Italian Digital Media Observatory
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Olexandra Matviichuk– Centro di Cooperazione Internazionale per le Libertà Civili, Nobel Peace Prize 2022La parola
Start
Le fasi della guerra in una mappa di Francesco Di Blasi
I dati della guerra di Francesco di Blasi
Un anno di trend mediatici di Yamila Ammirata e Silvia Andreozzi
Guerra
Bakhmut non può essere Stalingrado di Luisa Barone ed Elena La Stella
L’equilibrismo di Israele di Silvano D’Angelo
Una guerra lunga nove anni di Silvia Morrone
Voci
La parola ai presidenti di Ludovica Esposito
Oleksandra, un Nobel per il suo Paese di Claudia Bisio
Gli indesiderati di Leonardo Pini
La guerra oltre il confine di Lorenzo Sangermano
Dove “guerra” si dice pregando di Dario Artale
«Costruire un ponte tra i fedeli» di Leonardo Aresi
Profughi
Una generazione in cerca di normalità di Giulia Moretti ed Elena Pomè
Nuova vita tra i vitigni dei Colli Euganei di Maria Teresa Lacroce
Photogallery
Memoria di un Paese che non esiste più di Silvia Stellacci
Minori
L’orfanotrofio azzurro di Beatrice Offidani
Separati dalla guerra di Federica De Lillis
Più di un mese sotto terra di Federica De Lillis
Fake news
Il debunking a cura della redazione
Cultura
«Non è così semplice come sembra» di Martina Ucci
«Cucino per salvare il mio Paese» di Giorgia Verna
Spettacoli
Cala il sipario sotto le bombe di Caterina Di Terlizzi
L’occasione perduta di Sean Penn di Alissa Balocco
La guerra in onda di Valeria Verbaro
La realtà oltre la fiction di Niccolò Ferrero
Sport
Da Wimbledon al fronte di Antonio Cefalù
Le guide di Zeta
I fili dell’identità ucraina di Silvia Stellacci
Parole e immagini
L’Ucraina e Putin. Tra storia e ideologia di Silvia Pollice
Ucraina
Quando arrivai a Medyka ad aprile 2022 pensavo di trovare carri armati, soldati ed echi di bombe. Ma nel principale valico tra l’Ucraina e la Polonia regnava un silenzio ordinario. Cominciava la notte e il freddo era pungente anche in quel giorno di primavera. A sinistra rispetto al passaggio doganale c’era un grosso capannone bianco delle Nazioni Unite contornato da un sentiero limitato da filo spinato.
All’interno almeno un migliaio di persone attendeva in coda il proprio turno per passare la frontiera. Il pavimento fangoso era una lastra compatta e scura e dentro alla struttura una lampadina artificiale illuminava i volti disperati dei passanti. Tra le tante persone stipate all’interno due donne catturarono la mia attenzione. Erano madre e figlia. La seconda, un’adolescente, portava fiera sulla fronte un ciuffo colorato di rosa. A differenza di tutti gli altri che cercavano di portare nella nuova vita ogni possibile ricordo della vecchia, loro due non avevano nulla: non uno zaino o una valigia. La loro forza inteneriva e il loro coraggio faceva tremare il cuore di chi le guardava. Due donne spogliate della loro esistenza, nude di fronte a un
Numero 2
futuro ignoto ma con lo sguardo di chi non perde la speranza nonostante il mondo stia crollando sopra di loro. A mezzanotte il flusso non si fermava e i lampioni polacchi illuminavano a giorno quella fila di persone desiderose di vita. Oltre il confine polacco ho perso le due donne.
Da quel valico, nei mesi che seguirono l’invasione russa, passarono più di 4 milioni di persone, soprattutto donne, anziani e bambini. A Medyka in molti erano fiduciosi di poter tornare presto a casa. In tanti non si sono voluti allontanare da quel confine maledetto per poter essere i primi a calpestare il proprio vialetto di casa una volta tornata la pace. A un anno dall’inizio della guerra, oltre al dramma della morte, rimane la tragedia di un popolo fuggito dalla propria terra. Secondo i dati dell’agenzia Reuters la guerra avrebbe provocato almeno 14 milioni di sfollati. Dopo 365 giorni, oltre alla disperazione, rimane solo l’incertezza e la rassegnazione che l’Ucraina per come la conoscevano i suoi cittadini non esiste più. Ma nel coraggio delle due donne c’era la caparbietà di saper attendere quando alla fine della guerra, con la vittoria dell’Ucraina, tornerà il tempo del ritorno e della ricostruzione del Paese.
A cura di Silvia Andreozzi
Luisa Barone
Giorgio Brugnoli
Giulia Moretti
Enzo Panizio
Lorenzo Sangermano
Silvia Stellacci
Valeria Verbaro
La parola
a cura di Enzo PanizioDall'antico slavo orientale ukraina, composta dalla parola u (vicino a) e la radice slava kraj (territorio, terra)
“Terra di confine”, “frontiera”. Questo vuol dire Ucraina, un nome dalla storia millenaria la cui etimologia è ancora dibattuta. Già nel Medioevo, il termine era usato per indicare le regioni di confine della Rus’ di Kiev, un antico Stato slavoorientale, di cui proprio Kiev fu a lungo capitale.
Prima del Seicento, il termine “ucraina” si riferiva a qualsiasi territorio di confine. Nei secoli il nome è arrivato a rappresentare l'identità culturale e storica del Paese, crocevia tra l'Europa occidentale e orientale, in continua lotta per l'autonomia e la sovranità anche dopo l'indipendenza del 1991.
Nell’ucraino attuale la parola “Ukrayina” vuol dire semplicemente “paese, terra”. Per il popolo ucraino significa “casa”.
La citazione
L’Ucraina ha sempre aspirato a essere libera Voltaire
UCRAINA Zeta
Fase 1
Inizio dell’invasione (24/02 - 07/04/2022)
Mosca punta alla conquista di Kiev dal giorno uno della guerra d’Ucraina. Da nord e da Est i russi cercano di stringere la città in una morsa, ma l’assedio fallisce. Errori logistici e terreno fangoso frenano i carri armati, mentre la resistenza ucraina infligge perdite devastanti agli occupanti. Il 7 aprile inizia il ritiro russo dal nord del Paese.
Fase 2
Il fronte sud-est (8/04– 11 /09/2022)
L'area dei combattimenti si sposta nell’area a sud-est del Paese. La presenza di due repubbliche autoproclamate filo-russe a Est e della Crimea (già occupata nel 2014) a Sud rappresentano un vantaggio strategico per Mosca. A meridione cade Kherson e dopo un assedio di 97 giorni culminato nell’acciaieria Azovstal anche Mariupol è presa. A oriente gli ucraini perdono Kharkiv
Fase 3
La controffensiva Ucraina (12/09 – 09/11/2022)
Nuove armi occidentali e superiorità strategica permettono a Kiev di riguadagnare oltre 500km di territorio nel giro di poche settimane. Il Cremlino è convinto che gli ucraini attacchino a Sud, ma l’attacco di Kiev parte da Oriente. L’esercito libera Lyman e Kharkiv, giungendo al confine con la Russia. Poi si concentra sul Sud del Paese fino a riconquistare Kherson a inizio novembre.
Fase 4
Stallo e riorganizzazione russa (10/11/2022 – oggi)
In crisi sul campo, la Russia inizia una campagna di attacchi massicci contro le infrastrutture ucraine per stremare la popolazione privandola di risorse come acqua ed energia elettrica. Nelle ultime settimane le truppe del Cremlino hanno compiuto alcuni progressi a Soledar e Bakhmut. Mosca arruola decine di migliaia di nuovi coscritti, mentre Kiev addestra molti dei propri soldati fuori dal Paese. Entrambi gli schieramenti accumulano armamenti e il Cremlino sembra intenzionato ad attaccare per primo.
Legenda
Controllo russo
Controllo russo prima del 24 febbraio 2022
Controffensiva ucraina
Mappa aggiornata al 20 febbraio 2023
Start a cura di Francesco Di Blasi
Due terzi della popolazione mondiale vive in Paesi neutrali o a favore della Russia
Fonte e grafici: Economist Intelligence (EIU)
Chi è un alleato dell'Italia nel mondo, secondo i cittadini italiani?
Chi rappresenta la maggior minaccia per il mondo, secondo i cittadini italiani?
Fonte: Sondaggio
Da chi compra il gas l’Italia?
Le esportazioni russe sono in calo, ma India e Cina compensano le perdite
Un anno di trend mediatici sulla guerra in Ucraina
I modi e i numeri della discussione sul conflitto provocato dall’aggressione russa sono mutati costantemente dallo scorso 24 febbraio
ANALISI
Il 24 febbraio 2022 la cronaca, le immagini, le storie dell’aggressione russa in Ucraina hanno reso la realtà di un evento che sembrava fuori dalle possibilità nella mentalità di generazioni nate dopo la seconda guerra mondiale. Un conflitto armato alle porte d’Europa, un avvenimento che si è imposto in un contesto originale, nel tempo della comunicazione, dei social, dei media vecchi e nuovi.
L’attenzione per gli avvenimenti bellici in Ucraina è stata capitalizzata in un modo inedito, la discussione ha dominato le varie piattaforme. Zelensky,
presidente del Paese offeso, ha da subito ricoperto un ruolo visibile facendosi protagonista di tutti gli spazi mediatici che definiscono la comunicazione contemporanea. Sui social e sulle televisioni, agli eventi come i Golden Globe e la Mostra del cinema di Venezia, è stato capace di attirare tramite la sua persona una concentrazione più o meno costante sul destino del popolo ucraino.
Si è visto come la guerra sia diventata un tema predominante non solo dei contesti informativi, ma di ambiti e spazi “mondani”. L’ultimo esempio per
quanto riguarda l’Italia è rappresentato da Sanremo. Sulla Rai, durante la finale del festival della canzone italiana, sarebbe dovuto essere trasmesso il discorso di Volodymyr Zelensky. Tra le polemiche è stato affermato il principio secondo cui quello non fosse lo spazio adatto e si è finiti per mettere in scena la lettera del presidente ucraino letta dal presentatore Amadeus.
Non è un caso, quindi, che nelle analisi degli interventi Twitter della settimana compresa tra il 6 e 12 febbraio, realizzate tramite Tweet Archiver, emerga
di Yamila Ammirata e Silvia Andreozzicome la discussione collegata alle parole “Russia” e “Ucraina” rimandi a termini come “Sanremo”, “sabato”, “Meloni”, “Macron”, “Fedez”. Nei giorni in cui le polemiche italiane hanno avuto come conseguenza il limite delle modalità dell’intervento di Zelensky a Sanremo, infatti, il presidente ucraino ha incontrato Macron e Scholz a Parigi. I commenti sull’assenza della presidente del Consiglio italiana all’incontro con gli altri due leader europei si sono sommati a quelli sulla scelta di non far intervenire direttamente il presidente ucraino al festival della canzone italiana come avvenuto in altri contesti simili.
È un dato di fatto, comunque, che con il tempo l’attenzione delle persone e di conseguenza il modo di coprire e raccontare la guerra sia cambiato. Nemmeno la forza della personalità del presidente ucraino, infatti, ha potuto evitare che si verificassero i fisiologici alti e bassi nell’interesse delle persone.
Osservando l’andamento qualitativo del numero di notizie sulla tv pubblica italiana, si vede come il picco di attenzione, comunque con trend decrescente, per quanto riguarda le trasmissioni tv e web, si sia verificato tra il 24 febbraio e il 13 giugno 2022. Sulla tv si è registrata una densità maggiore di contenuti dedicati al conflitto rispetto al web. Durante l’e-
state, l’attenzione all’Ucraina e la guerra è diminuita, per crescere nuovamente, seppur in numeri minori rispetto al primo periodo del conflitto, tra ottobre 2022 e gennaio 2023.
Queste tendenze sono le stesse che si registrano anche su altre piattaforme. Zelensky ha registrato una crescita improvvisa ed esponenziale di follower sia sul suo profilo Twitter sia su quello Instagram tra febbraio e marzo 2022. Da quel momento la sua popolarità social ha continuato a crescere fino all’estate, quando l’arrivo di nuovi seguaci si è stabilizzato. Tra ottobre 2022 e gennaio 2023, invece, il suo seguito è tornato a crescere.
Questi cambi di interesse sono andati di pari passo non solo con gli avvenimenti sul campo, ma anche con il numero di pubblicazioni fatte dal presidente ucraino. Da maggio a gennaio il numero di tweet lanciati da Zelensky non ha superato quota cento: anche per questo motivo, probabilmente, si registra un notevole calo nelle reaction ai suoi post nei mesi estivi e autunnali.
Anche sul profilo Instagram le reazioni social indirizzate ai post del presidente ucraino sono diminuite progressivamente: dalle 129 milioni di marzo 2022 alle 27 milioni del mese di gennaio 2023. La perdita è stata di 100 milioni di reaction.
La progressiva assuefazione non solo alle notizie, ma anche alle discussioni social relative alla guerra, è testimoniata anche dal calo delle ricerche operate sul web attraverso tre termini chiave: “Ucraina”, “guerra in Ucraina”, “Russia”, “Russia e Ucraina”.
Tutte le chiavi hanno raggiunto il picco di ricerca tra il 20 e il 27 febbraio, nei giorni che hanno preceduto l’effettivo scoppio del conflitto ma in cui già le voci che anticipavano una possibile aggressione russa erano insistenti.
La frequenza delle ricerche è rimasta alta, seppur in progressiva diminuzione, fino alla metà di maggio 2022. Dopo quel momento le persone hanno ridotto il numero di indagini su Google relative al conflitto tra Russia e Ucraina.
Da tutti questi elementi si può vedere come, a un anno dalla guerra, l’attenzione nei confronti dell’Ucraina si sia stabilizzata nella tragica ordinarietà del conflitto. Osservando i trend mediatici emerge come la discussione, soprattutto in Italia, sia concentrata sulle questioni diplomatiche, sugli aspetti che ineriscono alle modalità dei rapporti tra Stati e sulla rilevanza dei diversi attori politici che agiscono sullo scenario del conflitto.■
Bakhmut non può essere una nuova Stalingrado
RICOSTRUZIONE
La resistenza
ucraina all’occupazione russa, 365 giorni dopo l’invasione
«Con l'Ucraina, le cose andranno in modo estremamente doloroso». Così scriveva nel 1973 il Premio Nobel Aleksandr Isaevič Solženicyn, dissidente russo e autore del celebre libro “Arcipelago Gulag”. Cinquant’anni dopo, all’alba del 24 febbraio 2022, il contingente russo varcava i confini dell’Ucraina in cinque punti diversi: dalla Bielorussia verso Kiev, dal fronte nord-orientale verso Kharkiv, dal fronte meridionale entrando dalla Crimea e da quello sud-orientale passando per il Donetsk e Lugansk, che Mosca aveva riconosciuto come repubbliche indipendenti il 21 febbraio, solo pochi giorni prima dell’invasione. Un anno dopo, quello che doveva essere un conflitto lampo si è trasformato in un’estenuante guerra di logoramento, che ha visto le vite dei cittadini ucraini irrimediabilmente stravolte.
«Un anno di guerra convenzionale su larga scala tra paesi con decine di milioni di abitanti e centinaia di migliaia di soldati condotto su cinque domini operativi:
quello terreste predominante, aereo, navale, spaziale e cibernetico». Alessandro Marrone, direttore del progetto “Difesa” dell’istituto Affari Internazionali (IAI) distingue tre fasi principali in cui si è svolto il conflitto. Già nelle prime settimane il tentativo dei russi di «decapitare lo stato ucraino», conquistando Kiev e annettendo diverse porzioni del paese dal Mar d’Azov al Donbass, si è rivelato parte di una strategia fallita in partenza. Grazie alla leadership guidata da Zelesnky, «che non è fuggito», la resistenza ucraina si è unita per combattere «una guerra di popolo e di liberazione».
Fin da subito, la Russia di Putin è rimasta vittima della propria propaganda e, dispiegando solo 200mila unità militari, il contingente di Mosca riesce ad arrivare fino alle zone di Kiev, Kharkiv e Odessa. Gli aiuti militari occidentali segnano il principio della seconda fase, in cui la controffensiva ucraina ha ricacciato i russi da numerose zone del fronte. Così, il conflit-
to si stabilizza intorno al Donbass mentre vengono liberate la regione di Kharkiv e la provincia di Kherson, l’unica grande città occupata dall’inizio dell’invasione. Da novembre dello scorso anno il fronte è in stallo, mentre si registrano decine di migliaia di vittime e un consumo di risorse militari senza precedenti in Europa dalla Seconda Guerra Mondiale.
«La controffensiva russa al momento sta ottenendo pochi risultati e a costi molti elevati», Vittorio Emanuele Parsi, professore di Relazioni Internazionali all’Università Cattolica del Sacro Cuore e autore del libro “Il posto della guerra e il costo della libertà”, commenta così le azioni russe nella zona di Bakhmut. «Se l’esercito ucraino riesce a mantenere il controllo della città è un grande successo, purché non la trasformino in una nuova Stalingrado. Per poter sfruttare una Stalingrado sono necessarie risorse che gli ucraini non hanno».
La strategia militare russa in diversi momenti del conflitto si è rivelata debole e disorganizzata. Al contrario, gli ucraini «sono stati addestrati dalla Nato negli ultimi anni. Hanno imparato le modalità di gestione del conflitto occidentale in cui comando e controllo seguono uno schema piramidale, che garantisce una grande delega e velocità nel passaggio bidirezionale delle decisioni». Le origini sovietiche in comune avvantaggiano l’Ucraina nella conoscenza delle strategie utilizzate da Mosca nella gestione del conflitto.
Secondo un rapporto di Save the Children sono 483 i bambini morti a causa della guerra, 7 milioni e mezzo hanno smesso di andare a scuola mentre 16.900 sono stati deportati, subendo abusi e molestie. La Commissione d’inchiesta delle Nazioni Unite ha raccolto le testimonianze di violenza sessuale e di genere su vittime dai quattro agli 82 anni. Così, alle sanzioni imposte dall’Occidente si aggiungono ben presto i processi in capo a Putin per crimini di guerra e contro l’umanità.
L’accanimento in centri abitati come Bucha, Bakhmut e Soledar proviene da un’etica della guerra che per i russi non è cambiata dai tempi della Guerra Fredda. Così nell’avanzata intorno a queste piccole cittadine poco strategiche, le truppe nemiche si lasciano alle spalle gli orrori perpetrati fin dalle prime settimane del conflitto. Nella città di Bucha si apre uno spettacolo raccapricciante: sui corpi ammassati nelle fosse comuni i segni delle torture inflitte dai soldati russi. Nel gioco della guerra, per la Russia la vittoria non vale una distinzione tra militari e civili.
Mentre nella parte occidentale del paese venivano distrutte le infrastrutture energetiche per piegare la popolazione al freddo e alla fame, la regione orientale vedeva bombardamenti indiscriminati contro i civili, per fornire aiuto ai militari con informazioni, rifornimenti e barricate. Che siano utilizzati come deterrente per la resistenza civile, o nell’ipotesi che siano solo il risultato di un pronostico azzardato, i metodi brutali dell’esercito di Putin violano il diritto internazionale.
Secondo Alessandro Marrone, «solo quando la Russia riconoscerà che non può avanzare militarmente e che la sua leadership è danneggiata dalla guerra, Putin deciderà di trattare per mantenere quanto conquistato fino ad ora. Spetterà poi all’Ucraina decidere se sedersi al tavolo delle trattative». A cambiare radicalmente, al termine del conflitto, saranno gli assetti geopolitici. Sebbene sia difficile stabilire con certezza come si riassesteranno gli equilibri internazionali, Parsi afferma che non è ragionevole pensare a una distensione dei rapporti tra Russia e Mondo
Libero. «Alla fine di questa guerra ci sarà una corsa al riarmo, comunque vada a finire. Se le condizioni rimarranno di totale avversità con la Russia ci armeremo tutti di più. Alla fine della guerra ci saranno più armi, non meno». Nel 1932 Einstein e Freud, due delle più geniali menti della storia dell’umanità si confrontavano sul perché della guerra. Einstein si interrogava sulla possibilità di dirigere l’evoluzione psichica degli uomini in modo che diventino capaci di resistere alle psicosi dell’odio e della distruzione. In altre parole, si chiedeva se fosse possibile estirpare dall’animo umano il germe da cui scaturisce la guerra. Freud considerava i moti di Amore e Odio, conservazione e distruzione, imprescindibili l’uno dall’altro, deducendone che non è possibile sopprimere le tendenze aggressive degli uomini. Allo stesso tempo, però, affermava che il timore degli orrori della distruzione e la spinta alla civilizzazione sono le armi che possono contrastare la guerra, anche se non è dato sapere per quali vie impervie e per quanto tempo l’umanità dovrà percorrere questa strada. ■
L’equilibrismo di Israele tra Russia, Iran e Ucraina
Nonostante le pressioni internazionali il governo israeliano per ora ha mandato solo aiuti umanitari a Kiev, senza fornire armamenti offensivi
GEOPOLITICA
Tre settimane che durano da un anno. Vladimir Putin aveva immaginato l’invasione dell’Ucraina come una gita fuori porta a bordo di carri armati. La resistenza dell’esercito di Kiev, sostenuto dall’Occidente, ha trasformato quella che nella testa dello zar doveva essere una gloriosa e breve avventura in una guerra di logoramento che è tornata a insanguinare l’Europa dopo quasi ottant’anni di pace.
Quando le risorse hanno cominciato a scarseggiare, il presidente russo – vedendo che «l’amicizia senza limiti» con la Cina si è tradotta per ora in una conveniente neutralità di Pechino – è stato costretto a chiedere aiuto agli altri stati paria sanzionati dall’Occidente: i satelliti americani hanno individuato treni carichi di munizioni che attraversavano il confine tra Russia e Corea del Nord, mentre dall’Iran sono arrivati i droni kamikaze Shahed che periodicamente infestano i cieli ucraini. Quella di Theran non è generosità gratuita e le conseguenze di questi legami di Silvano
D’Angelosempre più stretti potrebbero destabilizzare i fragili equilibri del Medio Oriente. Il terribile sisma che ha colpito la zona di confine tra Turchia e Siria all’inizio di febbraio ha riacceso le luci sulla guerra civile che dal 2011 oppone il regime di Bashar Al-Assad e le milizie ribelli. Se Assad è ancora al suo posto dopo 12 anni, è grazie al sostegno di una coalizione che ha visto collaborare Paesi che fino ad allora non avevano grandi interessi in comune: Russia e Iran, appunto.
di cui entrambi sono oggetto e della guerra in Ucraina, Iran e Russia sono costretti a lavorare insieme». Un quadro complesso che Israele ha sempre cercato di sfruttare a proprio vantaggio. A partire dalla situazione in Siria si spiega perché finora i governi israeliani succedutisi in questi mesi sono sempre stati restii a fornire armamenti a Kiev, nonostante la pressione dell’alleato americano in tal senso.
«Siamo un Paese occidentale e tra Russia e Usa prendiamo sempre le parti dei nostri alleati statunitensi, ma cerchiamo anche di trovare l’accordo migliore con la Russia. Il teatro dove ci siamo riusciti meglio è la Siria», continua Eiland, spiegando che le truppe israeliane hanno un tacito accordo con l’esercito russo per cui sono libere di colpire, dando qualche minuto di preavviso ai russi, le postazioni iraniane fino a quando gli attacchi non coinvolgano le truppe di Mosca oppure obiettivi sensibili del regime siriano.
A Israele conviene quindi tenere buoni rapporti con i russi, evitando di mandare a Kiev armi offensive o l’iper sofisticato sistema antimissile Iron Dome, usato per bloccare i razzi provenienti dalla striscia di Gaza. Dall’altro lato, la Russia non ha alcun interesse a creare altre tensioni nell’area siriana, visti gli enormi costi umani ed economici che sta sostenendo in Ucraina. L’incognita che turba in sottofondo il pensiero del governo israeliano è invece la collaborazione sempre più stretta che Putin sta coltivando con il regime iraniano.
Per ora i rapporti dei due stati con Israele viaggiano su due binari paralleli, che potrebbero finire per incrociarsi qualora Mosca dovesse ricambiare le forniture di droni iraniani con i moderni jet Mig-31 e i propri sofisticati sistemi antiaerei. Allora sì che gli equilibri rischierebbero di cambiare anche in Medio Oriente. Ma quanto è probabile questo scenario? Al momento poco per il politologo iraniano-statunitense Vali Nasr, secondo cui anzi sarebbe Israele a stare attento a non dare mezzi come l’Iron Dome all’Ucraina proprio per non spingere Putin a “vendicarsi” rafforzando l’Iran.
Alla luce di questo atteggiamento andava letta anche la proposta del governo israeliano allora guidato da Naftali Bennet di fare da mediatore tra Russia e Ucraina: «Israele al momento non è in condizione di fare da mediatore. La mossa serviva soltanto a giustificare il proprio atteggiamento neutrale con l’Europa». Il governo iraniano sta invece affrontando una situazione interna molto complessa a causa delle rivolte scatenate lo scorso settembre
dall’omicidio della studentessa Mahsa Amini da parte della polizia morale. «Se il regime dovesse cadere, cambierebbe tutto nei rapporti con la Russia perché l’intera politica estera iraniana verrebbe rimessa in discussione», commenta il politologo. «Il regime iraniano è in serio pericolo», aggiunge, «ma non nel brevissimo termine, quindi è difficile che il suo eventuale crollo possa impattare sull’andamento della guerra in Ucraina».
Quella tra Russia, Iran e Israele rappresenta una delicata triangolazione di interessi che gli sviluppi dell’invasione dell’Ucraina potrebbero far saltare. A tenere insieme Mosca e Theran è soprattutto il nemico comune, gli Usa, che fa passare in secondo piano anche potenziali tensioni tra i due regimi. «La Russia al suo interno teme da sempre fenomeni di radicalizzazione islamica che possano farsi forza con dei riferimenti stranieri. L’alleanza con l’Iran sarà vantaggiosa finché non peserà su questo aspetto», spiega il professor Gregory Alegi, docente di storia e politica Usa alla Luiss di Roma. «Per ora i due sono interessati a uno scambio di tecnologia in funzione anti Usa: due Paesi entrambi sotto pesanti sanzioni finiscono
per diventare l’unico mercato l’uno per altro».
Gli equilibri sono destinati a cambiare nei mesi a venire? Più che alla Siria, l’occhio di Gerusalemme è rivolto soprattutto al nemico iraniano e quello che succede in Ucraina viene considerato solo in relazione ai propri interessi strategici. «Per ora non ci sono cambiamenti nella situazione in Siria, anzi la Russia ha dovuto richiamare alcune truppe per rafforzare il fronte ucraino», commenta Eiland. Per quanto riguarda l’Iran, «non credo ci sarà un’influenza diretta nei rapporti con Israele. La preoccupazione resta il programma di sviluppo nucleare di Teheran. Secondo alcuni rapporti, Israele potrebbe sferrare degli attacchi preventivi contro determinate infrastrutture per impedirne lo sviluppo, proseguendo quindi l’attuale conflitto a bassa intensità». La situazione rimane stabile sul fronte mediorientale, ma, conclude il generale, «Putin è Putin, quindi dobbiamo calcolare con attenzione le prossime mosse». ■
Crediti: Wikimedia Commons
Una guerra lunga nove anni
Lo storico Andrea Graziosi ripercorre l’excursus della battaglia tra Ucraina e Russia, chiarendo qual è sempre stato il programma di Putin
ANALISI
di Silvia MorroneA un anno dall’inizio della guerra, ci si chiede qual è il futuro della battaglia in corso. Secondo lo storico Andrea Graziosi bisogna tornare sul «singolo evento più importante che si è forse verificato nel febbraio 2014» per capire la situazione attuale, per indagare gli obiettivi della Russia. «Putin stava allora celebrando il trionfo delle olimpiadi di Sochi, sicuro ormai di controllare l’Ucraina attraverso un suo fedele, Janukovyč, come faceva in Bielorussia con Lukašėnko. Pensava insomma di avere già ripreso il controllo dell’Ucraina. Mentre celebrava il suo trionfo, Janukovyč è dovuto scappare e Putin si è ritrovato di fronte alla “perdita” dell’Ucraina. Ecco perché ha subito ordinato l’occupazione della Crimea e dopo ha scatenato i separatisti del Donbas. La guerra inizia allora, non nel 2022, come ci ricordano l’aereo abbattuto dai filorussi o l’intervento dell’esercito russo nel Donbas, dove gli agenti di Putin stavano per essere sopraffatti perché la maggioranza della popolazione del Donbas, al contrario di quella della Crimea, era ostile all’annessione alla Russia».
Graziosi indica febbraio come periodo chiave per comprendere le strategie della Russia. Il presidente russo sceglie il 21 febbraio per parlare della “situazione economica e sociale”. Per lo storico, il discorso del presidente russo previsto al Gostiny Dvor, un centro congressi nel centro di Mosca, non può essere una coincidenza. «Non è un caso che si è poi deciso di lanciare la “operazione militare speciale” nel febbraio 22 e che sia stato annunciato un discorso importante per il 21 febbraio di quest’anno».
Il susseguirsi degli eventi nello stesso momento storico è una conferma: «L’idea che la Russia si dovesse staccare dall’Occidente e che per farlo dovesse recuperare l’Ucraina e la Bielorussia era insomma presente già venti anni fa. É stata l’idea che l’Occidente inteso come unione tra Stati Uniti e Europa fosse in crisi a convincere Putin che si poteva agire. Probabilmente il presidente russo non ha solo percepito una debolezza occidentale, ma ha anche ritenuto che i poteri nel mondo fossero oramai altri e che convenisse alla
Russia inserirsi in questo mondo nuovo come centro di un suo sistema: il “mondo russo” appunto».
In questo quadro, l’Ucraina si difende, da un Paese come la Russia che ha sempre respinto. «L’esperienza diretta fatta dagli ucraini della vita in Russia e in Europa» può chiarire molti aspetti. «Se si parla con gli ucraini sorprende la loro coscienza della differenza tra queste due vite. Fino alla fine degli anni 90 molti ucraini sono andati a lavorare in Russia perché lì c’erano i soldi del gas e del petrolio e non si poteva venire da noi. Poi invece hanno avuto questa opportunità e hanno maturato una preferenza cosciente e crescente per la vista a ovest».
«Naturalmente ha contato anche la crescente realizzazione dell’importanza e delle dimensioni dell’Holodomor del 1933, la grande carestia che fece quattro milioni di morti in pochi mesi. Malgrado essa fosse il prodotto di politiche socialiste, poiché queste erano decise a Mosca è stato semplice associarle a una immagine minacciosa della Russia. E ha contato anche la maturazione di un giudizio negativo sull’evoluzione deprimente del regime della Bielorussia e dell’autoritarismo di Putin, che ha impaurito molti. L’idea di dover vivere in un regime duro e autorita-
rio non è piaciuta. Tutto questo, e altro, ha spinto gran parte degli ucraini a non voler condividere il loro futuro con la Russia di Putin, un sentimento acuito dalla guerra del 2014».
Putin ha da sempre inneggiato l’autoritarismo, l’imposizione della propria volontà. Nonostante questa certezza, non si esclude la nascita di un’ideologia diversa che contrasta quella esistente del presidente russo. «Esiste già in Russia una narrativa contraria, anzi più d’una. Putin pensa a un mondo russo autoritario, centrato su Mosca, e abitato da popoli non solo russi e una parte della popolazione certo lo segue anche se oggi è difficile capirne l’ampiezza, dato l’altissimo livello di controllo e repressione. C’è anche un oppositore, Navalny, che è in prigione e che ha idee diverse e ci sono centinaia di migliaia di russi che si sono rifugiati all’estero.
Ci sono insomma visioni alternative: anche quando è caduto il fascismo non mancavano gruppi di italiani con visioni alternative. Ovviamente non è detto che le narrative anti-Putiniane siano di regola filo-europee. Potrebbero aspirare a una Russia più democratica, o più aperta e liberale, o anche ancora più nazionalista. Mi sembra però che attualmente il con-
trollo di Putin sullo Stato russo sia molto solido e forse le cose potrebbero cambiare solo con la sconfitta di Putin o la sua morte, come è successo in Spagna o in altri Paesi».
La Russia sembra essere lontana dal “destino” degli altri Paesi, almeno allo stato attuale e, infatti, non arretra, ma avanza, vuole continuare «la propria guerra fino alla vittoria». Nei suoi programmi, spiega lo storico, quasi sicuramente rientra «l’intero Donbas, o la frontiera sul fiume Dnipro, o persino Odessa e tutta la costa. «Gli obiettivi militari e politici implicano ancora, quindi, prendere buona parte dell’Ucraina, e non credo che una guerra di lunga durata, se favorevole, spaventi Mosca.
Solo una sconfitta militare della Russia potrebbe risolvere positivamente la situazione, ma non è semplice. La Russia è più di tre volte più grande dell’Ucraina in termini di popolazione, economia e risorse finanziarie, e ha un grande arsenale nucleare, che impedisce agli altri di intervenire direttamente. Gli ucraini sono stati eroici e sono stati certo aiutati dagli Stati Uniti e dalla Unione Europea, ma sono comunque loro a combattere. Bisogna aiutarli e sperare che reggano e vincano, per quanto si può». ■
Parola ai presidenti
Putin, Biden e Zelensky si rivolgono al mondo un anno dopo lo scoppio della guerra
Putin
«Questo discorso presidenziale arriva, come tutti noi sappiamo, in un periodo difficile e spartiacque per il nostro Paese. Per il mondo intero è un tempo di cambiamento radicale e irreversibile, di eventi cruciali che determineranno il futuro del nostro Paese e del nostro popolo, è un tempo in cui ognuno di noi ha una responsabilità colossale». Vladimir Putin ha parlato di fronte all’Assemblea Federale a Mosca per un’ora e quarantacinque minuti, tenendo il suo più lungo discorso annuale sullo stato della nazione.
Nel 2022, il presidente della Russia ha saltato il discorso, ma nel 2023 l’ha tenuto nella settimana dell’anniversario dell’inizio della guerra in Ucraina, argomento che Putin ha affrontato. «Un anno fa, per proteggere le persone nelle nostre terre storiche, per garantire la sicurezza del nostro Paese e per eliminare la minaccia proveniente dal regime neonazista che si era insediato in Ucraina dopo il colpo di stato del 2014, si è deciso di iniziare l’operazione militare speciale. Passo dopo passo, con attenzione e coerenza ci occuperemo dei compiti che abbiamo a portata di mano».
Il presidente russo ha incolpato l’Occidente della situazione, dipingendo la
Federazione come il salvatore dei popoli oppressi: «Permettetemi di ribadire che sono stati loro a iniziare questa guerra, mentre noi abbiamo usato la forza e la stiamo usando per fermare la guerra».
Biden
«Mentre il mondo si prepara a celebrare l’anniversario della brutale invasione dell’Ucraina da parte della Russia, sono a Kiev per incontrare il presidente Zelensky e riaffermare il nostro impegno incrollabile e senza riserve per la democrazia, la sovranità e l’integrità territoriale dell’Ucraina». Il presidente degli Stati Uniti d’America, Joe Biden, era atteso a Varsavia, in Polonia, per il primo anno dallo scoppio della guerra, ma ha effettuato una deviazione: una visita a sorpresa a Kiev per incontrare il presidente Zelensky.
Nella capitale Ucraina, il capo di stato americano ha tenuto un discorso per reiterare il supporto statunitense e delle nazioni alleate al Paese invaso, preannunciando una nuova consegna di equipaggiamenti indispensabili e nuove sanzioni. «Quando Putin ha lanciato la sua invasione, quasi un anno fa, pensava che l’Ucraina fosse debole e che l’Occidente fosse diviso. Pensava di poterci battere. Ma si sbagliava enormemente».
Zelensky
«Un anno di guerra su vasta scala, un anno della nostra invincibilità, che è stata una risposta all’illusione del Cremlino di “tre giorni per Kiev”… Un anno!» Il presidente dell’Ucraina, Volodymyr Zelensky, ha parlato ai cittadini durante «il nono anniversario dei giorni più orribili di Maidan, l’anniversario dell’inizio dell’aggressione russa contro il nostro Paese, quando mancava pochissimo tempo all’occupazione della nostra Crimea. E ora, nove anni dopo, siamo più fiduciosi che mai che la giustizia sarà servita».
Il discorso è arrivato in concomitanza con la visita a sorpresa del presidente statunitense Joe Biden, che ha ribadito il supporto dell’Occidente all’Ucraina, e l’inizio della settimana dell’anniversario dello scoppio della guerra. «Lo stato aggressore, che si è costantemente mosso verso il diventare uno stato terrorista, sarà ritenuto responsabile dei suoi crimini. Sarà ritenuto responsabile grazie agli sforzi dell’Ucraina e di tutti i nostri alleati, dell’intero mondo libero e di tutti coloro che ora ci stanno aiutando a difendere la nostra indipendenza, la libertà, il diritto internazionale e l’ordine. Prevarremo in questo confronto storico». ■
Oleksandra, un Nobel per il suo Paese
il Center for Civil Liberties, insieme ai nostri colleghi, ha bussato alle porte per farsi ascoltare».
umani in Ucraina
Il Centro per le Libertà Civili (CCL) è un’organizzazione ucraina per i diritti umani, fondata nel 2007, che lavora da 15 anni per proteggere i diritti delle persone in Ucraina e nella regione dell’OSCE. L’organizzazione è stata insignita del Premio Nobel per la pace nel 2022.
Alla domanda che cosa è cambiato dopo il Nobel, l’organizzazione risponde: «Cosa è cambiato per noi? La comunità internazionale ha finalmente iniziato ad ascoltarci. Ancora una volta, la guerra non è iniziata nel febbraio 2022, ma nel febbraio 2014. Sono passati 9 anni. E per 9 anni
Il CCL ha avuto un ruolo attivo negli eventi più importanti della storia moderna dell’Ucraina, come le proteste di Euromaidan, la guerra nel Donbas e l'invasione russa. L'organizzazione si è impegnata nella promozione di riforme nel campo dello stato di diritto e nel supporto dei diritti umani, incluso il lavoro di allineamento delle legislazioni nazionali agli standard dei diritti umani dell’UE e del Consiglio d’Europa. Il CCL ha anche documentato i crimini di guerra durante l’aggressione armata russa e ha condotto corsi di formazione sui diritti umani e la democrazia.
La fondatrice e responsabile permanente del CCL è Oleksandra Matviychuk, avvocato e autrice di numerosi rapporti alternativi per varie organizzazioni internazionali. Il CCL ha come priorità princi-
pale il ripristino della giustizia per tutte le vittime dei crimini di guerra commessi in Ucraina, incluso il supporto all’implementazione dei meccanismi legali dei futuri processi sui crimini di guerra russi commessi in Ucraina e la promozione dell’adozione dello Statuto di Roma.
Dal primo giorno dell’invasione russa, si occupa di documentare i crimini di guerra, combattere l’impunità, promuovere il sistema di giustizia penale internazionale e il rispetto del diritto internazionale umanitario, implementare i meccanismi legali dei futuri processi sui crimini di guerra russi commessi in Ucraina, sostenere l'adozione dello Statuto di Roma, promuovere gli interessi dell’Ucraina all’estero e nelle organizzazioni internazionali e informare sui crimini di guerra commessi dall’esercito russo in Ucraina. La priorità principale del CCL è il ripristino della giustizia per tutte le vittime dei crimini di guerra. Oltre a punire i colpevoli di atrocità.
Il CCL lavora a livello internazionale per fermare l’aggressione russa in Ucraina, utilizzando i meccanismi esistenti presso le Nazioni Unite, il Consiglio d’Europa, l’OSCE, l’UE, la Corte Penale Internazionale, il corpo diplomatico e i politici, le organizzazioni e le reti internazionali per i diritti umani e i media stranieri e nazionali. Il CCL mira anche a diffondere la conoscenza del diritto internazionale umanitario e a documentare le violazioni dei diritti umani. Il Centro ha raggiunto importanti obiettivi, tra cui l’assistenza legale ai manifestanti durante la Rivoluzione della dignità, la documentazione dei crimini di guerra in Crimea e parti delle regioni di Donetsk e Luhansk, e la creazione di una coalizione per i diritti umani per coordinare azioni comuni in Ucraina. ■
di Claudia BisioL’azione del Centro per le Libertà Civili contro i crimini di guerra per tutelare i diritti
Gli indesiderati
La lotta di Meduza, unico giornale indipendente rimasto in Russia, contro il Cremlino
INFORMAZIONE
«Se vogliono una battaglia la avranno»: inizia così il lungo annuncio da parte di Meduza dopo che, lo scorso 26 gennaio, è stato messo fuori legge dalle autorità russe con la nuova etichetta di «indesiderato» appiccicata addosso. Anche se più che di etichetta si dovrebbe parlare di bersaglio: l’insofferenza del Cremlino verso la libertà di stampa cresce ogni giorno di più, specie da quando il 24 febbraio 2022 è iniziata l’invasione dell’Ucraina.
Reporter Sans Frontieres, che calcola il freedom index della stampa in giro per il mondo, assegna un 38.8 alla Russia. Da 0 a 40 la situazione viene considerata di grave violazione delle norme internazionali a tutela della libertà di stampa.
Un lungo processo che ha disabituato l’opinione pubblica, installando la narrativa di Putin grazie al saldo controllo sui media attraverso l’organo statale Roskomnazdor, il servizio federale per la supervisione delle comunicazioni, delle tecnologie dell’informazione e dei mass media, istituito nel 2008 da Dimitri Medvedev.
La messa al bando del quotidiano anglo-russo con sede a Riga, in Lettonia, non è stata una decisione improvvisa, come racconta Katerina Abramova, portavoce della testata, ma fa parte di un processo iniziato nell’aprile 2021 quando Meduza è stato inserito nella lista dei siti d’informazione che il Cremlino considera «agenti stranieri»: «In un primo
momento è stato un duro colpo, ma poi è diventato chiaro il motivo per cui stavano limitando l’informazione: preparavano la guerra. Noi siamo stati i primi, ma da lì in avanti qualunque media indipendente è stato inserito nella lista nera. Essere dei foreign agents significa che secondo le autorità russe stai lavorando al soldo di un paese straniero. Vieni visto come una spia, un nemico. È un’onta per chiunque, ma per noi ha significato la rovina del nostro business model perché in Russia hanno paura di essere associati con chi viene considerato come un indesiderato. Farci da sponsor e mettere il proprio marchio sul nostro sito è diventato impossibile, così abbiamo dovuto virare sul crowdfunding per andare avanti con i nostri progetti».
Da quando la guerra in Ucraina è iniziata il servizio federale di censura che supervisiona i media è responsabile di aver oscurato più volte Meduza e ha stretto sempre di più il controllo su quello che usciva nella Federazione.
A novembre 2022, Roskomnazdor ha limitato l’accesso, oscurando una parte del sito, alla Novaja Gazeta un altro outlet indipendente. Le colpe sono note: aver chiamato l’invasione
dell’Ucraina una guerra e aver riportato senza infingimenti le manovre repressive del Cremlino. «Quando abbiamo iniziato molte persone ci ridevano dietro, domandandoci quale fosse il problema. Ma già nove anni fa, nel 2014, era chiaro che il concetto di media indipendente in Russia stava per scomparire. Una delle nostre fondatrici lavorava per uno dei più importanti siti di informazione russi. Ha fondato Meduza dopo essere stata licenziata per non aver coperto a dovere l’annessione della Crimea nel 2014».
Ma cosa comporta la nuova dicitura «indesiderato» accanto al nome di Meduza? «Se Meduza non scompare, il Ministero della Giustizia minaccerà non solo la nostra squadra di giornalisti, ma anche chiunque distribuirà il nostro materiale (compresi atti innocui come la condivisione di un link su Facebook di uno dei nostri articoli), chiunque cercherà di donare soldi per sostenere il nostro giornalismo, e anche chiunque concederà ai nostri giornalisti un’intervista o anche solo un commento».
L’invasione dell’Ucraina ha aggravato la situazione e reso impossibile fidarsi delle informazioni rilanciate dalle agenzie statali russe. Disinformazione e propaganda, cruccio di gran parte dei paesi del Globo, hanno indossato l’elmetto e giocano un ruolo fondamentale per il Cremlino. Vista da Riga, dove ha sede Meduza, anche questa parte non è una novità: «La propaganda di Putin non è iniziata con la guerra in Ucraina e nemmeno con l’annessione della Crimea. Non è stato qualcosa di improvviso o qualcosa che serviva a giustificare le guerre. È stato un processo lungo che, giorno per giorno e mese per mese per vent’anni, hanno instillato il concetto che l’Ucraina è russa da sempre e che l’Occidente e la Nato, un giorno, avrebbero voluto la resa dei conti».
Le autorità statali controllano con maggiore facilità la narrativa riguardante la guerra. Dal 4 marzo 2022, il Roskomnazdor ha dichiarato illegali le fake news riguardanti l’esercito della Federazione. Stando a un rapporto dell’OECD, l’organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico, ad esempio, la legge non specifica cosa si qualifica come falsa informazione e si possono applicare multe fino a 500.000 rubli (6.200 euro) e incarcerare i cittadini fino a quindici anni.
Il consenso che il Cremlino racconta di avere nella popolazione è, appunto, un racconto, come spiega Abramova: «Sicuramente ci sono molti russi che
sono militaristi e credono ancora nella possibilità che l’Impero rinasca, ma non tutti la pensano così, forse sono anche meno della metà. C’è una fetta di popolazione che combatte il dispotismo di Putin facendo attivismo, denunciando la situazione, ma la stragrande maggioranza dei russi vive in condizioni
di povertà. Non hanno interesse che per le fatiche di ogni giorno, ma sanno che a loro conviene il silenzio».
Ma qual è il futuro del giornalismo indipendente in Russia? Abramova sospira e poi risponde: «Andare lontano dalla Russia». ■
La guerra oltre il confine
Il National Republican Army agisce in segreto in Russia per combattere il regime di Putin
RETE
Mentre Vladimir Putin pronuncia le sue parole all’interno della Duma, al di fuori tra militari, civili, professori e baby sitter i membri del National Republican Army, una delle più grandi organizzazioni di ribelli che combatte il regime russo, ne ascoltano le parole. Pochi secondi e ogni lettera è trascritta sul loro gruppo Telegram Rospartizan. Nuovi obbiettivi vengono identificati per gli attacchi e, se qualcuno dovesse vacillare, interviene la direzione a mettere in chiaro le cose. «Ci danno la caccia, ma noi siamo dovunque», recita il messaggio.
il servizio federale russo che sorveglia le comunicazioni.
Senza alcuna base operativa, il National Republican Army agisce «in maniera decentralizzata. Siamo dispersi in ogni città e campagna. Oggi però non possiamo ancora agire con tutta la nostra forza perché ci stanno dando la caccia», dicono dal comando.
di Lorenzo Sangermano
Con l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia, un fronte sotterraneo è emerso nell’impero di Putin. Proprio tra le fila dei suoi cittadini, diverse organizzazioni sono nate per combattere il governo autoritario e dittatoriale. La “Legione Libertà alla Russia” ha raccolto in poche settimane decine di militari russi, disertori politici e civili disposti ad aiutare l’esercito ucraino. Il gruppo “Stop the wagon” ha fornito informazioni su come danneggiare le ferrovie russo fino alla sua chiusura da parte del Raskomnadzor,
Lo stampo è rivoluzionario e, ribadisce l’organizzazione, di certo non pacifista. Ilya Ponomarev, ex-deputato russo e oppositore del regime di Putin, ha dichiarato che l’NRA sarebbe il responsabile dell’omicidio di Darja Dugina, figlia del patriarca Dugin. Ponomarev avrebbe giustificato le sue parole con gli scambi di messaggi intrattenuti con l’NRA. Da parte dell’organizzazione non giunge però alcuna conferma. L’unico desiderio sembra essere invece il rivendicare la loro esistenza: «ci siamo, siamo vivi e questo potremo dimostrarvelo», commentano dalla direzione. Dall’esterno il compito può sembrare facile, quasi scontato in certi termini. Nella Russia di Putin ogni
gesto è però l’occasione di un pericolo. «Le nostre comunicazioni sono ridotte al minimo. Sia con l’esterno che con l’interno. Tra di noi le parole sono scarse, solo se necessarie. Il pericolo è sempre quello di parlare con il nemico perché chiunque può essere segretamente reclutato».
Un’allerta maggiore arriva però nei confronti del governo. «È molto difficile essere dei rivoluzionari in Russia, la pena è molto alta e si rischia la morte. Per questo siamo obbligati a utilizzare più forme di anonimato». Profili coperti da comunicazioni crittografate, mail che dopo venti secondi spariscono dalla rete. Mentre il dissenso nella vita reale è espressamente vietato, è nel web che il
potere si moltiplica. Il gruppo Rospartizan ha raccolto più di trentamila membri, anche se non tutti attivi. Secondo l’organizzazione il numero effettivo si aggirerebbe attorno a diverse migliaia di volontari. Diversi esperti hanno espresso dubbi riguardo la loro esistenza. Sarebbe l’assenza di manifestazioni concrete secondo loro a creare più domande che risposte.
Una critica che l’NRA non accoglie con piacere. «Non possiamo dire l’estrazione sociale dei nostri membri. Non possiamo parlare. Perché siamo noi a rischiare la morte. Tutto deve ancora cominciare», risponde in maniera diretta il coordinamento.
A bilanciare le paure il desiderio di combattere il regime. «Non possiamo tollerare la politica di Putin perché è una visione aggressiva finalizzata a realizzare le sue ambizioni imperialistiche. I russi vogliono vivere in pace con l’Occidente e svilupparsi. Essere parte di una comunità globale. La politica di Putin non fa altro che isolarci dal mondo».
Della guerra in Ucraina, «uno stato vicino invaso illegalmente», i ribelli hanno le idee chiare. «La soluzione del conflitto, secondo la nostra opinione, può essere solo la completa ritirata delle truppe russe». Una fuga verso un Paese, la Russia, dove però con l’NRA di sicuro non troveranno la pace. ■
Dove “guerra” si dice pregando
di Dario ArtaleC’è una damigiana piena di acqua santa, entrando a destra, nella chiesa russoortodossa di Roma. Chi entra per pregare prende un bicchierino di plastica – di quelli da caffè – lo mette sotto il rubinetto della damigiana, e beve tre volte. «Una per il padre, una per il figlio, l’altra per lo spirito santo» spiega una delle mamme che ogni sabato portano qui i propri bambini per imparare il russo, nei locali della parrocchia.
La chiesa di Santa Caterina Martire si trova incastonata all’interno del parco di Villa Abamelek, residenza dell’ambasciatore russo a Roma, con cui comunica attraverso un cancelletto bianco. Svetta, con le sue guglie turchesi, su una collina verde a cento metri in linea d’aria con la Basilica di San Pietro in Vaticano. In mezzo, a separarle, passa la linea della ferrovia.
Treno a parte, «non sono molte le cose che separano noi ortodossi dai cattolici», aggiunge la donna, esibendo l’unico sorriso di benvenuto in un angolo di Roma nascosto e respingente, soprattutto per chi viene a curiosare, specialmente di questi tempi. «Sono tempi brutti» esclama, prima di prendersi una breve pausa. È trascorso un anno dall’inizio dell’aggressione russa contro l’Ucraina, che ha segnato una nuova frattura tra le comunità religiose dei due paesi, dopo lo scisma
del 2018, quando il patriarca di Costantinopoli ha riconosciuto l’autonomia della chiesa ucraina, causando la reazione del patriarcato di Mosca, che si è staccato dalla chiesa-madre di Costantinopoli. La guerra ha complicato i rapporti.
«Dal febbraio dello scorso anno molti ortodossi ucraini hanno smesso di venire in chiesa» constata un’altra mamma. D’altra parte la chiesa ortodossa russa si è apertamente schierata con Putin, per voce del potente patriarca di Mosca Kirill, guida spirituale dei russi, che ha esortato i fedeli a pregare per le forze armate che hanno invaso l’Ucraina. In risposta a quanto dichiarato da Kirill, anche il patriarcato ortodosso di Kiev – che anche dopo il 2018 era rimasto vicino alla chiesa russa – ha preso le distanze da quello di Mosca.
«Così oggi in Ucraina suonano tre campane – spiega padre Germano Marani, gesuita, docente universitario e padre spirituale del Russicuum, istituto cattolico di Roma, che cura lo studio e la cultura religiosa in Russia – una è greco-cattolica, l’altra è quella ortodossa ucraina, riconosciuta indipendente da Costantinopoli nel 2018, e l’ultima è quella ortodossa rimasta storicamente vicina a Mosca, ma che di recente si è dissociata da Kirill». Padre Marani conosce bene Kirill, essendone amico di vecchia data e avendolo
frequentato più volte durante i suoi soggiorni in Russia. «In questo momento Kirill e Putin hanno bisogno reciprocamente l’uno dell’altro, anche perché l’unica cosa che tiene in piedi il popolo russo è l’ortodossia. Questo, però, non vuol dire che credano l’uno nell’altro. Anzi, non ho mai visto Putin entusiasta di Kirill», specialmente da quando il patriarca ha allontanato da Mosca un altro metropolita, Tikhon Shevkunov, a cui Putin era molto legato per essere stato il suo padre spirituale all’interno del Kgb.
Messe da parte le trame di potere, è importante – secondo padre Marani – separare sempre il piano dei governanti da quello dei fedeli che da secoli frequentano la chiesa ortodossa, i quali «sono religiosamente pervasi dal sentimento della compassione, un sentimento tipicamente russo, che si ritrova anche tra le pagine di Dostoevskij». Sotto la foto incorniciata di Kirill, nella sagrestia della parrocchia di Santa Caterina a Roma, se ne sta una donna coi capelli raccolti. È una mamma anche lei, sta aspettando che il figlio finisca la lezione di cirillico, mentre al piano di sopra – in chiesa – la funzione religiosa che commemora i defunti è finita. «Io nelle mie preghiere ricordo sempre tutti, ricordo i russi e gli ucraini morti», esprime con sollievo. I preti russo-ortodossi, invece, decidono di non proferire alcuna parola. Oltre a quella di Dio. ■
«Costruire un ponte tra i fedeli»
I rapporti religiosi tra Kiev e Mosca dalla prospettiva di un parroco della comunità greco-cattolica ucraina, Don Taras Ostafiiv, che vive in Italia
«Le relazioni tra i capi spirituali della Chiesa greco-cattolica ucraina e i vertici del Patriarcato di Mosca storicamente non sono mai state buone: il dialogo ridotto ai minimi termini non ha dato vita a nessuna iniziativa comune». La ricostruzione di Don Taras Ostafiiv affonda le radici nel passato. Originario di Potik, un paesino nella regione di IvanoFrankivsk, fa servizio pastorale in Italia da dieci anni.
La sua storia, come quella della Chiesa ucraina, parte da lontano. «In assenza di commissioni condivise, l’unica occasione di incontro tra le due parti è il Consiglio Pan-Ucraino delle Chiese e delle organizzazioni religiose che rappresenta il 95% delle confessioni presenti sul territorio ucraino. L’ultima riunione si è tenuta a Roma. Una tre giorni ospitata in Vaticano da Papa Francesco e conclusasi il 25 gennaio in cui tradizionalmente si chiude la settimana di preghiera per l’Unità dei Cristiani. Al di là di questo contesto, non ci sono mai stati rapporti di grande amicizia».
Sotto il dominio dell’Unione Sovietica, la Chiesa greco-cattolica ucraina ha dovuto lottare per la sua sopravvivenza. Messa fuorilegge da Stalin nel 1946, venne costretta a un’unione forzata con la Chiesa ortodossa russa. «Nel dopoguerra questa fusione venne imposta dai fucili che puntavano le teste dei nostri sacerdoti: non è stato un sinodo ma una farsa illegittima».
La Chiesa greco-cattolica ucraina, che oggi conta 5 milioni di membri, continuò ad esistere in clandestinità. Migliaia di fedeli e sacerdoti vennero arrestati e imprigionati nei gulag in Siberia. A partire dal 1989, con la caduta del regime comunista, iniziò a ricostruire le proprie strutture operative. Passo dopo passo sono riusciti a rialzarci.
Prima dello scoppio della guerra, l’80% dei fedeli che in Italia frequentavano le parrocchie ortodosse russe erano di nazionalità ucraina. Un dato che adesso andrebbe aggiornato. «Dopo l’invasione dell’esercito di Putin, in molti infatti hanno abbandonato le parrocchie perché non
si sentivano più a loro agio. Ma c’è anche chi ha deciso di rimanere. All’interno della comunità ucraina questo fortunatamente non ha comportato ripercussioni: tra i nostri concittadini non ci sono dita puntate degli uni contro gli altri».
A fine novembre dello scorso anno, l’Esarca d’Italia della Chiesa greco-cattolica ucraina ha riunito all’interno del Duomo i fedeli di tutte le Chiese cristiane di Milano. «In occasione della preghiera per la pace, ci siamo ritrovati uniti nella stessa supplica contro gli orrori della guerra. Anche i fedeli della Chiesa ortodossa di Mosca hanno partecipato. Tra noi e loro non ci sono state accuse: dal basso abbiamo voluto costruire un ponte, tendendoci le mani. Speriamo ciò avvenga presto anche in cima alle rispettive gerarchie. I nostri rappresentanti sono pronti a in staurare un dialogo. Purtroppo da parte della Chiesa di Mosca non c’è ancora la volontà di normalizzare i rapporti ufficiali con noi: non ci riconoscono come pari, vogliono parlare soltanto con la Chiesa di Roma». ■
Una generazione giovane in cerca di normalità
Arseny, Antonio, Adelina, Anna e Natalia: sono solo alcuni dei nomi di bambini e ragazzi fuggiti da Ucraina e Russia a causa della guerra. In Italia ricostruiscono, a fatica, la propria quotidianità
«Tornare in Ucraina o rimanere in Italia dipenderà dall’esito della guerra». A dirlo è Arseny, sedici anni, il volto di un adolescente - levigato ma con qualche accenno di barba - e un recente passato molto diverso da quello della gran parte dei suoi coetanei. Il ragazzo è arrivato in Italia lo scorso marzo dopo un viaggio di 15 ore attraverso l’Europa. È scappato insieme a sua madre da Kharkiv, lasciando lì non solo il tepore della routine fatta di lezioni a scuola di musica, partite di tennis e progetti abbozzati, ma anche il padre. La guerra era entrata nella sua vita all’improvviso, sparigliando, con il rumore di un’esplosione d’artiglieria, le carte che Arseny aveva, fino ad allora, disposto sul tavolo.
«ll giorno prima andavo a scuola insieme ai miei amici, quello dopo eravamo tutti in diverse città d’Europa. Ora ogni tanto ci sentiamo, ma non so se ci rivedremo più», così aveva raccontato a Zeta
il brusco distacco dalla sua realtà pochi giorni dopo essere arrivato in Italia. Ma il ragazzo, benché provato, non si era fatto abbattere e in poco tempo si era iscritto in una nuova scuola a Roma. Comunicare con i compagni di classe era stato, in un primo momento, molto difficile, ma la tecnologia era stata dalla sua e così, grazie al traduttore vocale, aveva iniziato a ricreare una sua cerchia di amici.
Oggi, a distanza di un anno dalle esplosioni che avevano ridotto in macerie case e futuro, Arseny è riuscito nell’intento di ricreare in Italia una nuova forma di normalità. «In questo primo anno sono stato molto bene. Vado agli allenamenti di tennis da tavolo, mi sento molto cresciuto».
Continua ad andare a scuola, «è stato difficile ambientarsi qui. La mia materia preferita è la matematica, della lingua, l’italiano, non mi interessa più di tanto».
Eppure in meno di un anno ha imparato l’italiano base e ora è pronto a intraprendere il corso avanzato.
Il volto di Arseny è entusiasta quando parla della nuova realtà scolastica e della città in cui si è trasferito: Roma. «Di Roma mi piace l’inverno, come l’estate, è bellissima questa città. Certo, manca la neve che c’era in Ucraina, dicembre in Italia è come maggio nella mia terra».
Non si scompone neanche quando racconta degli amici che ha lasciato e di quelli che fa fatica a ricrearsi. «Alcuni miei amici sono rimasti in Ucraina, altri sono in giro per l’Europa. Con gli amici che sono in Europa non ho riparlato, penso che siano nelle mie stesse condizioni, frequentano la scuola e si sono ricreati la propria quotidianità. Ogni tanto parlo anche con quelli che sono rimasti in Ucraina, si sentono abbastanza bene, stanno a casa e studiano online. Qui non ho amici, ma non è un problema, non ne avevo molti neanche in Ucraina».
La sua serenità sembra incrinarsi solo quando gli si chiede di suo padre. «È ancora a Kharkiv», risponde laconico, quasi a voler proteggersi dall’unico argomento che potrebbe gettare un’ombra sulla sua imperturbabilità.
Parla volentieri, invece, della madre, anche se dalle sue parole emerge un leggero fastidio per quelle che sembra ritenere condizioni lavorative non all’altezza della professionalità della donna. «Mia mamma è una restauratrice e qui sta facendo un tirocinio per non abbandonare quella che era la sua professione ma la paga è bassa. Per ora l’unica cosa che le hanno fatto fare è ripulire il travertino ed è intervenuta su un affresco a Maccarese. Per mia mamma è stato molto difficile imparare l’italiano, anche se ormai un po’ lo parla».
La fatica impiegata da Arseny nel tentativo di ricostruire la propria vita e il proprio futuro è alleggerita dalle piccole conquiste quotidiane che disegnano una nuova normalità, molto simile a quella di tanti altri sedicenni. «Da quando sono qui, uso molto di più il telefono, guardo tantissimi video su Youtube. Per la maggior parte sono stupidaggini».
Soglie di una nuova quotidianità cui affacciarsi con curiosità ed entusiasmo, scrollandosi dalle spalle il peso della guerra. È quello che accade anche a Siracusa, dove, nei corridoi dell’Istituto Elio Vittorini, sotto gli sguardi inteneriti delle collaboratrici scolastiche, piccole delegazioni
di bimbi attraversano i confini tra la scuola dell’infanzia e la scuola primaria per scambiare visite con fratellini e sorelline.
Una consuetudine inusuale per la maggior parte degli alunni, ma un bisogno incontenibile per i piccoli fuggiti dal conflitto russo-ucraino. Dallo scoppio della guerra, otto bambini, due russi e sei ucraini, hanno varcato le soglie dell’istituto. Antonio, 7 anni, e Adelina, 6 anni, fuggiti in macchina da Kiev con la sorella maggiore, i nonni e la cuginetta Nicole, ma senza i genitori, hanno ricongiunto il nucleo familiare in un’altra città e cambiato scuola. Anna, 10 anni, e mamma Natalia, una volta relegati nella memoria gli orrori delle bombe e le vite soffocate nei rifugi di Kharkiv, e due fratellini russi, scappati da Mosca con il papà timoroso di essere arruolato e la mamma giornalista contraria alla guerra, sono rimasti a Siracusa e frequentano ancora le lezioni.
Con il progetto di accoglienza La cura delle ferite di guerra, la preside Pinella Giuffrida ha garantito l’inclusione e la serenità dei bambini. Non solo con un campus estivo per favorire la socializzazione, con un corso di giardinaggio per cementare i legami e con piani di studio personalizzati per favorire l’apprendimento, ma anche con l’intensificazione del corso di italiano per agevolare la comunicazione, con il supporto di una psicologa per affrontare le paure e con il metodo peer-to-peer per trasformare gli altri allievi in indispensabili tutor.
«Tra le insegnanti, i compagni di classe e le loro famiglie è scattata una gara di solidarietà verso i bambini: da chi li invita di più a casa nel pomeriggio per fare merende e compiti, a chi gioca di più con loro durante la ricreazione, fino a chi li accompagna a fare sport insieme ai propri figli. Ora i piccoli, che all’inizio si isolavano, sono splendidamente integrati nelle classi».
Fondamentale è anche l’assistenza psicologica, iniziata lo scorso anno sui materassini calpestati dai piedi nudi dei bambini «per tirare fuori la rabbia e mettere dentro sentimenti buoni attraverso giochi, canzoni e pittura» e proseguita oggi con un’attenta attività di osservazione «per comprendere le dinamiche e i bisogni dei bambini, ancora tormentati da mostri difficili da abbattere, come la paura di non essere amati abbastanza. Hanno bisogno di abbracci, di affetto e di sentirsi voluti».
Le difficoltà comunicative, però, come accaduto anche ad Arseny, compli-
cano il dialogo e incombono soprattutto sui bambini più grandi durante le lezioni. «Un insegnante vecchio stampo dotava il bambino di quaderno per ricopiare testi o colorare. Oggi, gli studenti discutono, ragionano, elaborano ipotesi e inferenze su fatti e problemi, un lavoro che per i bambini privi della padronanza della lingua diventa complicato, se non impossibile», sottolinea la preside.
Per includere i bambini russi e ucraini occorrono dunque linguaggi universali come quello della matematica, disciplina nella quale i piccoli eccellono, o quello visivo, in grado di illustrare anche la storia e la geografia. Per avvicinare ancora di più gli allievi, Giuffrida ha anche tentato di rintracciare le maestre rimaste in Ucraina, ma senza successo. «È il nostro rammarico, perché sarebbe stata una fonte di crescita per i bambini».
Il successo del processo di integrazione, però, ha rasserenato le famiglie dei piccoli, formate perlopiù da mamme giovanissime. «Anche loro hanno bisogno di supporto, perché sono ancora spaesate. Alcune lavorano, ma altre non hanno neppure la macchina e confidano nell’aiuto di altre mamme».
Tutte, però, sono felici per la ritrovata tranquillità dei bambini sui quali, a un anno dallo scoppio della guerra, Giuffrida ritiene «giusto spegnere i riflettori. Non mi riferisco alla stampa, ma alle nostre attenzioni, che non devono essere pressioni esagerate, ma favorire l’ingresso in un canale di normalità». ■
Una nuova vita tra i vitigni storici dei Colli Euganei
La forza e la determinazione di Anatolii Bobrovsykyi che, a 73 anni, a Teolo, ha trovato un luogo sicuro da cui ripartire, dedicandosi alla viticoltura
LAVORO
di Maria Teresa Lacroce«Non sono un viticoltore ma avevo un terreno piuttosto ampio vicino casa in cui coltivavo molte viti con le quali autoproducevo il vino. Riuscivo a fare sia il vino bianco che quello rosso: produrre il vino in casa è una tradizione della mia zona. Il mio preferito era quello rosso». Si commuove Anatolii Bobrovsykyi quando ripensa ai suoi vigneti, ai filari di viti e ai
grappoli d’uva che, settimana dopo settimana, cambiavano colore fino al momento in cui venivano raccolti per dare vita a quel vino di cui «tutti quelli che lo assaggiavano dicevano che era squisito». Ha 73 anni e viveva a Kherson, nella parte meridionale dell’Ucraina. La città, lo scorso novembre è stata riconquistata dalle forze di Kiev ma continua ad essere tra le zone più martoriate dagli attacchi russi. Ci sono macerie ovunque: i soldati di Putin sparano ad ogni ora del giorno e della notte seminando morte e distruzione. Lo scorso agosto, dopo mesi di ansia e paura, Anatolii è riuscito a lasciare la sua città e a trovare rifugio in Italia, a Teolo in provincia di Padova, nel Parco Regionale dei Colli Euganei. «Sono arrivato con parte della mia famiglia: il marito di mia figlia e la madre del marito della mia seconda figlia. Ho portato con me anche il mio cagnolino», racconta Anato -
lii. Il viaggio è stato lungo e difficile: «la mia città è in una zona a maggioranza russofona. Quando è scoppiata la guerra è stata occupata dalle truppe russe e dichiarata territorio russo: di conseguenza non potevo uscire da quella zona con un documento ucraino. Quindi, muovendomi in automobile, sono entrato in Russia per poi uscirne passando per la Lettonia e la Lituania, fino a raggiungere la Polonia. Da qui abbiamo continuato il viaggio in autobus fino all'Italia». Un percorso durato ben sette giorni e sette notti che ha messo a dura prova Anatolii: si muove con difficoltà, aiutandosi con una stampella.
Al suo arrivo a Teolo è stato accolto presso la Villa Mater Gratiae che l’associazione Abam Onlus ha restaurato e messo a disposizione trasformandola in un centro di accoglienza dove oggi, gra-
zie anche al lavoro e al supporto della Orizzonti Cooperativa sociale e di tanti volontari, trentotto persone fuggite dalla guerra, in particolare donne e bambini, hanno trovato un luogo sicuro in cui vivere e ritrovare serenità. Al restauro della villa ha contribuito anche Graspo (Gruppo di ricerca ampelografica sostenibile per la preservazione della biodiversità viticola), un’associazione che si pone l’obiettivo di identificare, catalogare e vinificare i vitigni antichi e autoctoni del territorio nazionale e internazionale, allo scopo di tutelarli e valorizzarli.
Come spiega Aldo Lorenzoni, promotore di Graspo: «noi siamo un gruppo di amici e da qualche anno cerchiamo di mettere in salvo, dal punto di vista del Dna, tutta una serie di vitigni storici, dalle Alpi alla Sicilia. Inoltre, portiamo avanti anche altre attività e progetti di solidarietà. Abbiamo contribuito al restauro della villa dove ha trovato ospitalità Anatolii e abbiamo saputo della sua passione per la viticoltura e del suo desiderio di prendersi cura di alcune piante». Così, lo scorso novembre, con un gesto simbolico, l’associazione Graspo ha deciso di donare ad Anatolii le barbatelle di quattro antichi vitigni “perduti” del padovano: la Corbina, la Turchetta, la Cavrara e la Pedevenda. «Quando ha visto le piante, Anatolii è ringiovanito: ha quasi lanciato la stampella e ha preso in mano la zappa per smuovere la terra in cui piantare le barbatelle. Ho ancora davanti agli occhi questa immagine», ricorda Aldo Lorenzoni.
Per Anatolii prendersi cura delle barbatelle è quasi un ritorno al suo passato di viticoltore in Ucraina: non c’è giorno in cui non va a vederle e c’è sempre qualcuno pronto a dargli una mano per curarle al meglio. «Purtroppo, per la mia condizione fisica, faccio fatica ad occuparmi come vorrei delle piante ma ho delle persone, anche connazionali, che se ne occupano e che mi aiutano». Spesso, come racconta Francesca Temporin della Orizzonti Cooperativa Sociale e coordinatrice della struttura di accoglienza «coinvolge anche i ragazzi presenti in struttura nella cura delle piante e spiega loro come prendersene cura così come farebbe un nonno con i propri nipoti».
Anatolii trascorre le sue giornate facendo piccole passeggiate sui colli di Teolo, camminate in cui a volte lo accompagna Ganna, la sua consuocera con cui ha condiviso il viaggio dall’Ucraina all’Italia. «Mi piace stare all’aria aperta e chiacchierare con gli altri ospiti accolti in struttura. D’estate mi piaceva rima-
nere seduto fuori sulla panchina e chiacchierare con le persone che passavano, ma adesso con il freddo sono costretto a stare dentro». La sua speranza così come quella di tutti coloro che, come lui, sono dovuti scappare all’improvviso dalla propria terra abbandonando la propria casa e i propri affetti più cari è che la guerra finisca presto. Del suo Paese gli manca tutto: gli amici, la casa, la sua routine quotidiana. «Ho costruito la mia casa con le mie mani e l'ho costruita anche per mia figlia. Avevo pensato al mio futuro e a quello della mia famiglia in Ucraina e speravo di invecchiare nella mia casa con la mia famiglia vicino».
A causa di una guerra che non accenna a finire, il momento del ritorno nella sua terra si fa ogni giorno sempre più lontano. Il suo obiettivo è ora quello di ricon-
giungersi presto con le due figlie arrivate prima di lui in Italia, per poter finalmente ritornare a vivere insieme. Ma Anatolii non è il solo a vedere affievolirsi la speranza del ritorno nella propria patria. Come spiega Francesca Temporin della Orizzonti Cooperativa Sociale: «inizialmente le difficoltà di inserimento e integrazione erano più complesse perché c’era comunque la speranza di ritornare. Ora sembra che tutti si stiano rendendo conto che la fine della guerra non è dietro le porte e pertanto stanno iniziando anche a ragionare in altri termini, dicendo “io ci provo ad inserirmi qua e ad integrarmi e se eventualmente riesco a tornare al mio Paese ci torno volentieri ma, se non è possibile in tempi brevi, almeno inizio a costruirmi una parte di futuro qua”. È un processo molto delicato e complesso». ■
La memoria di un Paese che non esiste più
Mariupol, Mykolaiv, Kiev, Donetsk. Le aree colpite dalla guerra restituiscono la misura della distruzione del conflitto
Palazzo governativo Mykolaiv prima e dopo la guerra
Monastero di Dolyna (Donetsk) prima e dopo la guerra
Monumento alla principessa Olga (Kiev) prima e dopo la guerra
L’orfanotrofio azzurro e la nuova vita di Anna e Yulia
La situazione degli orfanotrofi ucraini si è aggravata con l’inizio del conflitto, molti bambini sono scappati in Europa e attendono di poter tornare
La prima volta che la signora Raffaella Buccio, commercialista cinquantenne di un paese in provincia di Avellino, ha visto Anna e Yulia non sapeva che quell’incontro avrebbe cambiato per sempre il corso della sua vita e di quella di suo marito. Quando le ha conosciute, le due bambine tremavano, non si lavavano da giorni e non avevano nulla con sé oltre a un rotolo di carta igienica che tenevano nello zaino. Le due orfane di 10 anni avevano passato tutto il mese precedente chiuse nel seminterrato di un orfanotrofio di Sumy, nel nord est dell’Ucraina, una delle prime zone a essere attaccate quando è iniziata l’offensiva russa.
La signora Buccio si è subito attivata per poterle accogliere in casa sua. Dopo aver firmato i documenti per diventare loro famiglia accogliente le ha iscritte alla scuola italiana, a ginnastica e nuoto. Oggi, a un anno dell’inizio della guerra, Anna e Yulia vivono ancora a San Nicola Baronia, di Beatrice Offidani
hanno imparato l’italiano e tutti in città conoscono le gemelle eteree e biondissime che spiccano per i loro colori così diversi da quelli degli altri abitanti del paese.
Il primo giorno Raffaella aveva paura anche solo ad avvicinarsi. Quelle due bambine non parlavano la sua lingua e avevano vissuto molto più dolore di quanto riuscisse a immaginare. Prima l’abbandono da parte della loro madre biologica, poi il periodo in orfanotrofio, la guerra e infine la fuga in Italia. Poi, piano piano, le ha conquistate a colpi di prelibatezze culinarie «grazie a me si sono innamorate della cucina italiana e hanno finalmente messo su un po’ di peso», scherza Raffaella. Ora la donna si rigira tra le mani la cartolina che le gemelle le hanno regalato a San Valentino, in cui la ringraziano per averle accolte e averle fatte sentire a casa. «Per la prima volta nella loro vita hanno potuto festeggiare il compleanno», dice Raffaella e un po’ le trema la voce. «Stia-
mo cercando di fare del nostro meglio e speriamo che tutto si risolva nel loro interesse. All’inizio questa doveva essere una soluzione temporanea e le bambine dovevano rimanere a casa nostra solo qualche settimana. Visto che i mesi passavano e la guerra non finiva sono rimaste». Non sono mancate, però, le difficoltà. «Durante quest’anno mia madre si è ammalata e ho dovuto cambiare lavoro. Non riuscivo più a gestire una famiglia allargata, così abbiamo fatto richiesta di spostare una delle gemelle a casa di una mia amica che fa la psicologa. Le ragazze possono vedersi ogni volta che vogliono, studiano una a casa dell’altra e possono contattare i loro fratelli che si trovano a casa di altre famiglie, qui al Sud».
Fino ai primi giorni di marzo del 2022 Anna e Yulia abitavano nell’orfanotrofio di Sumy insieme ad altri 24 bambini, allo staff e alla direttrice della struttura. Luoghi come quello sono molto diffusi in Ucraina. «Gli “orfanotrofi” non sono come ce li immaginiamo dall’Italia. In Ucraina capita spesso che i genitori, quando non hanno abbastanza soldi per mantenere i figli, li mandino in “internat” o in casa-famiglia, affinché possano mangiare ogni giorno e ricevere un’istruzione», spiega un portavoce di AiBi, uno dei principali enti italiani autorizzati per le adozioni internazionali, che si è occupato anche dell’emergenza Ucraina.
Prima dell’invasione russa erano oltre 100 mila i bambini abbandonati e accolti nei 663 orfanotrofi del Paese. Ora la maggior parte è stata evacuata in Polonia e in Europa. Gli “internat” più vicini alle zone dove si combatteva hanno smesso di funzionare proprio nel momento in cui ce ne sarebbe stato più bisogno. Alcuni sono stati requisiti dai soldati russi e gli ospiti sono stati deportati in Russia. Un recente rapporto dell’università di Yale ha dimostrato che migliaia di bambini ucraini avrebbero subito un’adozione forzata. Le autorità russe descrivono in programma come un’«azione umanitaria» rivolta agli «orfani abbandonati e traumatizzati dalla guerra». Come riportato dal Corriere della Sera, il gruppo di ricerca Conflict Watch, sostenuto dal Dipartimento di Stato americano, stima che il governo russo ha creato una rete di almeno 43 campi chiusi in cui più di 6.000 minori ucraini sono sottoposti a programmi di indottrinamento filorusso.
Per salvare i bambini dalla guerra e dalle deportazioni molte strutture si sono organizzate con dei contatti che avevano in Europa. L’orfanotrofio di Sumy si è appoggiato a una Onlus cattolica con
sede vicino Avellino che ha organizzato il trasferimento degli ospiti, tra cui c’erano anche Yulia e Anna. Secondo i dati del ministero del lavoro e delle politiche sociali, in Italia sono presenti 5.033 minori ucraini non accompagnati, cioè arrivati nel nostro paese senza i genitori: la maggior parte, circa 4.200, sono ospitati da famiglie. Dopo i numerosi arrivi della scorsa primavera, nelle settimane successive all’invasione russa, il numero di minori ucraini è rimasto per lo più stabile. Ad oggi sono ucraini circa il 27 per cento dei minori stranieri non accompagnati presenti in Italia. La macchina dell’accoglienza predisposta per gestire l’arrivo dei profughi ucraini in Italia è stata efficiente e precisa, molto più che per altre crisi umanitarie del passato, ma nel caso dei minori non accompagnati si è trovata a confrontarsi con una realtà complessa, che non aveva considerato.
«Quello che è successo nel primissimo periodo è che la maggior parte dei minori che arrivano in Italia, magari insieme a un responsabile ucraino, venivano riconosciuti come non accompagnati, anche se in realtà lo erano. A quel punto veniva assegnato d’ufficio un tutore italiano, spesso un avvocato che non conosceva i bambini e non parlava la loro lingua. Questo ha reso ancora più difficile l’integrazione. Inoltre, i tutor ucraini dovevano rinunciare ad avanzare ogni pretesa di essere riconosciuti come i responsabili dei bambini. Per questo motivo sono iniziate delle vere e proprie battaglie legali tra i
gestori degli orfanotrofi e i Tribunali dei minori italiani. Spesso si è cercato di trovare un compromesso assegnando come tutore il sindaco della città italiana in cui i ragazzi venivano accolti, così che il responsabile legale fosse una persona vicina», spiegano da AiBi.
La stessa cosa è successo alla direttrice dell’orfanotrofio dove vivevano Anna e Yulia. Il tribunale dei minori di Napoli le ha tolto la tutela legale dei 24 minori, che hanno trovato rifugio in famiglie come quella di Raffaella o in case-famiglia italiane. L’obiettivo della direttrice ora è riportare tutti a Sumy, dove la struttura non ha subito danni, per ricominciare le attività di sempre. «Tutta questa situazione va a scapito delle bambine. Da quello che mi hanno raccontato loro in orfanotrofio si trovavano bene, ma vivere nell’incertezza non le aiuta a essere serene. Capisco le pretese della direttrice e farò tutto ciò che è in mio potere per riportarle in Ucraina se così deciderà il tribunale», continua la signora Buccio.
Nel frattempo Anna e Yulia, vestite uguali, sorridono nella foto profilo WhatsApp di Raffaella, abbracciate alla loro nuova sorellina italiana. L’orfanotrofio dai muri dipinti di azzurro è ancora lì, nella campagna di Sumy. Le due bambine si troveranno presto, per la terza volta nella loro vita, a dover ricostruire una vita da zero. Ora, però, sono grandi e non hanno più paura. ■
Separati dalla guerra
Il suono degli allarmi anti-aerei che un anno fa ha diviso Evgeniy, Ola, Marc e Roman, oggi li accompagna scandendo il ritmo delle abitudini quotidiane
di Federica De Lillis
«Quando sentiamo il suono delle sirene interrompiamo qualsiasi cosa stiamo facendo e andiamo sul pianerottolo, con i bambini fingiamo che sia un gioco».
Evgeniy parla con distacco di una quotidianità scabrosa, scandita dal pericolo della morte che ormai non fa più impressione. I suoi figli, Marc e Roman, la notte tra il 23 e il 24 febbraio di un anno fa, si sono addormentati sotto lo sguardo stanco della madre, Ola.
«Eravamo a Kiev, quella sera sono tornato a casa tardi dallo studio in cui conduco il mio programma radiofonico e ricordo che l’ultima cosa di cui avevamo discusso erano stati gli scenari futuri: ci chiedeva-
mo se la guerra sarebbe iniziata o no, se fosse possibile bloccare l’escalation con la diplomazia. Era mezzanotte quando sono andato a dormire. Cinque ore dopo siamo stati svegliati da una bomba esplosa a un chilometro da casa».
La situazione in poco tempo precipita e la famiglia decide di abbandonare l’appartamento al diciassettesimo piano nel centro di Kiev. Ola e i bambini si dirigono a Ovest, Evgeny resta in città per convincere il padre ad andare via.
Si ritrovano tutti a Ivano-Frankivs’k qualche giorno dopo, la situazione, però, è pericolosa e decidono di dividersi ancora: Marc e Roman, che non avevano ancora due anni, vanno in Polonia insieme alla madre e ad altri parenti, Evgeny resta in Ucraina.
«Sono rimasto a Ivano-Frankivs’k, la solitudine è stata di certo la parte più difficile di quest’anno. Ero confuso, non sapevo cosa fare. Mi sono unito alla comunità di Sant’Egidio per accogliere i profughi che venivano da Est e da Sud. Questo mi ha aiutato a non pensare».
Dopo sei lunghi mesi divisi, i quattro si ritrovano di nuovo nella città dell’Ovest
del Paese, dove hanno deciso di ricominciare. «Qui ci sembra più sicuro che a Kiev. Durante quest’anno, Ivano-Frankivs’k non è stata bombardata, solo il porto, che non è lontanissimo, ma la situazione in città è abbastanza tranquilla», racconta Evgeny che ormai parla della guerra col distacco di chi ne ha ripercorso gli eventi migliaia di volte nella testa, mentre le riflessioni sulle sirene che ancora squarciano la quotidianità si accompagna alla piccola gioia regalata da un giorno di primavera anticipata.
«C’è il sole oggi, non fa caldo ma l’aria è tiepida. Negli ultimi giorni abbiamo avuto l’elettricità senza interruzioni né problemi. Prima l’avevamo solo in determinati momenti, per esempio, per due ore e poi niente per le successive quattro. Ma ormai ci siamo abituati».
Non tutto è cambiato nella nuova vita a Ivano-Frankivs’k, Evgeny continua a svolgere la professione che lo ha sempre appassionato: «Conduco i programmi radiofonici dalla cucina e qualche volta, in sottofondo, si sentono i miei bambini, ma va bene così, adesso in Ucraina molte persone lavorano in queste condizioni ed è normale. Mia moglie Ola continua a lavorare come insegnante di ucraino per stranieri. Ha tante richieste perché moltissime persone ora vogliono imparare la lingua».
Marc e Roman hanno quasi tre anni, hanno ricominciato da poco l’asilo, dove nessuno menziona la guerra. Le ore di lezione vengono interrotte dalle sirene, come anche le passeggiate per la città e i momenti di vita famigliare, per fare quel gioco in cui ci si deve nascondere.
«Non so cosa accadrà in futuro - dice Evgeny - ma sono certo che un giorno gli racconterò della guerra, gli spiegherò tutto, perché sono stato lontano, perché abbiamo vissuto a Ivano-Frankivs’k. Ma adesso no, non raccontiamo niente della situazione e va bene così». ■
Più di un mese sotto terra
INFANZIA
La nuova vita dei bambini: la paura è anche sui disegni ma il gioco non si ferma nonostante gli allarmi antiaerei
di Federica De Lillis«I primi tempi bombardavano abbastanza spesso anche a Leopoli. Certo, adesso ci sono ancora allarmi aerei, un paio di volte alla settimana ma non bombardano. Se le prime volte c'era molta paura, tutti scappavano e tornavano a casa o andavano nei rifugi, adesso molto meno perché sanno: l’allarme non corrisponde sempre a un bombardamento, i bambini rimangono a giocare nonostante le sirene».
Don Egidio Montanari, sacerdote orionino missionario in Ucraina, ricorda bene le circa 120 persone accolte nelle prime settimane di guerra: molte famiglie in fuga, che nel quartiere di Zamartinivska, nella parte nord di Leopoli, erano solo di passaggio. Tra loro, molti erano bambini e per mesi hanno riempito l’oratorio di Don Egidio. «Abbiamo cercato di rendergli la vita un po' più serena. In estate, abbiamo organizzato un gruppo estivo, predisponendo i rifugi dove poter andare durante gli allarmi».
Un anno dopo, l’oratorio è vuoto. «I profughi sono rimasti alcuni mesi, poi, quando è iniziato l'anno scolastico, sono tornati o a Kiev o a Kharkiv, molti sono emigrati in Polonia, alcuni sono in Italia».
Non si sentono più le voci acute dei piccoli che si rincorrono per il cortile, regalandosi qualche ora di normalità, una calma apparente che però non cancella il pericolo che, secondo quanto riporta Save the Children, corrono ancora 7,5 milioni di bambini che si trovano in Ucraina e che per questo «continuano a essere gravemente esposti a danni fisici, disagi emotivi e sfollamento».
L’organizzazione internazionale ha stimato che, dall’inizio del conflitto, hanno suonato un totale di 16.207 sirene con una durata media di circa un’ora. Le sirene indicano che è il momento di nascondersi: «Nell’ultimo anno le bambine, i bambini e i ragazzi sono stati costretti a
nascondersi sotto terra per circa 920 ore, pari a 38,3 giorni, più di un mese». Nella maggior parte dei casi, racconta Don Egidio, i più piccoli non capiscono cosa sta accadendo e ormai, per molti di loro, la guerra è diventata un fatto di «ordinaria amministrazione».
Quando gli adulti tentano di dare una spiegazione alla quotidianità umida, fredda e buia, vissuta tra corrente elettrica intermittente e riscaldamenti che non funzionano, i bimbi li guardano incantati: «Ti ascoltano e poi stanno zitti, rimangono lì, al buio» in attesa di riprendere il gioco lasciato a metà.
La vita sotto i bombardamenti, riporta Save the Children, «ha un grave impatto sulla salute mentale e sulle condizioni psicosociali». Rita Di Iorio, psicologa delle emergenze e presidente del Centro Alfredo Rampi, che da anni collabora a stretto contatto con la Onlus, sottolinea che «la guerra è altamente traumatica nella fase dell’infanzia, poiché con il suo carico di lutti e distruzioni interrompe tragicamente l’età in cui un essere umano per la sua crescita evolutiva ha un bisogno assoluto dell’affetto e della protezione da parte del mondo adulto. La ferita psicologica nei bambini coinvolti da conflitti bellici, spesso legata anche ad una ferita fisica, diventa più difficile da affrontare in quanto è condivisa dall’intera popolazione e quindi coinvolge coetanei e gli adulti di riferimento».
Essere privati di momenti di condivisione, come quelli scolastici, l’isolamento in spazi angusti, il contatto sporadico con gli amici ormai lontani, spesso a diversi chilometri di distanza o addirittura in altri paesi, getta i minori in uno stato di resa e frequente disperazione.
I traumi subiti «lasciano segni in tutto il percorso di vita, quelli che non vengono elaborati non smetteranno mai di esprimersi attraverso sintomi di diversa natura e di elevata severità.
Si tratta di risposte depressive, aggressive, dissociative, espresse attraverso diverse tipologie di sintomi» dice Di Iorio, che sottolinea come per gli stessi psicologi sia difficile intervenire davanti a queste condizioni, in quanto i minori che provengono da zone di conflitto sono «difficili da raggiungere a livello emotivo, poiché hanno organizzato una specifica difesa dal rischio di provare dolore».
«Ho visto molti disegni di quando venivano in oratorio. Ne ricordo uno in cui c’è lo stemma dell’aquila russa che è mangiata dal leone, il simbolo di Leopoli. Ma i bambini non capiscono bene cosa succede, sono cose che vengono trasmesse dagli adulti» spiega don Egidio.
«La guerra è fonte di odio, incomprensione, distanza» e tutto questo ormai fa parte di un’infanzia interrotta dal grido atroce della guerra. ■
La “liberazione” di Mariupol
Due italiani su tre si sono imbattuti in almeno una notizia falsa sulla guerra in Ucraina
La notizia: Il blog maurizioblondet.it ha pubblicato il 1 gennaio 2023 un articolo dal titolo “Più di 3.000 civili uccisi sono stati trovati a Mariupol dopo che è stata liberata dalla Russia”. Il pezzo cita come fonti Sputnik la principale autorità investigativa federale sotto il controllo del Cremlino. Nell’articolo si legge che «Le forze di Kiev hanno giustiziato migliaia di residenti di Mariupol nei combattimenti per la città caduta sotto il controllo russo alla fine di maggio. Sono stati trovati più di 3.000 corpi, molti dei quali difficili da identificare».
Perché è falsa:
• Mariupol è stata attaccata il 24 di febbraio. La parola “liberazione” nel titolo non è corretta perché quella russa è stata un’aggressione, come riconosciuto internazionalmente.
• La città ucraina di Mariupol è caduta solo dopo una resistenza durata due mesi e terminata con l'assedio dell’acciaieria Azovstal. Durante quel periodo l’esercito russo è stato autore di numerosi crimini di guerra documentati da video e immagini pubblicati sui social e sui giornali.
• La notizia delle 3000 persone che sarebbero state giustiziate dall’esercito di Kiev non è presente su nessun’altra testata internazionale.
• Un’indagine, realizzata con l’ausilio di immagini satellitari e pubblicata il 22 dicembre da Associated Press, mostra che sono state scoperte 10.300 nuove tombe nella città, ma che sarebbero state scavate dai russi. Nell’indagine si legge che: «AP ha quindi rivisto i droni e le riprese video che mostravano che i russi avevano usato macchinari pesanti per scavare lunghe trincee che sono state poi riempite».
• L’articolo sostiene che: «Mentre le truppe russe hanno allestito corridoi umanitari, i militari ucraini hanno consapevolmente ostacolato l’evacuazione dei civili». Nel longform di AP “Why? Why? Why? Ukraine’s Mariupol descends into despair”, si legge che fu l'esercito russo a portare avanti l'assedio, a giustiziare i cittadini di Mariupol in maniera arbitraria e a rifiutarsi di istituire dei corridoi umanitari, non viceversa. ■
Missili UE schierati contro Putin
La notizia: «Inizia la produzione della bomba nucleare B61-12»: così il sito byoblu.com riporta l’annuncio dei Sandia National Laboratories riguardo la progressiva sostituzione degli ordigni a testata nucleare B61, già in dotazione alle basi Nato. Descritta come un’arma di nuovo tipo, «non viene sganciata in verticale, ma a distanza dall’obiettivo».L’articolo afferma che le B61-12 verranno schierate in Europa «a distanze tali da poter colpire la Russia». Fa poi riferimento a un secondo sistema di armi nucleari costituito da missili a raggio intermedio con base a terra che «possono essere lanciati anche dalle installazioni dello “scudo anti-missile” e a bordo di cinque navi da guerra». L’articolo riprende anche la descrizione del sistema di lancio verticale Mk 41 fornito dall’azienda produttrice, la Lockheed Martin.
Perché è falsa:
• L’articolo di byoblu.com mette in falsa relazione notizie in parte vere, le decontestualizza omettendo elementi essenziali alla comprensione dell’informazione e non fa riferimento a fonti verificabili.
• È vero che gli Stati Uniti hanno iniziato la produzione delle bombe B61-12 da inviare alle basi Nato, ma l’articolo non specifica che l’annuncio dei Sandia National Laboratories è stato pubblicato sul sito ufficiale dei laboratori l’11 febbraio 2022 e non fa parte di un recente piano strategico specifico contro la Russia.
• L’articolo non cita come fonte diretta la National Nuclear Security Administration (Nnsa), responsabile del progetto, né riporta le esatte caratteristiche della B61-12 così come descritte dal documento accennato in precedenza. È falsa l’informazione per cui le bombe «verranno schierate in Europa a distanze tali da poter colpire la Russia», come riportato dall’articolo: non saranno schierate su un territorio ma solo raccolte nelle basi Nato, poiché per essere utilizzate dovranno comunque essere lanciate da un aeromobile e non telecomandate a distanza.
• La struttura dell’articolo collega inoltre la notizia riguardante le B61-12 alla difesa missilistica delle basi Nato, insinuando ancora una volta un piano strategico contro la Russia, senza però alcuna prova a sostegno. All’affermazione per cui «gli Stati Uniti si preparano a installare in Europa contro la Russia, missili a raggio intermedio con base a terra» non fa seguito una fonte.
• Non si tratta di una notizia del tutto falsa ma è datata e decontestualizzata. Sul web infatti è disponibile la trascrizione del discorso del Generale James McConville, Capo di stato maggiore dell’Esercito degli Stati Uniti, tenuto l’11 marzo 2021 presso la George Washington School of Media and Public Affairs. È in quell’occasione che il Generale ha accennato alla dotazione di nuovi missili a medio raggio: due task force nel Pacifico e una in Europa, senza riferimenti diretti alla Russia.
• Decontestualizzato è anche il riferimento alla Lockheed Martin, impresa di ingegneria aerospaziale che produce missili e velivoli militari, riguardo la piattaforma di lancio Mk 41. Non fornendo ulteriori informazioni sulle armi né sulle loro caratteristiche o il loro impiego, l’articolo ricerca infine autorevolezza attraverso l’uso improprio e incompleto di una citazione. ■
L'ex marine alleato del Cremlino
La notizia: Il sito controinformazione.info ha pubblicato le parole di Scott Ritter, ex marine degli Stati Uniti ed ex ispettore dell'Onu durante la guerra in Iraq. Secondo l'esperto di intelligence, la controffensiva russa costituirà un «massacro» per il presidente ucraino Zelensky. Per Ritter la sconfitta è quindi già segnata. Lanalista continua poi decretando la vittoria della Russia entro non oltre il 2023 , data in cui il presidente russo Putin completerà «la smilitarizzazione e la denazificazione dell'Ucraina». A giustificare l'aumento dell'impegno bellico dei russi, per Ritter, sarebbe il nuovo ruolo ai vertici militari di Valery Gerasimov.
Perché è falsa:
• Il Centro di Contrasto alla Disinformazione di Kiev ha pubblicato un comunicato sulla figura di Scott Ritter, segnalando come l'ex marine in realtà «diffonde le parole del Cremlino».
• A riprendere per primi le sue parole il sito statunitense South Front, colpevole secondo i fact checkers di “riscrivere fedelmente qualsiasi cosa dica il Cremlino”. Registrato in Russia, è finito più volte sotto l’occhio delle autorità.
• Nel 2020 a parlare di South Front fu il Dipartimento di stato americano, segnalandolo come parte “dell’ecosistema della propaganda e della disinformazione della Russia”. Con lo scoppio della guerra in Ucraina, a intervenire sono le piattaforme. Meta e Twitter hanno rimosso le pagine social di SouthFront per incitamento all’odio e disinformazione nei confronti dell’Ucraina. La notizia delle 3000 persone che sarebbero state giustiziate dall’esercito di Kiev non è presente su nessun’altra testata internazionale.
• Nel marzo del 2022, all’apertura delle sanzioni economiche verso le imprese russe, SouthFront viene individuato dal Dipartimento del tesoro americano. Secondo quest’ultimo, il sito sarebbe “un centro di disinformazione che riceve ordini dall’FSB”, l’intelligence russa, “e che ha cercato di frodare gli elettori durante la campagna presidenziale del 2020”.
• Il social network Twitter è intervenuto a moderare le parole dell'ex membro dell'esercito americano disabilitando il suo profilo. Infatti dalla società californiana rendono noto che, sul canale di Scott Ritter, penderebbero le accuse di "abuso e molestie", contrarie alle politiche interne del social
• Con lo scoppio della guerra in Ucraina, lo stesso destino è toccato a South Front. Meta e Twitter hanno rimosso le pagine social del sito per incitamento all’odio e disinformazione nei confronti dell’Ucraina. ■
«Nessuno vuole il grano ucraino»
La notizia: “Odessa, partono le navi col grano ma nessuno le vuole” è il titolo di un articolo apparso su nicolaporro.it, il «sito ufficiale di Nicola Porro», vicedirettore de “Il Giornale” e conduttore di Quarta Repubblica su Rete 4. Lo scritto prende a pretesto il rifiuto da parte dell’acquirente del primo carico di grano partito dalle coste ucraine per sostenere che tutte le operazioni logistiche per l’export dei cereali siano un completo fallimento. Il 10 agosto, mentre la nave era in attesa di un nuovo acquirente al largo della costa turca, è comparso l’articolo che descrive così la situazione: «ma quella nave, oggi, è ancora in mare, mai arrivata a destinazione».
Perché è falsa:
• In Libano il primo acquirente del carico ha rifiutato la consegna per dubbi sulla qualità della merce trasportata, secondo quanto ha affermato l’agente marittimo della nave a Tripoli. Secondo Associated Press, invece, il rifiuto sarebbe dovuto al troppo ritardo nella consegna.
• Dal primo al 15 agosto sono state autorizzate 36 navi a lasciare il porto di Odessa o attraccarvi per caricare cereali, come ha reso noto la delegazione dell’Onu al centro di Istanbul che coordina le operazioni, dove sono presenti rappresentanti di Ankara, Kiev, Mosca e Nazioni Unite. Di queste navi, ventuno sono già partite e tre sono arrivate in Italia.L’articolo non cita come fonte diretta la National Nuclear Security Administration (Nnsa), responsabile del progetto, né riporta le esatte caratteristiche della B61-12 . È falsa l’informazione per cui le bombe «verranno schierate in Europa a distanze tali da poter colpire la Russia»: non saranno schierate su un territorio ma solo raccolte nelle basi Nato, poiché per essere utilizzate dovranno comunque essere lanciate da un aeromobile e non telecomandate a distanza.
• Mentre gli analisti di tutto il mondo cercano di capire cosa accadrà al grano ucraino, sul sito si dà per certa la dispersione delle risorse sulla Razoni, con una «tutta probabilità» della quale si omette di offrire qualsiasi prova o giustificazione.
• Oggi il coordinamento dell’Onu sulle operazioni lavora al ripristino delle rotte commerciali garantendo il transito in territori interessati dalla guerra. Gli accordi sui singoli carichi sono spesso tra soggetti privati e sottostanno alle regole commerciali più che alle trattative diplomatiche. Tutto lo scritto risponde più alla necessità di infondere confusione e incertezza che a informare in maniera puntuale. Non viene tenuto conto del contesto e un singolo accadimento viene preso a pretesto per una generalizzazione ingannevole. ■
La notizia della chiesa ortodossa incendiata dalla destra ucraina
La notizia: Nel pomeriggio del 12 gennaio 2023 il canale Telegram Guerrieri per la Libertà ha diffuso un video che mostra un incendio in una chiesa ortodossa ucraina che il post commenta così: «Nel villaggio di Ovadnoe, regione di Volyn, l’abate si è rifiutato di trasferirsi dal Patriarcato di Mosca al Patriarcato di Kiev. I militanti del “Praviy Sector” [gruppo dell’estrema destra ucraina, ndr] hanno dato fuoco al tempio per rappresaglia». La notizia è ripresa da alcuni canali russi che la stavano diffondendo nelle stesse ore, tra cui Solviev Live, il canale che fa capo a Vladimir Soloviev, giornalista russo molto vicino a Putin, ma si tratta di una fake news.
Perché è falsa:
• Secondo il post, l’edificio si troverebbe nella città di Ovadnoe, nella regione di Volinia. Praticando una ricerca per immagini su Google con un frame del video, vengono fuori una serie di articoli che raccontano di un incendio scoppiato nell’edificio in foto. Tuttavia la chiesa che appare nelle immagini non si trova nella regione indicata, bensì nella città di Novoaleksandrovka, nella regione di Dnipropetrovsk, a oltre 900 km di distanza dal luogo indicato nel post: è la Chiesa di San Teodosio di Chernigov.
• L’incendio risale al 19 gennaio 2021, oltre un anno prima dello scoppio del conflitto tra Russia e Ucraina. L’articolo pubblicato dal sito dell’Eparchia di Dnipropetrovsk nel gennaio 2021 racconta dell’intervento dei vigili del fuoco, non specifica le cause dell’incendio e non parla mai di un’azione dolosa da parte dell’estrema destra ucraina e non lo lega in alcun modo alle tensioni tra i due patriarcati. Altri siti come Dnipro.depo e Ukranews.com avvalorano la stessa versione, il secondo riporta anche il comunicato del servizio stampa del Servizio di emergenza statale.
• Quella riportata da Guerrieri per la Libertà è dunque una notizia falsa che potrebbe essere legata alla decisione del presidente Ucraino Volodymir Zelesnky di proibire l’attività di culto a quella parte di chiesa ortodossa ucraina rimasta legata al patriarca di Mosca, duramente criticata dal Cremlino e dai media vicini al presidente russo. ■
“La Polonia vuole annettere una parte dell'Ucraina”
La notizia: “LA POLONIA SI PREPARA ALL’ANNESSIONE DELL’UCRAINA OCCIDENTALE”. È il titolo di un articolo apparso su Controinformazione.info. Lo scritto traduce e riporta uno apparso su RIA Novosti, che fu l’agenzia di stampa di Stato sovietica e oggi è legata al governo di Putin. “Varsavia sta inviando truppe polacche per sostenere le Forze Armate dell’Ucraina (AFU) con l’obiettivo di occupare ulteriormente la parte occidentale di questo paese, lo ha dichiarato l’ufficiale dell’intelligence del Corpo dei Marines degli Stati Uniti in pensione Scott Ritter”, in un’intervista su un canale YouTube americano, chiamato “Judging Freedom”.
Perché è falsa:
• Ritter non è in pensione: dalla Commissione speciale delle Nazioni Unite per il disarmo delle armi di distruzione di massa in Iraq si è dimesso per protesta. Lui accusava Stati Uniti e Onu di inazione, ma secondo Richard Butler, ispettore capo della commissione, Ritter ha commesso errori e danneggiato la missione. Dal momento delle sue dimissioni è diventato un commentatore militare molto critico nei confronti del governo americano. Nel 2011 è stato condannato a 6 anni di carcere nell’ambito di uno scandalo riguardante richieste a sfondo sessuale a minorenni.
• Fin dallo scoppio della guerra in Ucraina, poi, ha promosso le narrazioni della propaganda russa. Scrive su Russia Today e collabora ai canali di propaganda russa. Per questo, anche il suo profilo Twitter è stato chiuso
• Si insinua che “la Polonia ha inviato decine di migliaia di soldati che stanno combattendo in uniformi ucraine dalla parte del regime di Kiev” perché si trovino sul posto quando riceveranno l’ordine di riconquistare con la forza i territori che erano polacchi nel 1939. Di questo però né Ritter, né RIA Novosti, né Controinformazione.info forniscono alcuna prova.
• La narrazione continua sostenendo che “nello scorso maggio, il presidente polacco Andrzej Duda ha annunciato che in futuro non ci sarebbero stati confini con l’Ucraina” ma si tratta di un’altra notizia falsa, già smentita. “Varie fonti ed analisti militari hanno confermato i piani della Polonia”, ma anche di queste fonti e analisi non c’è traccia. ■
«Il mondo non è così semplice come sembra»
L’artista ucraino Dima Fatum ha usato la sua arte per raccogliere fondi e aiutare il suo Paese devastato dalla guerra
di Martina Uccisone nelle zone più calde del conflitto. «Ricordo benissimo le rovine delle case intorno a me, gli incendi, i razzi, i carri armati, gli scantinati, i feriti e i morti». Tutto questo ha ovviamente influito sulla sua creatività, sul modo in cui rappresentava il mondo nelle sue opere. «È difficile concentrarsi in mezzo alle bombe e alle sirene di allarme, ma quando ci si riesce è come se ci si tele-trasportasse nel proprio mondo familiare, nella propria zona di comfort senza alcuna aggressione esterna, ricordando a se stessi chi si è veramente, qual è la propria missione e che questa guerra è solo un episodio della propria vita».
ne della realtà che non ha un significato chiaro ed evidente. Nelle sue opere gioca molto con le illusioni ottiche e con tutto ciò che comporta uno stress per il cervello.
Nel contesto della guerra l’arte di Dima ha assunto anche un duplice scopo: da una parte dimostrare come questi eventi arrivino a toccare tutti i lati delle vite delle persone coinvolte, anche l’arte per l’appunto. Dall’altra ha saputo trarne beneficio da un punto di vista materiale «Le immagini si trasformano in denaro, il denaro in donazioni, le donazioni sono ciò di cui ha bisogno il popolo ucraino».
«È stato difficile costringermi a disegnare anche piccoli quadri in mezzo a continue esplosioni, ma era necessario per non impazzire». Dima Fatum, originario di Kiev, è un artista ucraino che dallo scoppio della guerra ha usato la sua arte per raccogliere soldi e aiutare i soldati e i suoi concittadini rimasti senza mezzi di sostentamento.
«Ho incontrato la guerra a Kharkiv. Ero lì in visita e il 24 febbraio sarei dovuto tornare a casa a Kiev. All'epoca provavo sentimenti molto contrastanti: la mancanza di comprensione di ciò che stava accadendo, la negazione del fatto che una cosa del genere è possibile nel XXI secolo, la speranza di una rapida soluzione del conflitto e l'apatia di fronte alla consapevolezza che tutto questo è reale e non finirà in fretta».
I primi due mesi a Kharkiv Dima ha svolto attività di aiuto umanitario con amici, portando cibo e provviste alle per-
L’arte è entrata nella vita di Dima molto presto. «Ricordo che già prima di iniziare la scuola avevo iniziato a disegnare e a 6-7 anni mia madre mi ha mandato ai corsi di disegno che ho frequentato fino a 10 anni finché non sono entrato nella scuola pubblica d'arte intitolata a Shevchenko, specializzandomi nella pittura». L’artista si sente fortunato di aver avuto l'opportunità di essere un artista, di lavorare per se stesso, entro i suoi confini personali e la sua visione temporale. Per questo non può non farlo. «È il mio ruolo principale in questa vita: visualizzare i pensieri».Per Dima l'arte è anche uno stimolatore psiconeurosensibile e un rilassante che permette di immergersi totalmente nell'ambiente di lavoro, concentrandosi sul processo creativo e stabilizzando - per quanto possibile - lo sfondo emotivo. «Una sorta di terapia si potrebbe dire».
«La mia arte è una riflessione sul mondo che mi circonda, fatta di osservazioni e analisi di ciò che accade. In diversi momenti della mia vita e sotto l'influenza di vari fattori i soggetti sono naturalmente cambiati, ma il messaggio principale che si può rintracciare nelle mie opere è che il mondo non è così semplice come sembra e qualsiasi cosa, persona o situazione apparentemente familiare, ha molti significati e sfaccettature diverse di percezione da cui si può scegliere l'ulteriore sviluppo e l'interazione con esso». Dima ama il surrealismo non diretto, una rappresentazio -
Nell’ultimo anno ha partecipato a diversi progetti artistici sia europei che americani per raccogliere fondi per il suo paese. Tutte le vendite delle sue opere sono andate a chi ne aveva bisogno, per aiutare a ricostruire la sua patria. «Credo sia giusto monetizzare l'arte e aiutare in questo modo». ■
1. Love, 40x50, acrilico su tela, 2023, tratto dalla serie "Ukraine autumn" di Dima Fatum
2. Military Abstraction, 40x50, acrilico su tela, 2023, tratto dalla serie "Ukraine autumn" di Dima Fatum
«Cucino per salvare il mio Paese»
CIBO
Il
famoso chef , Yevhen
Klopotenko, cucina gratis per i profughi ucraini nei suoi ristoranti
di Giorgia Verna
«Avevo otto anni quando sono andato in Italia. La cucina italiana mi ha influenzato molto come chef. A 16 anni ho cucinato per la prima volta la pasta aglio e olio. Il mio cuore ha cominciato a battere e così ho capito che volevo diventare un cuoco». È curioso pensare che il più famoso chef ucraino abbia cominciato proprio dalla cucina italiana. La carriera di Chef Yevhen Klopotenko è iniziata da molto giovane
prima come bartender, poi cameriere e poi ancora manager fino alla partecipazione del contest Masterchef Ucraina che gli valse la vittoria e il lancio verso una stellare carriera come cuoco.
Oggi, chef Klopotenko ha 36 anni e in nove anni di carriera è diventato uno dei più famosi cuochi ucraini che hanno influenzato la gastronomia e lo stile di vita del suo Paese. «Ora è cambiato tutto». Non sembra mesto chef Klopotenko, cerca di raccontare la sua esperienza col sorriso, scherzando e mostrandosi sicuro del suo lavoro e della sua esperienza a Kiev, ma è facile immaginare la drammatica esperienza che ha vissuto. «Era notte quando iniziò l’attacco. Credo le 4.30 del mattino. Il mio primo pensiero è stata mia sorella e i suoi figli che non avevano la macchina
per scappare. Così mi sono messo subito alla guida. Non sapevamo cosa fare, guardavamo le notizie e io cercavo di capire come potevo rendermi utile» ed è quello che fa. Chef Yevhen Klopotenko decide di mettere la sua cucina a disposizione del suo popolo. Si sposta a ovest verso i campi profughi e comincia a cucinare per il popolo ucraino. Nella stazione dei treni, offre conforto, un pasto, un the caldo, un abbraccio. «Volevo che sapessero che non esistono persone famose o meno. Siamo tutti uguali, soprattutto davanti a questa situazione. Combattiamo tutti contro lo stesso nemico».
Chef Klopotenko ha due ristoranti, uno a Kiev e uno a Leopoli. «Nei miei ristoranti le persone possono venire a mangiare gratis. Non voglio che la sentano come elemosina, li tratto proprio come tutti i miei clienti». Un gesto semplice eppure fondamentale in un momento in cui il cibo è così importante. «Sono abituato a cucinare con prodotti particolari, mai visti prima, perché volevo far provare nuovi prodotti agli ucraini. Adesso cerco di utilizzare prodotti locali, per aiutare i contadini ucraini».
«I miei obiettivi sono cambiati. Volevo portare la nouvelle cuisine in Ucraina. Avevo tanti progetti, volevo andare in America e conoscere nuovi chef e ricette. Da quando è iniziata la guerra ho iniziato a reagire in base all’esigenza delle persone, dei loro bisogni, dei loro desideri. Ho creato delle ricette più divertenti per far distrarre gli ucraini e altre che sanno più di casa, di tradizione, per poterli abbacciare col cibo. Non ho lasciato il mio Paese perché sapevo che non sarei stato d’aiuto altrove».
Ancora oggi chef Klopotenko cucina per i profughi, per chi è rimasto e chi è dovuto restare, per chi combatte, per chi vive al buio la maggior parte del tempo e sotto attacco almeno una volta a settimana: «il problema non sono le bombe o il buio, è l’assenza del wifi!» scherza, ma con un fondo di verità. Essere senza internet significa essere senza contatti esterni, senza informazioni, senza conoscenze: è davvero essere al buio.
«Voglio solo ringraziare gli italiani per il supporto e la vicinanza che stanno mostrando e perché senza di loro non avrei mai iniziato a cucinare. Il mio messaggio è che per quanto il cibo sia amore e non abbia confine, quando c’è la guerra questo cambia. Ci sono confini e ci sono barriere, c’è mancanza, c’è fame. Il cibo può salvare la vita, lo ha fatto per me e cerco di farlo per il popolo ucraino». ■
Cala il sipario sotto le bombe
A distanza di un anno dallo scoppio della guerra, il tenore dell’opera di Kiev racconta di come la musica lo abbia sempre sostenuto
TEATRO ok più o meno, siamo sfiniti, andiamo a dormire e domani… chissà – Buonanotte».
Al teatro dell’Opera di Leopoli in Ucraina, il 19 febbraio 2022 calava il sipario rosso e Taras Berezhansky accompagnava con la voce l’ultima nota sulla Bohème di Giacomo Puccini. Cinque giorni dopo, il 24 febbraio, ebbe inizio la guerra e la musica della nazione venne sostituita da sirene assordanti, bombe e urla di terrore.
«Ci sono esplosioni ovunque, ma stiamo bene. Abbiamo dormito in un parcheggio sotto terra, eravamo al sicuro, ma per strada è molto pericoloso». Il messaggio di Berezhansky, tenore dell’opera di Kiev, arrivò in redazione il 25 febbraio 2022 all’alba, questa data segna il secondo giorno dell’invasione russa in Ucraina.
Il 5 marzo Taras mandò una fotografia, lo scatto lo ritraeva sulla neve al buio, pronto a salire in macchina, il baule carico di casse d’acqua, pane e biscotti «non ho potuto rispondere fino ad oggi, la situazione è grave e questa sera lascerò la mia capitale, Kiev, a causa della guerra, dei bombardamenti. Se non mi senti… pace per tutti». Il viaggio durò tre notti, poi l’arrivo. Lui, sua moglie e la figlia raggiunsero finalmente Leopoli, città al confine della Polonia. «Siamo arrivati, tutto
Seguirono nove giorni e nessun aggiornamento, fino a quando, il 14 marzo, squillò il telefono. «Questo posto non è più sicuro dobbiamo scappare, ma non ho posto dove andare». Poi… ancora il silenzio fino al 29 marzo quando, all’improvviso, lo schermo del cellulare si accese: «sono ancora a Leopoli, oggi ho imparato a sparare, non è andata male. Ho provato sia le pistole che il kalashnikov. Se il mio Paese dovesse chiedermelo, mi unirò all’esercito, devo affinare la tecnica per sferrare colpi precisi, mortali se necessario». Oggi Taras preme il grilletto veramente e non solo per gioco. «Prima quando mi facevano usare le mitragliatrici sul palco come oggetto di scena non sapevo neanche come impugnarle», confessa.
L’Opera non lo ha mai abbandonato e con la speranza che un giorno potesse tornare sul palco, Taras si riuniva nei bunker insieme agli altri tenori del teatro. Scaldavano la voce, gonfiavano il diaframma e improvvisavano i concerti per i rifugiati: Wolfgang Amadeus Mozart, Richard Wagner e Giuseppe Verdi.
«Per le prime tre settimane non ero nella condizione psicologica di fare musica, dovevo aiutare gli altri, poi ho pensato che volevo riavvicinarmi alla vita che avevo prima e che dovevo continuare a esercitarmi nell’eventualità di tornare a teatro». Cantava e sparava, sparava e cantava, fino al 24 maggio quando il telefono suonò ancora e per ben due volte di fila. «Volevo avvisarti che l’opera di Leopoli ha ripreso gli spettacoli, posso finalmente dire addio alle armi».
Oggi Taras vive a Kiev, ma lavora al confine. «Il teatro è il più lontano dalla linea del fronte ed è stato il primo ad aprire dopo l’inizio della guerra». Non solo Ucraina: «ho ricominciato a viaggiare, seguo i miei contratti, ma agli uomini tra i diciotto e sessant’anni non è consentito uscire dal Paese e le procedure per partire sono lunghe».
A ogni partenza bisogna richiedere i permessi al Ministero della Cultura. Si forniscono i documenti e una volta avuto il permesso, si può partire. «Dall’inizio della guerra è cambiato molto, prima eravamo traumatizzati, non sapevamo cosa fare, cosa sarebbe successo, ma ora è parte della nostra vita, siamo abituati a tutto». Anche partire è faticoso, ma la tenacia è forte: «vado in Polonia in autobus o in treno e da lì volo in un altro Paese, ci sono volte che ci metto quattro giorni per giungere a destinazione».
La guerra non è finita, anzi compie un anno, ma l’Ucraina sta già raggiungendo l’indipendenza a partire dalla musica. «Finalmente si potrà dare spazio alla cultura, il nostro Paese si è liberato dalla
pressione della Russia a partire dalle melodie. Vogliamo far conoscere al mondo il nostro patrimonio, suonando canzoni popolari dimenticate, mettendo in scena prime di compositori ucraini e scrivendo nuove opere, balletti e sinfonie». Da questo evento nascono progetti artistici dove ci si sente liberi. «A teatro siamo tornati a fare le stesse performance, ci atteggiamo in modo quasi normale, ma senza dimenticarci mai che tutto funziona a secondo delle regole della guerra, nella mia valigetta appoggiata sul tavolo del camerino ci sarà sempre dentro l’ansia, nessuno è più lo stesso dopo questo
conflitto», dice Taras. Prima di salutarci, Berezhansky riflette sui bambini sopravvissuti alla guerra e sul futuro dell’Ucraina «le nuove generazioni dovranno studiare attentamente perché saranno loro a ricostruire la nazione, l’Ucraina necessita di professionisti e i piccoli, una volta diventati grandi, saranno responsabili, del nostro Paese».
In redazione arriva una e-mail, in cui c’è un link da cliccare. È la prima del Rigoletto composta da Verdi. Atto I, si alza il sipario rosso, e si sente Taras cantare, è tornato. ■
L’occasione perduta di Sean Penn
In Superpower, presentato in anteprima alla Berlinale 2023, l’attore vive in prima persona la notte dell’invasione russa in Ucraina
di Alissa BaloccoDoveva essere il ritratto di un uomo, è diventato il racconto di una guerra: almeno secondo i suoi autori. Quando hanno iniziato a lavorare su un documentario sull’Ucraina, Sean Penn e Aaron Kaufman erano interessati alla curiosa parabola di Volodymyr Zelensky: comico e attore conosciuto per le sue gag irreverenti, Zelensky era riuscito a diventare ciò che aveva interpretato in The servant of the people. Con la differenza che, nella realtà, il Presidente si è trovato all’improvviso in mezzo ad una guerra.
La notte del 24 febbraio 2022, Sean Penn e la sua troupe si trovavano a Kiev da qualche settimana: quel giorno avrebbero dovuto finalmente incontrare il presidente Zelensky per la prima intervista, ma le cose non sono andate come previsto. E il film è cambiato in corsa. GoPro, telefoni, obiettivi grandangolari: da quel momento Superpower si trasforma nel racconto di una fuga dal Paese ripresa dal basso. È il
punto di forza e allo stesso tempo di debolezza di un film che troppo concede al suo protagonista.
Lo svolgimento del reportage è infatti eccessivamente Sean-centrico. Dalla notte dei primi bombardamenti, l’attore e la sua troupe sono seguiti costantemente, ripresi durante i briefing di sicurezza, le interviste, nel corso di viaggi in treno e in auto e mentre attraversano il confine con la Polonia e le trincee del Donbass. Penn – onnipresente tra sigarette e bicchieri di superalcolici ghiacciati in mano – finisce per offuscare l’invasione con il suo volto: una scelta che trasforma il documentario in un film d’azione dalla struttura impeccabile (ascesa – caduta – ascesa), con Penn finalmente non interprete ma reale protagonista.
Vanità a parte, non si mette in dubbio la vicinanza e l’impegno che l’attore sta mostrando nei confronti dell’Ucraina fin dall’inizio della guerra, ma le modalità del suo lavoro sul campo fanno fatica ad essere distinte dal pensiero eroico e quasi messianico sotteso all’intero film. Penn non sembra essere particolarmente interessato al suo ruolo di intervistatore, quanto alla possibilità di incontrare e adulare l’eroe Zelensky.
E quando il film lascia spazio ad altro – attraverso filmati d’archivio e interviste – lo fa in maniera piuttosto lineare e infor-
mativa, senza aggiungere nulla alle conoscenze base che ogni giornale offre ancora in prima pagina.
Il punto forte di Superpower sta nella ricchezza delle interviste e nella presenza di Zelensky. Nel corso delle due ore, Penn e il presidente si incontrano in tre momenti diversi: il giorno dopo l’inizio dell’invasione, in una videochiamata zoom, e di nuovo a Kiev a quasi un anno dalla guerra. Compresa l’importanza dell’esposizione e del sostegno del suo collega americano, Zelensky rimprovera i suoi alleati – e nemmeno troppo velatamente – di temporeggiare ancora con gli aiuti all’Ucraina.
Superpower avrà il merito di avvicinare – grazie alla notorietà del protagonista – gran parte del pubblico americano alla causa dell’Ucraina. Nonostante l’insistenza su un Penn eroe in mimetica – l’attore porta persino i militari al cinema a vedere Top Gun: Maverick – e ambasciatore in patria di messaggio di pace, il film offre un ritratto chiaro e abbastanza completo di un conflitto di cui lo stesso attore si diceva a digiuno, ma non riesce ad andare oltre. Forse i muscoli di Sean Penn non saranno d’accordo, ma Superpower è così intriso di retorica che il prezioso coraggio e l’umanità degli ucraini finiscono per offuscarsi in nome di una superficiale – e fastidiosa – propaganda. ■
primi mesi successivi all’invasione russa, quando, prima ancora di Netflix, La7 comprò i diritti della serie Servitore del popolo, in cui Volodymyr Zelensky interpretava il ruolo del Presidente ucraino prima di candidarsi davvero alle elezioni, la rete inserì gli episodi all’interno di un programmacontenitore, condotto da Andrea Purgatori, con il compito di introdurre e analizzare la figura e il percorso politico di Zelensky.
Non solo, sempre La7 ha seguito a lungo il conflitto attraverso le testimonianze e i racconti di Francesca Mannocchi all’interno della trasmissione settimanale di PropagandaLive e Rai Uno ha affidato il racconto a una voce “nuova”, ben presto diventata la più riconoscibile della rete: Stefania Battistini. In questa ottica, cioè, il pubblico italiano ha vissuto il primo anno di guerra attraverso la riscoperta dei reportage e del linguaggio documentaristico di approfondimento.
La guerra in onda
In dodici mesi la televisione italiana ha elaborato un nuovo codice visivo per raccontare il conflitto in Ucraina
Un rosa gialla e una rosa blu strette fra le mani di Tananai prima della sua esibizione alla finale del 73° Festival di Sanremo: è così che i colori dell’Ucraina entrano in prima serata su Rai Uno, in Eurovisione, nel programma di maggiore rilevanza del palinsesto italiano a poche settimane dal primo anniversario dell’invasione russa.
È una scelta personale dell’artista, legata al tema del brano, mentre la presenza politica delle istituzioni ucraine viene messa in discussione fino all’ultimo, criticata, inserita in scaletta all’1.52 di notte e infine concessa oltre le due. Zelensky, che negli ultimi dodici mesi è apparso in video in diverse occasioni di rilievo internazio -
nale, l’ultima in diretta streaming alla cerimonia di apertura del Festival del cinema di Berlino, in Italia si è scontrato con le resistenze politiche del servizio pubblico, lasciando all’Ambasciata ucraina il compito di tradurre la sua lettera e ad Amadeus quella di leggerla poco prima della premiazione di Sanremo.
Se un palco come l’Ariston fosse o meno il luogo corretto da cui lanciare il messaggio di resistenza di Zelensky («L’Ucraina vincerà insieme al mondo libero») è una domanda che in Italia ci si è posti soprattutto perché il racconto dell’Ucraina in televisione è stato sempre mediato dall’intervento giornalistico, non dalla voce diretta del Presidente. Già dai
Come accadde, in parte, nel 2003 in Iraq con l’attuale direttrice del Tg1 Monica Maggioni – unica giornalista italiana embedded dell’esercito statunitense – Stefania Battistini è il volto associato al racconto della guerra in Rai. A lei fa capo anche un codice visuale che segue regole differenti da quelle del telegiornale convenzionale: la durata e la struttura dei servizi ne fanno un prodotto giornalistico più vicino al documentario cinematografico – come i sei lungometraggi Arte.Tv rilasciati in occasione dell’anniversario del 24 febbraio –che al giornalismo televisivo.
Con Battistini si percorre la linea di combattimento, si entra nelle trincee, si parla con i soldati ucraini. È un conflitto così vicino nel tempo e nello spazio che solo attraverso immagini forti, all’interno dell’azione, si riesce a infrangere la barriera di autoprotezione dello spettatore, immagini come quelle della fossa comune di Bucha (servizio del 4 aprile 2022), in cui la giornalista del Tg1 si trova fra i cadaveri di sette prigionieri catturati dai russi, coperti di terra e sangue, con le mani legate dietro la schiena. Battistini, in quanto giornalista, non può rinunciare a mostrarle.
Nella disponibilità del pubblico televisivo ad accettarle si cela tuttavia un bisogno generale da considerare, quello di immagini il più possibile tangibili e in grado di raccontare una storia che vada oltre il resoconto freddo. È il principio che prevale nel palinsesto italiano, in cui la prossimità del conflitto ha appunto costretto a una compressione della distanza e del distacco emotivo. ■
Credit: Das Duell, Claire Walding, 2023, documentario arte.tv
di Valeria VerbaroLa realtà oltre la fiction
La guerra ha acceso i riflettori dei maggiori festival internazionali sul cinema d’autore ucraino, ma d’altra parte rischia di azzerare gli investimenti per i prossimi anni
di Niccolò Ferrero
«Ah siete ucraini? No, mi scusi credevo di aver chiamato il Montenegro» dice Angela Merkel al telefono con Volodimyr Zelensky, al quale aveva appena annunciato l’ingresso nell’Unione Europea. Non si tratta di un incidente diplomatico, ma di una scena di Servitore del popolo, la serie televisiva in cui Zelensky interpreta un insegnante del liceo che viene eletto presidente quasi per caso. Dopo cinque anni lui stesso diventa presidente. Questa volta non per caso, ma sfruttando la popolarità che ha ottenuto con la serie. È la prima volta nella storia che una fiction diventa un veicolo politico a livello globale. Oggi guardare una serie ucraina o comprare un biglietto per andare al cinema a Kyiv significa sostenere un settore che ha le capacità di attirare l’attenzione mondiale sul conflitto.
Dopo l’invasione del 24 febbraio 2022 i film ucraini sono stati presentati ai festival cinematografici più importanti del mondo: dalla Mostra del Cinema di Venezia al Sundance Film Festival. A Cannes la troupe di Butterfly Vision di Maksim Nakonechnyiun, una raccolta di testimonianze di uomini e donne che lottano per la libertà, si è presentata con lo striscione: «La Russia uccide gli ucraini. Trovate offensivo e fastidioso parlare di genocidio?», criticando il social network Instagram che oscura le immagini di guerra perché le ritiene “contenuti sensibili”. Eppure registi e sceneggiatori ucraini hanno iniziato a raccontare una situazione destinata a esplodere dal 2014: «per noi il contraccolpo più violento è avvenuto con l’occupazione del Donbass.» ha dichiarato Maryna Er Gorbach vincitrice del premio ‘Miglior regia’ al Festival di Berlino 2022 con Klondike.
Gli autori hanno interpretato il tema con registri narrativi diversi e in alcuni casi anticipando gli eventi. Per esempio, Atlantis (2019) di Vasyanovych è un dramma distopico ambientato nel 2025 alla fine del conflitto tra Russia e Ucraina, frutto dell’escalation della guerra del Donbass. Il protagonista, un soldato affetto da disturbo post traumatico, torna sul campo di battaglia per dissotterrare dalle fosse comuni le vittime civili. Il cast è composto da volontari, paramedici e attivisti per i diritti umani, rappresentando l’elaborazione del lutto di un Paese tramortito dalla guerra.
Sempre Vasyanovych, questa volta con un cast di attori professionisti, in Reflection racconta la storia di un giovane chirurgo di Kiev che, nella primavera del 2014, viene rapito e imprigionato dai russi. Una riflessione sulla verità e sulla
menzogna, di cui la telecamera diviene testimone. Dal 2014 il sostegno statale al settore è aumentato creando le basi per quella che oggi viene considerata la ‘cinematografica ucraina’, dalla quale proviene anche lo stesso presidente Zelensky. Grazie ai finanziamenti statali molti registi hanno iniziato a distaccarsi dall’influenza artistica russa inserendo nelle loro opere temi politici non graditi al governo di Putin.
Il 24 febbraio 2022 a Kiev anche il Cinema si è fermato. Le grandi produzioni cinematografiche, invece di allestire i set, si sono dovute convertire in aziende produttrici di beni di prima necessità. Molti addetti ai lavori si sono arruolati nell’esercito: «quando il 24 febbraio un razzo si è schiantato vicino a casa mia alle 4.30 del mattino, non ho avuto dubbi: ho preso la mia famiglia e l’ho portata a Leopoli. Io sono tornato a Kiev per arruolarmi nella Difesa territoriale» racconta il regista Oleg Sentsov a ‘La Repubblica’. Detenuto in Russia per cinque anni, è stato rilasciato nel 2019 grazie a una mobilitazione internazionale. In guerra è andato con il fucile e il suo taccuino. Uno dei due non l'ha ancora usato: «mai sparato un colpo.
Non è un conflitto di scontri a fuoco, questo. Si combatte con l’artiglieria. Però io scrivo. Scrivo tanto, in trincea, di notte, scrivo sotto le bombe, appunti, schizzi di memoria, mi vengono un sacco di idee per il mio prossimo film».
«Quando sarà tutto finito, noi ucraini, gireremo film sulla guerra per decenni» ha detto Natalia Vorozbyt, regista di Bad Roads - Le strade del Donbass candidato dell’Ucraina come miglior film straniero agli Oscar. «Sarà un modo per curare le nostre ferite. Nel frattempo, il conflitto continuerà per molto tempo, quindi chiediamo a tutti di non abbassare lo sguardo». La preoccupazione è che nei prossimi mesi, a causa dell’inattività della produzione, possa calare anche l’attenzione dei red carpet e quindi dell’opinione pubblica. Oggi alcune produzioni stanno provando a ripartire, per questo comprare un biglietto per un film prodotto in Ucraina o sostenere la piattaforma streaming ‘Filmmakers For Ukraine’ ha più che mai una valenza concreta. ■
Da Wimbledon al fronte «Combatto finché non vinciamo»
Sergiy Stakhovsky, passato dalla racchetta al fucile, racconta il suo anno da soldato e chiede di allontanare russi e bielorussi dallo sport: «Guadagnano milioni e le loro tasse le investono nella guerra»
Il cielo di Kiev si muove veloce fuori dai finestrini della macchina. Dall’altro lato dello schermo in divisa militare, Sergiy Stakhovsky corre via dal centro per evitare l’ennesimo bombardamento di quest’anno di invasione. «Sta volta sono stato davvero vicino a non rispondere alla tua chiamata», racconta alla guida. «Ti parlo di una frazione di secondo. Hanno mancato il nostro van per un metro proprio poco fa. Io sto cercando di minimizzare i rischi, ma in guerra è impossibile».
Quando la Russia ha invaso l’Ucraina, il 24 febbraio 2022, il nativo di Kiev Sergiy Stakhovsky aveva appena dato per conclusa un’ottima carriera da tennista. Ha detto basta a 36 anni, con a suo nome quattro titoli, un 31º posto nella classifica mondiale, addirittura una vittoria a Wimbledon contro Federer. «Non voglio avere la nazionalità di un Paese che non esiste più», ci diceva nel 2022 interrogato sul perché avesse scambiato la racchetta con il fucile e la polo sintetica per la mimetica, appena scoppiato il conflitto.
l’età, un po’ è per lo stress, spiega. Anche i suoi compiti sono cambiati. Aveva iniziato facendo giri di ricognizione senza sapere come impugnare un fucile, «oggi partecipo a scambi di prigionieri, continue esercitazioni con mortai, operazioni militari in piena regola. Sono stato a Bucha poco dopo il ritiro dei russi, adesso sono appena tornato da Bakhmut».
di Antonio Cefalù«Vediamo un po’…», riflette con faccia rassegnata. «Rispetto a quando mi sono arruolato ho perso peso, anche i capelli. Guarda, ora sono tutti grigi». Un po’ è per
«Paura?», sbuffa disinteressato. «No, non come a marzo o aprile. O meglio, quando sei in un conflitto armato sì, perché il rischio lo vedi lì davanti a te, ma il più delle volte non c’è tempo per aver paura. Se senti una bomba arrivare può essere una questione di istanti prima che cada vicino a te, come mi è successo poco fa. Se non la senti probabilmente sei già morto». Quando parla di routine il tono cambia, si fa apatico. Più che temerario, sembra anestetizzato da tanta violenza. Non è stato sempre così. In estate gli era stata offerta l’opportunità di riconsegnare le armi e l’aveva accettata. «Sentivo di essermi spinto troppo in là, di star giocando con la mia fortuna. In quel momento, poi, volevo provare ancora a dividermi fra la vita militare e quella privata». Dopo qualche mese in giro fra eventi di sensibilizzazione e match di
beneficenza, ha deciso di non provarci più: ora vuole essere solo un soldato. «Era diventato più difficile stare lontano che dentro il combattimento. Stavo con la mia famiglia, ma non smettevo di informarmi della situazione al fronte, come si muovevano le nostre linee, dove atterravano i missili. È vero, mi vedono poco. Ma i miei figli sono al sicuro e mi sembrava così ingiusto restare lì mentre milioni di altri non possono vedere i genitori perché combattono. Ho deciso che non farò più un passo indietro finché non vinceremo questa guerra». Ma vincere non sarà facile né sbrigativo, lo sa: «Oggi serve urlare un po’ di realtà», irrompe. «Qui c’è quasi un clima di vittoria, perché tanto a Kiev le vite sono tornate alla normalità, o quasi. È vero, siamo a 700 chilometri dal conflitto, ma questa sensazione diffusa che in Ucraina sia finita la guerra mi infastidisce. Qui è… è davvero morte tutti i giorni. Sul fronte orientale siamo vicini al collasso. Se guardi la mappa, ci stanno lentamente spingendo via in tutta la regione del Donetsk. Abbiamo bisogno di più armi anche solo per tenerli lì dove sono».
È facile dimenticarsi che sotto il giubbotto mimetico e il maglione a collo alto ci sia uno sportivo. Un anno fa Stakhovsky non si era fatto troppi amici chiedendo di bandire gli atleti russi da ogni competizione. «Oggi la mia linea è ancora più dura, perché in tutto questo tempo i russi hanno deliberatamente preso di mira e distrutto centinaia di
impianti sportivi in Ucraina», spiega. «Non sarà mai uno scontro alla pari fra un ucraino e un russo. Se loro verranno in Ucraina per allenarsi, allora forse lo sarà. Ma loro si preparano a casa in perfette condizioni, con la sicurezza, con l'elettricità, con il cibo, con tutto. Gli ucraini non hanno più spazi per prepararsi, non possono tornare a casa. I nostri giovani non saranno neanche più nostri: li stanno accogliendo altri Paesi,che gli offriranno la loro nazionalità e non gareggeranno mai sotto la bandiera ucraina».
Nel mondo del tennis, solo Wimbledon e la federazione britannica hanno deciso di proibire ai russi e i bielorussi di competere. Una decisione impopolare, «ma spero che Wimbledon non cambi idea», interviene il soldato. «Lo spero vivamente perché sembra che siano gli unici che hanno le palle per fare qualcosa. Non tutti saranno d'accordo con me, ma per me è bizzarro che, per esempio, la Francia sostenga l’Ucraina ma permetta ai russi di competere per guadagnare milioni di euro, sui quali pagheranno le tasse in Russia e che verranno poi investite nella guerra».
Stakhovsky crede nel potere che i cittadini russi hanno in questa guerra. Durante l’intervista li esorta a intervenire protestando. Ma chiede anche delle guide, personaggi pubblici coraggiosi che possano trascinarli in massa con le proprie prese di posizione. Quali atleti
russi lo sono stati? «Per il tennis posso fare solo un nome, Daria Kasatkina», che ha definito la guerra di Putin «un incubo in piena regola». Peraltro, dichiarandosi omosessuale, un tema di cui è anche solo vietato parlare in Russia per colpa della legge sulla «Propaganda gay» in forza dal 2013. «L’ammiro», continua l’ex collega. «Ha palle più grandi di tutti i tennisti russi messi insieme. Il che è triste». Sembra ingiusto non inserire nella lista anche il moscovita Andrey Rublev. Lui, subito dopo l’invasione ha scritto su una telecamera a bordo campo «No war please». «Quel messaggio fu d’ispirazione all’inizio della guerra perché nessun altro russo fece lo stesso», spiega. «Ma oggi la posizione “no war” non ha più alcun significato. Con Andrey ho parlato tanto e lui vorrebbe dire qualcosa, ma non riesce. Hai visto la sua conferenza stampa in Serbia? Un disastro totale. Totale. “Non sono un politico, non so abbastanza”. Non sai che uccidere è male? Che invadere un altro Paese è male?». Non tutti sono disposti a rischiare l’incolumità propria e della famiglia, notiamo. «Capisco, ma un giorno i figli, leggendo i libri di storia, gli chiederanno: “Cosa hai fatto quando i russi invasero l’Ucraina?”. Lui che dirà?». Non c’è una risposta giusta, ma detto da un uomo che pochi minuti prima stava per morire fa un certo effetto. ■
La Guida di Zeta
a cura di Silvia StellacciI fili dell’identità ucraina
La tradizione millenaria del ricamo ucraino e la sua evoluzione nel contesto moderno: da amuleto contro la cattiva sorte a simbolo d’appartenenza nazionale
Punto dopo punto, i fili intrecciati sulla stoffa bianca raccontano molto di più di un disegno ricamato. Sono il simbolo della lotta per l’indipendenza dell’Ucraina, il talismano porta fortuna che protegge chiunque li indossi. Tra vyshyvanka – la tradizionale camicia ricamata – e biancheria varia, l’arte del ricamo ucraina attraversa migliaia di anni e incarna una delle espressioni più identitarie dell’intera cultura popolare.
«È il nostro amuleto sacro in questa guerra», ha detto lo stesso presidente ucraino Zelensky nell’ultimo Vyshyvanka Day, con indosso la tipica blusa ricamata su polsini e colletto. In sostegno della nazione invasa, anche la regina di Spagna, Letizia Ortiz, e la presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, hanno deciso di indossarla. Ogni ricamo è diverso dall’altro, ma tutti raccontano un’unica storia: quella del popolo ucraino.
L’abito tradizionale ucraino: da amuleto su stoffa al Vyshyvanka Day
Una camicia o una tunica bianca, a volte stretta in vita da una cinta, decorata sul collo, sui polsini e sulle spalle con ricami geometrici, lineari o floreali dai colori accesi. La vyshyvanka è caratterizzata da più di duecento tipi di tecniche di ricamo, stili e ornamenti vari, custoditi per secoli come il codice genetico duraturo della nazione. L’unico in grado di sopravvivere silente a tutti i tentativi di omologazione messi in atto dalla dominazione russa.
Dopo la dissoluzione del regime sovietico, gli ucraini cominciano a considerare il loro abito tradizionale un simbolo di identità nazionale. Nel 2006, dal flash mob di una studentessa dell’Università di Chernivtsi, nasce il Vyshyvanka Day, da allora festeggiato in tutto il Paese ogni terzo giovedì di maggio. L’obiettivo è unire gli ucraini di tutto il mondo, senza distinzioni di lingua, religione o residenza. L’improvvisa modernizzazione della vyshyvanka, però, ridimensiona alcune delle sue caratteristiche tradizionali.
In origine, le fantasie ricamate sul tessuto denotavano una chiara provenienza geografica e avevano un significato apotropaico e benaugurale. Si riteneva che gli intricati motivi decorativi formassero un labirinto in cui gli spiriti cattivi sarebbero rimasti intrappolati, in una sorta di scudo magico per il corpo di chi li indossava. I ricami imbellivano soprattutto polsini e colletto – i punti di confine tra l’esterno e l’individuo – o punti particolari come il cuore e le braccia, a proteggere l’essenza della persona e ogni suo gesto.
La protezione della vyshyvanka sarebbe stata tanto più potente quanto più forte fosse stato il sentimento infuso da chi la ricamava. È per questo che, il più delle volte, l’abito era un dono di nozze che la sposa realizzava per il suo sposo durante i mesi di fidanzamento.
La variazione dei ricami e il significato delle decorazioni
Tutte le decorazioni si dividono in tre gruppi: vegetali o floreali, geometrici e zoomorfi. I vari motivi, poi, variano da regione a regione: quelli geometrici prevalgono nell'Ucraina occidentale, mentre quelli vegetali e floreali sono diffusi soprattutto nell'Ucraina meridionale e orientale. Una distinzione che si spiega sulla base della diversa cultura, dei paesaggi naturali e, in alcuni casi, anche della mentalità della popolazione.
Fiori, rami e foglie riflettono la purezza e la prosperità della famiglia. Significano rinnovamento costante e infinito e combinano una bellezza magica e immortale con un potere incredibile. I motivi geometrici, invece, sono per lo più legati alla bellezza della natura ucraina e, poiché il ricamo tradizionale ha radici pagane, alcuni dei simboli si intrecciano con la mitologia slava. Infine, i ricami di animali e uccelli rappresentano simboli rituali, il più delle volte raffigurati su asciugamani o vari ciondoli. Ad esempio, colombe e galli sono gli ornamenti caratteristici di un asciugamano da sposa, mentre le farfalle personificano gli angeli e le rondini significano buone notizie.
Parole e immagini
«Per avere almeno la possibilità di esistere, bisognava prima resistere», scrive lo storico Andrea Graziosi nel suo ultimo libro, pubblicato dalla casa editrice Laterza, accostando gli scenari di due Paesi devastati dalla guerra. Eppure, ciò che distingue l’Italia del 1943 dall’Ucraina odierna, devastata da un conflitto innescato dalla Russia un anno fa, è il dover difendere la propria identità nazionale dal progetto putiniano della Russkij mir (“mondo russo”).
Per capire le conseguenze del conflitto, iniziato il 24 febbraio scorso con un’«Operazione speciale» lanciata dal Presidente Vladimir Putin come «necessità di prevenire il “genocidio” dei russi nel Donbas e di “denazificare” l’Ucraina prima che sia troppo tardi», è necessario tornare al dicembre 1991. Presentato come la «più grande catastrofe geopolitica del [XX] secolo» da Putin stesso in un discorso alla Duma nel 2005, il crollo dell’Unione Sovietica rappresenta ancora oggi una ferita sanguinante nell’orgoglio della Russia, che si autodefinisce erede dell’impero zarista e del progetto sovietico, nonché «un Paese naturalmente vincitore»
sottolinea Graziosi. Un Paese che, imperniato sui valori tradizionali della virilità e dell’uso della forza come unico modo per mostrare la sua potenza ad un Occidente definito da Putin «corrotto e depravato», oggi condanna gli errori dei suoi predecessori russi come Lenin e Gorbačëv, accusati di aver «derubato la Russia del suo patrimonio legittimo», scrive Graziosi, facendo riferimento alle ex repubbliche socialiste come appunto l’Ucraina.
In questo quadro nasce il pensiero “nazionalista” di Putin, antioccidentale e basato su una concezione non etnolinguistica, bensì russocentrica in senso più ampio, volta a restituire quell’idea di Russia «storica ed eterna» con cui si è sempre identificata. Se da un lato Putin percepisce l’Ucraina come «un surrogato manipolato da Mosca e quindi incapace di ambire a costruire uno Stato», dall’altro teme che possa diventare «la creatura e lo strumento di stranieri malvagi che vogliono indebolire il “naturale” centro russo, chiamato a impedire che ciò accada».
Proprio come Stalin inflisse al popolo ucraino la tragedia dell’Holodomor, la carestia che sterminò quattro milioni
di persone nell’Ucraina sovietica degli anni 19321933, «piegandone la base sociale contadina con l’uso della fame e liquidandone le élites che avevano osato dubitare delle sue politiche, mettendo a rischio – ai suoi occhi –l’appartenenza dell’Ucraina al mondo sovietico», l’invasione autorizzata da Putin si configura come un’operazione militare lampo volta a impedire l’avvicinamento del popolo ucraino ad «un mondo di consumo eccessivo
e di apparente libertà» incarnato dall’Occidente e, in particolare, dall’Unione Europea.
«La resistenza ucraina è stata inattesa quanto straordinaria», Graziosi profetizza che il destino a cui vanno incontro le potenze nazionaliste come la Russia, «spinte dal desiderio di rendere il loro Paese “great again”», è non solo quello di un impoverimento umano e culturale senza precedenti, ma anche l’isolamento diplomatico.
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