Voci - Numero 2 Anno 6 - Amnesty International in Sicilia

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Umanità violata: storie di popoli perseguitati

LA PERSECUZIONE DEI ROHINGYA IN MYANMAR di Riccardo Noury

Rifugiati Rohingya in coda dopo essere sbarcati da una nave della Marina del Bangladesh sull’isola di Bashar Char. 4 Dicembre 2020 © STRINGER/AFP via Getty Images

La Lega nazionale per la democrazia di Aung San Suu Kyi ha vinto nettamente le elezioni parlamentari (cui non è dato sapere in quanti abbiano preso parte, dato che un terzo del paese è dilaniato da conflitti armati) svoltesi l’8 novembre in Myanmar. Anni fa, questa notizia sarebbe stata accolta con entusiasmo nel paese asiatico e non solo. Oggi che l’ex Nobel per la pace abbia visto confermata la sua leadership - s’intende, sempre sotto l’occhio vigile dei militari - non riscalda i cuori di nessuno. Men che mai, della minoranza rohingya. Per Suu Kyi, infatti, quella minoranza musulmana semplicemente non esiste nei discorsi ufficiali, intrisi di uno sconcertanze negazionismo sulla discriminazione e le sofferenze patite storicamente da un popolo cui è stata persino negato il diritto di cittadinanza: contadini immigrati dal Bangladesh e nulla di più. Questo insieme di negazioni, l’apartheid istituzionale che vige nello stato di Rakhine, il fondamentalismo buddista predicato dal “Venerabile W.” (il monaco predicatore d’odio Wirathu, fatto conoscere al mondo nel 2017 dall’omonimo film di Barbet Schroeder), spiegano le strategie di terra bruciata poste in essere dal 2015 dalle forze armate di Myanmar contro i rohingya. “Terra bruciata” non è una metafora, è la conseguenza reale di operazioni militari dal chiaro intento criminale: costringere i rohingya a fuggire dal paese. devastando, saccheggiando, incendiando, stuprando, uccidendo. L’intenzione è stata quasi conseguita: su poco più di un milione di persone, dal 2017 a più riprese circa 800.000 si sono rifugiate nel vicino Bangladesh. Voci - DICEMBRE 2020 N.2 / A.6

La vita nei campi rifugiati è stremante. I rohingya sono stipati in luoghi sovraffollati e insalubri, con l’imminente minaccia del Covid-19, con scarse possibilità di muoversi e, per i piccoli, di studiare. Per migliaia di essi si prospetta un’esistenza ancora più precaria. Nell’aprile 2020 sono iniziati i primi trasferimenti - di un gruppo di naufraghi salvati dalla Marina militare del Bangladesh - sull’isola di Bashar Char: un pezzettino di terra malamente emersa nel Golfo del Bengala, a costante rischio di inondazione e per questo disabitata e che è stata riconvertita in centro di accoglienza per i rifugiati rohingya. Nel corso degli ultimi due anni, si è parlato più volte di accordi tra Bangladesh e Myanmar per il progressivo rimpatrio dei rifugiati: uno scenario impossibile perché le terre dei rohingya non ci sono più e quei pochi che non sono fuggiti vivono in una sorta di prigione a cielo aperto, con poca libertà di movimento e scarso accesso ai servizi fondamentali, come quelli di salute pubblica. Sui gravi crimini commessi ai danni dei rohingya la giustizia internazionale è al lavoro: la Corte internazionale di giustizia ha ricevuto un anno fa una denuncia dal Gambia (e anche in quel caso, Suu Kyi, intervenuta a difendere l’operato del suo governo, non ha fatto esattamente una bella figura) mentre un’indagine è stata aperta anche dal Tribunale penale internazionale.

Riccardo Noury Portavoce di Amnesty International Italia

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