconfitta italiana nonché la più grande vittoria austriaca a far trovare alla Nazione la forza di invertire questi due risultati, di cambiare le sorti della guerra quando sembravano già segnate. Naturalmente, parte dell'ingiusta fama di "disfatta" di Caporetto e di "finta" battaglia di Vittorio Veneto dovette la sua forza anche alla storiografia estera del dopoguerra: agli austriaci certo faceva buon gioco esaltare le vittorie più delle sconfitte, nonché sottolineare la presenza delle truppe britanniche e francesi nell'ult ima battaglia, giacché perdere contro la "piccola Italia" non era tanto onorevole quanto soccombere a tre nazioni unite e coese. Francia ed Impero Britannico, da parte loro, vollero sottolineare il loro contributo e come fosse decisivo il passaggio sconfitta-vittoria avvenuto proprio in concomitanza del loro apporto. Nonostante questo, nessuno di loro ha mai superato parte della storiografia italiana, che ha fatto scontare a Vittorio Veneto anche l'esaltazione fascista, che troppo operò dal lato opposto, creando miti ampollosi quanto inesistenti. Questa pesante eredità di "onte" e "false vittorie" non ha fatto altro che alimentare la propensione a dimenticare queste pagine di storia, cercando di evitare temi "scomodi" e senz'altro dolorosi. Così ben presto sono andati dimenticati i tanti eroi che combatterono a Caporetto assieme a quelli che morirono a Vittorio Veneto, che in questo volume abbiamo voluto iniziare a ricordare. A cento anni dalla guerra, è dunque l'ora di dimenticare la fama per lasciare spazio alla memoria.
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RINQRAZIAMENTI più alta espressione di riconoscenza va al Capo di Stato Maggiore dell'Esercito, Generale di Corpo d'.Armata Salvatore Farina, per il credito e la fiducia concessi al progetto. Il suo apporto è stato fondamentale nel dare prestigio ad un'iniziativa dedicata alla divulgazione storica degli eventi della Grande Guerra. La
I più sentiti ringraziamenti vanno inoltre a tutti gli appartenenti allo Stato Maggiore Esercito che, a vario titolo, hanno esaminato e valutato l'opera, nonché promosso i suoi contenuti. Al Prof. Paolo Pozzato ed al Dott. Marco Pascoli per aver letto i testi valutandone la verosimiglianza, nonché per aver reso disponibili i loro studi. Al Prof. Fortunato Minniti ed al Dott. Giacomo Bollini, poiché dai loro libri sono tratte alcune fra le citazioni più belle. Uno speciale ringraziamento va agli artisti Massimiliano Notaro ed Alessandro Nespolino, per aver accolto con pazienza bozzetti, foto, dettagli e correzioni sempre troppo numerosi, riuscendo ad interpretare magistralmente gli eventi narrati. Un ringraziamento particolare va a Vittoria Assicurazioni, exclusive sponsor, per la partecipazione a questa iniziativa, che testimonia il lodevole impegno di detto Istituto nella promozione di progetti culturali volti alla creazione di una memoria storica collettiva, ogni giorno sempre più necessaria e preziosa. Federica Dal Forno
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LA MANOVRA IN RITIRATA 5(11EMI E5EMYLlil(ATIVI
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Finito di stampare nel mese di Gennaio 2020 presso Gemmagraf 2007 S.r.l. www.gemrnagraf.it