Energia • Zeta Numero 1 | Gennaio 2023

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Energia Periodico della Scuola
Numero 1 Gennaio 2023 La guerra dell’elettricità 37 La danza luminosa di Fuller 6 46 La scelta di Oppenheimer 12 Piombino e il rigassificatore 48 Formula E
Superiore di Giornalismo “Massimo Baldini”

Italian Digital Media Observatory

Partner: Luiss Data Lab, RAI, TIM, Gruppo GEDI, La Repubblica, Università di Roma Tor Vergata, T6 Ecosystems, ZetaLuiss, NewsGuard, Pagella Politica, Harvard Kennedy School, Ministero degli Esteri, Alliance of Democracies Foundation, Corriere della Sera, Reporters Sans Frontières, MediaFutures, European Digital Media Observatory, The European House Ambrosetti, Catchy

Olexandra Matviichuk– Centro di Cooperazione Internazionale per le Libertà Civili, Nobel Peace Prize 2022

La parola

Coverstory

Vite al buio, la guerra dell’elettricità di Luisa Barone

Archimede esiste e vive a Viganella di Niccolò Ferrero

Hyperloop, la capsula a levitazione di Yamila Ammirata

Italia

Piombino e la nave nebulosa di Leonardo Pini

Se il Sud Italia guarda il mare di Francesco Di Blasi

«Energia rinnovabile» contro il racket di Enzo Panizio

L’energia del vulcano diventa arte di Maria Teresa Lacroce

Giustizia

«Il giorno dell’ira di Dio in terra» di Dario Artale

Disfunzioni familiari e crimini violenti di Silvia Morrone

Esteri

Conflitto congelato in Kosovo di Beatrice Offidani

Scudo italiano per i cieli di Kiev di Silvano D’Angelo

Il rapimento della gioventù di Martina Ucci

Photogallery

Il chiaroscuro del destino della cultura di Giorgia Verna

Ambiente

Il circolo vizioso dello sci d’alpinismo di Giorgio Brugnoli

L’Antica Roma salverà l’ambiente di Giulia Moretti

Il futuro della Terra è più green di Claudia Bisio

Cultura

Tra creazione e distruzione di Federica De Lillis

La danza luminosa di Loie Fuller di Silvia Andreozzi

Il corpo vibrante della musica di Alissa Balocco

Figli delle stelle di Elena Pomè

L’Energia delle pietre di Giorgia Verna

Non solo sesso, il Tantra è molto di più di Silvia Stellacci

Il Colpo di fulmine di Caterina Di Terlizzi

Alta Tensione di Ludovica Esposito

Spettacoli

Il tempo è energia di Valeria Verbaro

Il “nonno” della bomba atomica di Lorenzo Sangermano

Sport

Rivoluzione nella Formula E di Elena La Stella

La scienza ha cambiato il Surf di Leonardo Aresi

Il Pickleball alla conquista dell’Italia di Antonio Cefalù

Le guide di Zeta

Greenfluencer di Federica De Lillis

Parole e immagini

The Pale Blue Eye di Silvia Pollice

Energia

L’energia, scossa vitale che eccita l’universo, percorre inarrestabile lo spazio e il tempo. Nel tentativo di strappare la maschera all’inafferrabile grandezza, il filosofo greco Aristotele ha riconosciuto nel tutto l’unione indissolubile di due forze: la dynamis, la potenza, e l’energheia, l’atto, che amalgamate concepiscono il cambiamento, portano in grembo l’evoluzione e danno alla luce la trasformazione dalla mera possibilità all’esplicazione di sé. Il flusso di forza primordiale sfreccia e vira nella materia, freme nella forma e scuote la natura. L’energia, ha osservato il fisico Premio Nobel Richard Feynman, cambia volto, ma conserva l’impeto. Così le bombe del conflitto in Ucraina, scagliate su case inermi, deflagrano in un’onda di buio e oscurano le luci, ma tra le stanze cementate di ombre respirano ancora spiragli di futuro. Nel domani, l’energia sprigiona l’immaginazione: nelle prossime città inventa treni supersonici, e intrisa di vento e di sole accudisce l’ambiente ferito, mortificata dalle fredde nudità delle montagne depredate delle nevi. Ecco, allora, nascere altra energia: dalle alture le voci degli scialpinisti smarriti tra i prati vorticano fino alle acque del porto di Piombino,

increspate di rabbia per il rigassificatore dei combustibili fossili, poi fendono la tensione del Kosovo, inchiodata nelle memorie dei figli della guerra, e squarciano le vetrine dei negozi di Palermo, afflitte dalle minacce silenziose della mafia. Nel ventre della Sicilia palpita anche la lava di Stromboli, il vulcano che forgia le pietre nere reincarnate nelle sculture di Salvatore e che vibra sulle stesse frequenze telluriche della musica rave. Dai profani raduni giovanili l’energia dell’arte scivola tra le dita delle danzatrici indiane, fremiti di antiche divinità, e sulle ali di farfalla iridescenti di Loïe Fuller, la ballerina amica dei coniugi Curie. Dalla radioattività alla bomba nucleare, i pulviscoli di energia fluttuano tra i dubbi del fisico Robert Oppenheimer, poi schizzano tra gli enigmi dei pianeti decifrati dagli astrologi, e infine colpiti dalle frecce di Cupido sprofondano in orgasmi spirituali tra anime affini. «Se un figlio si accorgesse che per caso è nato fra migliaia di occasioni, capirebbe tutti i sogni che la vita dà» cantava Franco Battiato in un brano del 1972, intitolato proprio Energia. Impercettibile, indefinita, sfuggente, l’energia forse non è altro che l’onda continua dell’esistenza affacciata, in tutte le sue sfumature, sul divenire.

Alissa Balocco

Ludovica Esposito

Maria Teresa Lacroce

Beatrice Offidani

Valeria Verbaro

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A cura di Silvia Andreozzi Periodico della Scuola Superiore di Giornalismo “Massimo Baldini”
ZETA Periodico
Superiore di
“Massimo
supplemento di Reporter
Registrazione Reg tribunale di
n. 15/08 del 21/01/2008
Numero 1 Gennaio 2023 della Scuola
Giornalismo
Baldini”
Nuovo
Roma
Direttore responsabile Gianni Riotta Condirettori Giorgio Casadio Alberto Flores d’Arcais
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Elena Pomè Redazione Viale Pola, 12 – 00198 Roma Stampa Centro riproduzione dell’Università

ENERGIA

LA PAROLA

Energia s. f. [dal lat. tardo energīa]

Vigore fisico, spec. dei nervi e dei muscoli, potenza attiva dell’organismo. Fermezza di carattere e risolutezza nell’azione. In fisica, energia di un sistema, l’attitudine del sistema a compiere un lavoro.

RELAZIONALE AMBIENTALE

Dall'energia dipende il funzionamento quotidiano della maggior parte degli strumenti. La guerra in Ucraina e il cambiamento climatico ne hanno reso indispensabile un cambiamento, che sia ecologico e sostenibile.

SPIRITUALE

Dal corpo alla mente, l'energia tratteggia un aspetto fondamentale della psiche. Riti, tradizioni e sperimentazioni ne permettono la ricerca e l'accumulo. Tra chackra e Tantra, l'energia può trascendere i limiti fisici e influenzare il destino.

Dall'incontro di due elementi, l'energia si crea e si sprigiona nella loro relazione. Un bacio, un incidente. Nel loro faccia a faccia, gli attori si conoscono proprio in virtù della loro energia e della gerarchia che è in grado di creare.

FISICA

L'energia crea e distrugge. Il suo utilizzo fonde i metalli e crea organismi e nuove forme di vita. Il suo sprigionamento, dalla semplice potenza di una caloria, è in grado di radere al suolo un'intera città.

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Nessuno si rende conto che certe persone spendono una quantità incredibile di energia solo per essere normali

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ALBERT CAMUS

Vite al buio La guerra dell’elettricità

Il racconto della quotidianità di Olena e Mira, che tutti i giorni devono fare i conti con i blackout causati dagli attacchi russi

«È la strategia dei russi: fare in modo che questa guerra sia sentita da tutti». Olena è una giovane donna, capo del Centro Anticorruzione con sede a Kiev e anche se spesso in viaggio, si è trovata nella capitale ucraina durante alcuni tra i più intensi attacchi missilistici che hanno colpito il cuore del Paese. Quella condotta da Putin è una guerra su tutti i fronti, così che «chiunque ne avverta la sofferenza».

Secondo questa logica, le regioni occidentali sono le più colpite «semplicemente perché più lontane dal campo di battaglia», e così i massicci bombardamenti prendono di mira le centrali elettriche. Gli allarmi antiaereo risuonano assordanti in tutta la città, la linea telefonica dei cellulari si interrompe e diventa impossibile mettersi in contatto con gli altri o controllare gli aggiornamenti delle notizie. Così iniziano i blackout per cinque, sei, anche sette ore durante i quali non è detto che l’elettricità sia l’unica a

mancare. Se specificamente colpite, si interrompono anche la fornitura di acqua corrente e il riscaldamento. Così, per fare luce nelle case fredde e buie, sui davanzali delle finestre si accendono le candele e «gli ucraini fanno miracoli».

Mira ha 20 anni e vive da sola in un appartamento a Lviv, nella parte occidentale dell’Ucraina. È una studentessa della facoltà di lingue per diventare interprete, mentre lavora come tutor per aiutare bambini e adulti alle prese con le traduzioni. «Per gli studenti e chi lavora da remoto le condizioni sono difficili» racconta al telefono. Quando il lavoro dipende dall’elettricità, fare il proprio mestiere può diventare una vera e propria sfida «considerando che non tutti possono permettersi di acquistare generatori elettrici da tenere in casa». Gli studenti seguono le lezioni on-line, al riparo nei loro appartamenti, ma sono diversi gli ostacoli all’ordine del giorno: «Riuscire a contattare i professori, lavorare sui

di Luisa Barone
LUCE Coverstory 6 — Zeta

progetti, seguire i workshop è diventato estremamente complicato. Andiamo nei cafés dove è possibile ricaricare i dispositivi elettronici e magari studiare per passare un esame». I problemi da affrontare ogni giorno rimangono comunque molti, per tutti.

Come i commercianti di piccole e medie imprese in crisi, alle prese con la sopravvivenza delle aziende legata unicamente all’acquisto dei generatori. Ma le difficoltà coinvolgono tutti gli aspetti della vita e anche le attività quotidiane diventano un problema se svolte in totale assenza di elettricità. Mira racconta dei suoi nonni, che come tanti anziani in tutto il paese, ogni giorno si trovano a dover salire lunghe rampe di scale per arrivare nelle loro case, a volte di ritorno dal supermercato con una spesa pesante, altre con le casse d’acqua per farne la scorta. Anche camminare per strada è diventato più rischioso: nelle strade buie dove il più delle volte i lampioni sono oramai solo ornamentali, il numero di incidenti è in forte aumento.

Novità con cui fare i conti in una riscoperta normalità, che però non attecchisce. Mira parla a nome di tutti i giovani ucraini quando dice: «Siamo stanchi di tutto questo». Ai danni materiali vanno aggiunti quelli psicologici, tenendo conto del disagio di una vita che segue la programmazione giornaliera dei tagli di elet-

tricità. Se inizialmente le centrali elettriche chiedevano di ridurre il consumo di energia per avere la possibilità di riparare gli eventuali danni causati dai missili senza sovraccaricare le infrastrutture, ora invece interrompono la fornitura di corrente regolarmente durante il giorno. Gli effetti di una vita più dura si riflettono nelle parole di Mira: «La nostra giornata è programmata. Ogni mattina controllo il timetable e mi organizzo di conseguenza per sapere cosa posso fare e quando». Lavorando a stretto contatto con le persone, seppur in modalità virtuale, per lei come tanti altri il peso di questa situazione è duplice, dovendo tenere conto dei cut-off

in programma a Lviv e quelli delle città da dove si connettono i suoi clienti. «Ma l’importante adesso è che siamo vivi. In questo buio, la luce è nello spirito degli ucraini». È nei momenti in cui manca l'elettricità che Mira e i suoi amici hanno riscoperto quanto sentirsi connessi e stare insieme agli altri dia loro forza. Solo alla fine della telefonata confessa che un blackout è in corso proprio mentre parla, e risponde con semplicità quando le viene chiesto cosa farà dopo, senza corrente: «Accenderò le candele e credo che per un po’ leggerò il mio libro. Più tardi poi chiamerò i miei amici, che come me sono rimasti senza luce». ■

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Archimede esiste e vive a Viganella

In Piemonte c’è una valle dove non batte mai il sole e uno specchio che lo riporta agli abitanti

«Nessuno ci credeva, così mi sono caricato uno specchio grande un metro sulle spalle, sono salito in cima alla montagna e ho riflesso i raggi del sole sulla piazza del mio paese» dice Franco Midali, ex sindaco di Viganella, un borgo piemontese di 200 abitanti al confine con la Svizzera.

Il paese si trova in una valle profonda, la Valle Antrona, ed è sovrastato dalle montagne circostanti, per cui il sole sparisce a inizio novembre e spunta di nuovo solo a febbraio.

I primi insediamenti, secondo gli archivi storici, risalgono già al XIII secolo: la popolazione locale ha quindi passato più di 800 inverni al buio. Per generazioni, gli abitanti hanno visto il sole tramontare l’ultima volta l’11 novembre e l’hanno visto tornare a illuminare i tetti del paese solo il 2 febbraio, giorno in cui, sulla scia di antichi riti pagani, ancora oggi tutta la comunità celebra il ritorno della luce. È la festa della Candelora: si porta in chiesa un pino alto più di otto metri addobbato con formaggi e salumi

locali. L’albero viene poi tagliato in piccoli rami, ogni paesano ne prende uno e lo tiene appeso alla facciata di casa finché l’ultimo ago di pino cade.

Come molte valli alpine lontane dalle città, nel corso del Novecento Viganella ha sofferto un forte spopolamento, la posizione poco fortunata e gli inverni bui non hanno aiutato.

Si tratterebbe solo di una curiosità geografica, se non fosse stato per l’intuizione dell’allora sindaco Midali: «Volevo valorizzare la piazza del paese, così ho chiesto all’architetto Giacomo Bonzani di disegnare una meridiana sulla chiesa. Gli ho detto però di lasciare una linea spezzata, per segnalare che d’inverno la meridiana non poteva funzionare perché il sole non c’era. Lui mi ha guardato stupito e allora gli ho detto scherzando: ‘Studia qualcosa e porta il sole qui’».

Nasce così un’idea folle: installare su uno dei picchi che sovrastano le case un enorme specchio col quale riflettere la luce del sole sul paese.

di Niccolò Ferrero
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Non tutti i paesani sono convinti. È un’operazione costosa per un piccolo borgo che da più di 800 anni è abituato a convivere con l’ombra. Per attivare la vitamina D i contadini organizzano delle passeggiate sulla montagna di fronte, così come i bambini, percorrendo il tragitto dalla scuola al paese, prendono una deviazione che gli permette di passare qualche minuto al sole.

Midali contatta l’ingegnere Emilio Barlocco, che mette a disposizione il brevetto degli specchi che illuminano l’imbocco delle gallerie sull’autostrada Torino-Savona per evitare l’effetto buio prima che la pupilla si adatti. Midali fa trasportare in elicottero uno specchio di 40 metri quadrati e pesante undici quintali. Lo posiziona sulla montagna e con l’aiuto di Barlocco elabora un sistema computerizzato che permette allo specchio di ruotare seguendo il percorso del sole.

smo locale o su una casa in festa. Grazie a questa intuizione Viganella, che non era conosciuta nemmeno nella provincia, è andata in onda sulla rete araba Al Jazeera, è stata citata dalla Nasa e dall’agenzia spaziale russa, che ha voluto sottolineare il primato sull’uso degli specchi riflettenti per accecare i satelliti nemici. «Se è per questo li aveva già usati Archimede per bruciare le navi romane nel porto di Siracusa» risponde Midali ai russi. Lo specchio diventa così la soluzione tecnica a un problema sociale. Da questo scaturisce una nomination al World Technology Award di New York per il design tecnologico. Molti critici di arte contemporanea si chiedono se lo specchio di Viganella possa essere considerato un’opera d’arte pubblica. Sorge immediato il riferimento all’opera The Sun di Olafur Eliasson: un grande sole artificiale che, secondo molti esperti, ha creato un nuovo modo di percepire l’arte contemporanea. Il sole di Vi-

ganella è un’opera d’arte involontaria, in cui non c’è l'intenzionalità artistica, ma piuttosto un problema da risolvere.

Lo specchio è stato “copiato” per illuminare altri paesi senza sole in giro per il mondo, dalla Norvegia all’Alaska. Centinaia di turisti si recano ogni anno a Viganella per ammirarlo. Un tentativo «di creare un nuovo indotto» dice Midali: «per evitare lo spopolamento dei borghi alpini bisogna creare una nuova economia e tutelare chi li abita, per esempio con sgravi fiscali».

Intanto sul tetto della chiesa di Viganella qualcuno ha posizionato un insolito specchietto rotondo di una vecchia Vespa. In alcune ore del giorno, mentre l’interno della chiesa è buio, un raggio di sole riflesso si posa sul costato insanguinato del Cristo. Un gioco di riflessi, un uso artistico della luce. ■

Lo specchio, inaugurato il 17 dicembre 2006, riflette i raggi solari per sei ore al giorno in fondo alla valle. Se gli abitanti delle case mettono uno specchio sulla loro finestra possono riflettere i raggi all’interno dell’abitazione, in ogni caso non sono costretti a tenere le luci accese anche di giorno. «Il più fortunato – ricorda Midali – è il farmacista del paese che ha la casa dietro il campanile, si trova nella direttrice della luce e lo specchio gli illumina la cucina».

Attivo soltanto nel periodo in cui Viganella entra nel suo stato di perenne penombra, nel resto dell’anno lo specchio viene coperto e mimetizzato, fino all’11 novembre successivo. Il software permette inoltre di decidere dove far arrivare i raggi riflessi. Quando il paese ospita un evento speciale, come un matrimonio, i raggi solari vengono diretti sull’agrituri-

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«Quando ho chiesto all’architetto Giacomo Bonzani di disegnare una meridiana che si interrompesse nei mesi invernali lui mi ha guardato stupito. Allora gli ho detto scherzando: ‘ Studia qualcosa e porta il sole qui’»
1. Il sole sulla sommità della montagna a Viganella
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2. The Sun Olafur Eliasson,Tate Modern 2004

Hyperloop, la capsula a levitazione

In Italia e nel mondo si sta lavorando al progetto che punta a ridurre il tempo di percorrenza dei viaggi, le emissioni di carbonio e la congestione del traffico

TRASPORTI

Una capsula che trasporta persone e merci e levita all’interno di un tubo senza attrito. Questo è il progetto Hyperloop, che ha l’obiettivo di rivoluzionare il sistema dei trasporti.

Il concetto nasce nel 2013 quando l’imprenditore tech Elon Musk pubblica un white paper. Hyperloop Transportation Technologies, fondata nello stesso anno dall’italiano Gabriele Bibop Gresta, lavora attraverso il modello di crowdfunding. Ottocento ingegneri, esperti di tecnologie e creativi provenienti da 40 Paesi diversi si sono riuniti per contribuire allo sviluppo della mobilità.

dell’alluminio e dieci volte più dell’acciaio, il vibranium, che ha la caratteristica di monitorare in tempo reale la velocità, l’integrità della capsula e le condizioni atmosferiche.

La start up Hyperloop Italia è la prima società al mondo che detiene la licenza in esclusiva del progetto Hyperloop nel territorio italiano. Il team sta lavorando sulla fattibilità tecnica per garantire la realizzazione e l’implementazione commerciale. Uno studio viene condotto sulla linea Milano Malpensa-Cadorna, che dovrebbe comportare un risparmio del viaggio dagli attuali 43 minuti a 10 minuti.

Il sistema di propulsione dell’Hyperloop viene generato da un motore elettrico lineare alimentato da energie rinnovabili e ridistribuisce l’energia che non viene utilizzata. La levitazione magnetica risulta eco-sostenibile, consuma meno energia di quella che produce e non provoca emissioni. Il team ha creato un nuovo materiale otto volte più flessibile

Il Ceo Gresta ha dichiarato: «Sembrava fantascienza e ora diventa realtà. Hyperloop non è il nuovo treno più veloce al mondo, bensì una capsula supersonica ideata e progettata dai migliori specialisti del pianeta. L’evoluzione del trasporto prenderà forma entro questo decennio». Il progetto comprende un

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tubo con un diametro di quattro metri, la capsula, invece, ha un diametro di 2,7 metri, una lunghezza di 30 metri, un peso complessivo di 20 tonnellate e prevede la capacità di 28-40 passeggeri. Il sistema di due tubi consente il trasporto da un punto all’altro a una velocità massima di 1.223 km/h, contro gli 800 km/h di media degli aerei. Calcolando una partenza ogni 40 secondi, si prevedono ogni giorno 164mila passeggeri e 4.100 cargo.

il mondo, tra cui i principali sono Virgin Hyperloop e Hardt Hyperloop. I primi sistemi hanno iniziato a essere testati su percorsi brevi, con l’obiettivo di arrivare a sistemi funzionanti che colleghino le principali città.

In Francia, a Tolosa, vi è il centro di ricerca e sviluppo di HyperloopTT. All’interno dell’ex aeroporto militare di Francazal sono stati costruiti 320 metri di tubo necessari alla sperimentazione. Uno dei vantaggi principali dell’Hyperloop è il suo potenziale di ridurre i tempi di viaggio tra le città. Ad esempio, lo spostamento da Los Angeles a San Francisco, che oggi richiede circa sei ore in auto, potrebbe essere completato in soli 30 minuti. Questo riduce le emissioni di carbonio e rende i viaggi più convenienti ed efficienti.

Oltre all’HyperloppTT esistono alcuni progetti in fase di sviluppo in tutto

In Italia sono diverse le aziende e organizzazioni che hanno mostrato interesse per questa tecnologia. Nel 2019 la società italiana di infrastrutture ItalCertifer ha firmato un protocollo d’intesa con la società Hardt Hyperloop, che ha sede nei Paesi Bassi. Si mira a collaborare sullo studio di fattibilità tecnica ed economica dell’Hyperloop in Italia e in Europa e allo sviluppo standard di sicurezza e certificazione per i sistemi. Nel 2020 il ministero dei Trasporti italiano e la Regione Umbria hanno firmato un’intesa per studiare un collegamento tra Perugia e Roma. Questa iniziativa vuole ridurre il tempo di viaggio tra le due città da circa tre ore di auto a circa 20 minuti.

Le grandi città italiane, come Roma, Milano e Napoli, ancora oggi non sono ben collegate dall’alta velocità e questa situazione potrebbe migliorare grazie all’Hyperloop. Ciò ridurrebbe di molto i tempi di percorrenza e faciliterebbe gli spostamenti per lavoro e per svago. Al

momento non esiste ancora un sistema commerciale in funzione, quindi è difficile dire quanto tempo impiegherebbe un viaggio tra Roma e Milano. In base alle velocità previste da alcune aziende, è possibile che possa durare all’incirca 30 minuti. Hyperloop potrebbe anche migliorare la logistica del Paese a livello ambientale collegando porti e aeroporti.

Vi sono, però, sfide importanti da superare prima che questo diventi realtà. Una delle più grandi è il costo elevato della costruzione dell’infrastruttura necessaria. Un’altra è rappresentata dal quadro normativo e legale, che deve essere sviluppato per garantire l’affidabilità della tecnologia, che dovrebbe essere testata e provata a fondo prima di poter essere utilizzata per il trasporto dei passeggeri. Nonostante gli ostacoli, molti esperti ritengono che Hyperloop possa avere un ruolo primario nel plasmare il futuro del settore. Con una ricerca e uno sviluppo continui e con gli investimenti giusti potrebbe presto diventare una modalità di trasporto e rimodellare il modo di viaggiare.

Hyperloop sembra essere una soluzione green e sicura al traffico, all’inquinamento e alle lunghe distanze. ■

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«Sembrava fantascienza e ora diventa realtà. Hyperloop non è il nuovo treno più veloce al mondo, bensì una capsula supersonica ideata e progettata dai migliori specialisti del pianeta.
L’evoluzione del trasporto prenderà forma entro questo decennio»

Piombino e la nave nebulosa

Traghetti diretti in Corsica, Sardegna e Isola d’Elba, turisti che partono pallidi e rientrano abbronzati, locali che fanno il bagno e terminano la giornata con un aperitivo al tramonto. Sullo sfondo una delle industrie pesanti più efficienti d’Italia. Piombino, lo snodo portuale più importante della costa toscana, è abituata a vivere la dicotomia tra l’industria e il turismo di passaggio, tra le tute blu invernali e il costume da bagno non appena arriva la primavera. C’è una nave, però, che i piombinesi non vorrebbero che attraccasse in porto.

Un gigante fatto di tubi e alluminio che presto potrebbe prendere possesso della banchina est del porto. Il nome è Golar Tundra, la nuova nave rigassificatrice di SNAM, ed è stata al centro della campagna elettorale, prima che caroselli e congressi risucchiassero l’attenzione

della politica. Nonostante questo, il dissenso a Piombino rimane alto. Portato avanti dalla giunta guidata da Francesco Ferrari (FdI) e da cittadini comuni, che si sono organizzati in una rete contro il rigassificatore e contro i depositi di GNL (gas naturale liquefatto). Hanno deciso in una riunione, tenutasi il 17 gennaio, di fissare una manifestazione nazionale che avverrà a qualche giorno di distanza dall’udienza che il Tar del Lazio terrà in merito alla questione.

Come siamo arrivati a Piombino

Il primo giugno 2022 SNAM acquista la Golar Tundra, costruita nel 2015 e capace di stoccare fino a 170.000 metri cubi di gas naturale liquefatto. «La rigassificazione consiste nel rendere di nuovo gassoso un gas che è stato liquefatto. All’origine si trova allo stato gassoso,

Italia
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di Leonardo Pini La Golar Tundra potrebbe attraccare in porto. Politica e società civile protestano
GAS NATURALE

per trasportarlo su lunghe distanze viene liquefatto per poi renderlo di nuovo gassoso a una temperatura criogenica di -162°C». Il professor Giuseppe Manfrida, docente di energia industriale all’Università di Firenze e attento fin da subito alla questione Piombino, spiega così il processo di rigassificazione.

Per il governo Draghi, la nave rigassificatrice diventa un’opera chiave da affiancare agli altri rigassificatori on shore già esistenti. Dopo l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia e i nuovi contratti firmati, in particolare con l’Algeria, serve che l’Italia riesca ad essere quanto più indipendente possibile. La Golar Tundra, nelle idee del governo, permette flessibilità. Infatti, la metaniera dovrebbe rimanere a Piombino per soli tre anni prima di essere spostata altrove, con Ravenna e Civitavecchia candidate per accogliere la nave.

Fin da subito la SNAM sostiene che l’imbarcazione deve attraccare «in un porto del centro-nord» per sfruttare a pieno la capacità dell’impianto e perché sia collegato alle zone d’Italia che per motivi industriali e climatici consumano una maggiore quantità di gas. Per velocizzare il progetto l’esecutivo di Mario Draghi, sostenuto dall’amministrazione regionale, elimina le valutazioni d’impatto ambientale e riduce i tempi delle procedure amministrative. La giunta di Piombino protesta per i rischi che la struttura si porta dietro: «I rischi ci sono come in tutte le aree portuali dove c’è dello stoccaggio combustibili, in particolare per il movimento che la nave ha in mare. Tuttavia, sono rischi gestibili. Non è l’unico cargo contenente materiale pericoloso che transita per l’Italia».

La transizione ecologica

È vero: un impianto che, con la crisi climatica di cui si vedono gli effetti quotidianamente, aumenta la dipendenza italiana al fossile è una scelta anacronistica, ma il taglio sul fossile è ancora impensabile per alcune aziende italiane, spiega il professor Manfrida: «Lasciare il gas può essere una soluzione per gli utenti finali, per i cittadini che possono decidere di riscaldare le proprie case utilizzando altre fonti di energia. Già questo taglierebbe il consumo di gas del 30%. Per molti settori industriali, il gas è ancora centrale. Questo perché i processi industriali si svolgono a temperature che non sono sostenuta dall’energia elettrica o dalle rinnovabili».I tre rigassificatori esistenti in Italia ad oggi, Piombino sarà il quarto, «non hanno mai lavorato a piena capaci-

tà. Lo fanno solo da un anno per supplire ai mancati arrivi dalla Russia». Ma quindi: è una soluzione lungimirante? «È una soluzione tampone, non si stanno facendo passi avanti a livello tecnologico. Non sono un fan del rigassificatore perché è molto costoso liquefare il gas e nella liquefazione se ne perde circa il 10%. Ci sono sistemi più avanzati per recuperare quel gas, oppure come stanno facendo in Corea del Sud c’è la possibilità di affiancare alle navi anche lo sviluppo dell’idrogeno come fonte di energia» spiega Manfrida.

Politica e società civile

A livello politico la convergenza per dire «no» al rigassificatore di Piombino è di colore rossobruno. Fratelli d’Italia e Sinistra Italiana, sul territorio, si sono opposte fin da subito al progetto del governo Draghi. Gli unici a favore con iniziative e conferenze sono stati i delegati del Terzo Polo. Francesco Ferrari dopo che il Tar ha autorizzato l’attracco in porto ha deciso di impugnare la sentenza, creando problemi a Giorgia Meloni che sull’argomento non ha mai preso posizione chiaramente. In questo senso la decisione della Regione Toscana e del Tar le sono andate in soccorso per non affron-

tare la questione sul territorio. «Il Comitato Salute Pubblica di Piombino non si arrende, continua la lotta democratica e pacifica contro l'installazione nel piccolo porto cittadino della Golar Tundra». Inizia così il post sulla pagina Facebook dell’organizzazione, che raccoglie al suo interno la società civile piombinese, che si oppone all’arrivo della nave sulla Costa degli Etruschi. «Il TAR ha ravvisato per il momento che non vi sia pericolo, poiché la nave non è in porto e che i lavori in corso non rechino pregiudizio alla salute e all’ambiente, respingendo l’istanza sospensiva».

Negli altri paesi europei progetti del genere sono tollerati dalla cittadinanza, basti pensare a Barcellona, che nel suo porto ha installato uno dei più grandi rigassificatori d’Europa: «Qualora si decidesse di sospendere il progetto, il gas arriverebbe da Barcellona. Niente transizione ecologica, ma ci si indignerebbe meno perché i tubi sottomarini non si vedono».

Il 2023 sarà l’anno delle decisioni irrimandabili per la cittadina toscana. Intanto, il futuro del rigassificatore di Piombino fluttua nell’aria e avvolge tutto il resto in una nebulosa ■

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Se il Sud Italia guarda il mare

Il meridione vive un nuovo protagonismo come produttore di energia pulita e piattaforma di collegamento tra Africa ed Europa. La sua posizione strategica, però, non basta: serve una nuova politica industriale

MEDITERRANEO

Provate a ribaltare di 180° la cartina geografica europea e a osservare il mondo visto dal Sud Italia. Vi trovereste nel punto privilegiato da cui guardare il mar Mediterraneo e le sue coste, dallo stretto di Gibilterra fino ad Alessandria d’Egitto.

Il ponte tra Europa e Africa

Se si confrontano i principali attori del bacino mediterraneo, il Sud, inteso come macroarea, ha le caratteristiche per diventare il baricentro del mercato dell’energia euro-africano. Lo sostiene un’analisi socio-economica del think thank “The European House - Ambrosetti” che cambia la prospettiva con cui tendiamo a pensare il Sud. Non più periferia europea, ma centro attrattivo del Mediterraneo. Dopo aver perso la sua importanza con la scoperta delle Americhe e l’inizio delle tratte oceaniche, il Mediterraneo sta ritrovando una nuova centralità a causa del crescente scambio commerciale tra Europa e Asia che passa per le sue acque. Non solo, pur rappresentando solo l’1 per cento delle acque globali la sua economia accoglie il 15,5% della popolazione globale e il 14,5% del Pil.

«Il Sud ha le caratteristiche per affermarsi come hub energetico del Mediterraneo, connettendo la sponda sud con l'Europa per il trasporto di energia e assumendo la leadership nella produzione di energia pulita, nel contesto di una strategia energetica regionale di contrasto al cambiamento climatico. Per far ciò è necessario che l’Italia porti avanti sia un'agenda industriale interna, sia un'agenda diplomatica con i Paesi che si affacciano sulla sponda nord dell'Africa», dice Cetti Laudeda, Head of Scenario Sud Practice della European House - Ambrosetti.

La vocazione del Sud ad affermarsi come ponte energetico tra Europa e Sud Mediterraneo è tale grazie ai gasdotti e alle tratte marittime che su esso convergono. L’Italia intercetta i flussi di gas dall’Asia e dal Nord Africa e può contare sulla rete infrastrutturale meglio collegata al resto d’Europa tra i Paesi mediterranei. La propensione del Sud di intercettare i flussi di energia è però ostacolata dalla man-

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Italia

canza di rigassificatori (impianti per la conversione di gas liquido in gas naturale) sulle nostre coste. Le navi che trasportano gas dall’Asia sfiorano le zone costiere del Sud Italia e, in mancanza di porti, tirano dritte verso la Spagna (che ha il 35% dei rigassificatori in Europa).

«In uno scenario in cui gran parte dell'energia che serve al Paese passerà dal mare bisogna dotare i porti di infrastrutture per ricevere energia e trasportarla tramite la rete ferroviaria. Oggi nel Meridione non esistono rigassificatori e solo 8 porti su 32 sono collegati alle ferrovie» dice Laudeda, che aggiunge: «Un punto di partenza di questa politica industriale potrebbe essere la dotazione di un rigassificatore nel porto di Gioia Tauro».

Questo porto ha già caratteristiche uniche che lo renderebbero protagonista di un hub energetico nel Sud Italia. Ha un’area portuale pari a quella di oltre sessanta campi da calcio che lo rendono tra i più grandi d’Italia e d’Europa. Ma soprattutto è collegato logisticamente ad

altri sessanta porti nel Mediterraneo ed è pienamente connesso alla rete ferroviaria europea.

Sud produttore di energia

La ricchezza del Sud non sta solo nelle bellezze storiche e paesaggistiche, ma anche in caratteristiche naturali che ne fanno una zona ricca di fonti di energia rinnovabile. Il Mezzogiorno è già oggi un importante produttore di energia pulita: produce un terzo dell'energia rinnovabile del Paese, con primati nell'eolico (96,4% del totale nazionale) e contributi rilevanti nel fotovoltaico (41,0%), ma è solo con un netto aumento di questa produzione che il Sud potrà candidarsi ad essere un hub energetico.

«Passi in avanti ne sono stati fatti, come con l’inaugurazione del primo parco eolico off-shore del Mediterraneo a Taranto, in grado di produrre un vettore energetico del futuro come l’idrogeno verde, ma non basta», sostiene Laudeda, secondo cui il Sud detiene anche un ampio poten-

ziale di risorse in ambiti meno esplorati, come l’energia rinnovabile connessa al moto ondoso su cui il Sud deve puntare. Secondo le stime di ENEA (Agenzia nazionale per le nuove tecnologie) entro il 2050 l'Europa potrà contare su 100 GW dall'energia dal mare, equivalenti al 10% dell'attuale consumo europeo. Le tecnologie Wave Energy Converter (WEC) sono in fase di sviluppo pre-commerciale e il Sud Italia può ambire ad affermarsi come punto di riferimento tecnologico e produttivo internazionale all'interno di questo settore, contrastando l'attuale situazione di totale assenza di hub sulle nuove tecnologie pulite. ■

1. Nell'immagine, le linee tratteggiate indicano le tratte marittime del trasporto dell'energia in forma gas gnl.

Le linee continue rappresentano i gasdotti dislocati lungo la superficie mediterranea I quadrati rossi rappresentano i rigassificatori distribuiti principalmente sul territorio dell'Europa meridionale

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Giornale di Sicilia, seguì una campagna di delegittimazione che portò al suo assassinio. «La mafia lo ha assassinato perché aveva fiutato il suo isolamento. Per questo, i ragazzi nel 2004 avevano deciso di continuare il suo impegno». Ma perché le denunce non finissero come quella di Libero Grassi, era necessario supportare i commercianti che volevano opporsi. «È la comunità che deve dire “No!”. Siamo noi cittadini a dover abbandonare pigrizia, incoscienza e paura».

Addiopizzo, «energia rinnovabile» contro il racket

MAFIA

L’associazione palermitana da quasi vent’anni si oppone alle estorsioni: «non è vero che chi alza la testa finisce male, i cittadini sono dalla nostra parte»

Palermo fu tappezzata di adesivi una notte del 2004. Listati a lutto, gli stampini recitavano: «Un popolo che paga il pizzo è un popolo senza dignità». Li aveva prodotti e attaccati in giro per la città un gruppo di giovani attivisti palermitani. Erano convinti che, a dieci anni dalla grande reazione seguita allo stragismo mafioso, l’assuefazione alla criminalità organizzata si fosse di nuovo impadronita della loro città e volevano dare una sveglia alla comunità, che a loro sembrava dormiente. È l’inizio della «storia entusiasmante» di un’associazione che ha portato migliaia di siciliani a ribellarsi

al potere mafioso, a creare una rete che sostiene le vittime di estorsione. Dal successo di quell’iniziativa è nata Addiopizzo.

«Il pizzo non è la maggiore entrata di un’organizzazione mafiosa, ma è il simbolo del suo dominio sul territorio», dice Pico Di Trapani, membro del direttivo di Addiopizzo e nella rete dal 2011. Il «faro» dei fondatori era Libero Grassi, imprenditore ucciso da Cosa nostra per aver denunciato pubblicamente i suoi estorsori. Alla sua lettera al «Caro estorsore», pubblicata nel gennaio 1991 sul

Da lì l’idea del “consumo critico”, l’iniziativa che ancora oggi rappresenta il cuore dell’associazione e la sua principale strategia di lotta alle mafie. Consiste nell’impegno da parte dei cittadini e consumatori di preferire commercianti, artigiani e imprenditori che denunciano le estorsioni, aderendo gratuitamente alla rete di imprese «mafia-free». «In questo modo sono i consumatori che premiano con i propri acquisti chi dice no alla mafia», continua Di Trapani. «Migliaia di persone hanno aderito e si è potuto invertire paradigma: sono i cittadini che mostrano la propria vicinanza in maniera concreta a chi deve denunciare». E, in collaborazione con istituzioni e forze dell’ordine, l’associazione si impegna a fornire assistenza a chi denuncia con «tutto quello che serve»: volontari, avvocati e psicologi. «Oggi questa rete è vasta. Centinaia di commercianti hanno trovato la forza di opporsi ai loro estorsori, hanno liberato se stessi e hanno contribuito a liberarne altri». Secondo Di Trapani, «bastava creare le condizioni. L’omertà, il collaborazionismo si sono sgretolati di fronte all’onda, insieme agli altri falsi miti».

Non è difficile, con una tale opposizione al racket, infatti, immaginare una reazione dura della criminalità organizzata, episodi violenti. E invece, «non ci sono controindicazioni nella storia di Addiopizzo, nessun evento tragico. E questo nonostante Cosa nostra sia stata molto danneggiata dal nostro lavoro, dalle denunce, da chi non le revocava, dalle forze dell’ordine, dalle prove che forniscono le vittime stesse», dice fiero l’attivista palermitano. «Non è vero che chiunque si alza contro la mafia va incontro a ritorsioni. La nostra storia insegna il contrario, sono l’isolamento e l’alienazione che portano alle tragedie. Noi all’inizio abbiamo avuto paura, certo, ma mai il sentore di essere in pericolo. Perché siamo insieme e siamo tanti». Anche se è sempre bene non abbassare la guardia, perché la mafia affina le strategie, si evolve. «E la società deve fare lo stesso, non si può mollare la presa».

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Pico racconta di una Palermo molto cambiata nel tempo, la mafia è ancora forte ma tanta gente ha imparato a non avere paura. Il pizzo si paga ancora, ma le denunce crescono. Semmai il vero problema resta quello della complicità di alcuni. «C’è un mondo di imprenditori compromessi con la mafia, che non ricevono in maniera passiva l’estorsione ma intrecciano un legame di connivenza che legittima il ruolo dei mafiosi». Ci sono molti casi di «commercianti che vanno a chiedere come e a chi versare il “tributo” per stare sereni e mettersi in sicurezza. È un rapporto perverso, quello della vittima dell’estorsione che si consegna nella tana del lupo».

Le iniziative di Addiopizzo si sono moltiplicate nel tempo. È nato Addiopizzo Travel, cooperativa di giovani che applica al turismo il concetto di consumo critico, con tour nei luoghi dell’antimafia che favoriscono hotel, ristoranti e strutture liberi dal pizzo. Sono stati organizzati incontri, feste e dibattiti e hanno aderito alla rete diversi personaggi famosi (Pif, Teresa Mannino, Roy Paci sono alcuni). Per qualche anno, è stato messo in piedi lo stabilimento balneare inclusivo “Sconzajuoco” dal nome della barca di Libero Grassi, chiamata così per la sua volontà di “guastare il gioco” mafioso. L’attività nel sociale, insomma, si è intensificata.

«L'azione repressiva dello Stato non può nulla, se in quei territori dove non arrivano la politica e le istituzioni non ci sono presidi sociali, perché è quel vuoto che la mafia riempie». Per questo – continua Di Trapani – «oggi gli sforzi sono rivolti all’educativa di strada e all’inclusione».

Piazza Magione è un luogo storico per i palermitani, nel cuore dell’antico quartiere arabo della Kalsa, dove «i ragazzi si riuniscono la sera e «dove sono cresciuti Falcone e Borsellino». Ed è anche il luogo scelto per un progetto di riqualificazione dai partecipanti all’«investimento collettivo», una raccolta fondi nei negozi della rete. «Innanzitutto abbiamo costruito un'area giochi per i più piccoli, ma il vero impegno è quello di non andare via il giorno dopo e di essere presenti». Il progetto di educativa di strada consiste nel «garantire presenza e supporto, con il contributo di altri soggetti e associazioni compresa la scuola del quartiere e istituzioni (che, se chiamate in causa, rispondono)». Così i ragazzi della Kalsa che vivono in situazioni di disagio hanno occasione «di incontrarsi, fare attività sportive e ludiche». «Li portiamo anche fuori da piazza Magione, dal loro microcosmo. Facciamo vedere loro che ci sono altri posti e luoghi di Palermo che offrono

altre possibilità, diverse opportunità». Ai bambini si mostra che si può uscire dal deserto culturale nel quale la mafia vorrebbe relegarli.

È a queste attività che, dice Pico Di Trapani, oggi i volontari dedicano i loro sforzi maggiori. Lo scopo è creare cultura antimafiosa e una «cerniera tra società e istituzioni», perché «la responsabilità è sempre nostra, dei cittadini. Il disinteresse per la lotta alla mafia è innanzitutto nella società, per questo manca dall’agenda politica». Ad animarli è l’ambizione «che la gente voglia emularci. Addiopizzo è solo un passaggio e quello che veramente vogliamo è spingere ognuno a chiedersi: ‘in base alle mie possibilità, cosa posso fare di più di quello che già faccio?’». ■

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L’energia del vulcano diventa arte

A Stromboli i volti scolpiti nella pietra lavica da Salvatore Russo: ogni opera ha un’anima e una storia e custodisce il forte attaccamento dell’artista alla propria terra

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di Maria Teresa Lacroce
Italia STORIE

«Stromboli è la mia casa, la mia fonte di ispirazione, il mio mondo. Se vado via, dopo una settimana devo tornare perché mi manca questo posto, la sua energia, il richiamo del vulcano». C’è un legame profondo tra Salvatore Russo e Stromboli, isola e vulcano. È nato a Lipari, nell’arcipelago delle Eolie, nel 1964, ma vive da sempre all’ombra di “Iddu”, il vulcano costantemente attivo.

«Io lo guardo continuamente: c’è un senso di ammirazione. Il vulcano è energia pura». Dal suo laboratorio lo osserva: «Quando lavoro alzo gli occhi per vedere se fa fumo e per capire se c’è la lava». Le colate scendono velocemente dalla montagna per poi spegnersi nel mare e si solidificano lasciando dietro di sé tante pietre di un colore tra il grigio e il nero. Sassi che nelle mani di Salvatore prendono vita, trasformandosi in volti.

Ma Salvatore non ha sempre fatto lo scultore: aveva un’impresa edile e, insieme al padre, lavorava come maestro muratore. Nei ritagli di tempo fotografava la sua Stromboli: i fiori, i tramonti, le albe, i paesaggi. «Ero appassionato di foto ma poi ho mollato perché il lavoro era tanto e non avevo più tempo per nulla». La passione per la scultura nasce per caso grazie all’incontro con l’artista.

Lorenzo Reina, autore del Teatro di Andromeda di Santo Stefano Quisquina in provincia di Agrigento si era recato a Stromboli proprio per realizzare una scultura con la pietra lavica. «Quando abbiamo conosciuto questa persona non sapevamo cosa fosse la scultura. Abbiamo collaborato con lui e poi da lì papà ha iniziato a scolpire qualcosa. Io provavo, provavo, ma non riuscivo mai a fare nulla. Poi, nel 2009, ero a Milazzo con la famiglia e, a un certo punto, ho detto: devo andare a Stromboli, devo andare a scolpire una pietra. Ho avuto proprio un richiamo. Sono venuto qua, ho fatto delle piccole sculture ma per me era già un grande successo riuscire a fare qualcosa. Da lì non mi sono più fermato». Tutto inizia quasi per gioco: Salvatore raccoglie le pietre laviche adagiate sulla spiaggia, le porta a casa e le scolpisce donandogli un volto e un’anima.

«Scolpivo di più la domenica o la sera quando smettevo di lavorare. Nel 2014 ho cominciato a fare un po’ di mostre in giro. Il tempo era sempre meno. Sono arrivato a un punto in cui la muratura, con l’impresa e i suoi impegni, mi prendeva tanto tempo. E contemporaneamente c’era l’arte. Vuoi scolpire ma non hai tempo perché devi andare in cantiere, devi lavo -

rare: così quella forza, quell’energia non la puoi sfruttare, ti rimane dentro. A un certo punto ho detto: devo prendere una decisione, perché rischiavo di fare tutte e due le cose male». La scelta ha premiato la sua passione: «ho mollato il lavoro e ho continuato con le mie sculture, il mio hobby, perché alla fine penso che si viva anche per questo, non solo per il lavoro».

Ogni volto scolpito nella pietra ha la sua storia anche se, come racconta Salvatore: «non c’è mai un’idea iniziale, non so mai cosa fare perché non so disegnare. Io non mi ritengo uno scultore, sono uno che scarabocchia sulla pietra».

Ogni volto rappresenta uno stato d’animo: c’è la sofferenza, ma anche la malinconia. «Nel 2018 sono stato operato all’ernia del disco, ho avuto un intervento

serio: neanche io lo avevo capito e avevo preso tutto con leggerezza, cominciando a lavorare prima (del tempo necessario per una buona riabilitazione, ndr). A marzo ho cominciato a scolpire questa pietra: ne è uscito un volto molto sofferente. L’ho chiamato La sofferenza.

Ho riprodotto un po’ il mio stato d’animo». C’è un volto scolpito nella pietra vulcanica a cui Salvatore è particolarmente legato ed è quello dedicato al suo amico pittore, ora venuto a mancare: Mario Cusolito. «Quello è un volto mio, non lo cederò mai». Tante le mostre collettive a cui Salvatore ha preso parte nel corso degli anni tra cui la seconda edizione della Biennale Internazionale d'Arte di Palermo e la Bienal de arte Barcelona del 2015. Il suo sogno è ora quello di realizzare, nella sua isola, un posto speciale dedicato all’arte.

«Da anni le mie pietre vanno in giro, la gente viene a Stromboli e vuole vederle. Ho sistemato il giardino e vedo che le persone quando arrivano qui sono entusiaste e rimangono meravigliate. È per questo che volevo dedicare un giardino all’arte in cui invitare anche chi vuole esporre». ■

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«Io lo guardo continuamente con un senso di ammirazione. Il vulcano è energia pura. Quando lavoro alzo gli occhi per vedere se fa fumo e per capire se c’è lava»

Stefano

Stefano fa il grafico, ha 60 anni e insegna all’istituto europeo di design a Roma. Trent’anni fa disegnava “biglietti per le discoteche”. Non tutti i suoi studenti lo sanno, ma fu lui a organizzare in Italia il primo rave party, insieme a qualche amico del tempo e ad alcuni deejay arrivati dalla Gran Bretagna, dove queste grandi feste erano nate spontaneamente per poi essere messe “fuori legge” dalla Premier Margaret Thatcher, che impose la chiusura di Pub e discoteche alle due del mattino. Aprilia, primo giugno 1990, Roma è lontana 50 km.

Chi c’era lo ricorda come «il giorno in cui l’ira di Dio scese in terra». «Roma in quegli anni si era da poco liberata dalle leggi antiterrorismo e pian piano si stava liberando anche della new wave e della musica di quegli anni». Nella città sconvolta dagli anni di piombo erano attive pochissime discoteche e pochi bar erano aperti dopo la mezzanotte. «Tre amici tornati da New York avevano aperto un

locale che si chiamava Devotion, portandosi dagli Stati Uniti la house music». In breve tempo quel locale divenne uno dei più frequentati della capitale. «Organizzavamo feste in stile Devotion negli spazi aperti della città. Piantavamo un tendone, preso in affitto dal circo Orfei, mettevamo una console al centro e iniziavamo a ballare. Pensammo allora che fosse bello spostare quella scena in una grande discoteca di campagna, e andammo a vedere il Doing, un locale gigantesco ricavato all’interno di una fabbrica di pellami e situato nel nulla, poco distante da Aprilia.

Ricordo che c’era una grande piramide al centro, e cento metri quadri di pavimento intorno. Credemmo che fosse ideale ad accogliere un migliaio persone». Ne arrivarono 7.000. In macchina. Da tutta Italia. «Enza e Marco, due amici di Napoli, avevano tappezzato la città di inviti, aiutati da un’organizzazione di feste in stile rave conosciuta come “I ragazzi terribili”. Lo stesso era accaduto a Firenze, Bologna e Milano».

E così ai piedi della piramide erano arrivati da tutta Italia. «Ballammo fino all’alba, e non appena venne spenta la musica la gente continuò a ballare, accendendo gli stereo delle centinaia di macchine parcheggiate fuori dal Doing. Andammo avanti per ore. Dovevamo lasciarci alle spalle gli anni ’70-’80, quelli dell’attivismo politico, della lotta armata. Volevamo rilassarci». L’ecstasy, anche nota come MDMA, la nuova droga sintetica che, proprio come i rave, oltrepassava il confine per la prima volta, era stata dichiarata “fuori legge” nella seconda metà degli anni ’80.

«Le droghe all’epoca venivano spesso associate al tipo di esperienza musicale che sceglievi, fosse essa un concerto rock, pop o punk. La droga legata ai rave era l’ecstasy, che nasceva come una droga per fare sesso e per socializzare. Che poi era ciò che voleva il popolo dei rave».

Ciò che oggi, a quelle condizioni, è proibito. Il “decreto anti-rave”, voluto dal Governo Meloni e approvato nelle ultime ore del 2022, ha introdotto infatti una nuova norma che punisce con il carcere chi organizza mega-raduni musicali su terreni non suoi, in cui si faccia anche uso di droghe. Oggi Stefano rischierebbe dai tre ai sei anni di prigione. ■

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di Dario Artale
Giustizia
Luceri fu tra gli organizzatori del The Rose Rave, il primo rave party in Italia
MOVIMENTI
«Il giorno dell’ira di Dio in terra»
1. Biglietto di invito al The Rose Rave (Fronte). Design originale di Stefano Luceri
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2. Biglietto di invito al The Rose Rave (Retro). Design originale di Stefano Luceri

Dalle disfunzioni familiari ai crimini violenti

Vincenzo Mastronardi, psichiatra e criminologo clinico, spiega come l’infanzia può scatenare l’omicidio

PSICOLOGIA

«La dipendenza eccessiva da qualcuno può portare al reato». Vincenzo Mastronardi, psichiatra e criminologo clinico – già direttore della cattedra di Psicopatologia forense presso l’università di Roma La Sapienza – racconta la storia di criminali che erano bambini trascurati, o troppo considerati dai propri genitori.

«Come noi, i bambini osservano, hanno paura di quello che potrebbe accadere. Saranno adulti con ‘danni’. Ogni caso interagisce in maniera diversa con il passato e il futuro».

Il professore ritorna sugli assassini che ha visitato in carcere. Il primo caso è quello di Mario Calderone: 1996, Civitavecchia. Con una lama da sub, Calderone uccide le sue tre figlie e, poi, prova ad ammazzarsi. «Un family mass murder. L’assassino è dipendente dalla famiglia, coccolato e viziato dalla nonna. Poi si appoggia alla moglie, ma quando questa muore di cancro, si perde, ha una visione pessimistica di sé, del mondo e del

futuro». Così decide di uccidere, per recidere quel legame che, nella sua mente, lo teneva in vita. È la sera dell’omicidio. Calderone accende la tv, si sintonizza sul film Ghost. «Mia moglie l’ho vista lì, era affianco a me», riferisce al professore. «Dopo l’omicidio, Calderone accende un accendino, si accerta che le figlie siano morte. I profumi delle zie sparsi sulla coperta provocano del fumo. L’uomo non riesce a respirare più. Mi racconta che prova a uccidersi, ma non sente dolore. Apre la finestra, si affaccia».

Il professore imita un respiro affannoso, quello che gli ha riprodotto Calderone. Il suono emesso «attira l’attenzione di un infermiere che in quel momento stava rientrando a casa». Così sopravvive. «Come Calderone anche Pietro Maso, l’uomo che ha ucciso i suoi genitori, è una persona che ha un passato di dipendenza, ma dagli amici. Giorgio Carbognin, Paolo Cavazza e Damiano Burato aiutano Maso a uccidere la sua famiglia «un peso da sopportare». «Il padre è ricco, ma non

considera i bisogni adolescenziali del figlio e spende tutti i soldi in una decina di campi coltivati a vigneto. Maso passa dal soddisfare i suoi bisogni a quelli degli altri. Si ispira a «Don Johnson, il vice poliziotto della serie Miami Vice». Vuole «la sua Ferrari, i suoi vestiti firmati». Poi comincia ad aiutare i «giovani devianti». «Avrai molti psichiatri, tutti d’accordo sul disprezzo nei tuoi confronti», il professore legge uno stralcio della «lettera scritta da Maso a Foffo» che uccise, insieme a Marc Prato, Luca Varani. Sei anni fa, Varani veniva ammazzato a Roma, con «100 colpi, tra coltellate e martellate».

Questa volta è la droga, la «circostanza criminale» che precede il delitto. Una «relazione occasionale» unisce i criminali contro la vittima. «‘Papà non hai capito niente, andavamo in giro per trovare qualcuno da ammazzare’ dice Foffo al padre. Come nell’authority killing, l’assassino vendicativo verso le autorità, non c’è il rapporto tra le persone, ma c’è un solo emblema da colpire». ■

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di Silvia Morrone

Le vite a metà del conflitto congelato in Kosovo

L’area di confine con la Serbia si trova in un momento di tensione. Per la maggior parte degli esperti, però, il rischio di una nuova guerra è da escludere

Mitrovica è una città spezzata, divisa a metà. Da una parte del fiume che l'attraversa, a Mitrovica sud, abitano i kosovari di etnia albanese e dall’altra, a nord, la minoranza serba. In mezzo c’è un ponte sul fiume Ibar, presidiato ogni giorno dai carabinieri italiani della missione speciale NATO Kfor. Marko, 29 anni, è serbo e lavora in città.

Da quando ha memoria, la comunità in cui vive è sempre stata frammentata. Per questo, insieme ad altri colleghi, gestisce da anni New Social Initiative, una Ong che si occupa di ricostruire il tessuto sociale e aumentare il dialogo tra persone appartenenti a gruppi etnici diversi nella parte settentrionale del Kosovo.

«Le nostre sono vite a metà. Per fare qualsiasi cosa, dallo shopping, alle visite mediche e all’università, io e quelli della mia comunità ci rechiamo in Serbia. Se non lavorassi per una Ong che si occupa di promuovere il dialogo probabilmente non di Beatrice

avrei nessun contatto con l’altra parte della popolazione», spiega Marko.

«È difficile spiegare cosa si prova a vivere tutta la propria adolescenza in una zona così delicata. Ero alle elementari quando è scoppiata la guerra e, da quel momento in poi, nulla è più stato lo stesso. Ci siamo trovati a non poter più giocare all’aperto o uscire di casa per lunghi periodi, né a poter fare progetti sicuri sul futuro quando siamo cresciuti. La tensione non si è mai esaurita.

A settembre, per esempio, con la mia Ong abbiamo organizzato un Coffee Festival sul ponte di Mitrovica, che mette in comunicazione le due parti della città. Sono stati dei giorni bellissimi, pieni di risate, musica e arte. Pochi mesi dopo quel ponte era deserto. Nessuno lo poteva attraversare e avevamo perso ogni contatto con l’altra comunità. Da quel momento in poi i nostri partner albanesi hanno smesso di lavorare con noi. Quello di questi mesi

Esteri 22— Zeta
BALCANI

è uno dei momenti più difficili da quando l’associazione è nata». Tra novembre e dicembre il nord del Kosovo ha attraversato momenti di altissima tensione. In quei giorni la minoranza serba presente nella regione ha eretto barricate e blocchi stradali, nell’ambito di uno scontro col governo di Pristina. Il conflitto tra le due nazioni nasce molto tempo fa, con la guerra in cui intervenne la Nato del 1998-99 e la dichiarazione d’indipendenza del Kosovo del 2008, mai accettata dalla Repubblica Serba e da altri attori della comunità internazionale, come la Cina o la Russia.«Ci sono nodi irrisolti che ci portiamo dietro dall’inizio della presenza internazionale in Kosovo e che di tanto in tanto si riacutizzano», spiega Andrea Angeli, funzionario italiano all’Onu, che ha vissuto 16 anni nei Balcani e 7 in Kosovo. La crisi iniziata tra novembre e dicembre, nello specifico, riguardava proprio la popolazione di etnia serba che vive nella parte settentrionale del Kosovo.

Il colonnello Vincenzo Grasso, ex portavoce della missione Nato Kfor, spiega che: «Tutto è iniziato perché la minoranza serba continuava a voler usare le targhe automobilistiche dell’ex Jugoslavia. La decisione del Pristina di dire “questo è il nostro territorio e si useranno solo targhe kosovare" ha riacceso la questione. Sono poi iniziate le dimissioni di massa del personale serbo che partecipava alle istituzioni del nord del Kosovo e un poliziotto di etnia serba è stato arrestato. Gesti del genere sono solo una goccia nel mare di provocazioni che ci sono state negli anni precedenti».

In quel periodo il governo di Pristina ha dato quasi un ultimatum. A Mitrovica, dove abita Marko, si sono riviste barricate e molotov, mentre qualcuno ha sparato contro i contingenti della missione Nato.

Belgrado ha minacciato di muovere le truppe. Nelle settimane seguenti la situazione si è distesa. «Rispetto al periodo di tensione di dicembre le barricate sono state rimosse. La situazione è rientrata in apparente normalità, in attesa della prossima crisi», dice Giorgio Fruscione, ricercatore dell’Istituto per gli studi di politica internazionale (Ispi) ed esperto di Balcani. «Il rischio di conflitto è da escludere. Non l’ho mai preso in considerazione per diverse ragioni pratiche. La Nato è presente in Kosovo, quindi per la Serbia muovere guerra sarebbe un suicidio militare, oltre che diplomatico. Belgrado si isolerebbe e non sarebbe supportata da nessuno, neanche dalla stessa Russia».

«Questa volta, però, la tensione è stata più alta, anche a causa della situazione in Ucraina», aggiunge il colonnello Grasso. La Russia, che non ha mai nascosto i propri legami con la Serbia, avrebbe contribuito a destabilizzare la situazione nella zona per cercare di ottenere una situazione di precarietà nei Balcani.

L’obiettivo del presidente Vladimir Putin sarebbe quello di tentare di distrarre l’attenzione internazionale dal fallimento della guerra contro Kiev.Nell’ultimo periodo sembrava fossero iniziate delle trattative a livello europeo per aggiornare gli accordi di Bruxelles e normalizzare il rapporto tra le due potenze. Per il premier kosovaro Albin Kurti i legami sempre più stretti tra Mosca e Belgrado sarebbero però un ostacolo al raggiungimento dell’obiettivo.

Secondo Giorgio Fruscione servirebbe uno sforzo maggiore a livello comunitario. «L'Unione europea sta sempre agendo in reazione alle singole crisi che scoppiano, cercando di mediare di volta in volta. Il risultato che si ottiene è a breve

termine e ripristina lo status quo. Le azioni diplomatiche non sono mai mirate a una soluzione duratura che possa davvero risolvere la situazione e riconciliare le comunità locali», continua Fruscione.

Della stessa idea è anche Andrea Angeli. «Per sbloccare questo frozen conflict servirebbe un colpo d'ala della diplomazia mondiale, in particolare di quella americana. Non sarà facile, però, trovare una soluzione che possa essere condivisa, non solo da serbi e kosovari, ma anche all’interno dello stesso arcipelago politico serbo. C’è un conflitto interno nella loro comunità e non tutti la pensano allo stesso modo. I serbi del nord del Kosovo hanno idee diverse dagli altri, sono furiosi con il presidente Aleksandar Vučić e lo accusano di averli abbandonati».

Il 23 gennaio il capo del governo di Belgrado ha dichiarato di aver incontrato i rappresentanti di Francia, Germania, Italia e Stati Uniti e di aver ricevuto un ultimatum da parte dell’Unione Europea. I leader occidentali hanno minacciato Vučić affermando che, se continuerà a opporsi a una normalizzazione dei rapporti tra le due nazioni, allora la Serbia andrà incontro a un’interruzione del processo di adesione all’Europa e a un blocco e ritiro degli investimenti Ue nel Paese.

«A differenza di altre crisi, in cui si cerca di guardare avanti, nei Balcani si torna spesso indietro. Conflitti di questo tipo sono laceranti, hanno segnato intere popolazioni e non vengono facilmente dimenticati. Il ricordo di quello che è passato, di chi aveva ragione e chi torto è spesso vivo, anche nelle nuove generazioni», conclude Angeli. Nel frattempo, a Mitrovica, il ponte rimane deserto e la speranza di poterlo attraversare di nuovo, per Marko e i suoi amici, si fa sempre più flebile. ■

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Scudo italiano per i cieli di Kiev

Il sistema antiaereo italo-francese Samp/T, insieme al “collega” americano Patriot, può essere la svolta contro i raid terroristici di Putin perficie Aria Media Portata Terrestre”, «è la principale arma di difesa antiaerea mobile del XXI secolo per la protezione di teatro», si legge sul sito della casa produttrice MBDA, consorzio europeo che rappresenta il secondo costruttore di missili al mondo - dietro all’americana Rytheon - a cui partecipano Italia, Francia, Germania e Regno Unito.

Dnipro. Ucraina centrale. È il pomeriggio di sabato 14 gennaio quando un boato squarcia il silenzio della città. Un missile Kh-22 russo ha appena sventrato un palazzo residenziale in pieno centro. Una ragazza vede arrivare i soccorsi da quello che fino a pochi minuti prima era il suo salotto e ora è un pezzo di cemento a strapiombo sulla strada. L’ordigno, che trasportava una tonnellata di esplosivo, è piombato sulla città prima che le sirene antiaeree potessero dare l’allarme. Alla fine si conteranno 46 morti, di cui 6 bambini, e 80 feriti.

«Il missile è stato lanciato con una traiettoria balistica che la nostra contraerea non è in grado di intercettare», ha dichiarato poco dopo l’attacco il portavoce dell’aeronautica ucraina. Sistemi che avrebbero potuto evitare la tragedia però esistono. Tra questi il Samp/T, l’apparato antimissilistico che l’Italia dovrebbe fornire all’Ucraina in collaborazione con la Francia. Il Samp/T, acronimo di “Su-

I missili ASTER 30 di cui è dotato il sistema pesano 450 kg, volano a 4,5 volte la velocità del suono e possono intercettare bersagli a oltre 100 km di distanza. È l’arma attualmente in dotazione alle forze armate italiane che sarebbe utilizzata per difendere il nostro paese nell’eventualità di un attacco aereo. Kiev ha chiesto a più riprese al nostro governo di trasferire una batteria Samp/T in Ucraina e il ministro degli Esteri, Antonio Tajani, ha dichiarato che si sta lavorando all’invio di concerto con la Francia. «Il trasferimento del Samp/T e di sistemi simili in Ucraina rappresenterebbe un aiuto al

paese aggredito sia in termini di qualità che di quantità», dichiara Gregory Alegi, specialista di Aereonautica e docente di relazioni internazionali della Luiss. «Nonostante gli aiuti, lo zoccolo duro dell’arsenale ucraino è costituito ancora da armi sovietiche a cui Kiev non ha più accesso». A rifornire il paese aggredito pensano dunque i paesi occidentali che, non avendo stock di munizioni russe, devono inviare armi e munizioni di tipo diverso e di qualità superiore. «La strategia dei raid missilistici del Cremlino è quella di lanciare un numero tale di proiettili che gli ucraini non riescano materialmente a intercettarli tutti».

L’arrivo del Samp/T non solo aiuterà a bloccare più attacchi, ma migliorerebbe anche la capacità di intercettare lanci “creativi” come quelli che hanno causato la tragedia di Dnipro. «Il Kh-22 è stato lanciato in maniera “balistica”, ovvero con una traiettoria a campana con cui il missile sale molto nel proprio territorio

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Esteri
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UCRAINA

per poi scendere sul bersaglio in verticale ad altissima velocità, cosa che lascia pochissimo tempo alla contraerea per individuarlo e intercettarlo». Il Samp/T è dotato non solo di un missile più veloce e più potente, ma anche di un radar avanzato che riduce di molto i tempi di calcolo. «È come un portiere che di fronte a un calcio di rigore riesca a calcolare la traiettoria del tiro avversario, invece di essere costretto a buttarsi “alla cieca” perché non ha tempo di riflettere».

L’invio di questo sistema in Ucraina rappresenterebbe un notevole salto di qualità anche rispetto alla migliore contraerea inviata finora, l’apparato NASAMS, che ha 15 anni di più, un raggio d’azione di 20 km (un quinto del Samp/T) e usa missili più leggeri. Ma sarebbe anche un segnale politico fortissimo visto che non si tratterebbe di un’arma vecchia o in dismissione, bensì del sistema che l’Italia ha scelto per modernizzare la sua difesa antiaerea dopo la fine della Guerra Fredda. Il problema è dato dalle forniture. L’Italia dispone di cinque batterie Samp/T più una di addestramento, dotata di un solo lanciatore invece che di quattro. Inoltre, la produzione di missili così sofisticati richiede tempo e gli arsenali europei sono mezzi vuoti.

Una delle opzioni in campo è che l’Italia doni a Kiev la sua batteria addestrativa con radar e lanciatore, mentre

la Francia fornirebbe le munizioni. «I sistemi italiano e francese non sono propriamente identici, ma si può creare un “ibrido” funzionante», spiega Eugenio Po, capo servizio di Rivista Italiana Difesa. Con un Samp/T e le quattro batterie di Patriot - l’omologo americano del Samp/T - promesse a Kiev da Stati Uniti, Germania e Olanda, si potrebbero mettere al sicuro alcuni punti chiave come la capitale e altre grandi città.

«Bisogna però considerare che entrambi i sistemi, proprio perché sono così sofisticati, richiedono mesi di addestramento», continua Po. Per il Patriot l’amministrazione Biden sta già istruendo i soldati ucraini su suolo statunitense e il ministro della Difesa ucraino, Oleksij Reznikov, ha dichiarato che basteranno dieci settimane per padroneggiare la nuova arma, previsione molto ottimistica rispetto a quelle iniziali che parlavano di oltre sei mesi.

La copertura aerea fornita da questi sistemi permetterebbe di evitare nuove tragedie come quella di Dnipro, in un momento in cui i russi sembrano aver intensificato la volontà di bombardare i centri abitati. «Il concetto di minimizzare le vittime civili non è proprio della dottrina militare russa», commenta Alegi. «Mirando a obiettivi strategici può capitare per errore che il missile sbagli bersaglio, ma quando ogni giorno sentiamo di con-

domini colpiti non si tratta di un errore, a meno che, come nel caso dei russi, non si ritenga che mirare a una centrale elettrica nel cuore dell’abitato comporti dei rischi accettabili». Una volta assicurata la difesa dei cieli ucraini, Kiev potrebbe concentrarsi su una controffensiva che ricacci indietro l’esercito di Putin dai territori occupati nell’est e nel sud del Paese. L’elemento chiave saranno i carri armati moderni occidentali, il cui arrivo è stato annunciato nelle scorse settimane: a fare da apripista è stato il premier britannico Rishi Sunak, che lo stesso 14 gennaio ha confermato l’invio di 14 carri armati pesanti Challenger 2. A fine gennaio la Germania ha superato i dubbi sulla fornitura dei Leopard 2, i carri armati tedeschi in dotazione a diversi paesi come Polonia, Norvegia e Spagna, mentre gli Usa invieranno 31 Ambrams M1. In tutto l'Ucraina potrà contare su almeno 120 carri armati.

A quasi un anno dall’invasione Kiev sarà in grado di chiudere i suoi cieli, come il presidente Zelensky ha chiesto fin dal 24 febbraio, per poi aprirsi la strada verso nuovi successi in Donbass con una controffensiva di primavera. ■

1. Il sistema Samp/T in azione durante il lancio del missile ASTER 30. © MBDA

2. Sulla mappa si può osservare il potenziale raggio di azione del Samp/T se venisse posizionato in alcune delle principali città ucraine come Kiev, Leopoli e Dnipro. In quest'ultimo caso coprirebbe anche Zaporizhzhia

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Il rapimento della gioventù

AFRICA

La Repubblica Democratica del Congo è uno dei maggiori produttori di minerali dove vengono utilizzati minori e donne in situazioni di sfruttamento

«Le alternative a questa vita spesso non ci sono: i bambini sono obbligati a lavorare nelle miniere per una questione di sopravvivenza». Il commento del portavoce di Amnesty, Riccardo Noury, che cerca di spiegare l’importanza del coltan, del cobalto e di minerali preziosi che sono usati per la fabbricazione delle batterie al litio, adoperate per gli smartphone, laptop o veicoli elettrici.

Sono ormai conosciute anche le terribili condizioni in cui sono costrette a lavorare le persone e il largo impiego di manodopera minorile.

«La sfortuna è che, rispetto ad altri Paesi, nella Repubblica Democratica del Congo molti minerali, primo tra tutti il coltan, si trovano per lo più in superficie e che circa l’80% di questo minerale si trova nel paese africano». Ha affermato l’antropologo e ricercatore Luca Jourdan. «Basta scavare 30-40 cm anche con attrezzatura semplice ed è molto facile da estrarre. Questo è il motivo per cui è tanto diffuso l’impiego di donne o bambini in queste aree».

L’estrazione avviene spesso a mani nude o con l’utilizzo di arnesi rudimentali. Questo, insieme al fatto che non viene utilizzato alcun equipaggiamento protettivo e lo stretto contatto con materiali dannosi per la salute, come l’inalazione di polveri pesanti, ha portato conseguen-

ze di salute molto gravi soprattutto per i bambini. La paga per una giornata di 14 ore di lavoro si aggira attorno a 1-2 dollari al giorno secondo le ricerche di Amnesty International condotta tra il 2016 e il 2020.

Tutto ciò è una conseguenza della seconda guerra del Congo, tra il 1998 e il 2003. Con il fallimento dell’industria mineraria statale, l’allora dittatore Joseph Kabila, incoraggiò la creazione di industrie artigianali, che vennero regolamentate per incoraggiare investimenti esteri. Le miniere legalizzate rimasero però poche, mentre si registrò una crescita esponenziale di quelle non regolamentate, nelle quali veniva impiegata manodopera in stato di sfruttamento e in condizioni lavorative disumane.

Secondo il diritto internazionale, gli Stati hanno il dovere di proteggere dalle violazioni dei diritti umani tutti i membri di una filiera industriale che ha un ruolo

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sia di lavorazione che di semplice acquisto nei loro Stati. È per questo motivo che da parte dei governi nazionali è richiesta l’adozione di leggi e il controllo del loro rispetto da parte delle imprese che devono conformarsi a tali regole e rendere pubblica la loro applicazione.

In Congo la grande disponibilità di minerali è motivo di conflitti, violenze e presenza di milizie armate. «Le miniere di coltan, di oro e altri minerali sono la base materiale della guerra in questo Paese. Infatti, qui competono molti gruppi armati, signori della guerra locale, ma anche lo stesso governo non è che si muova in modo tanti diverso. Così si spiega anche la proliferazione di gruppi armati, perché c’è una competizione continua per il controllo del territorio e delle risorse che circolano in questi territori, soprattutto in un contesto in cui le risorse sono facilmente accessibili», ha commentato Jourdan, cercando di analizzare le radici culturali di questa condizione di conflitto perpetuo.

Nel discorso delle miniere di minerali le milizie giocano dunque un ruolo fondamentale, in quanto si adoperano a conquistare i territori situati in prossimità delle miniere, facendo un largo uso di pratiche violente. Le due cause principali di questa situazione sono da una parte l’assenza dello Stato, dall’altra la povertà. Secondo le stime, sono più di 35 mila i bambini coinvolti nel processo di estrazione e commercio del Congo, i quali si vedono privati della propria infanzia per potersi garantire un’entrata economica e segnata da periodici maltrattamenti e mancanze di tutele.

“Lavoratori volontari”, così vengono chiamate donne e bambini ridotti in condizioni di sfruttamento lavorativo in cui si sono addentrati solo per sopravvivere. «Va bene idealmente voler boicottare e arrivare a far chiudere queste miniere per cercare di preservare i diritti umani, però non è che in questo modo le milizie molleranno il territorio, magari spremono ancora di più la popolazione diventando sempre più parassitari».

Continua Luca Jourdan, «nel bene e nel male i bambini non è che lavorano lì perché altrimenti andrebbero all’università, perché potrebbero avere delle alternative. Loro lavorano lì perché hanno bisogno di mangiare e sono disposti a farlo anche lavorando in condizioni orribili. Ma senza quello cosa fanno? O dai loro un’alternativa oppure non puoi pensare di chiuderle e basta». «Ci sono poi una serie di passaggi all’interno della Repub -

blica Democratica del Congo e poi la filiera procede nei luoghi di raccolta di questi materiali che sono Cina e Corea del Sud e da lì proseguono verso la parte finale della filiera che sono le aziende che producono dalle componenti dei telefonini alle batterie delle auto elettriche», aggiunge Noury, che racconta anche i possibili vari utilizzi di questi materiali. Il cobalto è un minerale utilizzato per le batterie delle auto elettriche. Il fabbisogno previsto per il 2020 è di 200 mila tonnellate. «I principali produttori di apparecchi elettronici e veicoli alimentati da batterie elettriche non stanno ancora facendo abbastanza per fermare le violazioni dei diritti umani presenti nella catena dei fornitori di cobalto» è la denuncia di Amnesty Inter-

national. Complici di queste dinamiche sono varie multinazionali che, per garantirsi la fornitura continuativa di coltan, si sono impegnate nell’intrattenere rapporti poco legittimi con figure di vertice nelle istituzioni congolesi. Tra questi grandi marchi troviamo: Nintendo, Philips, Samsung, Microsoft, Panasonic, LG, Nokia.

«Il vero problema di fondo è che i lavatori di queste miniere sono soggetti deboli, che provengono da famiglie deboli e si trovano in una condizione di assenza dello Stato, di assenza di diritti. In contesti dominati dalla violenza delle milizie e dalla povertà devi fare con quello che hai». ■

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Il chiaroscuro del destino della cultura

La luce dei riflettori si riaccende dopo anni di pandemia in teatri e cinema italiani. Eppure c'è chi non è riuscito a sopravvivere alla crisi del 2020

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PHOTOGALLERY
a cura di Giorgia Verna
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Il circolo vizioso

dello sci d’alpinismo

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di Giorgio Brugnoli Il 2022 è stato l’anno più caldo che la Terra abbia mai registrato. I danni sono incalcolabili e tra le vittime è finito anche il più amato tra gli sport invernali Ambiente NEVE

La situazione climatica sta diventando sempre più preoccupante e gli sport invernali sembrano avere per la prima volta una data di scadenza. Le ondate di caldo fuori stagione e le perturbazioni con aria mite e pioggia stanno letteralmente facendo sciogliere i sogni e le aspettative degli appassionati degli sport invernali e delle località montane che dipendono dalle attività sciistiche per la loro sopravvivenza. In molte zone di montagna in Italia, Spagna e Slovenia, la neve non c’è più o non c’è quasi più. Ad aggravare la già precaria situazione è la guerra in Ucraina che, con la lotta per il gas proveniente dalla Russia, ha fatto schizzare le bollette a livelli mai raggiunti prima.

La situazione non è destinata a migliorare, anzi, secondo gli studi scientifici, il futuro delle vacanze sulla neve non è roseo. Uno studio dell’Università di Basilea ha esplorato il futuro del noto resort sciistico svizzero Andermatt-Sedrun-Disentis e ha scoperto che se non si abbattono le emissioni di gas serra, la neve a dicembre e gennaio non sarà più garantita. Anche l’utilizzo della neve artificiale potrebbe diventare antieconomico e poco praticabile dato il costante aumento della temperatura e dei prezzi per l’energia.

Per garantire piste sicure, si dovrà utilizzare molta più acqua per produrre neve artificiale. Solamente nel resort svizzero studiato, il consumo aumenterà dell’80%: in un inverno medio verso il 2100, si useranno per produrre neve 540 milioni di litri d’acqua rispetto ai 300 milioni attuali, e questo senza considerare gli inverni più estremi, caratterizzati da pochissime precipitazioni nevose. L’Italia sta attualmente attraversando un'ondata di maltempo, con pioggia e neve che stanno colpendo diverse regioni del Paese. Mentre le precipitazioni sono benvenute per migliorare la situazione idrica, non devono essere considerate una soluzione a lungo termine per problemi quali la siccità. Insomma il problema non si risolve con una settimana di perturbazioni.

Negli ultimi decenni, il cambiamento climatico ha avuto un impatto significativo anche sulla dislocazione fisica dei paesi e delle mete turistiche. Un esempio è la riduzione della neve in quota, che rende sempre più difficile l'apertura degli impianti sciistici.

Negli anni '60, gli impianti sciistici si trovavano per lo più tra gli 800 e i 1000 metri di quota, mentre oggi è necessario arrivare fino a 1800 metri per trovare neve sufficiente. Marta, che lavora in un

ristorante alla fine della pista del Lago della Ninfa, sull’Appennino emiliano si dice preoccupata. A quota 2000, sui versanti del Cimone, una leggera spolverata di neve acquosa bagna le piste e i clienti diventano rari. «La cosa che mi fa pensare di più è che questo non è un fenomeno isolato, negli ultimi anni abbiamo notato una sempre maggiore incertezza delle condizioni climatiche». In Francia a causa dell’allarme caldo è stato stabilito dagli scienziati che il 2050 sarà l’anno in cui lo sci d’alpinismo smetterà d’esistere

per sempre. Ma non solo gli sport invernali e le località montane saranno colpiti dai cambiamenti climatici, anche la fauna e la flora delle montagne saranno gravemente danneggiate. Pinguini e renne sono tra le specie più a rischio estinzione a causa dello scioglimento dei ghiacci. Alcuni animali tra cui i ricci, sentendo le temperature primaverili, si sono svegliati in anticipo dal letargo sconvolgendo il proprio naturale ciclo annuale. Intanto sbocciano i fiori e l’inverno diventa primavera. ■

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Il cemento dell’Antica Roma salverà l’ambiente

Secondo una ricerca, la tecnologia usata dai Latini svela la via per salvare il pianeta dagli effetti del cambiamento climatico

ARCHITETTURA

Una cupola maestosa svetta tra le viuzze del centro di Roma, il segno riconoscibile di una struttura che ha ottenuto anche l’encomio di Stendhal. «Il più bel resto dell’antichità romana. Un tempio che ha così poco sofferto, che ci appare come dovettero vederlo alla loro epoca i Romani», scriveva l’autore francese. È il Pantheon. Oggi si scopre che la sua impeccabile conservazione è dovuta al cemento di cui è fatto, una miscela che potrebbe contribuire a salvare il pianeta degli effetti dell’inquinamento.

La ricerca

Gli scienziati dell’Università di Harvard e del Massachusetts Institute of

Technology, in collaborazione con il Museo Archeologico di Priverno hanno, infatti, scoperto l’antico segreto degli artigiani latini per costruire edifici duraturi. In uno studio pubblicato sulla rivista Science Advances, il team, guidato da Admir Masic, ha analizzato le strutture dei materiali antichi utilizzati nei monumenti scoprendo che, come si ipotizzava da anni, il segreto della loro durabilità fosse legato all’utilizzo di materiale pozzolanico, una particolare cenere vulcanica descritta come un elemento chiave negli scritti degli architetti dell’epoca. Tuttavia, lo studio nuovo suggerisce che la vera chiave per la durabilità del cemento romano potrebbe essere una miscela di polvere e frammenti di calce, noti come

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clasti calcarei, che venivano aggiunti al composto a temperature molto elevate.

«Durante la miscelazione a caldo – spiegano gli scienziati – i clasti di calce sviluppano un’architettura nanoparticellare caratteristicamente fragile, creando una fonte di calcio facilmente fratturabile e reattiva. Il materiale finale può reagire con l’acqua creando una soluzione satura di calcio, che può ricristallizzarsi come carbonato di calcio e riempire rapidamente le fessure che vengono a crearsi con le crepe all’interno del cemento.

conta a Zeta la genesi di questo rivoluzionario progetto: «Tutto è iniziato nel 2018 quando Admir Masic, Professore associato di Ingegneria ambientale al MIT –Massachusetts Institute of Technology, ha avviato una ricerca internazionale per scoprire il segreto alla base della durabilità del calcestruzzo degli antichi romani. Non si era capito come alcuni edifici, ponti e acquedotti di duemila anni fa, pur avendo affrontato le intemperie e l’incuria dei secoli, siano potuti arrivare in alcuni casi intatti sino ai giorni nostri.

Se si fosse scoperto il segreto, forse, sarebbe stato possibile utilizzarlo per realizzare costruzioni più durature, sicure e sostenibili». Al primo incontro, durante il quale Sabatini inizia a nutrire per Masic una profonda stima, ne seguono altri finché i due non decidono di «fare qualcosa insieme con l’obiettivo, una volta ultimata la ricerca, di trasformare questa conoscenza in una tecnologia utile all’intero pianeta».

anche un risparmio del 20% di emissioni di CO2. Un grande passo se si conta che, come è scritto nello studio, e come conferma Sabatini il mercato del calcestruzzo «oggi vale circa 650 miliardi di euro ed è chiamato a rispondere all’urgente sfida di decarbonizzare i propri processi produttivi, tra i più impattanti del pianeta: la sua filiera industriale è infatti responsabile del 8% delle emissioni di CO2.

Il calcestruzzo è il materiale più utilizzato dall’uomo, ogni anno ne vengono prodotte 33 miliardi di tonnellate, 18 volte il peso della produzione globale di acciaio e otto quello di tutte le automobili prodotte nella storia. L’equivalente del peso di 5 miliardi e mezzo di elefanti. Grazie ad esso, ogni anno vengono costruiti quattro milioni di edifici, più di 11mila al giorno».

Tali reazioni avvengono spontaneamente e riparano le eventuali crepe prima che si diffondano». Il team di ricerca ha utilizzato tecniche di imaging multiscala e mappatura chimica ad alta risoluzione per analizzare i materiali antichi utilizzati dai romani. Questo approccio ha permesso loro di identificare le componenti chiave del cemento romano e di capire come questi componenti interagivano tra loro per creare un materiale così resistente.

Gli scienziati hanno anche condotto una dimostrazione pratica per testare la loro teoria sulla miscelazione a caldo. Hanno creato due campioni di calcestruzzo, uno miscelato con formulazioni antiche e uno con tecniche moderne, e li hanno incrinati. Dopo aver versato dell’acqua sui due campioni, hanno scoperto che il modello antico ha mostrato un miglioramento significativo nelle crepe entro due settimane, mentre il modello moderno non ha mostrato alcun miglioramento.

Dall’antichità ai giorni nostri

Questa scoperta potrebbe avere un impatto significativo sull’industria edile moderna, in quanto potrebbe fornire nuove opportunità per sviluppare materiali da costruzione più resistenti, duraturi ma soprattutto sostenibili. Del team ha fatto parte anche Paolo Sabatini, cofounder di Dmat, una startup deep-tech che produce calcestruzzo sul modello di quello romano. L’imprenditore oggi rac-

Dopo una serie di esperimenti e ricerche sul campo è nato il primo calcestruzzo di nuova generazione, D-Lime. Questo prodotto «combina performance di durata e sostenibilità mai raggiunte prima. Permette infatti di allungare la vita e la qualità delle costruzioni attraverso la sua capacità di auto-riparare eventuali crepe. Un processo che, come il cemento romano studiato da Masic, viene attivato dall’acqua che, invece di ammalorare il materiale, richiude le fessurazioni con un processo simile a quello della cicatrizzazione dei tessuti biologici». Il calcestruzzo sviluppato da DMAT consente

L’innovazione non corrisponderà ad un innalzamento dei prezzi, infatti la realizzazione del calcestruzzo D-Lime «sarà affidata ai produttori che, tramite un piano di partnership produttive e di licenze destinato agli stessi produttori, alle aziende di costruzione e agli sviluppatori immobiliari, potranno applicare direttamente la nuova formula senza modifiche agli impianti produttivi. La tecnologia di DMAT permetterà di realizzare prodotti che a parità di performance consentiranno di ottenere un risparmio fino al 50% dei costi. La tecnologia di DMAT permetterà di realizzare prodotti che a parità di performance consentiranno di ottenere un risparmio fino al 50% dei costi». ■

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«Un prodotto che combina performance di durata e sostenibilità mai raggiunte prima e permette di allungare vita e qualità delle costruzioni attraverso la sua capacità di auto-riparare eventuali crepe»
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1. Paolo Sabatini, CEO DMAT

Il futuro della Terra è più green

L’Italia, ad oggi, utilizza circa il 40 per cento di energie rinnovabili. Quale sarà lo scenario tra 30 anni?

SOSTENIBILITÀ

A novembre 2021, la rete elettrica italiana ha consumato 290.656 GWh (Giga Watt Ora) con una media mensile di circa 26.500 GWh. Secondo E.ON, l’Italia, nel 2021, ha chiuso con circa il 318.000 GWh di energia elettrica consumata. Il report di E.ON paragona il 2021 al 2019 in quanto il 2020 è stato condizionato ampiamente dalla crisi pandemica. Difatti, nel 2020, l’utilizzo di energia elettrica era di soli 302.751 GWh.

kWh) ma sopra alla media globale (3.316 kWh) e spreca molta più energia rispetto ad un indiano, che ne utilizza solo 972 kWh.

Al momento però, i consumi energetici non sono in aumento e, anzi, stanno registrando un lieve calo, grazie ad una diffusa cultura dell’efficientamento energetico che spinge verso la transizione ecologica del settore. Secondo il sito di statistiche OurWorldInData, ogni italiano consuma circa 4.554 kWh all’anno, molto meno rispetto ad un francese (8.097 kWh) o ad un olandese (7.246 kWh), sotto alla media europea (5.345

Secondo l’Ufficio Statistico di Terna, membro del Sistema Statistico Nazionale, la domanda di energia elettrica nel 2021 è aumentata del +6,2% rispetto al 2020. Il fabbisogno di energia elettrica è stato soddisfatto per l’86,6% da produzione nazionale destinata al consumo e per la quota restante (13,4%) dalle importazioni nette dall’estero (42,8 TWh), in aumento del 32,9% rispetto al 2020.

Per quanto invece riguarda la produzione annuale lorda del 2021, si parla del 3% in più rispetto al 2020 con un aumento di produzione per quanto riguarda la produzione eolica e fotovoltaica e una diminuzione della produzione idroelettrica, geotermica e delle bioenergie.

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Per quanto riguarda invece i consumi di energia elettrica, si ha un 6% in più nel 2021 rispetto al 2020. Dall’osservazione dei singoli macrosettori è stato rilevato un +8,2% per l’industria, un 6,4% sia per i servizi che per l’agricoltura e un +1,3% per il domestico.

L’incremento, segno della ripresa che ha seguito la fine del lockdown nel 2020, ha interessato quasi tutte le classi merceologiche. Ad esempio, per l’industria, i più significativi aumenti in valore assoluto sono stati rilevati nella metallurgia, nell’industria dei prodotti in metallo e nella classe delle ceramiche, vetraie, cemento, calce e gesso e altri minerali non metalliferi. Per quanto riguarda i servizi, invece il maggior incremento in valore assoluto ha interessato il turismo, ossia la classe alberghiera, ristoranti e bar ed altre attività professionali scientifiche e tecniche.

Nel 2019, circa l'11% dell'energia primaria globale proveniva da tecnologie rinnovabili.

In Italia nel 2021, l’energia primaria (ovvero tutte quelle sorgenti energetiche che sono presenti in natura in una forma direttamente utilizzabile dall’uomo senza la necessità di essere sottoposte a trasformazioni industriali o altri tipi di processamento intermedio) veniva attinta del 18,36%.

La quota di produzione italiana di energia elettrica, derivata da fonti rinnovabili, è il 41,9 % dell’elettricità che usiamo oggi. Secondo i dati basati sul 2021 le energie rinnovabili derivano da energia idraulica, solare, eolica, geotermiche, biomasse e rifiuti.

Nella Repubblica dell’Africa Centrale, ad oggi, ne utilizzano già il 100%, così come in Nepal, Buthan, Lesotho e Albania.

«Noi oggi, sostanzialmente, abbiamo un 40% di produzione elettrica rinnovabile» spiega il Presidente di ANEV (Associazione Nazionale Energia del Vento), Simone Togni.

«Secondo la traiettoria di crescita che ha preso il nostro governo, vincolata nell’ambito di decarbonizzazione, contiamo, come nazione, di non aver più bisogno di energie non rinnovabili entro il 2050». L’Italia, aggiunge, prevede di alzare al 55% la produzione di energia rinnovabile entro il 2030, arrivando al 100% nel 2050. «È un obiettivo fattibile, anche in tempi più rapidi. L’obiettivo interme-

dio, quello da raggiungere nel 2030, è passato da 50 a 55, secondo l’ultima revisione dell’Unione Europea» Ma l’Italia non si è ancora adattata.

Negli ultimi anni, senza calcolare la recente crisi della guerra in Ucraina che ha causato un incremento del costo del gas, i prezzi della produzione di energie rinnovabili (come l’eolico e il fotovoltaico) sono diventati competitivi: produrre energia con il vento costa meno che produrla con il gas.

«Sono tre i punti chiave di questa transizione ecologica: il costo dell’energia elettrica, che sarà più basso e costante, porterà benefici significativi a livello geopolitico, perché non dipenderemo più dalle importazioni e soggetti terzi, e ci sarà una riduzione della bilancia commerciale anche rispetto alle importazioni di carbone e petrolio». Si prospetta quindi un costo della vita meno caro e più green. O forse no?

«Le fonti rinnovabili non hanno impatto ambientale in quanto l’energia che viene prodotta è sprovvista di elementi inquinanti per l’atmosfera, eliminando le combustioni di fossili. Di conseguenza, si ridurrebbe l’emissione di gas che genera mutamenti climatici, come ad esempio il Co2, e si risolverebbe l’attuale crisi economica. Tutti aspetti positivi che però porteranno riscontri a lungo termine»

L’Italia ha un livello di inquinamento molto alto. Si posiziona infatti al sessantasettesimo posto tra i paesi con più inquinamento atmosferico, secondo il rapporto annuale del World Air Quality Report di IQAir. «All’anno si contano migliaia di morti premature per problemi respiratori, causati dall’inquinamento atmosferico» afferma Togni. Secondo i

calcoli dell’Eea (European environment agency) le morti premature sono state 58.600 per esposizione al particolato fine, 14.600 al diossido di azoto e 3.000 all’ozono: i numeri più alti di tutto il continente, secondo i dati relativi al 2020.

«Anche se si dovesse raggiungere in poco tempo la transizione ecologica» conclude Simone Togni «ci vorrebbero alcune decine di anni per far si che l’emergenza climatica rientri». ■

1. I dati schematizzano la situazione italiana per quanto riguarda le tematiche legate alla produzione, il fabbisogno e i consumi di energia elettrica. L'anno di riferimento è il 2020

2. L'utilizzo dell'energia primaria derivata dalle fonti di energia rinnovabili. In particolare l'energia idrica, solare, eolica, geoterminca, l'energia delle onde e delle maree e la bioenergia. È esclusa l'energia derivata dal biocarburante. I dati si riferiscono alle enegie primarie antecedenti alla conversione in elettricità, calore o benzina

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319,9 TWH +6,2% Fabbisogno di energia elettrica 280,0TWH +3,1% Produzione netta 119,8GW +0,6% Potenza efficiente lorda 46,6 TWH (+17,0%) Import 3,8 TWH (-50,3%) Export 30,7 TWH +8,0% Autoconsumo 300,9 TWH +6,0% Consumi elettrici 2 1

Tra creazione e distruzione

INDIA

Il volto diventa maschera. Nel Bharata Natyam la danzatrice trascende il tempo e tocca il divino

di Federica De Lillis

Quando l’attore-danzatore compie i suoi movimenti si fa interprete di un suono primordiale. Nella tradizione indiana, «la danza, insieme alla musica strumentale e al canto, rientra in un’espressione artistica che si estingue nell’istante, a differenza delle arti visive come la scrittura, la pittura o l’architettura». Marialuisa Sales, danzatrice e ricercatrice, spiega come queste forme d’arte si articolino su un principio riassunto nel termine sanscrito “sangeet”. «Nella concezione indiana la danza è di origine divina. Brahma, il dio creatore, ha trasmesso agli uomini il quinto Veda, che riguarda le arti sceniche, affinché apprendessero un modo meno astratto di raggiungere la realizzazione».

Secondo il mito, è questa divinità ad aver dato origine al mondo popolato di uomini che vivevano in armonia sotto la guida degli dèi. Impulsi distruttivi, però, si sono presto impossessati degli esseri umani. A quel punto, Brahma ha trasmes-

so loro un’opera basata sui quattro sacri Veda per guidare l’umanità verso la salvezza, rispettivamente dedicati alla recitazione, al canto, alla gestualità teatrale e al sentimento. Dalla mescolanza di questi nacque il quinto Veda, il Natyaveda, grazie al quale gli uomini avrebbero appreso il linguaggio sacro della danza, ritrovando sé stessi. Secondo la tradizione, è stato un antico saggio, sulla base di quest’ultimo dono di Brahma, a scrivere il più antico trattato di danza esistente al mondo intitolato Natya Shastra.

«Gli indiani lo datano intorno al VI secolo a.C. ma l’edizione definitiva che leggiamo oggi è collocata tra il II secolo a.C e il II d.C. Lo possiamo considerare un compendio della concezione delle arti, in cui si parla anche di teatro e di musica». Il testo ha trasmesso importanti precetti circa il modo di praticare queste discipline, ma la danza classica indiana conosciuta oggi come Bharata Natyam è una ricostruzione in chiave moderna delle danze antiche praticate nei templi.

«Tra il XIV e il XVIII secolo la danza era associata alla prostituzione sacraspiega Sales - e il suo nome antico era Dasi Attam ‘danza delle sacerdotesse del tempio’, o Sadir ossia ‘offerta’». Si credeva che i fedeli, unendosi alle Devadasi, le donne

consacrate alla divinità, riuscissero a entrare in contatto con gli dèi. Questa pratica venne abolita sotto la dominazione inglese ma le tracce delle danze templari sono state raccolte e reinterpretate negli anni ‘20 del Novecento condensandosi nello stile Bharata Natyam, praticato anche da Marialuisa.

Nelle sue esibizioni la danzatrice si muove agile su una sola linea melodica, tratto distintivo della musica classica indiana. Le braccia si allargano, si incrociano seguendo il movimento fluido delle mani, mentre la ballerina flette la gamba destra appoggiando tutto il peso del corpo dall’altra parte. Il busto resta rigido, lo sguardo fisso e imperturbabile trasporta in una dimensione trascendente. Gli arti sono i protagonisti di questo ballo, decorati con una tinta rossa che, spiega Sales, si trova «sulle prime falangi delle dita delle mani e dei piedi a replicare il colore naturale dei fiori dell’albero di Ashoka», un albero sacro per tutto il continente indiano, i cui fiori diventano rossi poco prima di appassire.

La bellezza espressa attraverso i movimenti del corpo è «un’eco del divino», mentre danza, la ballerina mette in atto un’arte che «nasce, si manifesta e si estingue nell’attimo». ■

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Cultura
© Carlotta Menna

Una ruota bianca nel buio della sala. La stoffa ruota, si dimena e man mano si colora. Rossa, verde, azzurra, arancione. Forsennata e liberatoria, la danzatrice sulla scena viene illuminata e mostrata al pubblico nel suo movimento inedito, unico.

È il 1896, Loie Fuller si sta esibendo sul palco del Folies-Bergère di Parigi. La sua arte è controcorrente, il suo corpo disomogeneo rispetto agli standard della danza di ieri e di oggi. Siamo, però, nella Parigi della Belle Époque, nella città che si avvia verso l’inaugurazione dell’esposizione universale del 1900, tutta dedicata alla luce. Fuller si inserisce alla perfezione nell’ambiente artistico della capitale francese, in cui ciò che non è conforme, è elevato dalla propria emarginazione e viene riconosciuto nella sua bellezza. Musa del pittore Toulouse Lautrec, che le dedica diverse opere, amica dello scultore Rodin, Loie intesse rapporti anche con i più brillanti scienziati del tempo. Segue le tendenze culturali, legge di psicoanalisi. Le sue danze luminose si ispirano agli studi di Jean-Martin Charcot, medico del Salpêtrière che riteneva che i corpi isterici fossero governati da un’aura interna che fuoriusciva dagli occhi, dalle dita e dalla bocca sotto forma di fasci di luci.

Quella sera del 1896 brillava dentro un abito impregnato dei sali fosforescenti di cui aveva scoperto l’esistenza sei anni prima, nello studio in New Jersey di Thomas Edison. Lo scienziato, che stava sperimentando il suo fluoroscopio, una primissima versione di quella che sarà la macchina a raggi X, prese la mano della ballerina e la mise nella scatola impregnata di sali fosforescenti: insieme la guardarono diventare traslucida fino a svanire nell’immagine delle ossa. «Edison mi spiegò che le scatole erano ricoperte di sali fosforescenti. Ho subito pensato che se avessi potuto avere un vestito impregnato con quella sostanza, sarebbe stato meraviglioso». Fuller appunta i ricordi di quello e altri incontri in alcuni scritti ancora consultabili tramite l’archivio della New York Public Library.

Loie applica un metodo scientifico allo sviluppo artistico, non si accontenta. I sali rendevano le vesti rigide e pesanti, non poteva immergerle completamente, le puntellava di luci simili a costellazioni. Ma la loro luminosità si esauriva troppo velocemente.

Nella sua continua ricerca di miglioramento si interessò al radio, la cui scoperta era stata annunciata dai coniugi Curie che conobbe nel 1902. A loro la legarono affet-

La danza luminosa di Loie Fuller

Nella Parigi della Belle Epoque la ballerina ridefinisce un’estetica congiungendo arte e scienza. Fondamentali per lei gli incontri con artisti e studiosi

to e ammirazione testimoniati dalle parole con cui li descrisse nella memoria di una giornata passata insieme nella casa di Rodin. «Questa coppia è famosa in tutto il mondo. Sono i più grandi chimici dei nostri giorni, al pari del celebrato Berthelot. In seguito il marito ci ha lasciati. Da allora è la moglie a portare avanti i comuni studi. Darei non so cosa per poter esprimere adeguatamente l’ammirazione che provo per lei».

Si scambiarono lettere, Loie Fuller e Marie Curie. Una ricca corrispondenza riguardante tematiche scientifiche. Le richieste della danzatrice di poter accedere alle sue scorte di radio, però, ricevettero sempre risposta negativa. Nonostante questo Fuller riuscì a compiere i suoi studi e in alcuni appunti sostenne che il radio, visto al buio, assomigliasse «un po’ a un pesce in decomposizione. La sua luce è di una fosforescenza smorta. Nessuno, vedendolo, si sognerebbe persino del potere di questo insignificante tubo da dieci o dodici pollici con la sua fioca luce fosforescente, ma è sempre illuminato e questa è una delle sue meraviglie! Da dove prende la sua luce e da cosa? Nessuno lo sa. Produce calore da dove? Da cosa? Nessuno lo sa. Questo è contrario alla legge di causa ed effetto. La scienza è perplessa».

Al radio comunque Fuller dedicò una danza che mise in scena per la prima volta nel 1911, in una celebrazione corporea, tentativo di rendere tangibile la bellezza estetica del pensiero scientifico. ■

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ESPERIMENTO di Silvia Andreozzi

Il corpo vibrante nella musica

SUONO

Ciò che ascoltiamo, non lo udiamo solo con le orecchie. Le parole di due musicisti sordi sul rapporto tra musica e sordità

«Come puoi essere una musicista se non puoi udire quello che suoni?» Non c’è domanda più comune e maligna di questa, scriveva Evelyn Glennie nel suo Saggio sull’udito. «La risposta, naturalmente, sarebbe che non posso essere una musicista dal momento che non sono in grado di udire». Con queste righe, la percussionista scozzese rispondeva – esasperata – a tutte quelle persone che, con quell’unica domanda, oscuravano la sua arte dietro una sola caratteristica: il suo essere sorda.

Credenza comune - o comunque di noi udenti - è che le persone sorde vivano in un mondo di completo silenzio. La realtà non è proprio così. «La sordità è solo

apparentemente assenza: di fatto, senza apparecchi acustici non sono in grado di sentire alcun suono o rumore che non sia molto forte e grave. Tuttavia, c’è sempre la percezione delle vibrazioni e poi dei suoni che provengono dalla mente». Giulia Mazza ha 36 anni, lavora come grafica in una cooperativa sociale di Padova e studia violoncello da quando aveva sei anni: indossa gli apparecchi acustici fin da neonata, a causa di una sordità da rosolia congenita.

«Il mio sentire la musica avviene attraverso mani, braccia, petto, piedi: è un’esperienza che si può definire tattile». Il suono, spiega Giulia, non è nient’altro che un impulso vibratorio che arriva al corpo in maniera differente: ascoltiamo con le orecchie, sì, ma anche con la pelle, che non a caso il noto audiologo francese Alfred Tomatis definiva come il grande prolungamento dell’orecchio. «Prima della musica esiste un suono di cui tutti facciamo esperienza fin dal periodo della gestazione, quando sentiamo i movimenti e la voce di nostra madre. Il grembo materno è la prima orchestra, la terra è

la grande orchestra. Il suono lo abbiamo già, è dopo che si organizza in musica».

La citazione è di Giulia Cremaschi, maestra di musica di Giulia nonché decana della musicoterapia italiana: dai suoi studi con i bambini sordi è nato Il corpo vibrante, teorizzazione e messa in pratica del rapporto sonoro tra uomo e mondo. È stata proprio lei, trent’anni fa, a mettere nelle mani di Giulia bambina un violoncello, consapevole di quanto quello strumento – con la sua grande cassa armonica posizionata a poca distanza dal corpo – avrebbe favorito la percezione delle vibrazioni.

Generalmente, sono i suoni gravi ad essere avvertiti dal corpo con più chiarezza. «Nei miei laboratori utilizzo campane tibetane di diversa grandezza, prima suonate distanza e poi poggiate sul corpo». Fabio De Vincentis è musicoterapeuta e lavora con udenti e sordi di tutte le età: racconta di Feel the sound, un laboratorio organizzato insieme a Movidabilia Spazi senza barriere, nel 2019. «A mano a mano che la grandezza delle campane

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Cultura

tibetane utilizzate aumentava, queste cominciavano ad essere percepite più intensamente, non solo nella parte più bassa, ma anche nella parte alta del corpo.

Poi abbiamo consegnato ad ogni partecipante – in quel caso erano tutti sordi - la possibilità di suonare attivamente: ciò che mi ha colpito è stato che, in alcuni momenti, il suono delle campane più acute era (per noi udenti) insopportabile a causa della sua intensità. Le piccole campane venivano infatti percosse dai partecipanti fortissimo, nel tentativo, portandole vicino all’orecchio, di percepirne il suono e la vibrazione».

Per i musicisti sordi questo principio è alla base del proprio lavoro. «Nel nostro corpo le vibrazioni cessano di esistere dal registro medio verso gli acuti. Tutto ciò che non riesco a sentire bene nel registro acuto lo riproduco in quello grave. Una volta capito quale sia il risultato sonoro, allora cerco di immaginarlo nel registro acuto». Davide Santacolomba è concertista e Maestro di pianoforte al conservatorio Arcangelo Corelli di Messina: soffre di ipoacusia neurosensoriale bilaterale profonda, diagnosticatagli quando aveva 8 anni. «In poche parole, percepisco soltanto i suoni bassi fino all’ottava centrale del pianoforte».

Nello studio di un brano, Davide segue quella che chiama la logica della scala: i suoni sono come i gradini di una scala di cui si conosce il meccanismo e di cui si può immaginare la prosecuzione verso l’alto o verso il basso. Per questo Davide parla di orecchio della mente come capacità di “vedere” i suoni: lo studio delle singole voci melodiche, la conoscenza dell’armonia e dell’analisi musicale ne aiutano lo sviluppo. «Col tempo, ho imparato a immaginare i suoni: li sento attraverso le dita, li vedo che assumono forme».

Secondo Davide, le difficoltà sono altre. Ad esempio, suona Debussy «troppo concretamente, quando la musica impressionistica richiederebbe una sonorità più vaga e indefinita». Per questo, lavora molto attraverso feedback esterni. «Quando non capisco bene il tocco che devo dare a singole note, accordi o intere frasi, oppure quanto peso devo dare alle note, i miei colleghi o amici musicisti ed insegnanti riproducono il passaggio musicale con le loro dita sul mio corpo, nello specifico sulla spalla, sul braccio o sulla mano. Io cerco quindi di “sentire” attraverso il tatto». L’udito come «forma specializzata di tatto» - per citare nuovamente Evelyn Glennie. Alla fine di

tutto, «la sordità è solo un modo diverso di ascoltare la musica» spiega Giulia: «In tutta la mia vita ho osservato tanto il modo in cui le persone udenti sentono: cerco di avvicinarmi al loro mondo - non senza difficoltà - ma chiaramente non ho la pretesa che la musica debba essere concepita in maniera differente. Credo solo che la sordità possa contribuire a dissolvere dei muri che si credevano in-

crollabili». Quelle stesse barriere di cui parla Davide: «per tutti i musicisti esiste un grande sottosopra: quello del suono e il suo esatto contrario, il silenzio». Nel suo caso, è il «silenzio il mio sottosopra». Che non significa assenza, ma corpi vibranti. ■

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1. Giulia Mazza ©Beppe Costa 2. Davide Santacolomba ©Nicola Kalbaris
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3. Fabio De Vincentis

Figli delle stelle

esperienze personali, aggiornano nel corso della storia il proprio software interno».

Nonostante innumerevoli questioni esistenziali restino indecifrabili, «l’astrologia osserva non solo il tempo lineare e ciclico del sole e delle stagioni, ma anche le ciclicità della vita. Se la scienza, cioè, misura la dimensione quantitativa del tempo, l’astrologia ne approfondisce invece la dimensione qualitativa». Come pesci che inconsapevoli nuotano nell’acqua, così «gli uomini sono immersi nel tempo e non lo notano, ma più lo osservano, più possono rilevare coincidenze e corrispondenze».

Con gli occhi spalancati sulla mappa della vita, nella quale niente è fisso ma tutto è in perenne evoluzione, l’astrologo può quindi «fornire uno strumento di consapevolezza e di osservazione di sé stessi per ampliare la visuale sulla realtà. Non predice fatti futuri con certezza, altrimenti io stessa sarei ricca con le scommesse sportive, ma archivia dati su esperienze passate e presenti e approfondisce così il rapporto con il tempo. L’astrologia non è quindi una scienza, ma allo stesso tempo negare la sua esistenza e le sue possibilità esprime un punto di vista cieco».

Disciplina antica, avvolta nei secoli dalla superstizione, l’astrologia indaga la misteriosa sostanza del tempo

ASTROLOGIA

ligione, ma di una materia che si può scegliere di ignorare o tentare di conoscere».

«L’astrologia è il mestiere più antico del mondo». Attratta dalla volta celeste, Irene Lumpa Rossi ha assecondato «una vera e propria vocazione, che secondo Paolo Fox è imprescindibile», affiorata già nel nitido ricordo delle date di nascita delle sue compagne delle elementari, fiorita poi nella giovinezza tra «mille false partenze» e coltivata infine a trent’anni dopo la deflagrazione di «una crisi della vita».

Da lì, «il fioretto» di nutrire il tempo libero soltanto con calcoli logaritmici, studi di funzioni e osservazioni di transiti planetari, per evolvere da autodidatta ad astrologa della Madonnina. «L’astrologia si colloca in una terra di mezzo: pur non essendo una scienza, richiede una mentalità scientifica, perché rappresenta una forma di matematica notevolmente incompresa e vissuta come superstizione. Mi rammarico che le persone dicano “Io non ci credo!”, perché la questione non è credere o non credere. Non si tratta di re-

Nata sotto il segno zodiacale del Cancro, con ascendente e Luna in Bilancia, Lumpa diffida anche del «razzismo astrologico connesso agli stereotipi dell’oroscopo popolare. La verità è molto più complessa. Cancro ascendente Bilancia, non so che cosa si dica di loro, ma penso niente di buono!».

Per Lumpa, l’astrologia racchiude un significato più profondo: «È la più antica forma di comprensione del tempo, che rappresenta la sostanza più misteriosa persino per i fisici e per gli scienziati. Agli albori della civiltà, nell’oscurità delle notti, i pianeti e le stelle costituivano gli unici punti luminosi osservabili, perciò l’astrologo era il custode del funzionamento del tempo».

La quarta dimensione, però, «non scorre sempre uguale. Se il tempo è leggero si resta giovani, se invece il tempo è pesante si invecchia velocemente. Allo stesso modo, le persone sono figlie del momento in cui sono nate». Insomma, in una data di nascita, in un orario e in una collocazione geografica «c’è già tutto, perché le persone sono unità di memoria che vivono in funzione del tempo e che, a partire dalla storia familiare e attraverso le

Lumpa auspica una collaborazione tra l’astrologia e le altre discipline, perché «con uno sguardo più approfondito sulla realtà, la collettività potrebbe prevedere il tempo di fenomeni collettivi o i momenti potenzialmente critici, acquisire consapevolezza e affrontare così gli eventi con maggiore preparazione». Nel frattempo, tra i futuri progetti di Lumpa spicca l’attività di volontariato per insegnare astrologia nel carcere di Bollate. «Ho immaginato che le persone che si trovano lì abbiano molta capacità di osservare il tempo. Avere meno distrazioni significa fare attenzione non solo ai grandi fatti, ma anche alle piccole cose, perché il tempo è infinito». ■

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di Elena Pomè
Cultura

L’Energia delle pietre

te la quarantena ho comprato dei fili dal ferramenta. Non erano ancora i materiali adatti, ma stavo evolvendo piano piano. Proprio in quel periodo sono entrata per la prima volta in un negozio di cristalli e ho cominciato ad appassionarmi».

tatto con il cristallo prima di voi, il venditore o chi ha levigato la pietra. Una volta purificato bisogna programmare la pietra tenendola stretta in mano e assegnandole un compito. In questo modo il cristallo sarà da monito per ricordare i vostri scopi». Negli ultimi anni, dalla pandemia ad oggi, il fenomeno dei cristalli e della cristalloterapia si è fortemente diffuso sulle piattaforme social.

«Ricordo la mia casa con giardino a Berlino. Il prato verde, gli alberi e un grande garage dove il papà della famiglia che mi ospitava aveva un banco da lavoro pieno di pinze e altri attrezzi. Con la mia sorella ospitante ci divertivamo a raccogliere pietre e conchiglie, creando dei gioielli che indossavamo a scuola. Questo è il mio primo ricordo legato al mondo delle pietre e dei cristalli: è iniziato tutto come un gioco».

Amalia Voi ha 21 anni e sulla sua pagina @ameetista crea gioielli con minerali particolari e diffonde le sue conoscenze riguardo alle energie dei cristalli e i loro principi. «Un altro ricordo legato a Berlino erano i ciuffi di carote arancioni e verdi legati da un piccolo cordino blu acceso. Quel filo è stato uno dei primi materiali che utilizzavo per fare gli orecchini che poi regalavo alle mie amiche. Erano materiali di scarto, ancora non sapevo quali fili o pietre utilizzare». Con la pandemia, quello che per Amalia è un semplice hobby, inizia a diventare una specializzazione. «Duran-

A dare la spinta decisiva alla carriera di Amalia nel mondo dei cristalli è stato il destino. «Un anno, durante un trasloco, ho trovato un vecchio portafoglio di mia nonna. Non l’ho mai conosciuta perché l’ho persa quando ero molto piccola, ma all’interno ho trovato delle pietre: erano due agate. “Tua nonna li usava come portafortuna”, mi ha detto mia madre. Qualche giorno dopo ricevetti in regalo un ciondolo di agata. Era un segno».

Oggi Amalia diffonde le sue conoscenze sui social: con 21 mila followers su TikTok, fa video in cui mostra come distinguere un cristallo vero da un semplice vetro, spiega le varie proprietà dei cristalli e impara a “programmarli”.

«Ogni cristallo ha un suo specifico funzionamento. Se si è stressati consiglierei più un’ametista per trasmettere calma o un quarzo rosa. Se si è arrabbiati, meglio una pietra azzurra come l’amazzonite, che calma e aumenta le capacità comunicative. Una volta capito il cristallo più adatto a voi, bisogna prima purificarli, con incenso o con una selenite, per allontanarli dalle energie di coloro che sono entrati in con-

«Conoscere le proprietà delle pietre ci può aiutare ad attrarre il tipo di energia che ci manca per affrontare la giornata. È uno strumento di introspezione, non fanno certo miracoli! Ritengo che i cristalli siano un tipo di energia palpabile che ti porta a chiedere “come ti senti davvero?”. Servono a fare un po’ di chiarezza nella nostra vita».

I cristalli come portatori di energie, come strumento di introspezione e autoanalisi. «Mi aiuta davvero tantissimo averli attorno mentre lavoro o mentre studio: riesco a concentrarmi meglio. Gli anni che la terra ci ha messo a plasmarli, hanno trasmesso energia vitale a queste pietre. È un modo per connettersi con le proprie radici. Le persone che mi seguono mi danno molta fiducia. Dicono che trasmetto energia positiva e mi raccontano la loro vita per avere consigli su quale pietra usare. Io sono lusingata, ma ne sento anche la responsabilità. Ci sono casi più gravi in cui le pietre non possono fare da effetto placebo».

Nei casi più gravi no, ma forse per lo stress degli esami sì: «Certo! Se non avessi la mia ametista in tasca, non passerei nessun test!» ■

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Amalia Voi, Tiktoker e piccola artigiana, parla del nuovo trend della cristalloterapia CRISTALLI di Giorgia Verna

Non solo sesso, il Tantra è molto di più

SPIRITUALITÀ

Conoscere la propria essenza e percepire che tutto è spirito ed energia: è questa la vera essenza di una via spirituale, troppo spesso incompresa dalla società occidentale

Il Tantra, però, prende in considerazione tutti i livelli energetici, da quello più pesante e vicino alla materia, a quello più etereo e vicino allo spirito. «È il concetto dei sette chakra, comune anche alla tradizione dei Veda», spiega Sharmjla.

«Tra le energie, questa è l’unica via spirituale in cui trova spazio anche quella sessuale. Nell’immaginario comune, questo aspetto viene subito connesso al pensiero: “Ah, allora il Tantra equivale a fare sesso”. Ma questa è una banalizzazione e semplificazione, che non comprende la dimensione sacra della sessualità come mezzo per arrivare allo spirito», conclude Sharmjla.

Non una pratica sessuale, dunque, ma un percorso spirituale che passa attraverso il corpo, in cui la meditazione e il contatto con se stessi hanno un ruolo fondamentale per raggiungere la consapevolezza della propria essenza divina.

È una strada che stravolge e migliora la vita di chi la percorre, come è successo a Sharmjla.

«La sessualità tantrica non ha niente a che vedere con quello che si dice in giro. Il Tantra non insegna arti amatorie o tecniche orgasmiche. Al contrario, porta a fare un lavoro su di sé, a conoscere la propria vera essenza e a percepire che tutto è spirito ed energia». Sharmjla smentisce l'immaginario comune che vede in questa via spirituale un semplice modo per fare sesso.

Quando ha fondato Formazione Tantra a Roma, aveva un solo obiettivo in mente: trasmettere quello che aveva imparato dai più grandi esperti e formare figure professionali che a loro volta potessero fare lo stesso.

«Tantra in sanscrito vuol dire “tessuto”, “trama”, “intreccio di fili”. Poi da lì il significato è diventato “espansione della coscienza”, ma la trama, i fili che si intrecciano stanno a indicare che l'immanente e il trascendente sono intrecciati insieme, che lo spirito è nella materia e la materia è spirito». Da qui la rivalutazione del corpo, che ritrova la sua dignità in quanto espressione di Shiva, il creatore e l’assoluto che permea di sé l’esistente attraverso la Shakti, la forza creatrice e dinamica. Secondo la corrente dello Shivaismo del Kashmir, le due divinità induiste rappresentano l’energia maschile e femminile del mondo, dalla cui compenetrazione trova forma l’esistente.

«Per 25 anni mi sono ritrovata bloccata in una situazione di dipendenza affettiva. Il malessere era totale e non riuscivo ad uscirne, nonostante mi fossi rivolta alla psicoterapia e negli anni – con due lauree e una formazione in counseling – avessi acquisito diversi strumenti. Il Tantra è stata quella via arrivata un po’ per caso, che mi ha permesso di ascoltarmi in maniera diversa. Il mio corpo ha incominciato a parlarmi chiaro e ho proprio percepito che c'era una parte spirituale molto concreta a cui dovevo dar retta».

Da lì i pensieri di Sharmjla sono cambiati, ha ritrovato il suo valore e ha compreso quanto fosse importante quello che poteva dare come donna a se stessa, all'uomo e all’umanità. «A quel punto il discorso “sono niente senza di te” non reggeva più e, in un modo o nell'altro, è stata la vita stessa che ha allontanato questa persona». ■

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Cultura
Immagine generata dall'Intelligenza Artificiale

Il Colpo di fulmine l’attrazione irresistibile

Lo

psicologo Mariano Indelicato spiega cosa succede nel nostro cervello quando ci si innamora: la chimica e l'energia che si sprigionano durante un innamoramento

di Caterina Di Terlizzi

William Shakespeare in Sogno di una notte di mezza estate scriveva: «L’amore non guarda con gli occhi ma con la mente e perciò Cupido viene dipinto bendato». La ragione si allontana veloce, prepotentemente soppiantata dal ritmo pazzo del cuore innamorato. Oltre le congetture vola alto Cupido con la sua faretra piena di frecce avvelenate d’amore.

«Accelerazione del battito cardiaco, aumento del ritmo della respirazione e farfalle nello stomaco, sono i primi avvertimenti di un colpo di fulmine», nel racconto sorridente dello psicologo Mariano Indelicato. «La scienza sostiene che il colpo di fulmine sia legato alla produzione di dopamina, un neurotrasmettitore che è associato alle sensazioni di piacere e ricompensa. Viene rilasciata in grandi quantità quando si è attratti da qualcuno, causando una sensazione di euforia e benessere» spiega il dottore dal suo studio a Catania. «Un ruolo fondamentale ce l’ha anche l’ormone dell’amore, la noradrenalina che, rilasciata, ci eccita».

Non si parla solo di chimica del cervello, ma anche di psicologia: «L’attrazione romantica è influenzata dalla percezione di similarità, di complementarità e di disponibilità dell’altra persona». Mariano Indelicato, specializzato in terapia di coppia, disturbi sessuali e cura della depressione, afferma che «più ci si sente simili a qualcuno, più si è propensi a provare un colpo di fulmine». Questa sensazione tanto appagante può avere effetti collaterali. «Da un lato è una sensazione intensa e improvvisa di attrazione e connessione profonda, dall’altra comporta ansia, stress e insicurezza e porta a comportamenti impulsivi e decisioni affrettate, come lasciare il proprio partner per qualcun altro». È un’arma a doppio taglio questa scossa elettrica che accende la passione, la scintilla che anima l’amore.

La crisi di una coppia può far detonare innumerevoli colpi di fulmine che si mutano in tradimenti. «Discendiamo da mammiferi poligami, ma viviamo in una

società che ci vuole fedeli e monogami. L’innamoramento è guidato insieme da fattori sociali e antropologici, in quanto funzionale alla conservazione della specie: serve a fare coppia, a procreare» dice Indelicato. Con questi chiari di luna poco romantici, ci si trova a vivere in una società ipocrita dove si finge di star comodamente dentro la coppia con i cuoricini fedeli da Baci Perugina, uniti per sempre, ma la spinta che dà la natura è spesso troppo più forte.

«Un pomeriggio si gira l’angolo di casa e ci si ritrova davanti un’attrazione che non si controlla. Si mandano al diavolo tutte le regole imposte, a volte si riesce a stare in bilico fra quello che vogliono le

regole e quello che si è, ma comunque si tradisce, o meglio non si può fare a meno di seguire l’istinto» riconosce lo psicologo. Prolificano così le bugie fra due persone che si erano promesse fedeltà cieca, cieca davvero. «Tutto il resto è noia» lo sapeva anche il cantautore Franco Califano che il momento più bello è quando sorprende il colpo di fulmine. Ed è proprio sul colpo di fulmine che il professor Mariano Indelicato insegna come si fa a perdere la bussola quando Cupido scocca la sua freccia. Anche a Modena, nella galleria estense l’opera seicentesca di Guercino: Venere, Cupido e Marte ritrae l’attimo dell’innamoramento. Venere guarda il visitatore e indica a cupido il bersaglio, il cuore di chi guarda il quadro è pronto da colpire. ■

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AMORE
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tensione
di Ludovica Esposito Costruisci e alimenta centrali elettriche nel gioco da tavolo di Friedemann Friese STRATEGIA Cultura
La
è alta in questa elettrizzante partita

Stai valutando se costruire a Berlino o Francoforte la tua centrale. I tuoi avversari ti hanno accerchiato, costruendo a Lipsia e Torgelow e ti hanno costretto a spendere molto al mercato delle risorse per comprare i rifiuti necessari ad alimentare i tuoi impianti, mentre loro hanno investito in carbone e petrolio. Uno di loro è passato al nucleare e ha monopolizzato l’uranio. Conti gli Elektros che ti sono rimasti, capisci che potresti non essere più in grado di continuare a comprare le risorse che ti servono e consideri una svolta ecologica, passando all’energia eolica per risparmiare sulle risorse. Ti domandi però se non sia la stessa strategia che vogliono adottare i tuoi avversari e se non ti convenga rilanciare alla prossima asta delle centrali, così da aumentare il costo per loro se tu ancora non ti potrai permettere gli acquisti che hai in mente e guadagnare tempo.

È questo il meccanismo di Alta Tensione, il gioco da tavolo di Friedemann Friese: da due a sei giocatori si sfidano in Germania o negli Stati Uniti d’America, le due mappe presenti nella scatola base, in una partita di circa 120 minuti.

Il titolo originale è Funkenschlag (scintilla) e rispetta il canone della 2-F, la casa editrice dell’autore, di avere nomi che iniziano con la lettera F. «Scelgo sempre i miei giochi per il nome. La cosa

principale è che inizino con una F» scrive l’editore su Twitter.

La prima edizione risale al 2001, ma l’autore ha rielaborato alcune dinamiche nel 2004, facendo uscire la seconda edizione che è stata quella tradotta in inglese e nelle altre lingue, tra cui l’italiano.

Da allora, il gioco in scatola verde, come i capelli del suo autore, ha riscosso grande successo a livello mondiale e nazionale, collezionando numerosi riconoscimenti; nel 2011 e nel 2012, è stato organizzato un campionato italiano di Alta Tensione. Numerose espansioni si sono susseguite, permettendo ai giocatori di

costruire centrali energetiche in Francia e Italia, in Brasile e Spagna e Portogallo, in Russia e Giappone, in Europa e Nord America. Non solo nuovi territori, ma anche meccaniche di gioco: come la possibilità di diventare azionisti in Le società per azioni o di giocare contro un Robot, nell’omonima espansione o anche di tornare all’età della pietra.

Nel 2005, il titolo è entrato nella lista delle raccomandazioni dello Spiel des Jahres (il premio di gioco dell’anno in Germania), con la motivazione della giuria: «Alta Tensione è enormemente complesso e innovativo. Qui giochi due ore e più come se fossi sotto tensione». ■

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Il tempo è energia

CINEMA

Esplosioni di gialli, arancioni e rossi, su una fotografia in bianco e nero che conduce agli anni Quaranta in cui è ambientata la storia. Fiamme vive di un’energia distruttiva, sul punto di cambiare per sempre il mondo. Christopher Nolan, dopo la tiepida accoglienza di Tenet (2020), penalizzato dall’uscita in periodo di pandemia, si dedica a un progetto di lunga data, inaugurando una nuova fase della sua carriera dopo lo storico addio alla produzione e distribuzione Warner.

Oppenheimer, previsto in sala con Universal per luglio 2023, si presenta già in listino come un blockbuster estivo, riservato a uno dei più ricchi periodi annuali del box office statunitense. Un film di costanti e di variazioni per il regista premio Oscar per meriti tecnici nel 2013, noto per il suo talento negli effetti visivi analogici. La spettacolarizzazione delle sequenze di azione non mancherà anche in questo suo dodicesimo lungometraggio, enfatizzata dalla scelta di girare con telecamere Imax, formato che rappresenta già il futuro del cinema, più ampio, coinvolgente e spettacolare del classico 16:9 orizzontale.

Dopo sei film insieme, protagonista è un attore-feticcio di Nolan, presente per lo più in ruoli secondari nei suoi successi: dalla trilogia di Batman a Inception. Cillian Murphy, irlandese dai grandi e gentili occhi celesti su un volto durissimo, possiede già nel suo aspetto quella contraddizione d’animo necessaria a interpretare Oppenheimer, il professore che si pentì della bomba. Fra le pochissime notizie trapelate sul film, insieme alle prime immagini ufficiali, si prevede che si tratterà di un racconto dello scienziato e dell’uomo, non solo nell’ambito del Progetto Manhattan ma anche nel suo privato. Florence Pugh, fra le star più apprezzate di Hollywood negli ultimi anni, è stata scelta per interpretare la psichiatra Jean Tatlock,

la giovane amante di Oppenheimer. Comunista americana negli anni Quaranta e bisessuale in difficoltà nell’accettare la sua stessa attrazione verso le donne, il personaggio di Tatlock, per la caratterizzazione e per la scelta di casting, è quello che potrebbe persino mettere in ombra Cillian Murphy, nonostante Nolan non abbia mai brillato per la caratterizzazione dei suoi personaggi femminili. Accanto a lei, si affollano nomi di spessore, dal premio Oscar Rami Malek a Robert Downey Jr., fino Benny Safdie, uno dei due brillanti fratelli del cinema indipendente statunitense. Presenza fissa come nei suoi ultimi film sarà anche in questo caso Sir Kenneth Branagh: costanti e variazioni, di nuovo.

Agganciandosi al filo conduttore dell’intera filmografia di Nolan, Oppenheimer riprende e rielabora la rappresentazione del tempo. Dalla memoria di Memento, ai paradossi del viaggio nel passato in Tenet, il tempo in Oppenheimer riacquista la sua valenza fisica e matematica, diventa “parte” invisibile ed essenziale della formula che rivoluziona il mondo. Il suo controllo è essenziale, dentro e fuori la storia, come è evidenziato anche dalla campagna promozionale: un conto alla rovescia, iniziato lo scorso luglio sul sito ufficiale del film, che proseguirà fino al giorno dell’uscita in sala.

Numeri, secondi che scorrono, separano il momento esatto in cui le fiamme di quell’esplosione, con la violenza calda e brutale dei loro colori, irromperanno nel racconto di un passato in bianco e nero, fermando per tutti il momento presente. Con la consapevolezza di aver assistito a uno di quei momenti in cui il tempo detta il racconto, Nolan sembra aver trovato ancora una volta il modo di trasformarlo in kinesis, in Cinema. ■

Spettacoli
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“Oppenheimer”, Christopher Nolan © 2022 Universal Pictures, anche a fronte di Valeria Verbaro Christopher Nolan porta sul grande schermo la storia del fisico a capo del Progetto Manhattan

Il “nonno”

della bomba atomica

Lo scienziato Robert Oppenheimer diventa un idolo americano grazie a un dettaglio, il dubbio NUCLEARE

dente Truman per redigere un report sul nucleare «per prevenire l’uso dell’energia atomica per scopi distruttivi». Oppenheimer studia per mesi prima di svolgere i 10 giorni di lezione che tiene ai due uomini di Stato.

L’appuntamento si rinnova nel 1952 alla sola presenza di Acheson. Negli anni, Oppenheimer si espone pubblicamente riconoscendo le reali intenzioni del governo sul nucleare e sulla sua proliferazione. Di fronte al report e la sua uscita recente, rivolgendosi ad Acheson, il fisico nucleare ne rintraccia il nucleo: «Il problema che è sollevato dal rilascio dell’energia atomica è il problema dell’abilità della razza umana di governare se stessa senza l’uso della guerra».

Per gli scienziati il problema è però ridotto al successo dell’operazione. Oppenheimer, nonostante sia diventato la “Morte”, riconosce la nebbia che lo circonda. Un potere effimero, schiacciato dai burocrati di Washington e da una guerra che necessita una svolta. «La ragione per cui facciamo questo lavoro è una necessità organica. Se sei uno scienziato non puoi fermare certe cose. Ma non è possibile essere scienziati se non si crede che ci sia della bontà nella conoscenza», pronuncia nel 1945 durante un discorso.

Del deserto rimane poco o nulla. Trinity, la sua creazione, la prima bomba nucleare, richiede un test. Mentre sfumature di rosso colorano la nuvola di polvere e fuoco, alla vista del suo scoppio le labbra di Oppenheimer sibilano un antico verso delle scritture Hindu: «Ora sono diventato Morte, il distruttore di mondi».

Ad Alamogordo, la piccola cittadina del New Mexico in cui si è svolto l’esperimento, gli scienziati del progetto Manhattan trovano il luogo ideale per dare una svolta al mondo della scienza. Provenienti dal laboratorio di Los Alamos, nella schiera di camici bianchi sono reclutati i migliori cervelli dell’epoca, compresi gli italiani Enrico Fermi ed Emilio Segre. A capo della squadra c’è un certo Robert Oppenheimer, uno scienziato sconosciuto a con-

fronto dei premi Nobel presenti. Ai loro occhi, e a quella della società americana, riesce però a diventare un mito vivente.

A erigerlo sul piedistallo della comunità scientifica interviene un elemento tanto essenziale quanto rischioso per la ricerca: il dubbio. Oppenheimer è un uomo alto, dagli occhi azzurri e l’aura tormentata. Non capisce chi lui sia e cosa stiano facendo in quel piccolo rettangolo nucleare a Los Alamos. Che se ne farà delle bombe? Dopo il lancio su Hiroshima e Nagasaki, a esistere rimane solo il dubbio.

Dopo pochi anni le bombe crescono, si evolvono e la nuova possibilità di esplosivi a idrogeno impone delle domande. A volere delle risposte sono Acheson e Lilienthal, i due uomini scelti dal presi-

È il senso di offuscamento che lo mette in costante allerta. Le conseguenze immediate le ha colte fin troppo bene. La sola possibilità che quel male possa riapparire comporta in lui una posizione di continua incidenza con il potere. A esiliarlo dai palazzi nel 1954 il senatore McCarthy. L’accusa, simpatie per il comunismo. Oppenheimer perde il laboratorio, ma soprattutto l’accesso ai segreti di Stato sul nucleare. L'incidenza diventa quiete e l’allerta, con l’inizio dell’insegnamento a Princeton, scompare. A rimanere sono le conseguenze, che ricorda in ogni lezione fino alla morte nel 1967. A ripristinare l’accesso ai documenti è nel dicembre del 2022 il presidente statunitense Joe Biden. Infatti a rivelarlo è la Segretaria all’Energia Jennifer Graholm. Secondo l’amministrazione americana, «più passava il tempo, più prove emergevano sul fatto che Oppenheimer fosse stato vittima di un’ingiustizia, mentre le prove del suo amore e della sua lealtà verso il Paese venivano confermate».

Dopo 68 anni, il dubbio sbiadisce. Ad Alamogordo i lupi messicani hanno invaso l’Alameda Park Zoo. Di fronte al deserto dove Trinity fece brillare tutto il cielo, a fare la guardia rimane solo il pistacchio più grande del mondo. ■

di Lorenzo Sangermano
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L’auto di terza generazione rivoluziona la Formula E

Le nuove monoposto ecologiche e silenziose corrono a 322 km/h

MOTORI

Un inizio lento per il campionato di Formula E 2023, che il 14 gennaio ha inaugurato la competizione annuale a Città del Messico. Erano grandi le aspettative sul ritorno in pista, dopo diversi anni, di Maserati. Ma l’italiana non ha saputo mantenere le promesse sussurrate nella prova di Valencia.

La grande novità che ha rivoluzionato la gara, nonostante l’assenza di virtuosismi da parte dei piloti, è Gen3, la monoposto di terza generazione che a Città del Messico ha messo per la prima volta le quattro ruote sulla pista. Gen3 è la nuova macchina a disposizione dei piloti e dei Team che ha innovato la competizione. Una vettura che non ha nulla a che vedere con la Gen2, la monoposto uscente, in gara lo scorso anno. Peccato per la fragilità del veicolo che ha costretto i piloti a rimanere prudenti per sperimentare la macchina. «È completamente nuova, dal telaio alle gomme. L’elettronica è diversa rispetto al modello precedente, a partire dal motore anteriore che sfrutta l’energia prodotta dalla stessa macchina durante

la frenata. Non c’è da stupirsi se i piloti sono stati cauti per studiare la nuova vettura». Marcelo Padin, giornalista esperto di Formula E, era in Messico e ha assistito alla gara del 14 gennaio senza, però, rimanere estasiato dalle prodezze dei piloti. «La gara è stata un po’ noiosa rispetto agli standard della Formula E». Anche il ritorno di Maserati sulla pista non è stato brillante come ci si aspettava. Il Team, nelle prove generali svolte a Valencia – in cui debuttava in pubblico – aveva fatto sperare in un ingresso scintillante, arrivando sempre secondi o terzi in diverse sessioni. Nella realtà del Messico, però, Edoardo Mortara, primo pilota del team Maserati, «si è ritirato dopo l’incidente. È andato lungo contro le barriere» e il suo compagno Maximilian Günther si è classificato undicesimo.

La nuova macchina, anche se è la causa della parsimonia dei piloti, ha innovato completamente la Formula E che, secondo Padin, «non ha nulla a che vedere con la Formula 1. Non cambiano solo le modalità con cui vengono alimentate le macchine, ma anche i

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Sport

motori e le gomme sono completamente diversi: in Formula 1 gli pneumatici sono di vari tipi e si possono cambiare, mentre in Formula E si usa un’unica tipologia e non c’è cambio di gomma in gara». La Gen 3 è una macchina più leggera, 60 kg in meno rispetto alla Gen 2, ma è anche molto più potente: le monoposto sono in grado di raggiungere una velocità di 322 km/h contro i 280 km/h della generazione precedente. Inoltre è dotata di un motore anteriore che viene utilizzato come generatore di energia mentre la macchina è in fase di frenata.

Questa novità ha cambiato la durata della competizione. Mentre prima le gare di Formula E erano a tempo, 45 minuti più un giro – in cui andava dosata l’energia restante – da quest’anno, grazie al nuovo motore, il traguardo si raggiunge dopo 36 giri più cinque, aggiunti per il regime di safety car. Dopo Città del Messico, la seconda tappa del campionato si correrà a Diriyah, un circuito in Arabia Saudita fra i più tecnici nel calendario 2023 sia per i cambi di direzione in successione rapida con scollinamenti, sia per l’ambiente desertico: il vento trascina in pista la sabbia compromettendo l’aderenza dell’asfalto. I nuovi pneumatici Hankook sono disegnati con una mescola dura che già a Città del Messico ha messo in luce la difficoltà di controllare le vetture che, pur essendo più potenti di quelle di seconda generazione, hanno meno presa sull’asfalto. In un circuito complesso come quello saudita sarà il pilota che possiede

più confidenza con la vettura ad avere la meglio sugli altri, essendo il percorso più complesso della competizione e tecnicamente più difficile. La Formula E nasce dall’idea di una competizione automobilistica sostenibile in tutto: dalla costruzione al consumo delle macchine, dai team all’organizzazione. L’attenzione all’ambiente non si evince solo dalla sostituzione del combustibile fossile con l’energia elettrica nell’alimentazione delle monoposto.

Anche le modalità di lavoro dei team e i materiali impiegati nell’assemblaggio di automobili si dirigono ad alta velocità verso gare poco inquinanti e silenziose. «La principale caratteristica che differenzia la FE dalla F1 è l’attenzione all’utilizzo di energie pulite e rinnovabili per azzerare l’impatto ambientale delle gare in ogni aspetto della competizione». Non mancano, infine, i riconoscimenti ai team virtuosi che utilizzano materiali ecologici e che lavorano in modo sostenibile.

I piloti in gara sono 22, due per ogni team. Nonostante il crescente interesse nei confronti della tutela dell’ambiente, gli organizzatori non sono riusciti a catturare l’attenzione di 12 squadre disposte a mettersi in gara. Il Comune di Roma, che ha un contratto con la Formula E fino al 2025, vedrà sfrecciare le silenziose monoposto nel circuito cittadino dell’Eur in un doppio appuntamento del 15/16 luglio 2023. ■

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Come la scienza ha cambiato il mondo del Surf

FISICA

La storia di Riccardo Rossi, il riminese che ha introdotto la fluidodinamica sulla scena surfistica mondiale

«Lo spazio marino è caratterizzato da uno stato di agitazione costante. In mare aperto creste e flutti salgono e scendono senza tregua mentre sulle coste vanno ad infrangersi onde di ogni dimensione: è così dalla notte dei tempi. Le onde in alto mare provocano uno spostamento di energia, non di materia: il moto è circolare. Invece quando avviene il frangimento si realizza una traslazione dell’acqua in avanti con l’innalzamento che genera una componente d’energia cinetica. Questa, nel caso di un surfista, si combina a un’energia potenziale di quota che può essere trasformata in velocità scivolando sull’onda».

Dopo averle studiate, Riccardo Rossi ha imparato ad amarle. Riminese di nascita ma californiano d’adozione, è l’ingegnere che ha portato la fluidodinamica computazionale nel surf. «Fino al 2016 ho lavorato a progetti di ricerca universitaria nel campo della fluidodinamica a Bologna e a Stanford in California. Da quell’anno, messa da parte la velleità di ottenere una cattedra, ho iniziato a fare consulenza freelance sulle tematiche che affrontavo all’università. Ho creato il mio brand, Red Fluid Dynamics e dopo aver iniziato

da solo sono riuscito a creare una squadra di cinque persone. Lavoriamo attivamente con Sequoia Surfboards, un’eccellenza italiana, e con grandi realtà americane del surf come Futures Fins e Dakine. Non solo. Usiamo la stessa tecnologia che applichiamo alle tavole in ambito industriale: dalla filiera automobilistica a quella farmaceutica».

La fluidodinamica computazionale applicata alle tavole da surf permette di elaborare le migliori linee attraverso lo studio del comportamento dell’acqua lungo le linee stesse. Grazie al CFD è possibile studiare scientificamente la resa delle varie sezioni di una tavola (rail, tail e bottom) e quindi le sue prestazioni a contatto con l’acqua, prima di procedere alla realizzazione per la prova finale sul campo. «L’idea di applicare le conoscenze accademiche nel mondo del surf è nata quando ero in California.

È lì che nel 2009, al secondo anno di permanenza a Stanford, ho messo per la prima volta i piedi sulla tavola raccogliendo l’invito di uno studente che seguivo per il dottorato. Senza di lui non mi sarei mai cimentato in questo sport. Da buon romagnolo, prima del surf la mia più grande passione erano i motori. È scattata una scintilla che mi ha cambiato la vita».

Le simulazioni virtuali della tecnologia CFD, prima delle collaborazioni tra Rossi e Firewire Surfboards, azienda all’avanguardia nella creazione delle tavole, non erano mai state sperimentate nell’ambiente surfistico. Una novità che ha interessato e coinvolto in investimenti

economici protagonisti del calibro di Kelly Slater, 11 volte campione del mondo, Rob Machado e Daniel “Tomo” Thomson.

«La West Coast mi manca. La mia prima volta risale al 2007 e da lì in poi ogni anno, fino allo scoppio della pandemia, ho fatto in modo di passarci del tempo. Ho tantissimi amici a cui sono rimasto molto legato: è diventata una seconda casa. Vivendo in Sardegna però non posso lamentarmi. Il clima qui praticamente è lo stesso. L’altro giorno in acqua ho avuto la sensazione di stare a Santa Cruz, è stata una bella mareggiata». Ricordi e suggestioni a migliaia di chilometri di distanza: le prime onde non si scordano mai. Presto tornerà a cavalcarle. ■

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Sport

Il Pickleball alla conquista dell’Italia

TENDENZE Negli Stati Uniti sono tutti pazzi per il nuovo sport di racchetta su cui hanno già scommesso star del settore come LeBron James e Tom Brady

Ve lo ricordate il padel? Il nuovo, fiammante sport che ha colonizzato ogni angolo d’Italia? Ecco, presto potrebbe essere già obsoleto. Dall’altra parte del mondo, oggi, non si parla d’altro che del Pickleball, «lo sport che sta crescendo più di tutti negli Stati Uniti». Scrive il New York Times che è «pronto per il prime time», sulle pagine del New Yorker si domandando: «Può il Pickleball salvare l’America?».

Le star dell’industria LeBron James e Tom Brady hanno investito milioni sulla Major League Pickleball, campionato professionistico nato un anno fa e già pronto a rompere il tetto di due milioni di dollari in premi. Merito anche di figure come Sam Querrey, che è passato dall’essere nume-

ro 11 al mondo nel tennis al reinventarsi professionista nello sport del momento. O di Nick Kyrgios e Naomi Osaka, che sono ancora in attività ma hanno comprato una squadra a Miami.

Il Pickleball è uno sport di racchetta a metà strada fra ping pong, tennis e badminton. I puristi del tennis lo guardano con sdegno, perché la “pala” e la palla di plastica forata non producono il classico rumore della pallina che sbatte contro le corde e non c’è terra che si alzi nelle — rare — scivolate sul campo, che è di dimensioni ridotte (6,1x13 metri). Si può giocare in singolare, ma è più popolare il doppio. Le regole sono simili a quelle del padel, con una particolarità su tutte: la zona del novolley, cioè i primi due metri di distanza dalla rete, nella quale non si può colpire al volo. Dal 2020 al 2021 i praticanti in America sono cresciuti del 39% e oggi sono circa 5 milioni. Un mercato che vale $152.8 milioni e che, per Absolute Report, ne varrà $256.1 nel 2028. Il poco sforzo fisico richiesto agli amatori è stato un magnete per sportivi della terza età, che vogliono continuare a sferrare volée ma non possono più permettersi le corse sui lunghi e larghi campi da tennis. In generale, la chiave del successo è la facilità con cui si passa

dall’impugnare la racchetta la prima volta all’essere capaci di giocare un match. «Bastano un paio d’ore per scambiare con disinvoltura». A parlare è Zelindo Di Giulio, presidente e fondatore dell’Associazione Italiana Pickleball. Lui è anche giocatore, e la sua storia è l’esempio migliore del perché questo sport stia spopolando. Zelindo è un totale autodidatta.

Ha cominciato nel 2017 copiando le mosse dai video su YouTube e in una manciata di mesi è arrivato a giocare un torneo internazionale, in Spagna. Caso volle che in quel momento si stesse disputando anche il mondiale e, essendo lui e il suo compagno gli unici italiani in giro, gli venne chiesto di rappresentare l’Italia. Senza mai aver fatto una lezione, certo, perché mica esistevano maestri. Quanti altri sport possono portarti così vicino al cielo in così poco tempo?

Un anno dopo ha fondato l’Associazione Italiana Pickleball. È nata nel 2018 e la sede non è a Roma né a Milano. La «capitale del Pickleball» è Tocco da Casauria, paesino in provincia di Pescara che ha dato i natali a Di Giulio e i suoi compagni di gioco. Potrebbe sembrare un segnale della provincialità del progetto, ma per il presidente è un modo di mantenere la storia dello sport vicina ai suoi pionieri.

Se «i milioni di giocatori in America sono soprattutto i pensionati», l’identikit per l’Italia è più vago: «sono i curiosi, gente di tutte le età che dopo aver provato torna sempre», spiega Di Giulio. Ma il boom a stelle strisce è ancora lontano. Si stima che qui siano «fra le 1500 e le 1800 le persone che hanno giocato almeno un paio di volte», mentre sono circa 300 gli agonisti iscritti in Italia, la maggior parte dei quali hanno scoperto il gioco nel 2022. Loro non sono professionisti, ma amatori che si allenano due o tre volte a settimana. Tanto basta per prepararsi ai più importanti tornei in Europa, «dove i professionisti, come li intendono negli Usa, saranno al massimo due o tre».

Il momento d’oro del Pickleball in Italia deve ancora arrivare, secondo il suo pioniere. L’Associazione è stata appena incorporata dalla Federazione Italiana Tennis e Padel, e Di Giulio è convinto che sarà quella la molla per arrivare a un pubblico sempre maggiore. E far scoprire agli scettici che «giocato a un buon livello non è solo spettacolare, ma proprio complicato, altro che racchettoni», come dice qualcuno. Bastava già l’approvazione di LeBron, che conta di aver piazzato l’ennesima schiacciata della sua carriera da investitore. ■

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La Guida di Zeta

La sostenibilità è facile come un like

Cristina Coto, Carlo Coculo, Alex Bellini, Margherita Paiano. Sono i quattro Greenfluencer da seguire su Instagram. Con ironia e sarcasmo ci rendono più consapevoli del mondo, di cosa mangiamo e di cosa indossiamo ogni giorno

Shopping

Cotoncri è il volto ironico dell’attivismo green. Da buone abitudini alimentari allo shopping rispettoso dell’ambiente, fino a divertenti parodie dei discorsi della zia snob durante il pranzo della domenica. Cristina Coto arriva a Milano per fare la modella, sarà il contatto con l’industria della moda a spingerla in tutt’altra direzione, a informarsi di più e a condividere le sue scoperte sui social. Sarà la nascita della figlia, la divertentissima Blu che spesso compare nei video postati su Instagram, con la conseguente volontà di lasciare un’impronta positiva sul mondo che verrà, a segnare la carriera di @cotoncri. Con ironia spontanea ed elegante, Cristina Coto ci guida verso un mondo più etico, fatto di scelte consapevoli e rispettose del Pianeta e delle persone che lo popolano.

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a cura di Federica De Lillis

Nella sua bio di Instagram di descrive “Attore, vegano, romano... basta, direi che è tutto”, Carlo Coculo entra nel mondo dei greenfluencer col nome di @zozzonevegano. Il feed del profilo è popolato dalle sue facce contratte in smorfie divertenti, grafiche rudimentali su video amatoriali girati nel salone di casa. I suoi contenuti sono ispirati alle critiche di parenti, amici e anche sconosciuti davanti alla scelta di non mangiare carne, pesce e derivati animali. Esilaranti scatch prendono in giro luoghi comuni, insulti e frasi fatte spesso rivolte a chi segue la dieta vegana. Lo zozzone vegano cerca di mostrare quanto questa scelta di vita non equivalga a pasti tristi e sconditi come insalatine e semi dai nomi improbabili, e che un piatto plantbased può rappresentare benissimo un pranzo succulento e “zozzo”. Lo zozzone, però, ha anche un alter ego: “il bullo vegano”, il classico hater, la cui figura è stata ispirata da uno dei tanti commenti lasciati sotto i post della pagina.

Viaggi

“Essere un esploratore è una mentalità e ha l’obiettivo di farci scoprire noi stessi”, si legge questo nella prima storia in evidenza nella raccolta “CHI SONO” di Alex Bellini. Sembra il protagonista di un libro di avventure, barba lunga e occhi azzurro brillante che trasportano in un mondo lontano. In un’intervista si è definito un “eco-esploratore” perché i suoi viaggi, spesso estremi e ai confini del mondo, come l’ultimo sul fiume Mekong considerato uno dei dieci “fiumi di plastica” sulla Terra, non sono fini a se stessi, hanno un altro scopo. Bellini conosce, conosce perché ha studiato, conosce perché ha visto e condivide con la sua community per rendere consapevoli del futuro verso cui stiamo andando.

Animali

Margherita Paiano è la_etologa_, una scienziata che ha iniziato a fare la content creator con video sulle curiosità del mondo animale. Collabora attivamente con la pagina Kodàmi, magazine dedicato alla relazione tra uomo e animale. Margherita preferisce «i boschi alle disco», dopo qualche anno di veterinaria ha scoperto la sua passione, l’Etologia, la scienza che studia il comportamento animale, una scienza poco conosciuta ma che parla molto di noi e del nostro rapporto con la natura. “Gli animali si drogano”, “Avevamo la coda”, “Gli squali respirano con gli occhi” sono solo alcuni dei contenuti interessantissimi da scoprire sul suo profilo.

Cibo
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Parole e immagini

«Il confine tra la Vita e la Morte è, nel migliore dei casi, ombreggiato e vago. Chi può dire dove finisce l’una e dove comincia l’altra?» è una delle frasi più celebri dello scrittore statunitense Edgar Allan Poe, che introduce il film diretto da Scott Cooper e prodotto da Netflix, uscito sulla piattaforma di streaming il 6 gennaio scorso.

Considerato il padre della letteratura horror e del mistero, Poe non ha solo ispirato il titolo del film, ma ne è diventato addirittura co-protagonista. Infatti, The Pale Blue Eye è un omaggio a uno dei suoi racconti più famosi, Il cuore rivelatore, pubblicato nell’antologia Racconti del terrore (1850). Scritta dal punto di vista dell’assassino, la novella è incentrata sull’omicidio

di un anziano «che aveva l’occhio di un avvoltoio, un pallido occhio blu coperto da uno strato [di cataratta]. Ogni volta che [il suo sguardo] si posava su di me, il mio sangue si gelava: così, gradualmente decisi di prendere la vita di quel vecchio e liberarmi del suo occhio per sempre».

Non è questo l’omicidio che ha ispirato le vicende del film, ambientate nel 1830 nell’accademia militare di West Point, nello stato di New York. Christian Bale interpreta il detective in pensione Augustus Landor, dedito all’alcol dopo la misteriosa scomparsa dell’amata figlia Mattie (Hadley Robinson), ingaggiato dal capitano Hitchcock (Simon McBurney) per indagare sull’omicidio del

cadetto Leroy Fry (Steven Maier), trovato impiccato a un albero e con il cuore asportato. Il delitto attira subito l’attenzione di un altro cadetto, che si offre di affiancare Landor nelle indagini: un giovane Edgar Allan Poe, interpretato da Harry Melling (famoso per aver vestito anche i panni del fastidioso cugino di Harry Potter, Dudley Dursley), che nel tempo libero si diletta componendo poesie, ancor prima di dedicarsi alla letteratura gotica per cui il mondo intero lo ha conosciuto.

Grazie al ritrovamento del frammento di un biglietto nella mano di Fry prima, e di due animali con il cuore asportato poi, i due protagonisti capiscono di trovarsi davanti a un omicidio a sfondo satanico. La morte di un altro cadetto, Randolph Ballinger (Fred Hechinger), ucciso con le stesse modalità della prima vittima, e la scomparsa del suo collega Stoddard (Joey Brooks) lasciano intendere che i tre custodivano un segreto e che sono stati puniti per questo. Decisi a seguire la pista satanica,

Landor e Poe si rivolgono allo studioso di esoterismo Jean Pepe (Robert Duvall), grazie al quale iniziano a sospettare della famiglia del medico legale Daniel Marquis (Toby Jones).

Dopo aver partecipato ad una cena in casa Marquis, Landor trova un indizio che inchioda la moglie del dottore, Julia (Gillian Anderson, conosciuta per aver interpretato l’agente Dana Scully nella serie X-Files), e i figli Artemus (Harry Lawtey) e Lea (Lucy Boynton), che intende servirsi di un Poe innamorato di lei. Ma un altro evento tragico sembra mettere un punto definitivo agli omicidi che hanno sconvolto l’accademia.

The Pale Blue Eye si conclude con un finale inaspettato, che però non basta a rendere più dinamici i tempi narrativi, eccessivamente lenti, e a colmare la mancanza di adrenalina che invece ci si aspetta da un racconto del terrore, ispirato alla produzione letteraria del grande scrittore e poeta Edgar Allan Poe.

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The Pale Blue Eye
FILM Netflix
I delitti di West Point
2023
di Scott Cooper di Silvia Pollice

Luiss Data Lab

Centro di ricerca specializzato in social media, data science, digital humanities, intelligenza artificiale, narrativa digitale e lotta alla disinformazione

Partners: ZetaLuiss, MediaFutures, Leveraging Argument Technology for Impartial Fact-checking, Catchy, CNR, Commissione Europea, Social Observatory for Disinformation and Social Media Analysis, Adapt, T6 Ecosystems, Harvard Kennedy School

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Show, don’t tell

Master in Giornalismo e Comunicazione Multimediale

Lectures: Oleksandra Matviichuk (Nobel Peace Prize), Roberto Saviano, Francesca Mannocchi, Carlo Bonini, Jeremy Caplan, Maurizio Molinari, Virginia Stagni, Giuseppe Tornatore, Paolo Gentiloni, Agnese Pini

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Il Pickleball alla conquista dell’Italia

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ENERGIA LA PAROLA

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Energia

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