VENEZIA NEWS
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TINTORETTO Un anno di storie, voci, idee
ATENEO VENETO 1
Venezia News Direttore Editoriale Massimo Bran Ateneo Veneto Presidente Gianpaolo Scarante
TINTORETTO
Un anno di storie, voci, idee A cura di Franca Lugato e Mariachiara Marzari Testi Melania Mazzucco, Giandomenico Romanelli, Augusto Gentili, Sabina Vedovello (CBC), Annamaria D’Ottavi (MAUVE Srl), Michela Luce, Stefano Cecchetto, Fabrizio Plessi Edito da Autorizzazione del Tribunale di Venezia n. 1245 del 4/12/1996
Redazione, editing Marisa Santin Ha collaborato Fabio Marzari Grafica Luca Zanatta Stampa Grafiche Antiga
in copertina
Tintoretto Miracolo dello schiavo Gallerie dell’Accademia, Venezia 2
VENEZIA NEWS
#2 500
TINTORETTO Un anno di storie, voci, idee a cura di Franca Lugato e Mariachiara Marzari
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Indice
Introduzione Un anno con Tintoretto Massimo Bran
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Storie a cura di Franca Lugato e Mariachiara Marzari L’amico Jacomo Melania G. Mazzucco
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Il “sequestrato di Venezia” Giandomenico Romanelli
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Tintoretto, le donne (e altre tentazioni) Augusto Gentili
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Il Maestro rivelato Sabina Vedovello, CBC
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Lo spazio dell’opera d’arte Annamaria D’Ottavi, MAUVE Srl
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Taccuino d’ombre Michela Luce
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Conversazione/Lacerazione Stefano Cecchetto Appuntamento al buio Fabrizio Plessi
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Mappa tematica Il Maestro e la città
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Mostre Il diario di un’eternità Franca Lugato
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I labirinti del Maestro Giandomenico Romanelli
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Libri e audiovisivi Quindici tracce in più...
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Introduzione
Un anno con Tintoretto Massimo Bran
Gli anniversari, come si sa, rappresentano ormai un settore fondamentale per l’economia complessiva dell’industria culturale. Questo vale per tutti i suoi settori, dal cinema alla musica, dalla storia alla politica, dal teatro alla letteratura. Naturalmente l’arte non fa eccezione, anzi. Ormai quotidianamente si affastellano osanna, ristampe, convegni, ritratti più o meno agiografici a mille e uno protagonisti, molti dei quali spesso improbabili. C’è chi si azzarda a dire che ormai non vi è più nulla da scoprire, da inventare o reinventare, per cui si è costretti a declinare gli sforzi dell’industria del sapere nella direzione della canonizzazione. Ovviamente come tutte le boutade anche questa va presa per quello che inevitabilmente è, ossia una mera provocazione per guadagnare un qualche quarto d’ora di ulteriore celebrità quotidiana. Eppure, come negare che vi sia del vero? In questa ipertrofica calendarizzazione di omaggi, ricorrenze (non parliamo poi dei coccodrilli, vera punta di diamante di ogni media sul mercato…), si finisce per languire esausti, sazi oltre l’immaginabile, rischiando così di perdere anche la minima capacità di distinguere, di discernere tra necessità e aria fritta. Nell’urgenza fittizia di dover essere connessi a un presente sempre più liquido che tutto fagocita nel giro di un sospiro, il rischio vero, allora, è di farsi prevenuti per contrasto verso qualsiasi forma di celebrazione postuma, in qualunque forma essa si esprima. Fino al paradosso di arrivare a dimenticarsi di figure chiave della nostra storia, magari tra quelle poche su cui sarebbe obbligatorio ritornare. La bulimica offerta di informazioni in tempo reale
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presenta questi rischi, sì, che spesso producono danni incalcolabili nella costruzione di una corretta scala valutativa dei fondamentali della nostra cultura. Fortunatamente, e avremmo anche voluto vedere!, il più veneziano dei grandi artisti rinascimentali non ha mai corso questo rischio, anzi. Jacopo Robusti, in arte Tintoretto, ha goduto doverosamente di un ritorno in grande stile sulla sua arte in tutte le sue forme, formati, collocazioni. Tre importantissime mostre, due qui a Venezia, alle Gallerie dell’Accademia e a Palazzo Ducale, e una, la più antologica e completa, alla National Gallery of Art di Washington, un corposissimo catalogo congiunto, ulteriori pubblicazioni, documentari televisivi, un convegno internazionale, innumerevoli incontri e conferenze che, in tutto il loro articolato insieme, hanno contribuito a costruire un riuscitissimo omaggio critico a questa figura nodale dell’arte veneziana e mondiale. Un esempio, diciamo così, vecchio stile, in consonanza con quei tempi in cui la scala valutativa delle priorità di cui occuparsi anche in chiave memorialistica era assai più solida e chiara, una scala in cui il Tintoretto, né ieri né oggi, avrebbe mai potuto collocarsi se non sui suoi primissimi gradini. Quando però un omaggio assume dei contorni così pieni, ricchi, frastagliati, chiaramente ciascun soggetto che lavora nella critica, nelle Università, nella comunicazione, nell’editoria si pone il problema del senso che debba avere un proprio, ulteriore contributo in un’orchestra già così robustamente polifonica. Il rischio è di apparire scontati, o peggio ancora, di reiterare il già detto da altri. Un rischio in parte inevitabile quando si è in troppi a dire. Però, ecco, l’obbligo di valutare bene il “che fare” dovrebbe sempre condizionare qualsiasi progettualità, piccola o grande che sia, in un simile scenario, inducendo a riflettere anche in una chiave di sana sottrazione. Il nostro city-magazine internazionale mensile «Venezia News», quotidianamente impegnato tra Biennali e grandi mostre, per limitarci qui al settore arte, a restituire il cuore vivo degli eventi, facendosi sempre guida a ciò che davvero non s’ha da perdere approfondendolo in maniera compiuta, alla vigilia del Cinquecentenario questo pensiero se l’è posto in maniera seria, rifuggendo come suo abituale costume qualsiasi forma di didascalica meccanicità nel rincorrere qualsivoglia ricorrenza. Facendolo ci è immediatamente stato chiaro che l’unica chiave che potesse corrispondere al nostro approccio dinamico agli accadimenti culturali, alla nostra costitutiva natura identitaria in sostanza, fosse quella di
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rifuggire qualsiasi biografismo enfatico a puntate per invece indirizzarci su un decisamente più fertile percorso che indagasse il linguaggio e la produzione di questo straordinario artista in tutte le sue possibili declinazioni, con al centro la tensione viva per un confronto plausibile con il contemporaneo, sia a livello di ispirazione del suo dettato, sia a livello di persistenze visive del suo segno. Abbiamo così deciso di partire per un lungo viaggio, iniziato nel settembre del 2018 per poi proseguire in complessive dieci tappe coincidenti con dieci numeri consecutivi del nostro mensile, attraverso un percorso pensato fuori dal tracciato istituzionale del Cinquecentenario, andando a cercare e ad ascoltare le voci di chi ha amato profondamente questo Maestro, studiandolo, indagandolo in tutte le sue possibili sfumature. Sono nate, tra le altre cose, una serie di interessanti e coinvolgenti interviste che di mese in mese sono divenute capitoli imprescindibili di questo percorso. Siamo partiti da Melania G. Mazzucco, la più accreditata biografa ai giorni nostri di Tintoretto, per poi passare a Giandomenico Romanelli, che ci ha accompagnato dentro una visione artistica capace di superare la tradizione da parte di un Maestro perennemente contemporaneo, e ad Augusto Gentili, con cui abbiamo affrontato il tema delle donne e dell’iconografia tintorettiana, continuando con due approfondite interviste alle restauratrici Sabina Vedovello, di CBC Conservazione Beni Culturali, e Annamaria d’Ottavi, di MAUVE Srl, che hanno lavorato direttamente sulla materia pittorica del Maestro, sia alla Scuola Grande di San Rocco che sulla Pala dell’Ateneo Veneto. L’anniversario dei cinquecento anni ha rappresentato infatti un’occasione importante per restaurare ben diciotto grandi teleri del Tintoretto. Questo, però, non ci è bastato e abbiamo così voluto spingerci oltre, andando a indagare con Michela Luce l’influenza di Tintoretto, la sua eredità a Venezia e il suo fascino profondo esercitato in particolare negli artisti inglesi dell’Ottocento, a partire da John Ruskin e dal suo protetto Edward Coley Burne-Jones, quanto mai fondamentali nel preservare in maniera viva la memoria del Robusti in un periodo di grande difficoltà e abbandono per la città di Venezia. Siamo poi approdati al Novecento, arrivando inevitabilmente a toccare con mano le affinità con Emilio Vedova, guidati dall’emozionante racconto di Stefano Cecchetto, curatore con Germano Celant nel 2013 della mostra sul dialogo tra i due grandi artisti veneziani all’interno della Scuola Grande di San Rocco, che ci ha raccontato il profondo innamoramento di Vedova nei
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confronti dell’arte tintorettiana. Siamo così arrivati alla fine del nostro percorso, a un anno di distanza dal suo avvio, colmi di entusiasmo e di accresciuta conoscenza verso il Nostro. Mancava l’ultima tappa, però, quella che ci porta a oggi, ancor di più a domani, a dopo l’anniversario, ossia al rapporto tra il Tintoretto e il contemporaneo. In questa direzione non potevamo allora che dirigerci verso le inconfondibili luci e le contrapposte ombre di Fabrizio Plessi, grande artista in cui le suggestioni di Jacopo Robusti agiscono forti e profonde. Un tassello, quest’ultimo, particolarmente intrigante e stimolante per toccare con mano quanto mai sia ancora spendibile nel nostro caotico presente il magistero di un Maestro totale quale fu questo straordinario pittore veneziano. Un percorso così ricco, vario, polifonico ci siamo detti che meritava di essere restituito in unico supporto, in un volume che raccogliesse per intero questa emozionante rotta. Da qui l’idea di unire le forze con la più, a sua volta, veneziana delle istituzioni culturali cittadine, quell’Ateneo Veneto che da oltre due secoli rappresenta la casa delle espressioni culturali più alte della città, in tutti i vari settori del pensiero e della creazione. T#2, quindi, è figlio del progetto dell’Ateneo di realizzare quello che congiuntamente abbiamo battezzato T#1, ossia il volume curato dalla professoressa Stefania Mason dedicato al restauro della pala del Tintoretto di proprietà dell’Ateneo stesso, vale a dire l’Apparizione della Vergine a san Girolamo. Per quanto ci riguarda è non solo di per sé un onore poter collaborare con questa storica Istituzione, ma anche un’opportunità per poter costruire un’autentica, fertile sinergia tra due realtà entrambe nel cuore della cultura veneziana, ma con due percorsi e con due approcci per forza di cose diversi. Ma conciliabili, eccome! E questo progetto congiunto in due atti, T#1 e T#2, lo dimostra crediamo eloquentemente, poiché disegna una terza via tra la storica, lunga marcia di un’Istituzione che fa della scientificità, dell’alta accademia, ma anche della funzione di ponte di incontro tra le diverse anime della società, in primis veneziana ma non solo, e la più recente storia fortemente contemporanea di un editore indipendente che ha sempre cercato, e sempre cercherà, di trovare delle chiavi nuove per ridare un senso percorribile, futuro, a una storia come quella veneziana che non può essere condannata ad essere sempre e solo storia. Una terza via di cui questo progetto speriamo rappresenti solo una prima, riuscita tappa.
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10 marzo 2019
Il Maestro rivelato Sabina Vedovello, CBC
febbraio 2019
Tintoretto, le donne (e altre tentazioni) Augusto Gentili
novembre 2018
Il “sequestrato di Venezia” Giandomenico Romanelli
settembre 2018
L’amico Jacomo Melania G. Mazzucco
Storie
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giugno 2019
Conversazione/Lacerazione Stefano Cecchetto
aprile 2019
Lo spazio dell’opera d’arte Annamaria D’Ottavi, MAUVE Srl
settembre 2019
Appuntamento al buio Fabrizio Plessi
maggio 2019
Taccuino d’ombre Michela Luce
L’amico Jacomo
La leggenda vuole che Tintoretto sia stato dieci giorni nella bottega di Tiziano, più o meno intorno al 1536, prima di essere allontanato dal Maestro perché ingelosito dal talento di questo ragazzino ambizioso o “spiritoso”, come lo definisce il biografo Carlo Ridolfi, che racconta l’episodio usando questa parola che all’epoca significava “dotato di grande estro” 12
settembre 2018
Storie
Intervista a Melania G. Mazzucco di Franca Lugato
L’uomo,
l’artista, i capolavori, i luoghi e, naturalmente, Venezia... Non potevamo cogliere occasione migliore per penetrare l’universo del grande Maestro: l’aprirsi della stagione tintorettiana per i 500 anni dalla sua nascita (1519-1594). Oltre le annose questioni critiche, il nostro è un viaggio nella passione pura per l’arte e per le sue storie. Ecco perché abbiamo chiesto a Melania G. Mazzucco, che del Tintoretto possiamo dire è la miglior “amica”, di farci da guida. Il suo approccio narrativo è avvincente e le sue parole descrivono alla perfezione un amore diventato poi studio e lavoro. 2008-2018/’19, sono trascorsi dieci anni dal “dittico” La lunga attesa dell’angelo (Rizzoli, 2008) e Jacomo Tintoretto e i suoi figli. Storia di una famiglia veneziana (Rizzoli, 2009). In questo anno di celebrazioni tintorettiane, quale l’attualità del suo lavoro? Sì, infatti, è anche il mio anniversario! Sono trascorsi dieci anni dalla prima tappa, ovvero la pubblicazione dei due volumi, che per me ha rappresentato il punto di arrivo di una parte della ricerca e allo stesso tempo anche l’inizio di un’altra avventura, perché anche se faccio la scrittrice e il mio lavoro è scrivere libri, l’averli scritti mi ha portato a parlare d’arte in un modo diverso, non soltanto attraverso la parola. È nata una serie di bellissime attività parallele su Tintoretto, ma non solo, che continuano tuttora.
Dal colpo di fulmine all’amore incondizionato: quando e come Tintoretto è entrato a far parte della sua vita? È una storia cominciata per caso, come tutte le grandi storie d’amore. Ho sempre amato moltissimo Venezia e ho avuto la fortuna di viverla non necessariamente da turista: quando ero bambina mio padre era consigliere della Biennale di teatro; veniva spessissimo in laguna, quando non era a Roma era qui. Per me Venezia era la “città del padre”; ho sempre sentito una fortissima fascinazione verso di lei, un grande desiderio di starci e di conoscerla. Dopo la sua morte, sono venuta per viverci un periodo nella casa di un suo amico drammaturgo, a Cannaregio, nella zona di Sant’Alvise. Era l’inverno del 1990, mi ero appena diplomata al Centro Sperimentale di Cinematografia, mi stavo laureando in letteratura, scrivevo. Ero insomma alla ricerca di una vita e di un destino. Ho cominciato a battere a tappeto le chiese veneziane, cosa che ha la possibilità di fare solo chi si ferma a Venezia per un po’ di tempo. La prima chiesa che volevo visitare era la più vicina, quella della Madonna dell’Orto (fig. 1 ), dove sapevo essere custodito un bellissimo quadro di Giovanni Bellini, che tra l’altro fu rubato pochissimo tempo dopo in quello che fu uno dei furti più clamorosi degli anni Novanta. Entrando in quella splendida chiesa medievale invasa da una suggestiva luce invernale, quasi mistica in quella mattinata, sono stata attratta dalla luce che proveniva da un altro quadro: la tela di Tintoretto appesa nella parte destra della chiesa, sopra la porta della sacrestia. In quel momento vedevo solo un quadro, mi limitavo a guardarlo con l’innocenza di un candido lettore o spettatore. Al centro dell’opera troneggia una bambina solitaria in cima a una scala monumentale. Il quadro è costruito in modo tale per cui lo spettatore si sente ai piedi della stessa scala, percependo la grandezza dell’evento che sta accadendo alla bambina, la sua solitudine e il suo essere speciale – la bambina è circonfusa di luce e controluce –, e osservando al contempo una donna di spalle ai piedi della scala con in braccio una bimba della stessa età dell’altra. È un quadro di donne, un quadro di bambine, che parla quasi del destino femminile. In quel momento ero confusa, perché da “candido
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fig. 1
Chiesa della Madonna dell’Orto Venezia fig. 2
Tintoretto Presentazione di Maria al Tempio (particolare) Chiesa della Madonna dell’Orto, Venezia
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spettatore”, appunto, non sapevo nulla del soggetto dell’opera e non avevo ancora letto la didascalia, ma mi colpiva enormemente lo sguardo del pittore sulle donne e sulle bambine: ’essere io stessa una donna probabilmente ha influito. A quel punto mi sono avvicinata e ho scoperto che era stato dipinto da Tintoretto ed era intitolato Presentazione di Maria al Tempio (fig. 2) . Mi sono resa conto di averne viste molte di Presentazioni, ma nessuna mi aveva mai trasmesso così profondamente il senso del destino di Maria e, quindi, anche della bambina che sale la scala. Allora ho deciso di scoprire qualcosa di più su Tintoretto. Durante il mio soggiorno veneziano ho cercato di vedere tutto ciò che potevo di lui, scoprendo intanto – come la maggior parte di noi – di averlo studiato a scuola per “formule” un po’ generiche. Per me la parola “Tintoretto” all’epoca era legata al manierismo, alla pittura religiosa della Controriforma, alla fine del Rinascimento, all’inizio del Barocco. La mia avventura era iniziata: volevo conoscere meglio il pittore, vedere le altre sue opere, capire cosa c’era di così straordinario in quel quadro da colpirmi a tal punto. Ho intrapreso un viaggio più che decennale, quasi ventennale, cominciando da zero e poi ho pensato di scrivere un libro su quella scala, su quelle donne che osservano la giovanissima Maria, su quella bambina colta di spalle in primo piano che forse era la figlia di Tintoretto stesso, Marietta. Attraverso la biografia di Tintoretto entriamo nella sua arte e nella sua Venezia. L’uomo, quindi, prima dell’artista: le sue origini, il contesto in cui cresce, in cui si forma questo maestro indipendente… Una delle cose più interessanti su cui ho riflettuto moltissimo è proprio il nome di
Tintoretto. I grandissimi pittori del nostro Rinascimento e del nostro Umanesimo li conosciamo tutti per nome: Michelangelo, Raffaello, Tiziano, in una forma di familiarità e di rispetto allo stesso tempo, come si fa con i re, Federico II, Carlo V, Riccardo III... L’artista chiamato per nome diventa, quindi, familiare a tutti e questa non è una forma di “diminuzione”, ma al contrario di riconoscimento della sua assoluta grandezza. Mi ha sempre colpito che Tintoretto non lo conosciamo con il suo nome, Jacomo o Jacopo nella versione toscanizzata, bensì con un soprannome e, per di più, con un diminutivo. Il pittore non sceglie di firmarsi con il suo vero nome, cioè Jacopo Robusti, valorizzando il cognome della famiglia – anche se non abbiamo prove certe –, ma decide di chiamarsi Tentor, riferendosi al mestiere del padre, una scelta già di per sé molto politica. Il padre è un tintore di panni di lana prima, di seta in seguito. Un mestiere manuale e meccanico, anche se al vertice della gerarchia artigiana del Cinquecento. Probabilmente il padre di Tintoretto arriva a Venezia dall’entroterra della Repubblica, dal bresciano, e generalmente i lavoranti provenienti da quel territorio, giovani e forti, a Venezia andavano a trovare un impiego nelle tintorie. Il settore tessile è la grande industria e il vanto di Venezia e dà lavoro ai tre quarti della popolazione della città. Tuttavia, è un lavoro durissimo: si faceva nelle caldiere, con i fuochi sempre accesi e bisognava rimestare i colori nei mastelli, mettere a cuocere la seta; faceva caldissimo. Solo alcuni lavoranti riuscivano a diventare proprietari o gestori di bottega e ad acquistare uno status sociale più elevato. Tintoretto rivendica l’essere figlio di un tintore, di essere un abitante della città, di appartenere al popolo, non nasconde la pro-
MELANIA G. MAZZUCCO Una delle più apprezzate narratrici italiane contemporanee. Il suo romanzo d’esordio, Il bacio della medusa (1996), è stato finalista al Premio Strega e al Premio Viareggio. Nel 2009 ha scritto Jacomo Tintoretto e i suoi figli. Storia di una famiglia veneziana, un’accurata ricostruzione in chiave storico-documentaria della vicenda raccontata nel suo romanzo storico La lunga attesa dell’angelo, Premio Bagutta e Premio Scanno 2008.
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pria estrazione sociale, al contrario la esalta. Questa scelta è interessante soprattutto se si pensa alla battaglia culturale che i pittori affrontavano per essere riconosciuti non come artigiani, bensì come maestri delle arti liberali. Tiziano in particolare per tutta la vita si adopera per far riconoscere la sua origine nobile ed essere persona degna di conversare e discorrere con conti, sovrani e principi, tant’è che molto presto viene nominato cavaliere e conte palatino. Tintoretto decide invece di chiamarsi Tentor per la sua storia familiare, l’origine sociale e anche per senso di appartenenza. Una decisione fortissima. Oltre a questo, c’è anche il diminutivo, ma questa è un’altra storia. Tintoretto era piccino di statura e probabilmente per questo i suoi amici affettuosamente lo chiamavano “Tentoretto”; c’è chi dice, tuttavia, che tale diminutivo venisse in realtà utilizzato dai suoi nemici in maniera beffarda, come a dargli del piccolo pittore, nel senso più riduttivo e limitativo del termine. All’inizio Jacopo non usa il diminutivo; arriva ad accettarlo solo più tardi, quando forse è consapevole di non dover dimostrare più niente, riconciliandosi anche con questo vezzeggiativo. Ad ogni modo noi lo conosciamo oggi come Tintoretto e questo già lo qualifica, lo inquadra e lo definisce, e in buona parte è una scelta che ha fatto lui stesso. Gli esordi di Tintoretto mostrano forti tracce del manierismo tosco-romano. Quali le influenze che formarono il gusto del Maestro? Sappiamo abbastanza poco dei primi anni di Tintoretto. Ciò che conosciamo è una versione leggendaria, anche se io do in genere grande importanza alle leggende, perché nascono sempre da una qualche verità, da un fatto che a forza di essere raccontato viene progressivamente elaborato assumendo una sua valenza concreta. La leggenda vuole che Tintoretto sia stato dieci giorni nella bottega di Tiziano, più o meno intorno al 1536, prima di essere allontanato dal Maestro perché ingelosito dal talento di questo ragazzino ambizioso o “spiritoso”, come lo definisce il biografo Carlo Ridolfi, che racconta l’episodio usando questa parola che all’epoca significava “dotato di grande estro”.
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Non sappiamo se il racconto sia da prendere alla lettera, di certo si sa che fin da molto giovane Tintoretto ha avuto un apprendistato accidentato e non convenzionale nella bottega di qualche maestro, ma poi per lo più si è formato in maniera indipendente, seguendo le proprie passioni e interessi. Non ci è dato sapere in quale bottega Tintoretto apprenda letteralmente il mestiere, forse proprio in quella di Bonifacio de’ Pitati, detto Bonifacio Veronese (Verona, 1487-Venezia, 1553) (fig. 3) . Alcune tracce nelle sue opere giovanili tendono ad avvalorare questa tesi. Jacopo però si guarda presto intorno; è un giovane ambizioso, consapevole della varietà degli approcci dei pittori che stavano lavorando a Venezia tra il 1530 e il 1540, interessato, come tutti i suoi coetanei, alla pittura d’avanguardia. In quel momento a Venezia, dal 1539 in poi, l’avanguardia è la grande pittura tosco-romana. Iniziano a circolare opere di questa scuola grazie all’arrivo di pittori che portano con sé dei disegni, cominciando poi a realizzare opere in città, appoggiati dall’aristocrazia colta che cerca di portare a Venezia una maniera di dipingere già affermatasi definitivamente a Roma. I giovani veneziani sono affascinati da questo nuovo modo di dipingere plastico, con figure in pose instabili, scorci, torsioni… Il giovane Tintoretto guarda e probabilmente cerca di trovare la propria strada ispirandosi anche a questi nuovi modelli, che non sono i tradizionali modelli veneziani che poteva trovare in città. La seduzione della nuova pittura è grande su tutti, perfino Tiziano, pittore già famosissimo, conteso da tutte le corti di Europa, non resta indifferente alla novità del linguaggio manierista. Purtroppo non abbiamo molti punti fermi sulle prime opere di Tintoretto. La Sacra conversazione Molin (collezione privata) (fig. 4) è una delle poche di cui vi è certezza e su cui non si discute. Tintoretto fu un pittore molto precoce: diventa maestro indipendente prestissimo, conclude il suo apprendistato attorno ai 18 o 19 anni addirittura prendendo in affitto una piccola bottega nei dintorni di San Cassian, che poi è la zona di Venezia in cui è sempre vissuto. Al tempo stesso, però, i suoi primi quadri certi guardano in tante direzioni diverse. Quindi da una parte vi è curiosità, interesse e una
fig. 3
Bonifacio de’ Pitati detto Bonifacio Veronese Il ricco Epulone Gallerie dell’Accademia, Venezia fig. 4
Tintoretto La Sacra conversazione Molin, collezione privata A destra nella mostra Il giovane Tintoretto, Gallerie dell’Accademia, Venezia (7 settembre 2018-6 gennaio 2019)
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fig. 5
Tintoretto Miracolo dello schiavo Gallerie dell’Accademia, Venezia
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scelta in parte definitiva verso il Manierismo tosco-romano, da un’altra parte Tintoretto rimane attento a ogni novità in arrivo in città. La produzione giovanile, nel decennio dei suoi vent’anni, è infatti polimorfa, difficile fissarne una linea definita. La rivoluzione del 1548: il Miracolo dello schiavo e le sue conseguenze. Le opere dei tre o quattro anni precedenti a questo dipinto mostrano già una progressiva chiarificazione del pittore, che dimostra sempre meglio cosa vuole fare e finalmente ha l’occasione di farlo, perché un artista per esprimere veramente la propria visione della pittura e il proprio sentire deve avere anche lo spazio per poterlo fare. Miracolo dello schiavo (fig. 5) è un dipinto grandissimo: la prima cosa che colpisce è proprio la sua superficie, un’opera-parete destinata ai grandi spazi della Scuola di San Marco. Con questo lavoro finalmente Tintoretto ha l’occasione di mostrare alcune cose che sa padroneggiare genialmente. Per prima cosa l’invenzione, la capacità di raccontare, il taglio narrativo che imprime a tutte le sue opere – qualunque soggetto esse rappresentino – attraverso la composizione delle scene. Un pittore il più delle volte non può scegliere il soggetto del quadro, ma può scegliere in che modo raccontarlo, dipingerlo. Tintoretto lo fa sempre con una libertà, una genialità, un’immaginazione che sbalordiscono ancora oggi. Di questo quadro si potrebbe parlare un giorno intero: per esempio del modo in cui Tintoretto sceglie di raffigurare al centro dell’immagine lo schiavo anziché il santo, dipinto in alto mentre a capofitto precipita dal cielo con la faccia in ombra e i piedi ben visibili. Viceversa, lo schiavo è in piena luce e il suo corpo bianco abbaglia. Lo schiavo è un personaggio indegno e Tintoretto lo mette invece al centro di tutto. Vi è inoltre una straordinaria composizione teatrale di tutto ciò che accade intorno. Nessuno vede il santo, ma tutti possono vedere le conseguenze del suo intervento: tutti gli strumenti di tortura distrutti in primo piano, lo sbalordimento, il movimento che come un’onda sembra travolgere gli spettatori. Altro elemento straordinario è l’uso dei colori,
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vanto della pittura veneziana, ma che qui Tintoretto sceglie di usare in modo per nulla veneziano, allontanandosi dalla linea tracciata da Bellini-Giorgione-Tiziano. E la plasticità dei corpi, scultorei, potentissimi, atletici, definiti nello spazio al punto che sembrano quasi uscire dal quadro, caratteristica che apparteneva alla pittura di Michelangelo e Raffello ma che a Venezia non si era mai vista prima. L’opera fu una novità eccezionale, un capolavoro assoluto che peraltro suscitò anche delle controversie, forse tematiche; non sappiamo esattamente per quale motivo. Ciò che sappiamo di certo è che quest’opera rappresentò per Tintoretto un’affermazione straordinaria che cambiò la sua carriera. Cannaregio, la bottega, la famiglia, Marietta (fig. 6) e i figli. I fondamentali di un Maestro. Tintoretto, per quello che sappiamo dalle attuali evidenze documentarie, nasce nel sestier di San Polo e resta a vivere nella zona attorno a Rialto fino a circa il 1547, cioè poco prima della realizzazione del Miracolo dello schiavo. Fino a quella data ha delle committenze non propriamente prestigiose: soprattutto per piccole Scuole, confraternite professionali, oppure per le confraternite del Santissimo Sacramento, tra cui anche L’ultima cena di San Marcuola, datata 1547, che è sicuramente l’opera più importante prima del Miracolo dello schiavo. Tuttavia, comincia a stabilire dei buoni rapporti con committenti aristocratici, guadagnandosi la stima di alcune personalità influenti nella cultura cittadina come l’Aretino, grande difensore di Tiziano. Intorno al 1947 Tintoretto comincia, dunque, a essere un pittore affermato, anche se ancora molto controverso; lavora molto e può permettersi di andare ad abitare in una casa più grande, di prendere uno studio più spazioso. Si trasferisce così dall’altra parte della città, in una zona, quella di Cannaregio e della Madonna dell’Orto, abbastanza periferica, un quartiere tranquillo, abitato per lo più dal ceto popolare, con molte attività industriali, ricco di orti e giardini, con un brulicare di barcaioli,un’edilizia minore accanto ai ricchi palazzi di mercanti. Inizialmente Tintoretto soggiorna in quel palazzetto gotico dei fratelli Mastelli
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noto ancor oggi come Palazzo del Cammello per il bassorilievo in facciata, per poi trasferirsi a qualche metro di distanza in una casa di sua proprietà (fig. 7) . Intorno alla metà degli anni ‘50 Tintoretto diventa padre, ma le evidenze documentarie non indicano esattamente né quando, né chi sia la madre della sua prima figlia, che si chiamerà Marietta. La sua nascita è davvero avvolta nel mistero. La leggenda veneziana e una genealogia risalente al XVII secolo, redatta nell’ambito della casa-bottega di Tintoretto da discendenti non diretti ma che avevano avuto accesso alle carte di famiglia, narrano che Marietta non era figlia della moglie del pittore, ma di un’amante tedesca, forse una cortigiana, forse una meretrice, forse una cameriera o forse, più semplicemente, un’amica. Tintoretto prenderà moglie sul finire del 1559 o all’inizio del 1560 sposando la giovane Faustina, figlia di Marco Episcopi, il principale committente del Miracolo dello schiavo, amico e coetaneo del pittore. Faustina ha poco più di sedici anni, mentre Tintoretto ne ha all’incirca quaranta. Metterà al mondo otto figli, quasi tutti sopravvissuti tranne uno. I figli maschi sono destinati a ereditare la bottega del padre: fin dai 15 anni Domenico inizia a lavorare con lui, mentre Marco, il secondogenito, sembra riluttante a studiare e ad apprendere il mestiere, con grande dispiacere del padre. Il terzo figlio, Giovanni Battista, se ne andrà addirittura via da Venezia, per morire chissà dove molto giovane. Le figlie di Tintoretto nate dal matrimonio con Faustina sono destinate, come quasi tutte le ragazze veneziane dell’epoca, a sposarsi o a monacarsi. Tintoretto riuscirà a monacarne due: Geronima, che diventerà suor Perina, e Lucrezia, che diventerà suor Ottavia, entrambe nel monastero di Sant’Anna a Castello, un monastero benedettino abbastanza periferico e lontano dalla casa di famiglia. Tintoretto riuscirà a vedere la professione di Perina, i voti solenni e, quindi, la scena molto toccante della vestizione della novizia; non riuscirà invece a vedere la professione di Lucrezia, perché quando muore, la figlia è già in monastero ma non ha ancora preso i voti. Le due figlie minori, che al momento della morte del Tintoretto sono ancora nubili e vivono in casa affidate alla
fig. 6
Ritratto di Marietta Incisione tratta da Le Maraviglie dell’arte di Carlo Ridolfi fig. 7
Casa del Tintoretto Cannaregio, Venezia
madre e al fratello Domenico, avranno dei matrimoni infelici. L’unica ad avere un destino diverso sarà Marietta, perché Tintoretto si prende cura di lei e della sua educazione con l’intenzione di farne un’artista. La fa studiare nella sua bottega, le fa finire l’apprendistato durante il quale la giovane realizza copie dei modelli e dei rilievi che trova nello studio e copie dei quadri del padre. Marietta si specializza nella ritrattistica, talvolta dipinge anche quadri di sua invenzione. Diviene famosa, un vero prodigio, e il padre si compiace del successo della figlia al punto da incrementare la sua fama divulgando informazioni su di lei ai suoi stessi biografi, tant’è che Marietta viene eccezionalmente “raccontata” in vita. Esce una sua biografia nel 1584 nel volume Il riposo di Raffaello Borghini, in cui è riconosciuta appunto come una delle principali pittrici italiane del Cinquecento. La fama di una giovane donna bellissima che sa cantare e dipingere raggiun-
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ge alcune corti d’Europa. Viene invitata prima in Austria da Massimiliano, poi a Madrid da Filippo II e infine a Innsbruck dall’Arciduca d’Austria, ma il padre decide di non farla partire, non vuole separarsi da lei, facendola poi sposare a un gioielliere tedesco. Marietta resterà a Venezia, prigioniera e nello stesso tempo signora della sua città, dove morirà, non si sa esattamente quando, ma comunque precocemente attorno al 1590. Con la morte di Marietta il mito accresce, il suo profilo storico scompare mentre si arricchisce la leggenda della bellissima e sfortunata pittrice amatissima dal padre. fig. 8
Tintoretto Susanna e i vecchioni (particolare) Kunsthistorisches Museum, Gemäldegalerie, Vienna
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Tintoretto profano. I repertori, i temi, i committenti. Susanna e i vecchioni (fig. 8) è un quadro che invito tutti a vedere, perché per me è una
delle opere più belle del Cinquecento italiano, il mio preferito in assoluto nella rappresentazione della fisicità del corpo di una donna. È un quadro però che soffre tantissimo nelle riproduzioni e va assolutamente visto dal vero. L’opera si trova a Vienna e si muove solo in circostanze eccezionali. La carne di Susanna è traslucida, opalina, la “luce del corpo della bellezza”, non saprei descriverla diversamente. Un pittore che sa dipingere un corpo di donna in questo modo non può che essere un artista straordinario, che sa cos’è la carne e la bellezza. La scena ritratta è anche ironica – Tintoretto possedeva infatti un gusto quasi da Commedia dell’Arte e tra l’altro sappiamo che frequentava commediografi, teatranti e poligrafi – laddove nasconde i “vecchioni” intenti a spiare in maniera quasi grottesca dietro una cortina vegetale. Il realismo più crudo e la fisicità assoluta del corpo femminile rendono questo quadro un’opera unica nel suo genere. Susanna non sa di essere guardata, o meglio spiata, e quindi si guarda, si contempla, si ammira allo specchio, sta nel suo corpo con quella naturalezza tipica delle donne del Rinascimento. È una donna bellissima, felice di sé, gli uomini la guardano con cupidigia, ma è lei a dominare la scena. Questo è un quadro della metà degli anni ‘50, quando Tintoretto esegue alcune delle sue figure femminili più sensuali e seducenti. Non possiamo fare nessuna illazione sull’identità di queste donne e modelle, perché non ne sappiamo in realtà nulla. Di certo il pittore in questo decennio riesce a creare alcuni dei suoi capolavori profani più importanti anche se non sarà noto per questo genere bensì per la pittura sacra, e sappiamo che queste opere erano per lo più destinate a spazi intimi nei palazzi privati. Oggi conosciamo invece Tintoretto più per ciò che è rimasto negli spazi pubblici, nelle Chiese, nelle Scuole, nei Palazzi del potere, dove la sua pittura è un’altra, ma questo quadro è un esempio di quali vette potesse raggiungere la sua pittura in più direzioni. Mi piace ricordare che Lomazzo, pittore e teorico importantissimo della pittura cinquecentesca, contemporaneo di Tintoretto, parlando di lui diceva che era famoso per come aveva ritratto le sue amate, quindi, evidentemente, all’epoca era noto anche per questo tipo di pittura.
Le Cene del Tintoretto. Una cosa che colpisce anche il visitatore più distratto che trovi il tempo di entrare in qualche chiesa è che vi sono molte Ultime cene del Tintoretto a Venezia, nessuna delle quali è uguale alla precedente, al punto che si potrebbe quasi raccontare la storia della carriera del pittore anche soltanto guardando le sue Ultime cene. Si parte da quella di San Marcuola del 1547 (fig. 9) , apparentemente molto semplice e quasi tradizionale, con la tavola frontale. Tutti hanno negli occhi l’Ultima cena di Leonardo, quindi gli spettatori si immaginano che questo soggetto possa essere rappresentato solo così, ma già qui Tintoretto inizia a lavorare sul tema che poi caratterizzerà tutta la sua arte in divenire, ossia la luce. La luce dell’Ultima cena di San Marcuola ha un’impaginazione abbastanza tradizionale e al contempo straordinariamente spirituale: è la luce che costruisce i personaggi. Un’altra cosa che colpisce in questa Ultima cena è la povertà, la semplicità degli arredi del luogo e dell’ambiente, il realismo con cui vengono rappresentati alcuni oggetti sulla tavola, i piedi degli apostoli, la tovaglia rammendata… Da qui in poi Tintoretto s’imporrà come “il pittore dell’Ultima cena”: lo chiameranno spesso le Scuole del Santissimo Sacramento in moltissime chiese di Venezia. Hanno anche cercato di calcolare quante ne avesse dipinte, senza però stabilire un numero preciso, forse una ventina. In ognuna di esse Tintoretto sceglie un’impaginazione diversa, lavora in modo differente per evidenziare momenti diversi del racconto. In alcune rappresenta Cristo mentre sta spezzando l’ostia, in altre coglie la scena del tradimento, in quella di San Trovaso (fig. 10) immortala il momento turbolento in cui gli apostoli sono sconvolti da quello che Gesù sta loro rivelando e sembrano cadere dalle sedie. È una delle Cene più ‘agitate’, sorprendente per l’impaginazione quasi diagonale; in primo piano c’è addirittura una sedia rovesciata, una seggiola di paglia bellissima. Trovo bellissima quella natura morta a destra del quadro, dove si vedono gli oggetti dei pellegrini. È sempre presente nelle sue opere la commistione tra realismo e trascendenza. Mi colpisce quell’anziana donna in cima alla scala e poco visibile che, mentre fila, domina nell’oscurità la
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fig. 9
fig. 10
fig. 11
Tintoretto Ultima cena Chiesa di San Marcuola, Venezia
Tintoretto Ultima cena Chiesa di San Trovaso, Venezia
Tintoretto Ultima cena Chiesa di San Polo, Venezia
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fig. 12
Tintoretto Ultima cena Sala Capitolare Scuola Grande di San Rocco Venezia fig. 13
Tintoretto Ultima cena Chiesa di San Giorgio Maggiore, Venezia
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tavola degli apostoli, mi ricorda una figura del mondo antico, una Parca presaga del futuro e destino di Cristo. È un quadro di enorme suggestione, uno tra i più interessanti tra le sue Ultime cene. Un’altra bellissima Ultima cena è quella della Chiesa di San Polo (fig. 11) , così come straordinaria è quella di San Rocco (fig. 12) , che si apre con uno squarcio su una rustica cucina o meglio ancora su una taverna in cui si sta consumando la cena. L’ultima di questo ciclo di Cene, incredibile, dipinta pochissimo tempo prima della morte, è quella per San Giorgio Maggiore (fig. 13) , con la tavola quasi perpendicolare allo spettatore e Cristo “gettato” in fondo, quasi invisibile se non per la luce che irradia dalla sua figura e dal suo sandalo. Il piede di Gesù pieno di luce è sorprendente, mi ha sempre colpito enormemente. In quel quadro ci sono addirittura angeli, spiriti ed ectoplasmi, plasmati e disegnati dalla luce che aleggia intorno alle lampade. Quello che viene immortalato è proprio il momento della rivelazione dell’esistenza di Dio. Tintoretto con le Ultime cene riesce a esprimere la sua fede nello stesso tempo popolare e straordinariamente raffinata, perché giocata sulla rivelazione della luce, vicino al punto di vista del Vangelo di Giovanni, che dei quattro vangeli è sicuramente il più filosofico e spirituale. Tintoretto sacro: la Scuola Grande di San Rocco. La Scuola Grande di San Rocco in un certo senso è l’obiettivo, la meta e il destino di Tintoretto. Si può raccontare la storia di Tintoretto pittore anche semplicemente in relazione alla Scuola Grande di San Rocco. Lui vi arriva molto giovane, nel 1549, quando ha appena dipinto il capolavoro del Miracolo dello schiavo. La Scuola Grande di San Marco in quel momento è la principale della città, tuttavia la Scuola di San Rocco comincia a rivaleggiare con essa, perché custodisce le reliquie del Santo protettore della peste, flagello che incombe su Venezia nei secoli. Della Scuola di San Rocco iniziano a far parte i membri più facoltosi di quella che oggi potremmo definire la “borghesia imprenditoriale” veneziana, soprattutto rappresentanti dell’industria tessile, mercanti di seta e di lana ricchissimi,
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che emulano l’aristocrazia nell’arricchire la propria sede posizionata dietro la Chiesa dei Frari, un edificio costruito da poco, che andava quindi adornato. Tintoretto viene avvicinato dalla Scuola di San Rocco con una prima commissione per la vicina chiesa. Realizza un dipinto straordinario, San Rocco risana gli appestati (fig. 14) , un notturno rappresentato all’interno di un lazzaretto, con gli appestati dipinti con grande naturalismo. È un’opera che trasuda una grandissima spiritualità e un virtuosismo eccezionale soprattutto nell’esemplare utilizzo della luce. Ci si immagina che questo quadro abbia spalancato le porte a Tintoretto per la futura decorazione della Scuola Grande, ma in realtà non è così. Ancora il grande Tiziano, confratello della Scuola, promette un grande quadro per la parete di fondo della Sala dell’Albergo, forse per il semplice motivo di impedire di farla dipingere all’ambizioso Tintoretto, e così la strada verso la commissione diviene assai tortuosa fino al concorso del 1564, quando la Scuola capisce che Tiziano non dipingerà mai la parete che ha promesso e decide di avviare la decorazione della Sala dell’Albergo cominciando non dalla parete di fondo ma dallo scomparto centrale del soffitto, che nel frattempo è stato preparato e decorato con dorature e intagli. La Scuola bandisce allora un concorso, che è lo strumento attraverso il quale sia lo Stato, che le Scuole o le Chiese, assegnavano i lavori, quella che oggi chiameremo gara d’appalto. Vengono chiamati i principali pittori attivi in città, tra cui anche Tintoretto, il quale però sa già che non vincerà. Purtroppo, all’interno della Scuola c’è un partito incredibilmente avverso alla sua persona, tant’è che qualcuno si è addirittura offerto di pagare moltissimo un altro pittore purché non sia lui il prescelto. All’artista non resta che una sola possibilità, quella di infrangere le regole: invece di presentare il disegno richiesto ai quattro pittori per poter scegliere il migliore da trasformare poi in pittura, realizza e addirittura colloca sul soffitto l’opera finita, per poi donarla alla Scuola. A questo punto la Scuola non può rifiutare il dono fatto a San Rocco. Si discute il da farsi e i confratelli decidono di tenere il quadro intitolato San Rocco in gloria (fig. 15) , un capolavoro potentissimo realizzato con
fig. 14
fig. 15
Tintoretto San Rocco risana gli appestati Chiesa di San Rocco, Venezia
Tintoretto San Rocco in gloria Sala dell’Albergo, Scuola Grande di San Rocco, Venezia
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fig. 16
Tintoretto Crocifissione Sala dell’Albergo, Scuola Grande di San Rocco, Venezia
La Crocifissione è stata definita un “kolossal” [...]. È come mettere in scena centinaia di comparse e curare ogni dettaglio del movimento di ciascuna di esse 28
dispendio di tempo e anche di pigmenti di altissima qualità. Tintoretto conquista, dunque, il suo spazio, realizza il suo progetto e gli viene assegnata anche quella parete di fondo che doveva essere del vecchio Tiziano. Realizza la grande Crocifissione (fig. 16) , un capolavoro che lo rende famoso in tutta Europa. Il quadro riassume con stupefacente impaginazione, ideazione e invenzione nello spazio sterminato della tela tutti gli episodi della Passione raccontati dai Vangeli, ponendo a cardine la croce di Cristo e mettendo in movimento la scena con un effetto di rotazione spaziale straordinario. Tintoretto qui rappresenta il momento della morte di Cristo: il suo non è
un Cristo sconfitto, ma un Cristo che nella morte si trasfigura per redimere il mondo. È un quadro che lascia letteralmente senza fiato. Rimaniamo sempre all’interno di San Rocco. Tra questa meravigliosa tela della Crocifissione che ci ha appena descritto alle due Vergini nella Sala Terrena passano parecchi anni, durante i quali la parabola stilistica del Tintoretto subisce naturalmente un’evoluzione, una trasformazione. Ci racconti di queste due straordinarie opere. Liricità, natura, luce... Tintoretto lavora per San Rocco e a San Rocco durante l’arco di tutta la sua vita. La prima
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fig. 17
Tintoretto Vergine Maria in meditazione Vergine Maria in lettura Sala Terrena, Scuola Grande di San Rocco, Venezia
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volta è nel 1549, mentre queste due Vergini sono state dipinte attorno al 1583, quasi alla fine di una parabola artistica sempre tesa al cambiamento, mai conclusa in un qualsivoglia canone definitivo. Pur avendo infatti identificato un suo stile molto preciso, notiamo al contempo in esso diversi cambiamenti, per cui c’è un Tintoretto nella Chiesa, un Tintoretto nella Sala dell’Albergo, un Tintoretto della Crocifissione e uno del Cristo davanti a Pilato (1566/67) e della Salita di Gesù Cristo al monte Calvario (1566/67). C’è poi il Tintoretto della Sala Capitolare, con le storie dell’Antico Testamento sul soffitto e del Nuovo alle pareti. Infine, il Tintoretto della Sala Terrena, prima sulle pareti e al culmine finale con queste due figure femminili. Guardando le sue opere abbiamo imparato ad amarlo quale grande regista di folle. Ad esempio, la Crocifissione è stata definita un “kolossal”, perché sembra quasi una scena cinematografica. È stato citato a riguardo Griffith, ma anche Mel Gibson: è come mettere in scena centinaia di comparse e curare ogni dettaglio del movimento di ciascuna di esse. Alla fine della sua carriera, però, Tintoretto non ha più bisogno nemmeno di questo. Le due Vergini (fig. 17) sono opere uniche nella sua produzione, imperniate su una sola figura e soprattutto sul paesaggio, fino ad allora soltanto un brano del quadro, che si scorgeva da una finestra o da una veduta sullo sfondo. In questi due quadri la figura è letteralmente investita dalla natura, mentre la luce è quasi fosforescente, trasmettendo davvero un sentimento panico e religioso della presenza e della bellezza di Dio sulla terra. Anche a un non credente queste opere parlano di Dio. Non si sa esattamente chi siano queste due figure. Sono stati quadri molto discussi, anche se per anni non se ne è mai parlato; non vengono nominati in nessuna guida veneziana fino al 1815, eppure c’erano, esistevano. Si è pensato che potessero essere delle sante eremite, Maria Maddalena e Maria Egiziaca, poi invece che potessero entrambe rappresentare la Vergine Maria, colta in due momenti diversi, come in un campo e controcampo, mentre legge e mentre stacca lo sguardo dal libro per meditare su ciò che ha letto, quasi immortalata da una cinepresa che, con lo spostamento, mostra il personaggio
prima davanti e poi dietro. Forse i quadri nel loro insieme sono appunto una grande meditazione sulla creazione e sulla bellezza. Sono opere sempre emozionanti per me. Mentre dava il meglio di sé in questa impresa fondamentale per la sua vita artistica e non solo, contemporaneamente era diventato pittore di Stato, quindi lavorava a Palazzo Ducale anche con la bottega. Ci parli un po’ del Tintoretto, per così dire, celebrativo. La Repubblica di Venezia era il principale e più ambito committente d’arte in città. Offriva i propri palazzi al pennello dei principali maestri perché la Repubblica aveva compreso da sempre che la pittura poteva essere uno strumento non tanto di propaganda, quanto di costruzione dell’identità e della specificità della Repubblica stessa. Per i pittori perciò arrivare a dipingere per lo Stato era un importante riconoscimento della propria posizione in città. Tintoretto ha una storia abbastanza accidentata in questo senso. Riesce a lavorare con la Repubblica abbastanza presto, iniziando prima dai palazzi più marginali di Rialto, dal Palazzo dei Camerlenghi, per arrivare poi anche a Palazzo Ducale, quando gli viene richiesta una tela per la Sala del Maggior Consiglio, dove contestualmente stanno lavorando tutti i pittori degli anni ‘50, compresa la bottega di Tiziano e, soprattutto, di Veronese, il quale, a differenza di Tintoretto, quando arriva a Palazzo Ducale è protagonista da subito di un exploit incredibile con i soffitti della Sala del Consiglio dei Dieci, venendo così immediatamente scelto dal potere dell’aristocrazia veneziana come il proprio pittore. Ciò non accadrà affatto al Tintoretto, il quale, anzi, verrà assai criticato come pittore di Stato e i suoi quadri saranno addirittura sbeffeggiati dalla critica accademica contemporanea. Per Tintoretto, quindi, lavorare per lo Stato diventa un obiettivo che si deve via via conquistare. Purtroppo, delle opere degli anni ‘50 e ‘60 non ci è rimasto nulla, bruciate nei vari incendi che hanno devastato Palazzo Ducale nel 1574 e nel 1577; non sappiamo, quindi, quale strada avesse scelto a riguardo in quegli anni. Sappiamo invece che Tintoretto diventa ufficialmente pittore di Stato quando, dopo
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fig. 18
Tintoretto Paradiso (particolare) Sala del Maggior Consiglio Palazzo Ducale, Venezia fig. 19
Tintoretto Self Portrait as a Young Man (1548 c.) Philadelphia Museum of Art Wikimedia Commons (Public Domain)
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la catastrofe del 1577, la sua bottega sarà tra tutte quella maggiormente coinvolta nel rifacimento delle decorazioni. Al rifacimento lavorano tutte le botteghe di Venezia, compresa quella del Veronese e del Bassano, però quella di Tintoretto fa “la parte del leone”. Spiccano una serie di battaglie molto belle nella Sala del Maggior Consiglio, ma il culmine di questa impresa lavorativa è certamente il Paradiso (fig. 18) . Anche in questo caso la vicenda del concorso è interessante: Tintoretto a Venezia ormai non ha rivali; sta per finire di decorare la Scuola Grande di San Rocco trasformandola, di fatto, nel principale tempio artistico della città – un capolavoro che in Italia e in Europa ha pochissimi paragoni –, nonostante ciò, quando presenta il bozzetto per il concorso, di nuovo non è destinato a vincere. La Repubblica gli preferisce un anziano Paolo Veronese, cui affianca il giovane Francesco Bassano. I due non fanno nemmeno in tempo a iniziare a dipingere il Paradiso, perché Veronese muore nel 1588. Tintoretto si ripropone, probabilmente presentando un nuovo bozzetto, e finalmente la commissione è sua. È il 1588, è ormai molto anziano e si trova ad affrontare l’esecuzione di una tela davvero sterminata (pare sia composta da cinquanta lacerti di tela cuciti insieme). Talmente grande che nemmeno il suo studio la può ospitare, costringendolo a realizzarla nella Scuola Grande della Misericordia. Tintoretto disegna tutte le figure, però l’esecuzione della maggior parte della tela viene lasciata al figlio Domenico. Il quadro è stato molto discusso, apprezzato ma anche criticato, perché definito confuso e affollato. Tuttavia, oggi si resta ancora sbalorditi per la sua immensità. Tintoretto ritrattista: velocità d’esecuzione, psicologia dei personaggi. La cosa straordinaria di Tintoretto è che abbiamo la certezza soltanto di due suoi ritratti. Il primo, di proprietà del Philadelphia Museum of Art, è del giovane Tintoretto (fig. 19) , un bellissimo giovane uomo che emerge dall’oscurità sicuro di sé, con due occhi penetranti, intelligenti e curiosi. Non ha bisogno di rappresentarsi con gli strumenti del mestiere, mostra praticamente soltanto i suoi occhi, la bocca chiusa coperta dai baffi e
lo sguardo. Poi lo perdiamo, forse Tintoretto si rappresenta in tutta una serie di quadri intermedi – è stato riconosciuto via via anche nel Miracolo dello schiavo e in alcune altre opere ancora –, però come autoritratto lo troviamo soltanto alla fine della sua vita. Vedere affiancate le due opere ci fa capire come l’uno sia progressivamente divenuto l’altro, come da giovane uomo Tintoretto sia diventato un “vecchio assassino”, come lo chiamava Sartre nei suoi scritti. Anche in quest’ultimo autoritratto troviamo un uomo che ci guarda senza paura, con un volto scavato dagli anni, dalle lotte che ha sostenuto tutta la vita: le rughe sulla sua fronte ci impressionano così come il silenzio della sua bocca invisibile e il vento che sembra scompigliargli i finissimi peli della barba. Soprattutto colpisce l’assenza totale di vanità. È raro trovare un autoritratto di un pittore rinascimentale fatto con simile verità; non a caso, infatti, è un quadro che è piaciuto a tutti i pittori dell’Ottocento e del Novecento (Manet ne fece una copia, ad esempio). Non c’è celebrazione nel suo autoritratto: Tintoretto ha dipinto la Scuola di San Rocco, è il più grande pittore rimasto a Venezia della grande triade (Tiziano, Veronese, Tintoretto), è sopravvissuto a tutti, sa di aver fatto tutto quello che ha potuto, tuttavia si rappresenta senza nessuna vanità, senza nessun simbolo di successo. Persino il vestito che indossa – l’abito del cittadino veneziano, simbolo di uno status sociale raggiunto – scompare nell’oscurità; si vede solo il colletto dipinto con due pennellate a struscio sul bianco sotto la barba. L’umiltà nella certezza di aver fatto qualcosa di grande mi emoziona profondamente e corrisponde con quanto leggiamo nelle ultime parole che Tintoretto ha dettato su questa terra, quelle del suo testamento. Muore senza dare nessuna importanza ad alcunché se non alla sua nobile professione, che ha esercitato per tutta la vita. L’unica cosa che conta sino all’ultimo dei suoi giorni per lui è la pittura: non sono i beni materiali, non è nemmeno la pompa funebre, non chiede un funerale speciale, non chiede di essere seppellito con nessun tipo di vestito, nulla gli importa. Sta solo parlando con noi, con la posterità e, sicuramente, anche con il suo Dio. (fig. 20) .
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fig. 20
Tomba di Tintoretto Chiesa della Madonna dell’Orto, Venezia
Come continuare a raccontare Tintoretto? Mi sono resa conto in questi dieci anni dalla pubblicazione dei miei libri che tutti conoscevano Tintoretto, ma nessuno riusciva a immaginare di quale opera in un dato momento, in un dato passaggio, stessimo parlando. Pochissimi avevano un’opera del Maestro negli occhi. L’idea è dunque quella di provare a ‘far vedere’ Tintoretto, farlo riscoprire come un pittore facile e difficile allo stesso tempo, capace di emozionare anche chi di pittura sa poco o nulla. La più grande gioia che mi hanno regalato i miei libri è stata l’aver portato migliaia di persone a desiderare di vedere con i propri occhi i quadri di cui avevo raccontato, persone che sono venute a Venezia, sono entrate alla Madonna dell’Orto, sono andate a cercare Tintoretto a San Rocco e negli altri posti a lui sacri. Un’ultima cosa voglio ricordare di Tintoretto: ha sempre voluto dipingere per tutti, non è
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stato un pittore soltanto per i principi o per i re, come da un certo momento in poi ha voluto essere, per esempio, Tiziano. Tintoretto ha voluto continuare a dipingere anche per le chiese più semplici e più povere della città, realizzando quadri che stavano su semplicissimi altari di marmo, a volte neanche su quelli, in maniera che la sua arte fosse veramente di tutti. Tintoretto voleva emozionare, sapeva che il compito di un pittore è quello di “muovere” attraverso le forme, i colori, la costruzione dell’immagine; se non si è in grado di decifrare esattamente i simboli o non si conosce perfettamente la scena del vangelo che viene citato nel quadro, non è un problema: la costruzione dell’immagine può essere così potente da trasmettere ugualmente il sentimento della compassione, del dolore, della bellezza. Quello che possiamo fare noi, come mediatori, è riportare le opere al centro affinché le persone possano vederle con i loro occhi, così come facevano 500 anni fa.
Tintoretto voleva emozionare, sapeva che il compito di un pittore è quello di “muovere” attraverso le forme, i colori, la costruzione dell’immagine
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Il “sequestrato di Venezia”
novembre 2018
Storie
Alla Scuola di San Rocco mi ero affacciato sin da ragazzo con lo stupore di chi rimane folgorato da una rivelazione misterica e soggiogato dalla potenza strabordante della corporeità nel tonitruante teatro delle grandi sale. Era come mettere insieme tutti i viaggi di Jules Verne (che avevo sempre amato), il fantastico dantesco e l’orrore della Farsaglia 36
Intervista a Giandomenico Romanelli di Mariachiara Marzari
Un ritratto
ricco di infiltrazioni letterarie, filosofiche, teologiche e soprattutto esperienziali, fuori dagli schemi canonici della critica, che giunge alla radice pura della sua arte, all’origine del gesto. Giandomenico Romanelli racconta il “suo” Tintoretto, che potremmo definire “underground”. Un viaggio dentro la storia di un Maestro, il suo dramma umano e il suo travaglio artistico, un’indagine oltre l’arte per spiegare le ragioni di una visione capace di superare la tradizone e, pur nella perfetta aderenza al suo tempo, di essere sempre contemporaneo rispetto a chi si trova di fronte alle sue grandiose opere, anche oggi. Tintoretto ricorre, se pur diluito nel tempo, come uno degli interessi forti e costanti nella produzione critica di Giandomenico Romanelli. Anzi, per esser più precisi, come una sorta di terreno di lavoro particolarmente stimolante nell’evidenziare la sperimentata attitudine di Tintoretto a mettere in relazione fatti e storie dell’Antico e del Nuovo Testamento – così come episodi di storia della chiesa e delle sue strutture e organizzazioni – con i segni e le immagini della pittura. A che cosa è dovuta tale peculiarità? In effetti, l’arte di Jacopo Tintoretto mi ha sempre tentato, così come la sua prodigiosa abilità nel montare macchine scenografiche e figure retoriche di inimitabile arditezza. Ma le sue traduzioni in immagini di storie (dell’Antico Testamento come del Nuovo, di episodi delle vite dei santi e altre figurazioni sacre) di conversioni e martirî, di atti di fede ed epifanie del sacro mi son sempre parse di straordinaria modernità, provocazioni e sfide, mirabili variazioni sul tema e raffinati esercizi di stile, sempre nuove tentazioni di impossibile. Alla Scuola di San Rocco mi ero affacciato sin da ragazzo con lo stupore di chi rimane folgorato da una rivelazione misterica e soggiogato dalla potenza strabordante della corporeità nel tonitruante teatro delle grandi sale. Era come mettere insieme tutti i viaggi di Jules Verne (che avevo sempre amato), il fantastico dantesco e l’orrore della Farsaglia. Sono poi passato ad altri interessi, più geometrici e “freddi”: il neoclassico e poi l’Ottocento, l’architettura e la storia urbana, e altro ancora. Finché un giorno mi ha invitato a occuparmi di San Rocco e di Tintoretto oramai molti anni or sono don Bruno Bertoli, il prete veneziano che sollecitava instancabilmente a cercare, nel patrimonio artistico e culturale di questa città, i segni inequivocabili di una
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storia di fede, ad andare oltre un certo oramai arido esercizio attribuzionistico e formalistico su cui si affaticava la tradizionale critica d’arte, per attingere alle ricchezze spirituali e culturali di quell’universo, attratto, anche lui, dai problemi di iconografia e dagli esercizi di esegesi biblica e iconologica. Mi ci misurai con timore, ma ne ricavai un primo prodotto: una comunicazione al convegno annuale di Biblia-Associazione laica di cultura biblica tenutosi nel 1988 su L’arte e la Bibbia. Immagine come esegesi biblica. Presentai inediti d’archivio e nuove letture di quelli noti, e altro ancora. Pressoché contemporaneamente Carlo Pirovano, che teneva saldamente il timone della grande e celebre collana di Electa «Dentro la Pittura», mi propose di trasformare il mio lavoro in uno dei volumi di quell’impresa. Accettai con entusiasmo, anche perché la formula della collana mi garantiva un uso delle riproduzioni (eseguite con un’apposita campagna fotografica da Antonio Quattrone) molto ricco e molto articolato: dai grandi totali ai dettagli in rapporto 1:1. Eravamo arrivati al 1994. Anche il contesto storico e culturale ha mosso il suo lavoro, che appare una sorta di storia culturale totale, non solo artistica. Quel contesto, storico intendo, ha peraltro fortemente condizionato l’attività degli artisti del Cinquecento veneziano, un Cinquecento inquieto, per mutuare il titolo di una sua celebre mostra di pochi anni or sono, perché travagliato da disavventure politiche e militari e minato dai devastanti effetti della guerra di religione che ha diviso e insanguinato l’Europa. Precisamente! Gli storici d’arte hanno la tendenza a isolare i fatti artistici in una sorta di territorio separato, che funziona con proprie regole e logiche. Semmai pretendono di trasporre quasi automaticamente le vicende artistiche su quelle storiche o viceversa; sembra che sentano il bisogno di creare categorie semplificate e schematiche. Si pensi all’infinito dibattito sull’appartenenza di un artista alla Riforma o alla Controriforma: o di qua o di là, insomma, senza incroci o contaminazioni, bianco o nero, buoni o cattivi. Ma torniamo al nostro Jacopo e al suo inserimento nella realtà lagunare. Era ben affollata di artisti la Venezia del medio Cinquecento, e che artisti! Siglata la pace di Bologna nel 1529-‘30, che sanciva la fine della stagione drammatica e dolorosa apertasi con la Lega di Cambrai e la bruciante sconfitta di Agnadello, sistemate alla meglio le cose col papato (era stato Giulio II – e non certo per motivi religiosi – a scatenare l’uragano anti-veneziano, coinvolgendo l’Europa intera contro la superbia arrogante e insensata del Leone marciano), consolidati i confini e lanciato un imponente piano di fortificazioni sul territorio dello “Stato da mar” non meno che di quello di terra, la domanda era: quali orizzonti dare alla Repubblica dopo la perdita definitiva di quelle caratteristiche che ne avevano sempre guidato l’abile gestione dell’immagine nel mondo? Non più imbattibile, non più vergine (violata dalle armi francesi e imperiali, soprattutto), non più baluardo contro l’infedele (si era infatti ritrovata con un sonoro inter-
GIANDOMENICO ROMANELLI Professore universitario, ha studiato protagonisti e temi dell’arte e dell’architettura veneta dal Cinquecento al Novecento, declinando la sua ricerca in fondamentali pubblicazioni e importanti mostre a livello internazionale. È stato direttore dei Musei Civici di Venezia dal 1979, quindi direttore del dipartimento dei Beni e Attività Culturali del Comune di Venezia e della Fondazione Musei Civici Veneziani fino al 2011. Attualmente è vice presidente di Chorus.
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E poi c’era lui, il figlio del tintore, inquieto e piccante come un granello di pepe (secondo le celebri e abusate parole di Andrea Calmo), Jacopo Robusti, il Tintoretto. Il “sequestrato di Venezia”, secondo la curiosa e provocante definizione di Jean-Paul Sartre detto papale), non più potenza in grado di contendere con i regni nazionali e non più, infine, padrona delle rotte e dei più lucrosi commerci, visto che il “suo” Mediterraneo oltre alle minacce turche rischiava la marginalità dopo l’apertura delle rotte oceaniche. La scelta fu proprio di investire tutto il suo patrimonio di credibilità morale e culturale e tutte le sue risorse materiali in una mastodontica, geniale operazione di marketing. I suoi intellettuali più accreditati, più illustri e più “organici” al sistema politico-istituzionale diedero vita a una campagna pubblicitaria di cui mai prima si era forse visto l’uguale. Letteratura, trattatistica politica, libellistica ideologica, architettura, decorazione plastica e scultura, poesia encomiastica e, naturalmente, pittura furono arruolate a dare lustro e nuova vita alla figura troneggiante e giunonica della nuova regina dei mari. Tutta la storia doveva essere riletta (e riscritta!) perché facesse convergere fatti e leggende, miti e smaccati falsi a cantare la giovinezza nuova della signora in qualche modo acciaccata, ma le cui ambizioni continuano a resistere impavide. Abbiamo detto Pittura. Era un crocevia di geni e di ingegni che affollava il palcoscenico della Serenissima: Tiziano, la prepotenza fatta pittura, immarcescibile ed eterno; Paolo Caliari, il Veronese, rutilante di ori, vesti sfarzose, cornucopie traboccanti di gioielli, perle e coralli. E Jacopo Bassano, la cui musa bucolica e appartata catturava dalla natura stessa ogni sfumatura di colore, ogni barbaglio e luccichio di acque e di fuochi. E poi gli altri, i molti altri che avevano preso il posto dei maestri della generazione precedente, quella dei Bellini, dei Vivarini, dello stesso Giorgione. Altri che sapevano guardare fuori di casa, al di là dei confini della laguna, sulle strade che mettevano a Mantova, a Brescia, a Ferrara, a Firenze e, soprattutto, a Roma: Pordenone, Sebastiano del Piombo, Romanino, Savoldo, anche a voler tacere del Lotto, umbratile e tormentato, che andrà vagando tra Treviso, Bergamo, Roma, per finire i suoi giorni a Loreto. E poi c’era lui, il figlio del tintore, inquieto e piccante come un granello di pepe (secondo le celebri e abusate parole di Andrea Calmo), Jacopo Robusti, il Tintoretto. Il “sequestrato di Venezia”, secondo la curiosa e provocante definizione
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di Jean-Paul Sartre. L’uomo che sfugge alla grande impresa di normalizzazione tentata dal progetto di marketing politico-culturale di cui si diceva, ma che si sottrae altresì al ruolo di piagnone controriformista, di impiegato al servizio dell’ideologia romana e anti-luterana. Perché, non dimentichiamolo, mentre la Serenissima faticosamente metteva le basi del suo nuovo mito, elegante e aristocratico, l’Europa intera era squassata dalle guerre di religione da cui uscirà definitivamente spaccata in due: di qua Roma, le immagini, la potenza, il fasto, l’inflessibilità teologica e il rigore ideologico, l’infallibilità del Papa e l’imprescindibile onnipotenza della gerarchia; di là il libero arbitrio, l’accesso personale alla lettura della Bibbia, un rigore di vita che spesso trascende in cupezza, una comunità di credenti spogli come i primi cristiani, ma che troveranno la loro realizzazione nel mondo e nel successo professionale, segno infallibile del gradimento celeste. Esteriorità fastosa e festosa che culminerà nel barocco romano, per i primi; rigore e sobrietà che condurranno a un classicismo compassato e algido, i secondi. Ha appena accennato a un testo dedicato a Tintoretto, Le séquestré de Venise di Jean-Paul Sartre, che lei ha più volte citato nei suoi interventi. Come mai questa insistenza? La questione è, insieme, semplice e complessa. Debbo una volta ancora prendere le mosse da un vezzo (vitium, come si sa) di noi storici d’arte, e dico noi anche se a fatica mi sento di incasellarmi nella categoria (certo per indegnità mia, non dei chierici regolari). Quello di non accettare contributi di riflessione critica che non provengano dall’hortus conclusus della disciplina. Oppure di esigere che di tematiche storico-critiche non si possa ragionare se non con il linguaggio, il codice cioè, in cui è redatta la disciplina stessa. Due testi fondamentali di critica tintorettiana sono appunto il Séquestré di Sartre e un saggio del celebre epistemologo francese Jules Vuillemin. Sono testi che non hanno alcuna ambizione filologica ma che avrebbero potuto aprire prospettive critiche e di pensiero straordinarie sul nostro Jacopo: sulla sua collocazione dentro/fuori rispetto al panorama sociale, culturale e artistico del suo tempo, sulla sua densa sostanza poetica, tragica e lirica, sul senso della città che egli percepisce quasi rabdomanticamente e con la quale si identifica in tutto, dalla forma alla storia. Sulla strabiliante metodologia immaginativa e impaginativa delle scene dipinte con effetti che, come propone Sartre, sono di natura “cinematografica in cinemascope”, e non a caso il filosofo cita il celebre kolossal Ben-Hur. Nulla, Sartre non ha studiato abbastanza! La risposta di qualche storico d’arte alle “provocazioni” sartriane è stata imbarazzata e imbarazzante: il filosofo francese – cui non si perdona “il punto di vista marxista”(!) – ha equivocato, non ha capito, non ha studiato a sufficienza; “se avesse seguito meglio lo sviluppo dell’attività artistica di Tintoretto, si sarebbe accorto... (Pallucchini)”. Ritorni sui banchi di scuola magari all’Università di Padova! E non si è nemmeno saputo cogliere la sorprendente qualità letteraria del testo sartriano, fatto tutto di figure retoriche, immagini stranianti, paradossi: insomma, un’opera d’arte su un’opera d’arte, un metatesto indimenticabile, una mise en abîme perfetta. Non si ha avuto la pazienza, vorrei dire, e la lungimiranza di entrare dentro uno scritto sorprendente e disperato, quello che porta Sartre a “vedere” nelle opere la tragedia di Jacopo e di immedesimarvisi attraverso un processo di identificazione prodigiosa. Sartre coglie il dramma umano e il travaglio artistico di Jacopo come propri: quella su Tintoretto è l’ultima opera di Sartre, quasi un testamento spirituale. Che occasione perduta per noi!
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Vuillemin ha cercato di individuare la struttura logica del pensiero dell’artista dentro alle sue opere, indagandone i modelli strutturali e i percorsi logici e psicologici con acutezza straordinaria Lei accennava a un altro studioso francese, Jules Vuillemin. Peggio ancora è andata allo studio di Jules Vuillemin. Ignorato per mezzo secolo anche se pubblicato dalla prestigiosa «Les Temps Modernes» nel 1954 e condotto con metodo critico esemplare, il testo (La personnalité esthétique du Tintoret) è stato totalmente e accuratamente rimosso. Vuillemin ha cercato di individuare la struttura logica del pensiero dell’artista dentro alle sue opere, indagandone i modelli strutturali, appunto, e i percorsi logici e psicologici con acutezza straordinaria. Anticipava la proposta di decifrazione della complessa costruzione dei cicli di San Rocco (Chiesa e Scuola Grande) sia dal punto di vista teologico che letterario con affondi di stampo psicanalitico. Ha proposto di applicare a questi cicli un’ulteriore chiave di lettura partendo dagli Esercizi di Ignazio di Loyola; intuizione geniale: silenzio di tomba. Vuillemin suddivide l’opera di Tintoretto in grandi categorie logiche, contenutistiche e formali-figurative, ma, soprattutto, individua le impalcature strutturali sottese ai dipinti profani (mitologici e storici) e a quelli di soggetto sacro, rilevandone la diversa e contrapposta costruzione figurativa. Oltre a rilievi inediti e originali (mai più approfonditi dagli “esperti”) egli scorge nel percorso artistico di Jacopo processi e temi di regressione e di restituzione che vengono risolti in chiave di distruzione della concezione classica dello spazio in vere e proprie esplosioni figurative e di ri-composizione in colore e luce sotto lo stimolo del concetto cattolico di peccato per le tematiche religiose. Sia in Vuillemin che in Sartre, Tintoretto è l’uomo «che la pittura ha scelto [...] per far esplodere in lui le sue contraddizioni. La pittura mi resisteva e io l’ho uccisa» (Sartre). «Un quadro è un problema, sempre lo stesso, la pittura»; Tintoretto «è il primo artista geniale della decadenza» (Vuillemin). Aver ignorato queste acquisizioni e queste proposte nei nostri storici d’arte, da un lato denuncia una limitatezza di orizzonti che è una carenza culturale grave, dall’altro una sorta di reazione psicologica che ha del patologico, una vera ossessione di difesa con chiusura a riccio che porta al cul-de-sac in cui si sono infilate le recenti esposizioni tintorettiane, con quella sorta di indigeribile rimasticatura di ragionamenti e confronti e limature ossessive di vecchie diatribe attribuzionistiche. Anche l’ultimo testo di Vuillemin, come per Sartre, è dedicato al pittore e alla sua città, Le miroir de Venise. Nulla avviene per caso. Fortunatamente il libro e gli altri testi critici di Sartre, ripubblicati di recente in forma completa e corret-
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ta sia in francese che in italiano per cura di Michel Sicard, offrono, a chi vorrà finalmente leggerli, l’occasione opportuna che, temo, gli storici d’arte lasceranno una volta ancora cadere. Torniamo al “suo” Tintoretto. Drammaticità e teatralità sono, a suo giudizio, le colonne portanti dell’edificio tintorettiano. Possiamo provare a sviluppare più diffusamente questa linea, magari partendo più indietro, dalla formazione dell’artista? Ho sempre pensato che sia un errore di prospettiva, spesso ripetuto, incasellare tout court Tintoretto come il “naturale” completamento di una stagione gloriosa della pittura veneziana, o una sorta di conclusione obbligata e inevitabile di un percorso iniziato con la “rivoluzione” pittorica avviata attorno alla metà del Quattrocento nelle botteghe dei Bellini e dei Vivarini e che ha poi conosciuto le grandi conquiste di Giorgione, Tiziano e via dicendo. Nel percorso di formazione e poi di progressiva elaborazione del suo universo di forme, di immagini e di poesia, infatti, intervengono ad arricchire la personalità e le scelte artistiche di Tintoretto una serie di fattori per così dire “esterni” al puro e semplice suo inserimento dentro una tradizione e nella scia di una fortunata e clamorosa scuola artistica e culturale. Così che è possibile dire che egli è il consapevole portatore di novità, conquiste e cadenze linguistiche, oltre che ideologiche, di innegabile qualificazione addirittura eversiva rispetto proprio a quella scuola e a quella tradizione. Ho detto “eversiva” e non a caso. Ma andiamo con ordine. Tintoretto è sempre e da tutti considerato uno dei grandi protagonisti della pittura veneziana del Cinquecento. E a ben ragione: le sue qualità pittoriche, le sue invenzioni, il travolgente furore delle sue scene, la profondità del suo pensiero religioso coinvolgono, stupiscono e affascinano l’osservatore oggi non meno di quanto hanno fatto per più di quattro secoli. Trent’anni più giovane di Tiziano e dieci più anziano di Veronese, egli transita brevemente per l’atelier del Vecellio. Ma guarda, soprattutto, all’attività di altri artisti, convenuti a Venezia per scelta o per necessità: vedi il sacco di Roma del 1527, che induce a fuggire dall’Urbe, come è noto, una nutrita schiera d’intellettuali e di artisti, Jacopo Sansovino su tutti.
Le sue qualità pittoriche, le sue invenzioni, il travolgente furore delle sue scene, la profondità del suo pensiero religioso coinvolgono, stupiscono e affascinano l’osservatore oggi non meno di quanto hanno fatto per più di quattro secoli 42
“Il disegno di Michelangelo e il colorito di Tiziano”: Tintoretto avrebbe, secondo la leggenda, posto quest’insegna quasi come emblema nel suo studio In termini mediati (cioè quasi esclusivamente osservando e studiando gli appunti grafici di altri colleghi pittori o incisori), sappiamo che il giovane Jacopo s’infatua di Michelangelo e sente fortissimo il richiamo di Parmigianino, di Correggio, dei toscani, come Pontormo e Rosso, del lavoro di Giulio Romano a Mantova. Ossia, in sintesi, della cultura del Manierismo toscano e romano. Innanzitutto, Tintoretto si esercita nel disegno e, in particolare, nel copiare opere scultoree di Sansovino e calchi dalle tombe medicee di Michelangelo, ambedue novità eclatanti nel percorso di formazione di un artista veneziano: l’introduzione del disegno come irrinunciabile passaggio nel tirocinio di un artista e la devozione nei confronti della cultura artistica tosco-romana. Poi c’è il trattamento del colore, ma questa non era certo una novità in un ambiente che aveva fatto del colore la propria naturale materia espressiva. “Il disegno di Michelangelo e il colorito di Tiziano”: Tintoretto avrebbe, secondo la leggenda, posto quest’insegna quasi come emblema nel suo studio; leggenda quanto mai prossima al vero (anche se immersa nella paccottiglia dei luoghi comuni) poiché riassume efficacemente i due pilastri della maniera tintorettesca. Un grande critico seicentesco come il Ridolfi ci testimonia di un’ulteriore importante novità nel metodo di lavoro di Tintoretto: «Esercitavasi ancora nel far piccioli modelli di cera e di creta [...] entro picciole case e prospettive composte di asse e di cartoni, accomodandovi lumicini per le finestre, recandovi in tal guisa i lumi e le ombre». Queste scatole spaziali e prospettiche, queste figurette di cera e creta che le popolavano, come pure il vestire i suoi modelli per studiare le pieghe e gli effetti della luce sui panneggi, ci mostrano il nostro artista intento a dar vita quasi a dei tableaux vivants, rivelando per tempo la natura profondamente teatrale delle sue pitture, costruite come scenari montati in successione con quinte e prosceni a marcare la profondità dello spazio della rappresentazione e ad articolarla nella dimensione temporale, cioè nel suo farsi sotto i nostri occhi, sotto gli occhi del pittore e dei suoi committenti, sotto gli occhi degli spettatori contemporanei alla scena: sia il Miracolo di San Marco, sia la Crocifissione della Scuola di San Rocco, sia una qualsiasi delle molte Ultime cene di cui abbondano le chiese veneziane, fino all’ultimo impegno a San Giorgio in Isola. Nessuno dei successori di Jacopo potrà d’ora in avanti ignorare questo metodo e l’innegabile efficacia drammatica e drammaturgica che esso garantiva. Ma è forse Andrea Meldolla, lo Schiavone, il collega cui Tintoretto deve di più in termini di avanzamento nel cammino sulla strada del manierismo maturo. E ciò appare con grande evidenza nella trasformazione del suo linguaggio a partire dai primi anni Quaranta. Progressivamente Jacopo si allontana dalla composta
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fig. 21
Tintoretto Disputa di Gesù con i dottori del Tempio, Veneranda Fabbrica del Duomo, Museo del Duomo, Milano, a destra nella mostra Il giovane Tintoretto, Gallerie dell’Accademia, Venezia (7 settembre 2018-6 gennaio 2019)
Jacopo si allontana dalla composta ed equilibrata tradizione del classicismo tizianesco introducendo un dinamismo compositivo di natura esasperatamente teatrale, così che tutto diventa rappresentazione, narrazione di eventi e drammatizzazione di storie sia sacre che profane 44
ed equilibrata tradizione del classicismo tizianesco introducendo un dinamismo compositivo di natura esasperatamente teatrale, così che tutto diventa rappresentazione, narrazione di eventi e drammatizzazione di storie sia sacre che profane. Lo si vede già nettamente in una tela riferibile al 1542-’43, la Disputa di Gesù con i dottori del Tempio (fig. 21) , oggi a Milano. Quella che era sempre stata costruita come una sorta di composta epifania del sacro (salvo le sottolineature grottesche di Dürer) diventa qui un’esagitata contrapposizione di masse e corpi in movimento, di gesti eccessivi e retorici, di dimostrazioni controversistiche tra compulsare di codici e lo sfogliare libroni giganteschi; ma sulla sinistra una figura femminile in piedi assolve per noi il ruolo di spettatrice-testimone dell’evento, ricordando, in un certo senso, che si tratta pur sempre d’uno “spettacolo”, di una drammatica sacra rappresentazione. Anche nell’uso degli strumenti linguistici della pittura Tintoretto imprime una formidabile accelerazione, una forzatura senza precedenti verso una predilezione netta degli effetti luministici su quelli cromatici, collocandosi in un percorso di evidente superamento del fortunato tonalismo giorgionesco e tizianesco. Un percorso, un processo che esploderà nelle grandi narrazioni delle ultime tre tele per la Scuola di San Marco e che trionferà nei teleri della Madonna dell’Orto e della sala grande della Scuola di San Rocco. Certamente Tintoretto deve tener conto delle affermazioni che, negli stessi anni, veniva ottenendo Paolo Veronese con la sua pittura brillante dai colori squillanti, dall’antinaturalismo delle sue ombre colorate. Ciò induce Jacopo ad accostarsi, temporaneamente, a questo filone facendosene influenzare. Sartre parla di provocatorio veronesismo di Jacopo, che consente all’artista da un lato di conquistare fette di mercato facendo come e meglio di Paolo, dall’altro lato di impadronirsi di tecniche e linguaggi di straordinaria maturità e di “superare” quella sorta di complesso del rifiutato che gli pesava fin dall’allontanamento dalla bottega di Tiziano. Tuttavia, se la visione veronesiana appariva, pur nella complessità di composizioni virtuosistiche e affollate nei suoi scorci mirabolanti e in sotto-in-su tendenti ad annullare la veridicità di uno spazio cristallino e quasi equoreo, intrisa di un classicismo solare e olimpico, vicino per molti aspetti a quello coevo di Andrea Palladio, Jacopo al contrario esaspera la componente drammatica e nera, sulfurea e furibonda come in incubi negromantici: i cavalieri che sfilano nell’Adorazione dei Magi (fig. 22) oppure nel Battesimo di Cristo (fig. 23) a San Rocco, dipinti quasi in monocromi fantasmatici e lunari, appartengono più a ricordi di fantasie fiamminghe, oppure rendono tributo alla pittura urgente e scarnificata delle favole esoteriche e metamorfiche di Schiavone. Tintoretto e il sacro, Tintoretto e la fede, Tintoretto e la Chiesa. Lei ha spesso dichiarato di rifiutare la forzata iscrizione di Jacopo a uno dei due partiti, Riforma e Controriforma, in cui si tenta di chiuderlo. Quale allora la sua opinione in proposito? La grandezza inimitabile di Tintoretto sta nell’ardimento delle sue scene di massa, nel trasformare in pittura sia verità di fede che epifanie del sacro, nel suo immergersi totalmente ed esistenzialmente nelle problematiche scritturali e dogmatiche, nel mettere in forma le più impervie e drammatiche fra le dispute teologiche. E qui si entra in un territorio peculiare dell’arte e della personalità di questo straordinario artista. Non solo, ci si trova a dibattere su una questione delicata e più volte affrontata dalla storia e dalla critica d’arte: quella di Tintoretto è una pittura che appartiene al mondo e all’ideologia della Controriforma, quindi di diretta derivazione e allineata ai canoni e alle prescrizioni del Concilio
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La grandezza inimitabile di Tintoretto sta nell’ardimento delle sue scene di massa, nel trasformare in pittura sia verità di fede che epifanie del sacro, nel suo immergersi totalmente ed esistenzialmente nelle problematiche scritturali e dogmatiche, nel mettere in forma le più impervie e drammatiche fra le dispute teologiche 46
fig. 22
Tintoretto L’Adorazione dei Magi Sala Terrena, Scuola Grande di San Rocco, Venezia fig. 23
Tintoretto Battesimo di Cristo Sala Capitolare, Scuola Grande di San Rocco, Venezia
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di Trento, come vorrebbero alcuni, oppure la collocazione del Nostro è più sfumata, più ambigua o, addirittura, alternativa a tutta questa costruzione ideologica e teologica? La questione si pone in termini abbondantemente lontani da un tale dilemma. Se è vero che Tintoretto mostra inequivoci segnali di interesse nei confronti della spiritualità della Riforma (quindi a favore di una religiosità austera, povera di mezzi, caritatevole e sobria), dall’altro lato è anche indubitabile che appaiano sovente i segni di accettazione delle direttive tridentine (ad esempio nella trattazione dei temi eucaristici, sacramentali, o nella riduzione e subordinazione delle tematiche veterotestamentarie ad anticipazione di quelle neotestamentarie). Ma qui va fatta un’ulteriore distinzione: la religiosità di Tintoretto – per quanto sinceramente vissuta ed esposta – non può che essere ricondotta alle forme della sua pittura. Per le scelte tematiche, per l’impianto teologico e per l’orizzonte escatologico, egli è sempre e comunque debitore nei confronti dei suoi suggeritori: teologi ed esegeti delle scritture, letterati, predicatori. Di alcuni di essi, a partire dall’Aretino e dai suoi infuocati scritti sacri, oppure ancora dal predicatore cappuccino Mattia Bellintani, si sono trovati i nomi; altri nomi è possibile che emergano nel procedere degli studi tintorettiani, finalmente liberati dall’ossessione delle attribuzioni e delle vere o presunte autografie per rivolgersi piuttosto alla sostanza solida e ineludibile dei significati e dei messaggi teologici e religiosi tradotti in iconografie originalissime, in luci e ombre, in colori e forme di inesauribile ispirazione. Due fatti sono certi: primo, Tintoretto frequentava circoli di spirituali cattolici molto esposti nel tentativo di conciliare l’ortodossia cattolica con le idee della Riforma; secondo, i suoi cicli pittorici – soprattutto quello della Scuola di San Rocco – orientati da consiglieri molto colti, sono decisamente ispirati alla teologia del Vangelo di San Giovanni, come ho anticipato. E questa, si pensi solo al tema del contrasto luce/tenebre presente fin dal prologo del quarto vangelo, si presta in maniera magnifica a dar corpo e a esaltare la poetica luministica di Jacopo. È incredibile che nelle recenti iniziative su Jacopo tutto questo bagaglio di riflessioni e di informazioni sia del tutto ignorato: quasi un secolo di studi e di proposte è stato come buttato al vento, immolato sulla presunta disciplinarietà dei filologi: gli scritti di Tramontin e Niero, le illuminazioni di Anna Pallucchini, gli scritti di Augusto Gentili e della sua scuola, di Hüttinger, le stesse lucide pagine di Rosand e De Vecchi sulla scenograficità delle grandi rappresentazioni del Nostro a San Rocco; per non parlare dei libri e articoli di Sinding-Larsen e Wolfgang Wolters sul Tintoretto “politico” e la sua pittura ideologica e “rappresentativa” nei gangli stessi del potere della Repubblica. Tintoretto ha oggi perso tridimensionalità storica e umana e viene trattato come un cadavere pronto sul tavolo di marmo per una spietata autopsia. Ma la navicella della sua genialità saprà superare anche queste secche. Per parte mia posso dire di amare tutto intero quest’artista visionario e furente, eppure straordinariamente delicato e sensibile. Un’ultima notazione, ancora sulla linea di cui abbiamo appena ragionato. Mi ha sempre affascinato soprattutto un dato: la straordinaria e perfetta corrispondenza del linguaggio di Jacopo con alcune fondamentali linee portanti dei testi scritturali. Se il tema dell’acqua, ad esempio, dopo le anticipazioni di Vuillemin, e, più modestamente, di François Fosca, era stato già chiaramente illustrato da un celebre saggio di de Tolnay del 1960, così come una buona parte di altre organizzazioni strutturali dei cicli pittorici a San Rocco, quel che mi ha conquistato è il dominio assoluto, nelle parti neotestamentarie, della teologia di San Giovanni e della sua drammatica dialettica luce/tenebre. Mi è sempre
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fig. 24
Tintoretto Tentazione di Cristo Sala Capitolare, Scuola Grande di San Rocco, Venezia
La tensione teologica e morale diventa provocazione luministica attraverso un fulminante scambio di ruoli e di mezzi espressivi 49
sembrato di poter dire, e ne sono pienamente convinto anche oggi, che le scelte di organizzazione dei cicli della Scuola non appartengono a Jacopo, bensì ai suoi suggeritori (teologi, biblisti, predicatori e così via – già Anna Pallucchini aveva scritto pagine importanti al riguardo), mentre è tutta sua la traduzione formale di quelle linee ermeneutiche in una esplosione incontenibile di luce e di tenebra, testimonianza di una battaglia che non si estinguerà fino alla fine dei tempi. Vorrei dire che la teologia giovannea ci appare come tradotta e trasfigurata in pittura, ma anche questo è troppo poco! Perché Jacopo, che parte dai condizionamenti fisici e spaziali delle sale della Scuola (non si dimentichi che il disegno delle cornici e degli scomparti dei soffitti precede l’intervento dell’artista!) rovescia tale handicap a suo favore: cattura la luce abbagliante dei finestroni e la fa creatrice e animatrice dei suoi giochi di contrasto e di battaglia tra Lucifero e Cristo, come nelle Tentazioni (fig. 24) o come nel Battesimo (fig. 23) nel Giordano, nella Piscina probatica o nella Preghiera nell’orto: la tensione teologica e morale diventa provocazione luministica attraverso un fulminante scambio di ruoli e di mezzi espressivi. È il mistero che inquieta Giovanni nel prologo del suo Vangelo: «Veniva nel mondo la luce vera [...] eppure il mondo non lo ha riconosciuto». Tintoretto si è dilaniato e speso a rappresentare tale lacerante dialettica. Questa lotta ho voluto che desse il titolo anche alla riedizione aggiornata del mio volume di Electa, La luce e le tenebre, fatta da Marsilio nel 2011. Dopo Tintoretto la pittura veneziana non sarà più la stessa di prima. Il fulcro del linguaggio pittorico si sposta dalla combinazione dei colori e dall’effetto “tonale” di tali accostamenti in funzione della creazione di quell’atmosfera che da Bellini in poi aveva contrassegnato la pittura veneta (rispetto, ad esempio, a quella toscana) alla contrapposizione di luce e buio, luce del sole e notte profonda, squarciata da esplosioni baluginanti, tenebre dei cieli e folgori e fuochi degli animi. Su questa strada si avvieranno anche le esperienze della generazione di artisti successiva a quella dei grandi protagonisti, titanici ed eroici nella loro inimitabile sintesi di eredità culturali e di innovazioni rivoluzionarie. I forti contrasti luministici, i colori che giungono a contrapposizioni quasi “espressionistiche”, il disegno quale irrinunciabile preparazione alla pittura, la teatralità esagitata fino allo spasimo, la considerazione attenta della natura, del paesaggio, dell’ambientazione nel quotidiano; il tono medio e basso fino al popolaresco, all’aneddoto, alla notazione di costume, l’impressionante controllo degli scorci e delle prospettive ripresi in mirabolanti, virtuosistiche forzature, la padronanza dell’anatomia umana, l’esecuzione velocissima che lascia sempre più spazio a una sorta di “non finito”, di “opera aperta”, dinamica, la creazione, infine, di macchine figurative sempre più complesse e di equilibri sempre più instabili: questi gli ingredienti che fanno del Tintoretto un pittore di confine, di rottura. Si vedano i teleri della Madonna dell’Orto, oppure lo stesso bozzetto (non eseguito in questi termini) del Paradiso per Palazzo Ducale oggi a Madrid: si tratta di gruppi di figure sospese nello spazio, galleggianti, in caduta precipitosa, scomposte e trascinate da un turbine. I successori dovranno confrontarsi con questo dinamismo, queste rotture, queste turbolenze, queste deformazioni, questo manierismo estremo e poetico. E sarà così un altro gigante dell’arte europea a ricevere il testimone da Jacopo Tintoretto, portando il suo percorso artistico e la sua ricerca fino ai limiti ultimi della leggibilità e della anamorfosi, con una pittura che espelle dal suo vocabolario la delicatezza dei colori caldi e delle atmosfere tonali per scegliere lo squillare acido dei verdi, dei gialli, dei violetti di una nuova stagione: Domínikos Theotokópoulos, El Greco.
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Tintoretto ha oggi perso tridimensionalità storica e umana e viene trattato come un cadavere pronto sul tavolo di marmo per una spietata autopsia. Ma la navicella della sua genialità saprà superare anche queste secche. Per parte mia posso dire di amare tutto intero quest’artista visionario e furente, eppure straordinariamente delicato e sensibile
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Tintoretto, le donne (e altre tentazioni)
Esposta agli sguardi incrociati degli spioni, Susanna, soggetto di legittima seduzione ma anche oggetto di illegittimo desiderio, appare sospesa come un’eroina al bivio [...]. Sarà lo specchio a dirle, come sempre, la verità, a “riflettere” con lei e per lei, a svelare la sua identità morale
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febbraio 2019
Storie
Intervista a Augusto Gentili di Franca Lugato
L’opera
geniale di Tintoretto deve essere naturalmente considerata all’interno del contesto storico-culturale della Venezia cinquecentesca. Non potevamo trovare compagno di viaggio migliore di Augusto Gentili per comprendere e apprezzare la Tintoretto-mania che ha finalmente contagiato la città grazie alle due grandi mostre alle Gallerie dell’Accademia e a Palazzo Ducale, ad altre iniziative importanti anche se meno clamorose, alle chiese e scuole veneziane che hanno aperto come sempre il loro “museo diffuso”. Questa intervista, che vuole festeggiare il compleanno di Tintoretto, la cui nascita è accreditata tra la fine del 1518 e i primi mesi del 1519, pone l’accento sulle figure femminili, sulle tante veneziane, nobildonne e popolane, che il pittore ha rappresentato in luoghi ed episodi della realtà o trasformato in personaggi della mitologia classica e della leggenda cristiana. Gentili guarda e fa guardare dentro e oltre l’immagine, per questo le sue conferenze sono sempre gremite di pubblico entusiasta. La presenza di figure femminili nei dipinti di Tintoretto – in ruoli e atteggiamenti che non ci aspetteremmo – mostra un aspetto piuttosto insolito nella pittura veneziana. Come si spiega questa scelta? Donne anonime, prive di un’identità riconoscibile, popolane o nobili, sono rappresentate nell’atto di offrire assistenza o nutrimento. Il punto di partenza obbligato è la Scuola
Grande di San Rocco con la chiesa adiacente del santo titolare. Siamo nel 1549, un momento decisivo per la carriera di Tintoretto, che un anno prima è esploso sulla scena veneziana col rivoluzionario Miracolo dello schiavo per la Scuola Grande di San Marco e che ora inaugura il sodalizio di una vita intera col santo della peste e i suoi seguaci collocando nel presbiterio della chiesa di San Rocco un telero non meno sconvolgente, il San Rocco risana gli appestati (fig. 25) . La scena è costruita su una prospettiva a imbuto verso il fondo, dove un morto è trasportato a braccia fuori della sala e un altro giace sul pavimento. Tutt’intorno, sui piani più vicini, si raccoglie in terra o su giacigli una piccola folla di malati e malate, che mostrano sulla pelle i segni vermigli del “mal francese” (si direbbe) e non della peste. Al centro, un giovane privilegiato dall’attenzione del santo guaritore – disinvolto da par suo in tenuta da viaggio con “jeans” e mantello – gli mostra fiducioso la gamba. Tra gli stessi infermi sembra esserci una certa solidarietà. Ma soprattutto ci sono donne evidentemente sane che assistono, curano, toccano. Una giovane popolana spettinata, depositata in terra una scodella con frutta (sembra) e un bicchiere quasi pieno, prepara una benda; nell’angolo a destra, un’altra meglio vestita e acconciata porta un vassoio con piatto e bottiglia; dalla parte opposta, una di bell’aspetto, chioma e abito, ma alquanto scollacciata, si china premurosamente recando un panno pulito. Il messaggio è chiaro e diretto: dentro c’è tutto lo spessore ideologico del santo titolare, protettore e taumaturgo, integrato nella realtà dalla dedizione per statuto e per mentalità della Scuola Grande di San Rocco all’attività assistenziale, quella che oggi diremmo la sua mission. Le ragioni concrete andavano però molto al di là della narrazione. Una volta edificata la nuova grandiosa sede, i confratelli intendevano destinare la vecchia scoletta dirimpetto alla creazione di un vero ospedale. Il dipinto diventò così uno strumento di propaganda a sostegno del progetto. Tutto inutile: i potenti vicini dei Frari, che mantenevano una serie di privilegi amministrativi sulla zona fin dall’insediamento della Scuola sui loro terreni, non vollero mai concedere
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fig. 25
Tintoretto San Rocco risana gli appestati Chiesa di San Rocco, Venezia fig. 26
Tintoretto Sant’Agostino risana gli sciancati (particolare) Museo Civico di Palazzo Chiericati, Vicenza
AUGUSTO GENTILI Professore universitario, la sua attività di insegnamento e di ricerca è interamente dedicata all’indagine storico-documentaria e iconologico-contestuale sulla pittura veneziana del Quattrocento e Cinquecento. Ha pubblicato numerosi studi, tra gli altri, su Mantegna, Bellini, Carpaccio, Cima, Giorgione, Tintoretto, Veronese, e soprattutto Tiziano. Ha fondato, dirige e cura il periodico semestrale «Venezia Cinquecento».
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l’autorizzazione. L’ospedale di San Rocco restò puramente virtuale, affidato a un dipinto straordinario che riesce (quasi) a trasformare un desiderio collettivo in realtà col solo potere dell’immagine. Altri due significativi dipinti di Tintoretto possono essere avvicinati, anche cronologicamente, a quello della chiesa di San Rocco. La pala d’altare con Sant’Agostino risana gli sciancati (fig. 26) , un tempo collocata nella chiesa di San Michele a Vicenza e ora nella Pinacoteca Civica di Palazzo Chiericati, porta in scena dalla Legenda aurea un episodio poco noto, curioso e non particolarmente gradevole: un consistente drappello di sciancati, diretti in pellegrinaggio a San Pietro in Roma con la speranza di una miracolosa guarigione, sono sorpresi durante una sosta nell’improbabile viaggio dall’apparizione celeste di sant’Agostino, che li indirizza invece alla chiesa di San Pietro nell’assai più vicina Pavia, dove in effetti saranno risanati. I disgraziati sono accasciati a terra, mentre la visione è riservata a un gruppetto di guide d’aspetto sano, tra cui plausibilmente trovano posto i committenti. Insieme all’impressionante storpio dagli occhi sbarrati verso lo spettatore, spicca la donna dal fare energico e dall’aspetto popolano che sorregge il giovane dalla gamba bendata. Ancor più singolare è l’iconografia dell’ampio telero con Cristo e l’adultera della Gemäldegalerie Alte Meister di Dresda. La consueta assemblea che discute il delicato soggetto principale comprende, infatti, uno storpio genuflesso sul pavimento e appoggiato al bastone che cerca di attirare su di sé – per il momento senza successo – l’attenzione di Cristo. Dall’altra parte una donna solleva uno sciancato sdraiato a terra, come nella pala vicentina; dietro di lei sta un’altra donna a capo coperto con una bambina in braccio. Sulla soglia lontana, restano in speranzosa attesa un’altra giovane madre con due pargoli, una nera inturbantata col bimbo in spalla, un invalido trasportato sulla schiena da un giovane robusto. Il perdono dell’adultera sfugge quasi, per una volta, all’attenzione dello spettatore, colpito piuttosto dalle ripetute figure dell’assistenza concreta, fisica, materiale: immagini di quella virtù, superiore a ogni altra, che si chiama Carità.
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Che risvolti ha offerto questa analisi alla sua ricerca? In realtà il tema dell’assistenza è ampiamente sviluppato nella storiografia veneziana. Per quel che qui ci riguarda, ricordo in particolare lo splendido studio di Sabina Brevaglieri che prende le mosse dall’attività di Angela Merici, la terziaria francescana che nel 1535 fonda a Brescia la Compagnia di Sant’Orsola, un istituto femminile destinato all’educazione delle giovani nel nome della leggendaria santa martire. A Venezia nascono dapprima piccole comunità femminili in case sparse nella città, fin quando le Orsoline – come saranno abitualmente chiamate – si insediano in un luogo di capitale importanza, l’Ospedale degli Incurabili alle Zattere, dove l’intera ala destra del grande edificio è riservata alle donne e governata da donne. All’istruzione si affiancano l’assistenza e la prevenzione. I documenti riferiscono di ragazze da educare o rieducare, malate da curare, orfane e vedove senza sostentamento, prostitute pentite. Il governo è affidato a donne del patriziato veneziano, non monache ma nubili, maritate e vedove, che restano a vivere in famiglia pur prestando servizio volontario nell’ospedale. Nel 1540 l’edizione milanese dello Specchio interiore del domenicano Battista da Crema si apre con la dedica a «Madonna Maria Gradenigo et altre sue coadiutrici governatrici dell’Hospitale degli Incurabili». Per iniziativa di altre nobildonne – tra le quali Andriana Contarini, Isabella Grimani e Isabetta Loredan – nasce nel 1559 il “conservatorio di virtù” delle Zitelle in Giudecca. Altri istituti seguono nell’area tra i Mendicoli e Santa Marta, per l’impegno civile e l’organizzazione sempre più capillare delle “magnifiche zentildonne della Compagnia di Sant’Orsola”.
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Tintoretto Sant’Orsola e le undicimila vergini Chiesa di San Lazzaro dei Mendicanti, Venezia fig. 28
Tintoretto Discesa di Cristo al Limbo (particolare) Chiesa di San Cassiano, Venezia
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Proprio in questo periodo Tintoretto dipinge la pala di Sant’Orsola e le undicimila vergini (fig. 27) , oggi nella chiesa di San Lazzaro dei Mendicanti. In questo periodo e in questo preciso contesto. La pala, considerata per molto tempo un’opera giovanile, proviene dalla chiesa di San Salvatore, edificata a partire dal 1566 proprio nella corte dell’Ospedale degli Incurabili: la
sua datazione slitta dunque attorno o dopo il 1570. Nell’Ottocento, soppressa e demolita la chiesa, la pala fu spostata nella cupa sede di San Lazzaro dei Mendicanti, che è rimasta la sua abituale dimora. Ricollocata nel suo contesto originario, Orsola non è più la guida di un improbabile plotone di ragazze addestrate all’arte militare, come nella Legenda aurea, né la protagonista di un’avventura di viaggio dal finale sanguinoso, come nel ciclo famoso di Carpaccio, nonostante il “residuo” del Papa, del vescovo e dell’angelo con la palma del martirio. Quella che ora vediamo è la milizia dell’assistenza veneziana, gerarchicamente organizzata in “compagnia” nel nome della santa guerriera. Orsola, tuttora santa aureolata, apre l’innumerabile corteo. Dopo di lei occupano le prime file sette donne educate e composte, come lei bene abbigliate e acconciate ma senza sfarzo; segue un gruppetto di altre cinque, con mantelline e cuffie da popolane. È evidente che queste donne – senza beninteso pretendere il “ritratto” – alludono alle governatrici e alle lavoratrici dell’ospedale. Il corteo si chiude a semicerchio in una verde piana sulla riva del mare, dove le navi si svuotano in una delicata luce di crepuscolo e ancora tante donzelle sfiorano l’erba in una danza silenziosa, fino a svanire. In un contesto al femminile è impossibile non chiederle delle tre magnifiche nude, tra le opere più famose della produzione tintorettiana: Venere, Vulcano e Marte della Alte Pinakothek di Monaco, Susanna e i vecchioni del Kunsthistorisches Museum di Vienna, Tarquinio e Lucrezia dell’Art Institute di Chicago. Tre immagini di donna che lei ha definito rispettivamente “la Venere passiva, la Susanna riflessiva, la Lucrezia vittima”. Venere, Vulcano e Marte è un quadro comico, nel senso che rimanda a una commedia che potrebbe essere esistita oppure no. Da sempre decine di studiosi, me compreso, hanno cercato un testo di riferimento perdendo tempo, perché non l’ha trovato mai nessuno. Può essere che una commedia ci sia stata davvero e l’abbiamo perduta, o non siamo stati capaci di trovarla, oppure, semplicemente, la commedia se l’è inventata Tintoretto insieme a un com-
mittente colto. Venere, che se ne sta lì adagiata, è un personaggio totalmente passivo, non prende in nessun modo posizione rispetto a quello che le sta succedendo attorno, non ha espressione, non fa alcun gesto, si lascia “ispezionare” da Vulcano che cerca di capire se qualcosa è successo in quel letto. Ma niente può essere successo perché Marte è nascosto sotto al tavolo con l’armatura addosso, non ha fatto nemmeno in tempo a spogliarsi. Tutto ciò è anche giustificato nella teoria dal mito del Cupido addormentato, che dunque non fa il suo mestiere di incitamento ad Amore. In mezzo c’è il cane intento a puntare Marte: naturalmente non sentiamo se abbaia, ma possiamo immaginare che fra poco inizierà a farlo. È un cagnolino piccolo, che non può certo spaventare il dio, ma tra una manciata di secondi farà scoppiare un putiferio: Marte dovrà scappare, sarà lento perché indossa quella pesante armatura e sarà inseguito da Vulcano, altrettanto lento perché zoppo. È un quadro di una comicità acida, piuttosto cattiva, perché – anche se Venere e Marte avranno certo altre occasioni – è una storia di momentanea frustrazione della sessualità. È una scena di commedia nel senso più teatrale del termine, perché chi la vede si aspetta la scena successiva. Anche per via dell’atteggiamento così disimpegnato e remissivo di Venere, non c’è nulla di erotico, se non sottinteso. E pensare che su questo tema esistevano già immagini molto esplicite, come i celebri disegni del Parmigianino, spesso diffusi a stampa da Enea Vico, un eccellente incisore assai noto a Venezia. Quindi la vena ironica o dichiaratamente comica di questi soggetti sembra restituire un tratto distintivo dello spirito di Jacopo. Direi proprio di sì, e voglio darne un altro esempio particolarmente dimostrativo anche per la grande questione della committenza: la Discesa di Cristo al Limbo (fig. 28) , il grande telero laterale nel presbiterio della chiesa di San Cassiano, eseguito insieme a una Crocifissione nel 1568, dove Tintoretto ci mette di fronte a una scena molto movimentata, trasformandoci ancora una volta in spettatori a teatro. Con l’aiuto di un angelo poderoso che spezza le catene, Cristo abbatte le porte degli
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fig. 29
Tintoretto Susanna e i vecchioni (particolare) Kunsthistorisches Museum Gemäldegalerie, Vienna
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Inferi e tende la mano verso Adamo ed Eva. Eva è ovviamente nuda, anche se in qualche imprecisabile momento le hanno messo una nuvoletta intorno ai fianchi. Esattamente dietro le belle natiche di Eva, collocati “in abisso”, sono ritratti i committenti: in primissimo piano il pievano Giovan Battista Licini, con tanto di tunichetta bianca, e Cristoforo Gozzi, in quel momento guardiano della Scuola del Santissimo Sacramento; il terzo poco più indietro è plausibilmente Zuan Piero Mazzoleni, guardiano della Scuola nel 1565, quando Tintoretto aveva eseguito la pala d’altare con la Resurrezione. I tre personaggi stanno lì con un’espressione piuttosto esilarante, tra comprensibile imbarazzo e malcelata soddisfazione. Ma quel che è più interessante è la coincidenza storica fra due gruppi di committenza assolutamente omogenei. I personaggi attivi nella chiesa di San Cassiano e nella sua Scuola del Sacramento rimandano infatti direttamente all’ambiente della Scuola Grande di San Rocco, e precisamente al potentissimo clan costituito al suo interno dai cittadini bergamaschi, per la maggior parte ricchi mercanti. È bergamasco Giovan Battista Licini, parroco di San Cassiano dal 1561 al 1568, protagonista del rinnovamento della chiesa e della scuola con lo spostamento del Sacramento al presbiterio e la costruzione del nuovo altare: Licini era stato cappellano della chiesa di San Rocco dal 13 dicembre 1551 al 31 luglio 1558. È bergamasco Zuan Piero Mazzoleni, guardiano della Scuola del Sacramento in San Cassiano nel 1565, quando sull’altare arriva la Resurrezione: Mazzoleni serve come Degano della Scuola di San Rocco nel 1565, esattamente quando con lo stesso ruolo vi compare per la prima volta ufficialmente Tintoretto. È bergamasco Cristoforo Gozzi, guardiano della Scuola del Sacramento in San Cassiano nel 1568, quando arrivano la Crocifissione e la Discesa agli Inferi: Gozzi seguirà poi una lunga carriera nella Scuola di San Rocco come membro della zonta di governo ad anni alterni, secondo prassi consueta, dal 1577 al 1581 e dal 1584 al 1596. Naturalmente è bergamasco (fra i tanti) anche Gerolamo Rota, guardian grande della Scuola di San Rocco nel 1565: il solo ad aver lasciato il suo nome fra i teleri
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tintorettiani e precisamente nella “targa” a sinistra della gigantesca Crocifissione nella sala dell’Albergo. Assieme ai due autoritratti, quello giovanile e quello tardo, l’opera che più ha affascinato i visitatori della mostra di Palazzo Ducale è senza dubbio Susanna e i vecchioni. Intanto, rispetto a tutto quello che s’è detto e si dice di Tintoretto (nel bene e anche nel male) dal punto di vista della qualità di esecuzione Susanna e i vecchioni (fig. 29) è un quadro di una perfezione formale che Jacopo spesso non raggiunge e neanche ricerca, perché non vuole un modello unico e tanto meno un “canone”. Il nodo fondamentale è proprio la sua discontinuità funzionale, il percorso che è in grado di cambiare nel giro di sei mesi o di un anno producendo opere coeve completamente diverse. Di date sicure ne abbiamo abbastanza per osservare con chiarezza questi mutamenti. Quanto alla costruzione della figura, un corpo perfetto come quello di Susanna potrà anche derivare il suo disegno dalla Venere antica che s’asciuga il piede, mediata da Raffaello e dalle stampe di Marcantonio Raimondi, se però cerchiamo confronti per questa concreta corporeità risolta in straordinaria intensità e lucentezza di tinte, allora non resta che Tiziano. Tutto questo è risaputo, ma c’è molto d’altro. I due attempati “guardoni” sono rappresentati distanti uno dall’altro, non lontanissimi ma divisi, mentre di solito fanno coppia in modo che la pressione nei confronti di Susanna sia raddoppiata. Il fatto che stiano uno nel fondo e l’altro in basso li rende più ridicoli che minacciosi. La posizione strisciante del primo è in realtà piuttosto goffa, nonostante il punto di vista strategico per un voyeur, mentre quello più defilato appare timoroso, incerto se partecipare o meno all’azione. I “vecchioni” non fanno certo una bella figura, anche se non sono contrassegnati da espressioni o gesti scomposti. Tintoretto, con la sola scelta compositiva della distanza, li rende non dico inoffensivi (perché si sa che offenderanno), però nella percezione dello spettatore non appaiono pericolosi. Nel quadro sono anche presenti tutti gli
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Tintoretto Susanna e i vecchioni (particolare) Kunsthistorisches Museum, Gemäldegalerie, Vienna
elementi di un’allegoria matrimoniale (fig. 30) creata attraverso attributi e simboli tradizionali, senza bisogno di novità o invenzioni particolari. C’è un corredo di vestiario e di toletta di grande pregio: il portaprofumi, lo scriminale, il pettine, il panno di un bianco raramente visto, il corsetto sgargiante e l’elegante acconciatura, le perle della collana, dei bracciali e dell’orecchino, infine i due anelli nuziali al centro, quello di lei col diamante e quello liscio del marito, che bisogna cercare attentamente per poterli scorgere tra gli altri oggetti. Susanna, come nella storia biblica vive negli agi di una dama d’alta casta. Soprattutto, è una donna sposata. Poi ci sono i simboli tradizionali d’amore matrimoniale: la
coppia di cervi in fondo a sinistra, la famiglia di cigni al centro e, soprattutto, la grossa gazza sull’albero proprio sopra la testa della donna, facilmente identificabile anche per chi sia poco esperto di ornitologia. La gazza è celebrata nelle fonti perché difende il nido a tutti i costi, usando il suo verso acutissimo per scacciare ogni insidia. Tre elementi ugualmente indicativi della fedeltà di Susanna. Chi ha voluto questo dipinto? Di certo il marito, anche perché c’è il suo anello, e chi altri poteva commissionare un quadro con questa figura di donna, con queste immagini simboliche di celebrazione del matrimonio? L’immagine si offre alla contemplazione compiaciuta e al possessivo ammonimento
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di un uomo che la vuole ardente Venere per sé e casta Susanna per chiunque altro. È un quadro amoroso. Ma è anche un quadro erotico. Allora, se ci piace, possiamo accettare la sfida della “commedia” tintorettiana anche per questa vicenda, ambigua fin dall’origine. Nuda e sola all’aperto, il corpo morbido in primo piano tra oggetti di lusso, Susanna deve affrontare una situazione complicata. I “vecchioni” non sono sporcaccioni qualsiasi, ma due anziani e autorevoli giudici: la donna non rischia forse di cedere al ricatto e alla violenza del più forte? Esposta agli sguardi incrociati degli spioni, Susanna, soggetto di legittima seduzione ma anche oggetto di illegittimo desiderio, appare sospesa come un’eroina al bivio, forse dubbiosa, di certo riflessiva: cosa farà tra un momento? Sarà lo specchio a dirle, come sempre, la verità, a “riflettere” con lei e per lei, a svelare la sua identità morale. Lo spettatore, rassicurato dal valore positivo dei simboli, riconoscerà il suo controllo e la sua prudenza. Il visitatore è anche colpito dalla violenza di Tarquinio e Lucrezia. In Tarquinio e Lucrezia la violenza è impressionante ed è una violenza che si legge anche nei gesti di Lucrezia, perché non sa più cosa fare, come difendersi e come muoversi. Appare quindi scomposta, finendo quasi per toccare l’aggressore con il braccio sinistro. È un quadro dove la reazione di entrambi, Tarquinio in preda al raptus e Lucrezia in cerca di difesa, è spasmodica. È un’immagine del disordine, dove sia negli atteggiamenti delle persone che negli oggetti non c’è più nulla al proprio posto: la collana di Lucrezia si è spezzata e alcune perle rotolano sul pavimento, la statua bronzea o dorata cade giù a capofitto, il cuscino è a terra, la spada di Tarquinio pure. Il disordine totale della scena diventa la lezione morale del dipinto. La vicenda di Lucrezia – come viene narrata dagli scrittori classici, nelle Storie di Tito Livio e nei Fasti di Ovidio – lascia qualche possibilità di equivoco e qualche problema di giudizio. Lucrezia è aggredita in casa propria e nella sua stanza da letto in assenza del padre e del marito impegnati al campo nelle manovre militari. Tarquinio, parente e amico di famiglia, quindi
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accolto come ospite, è particolarmente bieco per queste ragioni. Eppure, è anche lui un soldato e figlio di re (l’ultimo di Roma, Tarquinio il Superbo, come abbiamo imparato fin dalle scuole elementari), tanto che Tintoretto in accordo con le fonti gli ha dato la spada romana, ora abbandonata a terra, disonorata dalla sua violenza. Tiziano, nelle tre versioni dell’episodio (Cambridge, Bordeaux, Vienna), lo svergogna ancor più direttamente escludendo la nobile spada e dotandolo di diversi coltellacci, un po’ rustici e un po’ turcheschi. Quanto a Lucrezia, la cultura d’antico regime non brilla certo per comprensione. E allora le “domande” sono sempre le stesse, quelle che purtroppo si fanno ancor oggi: “se l’è cercata” accogliendo Tarquinio in assenza degli uomini di casa? Doveva proprio farsi trovare in letto seminuda? Poteva magari far qualcosa di più per difendersi? Gli antichi scrittori risolvono tutto col suicidio “per onore”. Lucrezia, dopo aver narrato l’accaduto al padre e al marito affermando d’aver infine ceduto per non creare troppo clamore, per non intaccare la rispettabilità della famiglia, dichiara di non voler sopravvivere al disonore, afferra un pugnale e se lo pianta nel petto. Ma finanche il valore esemplare del suo eroico suicidio, ancora attuale nelle immagini di qualche decennio prima (si veda il Ritratto di gentildonna nelle vesti Lucrezia di Lorenzo Lotto nella National Gallery di Londra), è ormai tramontato. Sia in Tiziano che in Tintoretto, anche con tutte le differenze di dettaglio, resta soltanto una storia di violenza mai prima letta, vista o sentita; soltanto un bravaccio brutale e una donna indifesa. Le Tentazioni di sant’Antonio nella Chiesa di San Trovaso aprono il dibattito su Tintoretto pittore di religione. Le Tentazioni di sant’Antonio (fig. 31) è un altro straordinario esempio, innanzitutto, del “comico” tintorettiano. Il povero santo viene tartassato da ben quattro personaggi, due diavolesse e due diavolotti, che lo tormentano da tutte le parti, gli strappano le vesti di dosso, gli stracciano il libro della Regola, gli buttano via la borsa e il rosario, la campanella e la stampella, lo privano insomma di tutto quel poco che possiede. C’è anche un cinghiale,
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Tintoretto Le Tentazioni di sant’Antonio (particolare) Chiesa di San Trovaso, Venezia
che nella tradizione simbolica è un animale pericoloso e diabolico, mentre nella realtà non è così aggressivo (a meno che si vada a infastidire una femmina con i cuccioli). Nonostante sia affollato di tanti personaggi e tanti oggetti, è un quadro assai movimentato, col Cristo che arriva in picchiata a salvare il santo da aguzzine e aguzzini della tentazione. Le due giovani diavolesse non sembrano, a prima vista, troppo inquietanti. Quella a destra è piuttosto procace, è ornata di collana e bracciali ed espone un seno prosperoso. Sarebbe solo una bella ragazza, se non fosse per le due corna sottili e appuntite come frecce in mezzo ai capelli. La sua collega è altrettanto discinta ma meno sfacciata, con un diadema sul capo
che non riesce a nascondere due piccole corna caprine. Ha un compito più immediatamente concreto, quello di offrire vasi pieni di monete e gioielli. La prima rappresenta la Lussuria, la seconda l’Avidità. I due giovani diavoli si occupano solo di tirare e strappare le vesti di Antonio, che però non se la prende più di tanto e lancia uno sguardo fiducioso al Cristo che scende a salvarlo. Sia pur con i dovuti accorgimenti – ripensiamo alla nuvoletta di Eva a San Cassiano – era dunque possibile rappresentare il nudo femminile non solo in chiesa, ma addirittura in una pala d’altare. Evidentemente non è vero che le autorità ecclesiastiche esercitassero sulla produzione di immagini una censura tanto minuziosa e soffocante.
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Si può pensare che Tintoretto, sia per i soggetti religiosi che per quelli storici o mitologici, fosse affiancato o consigliato nelle scelte iconografiche da personaggi di spicco del mondo della letteratura? Fissiamo un punto fermo di metodo storico. Tutti i grandi pittori del Cinquecento sono più o meno strettamente collegati alla dimensione della letteratura e dell’editoria, sia laica che religiosa. Non sappiamo quasi mai cosa e quanto leggessero, ma sappiamo che ascoltavano, conversavano, discutevano. Non erano loro a scegliere il soggetto di un dipinto ma i committenti, che avevano sempre una ragione precisa. Al pittore spettava il compito di rappresentare quel soggetto disponendo forme e figure in maniera coerente e attraente a partire dalla propria invenzione, senza mai “tradurre” un testo ma piuttosto interpretandolo sulla base della tradizione figurativa. Chi produce immagini si nutre soprattutto di altre immagini, pensa per immagini. Per quel che riguarda il giovane Tintoretto, sembrano ormai acquisiti – dopo i più recenti contributi in mostre e convegni – i rapporti con la produzione editoriale di Francesco Marcolini e con i letterati attivi nella sua stamperia, a partire da Pietro Aretino, che nel 1548 gli invia una celebre lettera di elogio per il Miracolo dello schiavo, il capolavoro che afferma il pittore sulla scena cittadina. La costante adozione dell’allegoria umanistica e di un raffinato concettismo incline alla commedia, alla meraviglia e alla sorpresa, insieme alla tensione del linguaggio pittorico alla maniera della cultura tosco-romana piuttosto che alla tradizione veneziana, è il fondamento condiviso di questa relazione culturale. E per quel che riguarda la pittura religiosa? Siamo arrivati alla questione più importante, e anche alla più scottante, delle attuali discussioni. Troppe volte abbiamo sentito e tuttora sentiamo di Tintoretto “pittore della Controriforma”, intesa come l’epoca che raccoglie le peggiori perversioni della reazione del mondo cattolico ai mondi protestanti, dalla persecuzione e i supplizi degli “eretici” ai fenomeni di oscurantismo come il divieto di traduzione e lettura delle sacre scritture in volgare, gli in-
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dici dei libri proibiti, il pressante controllo su licenze e deviazioni nelle immagini. Sarà utile ricordare che la “Controriforma” non sapeva di esserlo, dato che questo termine fu coniato da uno studioso tedesco nel tardo Settecento. La storiografia otto-novecentesca ha opportunamente preferito la formula “Riforma cattolica”, considerando non solo gli aspetti negativi e repressivi dell’epoca segnata dal Concilio di Trento, ma anche quelli costruttivi, quali la ripresa del dibattito dottrinale e la riorganizzazione politica e culturale del mondo cattolico. La contrapposizione secca tra questo e il mondo protestante appare però schematica e riduttiva, poiché esistono diverse posizioni laterali e intermedie. La più importante è la tendenza “spirituale” promossa dal teologo spagnolo Juan de Valdés nei circoli di Napoli, Roma e Viterbo, dove si esalta la “via larga” alla grazia e alla salvezza garantita dal sacrificio di Cristo sulla croce. Il più famoso “spirituale” del secolo è indubbiamente Michelangelo. Ma tutti i grandi pittori veneziani sono toccati, in maniera saltuaria o duratura, dalla nuova spiritualità: Lorenzo Lotto per tutta la sua vita, Tiziano negli ultimi anni e nella sua tragica pittura estrema, il presunto campagnolo Jacopo Bassano e il finto neutrale Paolo Veronese. E naturalmente Tintoretto. Qual è allora su questi temi la posizione di Tintoretto? L’opera di Tintoretto, come già si accennava, è in grado di affrontare allo stesso tempo diversi contenuti e diversi linguaggi. Caratterizzata dalla committenza delle scuole e delle chiese – dunque di laici e religiosi, di mercanti, artigiani e funzionari statali – reclama una religione facilmente comprensibile e comunicabile, fondata su una cristologia radicale, ma anche una religione didascalica e propagandistica, pronta a ribadire l’importanza di leggende e miracoli, a ravvivare il dibattito sull’eterno confronto tra mondo ebraico e mondo cristiano, a sostenere la necessità di riforme delle istituzioni ecclesiastiche e delle pratiche quotidiane in risposta alla progressiva diffusione di pensieri e parole delle riforme protestanti. La richiesta di un’alta temperatura sentimentale è la condizione di partenza per una pittura piena di “effetti speciali”, utili
per attenuare con lo stupore le tracce di inquieto dissenso che affiorano fra gli interstizi delle immagini. L’analisi dei contesti e delle immagini mostra con assoluta chiarezza che Tintoretto e i suoi lettori – come peraltro ogni pittore e lettore del secondo Cinquecento – lavorano sui testi religiosi in volgare, prendendo consapevolmente posizione contro i divieti di traduzione, interpretazione e diffusione delle sacre scritture fuori del controllo ecclesiastico. Il riferimento principale per Tintoretto è stabilito dalle opere devozionali di Pietro Aretino, soprattutto l’Umanità di Cristo e la Vita di Maria Vergine, già pubblicate e più volte ristampate dal Marcolini fra il 1534 e il 1543, infine riproposte dai figli di Aldo Manuzio nell’edizione del 1551-‘52. Ma ce ne sono altri, chiamati in causa da diversi studiosi: un paio di Bibbie commentate, quelle di Antonio Brucioli e di Santi Marmochino, dai contenuti almeno sospetti (Weddigen); le pie, et christiane parafrasi sopra l’evangelio di san Matteo, et di san Giovanni, di Angelico Buonriccio, canonico regolare agostiniano, stampate in Venezia da Gabriele Giolito de’ Ferrari nel 1568, con parecchie illustrazioni e puntuali rimandi al ciclo della Scuola di San Rocco (Romanelli). O ancora il libro del Monte Calvario del frate francescano Antonio de Guevara, consigliere, predicatore, diplomatico e cronista ufficiale di Carlo V: un’opera tradotta e diffusa in tutta Europa, stampata da Giolito per la prima volta nel 1555 e più volte riproposta negli anni successivi, con la stupefacente definizione del calvario come “spettacolo degli spettacoli” dinanzi al pubblico del mondo intero (Gentili). Tintoretto s’era costruito una cultura tale da permettergli l’immediata adesione a soggetti diversissimi se non addirittura contrapposti tra loro: la tradizionale “concordia del Vecchio e del Nuovo Testamento”, della vita di Mosè e quella di Cristo per la Scuola di San Rocco, o il “mito di fondazione”, con le storie del santo patrono per la Scuola di San Marco; ma anche i due teleri con L’adorazione del vitello d’oro e il Giudizio universale alla Madonna dell’Orto, complicatissimi di dottrina oltre che giganteschi di misura; o la discussione sull’eucarestia, continuamente aggiornata, nelle tante versioni dell’Ultima cena.
Dopo la magnifica sovraesposizione del Cinquecentenario, c’è il rischio che Tintoretto rientri di nuovo in un cono d’ombra? Qual è la sua posizione in merito, e magari il suo augurio? Per molto tempo il limitato interesse nei confronti di Tintoretto è dipeso dal fatto che le sue opere si vedono prevalentemente sparse tra chiese e scuole, oltre che nei musei. Molti ritenevano che quel che era possibile esporre in mostra senza troppi problemi materiali non bastasse a tenere il livello di attrazione “commerciale” di Tintoretto rispetto al grande pubblico di Tiziano o di Paolo Veronese. Grazie alle mostre del 2018 – antologie di qualità, ben pubblicizzate e molto frequentate – abbiamo visto che questo non è vero. Se ben ricordo, nel quarto centenario della morte c’era stata soltanto la mostra di ritratti curata da Paola Rossi e il solito invito a visitare le opere in città. Quindi ben venga adesso questo successo, forse per molti inaspettato, ma non certo per me. L’augurio è sempre lo stesso, che l’appassionato delle mostre vada anche negli altri luoghi tintorettiani con qualche consapevolezza di più. Dopo tanto clamore, un po’ di silenzio inevitabilmente ci sarà e servirà a pensare e ripensare: è successo qualche anno fa per Tiziano e ora aspetto alla prova Lorenzo Lotto, dopo la splendida stagione dedicata anche a lui in Italia e in Europa. Tintoretto ha appena ricevuto mostre, cataloghi, guide, film, restauri, finanche storytelling. Ora, per chi vuole, è il momento di nuovi studi sulla complessità della sua pittura. Ora i suoi studi tintorettiani in che direzione sono rivolti? I miei studi sono rivolti già da parecchio tempo all’approfondimento di alcune questioni legate alla situazione religiosa di cui abbiamo parlato, e in particolare al tema dell’Ultima cena, che spesso viene definito – altro luogo comune insopportabile – come il “preferito” di Tintoretto. Per quel che sappiamo, è plausibile che non ne potesse più di dipingere tredici persone a tavola, e tuttavia doveva farlo perché glielo richiedevano le Scuole del Sacramento, le fraternite che avevano in carico la cura e la conservazione dell’eucarestia. L’Ultima cena permette molte variazioni
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Tintoretto Ultima cena (particolare) Chiesa di San Marcuola, Venezia
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fig. 33
Tintoretto Ultima cena Chiesa di San Trovaso, Venezia fig. 34
Tintoretto Ultima cena (particolare) Chiesa di San Polo, Venezia
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interne ai testi e ai commenti evangelici, perché è composta di diversi episodi. Si può rappresentare il momento in cui Cristo rivela agli apostoli che uno di loro lo tradirà, creando agitazione e domande, oppure quello meditativo dell’istituzione del sacramento, o ancora quello festoso e celebrativo della comunione degli apostoli. È molto difficile trovarne due versioni simili e su ogni versione bisogna ragionare in maniera distinta. Si direbbe che questo tema abbia creato fin da principio qualche problema a Tintoretto, o piuttosto ai suoi committenti. Nell’Ultima cena (fig. 32) , di impianto tradizionale, eseguita nel 1547 per la Scuola del Sacramento nella chiesa di San Marcuola, il pittore aveva disposto ai lati della tavola le figure allegoriche della Fede e della Carità, la prima col calice e l’ostia, la seconda con un bambinetto in braccio e uno attaccato alle gonne. Fu forse quell’“Isepo Morandelo” – gastaldo della compagnia, che ha lasciato il nome sullo sgabello centrale – a chiedergli prudentemente di travestirle da serventi, ricoprendo l’ostia e aggiungendo una brocca, un vassoio bollente di arrosto e un simpatico gatto da cucina. Molto più avanti appaiono due versioni dell’Ultima cena (fig. 33) particolarmente intriganti, diversissime tra loro, scarsamente
documentate, di datazione oscillante (tra gli anni Sessanta e Settanta del Cinquecento) e di complessa iconografia. La prima, eseguita per la Scuola del Sacramento nella chiesa di San Trovaso, rappresenta l’annuncio del tradimento: il problema principale è identificare Giuda, protagonista immancabile, tra i possibili candidati. La seconda, eseguita per la Scuola del Sacramento nella chiesa di San Polo (fig. 34) , mette invece in scena la comunione degli apostoli, ma il gesto di Cristo a braccia aperte, con una doppia offerta del pane, non s’era mai visto prima. Al fondo di tutto ciò sta ovviamente il decreto tridentino dell’11 ottobre 1551, in cui si stabiliva una volta per tutte che nel mondo cattolico, diversamente da quello protestante, la comunione si fa col solo pane, e non anche col vino. La presenza o l’assenza del vino sulla tavola dell’Ultima cena, in Tintoretto e in altri pittori, diventa l’indizio di una questione rimasta aperta nel sentimento diffuso, oltre la norma ufficiale. Ecco, quel che ancora vorrei studiare e capire – al di là del dibattito intellettuale e delle categorie storiografiche – è il contesto sotterraneo di queste piccole fraternite, i pensieri e i desideri della “gente comune” dinanzi ai problemi quotidiani della religione veneziana. I documenti scritti sono rari, ma per fortuna restano le immagini.
Bibliografia essenziale Maria Elena Massimi, Jacopo Tintoretto e i confratelli della Scuola Grande di San Rocco. Strategie culturali e committenza artistica, «Venezia Cinquecento», V/9, 1995, pp. 5-107. Sabina Brevaglieri, Assistenza e patronage femminile a Venezia: la compagnia di S. Orsola, Tintoretto e l’altare degli Incurabili, «Quaderni Storici», 35/104 (2), 2000, pp. 355–391. Antonio Manno, Tintoretto. Sacre rappresentazioni nelle chiese di Venezia, Grafiche Veneziane, Venezia, 1994. Giandomenico Romanelli, Tintoretto a San Rocco: committenza, teologia, iconografia, in Jacopo Tintoretto nel quarto centenario della morte, atti del convegno (Università Ca’ Foscari di Venezia, 24-26 novembre 1994), a cura di Paola Rossi e Lionello Puppi, Il Poligrafo, Padova, 1996, pp. 91-95.
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Erasmus Weddigen, “Memoria purificata”: ein Nachleben im Widerspruch, in Il ritratto e la memoria. Materiali 2, a cura di Augusto Gentili, Philippe Morel e Claudia Cieri Via, Bulzoni, Roma, 1993, pp. 263-282 (con sintesi in italiano, pp. 283-284). Augusto Gentili, Tempi della narrazione e tempo dell’allegoria. Tintoretto alla Madonna dell’Orto, a San Cassiano, alla Scuola Grande di San Rocco, in La bilancia dell’arcangelo. Vedere i dettagli nella pittura veneziana del Cinquecento, Bulzoni, Roma, 2009, pp. 217-243.
La richiesta di un’alta temperatura sentimentale è la condizione di partenza per una pittura piena di “effetti speciali”, utili per attenuare con lo stupore le tracce di inquieto dissenso che affiorano fra gli interstizi delle immagini
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Il Maestro rivelato
marzo 2019
Storie
Tintoretto è un pittore veramente difficile da restaurare. Imprevedibile e tecnicamente discontinuo, non possiede un modo unico di realizzare le sue pitture; è “un anarchico”, riesce a essere meticolosamente progettuale e nello stesso tempo velocissimo, con una realizzazione finale di getto, sempre focalizzata al risultato scenico complessivo 70
Intervista a Sabina Vedovello di Franca Lugato
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i riflettori su un Maestro comporta, oltre alla visibilità di mostre e celebrazioni, la possibilità di studiarne in modo scientifico il catalogo e direttamente le opere. L’occasione del Cinquecentenario della nascita di Tintoretto (1519-2019) è stata fondamentale anche e soprattutto per la promozione e la realizzazione di importanti restauri che hanno visto protagonisti capolavori del Maestro. Lo scorso gennaio si è concluso infatti il lungo lavoro sulla Maria in meditazione e la Maria in lettura, i grandi teleri dipinti da Tintoretto tra il 1582 e il 1584 per la Sala Terrena della Scuola Grande di San Rocco. L’intervento è stato finanziato da SKY Arte, che ha realizzato il bellissimo documentario sulla vita di Tintoretto (vedi pag. 137), passato nelle sale cinematografiche il 25, 26 e 27 febbraio scorso. Il restauro è stato un vero lavoro di squadra tra la Soprintendenza Archeologia, belle arti e paesaggio per il Comune di Venezia e Laguna e la Scuola Grande di San Rocco. A realizzare l’intervento Sabina Vedovello, Irene Zuliani, Ramona Scamporrino, Eleonora Toppan della CBC Conservazione Beni Culturali, gruppo italiano di professionisti con più di quarant’anni di esperienza. Abbiamo avuto la fortuna di assistere allo svelamento delle due Marie e di sentire dalla viva voce di una delle protagoniste del restauro, Sabina Vedovello, l’emozione di aver vissuto per lunghi mesi a fianco del grande artista veneziano.
Da dove siete partiti e quali sono state le indagini che avete condotto prima di intervenire sui teleri? Fondamentale nel nostro lavoro e nel nostro approccio è cominciare a guardare molto attentamente le opere e il dettaglio delle loro caratteristiche. Forse è l’indagine più importante, perché permette di precisare lo stato di conservazione, i problemi che riverberano sulla superficie, e di cominciare a impostare le indagini di carattere scientifico, che diventeranno poi il testo oggettivo, la documentazione trasmissibile di quello che osserviamo. Si parte dunque da una lettura attenta dell’oggetto, con una buona luce, spesso radente, che ci consente di cogliere tutta una serie di caratteristiche o di particolarità, compresi gli eventuali danni; una fase fondamentale per poi costruire un approccio sia operativo che di approfondimento scientifico. La parte di diagnostica, o comunque di documentazione scientifica, è un percorso che in genere deve accompagnare tutto il nostro lavoro e che viene a definirsi via via che si approfondiscono anche le parti operative. Non può bastare un controllo scientifico a spot; sarebbe buona prassi ripetere certe operazioni nel corso del lavoro, perché mentre si procede ad affrontare i diversi temi conservativi affiorano i problemi, le domande e le necessità di risposta. Nel caso particolare delle due Marie del Tintoretto (figg. 35-36) siamo stati abbastanza fortunati, perché si è creata una certa disponibilità anche logistica a operare in più riprese. In particolare, Dino Chinellato, che si è occupato dei rilevamenti con luce infrarossa e ultravioletta, si è reso disponibile a documentare passo dopo passo il procedere del lavoro. Quanto è importante per il vostro lavoro, e nel caso specifico per il restauro delle due Marie, la ricerca storico-archivistica e come affrontate l’analisi degli interventi pregressi? È chiaro che lavorando su un’opera o un oggetto affiorano dei dati materiali che riguardano non solo come è stato realizzato ma anche gli interventi e i materiali aggiunti nel corso del tempo. In questi casi è fondamentale poter avere dei riscontri archivistici e storici che datino e che rendano possibile mettere in
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fig. 35
Tintoretto Vergine Maria in meditazione Sala Terrena, Scuola Grande di San Rocco, Venezia
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fig. 36
Tintoretto Vergine Maria in lettura Sala Terrena, Scuola Grande di San Rocco, Venezia
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sequenza gli eventi, separando gli elementi che sono da ricondurre al momento dell’esecuzione da quelli ascrivibili a operazioni successive. La conoscenza storica è elemento altrettanto importante per le scelte di restituzione finale dell’opera su cui si interviene: ci permette di comprendere che cosa ha senso mantenere e che cosa, al contrario, ha senso rimuovere. In questo caso particolare abbiamo trovato molto poco sulla storia dei dipinti della Sala Terrena della Scuola Grande di San Rocco, forse perché è sempre stata considerata come l’atrio d’accesso alla sala superiore, sicuramente più importante e ricca. Le notizie che si ricavano cominciano dal primissimo Novecento e non sono esattamente riferibili a questi due dipinti. Tra l’altro, all’interno del ciclo della Sala Terrena, le due Marie sono le meno considerate nel corso del tempo, anche nelle guide antiche e nei resoconti. Sappiamo per certo che sono state rifoderate più di una volta: è stata aggiunta cioè una nuova tela di supporto alla tela originale per dare tensione e coesione ai dipinti. Le uniche notizie certe riguardano due avvenimenti del Novecento, ovvero il restauro di Antonio Lazzarin, che tra il 1969 e il 1974 lavora su tutti i dipinti della Scuola, e poi, nel 2012, una manutenzione con una leggera pulitura e una riverniciatura in occasione della grande mostra di Tintoretto alle Scuderie del Quirinale. Nella fase di pulitura e di rimozione delle dipinture non originali come e dove vi siete posti il limite di intervento? Si può dire che già come deformazione professionale possediamo un particolare allenamento a leggere in stratigrafia gli strati della pittura. Inoltre, nel corso del tempo
sono stati messi a punto dei processi di pulitura graduale e progressiva che consentono, partendo da solventi e sostanze molto blande fino a solventi maggiormente aggressivi, di arrivare a determinare come rimuovere i materiali non pertinenti e raggiungere i livelli desiderati. La prima fase in assoluto è sempre quella di togliere la vernice più recente; anche in questo caso ha coinciso con la solubilizzazione sia della vernice data nel 2012 che della vernice risalente a interventi di metà del Novecento. In particolare quest’ultima, una vernice naturale, aveva subito un’alterazione e un ingiallimento abbastanza pronunciati. Già la rimozione di questi strati ha alleggerito la pittura restituendo una chiara visione di numerosi dettagli e una nuova profondità, permettendo una comprensione più chiara di quella che era la superficie originale. È emersa così l’evidenza che in tempi passati era stata operata una pulitura abbastanza radicale, ma allo stesso tempo molto veloce, che aveva lasciato molti residui. Il nostro passo successivo è stato, quindi, un intervento di pulitura puntuale solo sulle zone dove si vedevano tracce di ridipinture e ritocchi, oppure in determinate parti – come le radici dell’albero della Madonna in lettura (fig. 37) o sulla parte del prato intorno al ruscello della Madonna in meditazione (fig. 38) – dove abbiamo rinvenuto applicazioni di sostanze oleose che avevano impregnato il colore. Abbiamo cercato di assottigliare e alleggerire queste sostanze, anche se non siamo ovviamente riusciti a estrarle laddove ormai strettamente compenetrate nella pittura originale. Tuttavia, nonostante i limiti innegabili, il lavoro di equilibratura e di rimozione puntuale delle alterazioni ha sicuramente reso più limpida la visione.
CBC Conservazione Beni Culturali Fondato nel 1977 da restauratori diplomati presso l’Istituto Centrale per il Restauro di Roma, è uno dei primi gruppi italiani di professionisti costituiti in forma solidale. Tra i molti lavori svolti citiamo i dipinti di Giotto (Assisi e Padova), la Cappella di San Brizio a Orvieto, la decorazione di Paolo Veronese nella Chiesa di San Sebastiano a Venezia, la Pietà Rondanini di Michelangelo, le opere di Bernini alla Galleria Borghese, la Torre di Pisa e la Fontana di Trevi.
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Partendo dal presupposto che Tintoretto sia un imprevedibile sperimentatore e che le sue opere siano spesso caratterizzate da discontinuità tecniche e stilistiche, cosa ci svela di nuovo il restauro delle due Marie? Tintoretto è un pittore veramente difficile da restaurare. Imprevedibile e tecnicamente discontinuo, non possiede un modo unico di realizzare le sue pitture; è “un anarchico”, riesce a essere meticolosamente progettuale e nello stesso tempo velocissimo, con una realizzazione finale di getto, sempre focalizzata al risultato scenico complessivo. La cosa che lascia più stupefatti è che molte delle sue pitture hanno una quantità di materia infinitesimale: anche in questi due teleri lo strato di preparazione e lo strato della pittura insieme non superano quasi mai i 100 micron, una stratificazione veramente esilissima. È quasi un controsenso rispetto alla sensazione di pittura materica, muscolare, che i suoi lavori trasmettono, con quel gesto così veloce che sembra pieno di colore, quando in realtà si tratta di velature molto rapide che trovano la propria tridimensionalità attraverso il forte contrasto tra chiaro e scuro. Le Marie, anche rispetto ad altri dipinti della Scuola, sfruttano moltissimo la tonalità della preparazione: molte delle sfumature ambrate, nocciola scuro e marroni presenti nei due dipinti sono dovute al colore della preparazione che traspare in superficie. Forse queste sono le caratteristiche più incredibili in merito ai due dipinti: la sottigliezza degli strati colorati e l’uso sapiente della trasparenza nella preparazione di fondo. Se guardiamo, ad esempio, la Fuga in Egitto ci troviamo al cospetto di un quadro tecnicamente tradizionale, con strati pittorici costruiti secondo le regole della pittura cinquecentesca, eppure è stato dipinto nemmeno un anno prima delle due Marie. La Strage degli Innocenti, altro esempio, è ancora diversa… Tintoretto piegava, o comunque utilizzava una delle tante tecniche di cui disponeva in base al risultato che voleva raggiungere. Il fatto che le due Marie risultino un po’ “dimenticate” all’interno del percorso della Sala Terrena e la stessa difficoltà a inquadrarne l’iconografia ci portano quasi a pensare che Tintoretto avesse deciso di riempire i due
fig. 37
Tintoretto, Vergine Maria in lettura Particolare delle radici dell’albero fig. 38
Tintoretto, Vergine Maria in meditazione Particolare del ruscello
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spazi finali e marginali delle pareti della Sala svincolandosi dalla narrazione ufficiale per proiettarsi in una restituzione iconografica libera, sfruttando appieno la sua capacità di riuscire con poca materia, pochi strati e pochi colori a rendere uno spazio scenico straordinario, innovativo, diverso dal solito. Il riutilizzo nella bottega tintorettiana. In particolare la prassi del riutilizzo dei ritagli delle tele è riscontrabile anche nel caso delle due Marie? Parzialmente, perché i due dipinti non sono uguali: la Maria in lettura è costruita molto regolarmente con quattro pezze di lino poste in orizzontale, una sopra l’altra, a tessitura a mezza saia con cuciture molto regolari; la Maria in meditazione è più articolata nella costruzione del supporto, perché è costituita da tre pezze grandi cui sono stati aggiunti lungo i bordi tre frammenti rettangolari e una lunga striscia verticale sulla sinistra. Sono stati ritrovati disegni sottostanti le stesure di colore – pentimenti, ripensamenti – nelle due Marie? Tintoretto era un pittore che disegnava e progettava molto, eseguiva sempre almeno un paio di passaggi. Il disegno preparatorio è stato ritrovato anche in questo caso, soprattutto nelle due figure. Pentimenti in realtà non ve ne sono, niente di così appariscente, giusto qualche piccolo ripensamento sulla posizione dei piedi della Maria in meditazione. Forse all’inizio tutte e due le figure erano state pensate un pochino più grandi, poi in seguito sono state ridotte di dimensione. Ma sostanzialmente la partenza compositiva è la stessa che si ritrova nella realizzazione finale.
fig. 39
Tintoretto, Vergine Maria in meditazione Tintoretto, Vergine Maria in lettura Particolare del paesaggio fig. 40
Tintoretto, Vergine Maria in meditazione Tintoretto, Vergine Maria in lettura Particolare delle due figure
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La luce per Tintoretto è quasi un marchio di fabbrica e le due piccole figure di Maria sono inserite in un ampio paesaggio notturno che le sovrasta, immanente, quasi fantasmagorico, rischiarato da una luce scenica. Possiamo avere un’idea di come rendeva questi effetti luministici dal punto di vista della tecnica e dello stile? Sulla parte della vegetazione in linea di massima Tintoretto sembra partire da un mezzo tono. Esegue cioè le forme, l’andamento delle
fronde, le radici, ecc., utilizzando quello che è l’impatto coloristico della tinta intermedia. Poi dà volume con tratti scuri o con delle lunghe pennellate molto chiare, creando quindi un contrasto chiaroscurale forte che fa risaltare soprattutto la parte in luce. Non è sicuramente uno che sfuma o che crea passaggi tonali, affidando tutto al contrasto tra campiture nette. Anche nel paesaggio (fig. 39) i volumi vengono resi con colpi di luce che vanno a delineare le forme. Nelle figure (fig. 40) si sofferma, invece, a costruire di più i volumi, sempre con segni molto veloci di pennelli abbastanza grandi, lasciando così l’impressione di un lavoro svolto in velocità. Partendo dalla considerazione che la Scuola di San Rocco oggi è un luogo molto buio nonostante le molte luci e nonostante il grandissimo numero di finestre, attualmente sempre rigorosamente chiuse, ci siamo interrogati su come venisse vissuta la Scuola quando Tintoretto dipinse le sue opere. Chissà se anche allora ci fosse una grande penombra o se magari durante il giorno le finestre venissero lasciate aperte. Sarebbe interessante capire come questi due dipinti venissero percepiti all’epoca. Forse il modo così drammatico di mettere a confronto ombre e luci era dettato proprio dalla poca luminosità del luogo e dalla difficoltà di vederle in piena luce; è dunque probabile che il gioco così spinto di contrasti servisse a Tintoretto proprio per accentuare la visibilità dei suoi quadri. I due dipinti si collocano temporalmente nella fase più tarda della pittura tintorettiana, l’ultima della sua parabola artistica, che spesso vede interventi diretti della sua bottega nelle opere. In questo caso è possibile stabilire la presenza di altre mani? Dal punto di vista tecnico è veramente troppo complicato capirlo, non ci sono molti appigli, soprattutto se consideriamo che Tintoretto era capace di dipingere in ogni modo possibile e lo ha dimostrato durante tutta la sua carriera. Cosa e quanto si è perso rispetto alla pittura originale delle due Marie? Proprio perché non è una pittura regolare è difficile stabilirlo. È molto probabile che siano andate perdute delle velature finali, soprat-
tutto sulle due figure, anche perché sono le zone dove abbiamo trovato meno strati sovrammessi, indicazione di antichi interventi di pulitura maggiormente insistiti; questo genere di operazione, soprattutto nei tempi in cui non esistevano mezzi abbastanza selettivi, facilmente poteva portare alla rimozione di qualche ultima ombra, qualche velatura o lacca di rifinitura. Quali sono le più importanti alterazioni che i due dipinti hanno subito? Su questi due dipinti la tavolozza, cioè la tipologia di pigmenti che Tintoretto ha usato, è abbastanza limitata. L’artista ha lavorato molto con le miscele di colori e alcuni di questi pigmenti – non solo nei suoi dipinti – subiscono delle alterazioni legate all’invecchiamento, in particolare i verdi, che si scuriscono molto. Nelle due Marie, stranamente, anche alcuni pigmenti chiari si sono alterati, probabilmente perché avevano un’aggiunta di vetro a base di potassio che li ha offuscati e resi opachi. L’alterazione più evidente è invece quella dell’azzurro: non solo sulle vesti, ma anche nell’impasto usato per il cielo e i paesaggi. Tintoretto ha qui aggiunto dello smaltino che col tempo, soprattutto in mescolanza con l’olio siccativo usato come legante, perde la tonalità azzurra e diventa marrone. Il manto delle figure come lo vediamo noi oggi è sicuramente alterato: in origine non era ocra, bensì di una qualche tonalità di azzurro. Un’altra alterazione un po’ più verso il bruno e il violetto potrebbe esserci anche nei cieli e nei profili delle montagne, dove è presente appunto lo smaltino. Per la restituzione estetica, cioè la parte che voi chiamate delle “integrazioni”, come avete proceduto? Il lavoro più minuzioso è stato quello di stuccare le cuciture che avevano delle piccole mancanze e poi di integrare lungo queste linee. Tintoretto in realtà non sopporta la reintegrazione meticolosa che noi in genere facciamo. Qualsiasi tocco in più viene quasi respinto dall’opera, anche perché immediatamente si rischia di disegnare troppo o di rendere i passaggi troppo sfumati. Questi due dipinti non hanno niente a che fare con
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questo tipo di precisione. Alla fine, il lavoro dal punto di vista operativo è stato relativamente breve. Molto più lungo è stato il tempo che abbiamo impiegato per decidere di non aggiungere e di non intervenire. Abbiamo sistemato i bordi, che erano le parti maggiormente lacunose, con tante piccole e fitte lacune legate soprattutto ai cambi di cornice e ai diversi allestimenti, ma alla fine il lavoro di integrazione è stato piuttosto ridotto. È possibile, dopo il vostro accurato lavoro, ipotizzare quale fosse la cromia originale dei due dipinti? È molto difficile perché non sappiamo quali fossero le tonalità di partenza. Lo smaltino è un pigmento di cui si sa la composizione, ma può avere infinite tonalità di partenza: poi può essere più denso, più liquido, più velato. La tonalità in sé poteva essere più scura, più chiara o tendente al verde, quindi non abbiamo parametri; si può giocare con la realtà virtuale, qualcuno l’ha anche fatto, però manca il dato fondamentale della scelta cromatica iniziale. I due dipinti vengono sempre associati come “gemelli”: operando su entrambi avete individuato qualche netta differenza, o sono proprio da considerare come due epigoni paralleli? La differenza, quella che si percepisce, è principalmente stilistica. Si può notare, per esempio, come la Maria in lettura sia molto più piccola della Maria in meditazione, un dato che vedendole accostate colpisce ancora di più.
Nella Maria in lettura per certi versi è presente una pittura un po’ più morbida, meno netta nei contrasti. Tuttavia, le differenze sono quasi inafferrabili e dal punto di vista tecnico è chiaro che sono due opere dipinte nello stesso momento. Cosa significa per lei personalmente lavorare con questo Maestro? È stata un’esperienza particolare o alla fine è diventato un “paziente” come un altro? Ogni opera ha le sue particolarità e quindi ogni volta è necessario rimettere un po’ in discussione tutto quello che si è imparato e si pensa di sapere... Tintoretto è un osso duro! Io e la mia collega Irene (Zuliani, n.d.r.) abbiamo passato interi pomeriggi a ragionare, guardare, cercare di capire, confrontare gli elementi tecnici con quelli rilevati negli altri dipinti di Tintoretto che abbiamo restaurato, perché effettivamente si ha sempre la sensazione che se si interpreta male qualche dato si può davvero combinare disastri. Bisogna stare molto attenti, essere estremamente cauti in qualsiasi operazione che si va a compiere. La cosa più bella del nostro lavoro è questa vicinanza quasi millimetrica con la superficie dipinta, che ti permette di conoscere tutte le stratificazioni, le velature, le pennellate, le cadute e i ritocchi. Quando finisci e ti devi necessariamente staccare da un’opera la senti ancora un po’ una tua creatura, resiste un legame particolare. E poi con Tintoretto rimangono ancora molti interrogativi aperti: il legame non si è affatto reciso, ci costringe a continuare a ragionarci sopra.
La cosa più bella del nostro lavoro è questa vicinanza quasi millimetrica con la superficie dipinta, che ti permette di conoscere tutte le stratificazioni, le velature, le pennellate, le cadute e i ritocchi 78
fig. 41
Il restauro delle due Marie è stato affidato a Sabina Vedovello e Irene Zuliani, con la collaborazione di Ramona Scamporrino e Eleonora Toppan. Il lavoro, iniziato a maggio del 2018, si è concluso ai primi del 2019
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Tracce
L’ultimo tempo di Maria di Augusto Gentili
I
l lineare percorso mariologico di Tintoretto nella Sala Terrena della Scuola Grande di San Rocco ha la sua più significativa conclusione nei due teleri con una donna in solitudine nel paesaggio d’acque, alberi e borghi fra crepuscolo e sera, or ora recuperati a leggibilità e godibilità con il restauro magistralmente condotto da Sabina Vedovello e Irene Zuliani (con la collaborazione di Ramona Scamporrino ed Eleonora Toppan). I due dipinti sono taciuti dalle fonti, forse in difficoltà a identificarne il soggetto, e poi prevalentemente interpretati, secondo tradizione vecchia ma non antica, come rappresentazioni di Maria Maddalena e Maria Egiziaca, due eremite penitenti, oltretutto rappresentate di norma poco vestite, che con questo contesto non hanno evidentemente nulla a che fare. In realtà, all’interno di quella disciplina conservatrice e lenta di riflessi che è la storia dell’arte, da almeno vent’anni alcuni studiosi non conformisti avevano più volte ragionato, parlato e scritto di questa donna: la stessa donna in ambedue i dipinti, che siede in due luoghi contigui presso il medesimo fiume, che veste gli stessi abiti (identici anche con i vecchi colori alterati), che in un caso è rivolta quasi frontalmente verso di noi e nell’altro volge quasi le spalle lasciandoci soltanto il profilo “perduto”, che in un caso concentra lo sguardo sul libro aperto e nell’altro lo solleva, come a riflettere. È una doppia immagine di Maria, non oggetto ma soggetto della storia della salvezza, non comprimaria ma protagonista della redenzione, detentrice di un punto di vista privilegiato che le consente in contemporanea, su due percorsi equidistanti e complementari, la meditazione degli avvenimenti passati e la loro proiezione sugli avvenimenti futuri, nei tempi che il pittore elabora, come sempre,
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È una doppia immagine di Maria, non oggetto ma soggetto della storia della salvezza, non comprimaria ma protagonista della redenzione
in assoluta libertà di narrazione e allegoria. A sostegno di tutto ciò, potrà per ora bastare la Vita di Maria Vergine di Pietro Aretino, pubblicata nel 1538 da Francesco Marcolini, l’editore amico di Tintoretto (e di Tiziano, e di tanti altri), poi più ampiamente diffusa con l’edizione prodotta dai figli di Aldo Manuzio nel 1552, dalla quale riprendo qualche passo (cc. 77r–78r). Nella lunga parte conclusiva, la madre decide di ripercorrere i luoghi della vita del figlio, cominciando dal Giordano: Giunta al benedetto fiume riconobbe le sponde premute da le piante sacre di Giesù, a la novità diversa de i fiori e de l’herbe varie di che esse erano dipinte e smaltate. Ella si accorse che ivi gli angeli spogliorono la veste a Christo, perché sopra di cotal parte l’aria si stava ancora isferzata da le strisce, che ne i giri de i lor voli ci stamparono gli splendori de i divini spiriti. [...] O fiume nobile, o fiume aventuroso, o fiume eletto, sia il tuo corso eterno. Siano le tue sponde sempre limpide, sia il tuo fondo sempre herboso, e la dolcezza de l’acque, de le quali sei pieno, vinca il soave d’ogni liquore. [...] E voi rive grate e amene, restatevi ammantate di perpetuo verde, e di sempiterna pittura di gigli ornate. Faccinvi ombra gli alberi di eterna primavera [...]. Le tempre del sole cinte de i suoi più lucidi raggi appaiano ne le continue aurore di tutti i giorni di te, beatissimo Giordano, né manchi a veruna tua notte il lume candido de la luna, né il lampo aureo de le stelle.
Sembra che a questa lettura del soggetto abbiano tardivamente aderito in molte e molti, sia pure senza spiegazioni, motivazioni e citazioni. Tuttavia, le “due Sante eremite” non accennano per ora a ritirarsi: staremo a vedere.
Bibliografia essenziale Giandomenico Romanelli, Tintoretto a San Rocco. Pittura, teologia, narrazione, in Tintoretto. La Scuola Grande di San Rocco, Milano, Electa, 1994, pp. 7-50 (27-28). Valentina Sapienza, Miti, metafore e profezie. Le Storie di Maria di Jacopo Tintoretto nella sala terrena della Scuola Grande di San Rocco, «Venezia Cinquecento», XVII/33, 2007, pp. 49-139. Augusto Gentili, Tintoretto. I temi religiosi, «Art Dossier», 228, Firenze, Giunti, 2006. Augusto Gentili, Tempi della narrazione e tempo dell’allegoria. Tintoretto alla Madonna dell’Orto, a San Cassiano, alla Scuola Grande di San Rocco, in La bilancia dell’arcangelo. Vedere i dettagli nella pittura veneziana del Cinquecento, Roma, Bulzoni, 2009, pp. 217-243.
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Lo spazio dell’opera d’arte
aprile 2019
Storie
La complessa stratigrafia delle stesure pittoriche, prodotte dall’artista per la resa della brillantezza e della trasparenza cromatica delle diverse campiture, porta ancor più a riflettere su come la velocità e la “furia” creativa con la quale spesso è stato descritto il processo compositivo di Tintoretto non siano certo sinonimo di semplicità, ma piuttosto di grande maestria coloristica e compositiva 82
Intervista a Annamaria D’Ottavi, MAUVE Srl di Mariachiara Marzari
L’operazione
del Cinquecentenario ha garantito una nuova e approfondita ricerca e revisione del corpus pittorico di Tintoretto da parte degli storici dell’arte che, coadiuvati dai restauratori, hanno potuto penetrare la materia del Maestro e riportare in primo piano la sua mano, il suo gesto e, quindi, la sua mente di artista. Un vero e proprio caso è offerto dal restauro – effettuato da MAUVE Srl, società creata dall’unione di tre professionisti nel campo del restauro dei beni culturali: Annamaria D’Ottavi, Paolo Roma e Martina Serafin – dell’Apparizione della Vergine a san Girolamo, che Tintoretto dipinse per la Scuola di San Fantin o “dei Picai”, ora Ateneo Veneto. Anche in questo caso, come già per le due Marie di San Rocco, risulta appropriato parlare di una vera e propria “restituzione”. L’interazione diretta con la materia-immagine ha permesso ai restauratori di portare alla luce l’opera nella sua originalità, diversa da quella perpetuata nei secoli, una vera riscoperta in termini visivi, artistici e storici. Eccoci, dunque, pronti a entrare ancora una volta dentro le trame della pittura di Tintoretto, guidati dalle parole ancora cariche di emozione della restauratrice Annamaria D’Ottavi. Qual è stata la “sfortuna” conservativa dell’Apparizione della Vergine a san Girolamo (fig. 42) ? Dalle ricerche storico-artistiche preliminari al nostro intervento, le sventure conservative
del dipinto riguardano soprattutto gli anni dal 1840 in poi. In origine l’opera era stata realizzata per l’altare della Sala dell’Albergo della Scuola di San Fantin ed è rimasta nella sua sede fino, per l’appunto, al 1840, quando il telero fu arrotolato e dimenticato in soffitta per una quindicina d’anni. Chiaramente questo deposito forzato ha avuto delle conseguenze. Nel 1854 il dipinto venne srotolato ed esposto nella stessa sede dopo un restauro che ha avuto anch’esso delle ripercussioni abbastanza “nefaste”. Nel corso di queste vicende è andato perduto il grande altare ligneo nel quale il dipinto era esposto. Il dipinto è rimasto all’Ateneo Veneto fino al 1913, anno in cui è stato spostato alle Gallerie dell’Accademia per rimanervi fino ai primissimi anni ‘70 e poi far ritorno nella sua antica sede. Abbiamo documentazione di un nuovo intervento di restauro che è stato operato nel 1967 da Antonio Lazzarin. I problemi conservativi più gravi riscontrati sull’opera riguardavano proprio quest’ultimo intervento: la tela presentava, infatti, un insieme di strati, di materiali patinanti, di residui di lavorazioni che andavano a coprire gran parte del film pittorico originale. Quali sono le conseguenze di un lungo arrotolamento per un telero del Cinquecento? Il poter essere arrotolato è la caratteristica che ha fatto la fortuna del supporto su tela anche per opere di grandi dimensioni rispetto ai dipinti su tavola lignea. I dipinti con questa soluzione erano più facili da movimentare e trasportare. Già nel Cinquecento, però, era chiaro che poteva rappresentare una pratica traumatica per le opere, tant’è che sappiamo dell’esistenza di contratti in cui veniva commissionata l’opera prevedendo già l’intervento di ritocco da parte dell’artista, proprio per sistemare i danni procurati eventualmente dall’arrotolamento. Questo accadeva già all’epoca, quando i dipinti erano appena realizzati, perché sappiamo che ci sono degli strati di colore che sono più sensibili di altri e impiegano più tempo a essiccarsi. Per quanto riguarda l’oggi, nel momento in cui i dipinti di grandi dimensioni devono essere arrotolati perché non c’è altro modo per poterli spostare, trattasi di un’operazione temporanea
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fig. 42
Tintoretto Apparizione della Vergine a san Girolamo Ateneo Veneto (Scuola di San Fantin), Venezia
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fig. 43
Agostino Carracci da Tintoretto Apparizione della Vergine a san Girolamo (incisione)
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che necessita ovviamente di tutta una serie di accortezze tecniche per ridurre al minimo lo stress per l’opera. Per quanto riguarda il nostro dipinto, non sappiamo come sia stato arrotolato ma solo che è stato relegato per oltre un decennio in soffitta, tanto che vi si è formata sopra della muffa e probabilmente gran parte delle lacune che abbiamo trovato sono dovute a questo periodo di deposito e di noncuranza. Gli effetti dell’arrotolamento e il conseguente intervento di restauro per poter nuovamente esporre l’opera mostrano come il dipinto sia stato sicuramente foderato e come probabilmente siano state resecate le cuciture originali sul retro. Inoltre, confrontandolo con l’antica incisione che Agostino Carracci (fig. 43) trasse dal dipinto nel 1588 circa, possiamo notare come l’opera sia stata anche leggermente ridimensionata: nella fascia inferiore, infatti, il piede di San Girolamo ora appare tagliato, mentre nell’incisione si vede nella sua interezza. Rispetto alla vostra esperienza, vi sono artisti le cui opere soffrono maggiormente i problemi conservativi oppure è qualcosa che riscontrate diffusamente un po’ in tutti i lavori vecchi di secoli cui mettete mano? Raramente nelle opere antiche su tela vi sono problemi conservativi di tipo fisico-meccanico congeniti dovuti ad un utilizzo improprio dei materiali. I danni che riscontriamo a volte sono riconducibili ai materiali utilizzati, ma assai più spesso a danni accidentali, condizioni ambientali non ottimali e, ancor più, a interventi di restauro “drastici” subiti nel corso dei secoli, dovuti a prassi di bottega non accorte o all’uso improprio dei materiali di intervento. C’è un elemento d’interesse che andrebbe
approfondito ulteriormente, ovvero la natura dei bruni di questo dipinto, perché i danni e le lacune principali che abbiamo riscontrato erano principalmente sulla zona della capanna e sulla fascia centrale. La fascia centrale può corrispondere proprio alla parte di appoggio del rotolo; sui bruni, invece, se risultasse da analisi che sono composti da una parte bituminosa, il loro comportamento sarebbe più simile a quello delle lacche o dei verderame, che effettivamente sono più delicati e possono subire maggiori alterazioni e degrado. Quali sono le complessità nella movimentazione di un’opera di grandi dimensioni in una città difficile come Venezia? A Venezia tutto risulta più complicato rispetto ad altre città, perché bisogna tenere assolutamente in considerazione un’infinità di variabili. Nel nostro caso l’opera, dalle dimensioni di 278x196 cm, doveva uscire dall’Ateneo imballata in una cassa di protezione e raggiungere via acqua il nostro laboratorio di restauro. Le scale, le misure delle porte o delle finestre, le dimensioni della cassa di protezione, il suo peso, erano tutti elementi non trascurabili per ottimizzare il processo di movimentazione. Ad esempio, l’uso della cassa da un lato ha garantito maggior protezione al dipinto, dall’altro ha reso la movimentazione molto difficile da gestire per il rilevante aumento di peso dell’oggetto da movimentare. Inoltre, la specificità di Venezia rende fondamentale la conoscenza della previsione di marea per poter essere sicuri di passare sotto i ponti con la barca che trasporta la cassa con l’opera al suo interno. Diventa assolutamente indispensabile un’attenta programmazione della movimentazione dell’opera, così come l’avvalersi di ditte specializzate.
MAUVE Srl Restauro e Conservazione Società creatasi dall’unione di tre professionisti – i restauratori Annamaria D’Ottavi, Paolo Roma, Martina Serafin – che operano nel settore restauro dei beni culturali da diversi anni in ambiti operativi complementari, dall’arte antica alle nuove sfide dell’arte contemporanea e polimaterica.
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I restauratori spesso utilizzano la riflettografia infrarossa nella fase di diagnostica, un sistema che permette di scoprire cosa c’è sotto la pellicola pittorica. Il dipinto riconferma un Tintoretto che progetta attraverso il disegno? Nel nostro caso più che la riflettografia infrarossa a luce riflessa ha dato maggiori risultati la riflettografia a infrarosso per luce trasmessa, perché ha permesso di andare ancora più in profondità nella lettura dell’opera e di riuscire a vedere ancora meglio la presenza di un disegno preparatorio e i ripensamenti presenti. Nel nostro caso sono emersi, infatti, due dettagli molto interessanti. Il primo è il fatto che sotto la policromia c’è un disegno preparatorio all’altezza del ventre della Vergine che raffigura una testa ruotata di novanta gradi tra le due tele di maggiori dimensioni nella fascia centrale. Questo ci fa capire che la tela è stata riutilizzata: era stato impostato un disegno per un dipinto che non è stato portato a termine. Il secondo dato che è emerso è il disegno preparatorio del busto e degli arti inferiori della figura di Maria (figg. 44-45) . Abbiamo cercato di istituire dei confronti con altri disegni di opere tintorettiane. Dal confronto con il Battesimo di Cristo (fig. 46) , dipinto per la Chiesa di San Silvestro, e con il relativo disegno preparatorio della figura del Battista (fig. 47) sono apparsi dei risultati molto interessanti. È emerso, infatti, come i disegni della figura di san Giovanni Battista e quello della Vergine siano coincidenti e quasi perfettamente sovrapponibili. Credo sia un elemento importante che potrà essere utile anche agli storici dell’arte per avere conferme sul modus operandi dell’artista. E anche la pratica di utilizzare disegni di figure privi di abiti e prevalentemente nudi per riutilizzarle in varie composizioni… Durante le Giornate di Studio su Tintoretto, il convegno organizzato nel novembre scorso dalla Soprintendenza con il supporto di Save Venice, abbiamo appreso dai diversi interventi di restauro degli ultimi vent’anni che molte delle analisi hanno confermato la prassi di Tintoretto di utilizzare disegni di figure maschili che venivano riportati e ingranditi sulla tela. Alcune volte questi corpi maschili potevano diventare delle splendide figure femminili riccamente abbigliate.
Anche per san Girolamo vi è un disegno preparatorio? Non siamo riusciti a vedere un disegno preparatorio, probabilmente a causa degli strati pittorici molto spessi e corposi, però c’è un pentimento che riguarda la posizione del braccio e della mano che regge il crocefisso, che sono leggermente spostati. Non un grande cambiamento sull’impostazione, ma è comunque riscontrabile una variazione. Nelle varie fasi di diagnostica avete avuto la possibilità di analizzare gli strati pittorici e la stesura di preparazione attraverso dei microprelievi. Quali novità sono emerse? Sono emerse diverse cose interessanti. Intanto abbiamo riscontrato che nei bianchi non c’è solo la presenza di biacca, ma anche di un altro tipo di bianco, il carbonato di calcio, che ha una resa traslucida maggiore. Abbiamo capito, quindi, che Tintoretto ha operato un diverso utilizzo dei materiali proprio per ottenere effetti pittorici diversi. È stata poi riscontrata la presenza di quattro diversi gialli: un giallo chiamato litargirio/massicot, il più tradizionale, un giallo di piombo e stagno in due varianti, di tipo I e di tipo II, con una componente vetrosa, e un giallo che viene chiamato “giallo di Napoli”. Le analisi hanno anche reso evidente una variazione nei picchi della risposta all’analisi nel giallo di piombo e stagno di tipo II e questo fa pensare alla presenza di un giallo di piombo, stagno e antimonio, dato molto interessante, perché nei dipinti di quell’epoca ne è stata ritrovata la presenza soltanto in un’opera di Tiziano. Per quel periodo storico, quindi, è un elemento piuttosto curioso che dovrà sicuramente essere approfondito. Oltretutto c’è la classica presenza, in un dipinto veneziano, dell’orpimento, un pigmento arancione, molto utilizzato da Tintoretto e dai suoi contemporanei, che si trova nel panneggio dell’angelo in alto a sinistra, per il quale non abbiamo trovato riscontro nell’analisi chimica con prelievo, ma che l’analisi non invasiva in falso colore sembra rilevare, così come anche il suo stato conservativo non buono, indicatore abbastanza veritiero della presenza di questo pigmento. Nei blu c’è solo una piccola percentuale di utilizzo di smaltino rispetto all’az-
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fig. 44
Tintoretto, Apparizione della Vergine a san Girolamo Particolare della Vergine in luce visibile fig. 45
Tintoretto, Apparizione della Vergine a san Girolamo Particolare della Vergine immagine in infrarosso (IR) trasmesso, con le linee del disegno preparatorio evidenziate
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fig. 46
Tintoretto, Battesimo di Cristo Particolare della figura di san Giovanni Battista Chiesa di San Silvestro, Venezia fig. 47
Tintoretto, Battesimo di Cristo Disegno per la figura di san Giovanni Battista Gabinetto dei Disegni e delle Stampe degli Uffizi, Firenze
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zurrite: una vera fortuna per noi, perché lo smaltino è uno di quei pigmenti che tende ad alterarsi moltissimo, soprattutto in associazione di un legante oleoso, mentre in questo caso sembra essere stato usato più come essiccativo che come pigmento. Un’altra cosa veramente importante emersa dalle analisi è che il legante degli strati pittorici non è solo quello oleoso, ma anche quello derivante da materiale proteico; questo significa che ci troviamo di fronte a una tecnica mista. Questo dato accentua ancora di più la nostra percezione di modernità della pittura di Tintoretto e quasi ci consente un confronto con la tecnica dei pittori veneziani tra fine Ottocento e inizi Novecento. La sovrapposizione degli strati evidenzia, infatti, l’uso di una tecnica molto veloce e allo stesso tempo brillante nell’effetto cromatico, come la prassi di realizzare campiture compatte, coprenti, per poter lavorare sopra in modo veloce a velatura, perché lo strato sotto si asciuga più rapidamente. La complessa stratigrafia delle stesure pittoriche prodotte dall’artista per la resa della brillantezza e della trasparenza cromatica delle diverse campiture porta ancor più a riflettere su come la velocità e la “furia” creativa con la quale spesso è stato descritto il processo compositivo di Tintoretto non siano certo sinonimo di semplicità, ma piuttosto di grande maestria coloristica e compositiva. Le due Marie della Scuola di San Rocco sono definite da Sabina Vedovello due dipinti “fatti di niente”, poiché lo spessore è veramente sottile a dispetto di quello che poi è l’effetto di una pittura molto materica. Anche in questo dipinto in realtà ci sono delle zone in cui il colore è sottilissimo, soprattutto nell’area della capanna e degli scuri, mentre in altre parti, sulle figure per esempio, c’è una stratigrafia complessa e corposa. La preparazione era molto sottile e andava solo a chiudere gli interstizi del tessuto, proprio per mantenere l’effetto mosso-vibrato della pittura. Gli strati sopra sono invece di un certo spessore e possiedono corposità. Tintoretto non sempre risolveva tutto in poche pennellate, anche perché nel nostro caso si può notare qualche pentimento, degli abbozzi secondari, quindi una sovrapposizione maggiore di colore.
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Dagli studi recenti è emerso come nella bottega di Tintoretto il riutilizzo fosse una consuetudine, specie per le tele di supporto. Questa pratica si riscontra nel dipinto? Come abbiamo visto, in effetti, il supporto era già stato impostato per realizzare un altro dipinto e, in seguito, è stato riutilizzato invece per l’Apparizione della Vergine. C’è dunque sicuramente un riutilizzo dei materiali. All’inizio pensavamo che ci saremmo trovati davanti a un dipinto con una preparazione scura, con i classici residui di tavolozza mescolati insieme – come Tintoretto ha fatto in altre opere, anche tarde –, invece in questo caso la preparazione è chiara. C’è un riutilizzo dei materiali, ma c’è anche un tipo di preparazione completamente diversa. Il dipinto è composto da sette pezze unite insieme. Nello specifico si tratta di due fasce più grandi di circa 120 cm ciascuna – che era la misura massima che si poteva ottenere con i telai dell’epoca –, combinate con dei pezzi più piccoli cuciti insieme. Il più piccolo misura 20x29 e il più grande 120 cm per quasi tutta l’altezza del dipinto. L’armatura del tessuto è molto omogenea: saia con disegno diagonale, orientato nello stesso verso in tutte le pezze tranne che nella più piccola, che è orientata in modo speculare, con la diagonale rivolta nel verso opposto. Da quel che ho visto anche in altri dipinti di Tintoretto non vi era una grandissima attenzione a come venivano cuciti insieme i tessuti o all’omogeneità dell’armatura. Non credo sia un elemento studiato e voluto al fine di una particolare resa pittorica, credo sia più un elemento determinato da scelte legate a dinamiche economiche “imprenditoriali”. Perché è stata così lunga e difficile la fase di pulitura del dipinto? La pulitura è di per sé una delle fasi più delicate. Nel caso dell’Apparizione della Vergine lo è stata ancor di più, anche a causa di tutti i materiali sovrammessi che risalivano al restauro del 1967 e forse a quelli precedenti. Il nostro modo di procedere è stato graduale e scientifico, con un’attenzione continua a cosa rimuovere e a come farlo in modo sicuro e selettivo. Per prima cosa abbiamo dovuto rimuovere la polvere depositata sulla superficie, poi ci siamo trovati davanti a una vernice
molto alterata e ingiallita. Le stuccature precedenti erano sovrapposte a brani di pittura originale e avevano creato uno strato gessoso grigiastro che patinava il colore. Inoltre, c’erano dei residui di materiali riconducibili a lavorazioni di consolidamento e foderatura che con il tempo si erano alterati portando all’annullamento dei valori cromatici del dipinto e all’appiattimento dei piani di profondità. Lavorando in modo selettivo e graduale siamo riusciti ad avvicinarci e rimuovere ciò che non era originale. Il manto di Maria, le ali degli angeli, alcune porzioni di cielo sono state riportate alle tonalità accese e squillanti originarie. Un intervento che ha lasciato tutti stupefatti. Mi viene in mente il commento del professor Paolo Bensi quando ha visto l’angelo in alto a sinistra durante la pulitura, quando sono emerse chiaramente le tonalità delicate delle cromie: «Le ali sembrano fatte di cipria e luce!». Il restauro non riporta il dipinto al suo stato originario, perché tutti i materiali hanno subito alterazioni nel tempo. Un esempio tra i tanti è quello della trasformazione dello smaltino, che in altri dipinti del Maestro ha avuto uno stravolgimento cromatico totale, passando nel tempo dall’originale blu azzurro a un colore bruno. Il nostro è un intervento di conservazione in modo che l’opera possa essere trasmessa al futuro, un intervento corale che si pone l’obiettivo di valorizzare un’opera d’arte, cercando di far emergere dati di confronto e nuovi punti di vista o di riflessione per gli studiosi. Chiaramente rimuovendo o assottigliando strati non originali sovrammessi ci si avvicina a quella che poteva essere l’idea originaria, ma bisogna sempre tener conto che abbiamo davanti un “paziente” di una certa età. La nostra percezione della resa delle figure rispetto a quella del paesaggio sembra così diversa che più di qualche studioso è stato indotto a ipotizzare che le mani fossero diverse. Ci potete dire qualcosa di più in merito alla tecnica dei due registri compositivi? L’argomento del rapporto tra i grandi Mae-
stri e le loro botteghe sta riscuotendo molto interesse tra gli studiosi, come abbiamo visto anche dai convegni negli ultimi anni. Penso a Bellini e i belliniani per esempio, o anche ai momenti di incontro realizzati da Save Venice dedicati a Veronese e la bottega. È un tema molto complesso. Ultimamente sembra che, oltre ad approfondire o a comparare dati stilistici, ci venga richiesto l’appoggio di un dato scientifico e oggettivo, ossia i risultati delle riflettografie, delle analisi, ma c’è un limite chiaramente. È una richiesta molto complessa e anche la risposta secondo me rimane aperta e non definitiva; devono necessariamente convergere diversi elementi e differenti considerazioni. Nelle analisi che facciamo dobbiamo sempre tener conto che devono incrociarsi più dati: da una riflettografia infrarossa posso vedere il disegno preparatorio, da una stratigrafia posso vedere tutto di un singolo punto, ma non ho una visione totale e complessiva. Quando ci si avvicina al restauro si ha una visione molto ravvicinata della materia, però è fondamentale non perdere mai di vista l’insieme generale del dipinto e il contesto in cui si inserisce, quello che si può definire lo “spazio dell’opera d’arte”. Per quanto riguarda le analisi, l’opera è stata realizzata in un breve arco di tempo e i materiali utilizzati sono gli stessi, perciò è difficile individuare una discontinuità materica e affermare se e dove inizia uno e finisce l’altro, cercando quindi di individuare l’intervento della bottega. Sono stati messi in evidenza degli elementi che riguardano il processo creativo, però alla fine penso che rimanga da chiedersi se è più importante la mano che ha realizzato l’opera o l’idea che l’ha guidata. Rilancio. Il processo creativo appare comunque abbastanza diverso nella resa delle parti figurative rispetto a quella del paesaggio. All’interno del meccanismo di una bottega credo che l’intervento del maestro non avvenisse solo in una fase iniziale o finale, bensì in più riprese. Sul paesaggio, guardando la riflettografia sembra ci sia la traccia di un disegno preparatorio, però non è possibile dire se quella sia la mano di Tintoretto, di un suo allievo o di un collaboratore.
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L’integrazione pittorica, detta anche “ritocco”, è sempre una fase molto delicata. Quali sono state le vostre linee guida? Preliminare all’integrazione pittorica, cioè al “ritocco”, è sicuramente l’integrazione materica delle lacune, la stuccatura, che è una fase molto importante soprattutto in un dipinto come questo, in cui effettivamente le lacune erano piuttosto ampie, anche se fortunatamente non andavano a interessare le parti figurative fondamentali. L’integrazione materica è stata un lavoro lungo, essenziale per la buona riuscita dell’integrazione pittorica, perché è questa fase che dà un aspetto più omogeneo alla superficie e rende possibile che il ritocco si integri perfettamente con il resto del dipinto. Siamo intervenuti con un tipo di integrazione mimetica, perché in molti casi si trattava di fare un collegamento cromatico, senza andare a ricostruire chissà cosa; è stato più un lavoro di “ricucitura”. Tuttavia, ad esempio nella gamba di san Girolamo, dove effettivamente c’era una parte figurativa mancante, ci siamo potuti avvalere anche dell’incisione di Agostino Carracci del 1588, che pur essendo una traduzione grafica di un dipinto costituisce comunque un buon punto di partenza per vedere le proporzioni e capire come gestire la lacuna, come poter affrontare anche parti figurative e, in questo caso, anatomiche. Dopo questa parte di stuccature mimetiche, come avete proceduto? Con l’integrazione pittorica con colori specifici per il restauro. Abbiamo utilizzato dei colori preparati da noi, realizzati con pigmenti di alta qualità in grado di garantire una buona stabilità nel tempo, con un legante – in questo caso vernice aldeidica Laropal A81 – che assicura stabilità, reversibilità e riconoscibilità. Anche se abbiamo operato con un tipo di integrazione pittorica mimetica non percepibile a luce visibile, con una semplice analisi non invasiva è immediatamente riconoscibile cosa è originale e cosa no. Inoltre, il nostro lavoro è sempre accompagnato da una dettagliata documentazione fotografica. Sabina Vedovello ci ha raccontato che Tintoretto “rifiuta” l’approccio di integrazione
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precisa, che è quella che i restauratori fanno. È un dato che avete rilevato anche voi? Sì, assolutamente, proprio perché le campiture di colore sono molto nette e definite e ci sono dei forti contrasti. Non è possibile realizzare delle sfumature che possano ammorbidire le forme e i passaggi tonali, ottenere un effetto indeterminato che possa aiutare l’integrazione pittorica. Bisogna sostenere invece la forza pittorica dell’artista: noi dobbiamo adattarci all’opera su cui andiamo ad intervenire. Ogni dipinto, ogni opera è qualcosa di assolutamente particolare e noi ci adattiamo. Il confronto tra prima e dopo il restauro è veramente sconvolgente. Avete avuto molte esitazioni in corso d’opera? È stato davvero emozionante venire a contatto con un’opera di questa importanza e di questo valore, che si è svelata davanti ai nostri occhi di giorno in giorno: nella fase di pulitura, ma anche nella fase di integrazione pittorica, è stato come se riprendesse vita. Esitazioni ne abbiamo tutti ed è giusto così, perché la responsabilità è grande, però siamo un gruppo di lavoro, non un singolo; il confronto fa parte della nostra quotidianità. Inoltre, siamo sempre stati affiancati da una valida equipe di professionisti; c’è sempre stata un’attenta presenza da parte dell’Ateneo, di Save Venice, di storici dell’arte, di consulenti scientifici. Quanto è durato in termini effettivi il restauro? Cinque mesi. Da marzo ai primi di settembre del 2018. Il vostro intervento è stato considerato un caso di studio. Dopo essere stato presentato al convegno dello scorso novembre sono sorte nuove riflessioni da parte della critica. Ne siete orgogliosi? Siamo orgogliosi e anche onorati di aver avuto l’occasione di confrontarci con un’opera così importante e con un Maestro assoluto della pittura, di aver quindi potuto contribuire al processo di valorizzazione di quest’opera. Siamo felici che si sia creata una nuova occasione di studio, un’apertura di dialogo e confronto che credo crei un arricchimento per tutti.
È stato davvero emozionante venire a contatto con un’opera di questa importanza e di questo valore, che si è svelata davanti ai nostri occhi di giorno in giorno: nella fase di pulitura, ma anche nella fase di integrazione pittorica, è stato come se riprendesse vita
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Il restauro del dipinto l’Apparizione della Vergine a san Girolamo dell’Ateneo Veneto è stato affidato a Annamaria D’Ottavi, Paolo Roma e Martina Serafin di MAUVE Srl
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Tracce
L’insolito incontro di Maria e Girolamo di Stefania Mason
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opo l’eccellente restauro che l’ha restituita alle sue autentiche qualità pittoriche e la tournée espositiva a Venezia e a Washington, l’Apparizione della Vergine a san Girolamo di Tintoretto riappare nel suo luogo originario, anche se profondamente mutato. Comprendere il significato autentico della Pala e la sua singolare iconografia presuppone un ritorno all’indietro nello spazio, l’altare della Sala dell’Albergo della Scuola di Santa Maria e San Girolamo, e nel tempo del suo artefice, Jacopo Tintoretto, ponendoci una serie di domande. Il tema, che vede protagoniste con pari dignità entrambe le figure celesti, Maria e Girolamo, è infatti un unicum nella storia dell’arte, mentre nessun racconto della vita del santo anacoreta menziona tale evento miracoloso. La Scuola Grande di Santa Maria e San Girolamo, detta anche Scuola di San Fantin o dei “Picai”, impegnata nell’accompagnamento materiale e spirituale dei condannati a morte al patibolo, era sorta dalla fusione nel 1458 di due Scuole, intitolate rispettivamente a santa Maria della Giustizia e a san Girolamo. I lavori per la costruzione della sede unitaria dovettero partire presto, e già nel 1572 un atto registrato nella Mariegola della Scuola attesta l’esistenza nell’Albergo di un altare dedicato a san Girolamo. Fu senza dubbio l’organismo direttivo della Scuola a chiedere all’artista di celebrare nella Pala i suoi due santi protettori, indicando probabilmente come modello di riferimento la miniatura della Mariegola, che mostrava un san Girolamo inginocchiato davanti al Crocefisso, mentre si gira a guardare la Madonna che ascende al cielo rivolgendogli un ultimo sguardo benevolo. Si deve all’estro creativo di Tintoretto la trasformazione del modello, con l’obbligo delle due presenze, nella dimensione monumentale di una pala d’altare. In un’inedita unitarietà narrativa, l’evento miracoloso viene accentuato dalla particolare relazione spaziale ed emozionale tra i due protagonisti, e di entrambi con un paesaggio lussureggiante. L’apparizione della Vergine è improvvisa, coglie di sorpresa san Girolamo al riparo del rudere della grotta di Betlemme, tanto che nel torcersi su se stesso fa cadere a terra la Bibbia su cui sta lavorando. I suoi occhi incontrano, lungo una diagonale, quelli della Vergine che allarga le braccia in un gesto di accoglienza, sorretta da quattro splendidi angeli variopinti in scorci arditi. Simbolismi mariani sono stati individuati nell’arco a destra,
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Il tema, che vede protagoniste con pari dignità entrambe le figure celesti, Maria e Girolamo, è un unicum nella storia dell’arte
un riferimento a Maria come Ianua Coeli, particolarmente appropriata all’altare sul quale si celebravano le messe in suffragio, nel ponte un segnale del suo ruolo di collegamento fra il cielo e la terra, mentre lo spettacolare sole da cui s’irradia una raggiera esplosiva di luce alluderebbe alla Vergine che dà alla luce Cristo. La Madonna che appare a san Girolamo non veste il ruolo dell’Immacolata, che prevede la falce di luna, né dell’Assunta, sempre raffigurata con lo sguardo verso il Cielo che la attende e che, nel programma decorativo dell’Albergo, avrebbe avuto il posto d’onore nel vasto soffitto di Palma, ma è più semplicemente Maria, della cui verginità perpetua Girolamo era stato strenuo difensore. La connessione della Pala con l’ambiente che la accoglieva non è irrilevante al fine di comprendere il suo messaggio: essa era destinata a un pubblico in linea di massima ristretto, quello dei governatori della Scuola, che solo nelle occasioni drammatiche delle esecuzioni capitali si ampliava ai confratelli che avevano il compito di assistere i condannati dopo aver partecipato alla messa all’altare con la pala di Tintoretto. Per quanto riguarda la datazione della Pala, la sua importante funzione celebrativa dei santi titolari della Scuola e la sua collocazione su un altare già eretto nel 1572, oltre al confronto stilistico con alcune tele della sala superiore della Scuola di San Rocco, indurrebbero a collocarla entro la fine degli anni Settanta, al posto del precedente termine ante quem, il 1588, dell’incisione che ne trasse Agostino Carracci, il primo segnale dell’apprezzamento dell’opera quando il suo “inventore” era ancora vivente.
Bibliografia essenziale Giuseppe Pavanello, La Scuola di San Fantin ora Ateneo Veneto, «L’Ateneo Veneto», a. XXXVII, vol. I (1914), fasc. 1 e 2, Gennaio-Aprile. Nicola Ivanoff, Il ciclo pittorico della Scuola di San Fantin, «Ateneo Veneto», fascicolo speciale per il 150° anniversario, 1962, pp. 65-66. Rodolfo Pallucchini - Paola Rossi, Tintoretto. Le opere sacre e profane, Milano, Alfieri Electa, 1982, pp. 222-223, cat. 425. Pietro Zampetti, Guida alle opere d’arte della Scuola di San Fantin Ateneo Veneto, ristampe dell’edizione 1973 con aggiornamenti a cura di Ileana Chiappini di Sorio, Venezia, Ateneo Veneto, 2003, pp. 105-106nel 1583-1585. Peter Humfrey, Tintoretto e la pala d’altare in Tintoretto 1519-1594, catalogo della mostra (Venezia, Palazzo Ducale; Washington, The National Gallery of Art, 20182019), a cura di Robert Echols e Frederick Ilchman, Venezia, Marsilio, 2018, pp. 122-133, 259-260.
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Taccuino d’ombre
maggio 2019
Storie
Quando nei primi anni Cinquanta [Ruskin] ebbe occasione di conoscere e frequentare Burne-Jones apprezzandone il talento e l’abilità pittorica, pensò di chiedere proprio a lui di salvare la memoria di alcune opere che in Laguna aveva riscontrato più “a rischio”
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Intervista a Michela Luce di Mariachiara Marzari
Una tesi
di laurea che diventa passione pura per la pittura inglese dell’Ottocento e un’apparente evasione dalle trame imprescindibili della pittura veneziana, lo studio dell’artista Edward Burne-Jones, che diventa per Michela Luce un vero e proprio innamoramento, come quello dello stesso pittore per Tintoretto. Un legame dunque che da Venezia ritorna a Venezia, per riscoprire attraverso gli schizzi dell’artista inglese la grandezza del Maestro veneziano. Com’è nata questa fatale attrazione, questo interesse per un pittore vittoriano così “lontano” da Venezia? Risale all’epoca universitaria: dovevo scegliere l’argomento della tesi di laurea. Avrei potuto puntare su qualcosa di più vicino, legato alla mia città. Ma fui catturata da quell’universo di cavalieri ed eroi, dal mito classico rivisitato in chiave estetizzante, dalla possibilità di viaggiare oltre il tempo nel mondo della Bellezza. C’era appena stata una mostra su Edward Burne-Jones a Roma. Era il lontano 1986. Quindi fu una scelta di passione, di feeling a prima vista. Poi, studiandolo, scoprii quanto in realtà ci fosse anche in lui di “veneziano”. Chi era Edward Burne-Jones? Figlio di un corniciaio di Birmingham, perse presto la madre, così fu cresciuto dal padre e dalla governante. Visse un’infanzia triste e solitaria, chiudendosi in un mondo di fiabe, disegnando le caricature di amici e professori. Frequentò il college a Oxford, dove incontrò John Ruskin, le cui lezioni lo stregarono. Era appena fuggito dalla sua città natale che all’epoca definì “priva di bellezza”. Il critico inglese prospettava alla platea dei suoi studenti – tra i quali William Morris, con cui Burne-Jones legò subito – l’importanza del valore morale della società che, sosteneva, doveva essere anche strettamente connesso con l’arte che la rappresentava. Ruskin e Morris: due figure chiave nella sua vita? Senz’altro, ma a questo punto si inserisce la terza personalità che si rivelò decisiva nel liberare l’immaginazione del giovane Edward: Dante Gabriel Rossetti, fascinoso e carismatico, leader della Confraternita dei Preraffaelliti fondata a Londra nel 1848 e sostenuta dallo stesso Ruskin. Si trattava di una scuola che
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voleva affrancarsi dalle regole imposte dall’Accademia, prospettando il recupero dell’arte precedente Raffaello, da cui ritenevano si dovesse ripartire e la cui Trasfigurazione consideravano ante quem. Un primo riferimento all’arte italiana? I Preraffaelliti caldeggiavano una pittura più chiara, luminosa e ispirata a tematiche medievaleggianti. Ne facevano parte, tra gli altri, John Everett Millais – iconica la sua Ophelia in un letto bagnato di fiori, che rappresentava all’interno del gruppo la tecnica, precisa, nitida, naturalistica, usata per narrare un episodio storico-letterario –, e Holman Hunt, considerato l’ostinatezza, che con il dipinto Risveglio della coscienza “fotografò” la sottile, ironica allusione a quel perbenismo puritano per cui lo stato d’animo della ragazza, ritratta in una stanza sovraccarica di simboli e rimandi, si trova sul confine tra la liberazione e l’asservimento all’amante che la mantiene. Importante per i Preraffaeliti era anche il tema della religione, trattata secondo una nuova iconografia, che faceva riferimento al significato letterario più che al messaggio teologico. Emblematica in questo senso la figura dell’Ancilla Domini di Rossetti per raffigurare l’Annunciazione. Ognuno di loro puntava a trasporre su tela l’impegno sociale, il recupero della storia, la critica ad una società da cui idealisticamente volevano prendere le distanze sconfessando il compromesso vittoriano. Una vera e propria avanguardia, quella vittoriana pre-novecentesca. Le opere dei Preraffaelliti possono essere considerate vivide manifestazioni culturali di quell’energia esplosiva che animava la prima società industriale del mondo? Senz’altro. Erano caratterizzate, dal punto di vista stilistico, da linee nette, da colori stridenti, dall’abbondanza e dallo splendore del mondo naturalistico, dall’impegno provocatorio nella vita sociale e religiosa, dall’attenzione alla bellezza e alla sessualità. All’epoca si trattò di una effettiva rivoluzione. Ruskin, Morris, Rossetti. Cosa assorbì da ciascuno di loro Burne-Jones? L’incontro con Rossetti fu decisivo nel liberare la mano di Burne-Jones, spingendolo a dare sfogo all’immaginazione senza vincoli espressivi o condizionamenti tecnici; inoltre lo avvicinò alla letteratura, a Dante e al Medioevo letterario. Con Morris invece condivise l’impegno sociale in vista di una società migliore, che durò tutta la vita. Insieme eliminarono la distinzione tra arti minori e arti maggiori, considerando che vetrate, mosaici, mobili decorati, tessuti, carte da parati, libri illustrati, tutto ciò contribuisse a migliorare la qualità della vita vissuta. Ruskin, infine, fu per Burne-Jones un vero e proprio nume tutelare. Maestro di formazione oltre che Mecenate. Fu infatti John Ruskin a sponsorizzare i due viaggi di Burne-Jones a Venezia.
MICHELA LUCE Nata a Venezia, laureata in Lettere con indirizzo artistico all’Università Ca’ Foscari; è appassionata d’arte e giornalista. Cresciuta in un ambiente legato al mondo del collezionismo e del mercato, ha collaborato con varie testate in qualità di critica d’arte e corrispondente da Venezia per le pagine culturali. Oggi gestisce la Galleria Luce Arte Moderna, inaugurata nel 1983.
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Edward e Georgiana furono stregati dall’alba che sorgeva dal mare del Lido o dal tramonto che si rifletteva sulla Basilica di San Marco facendone brillare i mosaici e colorando di rosa Palazzo Ducale Veniamo al rapporto sinergico con Venezia: da dove deriva? Quello di Edward Burne-Jones per Venezia fu un vero e proprio colpo di fulmine. Come racconta la moglie Georgiana nelle sue memorie, l’artista inglese compì due viaggi in Laguna, nel 1859 con i compagni del college Val Prinsep e Charlie Faulkner e nel 1862 con la moglie stessa, una sorta di viaggio di nozze finanziato appunto da Ruskin che li aveva accompagnati fino a Milano. In entrambe le occasioni la sua sensibilità estetizzante subì completamente il fascino della città lagunare, così diversa dalla realtà inglese dove si respirava l’incipiente industrialismo che ingrigiva monumenti e umori. Le metropoli frenetiche accentuavano i contrasti, Venezia viveva atmosfere rallentate, colori impensabili. Edward e Georgiana furono stregati dall’alba che sorgeva dal mare del Lido o dal tramonto che si rifletteva sulla Basilica di San Marco facendone brillare i mosaici e colorando di rosa Palazzo Ducale. Degno allievo dell’autore delle Pietre di Venezia… Infatti! Allora Ruskin era molto sensibile alla bellezza dei monumenti del passato che proprio a Venezia aveva ammirato in occasione dei suoi ripetuti viaggi. Ne temeva l’invecchiamento se non addirittura la distruzione e si dimostrava particolarmente attento anche alle tecniche del restauro che all’epoca riteneva inadeguate. Così, quando nei primi anni ‘50 ebbe occasione di conoscere e frequentare Burne-Jones apprezzandone il talento e l’abilità pittorica, pensò di chiedere proprio a lui di salvare la memoria di alcune opere che in Laguna aveva riscontrato più “a rischio”. Era rimasto turbato – come racconta appunto nelle Pietre di Venezia–, quando nel 1846 aveva visto l’acqua filtrare attraverso i teleri di Tintoretto a San Rocco o di fronte al Paradiso, nella Sala del Maggior Consiglio di Palazzo Ducale, in occasione del viaggio successivo. Quindi galeotto fu Ruskin? Temendo dunque l’incuria o ancora di più i cattivi restauri, che all’epoca venivano eseguiti ridipingendo sopra le vecchie pitture e utilizzando colori brillanti e pennelli intinti in volgari misture da imbianchino per far riemergere l’antico splendore, Ruskin pregò l’allievo di “salvare” la memoria delle opere conservate nei due palazzi che, scrisse, «contengono le più belle pitture della città e per qualità di colore le più belle pitture al mondo». Al suo allievo, che nel primo viaggio del 1859 si era aggirato in città estasiato e che ammirando «case e
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Ruskin era rimasto turbato quando nel 1846 aveva visto l’acqua filtrare attraverso i teleri di Tintoretto a San Rocco, o di fronte al Paradiso, nella Sala del Maggior Consiglio di Palazzo Ducale palazzi costruiti sull’acqua e gondole al posto delle carrozze» si era già invaghito del Carpaccio, Ruskin chiese, dopo aver deciso di finanziarne la trasferta successiva, copie specifiche e mirate. Burne-Jones fa scoprire Carpaccio a Ruskin e Ruskin a sua volta indica Tintoretto a Burne-Jones? Effettivamente avvenne proprio così. E lo conferma una lettera che Ruskin inviò al suo allievo anni dopo: «Mio carissimo Ned, non esiste niente di simile al Carpaccio! Devo umilmente ammetterlo a tuo favore. Bene, il fatto che io prima non lo avessi mai guardato avendolo classificato alla prima occhiata ed accomunato ad un Gentile Bellini e ad altri uomini più o meno della stessa incipiente e severa scuola; aver pensato invece migliore Tintoretto nonostante i suoi giochi di ombre e di luci. Certo non smetto di apprezzare il mio Tintoretto, ma il suo dissolvere l’impressione nel drappeggio e nell’ombra è per me troppo licenzioso ora. Questo Carpaccio invece è un mondo nuovo; solo che tu non hai ragione ad essere così entusiasta di lui, poiché egli è proprio quello che tu saresti stato se fossi nato qui, esercitandoti correttamente dall’inizio – e uno non dovrebbe piacere a se stesso così tanto? Fin ora ho visto solo l’Accademia, questa mattina (con una luce senza nubi) andrò dal tuo San Giorgio degli Schiavoni; ma prima devo spedire queste righe». Ma torniamo al Robusti. Burne-Jones e Tintoretto: copie o rivisitazioni? A San Rocco, dalla Sala Capitolare, Ruskin commissionò a Burne-Jones un piccolo bozzetto del San Sebastiano (fig. 49) , definito nei suoi Modern Painters «una delle cose più belle e sicuramente il più maestoso San Sebastiano che esista per quanto la pura umanità possa essere maestosa poiché non c’è alcuno sforzo né alcuna espressione di angelica santa rassegnazione. Lo sforzo è semplicemente di realizzare il fatto del martirio, e ciò mi sembra sia compiuto per esteso e neanche tentato da qualsiasi altro pittore». Inoltre, Ruskin era rimasto incantato davanti al Sommo Sacerdote della Circoncisione (fig. 50) al pianterreno. Da quando aveva scoperto Tintoretto nel 1845, infatti, lo aveva portato in cima alla sua lista di pittori della sua scuola d’arte. Lo considerava «artista veneziano essenziale, che rappresentava la virilità espressiva associata alla città». Ruskin continuò scrivendo: «Tintoretto si è dato molta pena con la testa del Sommo Sacerdote.
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fig. 49
fig. 50
Tintoretto San Sebastiano Sala Capitolare, Scuola Grande di San Rocco, Venezia
Tintoretto Circoncisione (particolare) Sala Terrena, Scuola Grande di San Rocco, Venezia
Non conosco nessun’altra testa di vecchio così squisitamente dolce o tanto nobile nelle sue linee John Ruskin 101
fig. 51
Tintoretto Nozze di Cana Sacrestia, Basilica di Santa Maria della Salute, Venezia fig. 52
Tintoretto Nozze di Bacco e Arianna Sala dell’Anticollegio, Palazzo Ducale, Venezia
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Non conosco nessun’altra testa di vecchio così squisitamente dolce o tanto nobile nelle sue linee […] Il più laboriosamente finito nella Scuola di San Rocco, la più lata tipologia esistente della sublimazione che può essere messa nel trattamento di accessori, vesti, decorazioni». Per questioni sentimentali Ruskin associò Venezia all’amore sofferto e per certi versi fallimentare nei confronti della giovane Rose La Touche, così non vi tornò che parecchi anni dopo, nel 1869, andando senza esitare a San Rocco, dove egli stesso eseguì delle copie d’insieme, soffermandosi su alcuni dettagli che riteneva essenziali. Dalla Circoncisione che tanto lo aveva colpito fece uno schizzo del Bambino in braccio al sacerdote, espressione, secondo lui, della «rivelazione divina quale testimonianza di un sogno poetico». Così lo copia illuminandolo con una luce dorata. E Burne-Jones cosa ne pensava? Continuò ad assecondare il suo maestro? Molto diligentemente Burne-Jones accontentò il suo mecenate, eseguendone anche lui una copia, ma nella corrispondenza pressoché quotidiana che gli inviava da Venezia ammetteva di non essere rimasto soddisfatto dei due bozzetti. «Ho avuto molte difficoltà nel fare lo schizzo del San Sebastiano poiché è così scuro […]». Nonostante ciò, lavorando sul corpo nudo del santo trafitto da una pioggia di frecce, eseguì un suo personale esercizio di stile improntato sul volume, reso attraverso lo sfumato di matita e carboncino. Riguardo alla Circoncisione lamentò poi addirittura che «l’acquerello col Sommo Sacerdote è venuto fuori molto male poiché ho lavorato al buio e il quadro è esso stesso molto scuro e avvolto dal gelo», dimostrandosi dunque estremamente perfezionista nella pratica del disegno, a cui dava enorme importanza, tanto che tale pratica si sarebbe rivelata fondamentale nei dipinti degli anni successivi. Singolare e non trascurabile, inoltre, la testimonianza storica, raccolta attraverso le lettere riportate dalla moglie, sulle condizioni di abbandono della Scuola di San Rocco, da lui definita “gelida e buia”. Ma l’interesse di Ruskin per Tintoretto era tale (era rimasto «sopraffatto» dalla sua potenza, dalla sua «intensità di immaginazione», dalla capacità evocativa che gli consentiva attraverso dieci pennellate di definire una figura e con altrettante di colorarla) che non poteva rischiare che tutto ciò andasse perduto. Così commissionò al giovane altri bozzetti: l’“harem”, come lo chiamò nei suoi appunti riferendosi alle Nozze di Cana (fig. 51) della Salute, per la presenza di figure femminili in pose sempre molto sinuosamente e plasticamente definite, e una Testa di Bacco da Palazzo Ducale, intendendo il Bacco e Arianna (fig. 52) dell’Anticollegio. In entrambi questi bozzetti Burne-Jones lavorò affinando lo sfumato, mezzo tecnico per dare volume e plasticità alle forme. Li reinterpretò dunque in maniera assolutamente pedissequa, eseguendoli come veri e propri esercizi di stile. Quindi Ruskin era più interessato all’antico o a far maturare l’allievo? Burne-Jones sentiva il peso della responsabilità di operare per quello che considerava il suo nume tutelare. Ricorda la moglie Georgiana nelle sue memorie che Edward venerava a tal punto Ruskin da averle regalato, per il fidanzamento, un volume del maestro da tenere sul comodino come fosse la Bibbia, e che nei suoi schizzi satirici si era raffigurato prostrato ai suoi piedi, ritraendolo avvolto da aureola. Le copie non lo avevano soddisfatto poiché, come fece notare al suo mecenate, anche un semplice bozzetto meritava maggior cura e concentrazione. In realtà non fu dello stesso parere Ruskin, tanto che al ritorno dell’allievo in Inghilterra nel 1862 apprezzò la sua abilità di esecuzione e gli acquistò la copia
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della Visitazione – oggi conservata alla Bembridge Gallery dove fu data in lascito – che Burne-Jones aveva eseguito quando si trovava nello scalone della Scuola di San Rocco di fronte al Tiziano; già rappresentava una interpretazione plastica del soggetto copiato. Quindi il duplice obiettivo di Ruskin era stato raggiunto: innanzitutto era riuscito a liberare Burne-Jones da quella che considerava l’influenza nefasta di Rossetti, che non gli avrebbe permesso di maturare perfezionandosi artisticamente, dall’altro aveva conservato per sé e per i posteri tracce dell’artista che in quel momento riteneva il genio rinascimentale per eccellenza e che soffriva a vedere in uno stato di abbandono. Come Burne-Jones scelse i soggetti da copiare? Come abbiamo visto, in parte gli furono esplicitamente commissionati da Ruskin. In alcuni casi però catturarono la sua attenzione per il soggetto che trattavano, come il Carpaccio, che fu lui stesso a riscoprire perché lo riportava al suo amore per i cavalieri medievali. Oppure sceglieva opere che gli consentivano di approfondire la tecnica di disegno. Tra queste, eseguita seppur non richiesta, lo schizzo della testa di Santa Caterina di Palazzo Ducale dal Tintoretto, presumibilmente dalle Nozze mistiche della Sala del Collegio. Infine, la scelta cadeva sulle opere che lo stimolavano per i cromatismi accentuati e le sfumature tonali. Venezia per il giovane preraffaellita fu quindi decisiva per la propria crescita e maturazione pittorica. Un vero viaggio di formazione, questo di Burne-Jones, che, alla luce delle opere realizzate in seguito al suo ritorno a Londra, gli stimolò inizialmente un senso del colore tutto veneziano quale si coglie nei lavori dei primi anni ‘60; opere come Chant d’Amour, Green Summer, l’Idillio, la Musica miscelano perfettamente lasciti tonali giorgioneschi e paesaggi belliniani che sembrano imperniati su spazialismi lagunari; mentre la piccola Natura morta con le mele pare eseguita sulla falsariga di quella della Sala dell’Albergo di San Rocco, tanto che mi piace vederla come diretta discendenza dal maestro veneziano. Appare strano che tra le tante opere si sia soffermato proprio su quella piccola Natura morta. Si è trattato, a mio parere, di un esercizio di stile, di tecnica, di evidente ricerca cromatica. Del resto, Burne-Jones non lasciava nulla al caso e la formazione risultò sempre più approfondita. Lo studio sul colore fu essenziale in questa fase. Chissà poi se avesse saputo che proprio questa piccola Natura morta che tanto lo aveva colpito nella Sala dell’Albergo sarebbe diventata nel XXI secolo opera fondamentale per risalire alla tecnica originaria del Tintoretto grazie al prossimo intervento di restauro annunciato da Maria Agnese Chiari Moretto Wiel, in quanto unico tra i capolavori del maestro veneziano a non essere mai stato soggetto a malsane ripuliture, quindi perfetto per conoscere la tecnica, i materiali, i pigmenti originali da lui usati. Ci saranno influenze veneziane anche in seguito? A prima vista appare diversa la sensibilità nelle opere eseguite in seguito intorno agli anni ‘70, che sembrano improntate ad una plasticità manieristica più legata al centro Italia; anche se, magari indirettamente, non può però prescindere da quanto gli aveva lasciato la vista dei capolavori dello stesso Tintoretto. Infatti, se i viaggi di quel periodo in Toscana e a Roma furono compiuti per prendere le distanze dall’attacco di Ruskin a Michelangelo, studiando il maestro
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fig. 53
Tintoretto Strage degli Innocenti Sala Terrena, Scuola Grande di San Rocco, Venezia
fiorentino dal vivo, allo stesso tempo gli fecero riaffiorare le precedenti memorie visive veneziane. Tornerà in seguito a Venezia? Non fisicamente. I viaggi nel centro Italia del 1871 e 1873 non lo riportarono in Laguna. In quell’occasione sentiva di dover approfondire lo studio del Manierismo e vedere dal vivo Michelangelo e Signorelli. Però di fronte ad un’opera cardine della sua produzione pittorica quale è il Polittico di Troia di Birmingham, non finito, una bellissima e complessa opera pittorica sulla scia delle pale d’altare o dei capolavori rinascimentali di Mantegna, Crivelli e, ovviamente, Michelangelo, il rimando allo stesso Tintoretto non va trascurato. Sembra evidente il riferimento alla Strage degli Innocenti (fig. 53) di San Rocco, tanto che a me è parso immediato e non trascurabile come dal groviglio di corpi delle madri disperate del Robusti, che si contorcono in un chiasmo di terrore muscolare, sembri discendere il panico dei fuggiaschi della città assediata dell’inglese, davanti ad una Venus discordia glaciale, che assiste con distacco, da un improbabile trono, alla macchinazione scatenata dai Vizi, - Ira, Invidia, Sospetto, Contesa - appartati in primo piano sulla destra del dipinto. Sul pavimento, vittime dei loro intrighi, ai piedi della Venere impassibile, stanno corpi nudi e contorti in torsioni manieristiche tintorettesche. E come la strage di Betlemme del veneziano, così l’assedio di Troia del preraffaellita sembra ambientato in una quinta teatrale aperta sulla fuga di archi e pilastri in mattone. Come Tintoretto, così
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Burne-Jones inserì nei suoi quadri degli “ordini bastardi”, bellissima, intrigante definizione di Gianmario Guidarelli che ci piace poter citare con riferimento a quegli elementi strutturali, architettonici, essenziali, portanti, ma frutto di un’abile ricostruzione di fantasia. Nei suoi dipinti Tintoretto ha utilizzato lo spazio architettonico a fini narrativi in un modo molto raffinato e complesso, deformandolo e frammentandolo grazie ad un impiego innovativo e spregiudicato della prospettiva geometrica. In questa strategia compositiva, spiega ancora Guidarelli, gli ordini architettonici, perdendo parte del loro significato prospettico e morfologico, diventano elementi frammentari di un allestimento scenografico degli spazi narrativi. In questo caso ho riscontrato un’ulteriore vicinanza tra i due pittori, poiché anche per Burne-Jones l’architettura non è mai casuale o semplice sfondo, ma viene via via rielaborata con puntuale attenzione, diventando involontaria protagonista. Elementi che fanno parte di memorie visive sospese nel tempo, inconsciamente affioranti a distanza di anni nell’immaginario pittorico del baronetto vittoriano Edward Burne-Jones. Venezia, la sua arte e Tintoretto: possiamo vederli come esperienza formativa per Burne-Jones? Senz’altro, anche perché Burne-Jones per certi versi si è fatto da solo, proprio attingendo dal passato. Nel senso che inizialmente frequentò la scuola di disegno, poi la Old Watercolour Society, da cui si staccò in disaccordo per la critica ad alcuni suoi dipinti, da allora si rinchiuse per 7 anni, dal 1870 al 1877 nel suo atelier fuori Londra, The Grange, perfezionandosi a studio dipingendo e circondandosi di opere in maniera quasi maniacale. In una sorta di rapporto fisico con il proprio lavoro, dipingeva, ritoccava, rielaborava le cromie in una ricerca di approfondimento stilistico e tecnico continuo che gli derivava dagli anni italiani a contatto coi capolavori del Rinascimento. Del resto, dopo il suo ritorno in pubblico con la mostra della Grosvenor Gallery del 1877 il successo crebbe in maniera esponenziale, così come i suoi clienti e le richieste. Quindi non viaggiò più? Venezia lo rivide con una presenza molto importante, seppur non di persona. Infatti, proprio in Laguna vennero eseguiti i mosaici che decorano la chiesa di San Paolo entro le Mura a Roma. Si tratta di un’opera fondamentale per diversi motivi, unica sua testimonianza in Italia, il solo ciclo musivo da lui realizzato e interamente prodotto in una fornace muranese, secondo tecniche veneziane. Un’opera laboriosissima che lo impegnò nei suoi ultimi vent’anni, fino alla morte nel 1898. Che ruolo ha avuto Burne-Jones rispetto all’ambiente artistico veneziano? È fuori dubbio che abbia avuto un ruolo di primo piano alla Biennale d’apertura. Non a caso è stato per due volte nel Comitato di Patrocinio nel 1895 e di nuovo nel 1897. Ha esposto in due occasioni: alla storica prima edizione, portandovi La Sponsa de Libano, opera che suscitò opinioni molto contrastanti, tra ammirazione entusiastica e pesanti stroncature, mentre alla 4. Esposizione, nel 1901, fu inviato Il sogno di Lancillotto, dipinto meno intrigante, ma testimonianza di un artista il cui nome ancora era all’apice del successo. Fu una presenza doppiamente importante, espressione del gusto dell’epoca e riflesso dei suoi consensi internazionali. Di questi, ovviamente, un evento mediatico quale è stata la Biennale sin dalle sue origini doveva tener conto. Niente di meglio dunque che ospitarlo ai Giardini, dove sbarcò il suo mondo incantato di Bellezza senza tempo.
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Come Tintoretto, così Burne-Jones inserì nei suoi quadri degli “ordini bastardi”. [...] Elementi strutturali, architettonici, essenziali, portanti, ma frutto di un’abile ricostruzione di fantasia. Elementi che fanno parte di memorie visive sospese nel tempo, inconsciamente affioranti a distanza di anni nell’immaginario pittorico del baronetto vittoriano Edward Burne-Jones
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Conversazione/ Lacerazione
giugno 2019
Storie
Tintoretto è stato una mia identificazione. / Quello spazio appunto / una serie di accadimenti. Quella / regia a ritmi / sincopati e / cruenti, magmatici di energie / di fondi interni di passioni / di emotività commossa. / Di caverne d’ombra da / un / balenio di luce / di pozzi di luce e di ombra / le ombre dello sprofondamento / i luoghi precipiziali. / Una domanda... / della paura / Tintoretto precipita. / In estrema mobilità frenetica / insostenibile caduta di respiro / impennate traiettorie / fughe / dove? Emilio Vedova, da uno scritto risalente al 1991 108
Intervista a Stefano Cecchetto di Franca Lugato
Un’affinità
sia fisica che naturalmente artistica, Jacopo Tintoretto ed Emilio Vedova sembrano parlare a distanza di secoli la stessa lingua, una lingua tormentata ma sublime, che cerchiamo di discernere attraverso le parole di Stefano Cecchetto, che con Germano Celant nel 2013 alla Scuola Grande di San Rocco ha curato la straordinaria mostra Vedova Tintoretto. Un passaggio espositivo fondamentale che ha svelato al pubblico lo sguardo di Vedova, intriso sin dai primi lavori di smisurata passione nei confronti delle imprese del Maestro, siano esse i grandi teleri di San Rocco o dipinti concepiti per altri luoghi della città. Cecchetto ripercorre le tracce di una sorta di espressionismo condiviso che penetra le opere dei due artisti, restituendoci la loro dimensione del vedere e del sentire e facendoci entrare nell’arte pura. Com’è nata l’idea della mostra del 2013, che ha messo insieme Tintoretto e Vedova alla Scuola Grande di San Rocco? In realtà l’idea viene da lontano, nel 2004 stavo preparando la mostra su Emilio Vedova e Luigi Nono commissionata dall’Auditorium Parco della Musica di Roma, poi realizzata nel 2005 in occasione del Festival Abbado, e un giorno, parlando con Vedova nel suo studio, gli dissi che dopo questa esperienza sul connubio musica e pittura mi sarebbe piaciuto fare un affondo sulla sua passione per l’opera di Tintoretto e portare i “Teleri” degli anni
Ottanta in dialogo con il ciclo di San Rocco. «Non te lo permetteranno mai – rispose – profanare il tempio non ti sarà possibile, troppi scontri e inutili lacerazioni». In seguito ci sono voluti otto anni di trattative e una forte determinazione per mettere insieme la macchina scientifica e organizzativa necessaria alla realizzazione del progetto1. Il testo in catalogo inizia con due ritratti straordinari: una foto emblematica del volto di Emilio Vedova (fig. 54) e l’Autoritratto di Tintoretto da vecchio (fig. 55) . Che cosa ci svelano questi due ritratti? Ho scelto queste immagini perché sono ritratti emblematici dei due artisti da vecchi e rivelano, oltre ai segni evidenti dell’ineffabile trascorrere degli anni, anche l’eco del tempo trascorso in contrapposizione alla visione di un tempo che deve ancora accadere. Tintoretto e Vedova, i giovani solitari e taciturni di un tempo, che vivevano più volentieri insieme agli strumenti della pittura che non alle persone, guardano poi, da vecchi, la loro personale solitudine diventare solitudine universale, destino tragico dell’umanità. È un presagio evidente, rivelato dalla voragine dei segni che aggrediscono il viso: il solco delle rughe e lo sguardo immobile degli occhi impenetrabili dove abita «l’impossibile spazio dei riflessi». L’apparente rassegnazione della vecchiaia, quello stato manifesto di memento mori che contrasta con la fiera espressività del volto, è l’orgogliosa affermazione di una veggenza. Due ritratti che non mancano di sublimare il travaglio esistenziale e artistico di questi due grandi artisti? Il travaglio che affiora nella pittura di questi due artisti – quel processo di integrazione tra pensiero e gesto che permette di mescolare positivo e negativo, bianco e nero, quale sistematica applicazione di un procedimento alchemico – serve a esternare il dubbio e a renderlo compatibile con l’esistenza. L’intera produzione di Emilio Vedova è impregnata di un alone di mistero e di un’euforia diffusa, cui soggiace la costante denuncia alle “promesse non mantenute” di una società democratica, socialmente e moralmente imperfetta.
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fig. 54
fig. 55
Emilio Vedova
Tintoretto Self Portrait (slightly reworked version of), 1588 c. Musée du Louvre, The Yorck Project (2002) GNU Free Documentation License Wikimedia Commons (Public Domain)
Sono ritratti emblematici dei due artisti da vecchi e rivelano, oltre ai segni evidenti dell’ineffabile trascorrere degli anni, anche l’eco del tempo trascorso in contrapposizione alla visione di un tempo che deve ancora accadere 110
L’artista che da giovane guarda al barocco delle chiese veneziane e poi frequenta la scrittura pittorica tintorettiana è lo stesso che prima anticipa e poi scavalca l’informale, mantenendo intatta la coerenza poetica del segno. Lo stesso segno, visivo e tattile al contempo, che è possibile riscontrare anche in tutta l’opera di Tintoretto e che sembra scaturire da un lavoro proteso dentro alla tela, in una sorta di corpo a corpo che si risolve nell’esternazione del gesto pittorico, piuttosto che nella contemplazione del risultato finale. Lo stato d’animo che si ravvisa nei dipinti del Tintoretto resta dunque celato nell’espressionismo stesso del gesto e nell’istinto “imperfetto” di quell’impeto. Luci e ombre: quale contrasto? Il chiaroscuro, nella pittura del grande maestro manierista, prima di diventare effetto cromatico è innanzitutto una metodologia di pensiero: luce/ombra, peccato/redenzione, bene/male, sofferenza/gioia restano gli elementi visibili di un esasperato conflitto interiore. L’alternanza tra la produzione di opere sacre e profane denuncia lo stato di una situazione in bilico per la ricerca di un costante equilibrio. L’oscillazione tra lirismo e drammaticità determina anche la realizzazione di alcuni dipinti che vogliono rappresentare l’opposizione tra elementi naturali e soprannaturali della fede. Questo contrasto diventa anche per Vedova la condizione ossessiva di un procedere multiplo. Le opere realizzate tra la fine degli anni Cinquanta e i primi anni Sessanta – che riportano titoli evidenti, quali Contrasto, Scontro di situazioni, Immagine del tempo, Intolleranza, fino ai dipinti-denuncia contro il regime spagnolo franchista – esplodono nella rottura di opposti cromatismi, che fondono i toni dominanti del nero e del bianco insieme a rapide pennellate di rossi,
gialli e verdi che irrompono nella scena come schegge impazzite di luce: dichiarazioni visive di un umano sentire, frammentato e lacerato tra la passione e la rabbia. Nello stesso testo lei ha messo in evidenza alcune peculiarità simili fra i due artisti, per un “sentire comune” che travalica lo spazio del visibile al fine di evocare “l’oltre”, il non visibile. Nella fabbrica di San Rocco si svolge una delle più affascinanti avventure pittoriche di Tintoretto, che proprio in quei teleri, realizzati per la maggior parte lavorando in totale solitudine, riesce a portare il suo stile a piena maturazione. L’impianto realistico caratterizza la costruzione delle scene, che risultano ricche di figure, paesaggi, natura e architettura e contestualizzate in luoghi dentro ai quali si inseriscono oggetti che appartengono alla vita quotidiana, quali ceste, sedie impagliate e pentole, tutti oggetti riconoscibili e dunque necessari a sottoscrivere la radice terrena degli accadimenti. La parte destinata alla descrizione soprannaturale è invece confinata in quella zona di chiaroscuro, in quel gioco di luce e ombra che rivela e nasconde, e che sembra voler trasferire il mistero al “non visibile”. Un gioco, quello tra visibile e non visibile, che spingerà poi Emilio Vedova a rileggere l’opera di Tintoretto e a frequentarla come la vertigine di un’esperienza realista: «I miei agganci sprofondano nel reale, ma dove comincia a finire il reale? La vita, in un continuum, da infinita e mai chiusa sperimentazione ti porta a estremi di testimonianza, in aperta articolazione ‘Scontri…’, ‘lacerazioni’…‘No’?»2 . La sequenza dei disegni e dei dipinti dedicati alle Figure (fig. 56) , che Vedova realizza negli anni che vanno dal 1936 al 1938, hanno la loro origine nell’incredibile universo sugge-
STEFANO CECCHETTO Critico, storico dell’arte e curatore indipendente, collabora con importanti musei e istituzioni culturali in Italia e all’estero. Per molti anni ha collaborato con La Biennale di Venezia, è stato consulente alla Fondazione Bevilacqua La Masa e nel comitato scientifico del Lucca Center of Contemporary Art. Dal 2009 è direttore artistico del Museo del Paesaggio a Torre di Mosto (Ve).
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La visione prospettica verticale, l’impulso primordiale del gesto, rivelano una chiave di lettura moderna dell’opera di Tintoretto che lo stesso Vedova percepisce come un’autentica folgorazione rito dai cicli tintorettiani di Palazzo Ducale e ancor più in quello straordinario della Scuola Grande di San Rocco (fig. 57) . La visione prospettica verticale, l’impulso primordiale del gesto, rivelano una chiave di lettura moderna dell’opera di Tintoretto che lo stesso Vedova percepisce come un’autentica folgorazione. Le storie raccontate dai teleri di San Rocco contengono – celata nell’iconografia della narrazione – l’intensità del dramma in tutti i suoi risvolti umani e teologici. La visione prospettica che lei enuncia, rimanda dunque a quella sensation de vertige tipica della pittura del Tintoretto, dove le figure, anche quando sembrano sospese, dichiarano una loro accentuata gravità terrena? Sono rare le figure che svolazzano nei dipinti di Tintoretto. L’artista preferisce coloro che precipitano: anime in pena tormentate dal dubbio, sottoposte a giudizio. Gli stessi angeli rivelano una loro gravità: non si elevano mai troppo alti da terra, e sembrano sempre sul punto di cadere. Possiamo quindi sottoscrivere l’affermazione di Lucien Rudrauf, che vede nello spazio tintorettesco l’estasi legata alla sensation de vertige, a quello spostamento in avanti dell’asse che provoca un effetto di caduta. Il peso del vivere, per Tintoretto, sta in ogni forma di costrizione e la salvezza deve per forza arrivare passando attraverso il giogo dell’esistenza. È quindi naturale che le figure dei suoi dipinti siano intrise di quella drammaticità che toglie ogni leggerezza al
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loro percorso terreno. Il dramma e la tragedia, per Emilio Vedova, si risolvono invece nella presa di coscienza di una protesta civile che si traduce nell’occupazione visiva di uno spazio inconsueto per il dialogo. Una conversazione/lacerazione che accende polarità dialettiche e anima la disputa: «Lo scontro per me è fisiologico. È modo di riferimento, tutto il capire. Scontri – per meglio sentire quanta vita, quanta morte. Non che io non sia presente alla complessità – fatta anche di sesso, di azzurro, di amore… – ma tutto questo che è pure la vita, questo spazio, è per me costantemente contrastato, lacerato, da presenze contrarie. Da sbarre, da ritmi, di ingiusto fatto»3. Non sono dunque solo i disegni – quelli che Vedova realizza tra la fine degli anni Trenta e nei primi anni Quaranta – a determinare l’evidente legame visivo tra i due artisti. Anche i “teleri”, realizzati da Vedova negli anni Ottanta restano fortemente evocativi per una sorta di espressionismo condiviso? Sì, certo. L’ammirazione di Emilio Vedova che guarda a Tintoretto non rimane confinata solo nella dimensione del disegno; è soprattutto nella forza espressionista dei “teleri” – le opere realizzate negli anni Ottanta – che l’artista opera un moderno dialogo con il Maestro manierista. La concezione del dramma come luogo più recondito e complesso dell’intuizione poetica conduce l’artista negli abissi di una ricerca che si esterna in una serie di dipinti assolutamente straordinari. I titoli sembrano
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Emilio Vedova Interpretazione dal Tintoretto (Ultima cena), 1938 Venezia, Fondazione di Venezia fig. 57
Tintoretto Ultima cena Sala Capitolare, Scuola Grande di San Rocco, Venezia
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fig. 58
fig. 59
Tintoretto Crocifissione (particolare) Sala dell’Albergo, Scuola Grande di San Rocco Venezia
Emilio Vedova Crocifissione (da Tintoretto), 1942 Museo Novecento, Firenze
La scena convulsa, densa di quell’angoscia che Sartre descrive così bene nella sua analisi, diventa nel dipinto di Vedova il gesto immediato e frenetico di una drammaturgia barocca 114
voler raccontare il suo lungo viaggio attraverso una dimensione notturna fatta di silenzio, di eros e di morte: Emerging, Registrazione, Compresenze, Non Alveo, Incombente, …als ob…, Di umano, fino ad arrivare a quei Triangoli crocifissi del 1982, dove l’artista indaga le tematiche legate al sacrificio e alla speranza di una redenzione. I due elementi dominanti di questo ciclo di opere, l’odio come sopraffazione dell’umanità e la pietas come redenzione per la salvezza, svelano un percorso fatto di segni ultimi, rarefatti, che dichiarano la loro compresenza dentro ad un magma sempre più nero e confuso: «[…] in antri immensi precipiti – questi tranciati –, orribili pagine di libro –, presenza e fuga… Un numero inquieto di presenze – o Goya “nero” dal nero – o Orozco nero dal nero – o Tintoretto nero dal nero – comprecipito. Teatro dell’assurdo – inconsulto… sgangherata precipitazione dell’oggi – che mi si ripercuote –, deludenti quinte di odio – e infine di pietas»4. Il critico Claudio Spadoni nel descrivere questi particolari dipinti mette in evidenza lo stretto rapporto tra il presente e il passato nel contesto della definizione stessa di “teleri”: «Queste grandi tele (meglio sarebbe chiamarle Teleri, ché anche l’uso veneziano del nome è qui pienamente giustificato, assieme al costituirsi delle opere in cicli, certo non narrativi, ma in qualche modo tematici); questi teleri, dunque prorompono con l’energia, il respiro forte di un pittore che dopo oltre quarant’anni di lavoro, innestati su esordi tanto precoci quanto straordinariamente intensi e presaghi, appare più che mai artista di oggi»5. Ha citato il ciclo Triangoli crocifissi, realizzato da Emilio Vedova tra il 1982 e il 1983. Anche in questi dipinti è possibile leggere l’impeto del Tintoretto nel rappresentare la barbarie dell’umanità o è piuttosto una manifestazione di fede? Con la Crocifissione (fig. 58) Tintoretto mette in scena la barbarie degli uomini: è una crudeltà gratuita quella che si compie, voluta solo per dare spettacolo, per affermare la forza, per esibire il potere. È una lettura laica quella che l’artista intende sottolineare; alla fine si tratta soltanto dell’esibizione di un fatto cruento, dove anche il cielo sprofonda sgomento da-
vanti all’ineluttabilità del suo compiersi. Tintoretto preferisce manifestare in altri dipinti l’espressione della sua fede. È nel mettere in scena i miracoli che la sua pittura conferisce al dogma la testimonianza dell’avvento; è tutto nella luce, nell’illuminazione mistica della contemplazione che Tintoretto rivela la trascendenza della sua spiritualità. Non qui, non dentro a questa sofferenza diffusa dove il sacrificio è obbligatorio e deve compiersi per forza, senza nessuna mediazione, senza l’ausilio di alcun miracolo. E allora “sia fatta la Tua volontà”, ma a modo nostro e con l’umana crudeltà che ci appartiene. Il tema della crocifissione è un soggetto che Vedova esplora già dalla metà degli anni Quaranta. Il percorso parallelo dei due artisti, così lontani nel tempo ma vicini nella concezione dell’analisi esistenziale che li accomuna, permette di comprendere l’accostamento parallelo della loro opera e genera lo sviluppo di una simbiosi che mette in rilievo le affinità e le divergenze del loro procedere. “Lo squarcio giallo del cielo” evocato da Sartre nel suo straordinario saggio su Tintoretto6, lo si ritrova anche nella versione della Crocifissione (fig. 59) che Vedova dipinge nel 1942, ora conservata al Museo Alberto Della Ragione a Firenze, e in quella del 1947 di proprietà del Museo d’Arte Moderna Mario Rimoldi di Cortina d’Ampezzo. Queste due opere, nate certamente dalla spinta di un forte sentimento di denuncia verso i massacri e gli orrori della guerra, provengono dalla partecipazione dell’artista alla lotta partigiana e dall’influenza per quel realismo drammatico che Renato Guttuso esprime proprio nella sua Crocifissione del 1941, dove impone un ordine sintattico e compositivo che esalta la tematica espressionista della rappresentazione. Emilio Vedova, nella sua personale interpretazione, affronta il tema della morte di Cristo restringendo il campo dell’azione. La scena convulsa, densa di quell’angoscia che Sartre descrive così bene nella sua analisi, diventa nel dipinto di Vedova il gesto immediato e frenetico di una drammaturgia barocca spinta fino alla vertigine dell’eccesso da una fisicità grondante: «Era verso mezzogiorno, quando il sole si eclissò e si fece buio su tutta la terra fino alle tre del pomeriggio. Il velo del tempio si squarciò nel mezzo»7.
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La cupa rappresentazione dell’evento è compressa dentro alla dimensione obbligata della tela. La contorsione di quelle figure straziate dal dolore ai piedi della croce testimoniano la contingenza di una crisi e raccontano la sofferenza universale dell’umanità. Ma è proprio in mezzo a tutta quella pena, dentro ai tenebrosi cromatismi della narrazione che s’intravede la speranza. E lo “squarcio giallo del cielo” rimane l’unica via d’uscita, la sola apertura possibile, verso l’altrove. Un’ulteriore testimonianza di questo tema, carico di tensione e di forte impatto emotivo, è documentata dal dipinto Crocifissione contemporanea del 1953. L’opera fa parte del Ciclo della protesta, e si inserisce in un contesto di ricerca che incalza verso un linguaggio più moderno toccando uno dei punti più alti della spontaneità espressiva dell’artista. Il “manierismo” utilizzato da Vedova per eseguire variazioni sui temi drammatici della storia antica e contemporanea raggiunge, proprio in questi anni, l’apice di una maturità narrativa che esula dalle cosiddette correnti di scuola nostrana e lo guida verso un palcoscenico internazionale, dove il linguaggio non ha più bisogno di una lingua per farsi intendere. Sul tema del linguaggio possiamo quindi affermare che Vedova è stato anche un pittore figurativo e che le sue tele raccontano storie che è ancora possibile decifrare? Non c’è trappola più insidiosa che il linguaggio dell’arte possa tendere, della tentazione di interpretare un’opera attraverso la decifrazione didascalica della sua rappresentazione. Ciò che appare non sempre descrive quello che l’artista intende comunicare. Restano aperti i risvolti, le innumerevoli verità nascoste dietro allo spiraglio dei chiaroscuri, le tracce infinite di un percorso parallelo che si manifesta attraverso la distanza che percorre l’apparente realtà del campo visivo e l’affascinante stimolo di una percezione intellettuale. La disperata angoscia che caratterizza Massacro, un disegno di piccole dimensioni che Emilio Vedova realizza nel 1937-‘38, rivela un concetto profondo legato alla pesantezza della materia, la stessa che ritroviamo anche in un capolavoro di Tintoretto del 1547-’48, Miracolo dello schiavo. Quel groviglio di segni che
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Vedova stende sul foglio – quasi a rincorrere la dinamica di una composizione non risolta – lascia intravedere la costruzione di una scena che prelude a una sequenza di azioni ben determinate, come sottolinea Alessandro Masi nel suo studio dedicato agli anni giovanili dell’artista: «[…] l’uomo in alto a destra, la macchia nera discende al centro, ciò che resta del corpo della donna sinistra, ma, ancor più, lo spazio concitato dell’azione: come se un occhio stravolto in un attimo avesse visto quelle figure prendere vita e muoversi, dimenticando perfino il miracolo, per azzuffarsi improvvisamente, senza preciso motivo»8. San Marco libera uno schiavo è la “novella” drammatica che induce Tintoretto a realizzare un dipinto magistrale nella sua “imperfetta” composizione pittorica e che spinge l’artista a presentare uno scenario inconsueto e a trovare, nella dinamica della costruzione, l’affermazione di tutte le leggi fisiche della gravità. La sua analisi riporta inoltre a considerare, anche in questo contesto che ha del “miracoloso”, la singolare frequentazione con i temi della gravità e della leggerezza di cui abbiamo accennato prima. A suo avviso, possiamo definire Emilio Vedova e Jacopo Tintoretto due figure malinconiche? La figura dell’artista quale costruttore di un’identità melanconica mette in evidenza una strategia di avvicinamento alla vita che cerca di modificare il reale per l’affermazione di un universo artificiale costruito dall’immaginazione e dal sogno. In sintesi: quello che non riusciamo ad avere dalla vita cerchiamo di ricostruirlo sulla scena. Non definirei quindi questi artisti come figure malinconiche, ma legate piuttosto all’esplorazione di temi malinconici, ad esempio il ciclo sugli Angeli che Vedova affronta nella seconda metà degli anni Ottanta, altro non è che un focus sul tema di una verità sospesa tra il dubbio e la ragione. Nel dipinto dell’Annunciazione (fig. 60) , che si trova a San Rocco, la figura dell’angelo si manifesta per testimoniare l’evento e resta un elemento indispensabile al processo narrativo della rappresentazione pittorica, perché nell’indugio sospeso del volo conferma l’istante della “rivelazione”, per un soprannaturale possibile.
fig. 60
Tintoretto Annunciazione Sala Terrena, Scuola Grande di San Rocco, Venezia
La figura dell’angelo [...] nell’indugio sospeso del volo conferma l’istante della “rivelazione”, per un soprannaturale possibile 117
È la presenza dell’attimo che si palesa nella manifestazione momentanea dell’annuncio ed è proprio in quell’attimo che si ristabilisce la congiunzione tra umano e divino. Nel 1986 Emilio Vedova dedica al tema dell’angelo una serie di opere su carta che sviluppano la continuità di un procedere estetico e riportano il suo lavoro alla sacralità del segno. Il tratto leggero, quasi liquido nella sua evanescenza, costituisce il culmine di una ricerca dedicata proprio al ricongiungimento, alla chiusura del cerchio. In questi disegni Vedova indaga il tema delle differenze e delle similitudini e pone la figura dell’angelo quale spartiacque della memoria, elemento primordiale di un passaggio tra essere ed esistere: «L’angelo delle annunciazioni, di un possibile dialogo – che ti ascolta… ma nella “breccia” (l’Annunciazione di Tintoretto a San Rocco) tutti i possibili…»9. Angelus Novus, Angeli Prigione, Angeli Possibili, Offanim; le figure distinte e distinguibili che Vedova utilizza per nominare questo ciclo di opere raccontano la dimensione di un “transfert vulnerabile”, un percorso introspettivo che indaga le debolezze umane e cerca un’espiazione soprannaturale attraverso un medium che fa da ponte e apre la breccia tra il visibile e il non visibile. Massimo Cacciari nel suo illuminante scritto sugli angeli di Vedova afferma: «Il problema dell’Angelo non è altro che il problema della rappresentazione. Perciò esso si manifesta con particolare evidenza proprio al vertice delle più radicali speculazioni apofatiche»10. Sottolinea, inoltre, il concetto che l’immagine appartiene alla figura del mistico e al radicale processo di identificazione con la sua stessa simbiosi: «Solo per il mistico
1 La mostra Vedova Tintoretto era parte del progetto Tintoretto Contemporaneo, a cura di Stefano Cecchetto e Giorgio Baldo, e si è svolta a Venezia, Scuola Grande di San Rocco, dal 24 maggio al 3 novembre 2013. L’esposizione, a cura di Germano Celant e Stefano Cecchetto, era promossa dalla Scuola Grande di San Rocco e dalla Fondazione Emilio e Annabianca Vedova. 2 Emilio Vedova, Stralci da quaderni/studio, 1980-1983, in Emilio Vedova, Venezia, Marsilio, 2007. 3 Emilio Vedova, Appunti in quaderni/studio, per Plurimi/Binari, 1978. 4 Emilio Vedova, Frammenti – appunti – in studio, 1980.
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è essenziale l’immagine. È sempre essenziale: sia che debba esprimere il proprio amore per l’Ineffabile, sia che debba comunicare con gli Angeli dell’Ineffabile, perché questi intermediari gli si presentano»11. È possibile quindi ravvisare in questi due artisti anche una concezione dell’immagine e dello spazio che rimandi alla “metafisica”, intesa quale pensiero filosofico di un’esperienza sensibile? Tutta la tradizione iconografica contiene in sé un lampo della grande illusione metafisica – quel senso di sospensione e di attesa immerso nel silenzio di una riflessione – eppure, nell’attimo preciso della contemplazione dell’opera siamo come attraversati dalla rivelazione istantanea di un segno, dal racconto di una visione che è nello stesso tempo la base di ogni esaltante bellezza e di ogni profonda malinconia. Ma l’opera d’arte travalica ogni metafisica della visione stessa e conduce verso il possibile ricongiungimento con lo spirito. Che cosa resterà del nostro conflitto interiore? E tra il corpo e l’anima che cosa saremo portati a scegliere? «Ho il collo sulla ghigliottina, la lama scende, la mia testa va da questa parte il resto dall’altra. Da quale parte starò io?»12 . Dalla lettura puntuale dell’opera di questi due artisti veneziani emana il senso di una ricerca claustrofobica, paragonabile a un tuffo in acque profonde dove si continua a nuotare senza sosta per esplorare l’ignoto, sporgendo ogni tanto la testa nell’atto liberatorio della respirazione. Ed è proprio in quell’emergere istantaneo è in quel momentaneo respiro che si coglie ancora il suono, il frastuono, l’immensa vitalità del loro infinito universo pittorico.
5 Claudio Spadoni, Emilio Vedova, Milano, Electa, 1983. 6 Jean-Paul Sartre, Tintoretto, o il sequestrato di Venezia, Milano, Christian Marinotti, 2005. 7 Vangelo di Luca, 23.45 8 Alessandro Masi, Emilio Vedova 1935-1950. Gli anni giovanili, Città di Castello (Pg), Edimond, 2007. 9 Emilio Vedova, Pensieri sull’Angelo, in Vedovas Angeli, Venezia, Ed. Arsenale, 1989. 10 Massimo Cacciari, L’Angelo di Vedova, in Vedovas Angeli, Venezia, Ed. Arsenale, 1989. 11 Ibidem 12 R.D. Laing, Borbottii
Il travaglio che affiora nella pittura di questi due artisti – quel processo di integrazione tra pensiero e gesto che permette di mescolare positivo e negativo, bianco e nero, quale sistematica applicazione di un procedimento alchemico – serve a esternare il dubbio e a renderlo compatibile con l’esistenza
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Appuntamento al buio
settembre 2019
Storie
C’è un aspetto estremamente moderno in Tintoretto, che non è legato ai teleri cinquecenteschi ma ad un concetto di una “metropolis fisica”, in cui i personaggi, la loro anatomia, i gesti, le urla che si percepiscono non sconfinano mai nel decorativo, nell’aneddotica o nella narratività. Direi che è più un verista, un caravaggesco che coglie il momento e lo ferma nel tempo 120
Intervista a Fabrizio Plessi di Fabio Marzari
Ultima tappa:
Tintoretto e il contemporaneo. Non potevamo allora che dirigerci verso le inconfondibili luci e le contrapposte ombre di Fabrizio Plessi, grande artista le cui suggestioni verso Jacopo Robusti sono forti e profonde. I bagliori emanati dalle opere di Plessi sono un ponte diretto verso l’antico, esplosioni di luce nel buio declinate in forma originale e suggestiva che inevitabilmente richiamano alla memoria l’affascinante pittura del Tintoretto. Il Maestro coglie il momento e lo ferma nel tempo proprio come fa Fabrizio Plessi, traducendo con lingue diverse l’impareggiabile capacità dinamica nel progettare la visione. Sia in Tintoretto (fig. 61) che in Plessi (fig. 62) c’è un’importante progettualità a monte: il disegno pare il fondamento dell’opera di entrambi. Più che di disegno parlerei di struttura. Essendo molto settoriale, nel mio pensiero Tintoretto è quello della Scuola Grande di San Rocco (fig. 63) . È lì che colgo in pieno la sua grandezza; nelle sue monumentali tele percepisco un senso che va dall’eroico alla megalomania. I suoi teleri sono organizzati in “cicli pittorici” ed essendo io stesso un artista che da sempre lavora per sequenze, serie, raggruppamenti, non posso che vivere una profonda attrazione nei confronti di questo straordinario artista. Lavorare per realizzare un “ciclo” significa progettare, avere un pensiero che via via cresce, sviluppandosi a poco a poco. Operando in questo modo ci si accorge gradatamente che si può proseguire lungo una strada principale oppure invece sceglierne altre, secondarie, per evitare la catastrofe finale. Luce e ombra, centro della poetica di entrambi? Tintoretto realizza i suoi grandi teleri scuri, neri, perché in fondo la sua vera forza sta proprio nel buio. Lo stesso accade nel mio lavoro: è l’oscurità a rappresentare la principale fonte di interesse. Quando ci troviamo in un ambiente oscuro affiniamo le nostre capacità intuitive. In Tintoretto c’è una sorta di mondo oscuro, un’oscurità globale da cui emergono quasi come fantasmi i personaggi, ognuno dei quali è interprete di se stesso e recita la propria parte. Da questo buio, da questo mondo indefinito, grazie alla luce e, in questo caso, grazie alla straordinaria e inconfondibile pittura del Robusti, i protagonisti emergono dalla scena per colpire lo sguardo dello spettatore con grande forza. Anche la loro
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fig. 61
fig. 62
Tintoretto Self Portrait (slightly reworked version of), 1588 c. Musée du Louvre, The Yorck Project (2002) GNU Free Documentation License Wikimedia Commons (Public Domain)
Fabrizio Plessi
Nelle sue monumentali tele percepisco un senso che va dall’eroico alla megalomania 122
fig. 63
Tintoretto Resurrezione Sala Capitolare, Scuola Grande di San Rocco, Venezia
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postura non è mai normale, essi sono sempre mossi, contorti, colti di sghembo, non risultano mai raffigurati in posizioni statiche, è oramai un movimento tipicamente pre-seicentesco, quasi un barocco ante litteram: dinamismo e vorticosità nella pittura tintorettiana si traducono in energia e forza espressiva. Dal buio nascono i pensieri migliori, perché nasce anche una sorta di inevitabile “autodifesa”: un bisogno di trovare un minimo di confine per poter procedere? Questa mattina, sapendo che ci saremmo incontrati, sono andato a osservarlo con molta attenzione, per riguardarlo sotto un aspetto più strutturale. Ho tirato via tutti i personaggi, le vesti, i particolari, per vedere che cosa c’è sotto, l’impianto scenico alla base. Una cosa fortissima, di rara pregnanza, in cui emerge prepotente la forza morale, storica e anche proprio chimica del lavoro. È un modo di creare e operare prettamente wagneriano! Tintoretto aveva un grande amico, Andrea Calmo, letterato e commediografo, nonché poligrafo. Gli studiosi ormai sono concordi nel ritenere che Tintoretto abbia lavorato per il teatro, sicuramente come scenografo, e questo si riscontra nelle sue opere, nelle sue “messe in scena”. L’aiuto delle maquette, dei “teatrini”, è documentato dai suoi biografi antichi ed è uno degli aspetti che è stato evidenziato nella mostra di Palazzo Ducale. Tintoretto progettava in maniera tridimensionale – quindi già teatrale –, posizionava i suoi personaggi in creta o in cera all’interno dei “teatrini” e poi li illuminava utilizzando candele e lampade a olio... Quella di Tintoretto è certamente una macchina teatrale, anzi, una macchina visiva, a metà tra il teatro e il cinema (fig. 64) . Molte volte queste apparizioni sembrano il fermo immagine di una scena che si sta svolgendo, per cui essa non è soltanto quella che vediamo dipinta, perché bisogna presupporre un antefatto e un postfatto al suo svolgersi. È un’intuizione importantissima in cui l’aspetto scenico si confonde con la dimensione del tempo passato, presente e in divenire. Tintoretto è stato un pittore cult per il mondo del cinema… Dietro ad ogni suo lavoro c’è sempre un’importante progettualità, un disegno. Durante la mia visita di oggi a San Rocco ho voluto riprodurre in maniera schematica il disegno della Crocifissione: è un modello geometrico chiaro e pulito; tutte le linee conducono alla figura centrale, con i personaggi che invadono e occupano i diversi spazi. Sembra proprio un set cinematografico e mi ha portato la mente a Visconti e al cinema degli anni Cinquanta e Sessanta. C’è un aspetto estremamente moderno in Tintoretto, che non è legato ai teleri cinquecenteschi ma ad un concetto di una “metropolis fisica”, in cui i personaggi, la loro anatomia, i gesti, le urla che si percepiscono non sconfinano mai nel decorativo, nell’aneddotica o nella narratività. Direi che è più un verista, un caravaggesco
FABRIZIO PLESSI Ha studiato all’Accademia di Belle Arti di Venezia, dove ha poi insegnato. Dedicatosi inizialmente alla pittura, dagli anni Settanta ha indirizzato la sua ricerca verso i rapporti tra arte e tecnologia. Le sue videoinstallazioni e videosculture di forte impatto emotivo sono incentrate sulle molteplici possibilità di interrelazione tra immagine, suono, luce e movimento. È presente nei più importanti musei di arte contemporanea a livello internazionale.
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fig. 64
Tintoretto Salita al Calvario Sala dell’Albergo, Scuola Grande di San Rocco, Venezia
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Tintoretto realizza i suoi grandi teleri scuri, neri, perché in fondo la sua vera forza sta proprio nel buio. Lo stesso accade nel mio lavoro: è l’oscurità a rappresentare la principale fonte di interesse
che coglie il momento e lo ferma nel tempo. Tintoretto non è affatto un narratore, non è Bellini, non è il Quattrocento veneziano o fiorentino; è un uomo che ha la grande forza di affrontare la realtà con un senso quasi neorealistico, vestendo e addobbando le persone dell’epoca. È in fondo un artista moderno e riesce a dare un senso “eroico” al suo lavoro. La sua pittura mi interessa molto e mi colpisce appunto perché è “eroica”. Le affinità con il mio lavoro non sono mai palesi come lo possono essere per esempio quelle tra lui e Vedova, in cui il rapporto visivo è di una prossimità evidente. La mia affinità con Tintoretto esiste proprio nella parte dell’opera che non è visibile, nella struttura, nel pensiero, in quelle che sono le basi analogiche del lavoro, non nel risultato estetico. Mi sento molto vicino a Tintoretto proprio per quel senso eroico del buio, per la drammaticità dell’emersione delle persone. Oggi ammiravo Maria in meditazione della Sala Terrena della Scuola di San Rocco, resa attraverso una pittura che ricorda molto i lampi delle mie opere. Osservando il ruscello, mi sono accorto che sembrava quasi televisivo: pixel che emergono nel buio della notte. Quella di Tintoretto è una pittura che si può definire “povera”, perché non ricerca l’eleganza formale o la stratificazione, ma ricorda quasi una ripresa televisiva, in cui il segno che l’artista aveva immaginato diventa un fermo immagine per sempre, un segno calligrafico, e la sua calligrafia è data proprio dall’impareggiabile capacità dinamica nel progettare la tela. Tintoretto era famoso per la velocità di esecuzione, che gli permetteva di realizzare i suoi cicli in tempi sorprendenti. Tuttavia, dietro alla velocità c’era sempre una progettualità. Plessi come “progetta la sua progettualità”? Facendo una stima del mio lavoro grafico mi sono reso conto di aver fatto qualcosa come sedicimila disegni. Il disegno è alla base del mio lavoro, tutto quello che vedete nella mia opera è disegnato. La prima cosa è il pensiero, avere un’idea; la seconda è cercare di trasferire il pensiero su un foglio di carta il prima possibile per non dimenticare; la terza cosa è infine il progetto. A volte ho una visione talmente wagneriana del mio lavoro – e anche Tintoretto, come dicevo, è decisamente wagneriano! – che mi viene quasi da pensare che realizzare l’opera
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fig. 65
fig. 66
Fabrizio Plessi Plessi a Caracalla. Il segreto del tempo Roma (18 giugno-29 settembre 2019)
Tintoretto Cristo nell’Orto dei Getzemani Sala Capitolare, Scuola Grande di San Rocco, Venezia
finale sia quasi un atto inutile. Quando realizzo una grande installazione e la mostro al pubblico, la reazione è quasi sempre di stupore, interesse, ammirazione, ma non da parte mia, perché è come se l’avessi già vista per mesi durante la lavorazione. Provo emozione mentre sto creando l’opera, per cui quando è finita mi sembra quasi ovvia, non mi suscita nulla in più. Con centinaia di disegni, schizzi e progetti affino l’idea, che resta la cosa più importante, la prima a nascere, simbolicamente la pala piantata nel televisore, nella tecnologia, nell’emozione, tutto il resto è quasi decorazione. La messa in scena dell’idea è necessaria per renderla accessibile agli altri. Mi può capitare di avere un’idea talmente bella, o almeno che io reputo tale, che non vorrei nemmeno fissarla su un foglio, però in questo modo resterebbe riservata a me, gli altri non avrebbero la possibilità di accedere al mio pensiero. Le centinaia di disegni che faccio, questo percorso faticosissimo e anche felicissimo che costantemente compio, scaturiscono da qualcosa che ho dentro e che non posso arrestare. Posso disegnare su fogli di carta, sui finestrini dei treni, ovunque, su ogni tipo di superficie, perché per me il disegno è la realizzazione di un pensiero che si codifica soltanto attraverso il lapis, la grafite. Anche Tintoretto disegnava incessantemente; gli serviva per mettere in moto una specie di mondo immaginario che aveva dentro di sé. Così vale per me. Il mio lavoro è composto di flash al magnesio che vanno
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a illuminare le zone buie, nascoste e segrete della nostra percezione. I bagliori di Tintoretto sono esattamente questo. Questi flash fotografici al magnesio illuminano le percezioni, perché più l’ambiente è buio più la sensibilità e la percezione si affinano, mentre nella grande luce tutto diventa ovvio e viene letto alla stessa maniera. La semioscurità offre a ciascuno spettatore l’occasione di vivere il privilegio della luce secondo la propria sensibilità. Anche il mio lavoro viene letto in maniera diversissima, perché a seconda della percezione che si ha può essere vissuto come un lavoro mentale e concettuale fortissimo oppure come uno sforzo di una evidenza incredibile. È un lavoro radicalmente democratico proprio per questo suo prestarsi a plurimi e difformi livelli di lettura. Continuiamo il gioco tra Plessi (fig. 65) e Tintoretto (fig. 66) . Tintoretto non ha avuto una vita facile, nel senso che nel suo percorso era probabilmente troppo “moderno” per i suoi tempi anche rispetto ai Tiziano, ai Veronese, a un certo classicismo dell’epoca. La sua vita, invece, com’è? Sono stato fortunato perché durante i miei studi liceali ho conosciuto un uomo meraviglioso come Edmondo Bacci, pittore spazialista veneziano, che mi ha introdotto nel salotto di Peggy Guggenheim. Mi sono formato proprio nel giardino di Peggy e alle sue cene. Io, che ero solo un ragazzino, ho avuto l’opportunità di conoscere tutti i più grandi artisti che passavano in quella stupefacente dimora, e venivo tollerato perché portato da Bacci, che Peggy stimava enormemente. Mentirei se non dicessi che fin da quando ero lì immaginavo di fare una mostra al Guggenheim di New York. Ero sicurissimo che prima o poi ci sarei riuscito; era un sogno che avevo fin da ragazzino. Quando alla fine, molti anni dopo, nel 1998, sono riuscito a esporre al Guggenheim, la cosa più bella per me è stata naturalmente vedere quel sogno di ragazzino finalmente compiuto. Ho sempre avuto una visione un po’ megalomane della mia vita: non volevo diventare né ricco, né famoso, volevo semplicemente esporre nei musei più importanti del mondo. Forse era una visione un po’ esasperata, un eccesso di fiducia in me stesso, ma sapevo che arrivando a esporre a New York si sarebbero aperte tutte le porte degli altri musei del mondo. E così è stato. La mia vita non è stata facile, ma neanche difficile. Bisogna sempre avere una grande forza d’animo e soprattutto tenere sempre viva la passione, perché se non hai passione non puoi neanche pensare di intraprendere un lavoro come questo. Da giovane ero molto vivace e dinamico. Ero a capo dei movimenti studenteschi, ero tra gli animatori durante gli anni in Accademia. Ho esordito con la mia prima mostra nel 1962 esponendo opere molto vicine a quelle di Gorky, artista conosciuto grazie a Bacci, che mi aveva mostrato alcuni suoi disegni inediti. Mi piaceva da morire Gorky, ero innamorato del suo lavoro e mi ha fatto davvero molto piacere vedere ora a Ca’ Pesaro la bellissima retrospettiva a lui dedicata. Lei aveva il sogno di esporre a New York, invece Tintoretto aveva il sogno di vincere il concorso ed essere scelto per dipingere il Paradiso nella Sala del Maggior Consiglio a Palazzo Ducale, poi alla fine vinto. Quanto conta davvero l’ambizione nella realizzazione dei propri obiettivi artistici? Ognuno ha i suoi sogni. Da qualche parte ho letto che la vecchiaia inizia quando i rimpianti si sostituiscono ai sogni, ed è esattamente così: se si smette di sognare si è già vecchi. Io a questa età dentro di me penso sempre di avere quaranta o cinquant’anni, neanche sessanta!
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In Tintoretto c’è una sorta di mondo oscuro, un’oscurità globale da cui emergono quasi come fantasmi i personaggi, ognuno dei quali è interprete di se stesso e recita la propria parte
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Chiesa di San Marziale
2 Chiesa di San Marcuola
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3 Galleria Giorgio Franchetti alla Ca’ D’oro 4 Chiesa di Santa Maria Assunta (Gesuiti)
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5 Chiesa della Madonna dell’Orto 6 Chiesa di San Lazzaro dei Mendicanti
2
7 Chiesa di San Zaccaria 8 Chiesa di San Giuseppe di Castello 9 Ateneo Veneto
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10 Basilica di San Marco
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11 Sale Monumentali della Biblioteca Nazionale Marciana
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12 Palazzo Ducale 13 Museo Correr 14 Chiesa di San Moisè
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15 Chiesa di Santa Maria Zobenigo (S.M. del Giglio)
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16 Chiesa di Santo Stefano 17 Scuola Grande di San Rocco 18 Chiesa di San Rocco 19 Chiesa di San Cassiano 20 Chiesa di San Polo
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21 Chiesa di San Silvestro 22 Chiesa di Santa Maria Mater Domini 23 Chiesa di San Simeone Profeta 24 Chiesa di Santa Maria del Carmelo (Carmini) 25 Gallerie dell’Accademia 26 Chiesa di Santa Maria della Salute 27 Chiesa di Santa Maria del Rosario (Gesuati) 28 Chiesa dei Santi Gervasio e Protasio (San Trovaso) 29 Chiesa di San Giorgio Maggiore
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Mappa tematica
Il Maestro e la città 4
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Il diario di un’eternità
ottobre 2018
Mostre
di Franca Lugato
N
on era per nulla cosa semplice e scontata concepire un prequel al Miracolo dello schiavo (1548), che come una navigata star ha chiuso la mostra su Il giovane Tintoretto alle Gallerie dell’Accademia di Venezia. Già avvicinandosi al cinquecentesino anniversario della nascita di Jacopo Robusti detto Tintoretto (Venezia, 1518/1519-1594), i musei di Colonia (Wallraf-Richartz Museum, 2017) e di Parigi (Musée du Luxembourg, 2018) avevano avuto l’onore di inaugurare il ciclo di mostre sul più veneziano dei pittori del Cinquecento, con un’esposizione dal titolo – forse un po’ troppo hollywoodiano – Tintoretto: A Star Was Born, progettata e curata da Roland Krischel. Una mostra, ritenuta da alcuni ambiziosa e coraggiosa, sugli esordi e la produzione giovanile del pittore veneziano, attività che in anni recenti è tornata prepotentemente alla ribalta con studi, convegni e mostre. «Perché “il giovane Tintoretto” è un problema così complesso?»: è la domanda che si sono posti gli studiosi tintorettiani più famosi e dibattuti di questi tempi. Gli americani Robert Echols e Frederick Ilchman, curatori della mostra di Palazzo Ducale, con successiva tappa arricchita e ampliata – proprio perché non siamo a Venezia, nel museo diffuso dell’artista – alla National Gallery of Art di Washington (marzo 2019) e oramai consulenti di quasi tutte le iniziative tintorettiane in città. La scarsità di documenti sulla sua formazione, sull’alunnato presso un maestro, sulla datazione delle opere giovanili prima del fatidico 1548, anno in cui venne concluso il Miracolo dello schiavo per la Scuola Grande di San Marco, allo scadere del trentesimo compleanno del pittore, pongono gli specialisti davanti a una scelta metodologica forzata e cioè all’utilizzo di quell’analisi
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di carattere filologico basata sulle prove visive e sui confronti. Allontanandoci volutamente dalle questioni attribuzionistiche, dai pareri discordanti e dai dubbi della comunità scientifica e dalla scelta di adottare una metodologia a mio avviso estremamente riduttiva e fuorviante – rischiosa e insidiosa spesso da connoisseurship – e ritornando ancora per un solo istante alla mostra di Colonia-Parigi, sono state proprio le questioni di “problematicità” insite nello studio di alcune opere che hanno spinto la curatela a impostare e a proporre al visitatore un percorso espositivo insidioso, poco convincente e forse un tantino “pretenzioso”. Alcuni l’hanno ritenuta un’operazione dall’alto valore scientifico, ma come ne sarà uscito il giovane Tintoretto all’occhio di un visitatore “normale”? Tra opere attribuite a Tintoretto, Tintoretto e bottega (Giovanni Galizzi?), Giovanni Galizzi e addirittura una terza mano non ancora identificata? Fortunatamente Roberta Battaglia, Paola Marini, Vittoria Romani, curatrici della mostra Il giovane Tintoretto (7 settembre 2018-6 gennaio 2019), hanno lasciato le “dispute nel tempio” e hanno lavorato sodo per costruire e proporci alle Gallerie dell’Accademia una mostra godibile, più lineare, emozionante, spettacolare e, aggiungerei – spero non venga inteso come un’offesa di questi tempi –, “una mostra pallucchiniana”. Le prime due sezioni sono di importanza fondamentale per orientarci in quella stagione figurativa degli anni Trenta del Cinquecento, così magmatica e ricca di fermenti grazie alla politica di rinnovamento promossa dal doge Andrea Gritti (1523-1538). Le prime sale illustrano attraverso le opere di Tiziano, Bonifacio de’ Pitati, Polidoro da Lanciano, la civiltà del classicismo cromatico lagunare appena
toccata da un’ondata di raffaellismo. Ma prima di passare all’arrivo dei toscani a Venezia e alla loro portata di modernità, al centro del discorso viene posta un’opera fondante per la nascita del manierismo veneziano: quel San Martino e san Cristoforo, portelle di un armadio per gli oggetti preziosi, che Pordenone realizzò tra il 1527 e il 1528 per la chiesa di San Rocco di ritorno da Roma. La forza e l’energia che sprigiona l’ardita composizione pordenoniana anticipa quella sfida michelangiolesca che colpirà i pittori della nuova generazione, ma che non lascerà indifferente nemmeno il maturo e ben piazzato Tiziano. La presenza in Laguna di Salviati, Porta e Vasari (1539-1541) corroborano e fortificano la pittura lagunare in quella direzione toscoromana, già anticipata dal protomanierismo pordenoniano, ma altresì introducono un nuovo repertorio di stilemi esemplati sulle eleganze emiliane, in particolare parmigianinesche, che influenzeranno il giovane Tintoretto e i pittori suoi coetanei. Il dipinto di Francesco Salviati per la chiesa bolognese di Santa Cristina della Fondazza ne è un esempio strepitoso. Approfondimenti puntualissimi e imperdibili quelli suggeriti dalle opere a stampa di Marcolini e Aretino. Qual è la ricaduta sul giovane Tintoretto di questa congiuntura che si è prodotta a Venezia nell’arco di un decennio? La possiamo individuare con chiarezza nella sezione dell’esordio attraverso la presenza di un gruppo di importantissimi dipinti, opportunamente selezionati e riuniti per l’occasione, che permettono di cogliere quell’atteggiamento di rottura, di dirompente energia, di impazienza e originalità che anima la sua frenetica sperimentazione giovanile e che egli assorbe e rielabora attraverso una risposta stilistica estremamente personale e moderna, dalla visionaria Conversione di san Paolo a quell’onda di movimento della Sacra Conversazione Molin (1540), primo pilastro cronologico della produzione giovanile del pittore. Dagli spericolati sotto in su negli ottagoni per il soffitto dei Pisani di San Paternian all’enfasi luministica della drammatica Cena in Emmaus, così lontana da quella di Tiziano della prima stanza, dal michelangiolismo dei Dottori nel tempio alle eleganze realizzate con fluidezza di pennellata dei cassoni di Vienna,
dove la narrazione dell’episodio è supportata da un’intelaiatura prospettica ispirata all’architettura contemporanea, si avvertono oramai tutte le componenti della futura pittura tintorettiana. Dal 1546 al 1548 si appresta a diventare un pittore affermato sulla scena veneziana, sgomitando e anche su questo inventandosi strategie nuove e fantasiose. Infine, prima di lasciare lo spettatore rapito e totalmente assorbito dal Miracolo dello schiavo, il percorso espositivo induce a soffermarsi e a prendersi il giusto tempo davanti al confronto tra l’Ultima cena di Porta Salviati, Bassano e Tintoretto. Eccoci, dunque, arrivati al 1548 e al fuori formato del Miracolo dello schiavo eseguito per la Scuola Grande di San Marco, dove le diverse esperienze della giovinezza giungono a maturazione dando vita a un linguaggio provocatoriamente innovativo. Come per le star più consumate, anche per questa fantastica creazione artistica il periodo di assenza dall’esposizione – il dipinto è stato per alcuni mesi rullato – non ha compromesso il suo rientro in scena né la possibilità di ammirare un capolavoro assoluto della pittura di tutti i tempi, che assume ora, in questo sapiente percorso espositivo, un nuovo e inedito significato. Per una sintesi su tutta la questione della giovinezza del Tintoretto si rimanda al ben congeniato catalogo edito da Marsilio.
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I labirinti del Maestro
ottobre 2018
Mostre
di Giandomenico Romanelli
C
onvenzionalmente, il Miracolo dello schiavo, prima opera del ciclo per la Scuola Grande di San Marco, vien reputato il punto di svolta nella carriera di Jacopo Robusti. Clamorosa irruzione giovanile di uno spirito che non teme di scandalizzare e di rompere con una consolidata tradizione. In realtà Tintoretto aveva preparato da tempo questa performance e, con tutta probabilità, aveva messo nel conto lo choc che la straordinaria teatralità della scena avrebbe procurato nei suoi stessi committenti. Più che giustamente, Rosand ha individuato appunto nella caratterizzazione scenografica e teatrale (o “cinematografica”, secondo Jean-Paul Sartre) delle sue grandi figurazioni l’elemento di immediata riconoscibilità del fare tintorettiano. Già sostanzialmente diverso dall’altro e precedente choc inferto al mondo dell’arte veneziana da Tiziano con l’Assunta dei Frari e, forse ancor più, dall’Uccisione di san Pietro martire ai Santi Giovanni e Paolo (distrutta in un incendio nel 1866). È la coralità della rappresentazione profana (e sacra) del Miracolo a tener banco e, certo in maniera non meno clamorosa, i diversi livelli del pubblico spettatore della scena dentro e fuori di quel che accade attorno al corpo ignudo dello schiavo riverso a terra. Comincia dopo, per Jacopo, il problema di confermare e affermare il suo ruolo di innovatore e di maestro. E qui, come osserva acutamente Jean-Paul Sartre nel suo (purtroppo da molti ignorato, perché fuori dagli schemi usuali della storia dell’arte e quindi per certi versi non riducibile e difficilmente comprimibile alle terminologie e ai parametri degli
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“addetti ai lavori”) Le Séquestré de Venise, le rivalse personali, il violento bisogno di autoaffermazione, le accuse mossegli dai rivali, un acuto senso della drammatica svolta epocale vissuta nei suoi decenni, tutto questo forgia la personalità titanica e ribelle di Jacopo, il suo inimitabile dinamismo, il percorso chiaroscurato di una vita di battaglie, quindi di sconfitte e di trionfi. Perché questo appare indubitabile e oggi ancora ci stupisce, ci inquieta e ci incanta: la vita di Jacopo è talmente impastata con il linguaggio della sua arte che tutta la sua pittura sembra quasi la trama di una vita spericolata ed “eccessiva”. Il lungo lavoro di Melania G. Mazzucco ha trasformato, come si sa, tutto ciò in un’inimitabile narrazione. Illuminazioni e neri profondi, rabbie, maledizioni ed estasi, amori e passioni, tradimenti e martirî: lo spessore, la tridimensionalità dell’opera di Jacopo sarà di certo apprezzabile nei confronti filologici tra i dettagli delle tele, nell’indicazione delle citazioni e dei ricordi di opere di contemporanei e concorrenti, ma l’uomo – e l’artista – è soprattutto nella complessità di una figura emblematica, di un individuo che ha – dolorosamente – la percezione del proprio valore e che vive tale situazione esistenziale come una condizione di tensione continua, irrefrenabile e compulsiva. Questo rivelano le critiche di Vasari, del Dolce e di altri ancora che faticavano a capire l’anti-classicità di Jacopo, infine il suo manierismo sulfureo e tragico, la sua unicità rivoluzionaria. E, dall’altra parte, Tintoretto non si capisce se non all’interno di un dibattito culturale, religioso e teologico che era, al suo tempo, mate-
ria viva e incandescente, paradiso e inferno, perdizione e salvezza. Anche in questo (oltre che nella coincidenza tra vita e linguaggio pittorico di cui s’è detto) sta l’ulteriore unicità di Jacopo: egli fa coincidere gli strumenti della sua pittura con la sostanza della materia che tratta, trasformando il pennello quasi in strumento di esegesi scritturale, per le opere religiose, e in pura ideologia la componente allegorica di quelle profane. Non staremo qui a stupirci ancora davanti alla fantastica linea sinuosa che contiene magicamente il profilo del corpo fatto di luce gelatinosa della casta Susanna (che esplode però di sensualità abilmente esibita), né c’è necessità di attirare l’attenzione sul Battesimo di Cristo di San Silvestro, dove non troveresti un centimetro quadro di pittura che non lieviti di pura luce fosforescente (non meno che nell’Annunciazione di San Salvador del grande vecchio Tiziano). E che dire del ritratto dell’uomo con catena d’oro in equilibrio geniale tra la ritrattistica di Lotto e quelle di Tiziano o di Savoldo, così come il ritrattino di Giovanni Mocenigo dove non si può reprimere l’entusiasmo che si racchiude ed esprime in una parola pericolosa: perfetto. I restauri che la mostra di Palazzo Ducale ha proposto sono forse il contributo più importante che questa occasione centenaria ci propone dopo le encomiabili sistematizzazioni operate sul materiale pittorico tintorettiano nel secondo Novecento dai lavori di Rodolfo Pallucchini e Paola Rossi: opere invisibili o faticosamente leggibili appaiono in tutto il loro splendore e in tutta la variegata ricchezza del loro “messaggio”; si veda il San Marziale
in gloria, il sublime ciclo mitologico di Palazzo Ducale, la Flagellazione di Praga, la Via Lattea di Londra, la Deposizione già nella Chiesa dell’Umiltà, citando a caso e disordinatamente. La fortunata e opportuna scelta di collocare la mostra a Palazzo Ducale ha consentito di assaporare l’aria tintorettiana in tutto questo straordinario contenitore, ed è certo un elemento non secondario e non di poco conto per contestualizzare un artista che deve essere poi visto e ritrovato in giro per le chiese e le Scuole sparse in città con le loro mirabolanti Ultime cene e le Crocifissioni, le Assunzioni e le Ascensioni, le Presentazioni al Tempio e le Circoncisioni, Vecchio e Nuovo Testamento, paesaggi, miracoli, pezzenti e Re Magi, inferno e paradiso e così via. Cioè il mondo luminoso e tenebroso, fantastico e reale di Jacopo Tintoretto.
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Libri e audiovisivi
Quindici tracce in più... CATALOGHI
GUIDE Il giovane Tintoretto, catalogo della mostra (Venezia, Gallerie dell’Accademia, 7 settembre 2018-6 gennaio 2019), a cura di Roberta Battaglia, Paola Marini, Vittoria Romani, Venezia,
Marsilio, 2018. Un volume completo e aggiornato sulla produzione giovanile di Tintoretto, che travalica la mostra e raccoglie studi inediti sulla formazione originale dell’artista. In particolare, mostra e catalogo indagano il modo in cui Tintoretto acquisì e trasformò i suoi modelli per sviluppare il suo stile innovativo e altamente personale. Jacopo Tintoretto, pittore veneziano (1519–1594), catalogo della mostra (Venezia, Palazzo Ducale, 7 settembre 2018-6 gennaio 2019), a cura di Robert Echols e Frederick Ilchman, Venezia, Marsilio, 2018. Oltre 150 opere – praticamente tutto il corpus conosciuto a oggi – e un completissimo nucleo di disegni costituiscono il punto di partenza attraverso cui viene costruito il racconto della vita di Tintoretto. Una vasta bibliografia aggiornata e una completa biografia chiudono il volume.
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Jacopo Tintoretto. Itinerari a Venezia, a cura di Thomas Dalla Costa, Robert Echols, Frederick Ilchman, Venezia, Marsilio, 2018. Diversamente dagli altri grandi artisti del Rinascimento veneziano, Tintoretto era nato a Venezia e più di ogni altro ha lasciato il suo segno in città. La guida è divisa per sestieri (i quartieri di Venezia) e gli itinerari includono oltre 120 opere descritte dai maggiori studiosi di arte Veneta, con particolare riferimento a commissioni, datazione, iconografia, conservazione e inquadramento nell’opera generale di Tintoretto.
STUDI Tintoretto. La Scuola Grande di San Rocco, Giandomenico Romanelli, Firenze, Mondadori Electa, 1994 Un volume che esplora la produzione più celebre e significativa di Tintoretto, realizzata presso la Scuola Grande di San Rocco a Venezia, che comprende i dipinti della sala superiore (storie dell’Antico e del Nuovo Testamento sul soffitto e sulle pareti) e della sala inferiore (storie dell’infanzia di Cristo, della vita della Vergine e le due immagini notturne delle sante penitenti Maria Maddalena e Maria Egiziaca).
Tintoretto e l’architettura, a cura di Gianmario Guidarelli e Marcel Grosso, Venezia, Marsilio, 2018. Studio completo e sistematico sul rapporto di Tintoretto con l’architettura e su quali fossero i contatti stabiliti dal pittore con gli architetti attivi a Venezia nel XVI secolo. Viene esplorata la relazione tra spazio dipinto e spazio fisico, tra il ruolo dell’architettura come elemento regolatore della composizione e la connessione originale tra lo spettatore e lo spazio in cui il lavoro è stato visto. Tintoretto. L’uomo, i documenti e la storia. 1519-1594, a cura di Andrea Erboso e Giovanna Giubbini, «Studi e Ricerche», Scuola Grande di San Rocco, Venezia, Marsilio, 2019. Jacopo Tintoretto, protagonista assoluto di questa ricerca, emerge in controluce, come un racconto di Italo Calvino, attraverso la scrittura “crittografica” delle tante notizie, spesso inedite, scovate dalla paziente indagine degli autori, svolta in una miriade di carte, documenti e scritture conservate nel tempo in diverse raccolte archivistiche di Venezia. Risalta in primo piano l’umanità dell’artista e cioè la sua vita, colta nei segni, nelle tracce, negli indizi che egli ha lasciato della sua lunga vicenda personale.
SAGGI Tintoretto. I temi religiosi, Augusto Gentili, Firenze, Giunti, 2006. Tra arte, storia e leggenda. La Scuola Grande di San Marco: vita, morte e miracoli del Santo patrono; Percorsi tematici nelle opere per le chiese veneziane; La scuola grande di San Rocco: allegoria e retorica; Tintoretto: il contesto, la religione, la cultura.
Tintoretto secondo John Ruskin. Un’antologia veneziana, a cura di Emma Sdegno, Venezia, Marsilio, 2018. Per Ruskin, alcune date hanno rappresentato punti di svolta nella sua vita lavorativa: il 23 settembre 1845 è una di queste. In alcune lettere scritte da Venezia a suo padre quell’autunno dichiara di essere “sopraffatto” dal potere di Tintoretto e di sentirsi chiamato a salvaguardare i suoi dipinti insieme al destino della città stessa. Con Modern Painters e Le pietre di Venezia Ruskin ha contribuito alla creazione della fama internazionale di Tintoretto e le sue “pagine” condizionano ancora oggi il nostro modo di considerare la sua pittura. Arte, fede e medicina nella Venezia del Tintoretto, a cura di Gabriele Matino e Cynthia Klestinec, Venezia, Marsilio, 2018. Un meraviglioso piccolo libro illustrato ricco di curiosità sul rapporto tra Tintoretto, il suo medico mecenate, Tommaso Rangone, e la Scuola di San Marco. Attingendo da documenti d’archivio, manoscritti illuminati, libri rari, stampe, medaglie, disegni e naturalmente dipinti, il libro esplora la rappresentazione del corpo umano nelle tradizioni artistiche e mediche, studi anatomici e credenze religiose nella cultura rinascimentale.
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Libri e audiovisivi
MONOGRAFIE Tintoretto, Rodolfo Pallucchini, Paola Rossi, 3 voll., Milano, Electa, 1994. Il primo e il secondo volume, dedicati alle opere di soggetto sacro e profano, sono costituiti da un saggio introduttivo di Rodolfo Pallucchini, una biografia supportata da documenti critici, e tre catalogazioni sistematiche: le opere tuttora esistenti, quelle di incerta o errata attribuzione e quelle andate perdute o disperse. Il terzo volume prende in esame i ritratti eseguiti dall’artista, che costituiscono un terzo della sua produzione complessiva. Partendo dalla catalogazione delle opere, Paola Rossi illustra l’evoluzione artistica del Tintoretto e passa in rassegna anche le opere eseguite dal figlio dell’artista e da altri pittori dello stesso atelier.
LETTURE Tintoretto o il sequestrato di Venezia, Jean-Paul Sartre, a cura di Fabrizio Scanzio, Milano, Marinotti, 2005. «Tintoretto è Venezia – scrive Sartre – anche se non dipinge Venezia». Questo libro raccoglie tutti gli scritti di Sartre sul Tintoretto. L’approccio alla materia è originalissimo: la storia della città e della società veneziana, i rapporti con gli altri pittori (Tiziano, Veronese) e con la pittura fiorentina ruotano attorno alla figura del Tintoretto, che Sartre definisce “braccato”, in continua lotta con se stesso e con la sua città.
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La lunga attesa dell’angelo, Melania G. Mazzucco, Milano, Rizzoli, 2008. In forma di romanzo, gli ultimi giorni di vita di Jacopo Robusti detto il Tintoretto, attraverso le parole che l’artista stesso rivolge a Dio durante la sua malattia. La febbre che lo divora, lo porta a vagare con la memoria nei meandri del suo passato, ricordando gli episodi che hanno segnato la sua vita. Il presente si confonde con il tempo del ricordo... Jacomo Tintoretto e i suoi figli. Storia di una famiglia veneziana, Melania G. Mazzucco, Milano, Rizzoli, 2015. Opera storicodocumentaria, frutto di oltre dieci anni di studi e ricerche, un vero e proprio monumento alla grandezza e alla complessità di un pittore immenso, inventore di sterminati teleri narrativi, affollati da centinaia di personaggi e animati da violenti chiaroscuri; un artista ambizioso e discusso, scorretto e devoto, colto e popolare, eccentrico e conformista, incalzato da un perenne furore creativo. In un confronto serrato con le sue opere, Mazzucco ricostruisce minuziosamente la vita del “più terribile cervello che abbia avuto mai la pittura”.
DOCUMENTARI Tintoretto: Artista del Rinascimento Veneziano di David Hammer (2018, 30’) Produzione Department of Exhibition Programs, National Gallery of Art, Washington; Carroll Moore. Con la consulenza scientifica di Frederick Ilchman e Robert Echols, curatori della mostra a Palazzo Ducale, e Susannah Rutherglen, ricercatrice associata della National Gallery of Art di Washington, è stato prodotto dal museo statunitense il documentario Tintoretto: Artista del Rinascimento Veneziano, trenta minuti di immersione totale nella straordinaria vita del Maestro del Cinquecento. Il documentario, doppiato dalle voci dell’attore americano Stanley Tucci per la versione inglese e del critico d’arte e storico Renato Miracco, per quella italiana, è il completamento del percorso espositivo proposto dalle mostre Tintoretto 1519–1594 a Palazzo Ducale e Il giovane Tintoretto alle Gallerie dell’Accademia di Venezia, attraverso la scoperta dei capolavori non esposti perché presenti, ancora oggi, nei luoghi per cui furono realizzati. Sarà dunque possibile muoversi con la lente della macchina da presa dalle sale espositive alla casa di Tintoretto alla Madonna dell’Orto, alla scoperta dei dipinti della chiesa stessa o del ciclo superbo della Scuola Grande di San Rocco e delle opere della basilica di San Giorgio Maggiore. Nel documentario anche brani di interviste a Gabriella Belli, Direttore della Fondazione Musei Civici di Venezia; Paola Marini, Direttore delle Gallerie dell’Accademia di Venezia; Maria Agnese Chiari della Scuola Grande di San Rocco; all’artista Jorge Pombo e ai co-curatori Robert Echols e Frederick Ilchman.
Tintoretto. Un ribelle a Venezia di Melania G. Mazzucco (2019, 95’) Produzione Sky Arte–Nexo Digital A distanza di 10 anni da La lunga attesa dell’angelo, Melania G. Mazzucco ha ideato e scritto il docu-film Tintoretto. Un Ribelle a Venezia, esclusiva produzione firmata Sky Arte e distribuita da Nexo Digital nell’ambito de La Grande Arte al Cinema. Con la voce narrante di Stefano Accorsi, il pubblico ripercorre la storia di un vero e proprio genio della pittura cinquecentesca, a mezzo secolo dalla sua nascita. La Venezia rinascimentale e i luoghi che conservano la memoria di Tintoretto, dall’Archivio di Stato a Palazzo Ducale, da Piazza San Marco alla Scuola Grande di San Rocco, emergono come protagonisti di un’esistenza carica di talento, vissuta dall’artista interamente nella sua città natale. Oltre alla partecipazione straordinaria del regista Peter Greenaway, la pellicola conta sulle preziose testimonianze – tra le altre – degli storici dell’arte Kate Bryan, Matteo Casini, Astrid Zenkert, Agnese Chiari Moretto Wiel, Michel Hochmann e delle restauratrici Sabina Vedovello e Irene Zuliani.
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Credits
Foto copertina © Ministero dei beni e delle attività culturali e del Turismo, Gallerie dell’Accademia, Venezia
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fig. 1 © Chiesa della Madonna dell’Orto © Patriarcato Venezia fig. 2 © Chiesa della Madonna dell’Orto © Patriarcato Venezia
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fig. 3 © Ministero dei beni e delle attività culturali e del Turismo, Gallerie dell’Accademia, Venezia fig. 4 © Ministero dei beni e delle attività culturali e del Turismo, Gallerie dell’Accademia, Venezia
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fig. 5 © Ministero dei beni e delle attività culturali e del Turismo, Gallerie dell’Accademia, Venezia
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fig. 8 © Kunsthistorisches Museum, Gemäldegalerie, Vienna
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fig. 9 © Chiesa di San Marcuola © Patriarcato Venezia fig. 10 © Chiesa di San Trovaso © Patriarcato Venezia fig. 11 © Chiesa di San Polo © Patriarcato Venezia
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fig. 12 © Scuola Grande di San Rocco, Venezia fig. 13 © Chiesa di San Giorgio Maggiore, Venezia
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fig. 14 © Scuola Grande di San Rocco, Venezia fig. 15 © Scuola Grande di San Rocco, Venezia
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fig. 16 © Scuola Grande di San Rocco, Venezia
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fig. 17 © Scuola Grande di San Rocco, Venezia
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fig. 18 © Fondazione Musei Civici di Venezia, foto Matteo De Fina fig. 19 © Wikimedia Commons (Public Domain)
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fig. 20 Chiesa della Madonna dell’Orto © Patriarcato Venezia
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fig. 21 © Ministero dei beni e delle attività culturali e del Turismo, Gallerie dell’Accademia, Venezia
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fig. 22 © Scuola Grande di San Rocco, Venezia
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fig. 23 © Scuola Grande di San Rocco, Venezia
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fig. 24 © Scuola Grande di San Rocco, Venezia
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fig. 25 © Scuola Grande di San Rocco, Venezia
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fig. 26 © Museo Civico di Palazzo Chiericati, Vicenza
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fig. 27 © Chiesa di San Lazzaro dei Mendicanti © Patriarcato Venezia fig. 28 © Chiesa di San Cassiano © Patriarcato Venezia
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fig. 29 © Kunsthistorisches Museum, Gemäldegalerie, Vienna
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fig. 30 © Kunsthistorisches Museum, Gemäldegalerie, Vienna
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fig. 31 © Chiesa di San Trovaso © Patriarcato Venezia
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fig. 32 © Chiesa di San Marcuola © Patriarcato Venezia
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fig. 33 © Chiesa di San Trovaso © Patriarcato Venezia fig. 34 © Chiesa di San Polo © Patriarcato Venezia
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fig. 35 © Scuola Grande di San Rocco, Venezia
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fig. 36 © Scuola Grande di San Rocco, Venezia
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fig. 37 © Scuola Grande di San Rocco, Venezia fig. 38 © Scuola Grande di San Rocco, Venezia
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fig. 39 © Scuola Grande di San Rocco, Venezia fig. 40 © Scuola Grande di San Rocco, Venezia
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fig. 41 © CBC
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fig. 42 © MAUVE Srl, foto Matteo De Fina
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fig. 44 © MAUVE Srl, foto Matteo De Fina fig. 45 © MAUVE Srl
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fig. 46 © Chiesa di San Silvestro © Patriarcato Venezia fig. 47 © Gabinetto dei Disegni e delle Stampe degli Uffizi, Firenze
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fig. 48 © MAUVE Srl, foto Matteo De Fina
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fig. 49 © Scuola Grande di San Rocco, Venezia fig. 50 © Scuola Grande di San Rocco, Venezia
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fig. 51 © Basilica di Santa Maria della Salute © Patriarcato Venezia fig. 52 © Fondazione Musei Civici di Venezia, foto Matteo De Fina
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fig. 53 © Scuola Grande di San Rocco, Venezia
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fig. 54 © Fondazione Emilio e Annabianca Vedova, Venezia fig. 55 © Wikimedia Commons (Public Domain)
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fig. 56 © Fondazione di Venezia fig. 57 © Scuola Grande di San Rocco, Venezia
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fig. 58 © Scuola Grande di San Rocco, Venezia fig. 59 © Museo Novecento, Firenze
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fig. 60 © Scuola Grande di San Rocco, Venezia
p. 120 fig. 61 © Wikimedia Commons (Public Domain) fig. 62 © Fabrizio Plessi p. 121 fig. 63 © Scuola Grande di San Rocco, Venezia p. 123 fig. 64 © Scuola Grande di San Rocco, Venezia p. 125 fig. 65 © Soprintendenza Speciale Archeologia, Belle Arti e Paesaggio, Roma, foto Fabio Caricchia fig. 66 © Scuola Grande di San Rocco, Venezia
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Ringraziamenti
Roberta Battaglia, Stefano Cecchetto, Matteo De Fina, Francesca Del Torre, Annamaria D’Ottavi, Augusto Gentili, Michela Luce, Stefania Mason, Melania G. Mazzucco, Fabrizio Plessi, Franco Posocco, Paolo Roma, Giandomenico Romanelli, Gianpaolo Scarante, Martina Serafin, Camillo Tonini, Sabina Vedovello, Mara Vittori, Diana Ziliotto, Irene Zuliani
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VENEZIA NEWS Mensile di cultura, spettacolo e tempo libero Direzione editoriale Massimo Bran Direzione organizzativa Paola Marchetti Relazioni esterne e coordinamento editoriale Mariachiara Marzari Redazione Chiara Sciascia, Davide Carbone Speciali Fabio Marzari Grafica Luca Zanatta Distribuzione Michele Negrisolo Traduzioni Andrea Falco
Venezia, Cannaregio 563/E tel. +39 041 2410133 redazione@venezianews.it www.venezianews.it
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Supplemento n. 2 al n. 240 di Dicembre/Gennaio 2020 del mensile di cultura e spettacolo Venezia News spedizione in A.P. 45% art. 2 comma 20/B - legge 662/96 - DCI-VE