Feltrino News n. 2/2022 Febbraio

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ANNO 3°N° 02Febbraio 2022Supplemento del periodico Valsugana Newswww.feltrinonews.com
Periodico GRATUITO di Informazione, Cultura, Turismo, Attualità, Tradizioni, Storia, Arte
Beatrice Dalledonne

DAL 1960

LA TRADIZIONE DI FAMIGLIA CONTINUA DA ALLORA NON ABBIAMO MAI SMESSO DI CREDERE IN CIÒ CHE FACCIAMO.

TRADIZIONE RICERCA E

INNOVAZIONE

UN FUTURO COSTRUITO SU UNA

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MATTARELLA PRESIDENTE, SALVATO IL SOLDATO DRAGHI

Sergio Mattarella è il nuovo Presidente della Repubblica. Proprio nuovo non direi, visto che ha ricoperto la stessa carica negli ultimi sette anni, ma l'entusiasmo manifestato dai suoi "grandi" elettori lo ha rigenerato. Saprete già tutto sulla sua vita pubblica ma per i distratti mi sembra giusto ricordare che compie quest'anno 81 anni, essendo nato a Palermo il 23 luglio del 1941. Accademico e avvocato è cresciuto nella Democrazia Cristiana di cui è stato anche vicesegretario, per arrivare al Partito Democratico passando dal Partito Popolare e la Margherita. Oggi è considerato indipendente e così deve essere un Presidente della Repubblica: "super partes". Aveva per 14 volte avvertito e ribadito che non chiedeva e non voleva essere rieletto, lasciando il Quirinale con i bagagli personali trasferendosi in un vicino appartamento romano.

L'essere richiamato, malgrado la Costituzione non lo preveda o non lo neghi espressamente come dimostra il caso precedente di Napolitano, è una bella soddisfazione per lui, ma una grave sconfitta per i partiti nei quali malgrado il frenetico, stressante lavoro di consultazioni, sono prevalsi i veti immolando alcune vittime eccellenti come la presidente del Senato Maria Elisabetta Casellati.

E allora ben venga Mattarella Bis. Parafrasando un antico motto: il re è morto, viva il re, oggi aggiungiamo il re è risorto. Questo miracolo si è svolto con un rito complesso, drammatico a volte comico.

In questa tragica commedia dove sono spirati venti di guerra, la stampa

ha svolto un ruolo magistrale. Un grande statista inglese ha scritto che gli italiani vivono una partita di calcio come una guerra e una guerra come una partita di calcio. I media radio televisivi ci hanno rappresentato le sedute del Parlamento e le contorsioni dei leader dei partiti come la storica trasmissione radiofonica "Tutto il calcio minuto per minuto". Un vantaggio per i politici che hanno goduto di un vasto palcoscenico, per i politologi che, come i virologi, hanno profuso previsioni e interpretazioni, per i giornalisti, ospiti o cronisti, passati da uno schermo all'altro, con grande soddisfazione dei programmisti che, non pagando alcuno, hanno realizzato programmi a basso costo.

Ora, sistemato il Quirinale, inizia la vera guerra della politica. Mario Draghi, il più accreditato successore di Mattarella, resta al suo posto e, davanti alla guerra economica in atto nel Paese e nel mondo, è probabilmente la cosa più bella che ci potesse capitare. I veri vincitori sono però loro i dannati, le anime che s'aggiravano smarrite nell'aula di Montecitorio, perché molti di loro l'anno prossimo non vi ritorneranno a causa del loro partito andato alla deriva se non allo sbando e perché loro

stessi si sono suicidati votando la legge che riduce il numero dei seggi. Su di loro ha giocato la partita Silvio Berlusconi, un sognatore, a cui tutti i partner di un centro destra dove la destra è destinata a portare la fascia di capitano, ha dato la corda per impiccarsi mentre Sgarbi, il grande illusionista, per lui ha fatto lo scoiattolo racimolando i voti smarriti. La sinistra non è pervenuta se non per Matteo Renzi che si è speso apertamente per Draghi al Quirinale o il tandem che è ora sul podio. Infine, una fortuna per tutti noi: abbiamo salvato il soldato Draghi. Nell'anno che verrà alcuni partiti cercheranno di massacrarlo per recuperare visibilità pronti a uccidere la poca fiducia che ancora ci resta nella politica. Noi speriamo che ce la caviamo.

3 L'editoriale di Waimer Perinelli

Sommario

L’editoriale: Sergio Mattarella Presidente 3

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FELTRINO NEWS Supplemento al numero di Febbraio di VALSUGANA NEWS

Valsugana News – Registrazione del Tribunale di Trento: n° 5 del 16/04/2015.

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In filigrana

Il Rapporto Censis 2021 Pagina 20

Società e religione

La fede in pandemia Pagina 42

IN RICORDO DI UN AMICO

La Ragazza copertina Beatrice Dalledonne Pagina 47

Lo scorso mese la comunità di Feltre e dei paesi vicini ha salutato Jan Panciera, titolare dell’omonima azienda di arredamento con negozi a Feltre e Belluno. Ha lasciato questo mondo all’età di 52 anni dopo una breve malattia. Un uomo, Jan, da tutti conosciuto non solo per le sue indiscusse capacità imprenditoriali e manageriali, ma anche e soprattutto per aver saputo concretizzare quel particolare e unico rapporto che unisce le persone che hanno nel rispetto verso il prossimo, nei rapporti umani e nella vera amicizia, gli elementi portanti.  In questo particolare e triste momento, la redazione di FELTRINO NEWS si unisce al cordoglio della famiglia per la prematura perdita del caro ed amato congiunto.

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Febbraio 2022
Sommario 5 La storia della vaccinazione 7 La vaccinazione in Italia 11 Viaggio nel tempo: le epidemie 13 La RAI, di tutti, di più 16 La finestra internazionale: gas e politica 18 In filigrana: il rapporto Censis 2021 20 Marco Martaral, per non dimenticare 23 Pandemia e Governo, ennesima paralisi 24 L’ ospedale Santa Maria del Prato 27 Economia & Finanza 30 La violenza di genere negli Stati Uniti 32 La Pro Loco di Stabie a Canai 35 Mobilità e traffico: gli strumenti di indagine 38 Società oggi: l’Arca dei Volti 41 Società e religione: la fede in tempi di pandemia 42 La Chiesa Arcipretale Santa Maria Assunta 44 La ragazza copertina: Beatrice, bellezza acqua e sapone 47 Una radio per amica, fare il DJ 51 Sebastiano Ricci, giallo a Venezia 52 Il personaggio di ieri: Grazia Deledda 54 Com’era fredda la mia valle 56 Pagine di Storia: i bellunesi alle battaglie 59 Medici in prima linea: Diego Giongo 62 Il Sinodo dei Vescovi: la Bibbia racconta 64 Il teatro “ De La Sena” e Goldoni 66 Feltre: le lapidi cancellate 68 Curiosità in controluce: la Mail Art 70 Non solo animali: il Cigno 71 Racconti d’arte: un Clown non fa carnevale 72 Donna e moda: il colore dell’amore 74 Ieri avvenne: la guerra Italo-Turca 76 La malasanità in Italia 79 Conosciamo le leggi: guida in stato di ebbrezza 81 Società, giovani e sport: I Raw Crew 82 Lo sport in cronaca: tra due e quattro ruote 83 Casa dolce casa: la macchina per cucire 85 La natura in casa: il Calicanto d’inverno 86 Salute e Benessere: la Celiachia 90 Il tagliando e la revisione dell’auto 92

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Quattro passi tra i vaccini di Armando Munaò

LA STORIA DELLA VACCINAZIONE

A oggi non è facile stabilire quando sia iniziata la storia delle vaccinazioni. Da documenti storici, però, sembrerebbe che il punto d’inizio sia dovuto a Lady Mary Wortley Montagu, nata nel 1689 da una famiglia aristocratica dello Yorkshire. E sempre dai testi di allora si legge che fu proprio lei, nel 1717, quando risiedeva a Istanbul con il marito Edward, nominato ambasciatore, a rendersi conto e osservare una particolare procedura medica sviluppata in oriente: la variolizzazione, ovvero l’inoculazione di materiale prelevato dalle pustole di un paziente in fase di guarigione dal vaiolo che rendeva il soggetto inoculato più resistente a future infezioni. Una malattia, quella del vaiolo, che a quei tempi causava, ogni anno, la morte di centinaia di migliaia di persone anche in Inghilterra. Di questa particolare cura ne informò, per lettera, amici e conoscenti, e una volta rientrata in patria, e sfidando le “dure” resistenze della scettica classe medica, fece in modo di divulgare e promuovere la diffusione. E grazie alla sua tenacia la variolizzazione trovò una certa applicazione, anche in Europa, fino a quando non fu sostituita dalla vaccinazione, una nuova scoperta meno pericolosa della precedente, che ancora oggi è praticata.

L’inizio, lo studio e i risultati della vaccinazione

Il 14 maggio 1796 un medico e ricercatore inglese, Edward Jenner, inserì nel braccio di un bambino, di nome James Phipps, una soluzione contenente materiale purulento che aveva prelevato dalla ferita di una donna malata di “Vaiolo Vaccino” che in quel tempo colpiva i bovini, e non di rato anche i coltivatori. La sua fu una felice intuizione determinata dalla quasi consapevolezza che il corpo del bambino si sarebbe difeso creando particolari anticorpi e che nel tempo sarebbe diventato immune alla malattia. Cosa che di fatto avvenne. Jenner aveva creato la vaccinazione, ovvero una particolare tecnica medica grazie alla quale s’impediva il contagio con persone sane. Jenner invio' alla Royal Society di Londra i 14 casi di soggetti che erano stati immunizzati. La Royal, dubitosa e diffidente, rifiutò di pubblicare gli studi, cosa che il medico fece a sue spese superando le diffidenze dei colleghi. Il metodo da lui scoperto ebbe grande risonanza e ampia diffusione, tant'è che oltre 100mila persone

furono disposte a farsi vaccinare e quindi immunizzarsi dal vaiolo. Più tardi, nel 1805, Napoleone impose alle sue truppe la vaccinazione che fu poi estesa alla popolazione francese. Per la cronaca in quel periodo la malattia in Europa stava causando una situazione allarmante. Secondo documenti di allora nel 1753 a Parigi morirono di vaiolo 20.000 persone; a Napoli nel 1768 ne morirono 60.000

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Quattro passi tra i vaccini

in poche settimane e ogni anno a causa del virus Variola l'Inghilterra contava 40.000 decessi. In Italia, il merito della vaccinazione anti vaiolo si deve a Luigi Sacco, laureato a Pavia e primario dell’Ospedale Maggiore di Milano. Alla fine del 1799 vaccinò se stesso e poi cinque bambini con il pus raccolto da due vacche affette dalla malattia. A distanza di qualche tempo, verificò la sua immunità e quella dei bambini. Nel 1806 Sacco comunicò di aver vaccinato oltre 130.000 persone, tutte con esito positivo d’immunizzazione. Sempre per la cronaca, i vaccinati del Regno d’Italia furono più di un milione e mezzo, riducendo drasticamente la mortalità da vaiolo. La vaccinazione antivaiolosa fu resa obbligatoria per tutti i

nuovi nati a partire dal 1888 dalla legge Crispi Pagliani. L’obbligo è stato abolito in Italia nel 1981, dopo che nel maggio 1979 l’OMS (l’Organizzazione Mondiale della Sanità) ha decretato eradicato il vaiolo dalla Terra. E sempre in Italia le vaccinazioni furono introdotte verso la fine del 1800 sulla spinta delle esperienze acquisite in Europa e nel nostro Paese con il vaccino contro il vaiolo e le ricerche sui batteri di Pasteur e Koch. Nel 1939 venne resa obbligatoria la vaccinazione antidifterica entro i primi due anni di vita del bambino. Una seconda importantissima tappa sulla strada dei vaccini si deve a Louis Pasteur, studioso francese riconosciuto oggi come il padre e fondatore della moderna microbiologia. I suoi studi s’indirizzano verso molteplici direzioni: sul Colera, il Carbonchio, ma soprattutto nello studio della Rabbia, una malattia molto diffusa la cui prognosi, quasi sempre, era la morte dell’infettato. Uno studio difficile e di non facile attuazione perché l’agente infettivo della Rabbia era un virus molto più piccolo dei batteri e non facilmente individuabile con i microscopi di allora. I suoi studi gli fecero comprendere che questa tremenda malattia si trasmetteva con il morso del cane ma che aveva la sua sede di sviluppo non solo nella saliva

ma anche nel cervello. Partendo da questo presupposto decise di creare, con le diverse metodologie del caso, un vaccino utilizzando il midollo di un coniglio morto di rabbia. Ottenuto il vaccino sperimentale il 6 luglio 1885 fu iniettato su Jospeh Meister, un bambino di 9 anni morso da un cane rabbioso. Dopo 12 iniezioni e dopo circa 3 settimane e nonostante la ferma incredulità di moltissime persone contrarie a questa metodologia, il bambino guari definitivamente. Per la cronaca il 1° marzo 1886 Pasteur comunicò all’Accademia delle Scienza che su 350 persone sottoposte alla vaccinazione si era verificata una sola morte.

Nel 1888 Pasteur fondò a Parigi l’Istituto Pasteur per lo studio e la cura delle malattie infettive che ancora oggi è un polo mondiale della ricerca biologica e offre contributi importanti per la conoscenza e la sconfitta delle vecchie e nuove malattie Infettive. Nel 1880 altra scoperta di un vaccino contro due grandi “peste” dell’800: la difterite e il tetano. Un vero progresso nella lotta contro malattie allora ritenute incurabili. Il merito si deve sia agli studi del tedesco Emil Adolf von Behring e sia alle specifiche scoperte del giapponese Shibasaburo Kitasato, suo collega all’interno dell’Istituto di Igiene di

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Berlino dove lavoravano insieme su queste ricerche. Behring è a tutt’oggi considerato uno dei padri fondatori dell'immunologia. Purtroppo la difterite non è stata del tutto debellata e ancora esiste nei paesi di sviluppo. In Italia la vaccinazione antidifterica è obbligatoria dal 1939.

L’ultimo caso risale al 1996. In merito poi al tetano, nel nostro paese, il

numero dei malati è drasticamente diminuito anche e soprattutto perché dal 1968 la vaccinazione è stata resa obbligatoria. A oggi si contano pochissimi casi, circa 60 ogni anno. Un posto di merito tra le figure più importanti nella storia moderna dei vaccini spetta sia ad Albert Sabin, un medico ricercatore americano, di origine polacca, cui si devono gli studi sul virus della Poliomielite e la successiva scoperta del vaccino e sia a Jonas Salk che il 12 aprile 1955 presentò il suo vaccino antipoliomie-

lite da somministrare per via intramuscolare. Salk non volle mai brevettarlo perchè, diceva, “deve essere a disposizione di tutti”. Più tardi, nel 1957, Sabin, grazie ad approfonditi studi e a una particolare tecnica per attenuare il virus, ne sviluppò un altro con caratteristiche diverse e somministrabile per via orale. Il vaccino Sabin divenne la prima e più importante arma, utilizzata in tutto il mondo, per la lotta alla Poliomielite. Sabin, passerà alla storia anche e soprattutto perchè egli non volle

9 Quattro
passi tra i vaccini

Quattro passi tra i vaccini

mai trarre benefici economici dalle sue scoperte e anche lui si rifiutò sempre di brevettarle dicendo che “esse appartenevano ai bambini di

tutto il mondo”. La poliomielite, per la cronaca, tra gli anni quaranta e gli anni cinquanta, uccideva o paralizzava, ogni anno, più di mezzo milione di persone nel mondo. L’americano Maurice Hilleman passerà alla storia perché nel 1971 fu l’ideatore del famoso vaccino trivalente contro il morbillo, la parotite e la rosolia, tre malattie che colpivano quasi tutti i bambini. E in merito al morbillo i dati ci dicono che fino a quando la vaccinazione non è stata resa obbligatoria a livello mondiale (anno 1980) ha causato la morte di oltre 2milioni e mezzo di bambini, Per la cronaca il primo vaccino contro il morbillo fu creato nel 1963, quello contro la parotite nel 1967, e nel 1969 contro la rosolia. Hillerman e la sua equipe nel corso degli anni parteciparono e svilupparono altri importantissimi vaccini quali quel-

li contro l'epatite A, l'epatite B, la varicella, la meningite, la polmonite e contro il batterio emofilo dell'influenza.

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LA VACCINAZIONE IN ITALIA

Oggi nel nostro paese e sulla base degli studi, ricerche ed esperienze, sono stati introdotti, nei vari anni, processi e programmi d’immunizzazione per moltissime malattie per i nuovi nati e per i bambini. E specificatamente contro: la Difterite, Tetano, Poliomielite, Pertosse, Rosolia, Morbillo, Parotite, Epatite B, Haemophilus influenzae b e altre.

Con il Decreto legge n° 73 del 7 giugno 2017 (modificato dalla Legge di conversione 31 luglio 2017, n. 119) sono state rese obbligatorie, per i minori di età compresa tra zero e sedici anni e per i minori stranieri non accompagnati le seguenti vaccinazioni:

*antidifterica: contro la difterite, malattia infettiva che ha la sua localizzazione nelle mucose della gola;

*antipoliomelitica: contro la poliomielite, malattia virale che può portare anche alla paralisi del bambino;

*antiepatite virale B: contro l’epatite B, malattia che colpisce il fegato;

*antitetanica: contro il tetano malattia gravissima, dovuta a un bacillo che penetra nel corpo umano attraverso anche piccole ferite. E se non si è vaccinati può portare anche alla morte. Importante sapere che dopo la prima fase di vaccinazione è necessario eseguire dei richiami ogni dieci anni;

*antipertosse: una patologia che soprattutto nei bambini piccolissimi può causare anche una piccola percentuale di mortalità;

*anti Haemophilusinfluenzae tipo B: per contrastare l’omonimo virus che puo’ provocare diverse patologie nei bambini;

*antimorbillo: per escludere

l’insorgere del morbillo, malattia contagiosae molto pericolosa;

*antiparotite: per evitare una seria infiammazione delle ghiandole salivari, poste dietro le orecchie;

*antirosolia: per combattere la rosolia, malattia eruttiva molto contagiosa nei bambini e che si manifesta con macchie rosate su tutto il corpo molto simili al morbillo;

*antivaricella: per evitare l’insorgere di questa malattia contagiosa, ma benigna, che causa la formazione di vescicole simili alle pustole del vaiolo.

L'obbligatorietà per le ultime quattro (anti-morbillo, anti-rosolia, anti-parotite, anti-varicella) è soggetta a richiami ogni tre/cinque anni in base ai dati epidemiologici e delle coperture vaccinali raggiunte.

Le vaccinazioni obbligatorie sono gratuite e devono tutte essere somministrate ai nati dal 2017.

I vaccini consigliati sono:

*anti-pneumococcica: esistono molte forme di questa infezione, il vaccino è utile per prevenire la maggior parte dei casi più comuni;

*anti-meningococcica C (in forma monovalente, o tetravalente ACWY):

Questo vaccino può essere somministrato dal terzo mese di vita ed è efficace solo per il sierotipo C;

*anti-meningococcica B: serve per prevenire la meningite provocata da meningococco B, malattia gravissima per la quale il 15% dei bambini colpiti non sopravvive;

*anti-rotavirus: provoca la cosiddetta gastroenterite pediatrica soprattutto nei neonati e in bambini al di sotto dei cinque anni;

*anti-HPV: vaccino per femmine e maschi che riduce il possibile sviluppo della neoplasia maligna e prevengono lesioni condilomatose.

Questi vaccini non sono obbligatori ma sono vivamente consigliati dal sistema sanitario e vengono forniti gratuitamente dalle stesse Aziende Sanitarie Locali (ASL) delle Regioni e delle Province Autonome.

Altro importante vaccinazione, riservata però alle categorie a rischio, è quella influenzale per gli anziani con oltre 60anni di età. Questo vaccino è gratuito per quella fascia di età, ma ancora oggi la percentuale di chi ne fa uso, è molto bassa.

Per la cronaca, durante il periodo fascista, con il Regio Decreto 27 luglio 1934, fu stabilita l’obbligatorietà della vaccinazione di massa contro il vaiolo che fu sospesa nel 1977 e definitivamente abrogata nel 1981 dopo che l’OMS, nel 1980, ha dichiarato l’eradicazione completa del vaiolo. Sempre durante il regime fascista (nel1939), fu resa obbligatoria anche la vaccinazione contro la difterite per tutti i bambini fino a 10 anni di età.

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Quattro passi tra i vaccini di Enrico Coser

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Viaggio nel tempo di Francesco Scarano

Nell’ ultimo triennio termini quali ‘’pandemia’’, ‘’contagio’’, ‘’quarantena’’, sono diventati lemmi di uso quotidiano, adoperati in ogni contesto umano e da ogni individuo del ‘’Bel paese’’.

Nonostante la loro repentina diffusione, spesso, gli italiani avvertono questi vocaboli come inusuali, tecnicistici e di ardua comprensione.

In realtà, quelli che potrebbero apparire come termini alieni, dal significante inusuale, racchiudono un significato assai noto alla coscienza umana: le epidemie che hanno flagellato il genere umano sin dai suoi albori.

Se è vero, infatti, che quella del Covid-19 è l’epidemia a noi più nota, per motivi cronologici, non è difficile riscontrare esperienze simili nella storia dell’umanità, al punto che i più illustri storici si stanno cimentando nel ricostruire diacronicamente una storia dei contagi del genere umano.

Scavando nel passato più remoto possiamo infatti constatare che le epidemie ebbero origine quando l’uomo iniziò a

stazionare in prossimità dei suoi simili. In una lastra marmorea dell’antico Egitto, databile intorno al XV secolo a.C., è possibile infatti riconoscere una figura umana anatomicamente provata dalla poliomielite, morbo che gli costò un grave handicap ad un arto inferiore.

Sempre relativamente alla patria dei faraoni, celebre è il caso della mummia di Ramsete che presenta sul volto le tipiche ferite da vaiolo, macroscopica traccia del morbo che lo uccise.

Storicamente celebre risulta anche la Peste di Atene la quale, con un effetto boomerang, flagellò la patria della cultura greca due volte consecutivamente: nella primavera del 429 a.C. e nell’ inverno del 426 a.C., come riportato dallo storico Tucidide.

Neanche l’Urbe, all’ epoca già ‘’caput mundi’’, riuscì a scampare alle epidemie: basti annoverare l’ingente mole di referti medici minuziosamente stilati da Galeno sulla pandemia di vaiolo nota alla storia come ‘’peste antonina’’, diffusasi in seguito all’ espansione romana in oriente. Anche il Medioevo fu solcato da diverse

ondate epidemiche e le più tristemente famose risultano essere quella della peste nera del XIV secolo e la peste bubbonica del ‘ 600.

Tali morbi hanno indelebilmente segnato la memoria storica europea al punto che, anche se volessimo ignorare un numero esorbitante di fonti storiche, ci sarebbero decine di pagine di letteratura  a

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Le epidemie: un nemico tanto temuto quanto connaturato nell’uomo.

scongiurare il rischio di una così grave ed eclatante amnesia: quelle di Boccaccio, che nel Decameron racconta le vicende di una brigata dieci narratori che tentano di fuggire alla peste, e quelle del Manzoni, che crudamente descrive con perizia i lazzaretti ed i monatti incaricati al pubblico trasporto degli infetti. Tra i  fattori che hanno contribuito alla diffusione delle epidemie e alla loro metamorfosi in pandemie ricordiamo: le scarse condizioni igienico sanitarie ed il contatto con gli animali (fattore che ha agito da enzima facilitando il salto dei patogeni dalle altre specie animali all’ uomo), il commercio e le guerre.

In merito a questi due ultimi fattori, non è difficile ricordare la ‘’quarantena’’ cioè l’isolamento (dell’estensione temporale di circa quaranta giorni) a cui erano obbligati  i mercanti veneziani provenienti da zone ad alto rischio di contagio, prima di entrare nel porto della città di San Marco. Ben note risultano alla nostra memoria storica anche le epidemie che hanno sfruttato i militari come vettori del morbo: all’ inizio del XVI secolo i conquistadores spagnoli portarono nel Nuovo Continen-

te infezioni come il vaiolo, morbillo e salmonella, che sterminarono le popolazioni indigene ( non dotate degli opportuni anticorpi), al punto che numerosi movimenti indigenisti americani fanno leva ancora oggi su queste catastrofi per perseguitare le minoranze europee e rifiutare commemorazioni come il Columbus Day. Ben più recente risulta l’epidemia influenzale ‘’Spagnola’’ che si abbatté sul Vecchio Continente durante la Grande Guerra. L’ attributo adoperato per designare tale

ture antiche (da quella Mesopotamica a quella cattolica medioevale) abbiano attribuito, senza alcun fondamento scientifico, la responsabilità di tali mali all’ uomo e ai suoi peccati, e probabilmente non è un caso che i termini di origine greca ‘’pandemia’’ ( dal greco ‘’pas’’ ‘’dèmos’’, cioè ‘’tutto il popolo’’) ed ‘’epidemia’’ ( da ‘’ epì’’ ‘’dèmos’’, cioè ‘’sul popolo’’) facciano leva in maniera antropocentrica sull’ uomo, il popolo e le sue responsabilità.

morbo deriva probabilmente da un’erronea teoria secondo la quale il male sarebbe scoppiato nella Penisola iberica, dato che le testate spagnole furono le uniche a parlare dell’argomento. Analizzando il dietro le quinte delle logiche totalitaristiche, però, possiamo facilmente dedurre come la Spagna, in qualità di Paese neutrale, fosse tra le poche realtà politiche a godere ancora di libertà di stampa e della possibilità di dare eco mediatico ad un tema tanto scottante quanto demotivante per i potenziali interventisti.

E’ da sottolineare come le cul-

Qualunque sia l’appellativo atto a designare il singolo morbo, ed in qualunque epoca storica esso si sia diffuso, resta il fatto che non bisogna cercare ‘’untori’’ e responsabili tra i propri simili, ma fraternamente unirsi agli altri ‘’guerrieri’’ nel tentare di sconfiggere un male tanto microscopico alla vista quanto macroscopico negli effetti. Un’ anamnesi del passato delle epidemie non può che giovare alle nostre coscienze in vista di un’ottimistica diagnosi delle presenti e future pandemie, prendendo atto che tali morbi non sono un nemico a noi ignoto, ma un male che abbiamo già incontrato e sul quale il genere umano (con l’ausilio delle giuste precauzioni) avrà sempre la meglio, così come ci insegna la storia!

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Storia dell'informazione di Waimer Perinelli

LA RAI DI TUTTI DI PIÙ: COME IL DELTA DI UN FIUME

Per 25 anni ho salito le scale della sede Rai di Trento. Una ventina di gradini che non erano altrui e davano un pane che non sapeva di sale. Tutt'altro, quelle scale portavano ai programmi e alla redazione che, citando un fortunato messaggio promozionale dell'inizio del nuovo millennio recitava "Rai, di tutti, di più". Ma non sempre è stato così.

La sua bisnonna, che di nome faceva

URI, unione radiofonica italiana, era stata formalizzata con regio decreto nel febbraio del 1923 e realizzata nell'agosto dell'anno successivo, in pieno regime fascista che notoriamente censurava ma che, purché sottomessa, la volle per tutti e a tale scopo rese possibile l'acquisto e distribuì gli apparecchi radio, Rurali e Balilla, in tutte le sedi del Fascio. Lo stesso fece qualche anno dopo, Adolf Hitler che volle la Volksradio, Radio popolare, e dotò il popolo germanico di un apparecchio con una sola valvola, una sola frequenza e una sola voce: la sua. L'URI nasceva ventidue anni dopo l'invio del primo messaggio radio transoceanico da parte di Guglielmo Marconi (12 dicembre 1901) al quale nel 1909 fu

assegnato il Premio Nobel. Lo scienziato ebbe la fortuna di essere presente al parto URI e nel marzo del 1924 e trasmise da Centocelle in diretta il primo discorso di Mussolini. L'esperimento fallì, a causa, si disse, di " profonde" interferenze elettriche interne. Ebbe miglior fortuna in ottobre quando dalla stazione trasmittente di San Filippo a Roma l'URI diffuse la prima trasmissione. Un concerto: " A tutti coloro che sono in ascolto, annunciò la presentatrice Ines Viviani Donarelli, il nostro saluto e il nostro buonasera. Sono le ore 21 del 6 ottobre 1924 trasmettiamo il concerto di inaugurazione ....il Quartetto "Opera 7" di Haydn".

Marconi fu presente anche nel 1927 quando l'URI diventò l'EIAR, ente italiano per le audizioni radiofoniche, vissuta fino al 1944, della quale il mio amico Egon Brida, sudtirolese di Cornaiano, classe 1923, impiegato come tecnico, parlava sempre con orgoglio. Lo stesso sentimento che troviamo nel 1944 quando sulle macerie del Fascismo compare per la prima volta la sigla RAI, ovvero Radio audizioni italiane, una nuova società vissuta fino al 1953, capace di riorganizzare i centri di trasmissione e nel 1949 avviare le prime trasmissioni in campo televisivo la cui sperimentazione era iniziata dieci anni prima. I fortunati possessori di un apparecchio televisivo videro, il 5 febbraio 1950, la prima trasmissione che non fu un concerto bensì la partita di calcio Juventus Milan, vinta dai rossoneri per 7 a 1. Sono anni difficili ma di grande sviluppo e il 3 gennaio del 1954

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Fulvia Colombo fece il primo annuncio televisivo. Sul minuscolo schermo andò in onda il primo programma della storia della televisione: Arrivi e Partenze condotto da Mike Bongiorno e Armando Pizzo. Il popolare Mike, italo americano, con Lascia o Raddoppia ed altre trasmissioni è diventato "storia della televisione" un mezzo destinato a imporsi trasformando, per qualche tempo la radio in cugina povera.

Il 10 aprile del 1955, proprio in omaggio alla comunicazione e intrattenimento per immagini, la Società mantenendo la sigla di RAI trasformò l'acronimo in Radiotelevisione italiana. La sera stessa debuttò "La Domenica Sportiva", il programma più longevo della televisione. Innumerevoli i giornalisti, programmisti, registi che si sono affermati nei diversi programmi dallo sport all'intrattenimen-

to agli sceneggiati, nominarne cento sarebbe fare un torto per altrettanti, perciò mi limito a citare gli attuali protagonisti come Corrado Augias e Bruno Vespa che in radiorai ha debuttato a 18 anni nel 1962. Entrambi sono oggi più noti come scrittori, autori di programmi televisivi.

Ma torniamo al 1955 quando venne realizzata la prima telecronaca parlamentare con l'elezione di Giovanni Gronchi a Presidente della Repubblica. L'anno successivo la consacrazione del piccolo schermo con a VII edizione dei giochi olimpici invernali disputati in provincia di Belluno a Cortina D'Ampezzo. Furono i primi ad essere teletrasmessi in eurovisione.

Il monopolio informativo della Rai sarebbe proseguito per altri vent'anni, con produzioni di grande successo come "Non è mai troppo tardi" trasmissione rivolta agli adulti analfabeti. Poi le prime crepe con la riforma del 1975 del sistema radiotelevisivo che fotografava una situazione frammentata dove, per iniziativa di imprenditori coraggiosi, erano nate radio e televisioni private. A Trento Radio Dolomiti, di cui sono stato direttore per cinque anni, e TVA, Televisione delle Alpi.

In Veneto Radio e Telepadova, nel 1981 Tele Belluno, nel 1977 in Lombardia Antenna 3. La RAI ha già da qualche anno avviato redazioni radiofoniche locali e il 15 dicembre del 1979 avvia le trasmissioni regolari di Rete tre con il TG3 fratello minore delle corazzate TG1, la storica, e TG2 nata nel 1976. La terza rete sarà destinata ad ospitare i nascenti programmi regio-

nali la cui massima espressione informativa viene rappresentata oggi dalla TGR, Testata giornalistica regionale, in pratica una quarta rete. A concorrere per l'informazione ci sono attualmente piccole e grandi reti private capaci di fornire programmi e telegiornali concorrenziali. La Rai è oggi come la foce Delta di un fiume che, con tantissimi rami da Rai Play a Rai Cultura, Movie...il Sito Web, si get-

ta nell'oceano della comunicazione. Se un giorno si è temuto che l'informazione televisiva avrebbe distrutto il cinema oggi è comprensibile sospettare che i canali Web, Twitter, Instagram, Facebook possano ridimensionare se non annientare la radio e la televisione. Ma a fare la differenza però non è la quantità bensì la qualità e mentre i mezzi radio televisivi esistenti hanno già una grande ricchezza professionale le fonti informative nascenti si affidano troppo spesso all'improvvisazione, al dilettantismo e sono causa di false informazioni.

Oggi la Rai, grazie a 1760 giornalisti professionisti, otto testate e 13 mila dipendenti, appare ancora come una grande portaerei capace di affrontare con successo ogni tempesta.

17 Storia dell'informazione

GAS E POLITICA: ROMA SIA INDIPENDENTE

Parlare di Russia e Federazione Russa in Italia oggi non è facile. Quando vi era l’Unione Sovietica ed i rapporti economici con quel versante erano “gestiti” dal PCI anche per nome e per conto di una Politica Nazionale figlia della scelta atlantista e della presenza in Italia del più importante Partito Comunista nei paesi membri della NATO vi erano una precisa narrazione ed un’altra altrettanto precisa contro narrazione.

Entrambe erano decisamente finalizzate quanto in gran parte infondate. La Russia postsovietica invece non ha ancora trovato la via per essere rappresentata in un modo che permetta anche a chi non la ha vissuta, non ne conosca la Storia e magari solo intuisce le articolazioni anche geografiche di quei vasti territori con cui le relazioni “tra popoli” sono ricondotte in gran parte alle memorie ormai lontane delle due guerre mondiali.

Ad esempio solo pochi Trentini hanno sentito parlare della Legione Redenta (composta per oltre due terzi di Trentini) che si trovarono in Russia a fianco dello Zar, come ex prigionieri austroungarici, dopo il 1916 e poi a fianco dei Bianchi nelle vicende della Guerra Civile Russa in Asia Centrale meravigliosamente narrate da Ossendowski in “Bestie, Uomini e Dei” in cui

si riporta tra l’altro il ruolo (importante) del Baldessari in quelle vicende tra Mongolia e Manciuria all’inizio degli anni ’20 del ventesimo secolo. Così come per le tante vicende successive alla seconda Guerra Mondiale in cui la pur importante partnership tra Italia e Unione Sovietica era strettamente vincolata ad interessi geopolitici in cui l’Italia sapeva ritagliarsi un ruolo. Appare quindi scontato a chi conosce quel Paese che la finzione per la quale una Russia Post Comunista e governata dalle logiche di un capitalismo cui è approdata da oltre 30 anni sia una specie di competitore globale lontano dalle regole del Mercato può far leva solamente su un’informazione mai

come ora piegata agli interessi di un capitalismo privo di meccanismi di bilanciamento e sempre più aggressivo. L’incapacità che ancor oggi l’economia di quel Paese manifesta nell’individuare dei drivers diversi dalle Materie Prime e dalle Tecnologie legate a Spazio e Difesa sono in parte riconducibili a quei tre fattori (Separazione e Bilanciamento dei Poteri, Corruzione e Scarsa Competitività) che stanno affondando anche il Sogno Europeo di Paesi come il nostro. Si parla tanto di Gas e Tariffe, ma bisogna ricordare sempre che l’Energia è Politica. In tutto il Mondo. La Politica Estera Italiana la fa l’ENI, il nucleare francese è l’asset che ha consentito a quel Paese di mante-

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La finestra internazionale di Cesare Scotoni

nere lo status che tutti gli riconoscono e lo impegna sulle risorse africane, il petrolio light del Golfo del Tonchino o il petrolio Iraniano o Iracheno, o il rame afgano han scatenato le guerre degli ultimi 60 anni e così il Gas russo garantisce il primato all’Europa germano centrica ed il fallimento del South Stream sta portando l’Italia ai margini delle economie più evolute privandolo di quell’acciaio su cui fondava una parte della forza del suo manifatturiero. Dunque, se oggi la Germania ha potuto avere grazie a Schroeder (ora in GazProm) il metano russo e l’Italia ha nel frattempo rinunciato al South Stream ed il TAP in Puglia è arrivato solo quando ormai il gassificatore inglese era naufragato tra burocrazia ed olivi, non ci si deve stupire che Cingolani “spinga” il nucleare francese. Fonte ver-

de per eccellenza. Se poi la Germania gira ad un’Ucraina il cui destino tra Polonia e Russia appare segnato, il gas russo destinato all’Unione qualcuno ricorderà a tutti che il rubinetto sta altrove e che lo “shale gas” USA ottenuto con il “fracking” ha un costo molto più importante di quello che arriva da Yamal. Questa breve sintesi perché la progressiva rinuncia del Sistema Scolastico ad uno studio più attento della Storia e della Cultura che hanno costruito la Modernità attraversando l’Europa dall’Atlantico agli Urali e poi al Pacifico, sta diventando un limite gravissimo

alla possibilità del Nostro Paese di collocarsi degnamente in quel Sistema di Relazioni Internazionali che ancora vede attuale il bacino del Mediterraneo al cui centro si distende l’Italia. E se Mosca divenne la Terza Roma così come Istambul fu la Seconda, quello è misura del fatto che la Prima merita ancora un rispetto che tocca a noi italiani per primi mostrare.

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Scienza, dubbi e irrazionale: dove stiamo andando?

Il rapporto annuale del Censis, il Centro Studi Investimenti Sociali, rappresenta ogni anno un appuntamento ricco di contenuti e suggestioni. Lo studio, arrivato quest'anno alla sua 55esima edizione, costituisce una sorta di fotografia molto dettagliata del Pese-Italia, analizzato da diversi punti di vista: economico, politico e soprattutto sociale. Una bella occasione, insomma, per guardaci un po' “da lontano” e capire chi siamo e soprattutto dove stiamo andando.

Anche quest'anno, similmente a quanto accaduto nelle edizioni passate, non mancano gli spunti di interesse, ma anche le sorprese.

Così ha fatto molto discutere nelle settimane passate soprattutto l'analisi che riguarda “Gli Italiani e l'irrazionale”. Ebbene, emerge chiaramente che, e i sentori erano peraltro chiari, accanto ad una maggioranza di Italiani che potremmo definire “ragionevole e saggia”, cresce in maniera esponenziale il numero di chi manifesta convinzioni e comportamenti che vanno nella direzione opposta. Qualche esempio?

Partiamo dal tema di dominante attualità

da oramai un paio danni, ovvero la pandemia da Covid-19. Per il 5,9% degli italiani (circa 3 milioni di persone) - sottolinea il rapporto del Censis - il Covid semplicemente non esiste.

Per il 10,9% il vaccino è poi inutile o totalmente inefficace. Per il 12,7%, infine, la scienza produce più danni che benefici.

Spaziando poi a quelle che potremmo definire la “tecno-fobie”, il 19,9% degli italiani considera il 5G uno strumento molto sofisticato per controllare le menti delle persone. Ma c'è di più: il 5,8% (oltre 3 milioni e mezzo di italiani!) è sicuro che la Terra sia piatta e il 10% è convinto che l’uomo non sia mai sbarcato sulla Luna.

Il tutto si giova naturalmente dell'effetto-valanga (o “panna montata” come preferite) generato da movimenti più o meno organizzati e soprattutto dal web, dove opinioni, ipotesi, pareri, anche i più azzardati o infondati, vengono rilanciati spesso senza nessuna verifica di fondamento scientifico. Un dòmino senza fine in cui si accavallano voci riportate

e, talora, storture create ad arte. Sin qui alcuni dati, sui cui i Censis non risparmia un giudizio secco e perentorio: “Si osserva una irragionevole disponibilità a credere a superstizioni pre-moderne, pregiudizi antiscientifici, teorie infondate e speculazioni complottiste”, dice l'autorevole centro studi.

Il passo successivo, doveroso, è chiedersi da dove tragga origine tutto questo e perché il fenomeno si alimenti con questa forza. Siamo di fronte ad un nuovo sonno della ragione, per così, dire 4.0?

La risposta non può essere semplicistica, vista anche la portata e gli effetti, attuali e potenziali, del fenomeno. Qualcuno cerca di addossare la responsabilità di questa ondata anti-scientifica alla pandemia da Covid-19, alle paure generate nelle

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In filigrana di Nicola Maccagnan
Il rapporto del Censis 2021 ci dice che...

persone più psicologicamente esposte e alle conseguenze di due anni di limitazioni, chiusure e forzature sociali. Certo, la situazione che stiamo vivendo da oramai due anni ha “stressato”, e non poco, dinamiche personali, familiari, economiche e sociali, esponendo chi è più fragile ai venti del “dubito di tutto e tutti, sempre e comunque” e addirittura del “non credo più a nulla”.

A ben guardare, però, la pandemia non appare da se stessa la causa del fenomeno, ma - questo sì - un suo potente acceleratore, che ha trovato terreno fertile in uno stato diffuso di disagio che tocca da almeno un paio di decenni molte persone. E non in maniera univoca, visto che la questione non riguarda da vicino solo chi è culturalmente meno attrezzato.

C'è poi un altro tema, ben più subdolo e preoccupante, ed è quello che riguarda l'uso strumentale (a fini commerciali, politici e non solo) da parte di società, enti ed organizzazioni di questa situazione di disagio diffuso. Esiste un antidoto? Riaprire i libri, verrebbe da dire; in senso lato, ma anche strettamente materiale. Suona un fortissimo campanello d’allarme, in questo senso, anche il maldestro utilizzo a cui assistiamo quotidianamente della nostra meravigliosa lingua italiana, a volte un vero e proprio scempio. E non è solo questione di stile, di “fare i fighetti” insomma; la parola è lo specchio della mente e dei suoi processi. La dilagante incapacità di mettere insieme un periodo di senso compiuto e corretto è una straordinaria cartina al tornasole di un vero e proprio degrado culturale che

riguarda non solo le giovani generazioni, ma che interessa trasversalmente tutta la nostra società, basti pensare alle storture in cui ci imbattiamo spesso anche su autorevoli testate giornalistiche o libri di vario tipo.

Riaprire la grammatica, insomma, e con essa il sussidiario delle scuole medie. Lì troveremo scritto in maniera incontrovertibile che la terra è sferica, ma non solo perché lo asserisce qualche oscuro scienziato, bensì perché così è stata fotografata persino (!) dai satelliti. E che la penicillina, scoperta in una muffa (immaginate che cosa penserebbero al riguardo oggi i dubbiosi del terzo millennio!!!) ha salvato dal suo primo impego a scopi medici milioni di vite umane.

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Marco Martaral, per non dimenticare

La tempesta Vaia dell’ottobre 2018

è stato uno degli eventi metereologici più catastrofici che hanno colpito in particolare la provincia di Belluno in tempi moderni. L’immagine simbolo di questo evento estremo sono stati i migliori di alberi abbattuti dalle enormi folate di vento come se fossero semplici stuzzicadenti (14 milioni di alberi furono abbattuti da venti che soffiavano fino a 200 km/h).

A distanza di tre anni l’artista Marco Martaral ha voluto creare un opera d'arte utilizzando il legno degli alberi schiantati.

L’opera si trova a Lavarone sull'Alpe Cimbra –Trentino e raffigura un Drago alto 6 metri e lungo 7, il più grande d’Europa per il suo genere. Per realizzarlo Martaral si è ispirato ad un’antica leggenda cimbra non ancora persa tra la popolazione locale che ci vuole ricordare l’ineffabilità della natura.

Sono stati impiegati  3.000 viti e 2.000 scarti di arbu-

sti spazzati via dalla Tempesta Vaia, ma anche quelli dell'Avez del Prizez, l'abete bianco più alto d'Europa, di 244 anni, abbattuto un anno prima sempre a causa di una terribile calamità naturale. L’opera ha attratto migliaia di visitatori provenienti da tutta Italia e anche dall’estero, con il tam tam mediatico che attraverso i social ha pubblicizzato al meglio il Drago Vaia, tanto da  raggiungere l’interesse anche della trasmissione Geo & Geo che ha ripreso le fasi di realizzazione dell’opera. Marco Martalar, attraverso il Drago Vaia, ha voluto lanciare un messaggio molto chiaro: niente dura in eterno e tutto si trasforma. “Recentemente,  per un intervista Rai son stato dal drago . Quando sono arrivato sul grande prato che lo ospita mi sono emozionato, la quantità di persone era fuori dalla mia immaginazione. Persone sedute sul prato a godersi il sole l'aria,  persone che

passeggiavano , bimbi che giocavano. Lui era lì fermo come quando lo avevo lasciato,  come quando lassù io e lui in solitudine stava nascendo, ora invece circondato da centinaia di persone,  il tutto senza caos gente rispettosa con la voglia di toccarlo o fare una foto, è stato bello”, ha commentato Marco.

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Una
vera opera d'arte di Alex De Boni

Virus e riforme. Cinque decreti in cinque settimane. Un labirinto di nuove regole manda in

caos la burocrazia e gli Italiani. È pressing su Draghi ed ennesima paralisi del governo. Dejàvu di una storia già vista.

Siamo o non siamo il Paese degli azzeccagarbugli? Un vantaggio sbandierato rispetto al resto d’Europa e dilapidato dalla politica dei piccoli passi. Quanti decreti in un mese. Crescono

i divieti e salgono i contagi. Tarda una spiegazione e non sopraggiunge un’ammissione di mea culpa. Evidente, qualcosa è andato storto. L’italiano, in generale, ha accettato di tutto: la condizione di restrizione, il vaccino (89,41 %). Il bluff che bastassero due dosi, successivamente la dose booster e l’incertezza. Dopo che la copertura vaccinale è scesa da dodici a sei a quattro mesi, dopo che il Ceo di Moderna sembra aver fatto capire che il booster non durerà a lungo, dopo che Big Pharma ha promesso vaccini aggiornati entro marzo, ora l’Oms

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Il paese degli azzeccagarbugli di Patrizia Rapposelli Pandemia
rinnovato
Vamar Di Conte De Nard Tatiana & c. s.a.s - Via Roma, 1 - 32030 Bribano BL Tel 043782587 - Mail vamarconte@libero.it EMPORIO DELLA MOTOSEGA V.A.M.A.R. PROMOZIONE PRIMAVERA 2022
e governo, ennesima paralisi,
caos.

offre orizzonti bui. Secondo l’Organizzazione, sono necessari nuovi prodotti anti-covid, ripetere booster a gogo non è una strategia applicabile. I ristori non ancora arrivati o briciole e la beffa delle tasse, pervenute e aumentate. In linea di massima il Paese meriterebbe chiarezza.

Lo scorso mese, in occasione del duecentoventicinquesimo anniversario del Tricolore viene descritto uno Stato che non esiste. Fantasia di alcune parti politiche. Un luogo armonioso di coesione sociale, che ha gestito al meglio la pandemia, un posto in cui vi è grande speranza per il futuro. Parlano dell’Italia oggi? A occhio una Caporetto sotto molti aspetti; solo un azzeccagarbugli potrebbe parlare ad oggi come “della battaglia di Zama di romana memori”. L’ottimismo è in chi governa. Gli italiani sono disorientati e confusi. Il caos burocratico non aiuta a

sconfiggere il virus.

La campagna vaccinale, elogiata e difesa, senza altre azioni non basta. Invece di aggiungere arzigogolate regole burocratiche, dare la caccia a un 10% di no vax, dibattere sull’obbligo vaccinale e le multe da 100 euro, spendessero le stesse energie, mentali e mediatiche, anche per potenziare le strutture ospedaliere, i trasporti, gli impianti di ventilazione meccanica nelle scuole, forse, si farebbe tutto il possibile. Da una risposta traballante del servizio sanitario nazionale, all’ottimismo sulla situazione economica, sembra tutta una narrazione. Le risorse economiche non sono infinite, il Pnrr non poteva essere investito in una sola direzione, ma possibile che dopo due anni dallo scoppio della pandemia la risposta al covid non è migliorata? I problemi rimangono rilegati ai non vaccinati, a coloro hanno due dosi di siero, e

all’ostinata apertura delle scuole in presenza.

Mario Draghi, uomo solido di Stato oggi a disposizione del Paese sta facendo i conti con la complessità della politica nazionale, che ha messo in crisi altri pezzi da novanta prima di lui. Definito l’uomo della provvidenza, personifica il bisogno degli italiani, ma deve fare i conti con un’emergenza che non finisce e dall’altra, una burocrazia, che, più che a trovare un’uscita dal virus, è adoperata a fare in modo che l’emergenza prosegua. Nonostante il limite teorico dei due anni imposto dalle norme repubblicane, ad oggi lo “stato di eccezione” lo rinnoviamo sine die, ogni sei mesi. Servono azioni chiare e concrete. Vedremo i risvolti successivi. Intanto siamo di fronte all’ennesimo pasticcio del governo. È paralisi e caos. E certezza che dalla pandemia usciremo con le ossa rotte.

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Il
paese degli azzeccagarbugli

Conosciamo la nostra storia di Nicola Maccagnan

L’ospedale “Santa Maria del Prato”:

Non solo un complesso di edifici destinati alla salute e alla cura delle persone. L’ospedale civile “Santa Maria del Prato” rappresenta per Feltre e per i suoi cittadini qualcosa di decisamente molto più importante, connaturato alla storia di un intero territorio e dei suoi abitanti. Una storia rappresentata da fatti, personaggi, scelte e sacrifici che vogliamo qui ripercorrere in estrema sintesi grazie al supporto qualificato del dottor Gianmario Dal Molin. Cultore ed appassionato di storia e tradizioni locali, docente, figura di spicco nel volontariato e nell’associazionismo culturale locale, Dal Molin è stato anche direttore generale dell’allora ULSS di Feltre nella seconda metà degli anni Novanta.

Dottor Dal Molin, qualche breve informazione storica sulla nascita dell'ospedale di Feltre così come lo

intendiamo noi oggi...

È l'ospedale inaugurato da Mussolini nel 1938, in località “Venture”, nella parte nord della città, allora sostanzialmente disabitata. Era una struttura per quel tempo modernissima, dovuta alla donazione di quel grande filantropo feltrino che fu l'ingegner Achille Gaggia. Qualche anno prima, nel 1934, aveva donato alla città il vicino sanatorio dedicandolo ai suoi genitori, così come intitolerà alla prima moglie Antonietta Lante il nuovo complesso, denominato “ospedale di Santa Maria del Prato”. Da dove trae origine il nome "Santa Maria del Prato"?

Dal vecchio convento ubicato nella zona antistante all'attuale stazione ferroviaria, demolito nell'Ottocento a seguito delle soppressioni napoleoniche, del quale resta tuttora qualche residuale traccia.

In precedenza Feltre ha conosciuto altri insediamenti di tipo sanitario o socio-assistenziale, e gestiti da chi? Nel Medioevo e nell'età moderna esistevano sostanzialmente tre ospizi: quello di Santa Maria del Prato dei

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85 anni di storia in simbiosi e a servizio della comunità feltrina.

Conosciamo la nostra storia

frati minori conventuali, quello di San Vittore, alle falde del santuario, e quello di San Paolo, in zona Telva. Attorno ad essi ruotavano varie "scuole laicali" dotate di proprie risorse e patrimoni che contribuivano al loro mantenimento e alla loro gestione. Nel 1775, per volere del podestà Girolamo Zorzi, scuole e ospizi furono unificati e la loro sede fu individuata nel vecchio e cadente convento di Ognissanti dei frati agostiniani che era stato soppresso dalla repubblica di Venezia, messo all'asta e acquistato dal comune. Esso funzionò dunque da ospedale civile (e a partire dal 1896 anche da manicomio) fino al 1938, quando divenne esclusivamente ospedale psichiatrico. All'ospedale di Feltre sono passati personaggi molto noti della storia del nostro Paese; ce ne vuole ricordare qualcuno e in quali occasioni?

A parte la sporadica presenza inaugurale di Mussolini che nel 1938  era venuto in provincia a proclamare le glorie del regime e che a Feltre restò alquanto indispettito di fronte ad un'opera che non poteva essere qualificata come opera fascista, l'ospedale venne successivamente visitato da personaggi come re Umberto di Savoia nel 1940, dalla consorte Maria Josè, quale presidente della Croce Rossa, nel 1942 , da Alcide De Gasperi nel 1949, dal presidente della repubblica

Gronchi nel 1956 e poi, nel corso degli anni successivi, dai più svariati esponenti politici locali, regionali e nazionali, per lo più nelle circostanze di qualche inaugurazione di nuovi reparti. Quali sono state le tappe più rilevanti della crescita dell'ospedale di Feltre, tali da portarlo ad essere punto di eccellenza in alcune discipline e reparti? Sono sostanzialmente quattro. La prima iniziò nel corso dell’immediato dopoguerra, nel quale la nuova struttura divenne autorevole centro di riferimento per medicina generale, tisiologia, chirurgia e pediatria grazie alla presenza di tre qualificatissimi primari,

quali l’internista Dalla Palma, il chirurgo Binotto e il pediatra Tommaseo. Nel corso degli anni Sessanta e Settanta si ha la seconda fase, con la riforma voluta dal ministro Mariotti. L'ospedale perse la sua natura di Opera Pia, divenendo a tutti gli effetti ente ospedaliero, riuscendo a qualificarsi, al pari di Belluno, come ospedale civile provinciale e ospedale neuropsichiatrico. Per questo dovette in fretta dotarsi subito di nuovi reparti, come oculistica, ortopedia, pneumologia, ginecologia e ostetricia, neurologia, otorinolaringoiatria, fisiatria e potenziare servizi come il laboratorio analisi e la radiologia.

Alcuni reparti vennero sistemati provvisoriamente nel nuovo edificio sorto vicino al torrentello Ligont e intitolato ad uno storico presidente dell’ ospedale, il comm. Enzo Guarnieri, ma che era stato pensato come struttura neuropsichiatrica per pazienti a pagamento o mutuati.

Alla fine degli anni Sessanta fu progettata l'attuale struttura centrale dell'ospedale, grazie anche ad una sottoscrizione obbligazionaria cui i feltrini aderirono con grande generosità e fiducia: una struttura utilizzata progressivamente a partire dagli anni

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Ottanta.

1980 e il 1999 nella quale furono potenziati vecchi servizi come neurologia, nefrologia, fisiatria, radiologia, pronto soccorso e istituiti, alla fine del secolo, servizi nuovi come l'unità coronarica, l'oncologia, la riabilitazione di Lamon, la gastroenterologia, senza parlare dei nuovi servizi sociali e delle varie strutture intermedie nate dal superamento dell’ospedale psichiatrico, chiuso grazie alla legge Basaglia.

In questi ultimi 20 anni si è assistito infine alla quarta fase nella quale è avvenuta la felice assimilazione alle strutture territoriali della Casa di cura “Bellati”, nonché la costruzione dell’importantissimo corpo intermedio nel quale si sono allocati la nuova chirurgia, la radiologia, l'anestesia e il pronto soccorso.

Quale ruolo ha avuto la comunità feltrina nello sviluppo e nella valorizzazione del "proprio" ospedale?

Enorme e soprattutto grazie a due elementi: l’aver avuto amministratori locali e primari fortemente legati all’orgoglio feltrino; ma ancora più vincente è stato negli ultimi 150 anni il ricorrente binomio “città-ospedale”. Nella storia recente di Feltre l’ospedale ha rappresentato, assieme alla Metallurgica, alla Birreria Pedavena, a Lattebusche, all’Università, e anche alla diocesi, il blasone identitario di una città e di un territorio. Sono stati valori ottenuti a frutto di sudore e sangue, poiché a Feltre mai nulla è stato dato gratis, ma faticosamente conquistato, a differenza di altri centri, anche a lei vicini. Se questi valori vanno perduti, la vedo molto brutta anche per il futuro dell'ospedale, perché nessuna istituzione dura a lungo se non ha un forte incardinamento nell'immaginario collettivo della sua comunità. L'esempio tipico è quello dell'università che è passata come una meteora, non essendo mai stata sostanzialmente sentita come elemento identitario della città. Anche in questo caso, possiamo

ricordare alcuni nomi di particolare rilievo?

Non c’è stata nessuna famiglia di nobili o notabili feltrini che non abbia avuto un suo rappresentante nel consiglio di amministrazione dell’ospedale. Nel Novecento sono stati ottimi amministratori ospedalieri personaggi come l'on. Basso, l'on. Zugni Tauro, il cav. Nilandi, l’on. Fusaro, il dottor Padovan e, mutatis mutandis, nella quarta fase, il dott. Simoni e il dott. Rasi. Riguardo ai primari è invece delicato e difficile fare nomi, perché si rischia di escludere sempre qualcuno, ma non c'è dubbio che, accanto ai citati tre “mostri sacri”, non possono non essere ricordati - se non altro per la loro lunga militanza e dedizione operosa ed entusiasta - il prof. Doglioni, il dott. Gasparini, il dott. Pertile e il dott. Moschini. Senza dimenticare alcuni eroici protagonisti dell’“anno della fame”, come il farmacista Benvenuto Bassi, il dott. Arturo Paoletti, il prete Giovanni Comel, lo storico e medico Mario Gaggia, lo psichiatra Gargiulo e Luigi Alpago Novello “l’apostolo dei pellagrosi”. Alcuni di questi (Gaggia, Paoletti e Bassi) anticiparono di tasca propria i soldi per spese indifferibili, venendo risarciti dopo parecchi anni. Viviamo tempi di grandi incertezze,

anche e soprattutto in ambito sanitario, e non solo legate alla pandemia. Come si può strutturare, secondo lei, una sanità pubblica territoriale per restare al passo con i tempi, riuscendo al contempo ad avere dei costi sostenibili?

Agendo su due piani: strutturale e relazionale.

Nel primo caso, con l’adeguamento della spesa sanitaria nazionale ai livelli europei, con il potenziamento della medicina pubblica, della prevenzione e dei rapporti ospedale – medicina di base. Nel secondo caso, creando le premesse per qualificare sempre più medici e infermieri, specie i più giovani, creando spirito di gruppo e identità sociale, legandoli alla comunità e fornendo loro continue occasioni di aggiornamento e di relazione col mondo sanitario regionale, nazionale e internazionale. Un medico preparato, motivato, stimato e oblativo è tutto, sia per l’ospedale che per il territorio. Per demolirli basta poco.

**Le foto storiche sono tratte dal volume “Storia dell’ospedale di Feltre” di Adriano Rota

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Conosciamo la nostra storia

Economia e finanza di Emanuele Paccher

BOT, BTP, CTZ, CCT: cosa sono?

a parità di rischio, mi prometta di darmi di più.

Nel mercato obbligazionario ci si imbatte di frequente in titoli come i buoni ordinari del Tesoro (BOT), i buoni del tesoro poliennali (BTP), i certificati del Tesoro zero-coupon (CTZ) e i certificati di credito del Tesoro (CCT). Ma cosa sono? Per comprendere appieno di cosa stiamo parlando è necessario fare qualche premessa. Le obbligazioni sono titoli di debito (o di credito se si guarda il punto di vista di chi li acquista) che rappresentano una parte del debito di una società o di un ente pubblico. Tipicamente le obbligazioni possono effettuare due tipi di pagamento ai loro possessori: il pagamento delle cedole (si chiamano così in gergo tecnico gli interessi delle obbligazioni) e il pagamento del valore nominale alla scadenza. Perché le imprese o lo Stato hanno interesse ad emettere questi titoli? Le obbligazioni sono emesse per reperire capitali da investire, spesso con un costo inferiore a quello richiesto dalla banca per concedere un finanziamento. Va poi fatta un’altra considerazione di carattere generale: un euro oggi vale di più di un euro tra un anno. L’euro di oggi possiamo investirlo: se ad esempio

lo si depositasse su un conto bancario che frutta interessi del 5%, dopo un anno avremmo 1,05€. Detto ciò, possiamo guardare da più vicino le tipologie di titoli che lo Stato emette con maggiore frequenza. Il tipo più semplice di obbligazione è quella senza cedola, chiamata zero-coupon, la quale non effettua pagamenti di cedole. L’unico pagamento che l’investitore riceverà è il valore nominale dell’obbligazione alla sua scadenza. Ne sono un esempio i BOT, ossia i titoli emessi dai governi con scadenza massima a un anno, e i CTZ, i quali sono dei titoli di Stato di durata pari a 24 mesi. Visto che il denaro ha un costo, e visto che, come abbiamo detto, un euro oggi vale di più di un euro di domani, il prezzo dei BOT al giorno dell’acquisto dovrà essere inferiore al valore che sarà restituito alla scadenza. Facciamo un esempio: se il Governo mi promette di darmi 100 tra un anno, senza alcun pagamento di cedole, io acquisterò questo buono solo se il suo prezzo sarà inferiore a 100, perché altrimenti non avrei alcun guadagno, o per meglio dire, mi converrebbe investire quei 100€ in qualche altro investimento che,

Ma le obbligazioni senza cedola non sono le uniche esistenti. Frequenti sono le obbligazioni con cedola, le quali alla data di scadenza pagano sempre il loro valore nominale, ma in più effettuano dei pagamenti regolari di interessi. È chiaro che qui il pagamento iniziale per poter ottenere un titolo di questo tipo potrà anche essere superiore al valore che alla fine mi verrà restituito, poiché il mio rendimento sarà dato dalla somma finale che mi viene restituita e dalle cedole che periodicamente mi verranno pagate. Rientrano in questa categoria di obbligazioni i BTP, ossia titoli di debito a medio-lungo termine (le scadenze possono essere dai 3 fino ai 50 anni) con cedola fissa pagata ogni 6 mesi, e i CCT, titoli di Stato a tasso variabile di durata pari a 7 anni con cedole ogni 6 mesi.

Come può essere facilmente intuibile, è difficile pensare che un titolo possa dare un rendimento negativo. Tuttavia ciò è capitato e capita ancora. Nel 2015 quasi il 25% delle obbligazioni di Stati europei aveva rendimenti negativi. Alcune obbligazioni svizzere avevano un rendimento del -1%. Come è possibile tutto questo? È facile comprendere che nessuna persona sceglierebbe di investire 100€ oggi per averne 99€ tra un anno. Tuttavia, questi sono titoli molto sicuri. E quindi molti investitori istituzionali e molti fondi pensione investono comunque in tali titoli, per garantire la sicurezza dei risparmi investiti.

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oggi di Francesca Gottardi*

La violenza di genere negli Stati Uniti

lo stato.

Il 25 novembre scorso si è tenuta la Giornata Internazionale per l’Eliminazione della Violenza contro le Donne, designata dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite nel 1999. Negli Stati Uniti la violenza di genere è un problema significativo. Ben tre donne al giorno vengono uccise dal loro compagno. Nel solo Texas avvengono oltre 250 femminicidi all’anno. Il Texas ha inoltre di recente fatto parlare di sé a seguito dell’approvazione di una legge molto restrittiva sull’aborto. È il riflesso di una cultura molto machista, dove le donne ancora faticano a dar voce alle loro istanze.

I numeri

I numeri non dipingono un quadro incoraggiante. Nel Texas avvengono ben il 10% degli omicidi legati a violenza domestica dell’intera nazione. Un numero elevatissimo. Gli aggressori in possesso di armi da fuoco sono particolarmente pericolosi e costituiscono un problema in Texas, dove possedere un’arma da fuoco è un fenomeno relativamente comune (circa il 46% della popolazione

possiede un’arma). Secondo il Dipartimento di Giustizia USA, gli aggressori con una pistola in casa hanno cinque volte più probabilità di uccidere i loro partner rispetto agli aggressori che non hanno accesso a un'arma da fuoco. Le donne rappresentano la gran parte delle vittime di violenza domestica (71%) e i numeri degli omicidi non comprendono le più di 200.000 vittime di violenza non omicida.

Chi contrasta la violenza di genere? In Texas la violenza sulle donne è contrastata principalmente dalle associazioni e dall’azione governativa dell’Ufficio contro la violenza sulle donne del Dipartimento di Giustizia statunitense. Mentre le organizzazioni raccolgono le istanze locali e ne danno risalto in sede governativa, i programmi del dipartimento di giustizia aiutano a finanziare il lavoro di queste organizzazioni. Per esempio, nel 2020, tale ufficio ha finanziato il Texas con più di 18 milioni di dollari per sostenere gli sforzi volti a contenere la violenza domestica in tutto

La legge ha introdotto delle protezioni, seppur marginali, per le vittime di violenza di genere. Per esempio, il Violence Against Women Act del 2013 (riautorizzato nel 2016) tutela le vittime favorendo condizioni più agevoli per trovare un alloggio alternativo e proteggere così le vittime da fenomeni discriminatori. La legge dà inoltre più competenze ai tribunali tribali. La legge limita inoltre il possesso di armi da fuoco a chi ha commesso violenza di genere (5 anni), ed ha introdotto parametri per definire questa il concetto di violenza di genere.  Gli interventi (resi possibili dalle associazioni locali e dai fondi governativi) mirano a sostenere le forze dell'ordine, i pubblici ministeri, i fornitori di servizi alle vittime e i tribunali nel lavorare in modo collaborativo per dare una risposta alla violenza domestica e sessuale. Per esempio, fornendo assistenza legale o predisponendo centri di accoglienza per donne vittime di violenza di genere e dove queste possano trovare rifugio.

La Legge sull’Aborto in Texas

La legge Senate Bill 8 del settembre 2021, che di fatto impedisce alle donne accesso all’aborto sicuro dopo le sei settimane di gestazione ha costituto l’ennesimo affronto all’autonomia decisionale della donna.

Il Texas ha deciso in tal senso in quanto è uno stato molto conservatore e religioso dove la retorica che attira il voto alle urne è quella volta a difendere a spada tratta i diritti del feto, anche se a discapito di quelli della donna. È stata una mossa politica da parte del governo texano dove fra un anno si terranno le elezioni del governatore Texano (oggi in

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Società

carica vi è l’ultraconservatore Greg Abbott). Tra tutte queste prese di posizione politiche però ne va del rispetto della donna e del suo corpo quando si toglie autonomia decisionale su questioni così delicate. Il 2 ottobre 2021 ci sono state proteste in tutti gli Stati Uniti contro questa legge per dar voce ai diritti delle donne. Più di 90 associazioni hanno partecipato all’evento, chiamato Marcia delle Donne.

Texas e Stati Uniti

La realtà USA è molto eterogenea, quindi ci sono sicuramente delle variazioni da stato a stato. Purtroppo, però la violenza di genere è un fenomeno che trascende i confini e che accomuna non solo le 50 realtà statali statunitensi, ma tutto il mondo. In particolare, negli Stati Uniti la presenza di un governo federale che coordina l’azione dei 50 stati aiuta a mantenere un livello minimo di omogeneità legislativa. La più grande

disomogeneità la si nota nei numeri di violenza di genere tra popolazione nativa americana e non. Ad oggi, le donne native americane vengono uccise con un tasso di dieci volte superiore alla media nazionale. In Texas, 4 donne native su 5 fanno esperienza di violenza di genere nel corso della loro vita. A causa della sotto-segnalazione, i numeri effettivi sono quasi certamente più alti di quelli a disposizione.

Il problema della sotto segnalazione

Sono molte le ragioni che possono portare la donna a non denunciare. In primis, a volte la donna è sottoposta ad una tale e prolungata violenza fisico/psicologica che può aver normalizzato la situazione, essere convinta di meritarselo e che la sua situazione non sia poi così grave. Poi c’è un

problema di risorse, non tutte le vittime hanno attorno a loro un sistema di supporto materiale ed emotivo che le aiuti a trovare una via d’uscita. A volte le donne non sanno proprio come fare, a chi rivolgersi, a chi parlare in condizioni di sicurezza. Si possono infine sentire imbarazzate della loro situazione.

*Francesca Gottardi è nostra corrispondente USA

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Conosciamo il territorio di Alex De Boni

La PRO LOCO di STABIE e CANAI

Santa Giuliana è la patrona che viene festeggiata a febbraio nella piccola frazione di Stabie nel comune di Borgo Valbelluna. Qui ha sede anche la storica Pro Loco di Stabie e Canai presieduta da Cesare Colle. Nonostante gli abitanti siano pochi, questa realtà associativa continua a mantenere vive le tradizioni locali vantando una storia importante e gloriosa.

Negli anni settanta la Pro Loco svolgeva alcune manifestazioni sotto il nome di “gruppo Enal Stabie - Canai”, il cui presidente era Romeo Rigo.

Tra le principali attività si ricorda la corsa delle biciclette denominata “cronoscalata Lentiai-Stabie” organizzata in collaborazione con l’Udace di Belluno, la “festa del villeggiante” a Canai con la

“caminada dell’amicizia”, il“ferragosto a Stabie” con giochi vari tra cui il tiro alla fune, la “sagra de San Micel” con la “caminada tra i fonghi” nella quale veniva premiato anche chi raccoglieva più funghi.

La Pro Loco Stabie e Canai nacque ufficialmente il 10 giugno 1976 grazie ad un gruppo di volonterosi: Rigo Romeo, Colle Cesare, Tres Giannino, Rigo Francesco, Roier Ori, Canzan Aldo, Bertuol Luigi, Roier Ido, Colle Dino, Cavalet Mario, Cavalet Edelfino, Tres Remo, Scarton Benedetto e Rigo Angelo. Quel giorno costituirono l’associazione “Pro Loco di Stabie e Canai”, per l'occasione venne redatto anche lo statuto, successivamente ripreso e corretto nel dicembre 1980 al fine di permettere

l'iscrizione all’UNPLI (Unione Nazionale Pro Loco D’Italia) Regione Veneto. Dopo Rigo si susseguirono diversi presidenti fino all'attuale Cesare Colle: Roier Ori guidò l'associazione fino all’1989, dal 1990 la presidenza venne affidata a Tieppo Antonio che la ricoprì fino alla sua morte prematura, avvenuta nel 2004, salvo due interruzioni a nome Dalle Mule Loredana dal 1994 al 1997 e Dalle Mule Fabrizio dal 1998 al 1999. Dal 2004 al 2009 il Presidente di questa Pro Loco è stato Tres Remo. “Con lui abbiamo acquisito un terreno da utilizzare come campetto da calcio ed un piccolo appezzamento dietro la sede donatoci da un nostro paesano”, afferma Cesare Colle Lo stesso paesano donò anche un

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Conosciamo il territorio

cando anche di ampliarle in numero. Con il tempo, purtroppo, non è stato più possibile organizzare la cronoscalata, inserendo la corsa non competitiva in montain-bike diventata ora la corsa in montagna. Dobbiamo però dire che questa Pro Loco funziona come promotore sociale in quanto dalla metà degli anni 70, periodo della sua nascita ad ora, la popolazione residente si è più che dimezzata. Qualche picco importante di persone si può rilevare nei fine settimana quando arrivano i proprietari delle seconde case oppure durante i mesi estivi quando ritornano al paese natio gli emigranti. Senza l'attività della Pro Loco il paese sarebbe destinato a spegnersi inesorabilmente.

momento in cui le ex-scuole sono state vendute alla Parrocchia di Santa Giustina".

appezzamento, vicino al cimitero ed al campetto da calcio, da utilizzare come parcheggio. Come segretari, dopo l’iniziale incarico a Colle Cesare, subentrò poi Cavallet Franco, dal 1982 è Colle Rosanna a ricoprire magistralmente questo ruolo così importante. Una data storica nel panorama associativo locale fu il 12 marzo 1986, quando l’allora presidente Roier Ori, insieme ai parigrado delle Pro Loco di Lentiai, Mel, Trichiana e di Caorera di Vas, costituirono il Consorzio Pro Loco Sinistra Piave al fine di promuovere e coordinare l’attività di questi gruppi nei Comuni in cui operavano.

La maggior parte delle feste della Pro Loco di Stabie e Canai si sono svolte nello stabile delle ex-scuole elementari di Stabie, dove c’era anche la sua sede. In questo fabbricato il gruppo provvide a pavimentare il cortile, nonché alla sua copertura, costruire ed attrezzare una cucina con caminetto e sistemare il pavimento di alcune aule. L’attività di questa Pro Loco ha mantenuto negli anni lo spirito delle feste originali, cer-

"Le nostre manifestazioni sono piuttosto a carattere locale, dato lo spazio nel quale operiamo", afferma il presidente Colle, "dagli anni ’80-’90 ad oggi abbiamo implementato l’attività delle manifestazioni, grazie alla lungimiranza dei presidenti e alla fattiva collaborazione del consiglio al completo, nonché a molti soci e simpatizzanti. Nel 1994 la Pro Loco è diventata proprietaria dello stabile “ex Latteria”di Stabie, che si è rivelato molto utile nel

Nel corso degli anni, grazie all’interessamento dei presidenti ed alla collaborazione del consiglio, nonché al lavoro gratuito ed eccellente di alcuni volonterosi consiglieri e non, sono stati fatti importanti lavori di trasformazione da latteria a sede associativa con una stanza consiliare, una cucina perfettamente attrezzata ed un funzionante caminetto, quest’ultimo opera di Cavalet Edelfino. “Nel periodo 2015-16 e 17 sono stati effettuati gli ultimi lavori e precisamente ben 3 servizi, di cui uno con doccia, deposito e magazzino, sala mescita e spogliatoio al primo piano. In seguito a ciò abbiamo ottenuto l’agibilità per poter svolgere qualche manifestazione anche in questa sede. Particolarmente apprezzata la collaborazione con il “gruppo Giovani Colderù”, iniziata con la partecipazione collettiva e per tre anni di fila a “Natale tra gli Ulivi” a Garda (Verona). Nell’Assemblea Regionale delle Pro Loco 2009 tenutasi a Rovigo, abbiamo ricevuto il premio UNPLICARD con ben 118 iscritti, per una Pro Loco così piccola. Questo è stato motivo di orgoglio perché sappiamo bene che solo con la collaborazione di

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Conosciamo il territorio

il cortile, dove si svolgono le manifestazioni estive. “Già da qualche anno possiamo contare sulla collaborazione dei nostri giovani, che sono preziosi. Noi cerchiamo in tutti i modi di far nascere in loro la passione per il nostro territorio in modo da avere, in futuro, un ricambio che tutti ci auspichiamo. Con la domanda di gennaio 2019 all’UNPLI Regionale, siamo diventati APS (Azienda Promozione Sociale), un importante traguardo in vista dei nuovi sviluppi legislativi in materia istituzionale e fiscale”, conclude Cesare Colle.

Un sentito ringraziamento al fotografo Walter Argenta per la gentile concessione delle foto.

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Mobilità e traffico.

Gli strumenti di indagine (TRA2021-1)

Ci fu un tempo, non molto lontano, in cui chi si occupava di ingegneria dei trasporti affrontava con non poche difficoltà l’esigenza di ricostruzione del contesto in cui operava, dove la conoscenza sulle dimensioni e sulle relazioni di traffico coinvolte stava alla base dell'attività progettuale da sviluppare.

Molto tempo ed energie erano spese nell’organizzare indagini mirate, tanto più complesse quanto più vasta era la porzione di territorio da studiare. Dai più semplici conteggi dei mezzi lungo strada fino alle più impegnative interviste dirette ai conducenti, per comprendere le motivazioni, i luoghi e le necessità poste alla base di ciascun

spostamento intercettato.

Attività che, pur se per pochi giorni, costringevano a mettere in campo un numero non trascurabile di operatori la cui adesione, favorita dalla retribuzione che spesso rappresentava un’occasione semplice di incremento del reddito, non era così entusiastica quando le indagini si sviluppavano nei periodi invernali, in cui nebbia e freddo rendevano il compenso meno attraente. Fin qui quella che possiamo definire preistoria, poi la tecnologia si è insinuata nei metodi di lavoro. Da prima con le apparecchiature automatizzate di conteggio del traffico, basate inizialmente su sensori pneumatici o elettromagnetici e poi sul segnale radar. Tecnologie

che rimuovevano gli ostacoli relativi alla durata della rilevazione o al dover operare anche in periodo notturno, nei fine settimana o con condizioni climatiche più rigide, ma che non risolvevano il limite determinato dall’acquisizione di dati puramente quantitativi, rappresentati dal numero di mezzi, riconoscendo le auto, le motociclette o gli autocarri, ma senza sapere nulla del loro percorso, di ciò che stava al di fuori del punto in cui erano stati contati. Le interviste rimanevano così, di nuovo, la fonte più attendibile.

Arriviamo quindi ad oggi, tempo in cui molta parte delle nostra vita viaggia, in una forma o nell’altra, lungo la rete del network globale, con informazioni

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Vita quotidiana in controluce di Grazioso Piazza

raccolte da strumenti tecnologici di alto livello, entrati d’abitudine nel nostro uso quotidiano.

Si generano nuove fonti di dati che non si esimono dall’investire anche la conoscenza nell’ambito della mobilità e dei trasporti. La grande innovazione assume l’acronimo di FCD, derivato dalla terminologia inglese Floating Car Data, traducibile in Dati Automobilistici Mobili, acquisiti in tempo reale o archiviati in banche dati.

Accade così che molti di noi divengono, anche inconsapevolmente, soggetti attivi non più nell’essere sola causa dei lati critici della mobilità, in quanto utenti della strada, ma anche nei processi che puntano alla loro risoluzione. Cosa sono quindi i FCD? Niente più che i dati georiferiti dei nostri spostamenti, raccolti all’interno di grandi database e aggregati in modo da fornire informazioni anonime sui comportamenti generalizzati, pur se con possibilità di disaggregazione rispetto a taluni parametri.

I navigatori delle nostre auto, le smart box proposte da molte compagnie assicurative, gli stessi smartphone dei conducenti diventano, se abilitati in tal senso, strumenti utili a trasmettere informazioni sugli spostamenti che realizziamo: il luogo di partenza, quello di arrivo, il tragitto percorso, il tempo di viaggio. In funzione della sensori-

stica utilizzata l’informazione può spingersi oltre, fino a descrivere lo stato della pavimentazione stradale su cui i nostri mezzi hanno viaggiato, se con buche o meno.

Il dato non copre, ovviamente, l’universo degli utenti, ma solamente quel campione che fa uso degli strumenti che lo generano, richiedendo che l’informazione venga utilizzata con un attento occhio critico. Tuttavia, lo strumento è in costante crescita e rende l’informazione statisticamente significativa in contesti sempre più ampi.

La sorgente del dato determina, ovviamente, anche quali siano le informazioni e il dettaglio con cui esso sarà reso disponibile. Se la fonte è rappresentata dai gestori di telefonia mobile, essi potranno in genere contare su una traccia costruita tramite triangolazione delle celle a cui il telefono si aggancia per stabilire un contatto. Dove i servizi o le dotazioni possono contare anche sulla presenza di un ricevitore GPS (sistema di posizionamento globale), è lo strumento stesso a fornire informazioni dirette e di buona precisione sulla propria posizione. Parliamo

quindi di qualcosa che si inserisce a pieno titolo nel mondo dei Big Data, grandi masse di dati che descrivono, qui come in molti altri ambiti, le nostre abitudini, vincolate al rispetto di specifiche norme a tutela della nostra privacy.

Ne consegue l’obbligo, trasversale a tutte le fonti di fornire il dato in forma anonima e con un dettaglio che non permetta di risalire a quelli che sono i luoghi personali degli utenti coinvolti, come la casa o il posto di lavoro.

Ciò a cui dobbiamo pensare, quindi, non è quanto essi possano svelare di noi, ma come il nostro contributo informativo possa sostenere iniziative e scelte che mirano a risolvere le problematiche che ci investono direttamente quando ci troviamo su una strada. Tanto più in quanto a beneficiarne non sono i soli operatori tecnici di settore, ma noi stessi in forma diretta, nel momento in cui, ad esempio, al navigatore dell’auto viene reso possibile conoscere come, alcuni chilometri avanti a noi, vi sia la presenza di rallentamenti o di code, potendo quindi proporre itinerari alternativi. Un aiuto costruito, appunto, tramite i FCD di quegli utenti che, anticipandoci lungo il tragitto, trasformano la loro esperienza in un contributo che determina il nostro beneficio.

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Vita quotidiana in controluce

L'Arca dei Volti Aps

Se pensate che le maschere siano confinate al periodo di Carnevale vi sbagliate di grosso! O, almeno, di certo non la pensano così all'associazione “L'Arca dei Volti Aps” che, grazie al costante impegno del Presidente Beppino Lorenzet, della sua Vice Sara Andrich (entrambi bellunesi) e dei i diversi soci, le ha messe al centro delle proprie attività culturali e didattiche. Lo scopo dell'Associazione è infatti diffondere la storia e la conoscenza della maschera e in particolare quella di legno, prodotto artistico/artigianale che vanta una tradizione antichissima soprattutto lungo l'arco Alpino.

Le maschere, più in generale, sono un artefatto culturale antico quanto l'Uomo: già durante il Paleolitico Superiore, come dimostrano diverse testimonianze di arte rupestre in Europa e in Africa, le maschere venivano associate a pratiche di magia, danze di caccia e cerimonie funebri ma non esiste epoca storica o cultura che sia rimasta indenne dal loro fascino. Dal teatro greco alla Commedia dell'Arte, dai manufatti etnici africani, canadesi o dell'isola di Bali o più semplicemente le maschere dell'

odierno Carnevale sono solo pochissimi esempi di un elenco che potrebbe continuare all'infinito. Ma se la loro diffusione è cosa certa, meno certa è la loro funzione e ruolo tanto che antropologi, psicologi e storici si trovano in difficoltà a darne un significato univoco visto che, a conferma delle sue proprietà metamorfiche e magiche, la maschera assume nei diversi contesti significati opposti.

La maschera può essere religiosa o scherzosa, può servire per celare il volto o per ridicolizzare un individuo o un'istituzione, può rappresentare tanto un demone quanto un folletto benefico del bosco. Anche i materiali utilizzati possono essere dei più svariati, dai più umili e deperibili ai più preziosi e capaci di sfidare i millenni, come celeberrima la maschera funebre del faraone Tutankhamon ad esempio. Tornando più vicini a noi, i Carnevali nel bellunese con le maschere lignee ad essi associati sono un appuntamento da non perdere per la ricchezza di cultura, musica e divertimento.

Come tutte le tradizioni anche le maschere folkloristiche bellunesi hanno visto affievolirsi per un certo periodo la loro fama ma sono oggi ritornate con più vigore e con nuova energia. Ed è proprio di questo che si occupa l'Arca dei Volti Aps che con i suoi soci però non si limita alla mera riproduzione filologica delle antiche maschere: al contrario, l'associazione è alla continua ricerca

di nuovi prodotti creativi, collabora con i giovani studenti di Istituti artigianali, scolastici e professionali, inventa e fa evolvere le forme di questa antica arte. Inoltre, alle classiche lezioni in aula, l'associazione si sta sempre più spesso muovendo anche in campo performativo nelle strade e nelle piazze, studia coreografie capaci di intrattenere un dialogo e una riflessione sul ruolo della maschera anche ad un pubblico casuale in momenti dell'anno lontani dal Carnevale.

Bellissimi sono il loro ex-tempore pubblici o l'esposizione di maschere in luoghi inconsueti come il recente allestimento nel Municipio di Soverzene. Grazie alla complicità (e a un pizzico di ironia) del sindaco Giovanni Burigo e della consigliera alla cultura Annalisa Savi, per qualche tempo la sala consigliare si è trasformata in un esposizione di decine di maschere che sono riuscite ad attrarre e a far riflettere su temi profondi numerosi cittadini e turisti. D'altronde, come ci tiene a ripetermi più volte il Presidente dell'associazione Lorenzet, la maschera “è una cosa viva e appartiene a tutti noi, tutti i giorni. Ecco perché è importante che tutte le maschere che produciamo noi soci scultori non abbiano limiti su temi o fantasia: l'unico vincolo che diamo anche ai nostri studenti è che le maschere siano effettivamente indossabili. Altrimenti, la maschera non avrebbe senso alcuno”.

L'Arca dei Volti APS è aperta ad ogni nuova collaborazione e ad accogliere chiunque sia appassionato della maschera e dei suoi valori. Per info: arcadeivolti@ gmail.com

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Società oggi di Monica Argenta
Associazione Veneta di Mascherai volta a promuovere la storia e la conoscenza della maschera lignea.

Società e religione di Alex De Boni

La fede in tempi di pandemia

La pandemia che ha colpito il Mondo ha drasticamente segnato e modificato i nostri stili di vita, siamo passati da una piena e personale libertà di scelta all’essere condizionati quasi a 360 gradi da fattori esterni. La società sta lentamente adattandosi ad un nuovo modello di vita, consapevoli, chi più chi meno, che quello che avevamo prima probabilmente non tornerà più. In questi anni anche il concetto della fede è cambiato molto, probabilmente visto più come un aspetto di privata intimità che come condivisione nelle cerimonie religiose. A parlarci di questo è il parroco di Lentiai Don Luca Martorel che analizza come la Chiesa abbia dovuto fronteggiare la distanza dai propri fedeli.

Pandemia: cosa ha significato per Lei il distacco quotidiano dai fedeli?

È stata una grande sofferenza. La fede (almeno per i cristiani, ma non solo) si esprime non solo personalmente, ma anche in forma comunitaria. Chiesa significa assemblea. La fede non è un fatto privato o intimistico, anche se oggi molti la preferiscono così perché più comoda: in fondo si deve render conto solo a se stessi. Dalla scelta di fede infatti deriva il comportamento morale che determina le relazioni. Quindi ha a che fare con gli altri. L’idea che si possa essere cristiani senza bisogno della comunità credente è completamente disorientata.

Ritiene che il covid abbia allontanato le persone dalla fede o viceversa?

Non c’è più religione! Per dirlo con una battuta. Ma non è proprio così. Le conseguenze di questa epidemia stanno lasciando strascichi preoccupanti e hanno ampliato il divario tra credenti e indifferenti. Dalla mia parziale lettura della situazione, ho notato che coloro che avevano già prima un cammino spirituale serio, hanno confermato e rafforzato la loro fede. Qualcun altro è stato toccato dalle domande profonde su sé e sul senso della vita, su Dio e la sua operosità e ha deciso di intraprendere un percorso di ricerca spirituale o di ritornare alla fede “attiva” dopo anni di sospensione. Altri hanno approfittato della situazione e con educata indifferenza hanno chiuso quasi definitivamente con la fede. L’epidemia ha inferto il colpo di grazia alle scelte di comodo, le mezze scelte, a quei cristiani di nome e non di fatto.

Denota un aumento di un fenomeno che sembra sempre più presente, ossia odio sociale derivante da tutte le restrizioni che le persone hanno subito?

Secondo me non c’è più odio, ma più pigrizia, svogliatezza, indifferenza e una pericolosa noia sociale che può portare alla violenza. Ma la causa non sono le restrizioni.

È evidente che, come dice papa Francesco, questa non è solo un’epoca di cambiamento, ma un cambiamento d’epoca.

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E come tutti i cambi, fa paura. Senza dubbio la situazione causata dal virus sta cambiando anche la fede e la religiosità di numerose persone. Ovviamente non si può generalizzare, è piuttosto una tendenza. In alcuni casi crolla il senso di appartenenza alla Chiesa, e non l’istituzione con le sue pesanti strutture che già da tempo è in crisi; ma la parrocchia, cioè la comunità cristiana. Cala la necessità della Messa festiva e dei sacramenti. Cresce l’indifferenza religiosa. E questo mi preoccupa perché senza la fede e una prospettiva di senso, si smarrisce la speranza e la vita diventa grigia.

Che messaggio si sente di dare a chi ha perso la speranza?

Ripartire dalla fraternità. “Abbiamo sperimentato che siamo tutti sulla stessa barca e che nessuno si salva da solo”; lo dice papa Francesco.

Per chi è cristiano, fraternità si traduce con comunione. Il credente credibile cerca anzitutto l’alimento necessario per la sua vita nella fedeltà alla Messa e nella quotidiana preghiera. Di conseguenza sente l’esigenza di appartenere a una comunità cristiana; la comunione in parrocchia non è un’esigenza aziendale,

Società e religione

ma il solco indispensabile per la speranza. Comunione non è confusione, ma è garanzia di una identità di fede salda e radicata, capace e disposta a dialogare con tutti.

Se guarda al futuro, da religioso, cosa vede?

Penso che molta gente oggi abbia una grande fame di speranza; che sia disorientata, forse anche delusa dalla Chiesa, ma sostanzialmente buona e alla ricerca sincera di risposte vere.

La diaspora dei cristiani di tradizione, quelli che si vedono solo la notte di Natale e a qualche funerale, o quelli che si presentano in parrocchia solo per la prestazione religiosa del battesimo, ci permette ora di parlare chiaro, senza paura di offendere questo o di indispettire quello.

Le parrocchie sono anche “ospedale da campo” come usa dire papa Francesco, e devono continuare ad esserlo

per curare le ferite e le miserie umane con la medicina della misericordia. Però la misericordia non ha un effetto placebo. Prima di curare una ferita la si deve disinfettare, e brucia. Anche la verità, che per i credenti è l’esigente parola di Gesù, brucia. Verità e misericordia. Forse, col tentativo di dare un colpo al cerchio e uno alla botte o di salvar capra e cavoli, abbiamo contribuito a confondere la verità con l’individualismo e la misericordia con la compiacenza. Per esempio, abbiamo smesso di dire ai cristiani che perdere Messa la domenica è peccato mortale, abbiamo ammesso chiunque ai sacramenti, anche senza catechesi. Abbiamo, di fatto, accettato come buone scelte di vita non conformi al Vangelo… perché ora il mondo va così!

Alla evangelica ricerca di essere Chiesa accogliente (inclusiva come si usa dire adesso) è spesso prevalso il timore dell’accusa di intolleranza e discriminazione; all’evangelico invito a scelte radicali fedeli al Vangelo e al battesimo è prevalso un subdolo e pericoloso silenzio consenziente.

Penso che le nostre comunità cristiane, oggi ridotte ai minimi termini, abbiano l’opportunità di tornare a parlare di Dio e di dire una parola schietta e credibile sulla vita e sul mondo.

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cellio (1577-79), il quale dipinse pure gli Apostoli sulle pareti della navata centrale della stessa chiesa. Dietro l’altare maggiore, grandiosa l’opera pittorica frutto della bottega di Tiziano, che di sua mano dipinse sicuramente la prima figura in basso a sinistra (S. Tiziano); mentre la tela centrale, con l’ Assunta, è probabile opera di Francesco Vecellio.

Di pregio possiamo fra le altre annoverare anche una Crocifissione di Palma il Giovane (1599-1602), un Crocefisso di Francesco Frigimelica, una Ma-

donna col Bambino e due Santi di Giovanni da Mel. Nel 1880 la chiesa venne

dichiarata Monumento Nazionale. Nei periodi successivi ai due conflitti mondiali la parrocchia subì molti furti. L’ultimo importante intervento di restauro risale al periodo 2000 –2003, lavori che hanno riguardato tutto il complesso, sia dal punto di vista strutturale che da quello artistico

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La

ragazza copertina di Armando Munaò Beatrice…bellezza acqua e sapone

Dialogando con Beatrice, ci si accorge che nonostante la sua giovane età, ha da poco compiuto 18 anni, dimostra di possedere una capacità di sintesi e analisi come poche e di aver già appreso i valori fondamentali della vita. Una ragazza “acqua e sapone” senza i tradizionali “grilli per la testa” con indiscutibili riferimenti che provengono, come lei stessa sottolinea, dagli insegnamenti della sua famiglia, nessuno escluso. Principi dove i valori morali, l’educazione, l’amicizia e il rispetto per le altrui persone, sono i pilastri del suo essere e che caratterizzano il suo quotidiano comportamento. Beatrice ci ha colpiti non solo per la sua simpatia e bellezza “genuina”, ma anche e soprattutto per la sua semplicità, per l’empatia che riesce a trasmettere e per la capacità che ha saputo dimostrare nell’esprimere e nel significare i suoi alti valori educativi.

Beatrice, cos'è la bellezza?

A mio avviso la bellezza è un carattere soggettivo che non deve essere per forza una bellezza esteriore perchè alla fine tutti noi invecchiamo e quindi la bellezza esteriore si trasforma e perde le sue caratteristiche mentre quella interiore rimane, anzi si fortifica e migliora.

E se posso oserei dire che grazie alla bellezza interiore e al nostro carattere si potenziano i rapporti umani in ogni

senso e significato. Capita, e non di rado che una ragazza attrae l'interesse degli altri per la sua bellezza, ma poi dialogando ci si accorge di altre caratteristiche che magari non entrano e non fanno parte nel suo mondo. E i rapporti con la tua famiglia?

La mia famiglia è la cosa più importante che ho, in tutti i sensi. Sono sempre i miei veri punti di riferimento. Con tutti i componenti ho un rapporto veramente speciale, soprattutto con i

nonni. E non mi vergogno di dire che sono stati anche loro, i miei nonni, per fortuna tutti ancora in vita, che hanno partecipato e migliorato la mia crescita. Ed è grazie ai miei genitori e ai miei nonni che ho appreso e messo in essere tutti gli insegnamenti di vita e tutti consigli che continuamente mi danno. Ed è per questo che non finirò mai di ringraziarli. E mi permetta di aggiungere che noi, e in noi comprendo tutta la mia parentela, siamo una famiglia molto unita che basa la sua essenza su radici e principi veramente molto solidi.

Beatrice, hai parlato di valori e quindi ti chiedo: a tuo parere la società odierna ha perso quei valori che dovrebbero caratterizzare il comportamento e il “modus vivendi” di ragazze e ragazzi?

Secondo me si'. Ed è un sì forte e chiaro. Soprattutto perchè la gioventù odierna pensa molto e si fa condizionare più dall'apparire che dall'essere. E sovente ci si dimentica che devono essere i veri valori sui cui basare la nostra vita. E, per

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La ragazza copertina

pose o atteggiamenti decisamente non pudiche.

Hai mai partecipato a concorsi di bellezza?

No, non ho mai partecipato a concorsi, anche se ho avuto qualche opportunità di farlo.

E ti piacerebbe fare parte del grande universo moda e bellezza?

esperienza vissuta, posso affermare che, purtroppo, sono pochi i giovani che hanno veramente un rapporto “intenso” con la propria famiglia. Magari forte con le amicizie, ma non con i propri genitori o i parenti stretti. Credo di non sbagliare se affermo che molti valori di vita e comportamentali sono stati persi in una società spesso caratterizzata da superficialità e dal “non rispetto” per le altrui persone, specialmente da parte dei “maschietti”.

E per quanto riguarda le tue amicizie e il significato di amicizia. La tua opinione?

Non nego di essere e di considerarmi

una persona estremamente socievole e portata ai rapporti con le altre persone. Credo di avere un carattere decisamente aperto ed estroverso che mi porta a stabilire con le persone, ma soprattutto con gli amici, frequentazioni veramente speciali.

E credo nella vera amicizia, a questo particolare sentimento fatto di sincerità, rispetto, altruismo e soprattutto dal volersi bene.

Beatrice, sempre di più nel nostro quotidiano assistiamo, da parte dei ragazzi, ma soprattutto di ragazze, a un utilizzo non corretto dei social, sovente usati per mettersi in mostra con atteggiamenti molto discutibili che a volte rasentano la volgarità.

Personalmente sono una persona poco “social” nel senso che non uso e non frequento il web. Mi piace stabilire rapporti concreti con le persone che conosco e apprezzo e con le quali riesco ad avere una buona intesa. Ognuno di noi, poi, ha la libertà di fare ciò che desidera e ritiene opportuno e quindi non mi permetto di giudicare i comportamenti altrui, anche se, a mio modesto avviso, sono o possono essere sbagliati e discutibili, specialmente quando le ragazze, per il solo piacere di avere like e o apprezzamenti, pubblicano le loro foto anche in

Forse sì, anche se ho altre ambizioni nella vita quale, per esempio, entrare nel mondo sanitario, che è la mia vera passione. Tornando alla sua domanda, e se capitasse una buona opportunità, credo che accetterei, ovviamente sempre nel rispetto dei propri sani e concreti principi di vita e senza scendere o accettare compromessi. Ma

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La ragazza copertina

ripeto, il mio obiettivo futuro è quello di entrare nel campo medico. Ci dicono che da quando avevi 5 anni hai iniziato a praticare sport in più discipline. Ci racconti?

“Sì, effettivamente ho iniziato a fare sport sin da quando avevo cinque anni, forse per emulare le campionesse della corsa campestre, una disciplina che allora mi attraeva e non poco. Poi, con il passare del tempo e considerata anche la mia altezza, ho iniziato con la

pallavolo. Dapprima tesserata per l'ASD Genzianella di Telve di Sopra e poi con il G.S. Ausugum.

Nel 2017, però, avviene una svolta decisiva, forse per una particolare predisposizione fisica, perché sono ritornata al mio vecchio amore, a quell'atletica, che aveva motivato i

miei primi passi sportivi e agonistici. Non più però nella corsa, ma nel salto in alto, la mia attuale disciplina che mi coinvolge “anima e corpo”. Ed è proprio nel salto in alto che ho trovato le vere motivazioni sportive per emergere agonisticamente e ottenere risultati di tutto rilievo. Nel 2018, infatti, tesserata per la Polisportiva Borgo, mi sono laureata campionessa italiana CSI di salto in alto nella categoria cadette e stesso anno sono stata selezionata, unica atleta della provincia di Trento nel salto in alto, a fare parte della rappresentativa regionale ai campionati italiani FIDAL. Ma è nel 2019 che avviene il grande salto perchè vengo acquistata dall’ Associazione Quercia Trentingrana di Rovereto. Un passaggio che, di fatto, mi ha dato la possibilità di partecipare in un panorama nazionale e in gare di alto livello agonistico. E infatti, con la mia nuova società, nel 2020 e 2021, divento campionessa regionale di salto in alto di categoria. Un traguardo ambitissimo che mi ha gratificato e reso felici coloro i quali hanno creduto nelle mie possibilità. Mi permetta di sottolineare che in tutte le associazioni sportive cui ho fatto parte, mi sono sempre trovata bene sia per l’amichevole atmosfera, sia per il buon rapporto instaurato con i compagni, ma

soprattutto con i vari responsabili che hanno sempre motivato e creduto nelle mie possibilità e capacità atletiche. Ed è per questo che desidero ringraziarli per gli insegnamenti e per il continuo sostegno che hanno saputo darmi”. Ognuno di noi ha un sogno nel cassetto. Il tuo?

Intanto riuscire a crearmi un futuro stabile e poi una famiglia con la quale

trascorrere in tutta serenità la mia vita futura. Al momento sono fidanzata con un ragazzo che adoro e con il quale sono riuscita a stabilire un fantastico rapporto.

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Un ringraziamento particolare alla “ Locanda in Borgo” per la gentile collaborazione e per la location messa a disposizione per il servizio fotografico.

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FARE IL DJ

cinquecento lire all'ora, mi portavo i dischi di mio fratello da casa e quando entravo in studio, mi sembrava di essere in un luogo sacro. Quasi di culto. Aggiungo che la stessa gioia di indossare le cuffie è rimasta intatta. Non mi comprerò mai una Ferrari, ma in fondo per arrivare qui, nei nostri studi, posso farlo anche in tram. Oggi non possiamo nemmeno più dire che le radio regionali siano confinate nel proprio territorio. Internet ha aperto un mondo nuovo, o per meglio dire, lo ha rimpicciolito. Grazie alla rete, riceviamo mail, messaggi da tutto il mondo. Di solito sono trentini emigrati, magari di seconda o terza generazione, che scrivono dall'Argentina, dal Brasile e ammetto che quando capita ti si gonfia il petto di soddisfazione. D'altronde eravamo abituati negli anni ottanta a salutare quelli di fronte.

Ci sono anche le radio internet, che in certo senso hanno ripetuto la stagione delle nascite di emittenti. I costi sono molto meno ovviamente, niente ponti, postazioni, elettricità, riparazioni in montagna, acquisto frequenze. Trovo che sia una buona cosa, forse in questo modo anche i giovani avranno la curiosità di ritrovare il gusto di farsi raccontare delle cose. Ammetto di essere un pochino contrario alla webcam. Far vedere una radio non ha molto senso perché crea un buco alla fantasia. Quante volte abbiamo immaginato un volto dietro una voce, nella nostra mente lo forgiamo grazie ai nostri desideri.

Ma se a queste voci dai una faccia... ma queste sono considerazioni che escono a ridosso dell'uscita dei dati di ascolto.

Radio Dolomiti è ancora al primo posto nelle preferenze, non è una buona ragione per sedersi sugli allori, ma uno sprone a fare sempre meglio.

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La galleria di Waimer Perinelli

SEBASTIANO RICCI: GIALLO A VENEZIA

L'ombra furtiva di un uomo avvolto nel mantello nero, si aggira nella notte fra le calli, viuzze e campielli di Venezia. A Rialto l'aspetta una battana che lo porterà alla terraferma e da qui a Bologna. Ha fretta, lo accusano di avere avvelenato la sua amante ed egli ha scarse possibilità di discolparsi. Quell'ombra è di Sebastiano Rizzi, di professione pittore, che conduce in realtà una vita molto avventurosa e il tentativo di avvelenamento, fortunatamente la donna sopravvisse, sembra confermato dal comportamento dell'uomo.

Siamo nel 1681, Sebastiano è nato a Belluno nel 1659 da Livio e dalla moglie Andreana. Appena ventiduenne ha contratto promessa di matrimonio con Antonia Maria Venanzio, una fanciulla di diciassette anni dalla quale aspetta un figlio ma contemporaneamente attende un erede anche da Marietta Bellandis. In questa intricata

situazione amorosa e sociale s'inserisce il sospetto, per alcuni studiosi solo leggendario, del tentativo di avvelenamento, caduto definitivamente nel 1684 quando Sebastiano convolò a nozze con la presunta vittima. Prima di proseguire nell'intricata vita sentimentale e professionale di uno dei più grandi artisti bellunesi del secolo dei Lumi, sarà meglio spiegare che egli è più conosciuto come Sebastiano Ricci, cognome che gli venne attribuito o recuperato nel Ventesimo secolo quando numerosi studiosi si sono interessati più delle sue opere che della vita. Oggi si è propensi a credere che la sua fuga in realtà fosse solo un viaggio organizzato per cercare in Emilia quell'ispirazione

e quelle committenze venute a mancare con la morte del maestro veneziano Sebastiano Mazzoni. La sua arte lo porterà poi a viaggiare in tutto il mondo da Roma a Firenze, Parma, Londra, Vienna.... Per Sebastiano Ricci il talento artistico e l'intelligenza pratica furono gli strumenti per la promozione sociale, per agguantare una vita agiata che le relativamente umili origini non gli avrebbero certo consentito di avere. La sua istruzione era modesta e superficiale ma il suo notevole talento lo portò a lasciare Belluno per Venezia dove svolse l'apprendistato nelle botteghe prima di Federico Cervelli e poi di Sebastiano Mazzoni. Con tali maestri perfezionò le capacità artistiche e apprese l'arte non meno importante delle relazioni sociali con cui, ancora giovane coltivava amicizie con personaggi ricchi e potenti. Secondo alcune fonti proprio la stima di una Nobil persona, appartenente alla famiglia Pisani, sarebbe alla base del suo salvataggio nel malaccorto tentativo di avvelenamento dell'amante. In casa di Ferdinando Pisani il pittore trovò

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infatti rifugio a Bologna.

Sebastiano Ricci talentuoso, intelligente e pratico nel suo girovagare artistico ha avuto il tempo di lasciare innumerevoli opere nella sua Belluno, a Feltre e in tutto il Veneto. In occasione dei 350 anni dalla nascita, il suo valore è stato riconosciuto con l' istituzione da parte della Regione Veneto di un comitato preposto all'organizzazione nel 2010 di una serie di eventi e mostre che hanno coinvolto la sua città natale e tutto il territorio. Vi hanno aderito il Comune di Belluno, la Città di Feltre, la Diocesi di Bel-

luno - Feltre, le Province di Venezia, Padova e Treviso.

L'iniziativa ha portato al Museo Diocesano di Arte Sacra di Feltre e in altri luoghi deputati, importanti pale provenienti dalla Certosa di Vedana (a Sospirolo), due notevoli sanguigne del Ricci provenienti dal Seminario Gregoriano di Belluno e, per la prima volta visibili insieme, i quattro dipinti ovali realizzati, tra il 1719 e il 1722, per la cappella della Sacra Famiglia nella Villa Fabris-Guarnieri di Tomo (Feltre). L'iniziativa è stata un viaggio tra le due città con il coinvolgimento di quattro sedi nelle quali sono state esposte 30 opere. La mostra è stata però e soprattutto l'occasione per la riscoperta e riflessione su questo artista capace di liberarsi sia dalle pastoie del provincialismo sia dalla prevalenza culturale della moda e imporre a Venezia e in Europa un gusto nuovo e apertamente rococò, con i suoi effetti vivaci, scintillanti, ricchi di luce e di colore. Un artista completo, frequentatore di miti e di storie universali, capace di aprirsi al mondo. E il mondo è ricco delle sue opere che troviamo a San Secondo Parmense dove, in collaborazione con il Bibbiena, lavorò alla decorazione dell'oratorio della Madonna del Serraglio; nel palazzo Farnese a Piacenza dove eseguì il ciclo

di storie di Papa Paolo III. Nell'esperienza alla corte dei Farnese s'inserisce un nuovo giallo, testimonianza che Sebastiano aveva perso il pelo ma non il vizio. Il favore dei nobili Farnese nei confronti di Ricci fu fondamentale quando, tornato a Bologna nel 1688, il pittore intrecciò una relazione con Maddalena Peruzzini, con la quale scappò

a Torino, dove fu condannato a morte per rapimento e bigamia; tale sentenza venne in seguito abolita, grazie all’intervento del duca di Parma, con l’unica clausola che l’artista non tornasse mai più nella città piemontese. Rifugiatosi presso la corte dei Farnese il pittore venne insignito del titolo di «servitor familiare». Sebastiano Ricci fu poi a Roma dove affrescò parte Palazzo Colonna, poi a Milano in San Bernardino alle Ossa, naturalmente a Venezia con moltissime opere e ancora Padova e Vienna con l'affresco al castello di Schoenbrunn, a Firenze e in Inghilterra dove assieme al nipote Marco lavorò per lord Burlington e altri committenti. Fu anche a Parigi, dove conobbe Antoine Watteau. La sua vita si concluse a Venezia nel 1734.

53 La galleria

Grazia Deledda il premio Nobel dimenticato

Grazia Deledda è l'unica scrittrice italiana ad essere stata insignita del Premio Nobel per la Letteratura. Nonostante questo riconoscimento metta in evidenza l'indubbio valore delle opere della scrittrice nuorese, per la critica letteraria la Deledda non viene inserita nei manuali di Storia della Letteratura. Ma com’è possibile? Il mistero si può forse svelare se lo si affronta come una questione di genere. Ma prima di parlare di questo, vediamo di conoscere un po’ di più questa scrittrice.

giornali e riviste. Nelle sue prime novelle racconta le vicende di uomini e donne sarde che vivono le tradizioni della sua terra, ma descrive anche emozioni e sentimenti che emergono dalle pieghe dell’anima dei suoi personaggi.

A Nuoro però non amano questi suoi scritti sia perché non va bene che lei diffonda le loro storie ma anche perché non sta bene che una donna si dedichi alla scrittura.

La disapprovazione dei suoi concittadini riverbera attorno a lei tanto che un giorno, durante la santa Messa, il sacerdote interrompe addirittura l'omelia per intimare a Grazia di smettere di scrivere.

figli, e padrona di casa accorta, ma ogni pomeriggio, per un’ora e mezza, la Deledda si rinchiude nel suo studio e scrive. In meno di due ore al giorno Grazia Deledda scrive 56 opere tra novelle, romanzi e testi teatrali. Con alcuni dei suoi testi saranno anche realizzati dei film.

La Deledda è la prima scrittrice italiana che fa solo la scrittrice, che vive, e mantiene la famiglia, grazie ai proventi delle sue opere. Infatti, quando il suo successo è consolidato, suo marito lascia addirittura il lavoro al Ministero delle Finanze per diventare l’agente della moglie.

Grazia Deledda nasce a Nuoro nel 1871 da una famiglia benestante, quinta di sette figli. Frequenta la scuola solo fino alla quarta elementare perché a fine Ottocento si ritiene ancora che una donna non abbia bisogno di una solida formazione culturale. Ma lei è curiosa e ha grande voglia di imparare; così i genitori accolgono questo suo desiderio e le affiancano un insegnante che parla quattro lingue oltre al latino. Il maestro e la ricca biblioteca paterna contribuiscono ad ampliare gli orizzonti letterari di Grazia e a nutrire il suo sogno di diventare scrittrice.

A soli 15 anni pubblica la sua prima novella in un giornale locale. Questo la incoraggia tanto che, dopo essersi consultata con scrittori e intellettuali, inizia a collaborare con

La giovane mal sopporta la chiusura di quell’ambiente arcaico che vuole tarpare le sue ali e sogna di trasferirsi a Roma. Ma per una ragazza di buona famiglia l'unico modo per riuscire ad andare via dal paese è un matrimonio: deve quindi trovarsi un buon partito con cui approdare sul continente.

Un giorno, ad una festa, viene coinvolta in un gioco; le viene chiesto chi sposerebbe tra le persone presenti. A quella festa c’è un bel giovane, un funzionario pubblico di origini mantovane, Palmiro Madesani. Lei non lo conosce, ma dichiara di voler sposare proprio lui. E il gioco diventa realtà tanto che lui la chiede in moglie e due mesi dopo i due si trasferiscono a Roma, già maritati.

Nella capitale Grazia Deledda vive due vite in una: nella maggior parte della giornata è moglie fedele, madre affettuosa, avrà due

A Roma entra in contatto con intellettuali, scrittrici e artiste dell'epoca: diventa amica di Eleonora Duse, Matilde Serao e Sibilla Aleramo.

Nel 1927 le viene conferito il premio Nobel per la letteratura, unica donna italiana ad essere insignita di tale riconoscimento e muore nel 1936 a Roma.

Grazia Deledda si affaccia, col suo prepotente successo, sul panorama nazionale e internazionale, ma la critica letteraria italiana la snobba. Com’è possibile che accada questo a un premio Nobel?

Probabilmente i motivi sono più di uno e possiamo definirli come questioni di genere.

Innanzitutto la Deledda è una donna e, nell'Italia maschilista e conservatrice di inizio secolo, le donne stanno bene ai fornelli.

Dopo la Grande Guerra, anche la propaganda fascista ribadisce che il ruolo della donna è quello di angelo del focolare.

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Il personaggio di ieri di Silvana Poli

COM'ERA FREDDA LA MIA VALLE: INVERNI GELIDI A TRENTO E FELTRE

Recita un antico detto: Se vuoi vivere all'inferno vivi a Trento d'estate e a Feltre d'inverno. In realtà le due città, rivali per storia politica ed ecclesiastica, tradizioni ed economia, si contendono il primato del clima stagionale più per passione competitiva e campanilistica che per gradi centigradi. Le statistiche ci dicono che entrambe sono calde d'estate e freddine l'inverno, con qualche variazione determinata dal vento che in Trentino, grazie all'Ora del Garda, soffiava con forte intensità il primo pomeriggio. Ma le statistiche ci dicono anche che raramente ci ricordiamo estati caldissime, mentre per entrambe è rimasto il ricordo di inverni veramente rigidi: gli anni in cui ha soffiato forte il Burian o Buran, come lo chiamano i russi, nelle cui steppe il vento gelido è capace di fare scendere le temperature a meno 30-40 gradi, soffiando a oltre cento chilometri l'ora. Era Burian quello che nel 1930 spazzò il bellunese, a Campolongo in particolare,

dove la temperatura scese a 37 gradi sotto lo zero. Un inverno terribile con scarse difese contro il freddo. I muri della casa riscaldati o da una stufa a legna o dal focolare, con un solo vetro alle finestre, una coperta, e il letto intiepidito da uno scaldaletto o prete. Questo era costituito da due semiarchi uniti ad una data distanza da due stecche triangolari; una specie di barchetta nella cui parte interna alta si appendeva con un gancio lo scaldino, in dialetto chiamato cecia e anche monaca, composta da un braciere di ferro o rame riempito con le braci prelevate dalla stufa o dal camino. Prima di coricarsi si toglieva l'accoppiata e si godeva il caldo delle coltri mentre alle finestre si formavano

i ghiaccioli. Gli scrittori le descrivono spesso con toni romantici, ma chi ha vissuto questa realtà, che in certe vallate ancora è oggi presente, non ne ha grande nostalgia, se non forse, per la giovane età perduta. Mio padre Pietro, caporale dell'armata italiana, che nel 1942 aveva invaso la Russia, patria del Burian, della guerra combattuta parlava poco, ma sulla sofferenza qualche volta si lasciava andare e raccontava."La sera di un giorno infernale di vento gelido e neve arrivammo in circa cinquanta ad un gruppo di sei case, basse e lunghe. Entrammo nella più grande, gli abitanti ci accolsero spaventati e rassegnati. La stanza centrale aveva un un grande camino e sul fuoco appeso ad un gancio c'era un pentolone nel quale gettammo patate e cipolle salvate sul camion. Fuori c'erano almeno trenta gradi sotto lo zero, il focolare scaldava la pentola e poco più, sui vetri si formava la brina e il ghiaccio. Fuori non potevamo dormire perché il freddo ci avrebbe congelati, nella stanza ci riposammo un poco, ma le uniformi, i pastrani, lontano dal fuoco si ricoprivano di ghiaccioli." Così dormivano i nostri nonni e bisnonni

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Il
clima e la nostra vita di Waimer
Perinelli

nelle gelide notti delle nostre vallate. Ad unire Feltrino e Trentino nel gelo ci aveva pensato la nevicata del 1929, detta del Secolo. Nevicò per più giorni e il manto nevoso, ad altitudini non elevatissime quali sono quelle di Feltre e Trento, raggiunse quasi i tre metri. Anche la Buriana non fece sconti alle due località e soffiò senza remore come accadrà nel 1956, quando in Italia nevicò per 10 giorni di fila e a Federavecchia nella zona di Misurina si toccarono i 33 gradi sotto lo zero. Il freddo si ripresentò anche alla fine del 1984, quando su tutta l'Italia, ma in modo particolare nelle nostre valli si parlò di nuova glaciazione. L'11 gennaio del 1985 la temperatura di Firenze raggiunse i 20 gradi sotto lo zero e sulla Pianura Padana i meno 23 gradi. Nevicò ininterrottamente per 72 ore e il manto bianco superò i due metri di altezza. La cronaca riporta un simile accadimento anche nel febbraio del 1986 quando

sull'autostrada del Brennero venne sparso sale per un valore di 500 milioni di lire e la neve causò danni per oltre un miliardo di lire.

Nell'inverno del 1985 e 1986 si ghiacciò il fiume Piave, cosa abbastanza normale, ma i venti gradi sotto zero lo resero attraversabile con le slitte o liode cariche di legna. Lo stesso avvenne in Valsugana sul lago di Caldonazzo, completamente ghiacciato com'era stato solo nel 1930 e 1956, dove però ci fu un eccesso di fiducia e oltre ai pattinatori e sciatori della domenica, vi si avventurarono, in cerca di brividi, alcune autovetture fino a che il ghiaccio si ruppe e un'auto s'inabissò trascinando a fondo il conducente. Una cosa uguale accadde

anche in valle di Non dove in un piccolo lago affondarono il motocarro carico di legna e il guidatore. Questo confronto tra Feltrino e Trentino si concluderebbe in perfetta parità se non dovessimo meditare su un detto proveniente dalla vicina città di Verona dove a proposito di stagioni si dice: Trentino pittoresco, nove mesi d'inverno e tre di fresco.

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BELLUNESI alle BATTAGLIE di ISBUSCENSKIJ e NIKOLAJEWKA

Dopo le pesanti perdite subite dal nostro esercito in Albania e Grecia, Benito Mussolini, il 6 luglio 1942, commette un altro gravissimo errore, forse il peggiore della sua vita, inviando in Russia, l’Armir, l’ottava Armata italiana. L' impresa fu un fallimento. Per dare l'idea della vastità del disastro è sufficiente ricordare che per trasportare l’Armiata in Russia, nell’estate del 1942, servirono 200 tradotte; mentre per riportare i superstiti a casa, nel febbraio del 1943, ne furono sufficienti 17. Nell’arco di questi 8 mesi dei 229.000 uomini partiti ne morirono circa 75.000,00, altre decine di migliaia riportarono mutilazioni per le ferite e per il congelamento, tantissimi altri vennero fatti prigionieri.

Tra questi soldati svariate migliaia erano Veneti e tante centinaia provenivano dalla provincia di Belluno, molti dalla vallata feltrina, altre migliaia erano trentini. La Campagna di Russia si concluse malamente.

Nei lunghissimi e penosissimi otto mesi di guerra, innumerevoli sono stati gli scontri armati che hanno coinvolto i nostri Reggimenti. Tanti, forse tutti, dovrebbero essere ricordati, ma fra tutte le battaglie combattute quelle di ISBUSCENSKIJ e NIKOLAJEWKA hanno il sapore particolare delle vittorie impossibili.

La prima venne combattuta nell’afosa mattina del 24 agosto 1942, nei pressi del villaggio di Isbuscenskij, ed ebbe come protagonisti i cavalli e uomini del reggimento Savoia cavalleria. La secon-

da si svolse il 26 gennaio 1943, in una vallata immersa nel bianco della neve e del ghiaccio. Protagonisti questa volta i muli e gli alpini di quel che rimaneva della Tridentina e della Julia e di altre unità dell’Armir.

Siamo all’inizio della terza decade dell’agosto del 1942 quando nell'ampia ansa del fiume Don vicino a Isbuscenskij alcuni reparti russi guadano il fiume mettendo in pericolo la continuità del nostro schieramento. Veniva chiesto l’intervento di supporto, dalle retrovie, della nostra cavalleria. Il Reggimento Savoia, rinforzato dagli obici dell’artiglieria a cavallo “Voloire”, in tutto 700 uomini, la maggior parte a cavallo, prontamente si muoveva verso il fronte e, nel tardo pomeriggio del giorno 23, si accampava a qualche

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Pagine di storia di Alvise Tommaseo

chilometro dall’alveo del grande fiume. Il comandante, il colonnello bresciano, Alessandro Bettoni Cazzago, avvertito dal sergente maggiore Ernesto Comolli, un romagnolo sveglio e coraggioso, di un agguato nemico decideva di attaccare.

Le forze sul campo erano impari: ai 700 uomini dell’esercito italiano si contrapponevano circa 2500 russi, dotati di varie batterie di mitragliatrici. Il secondo squadrone, circa 150 uomini, al comando del capitano Francesco Saverio De Leone, montò a cavallo e dopo aver compiuto una manovra di aggiramento puntò decisamente sul fianco nemico caricando al grido di “Savoia.” I Russi, presi alla sprovvista, sbandarono subendo perdite consistenti.

Nel frattempo, il quarto squadrone del capitano Silvano Abba, tutto appiedato,

attaccava frontalmente i Russi, mentre il terzo, al comando del capitano Francesco Marchio, montato a cavallo, caricava lateralmente. Alla fine la vittoria "impossibile" fu conquistata. Sul campo rimasero le spoglie di 32 cavalieri, tra cui 3 ufficiali; altri 52 rimasero feriti. Quella di Isbuscenskij verrà considerata l’ultima carica della Cavalleria italiana contro truppe regolari nemiche. La battaglia di Nikolajwka avvenne durante la ritirata delle truppe italiane e si svolse nella steppa sommersa dalla neve. Il 19 dicembre del 1942 l'armata russa aveva sfondato la zona difesa dal corpo d’armata romeno, che si trovava alla destra del nostro schieramento che per evitare l'accerchiamento dovette ritirarsi.

L’apice dell’inevitabile dramma si verificò il 26 gennaio 1943. Le condizioni ambientali erano impossibili, con temperature che scendevano fino a 35 – 40 gradi sotto zero. Decine di

migliaia di uomini appiedati, con armamento, munizionamento ed equipaggiamento inadeguati, iniziarono una marcia drammatica verso la salvezza. Come ha scritto Mario Rigoni Stern nel libro "il sergente nella neve" l'obiettivo unico era di "arrivare a Baita", a casa, ai propri affetti. I Sovietici ostacolarono in tutti i modi la ritirata attuando manovre a tenaglia con carri armati e fanteria. La notte di Natale vedeva la rotta totale del nostro esercito, di quello tedesco e rumeno. Quel che rimaneva dei vari reparti dell’Armir era una lunga scia nera nel bianco della neve. Arrivò l’alba di quel drammatico 26 gennaio 1943. La colonna in fuga raggiunse, a fatica, una grande altura, una sorta di altopiano che dominava una vallata in

fondo alla quale si intravedeva, tra una leggera nebbia, un villaggio di una certa consistenza era Nikolajewka. Il paesino era presidiato dai Russi e dai loro carri armati T – 34. La valle brulicava di soldati sovietici che ormai avevano accerchiato i fuggitivi. La colonna si fermò e fu raggiunta da altre migliaia di soldati. Pressati, disperati, i soldati andarono all'attacco e questo ammasso di uomini, la maggior parte costituita da alpini, si lanciò verso la vallata di Nikolajewka sfidando con dei semplici fucili i carri armati e le mitragliatrici del nemico.

Mario Rigoni Stern descrive con grande efficacia la tensione, l'ansia, la paura della battaglia: “Ho ancora nel naso l'odore

60 Pagine di storia

che faceva il grasso sul fucile mitragliatore arroventato. Ho ancora nelle orecchie e sin dentro il cervello il rumore della neve che crocchiava sotto le scarpe, gli starnuti e i colpi di tosse delle vedette russe, il suono delle erbe secche battute dal vento sulle rive del Don.”

In quelle ore decisive aveva preso il co-

mando un grandissimo generale alpino, Luigi Reverberi, un piccoletto di origine emiliana che la truppa chiamava “Gasosa”. Le cronache storiche raccontano che, in effetti, l’alto ufficiale, armato di pistola, dopo essere salito sull’unico semovente tedesco a disposizione urlò per tre volte “Tridentina avanti! Tridentina avanti!!

Tridentina avanti!!!”

La massa dei superstiti lo seguì senza alcuna esitazione, lanciandosi giù dall’altura. I Russi, presi alla sprovvista, si videro piombare addosso quella che poteva sembrare una formidabile formazione d’assalto e che, in realtà, non era che una fiumana disperata di uomini laceri, affamati, stanchi, feriti e congelati.

Più di metà morì nella vallata di Nikolajewka,i più fortunati, sfondarono le linee sovietiche, ruppero, dopo violentissimi combattimenti, un doppio accerchiamento e, dopo un’altra settimana di dura marcia si aprì la strada della salvezza. Si salvò anche il sergente Ernesto Comolli che diventerà negli anni ’60 istruttore di equitazione al circolo ippico del Lido di Venezia. Tornò anche un cavallo sopravvissuto alla carica di Isbuscenskij, un maremmano di nome Albino che morirà nel 1960. Oggi, imbalsamato è diventato un'icona del Savoia cavalleria.

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Medici prima linea di Claudio Girardi

DIEGO GIONGO: MEDICO E DIACONO CONTRO IL COVID

Il Covid riempie gli ambulatori e gli ospedali. Medici di base, ospedalieri e specialisti lo combattono con poche armi, sacrificando tempo alla famiglia e rischiando di ammalarsi, una battaglia difficile. Qualcuno li ha definiti eroi.

professione di medico all’interno dell’ospedale di Verona si è adoperato per portare la comunione all'interno dei reparti dove nessuno poteva andare tranne i medici ed ora aiuta anche la parrocchia "san Giovanni Battista" del suo paese di residenza dove, dopo la laurea in medicina, si è trasferito con la moglie e ora vive con i quattro figli: Elena, Anna, Pietro e Francesco.

Diego ci racconti la sua esperienza durante la prima ondata Covid del 2020?

Diego Giongo., trentino, nato a Tione nel 1975, è medico impegnato in prima linea. Padre di 4 figli, vive con la sua famiglia a San Vito al Mantico in comune di Bussolengo (Vr), e svolge l’attività di medico pneumologo presso l'ospedale Borgo Trento di Verona. Nel Trentino Diego ha la sua famiglia di origine esattamente alle Terme di Comano dove vivono ancora 4 fratelli e la madre. Diego nella lotta al Covid ha una spinta in più e a dargliela è la fede nel Signore che nel settembre 2021 lo ha portato ad essere ordinato diacono permanente.

Nel periodo della prima ondata di covid 19, Diego oltre a svolgere la sua

“Lavoro come medico presso l’ospedale di Borgo Trento a Verona. Nel 2020 con l’inizio della pandemia covid il mio reparto è stato trasformato in reparto specializzato per assistere in modo ordinario e subintensivo i pazienti con insufficienza respiratoria. Il

lavoro abituale è stato progressivamente modificato dai protocolli di sicurezza e dalle rigide regole necessarie ad evitare i contagi del personale con i pazienti infetti. E’ stato un lavoro fisicamente impegnativo, ma l’aspetto più difficile è stato sicuramente quello psicologico, soprattutto nei casi più gravi dove l’impotenza delle terapie a disposizione non riusciva ad avere la meglio sul virus. Abbiamo visto morire molte persone. E’ accaduto molto in fretta. Tra il personale alcuni sono stati molto provati. Davanti alla morte l’ideale è aver formulato dentro di sé prima una riflessione personale, averla rielaborata, fatta propria, in qualche modo aver cercato di superare la paura di morire prima di doverla affrontare in prima persona. Mentre lavoravo a Verona, nel contempo i miei genitori si erano ammalati di covid in Trentino e in pochi giorni mio padre è mancato. Sono riuscito a parlargli per telefono poche

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ore prima che ci lasciasse. Mi sono sentito doppiamente impotente, come figlio e come medico…A superare il lutto per mio padre e per tutti i pazienti che il virus portava via mi ha aiutato molto la fede. Da anni studiavo per diventare diacono permanente. Ci parli della sua vocazione?

La mia vocazione al diaconato è nata dopo un periodo di ricerca in cui cercavo un modo per vivere la fede in maniera più concreta. Mi ero avvicinato a molte realtà ma è stato dopo una Messa di ordinazione ad un diaconato permanente che ho percepito in modo chiaro che quella era la strada che il Signore aveva scelto per me. Ho avuto provvidenzialmente la fortuna di avere vicino a me dei bravi sacerdoti che mi hanno

aiutato molto. La mia famiglia, mia moglie e i miei figli, mi hanno da subito sostenuto e accompagnato con gioia in questo cammino impegnativo. Come concilia lavoro e famiglia?

Il lavoro e il contatto quotidiano con la sofferenza e la morte mi hanno dato la possibilità di entrare in empatia con il dolore degli altri e, alle volte, di essere vicino con qualche parola di conforto e speranza. Anche il vivere ogni giorno le relazioni in famiglia mi permette di comprendere i bisogni delle altre famiglie che vivono, chi più chi meno, le stesse difficoltà che incontro anch’io. Vivo questa vocazione come un dono, ma anche come responsabilità. Nei reparti covid per ragioni di sicurezza viene a mancare quella vicinanza ai famigliari che a volte aiuta anche nel miglioramento dell’umore e quell’assistenza anche spirituale per chi ha una sensibilità religiosa.

Cosa ricorda maggiormente durante il periodo Covid ? Il cappellano dei Camilliani un giorno mi chiese di sostituirlo nel portare la Comunione a chi lo desiderava dal momento che solo il personale stretto poteva accedere. Fu così che mi ritrovai qualche volta a fare il medico e il ministro dell’Eucaristia nello stesso tempo. E’ stato molto emozionante, un compito di cui mi sono sentito onorato. Ho avuto anche come paziente un giovane sacerdote della mia parrocchia e qualche tempo fa ci siamo ritrovati a concelebrare la Messa insieme come ringraziamento per la guarigione. Il mio cammino al diaconato

è pian piano proseguito e sono stato ordinato diacono il 12 settembre 2021 dalle mani del vescovo di Verona, Sua Eccellenza Monsignor Giuseppe Zenti. Com’è il suo rapporto con l’attuale situazione sanitaria ancora in essere nel nostro Paese?

Nel corso dell’ultima ondata dell’epidemia il mio reparto è stato nuovamente convertito in reparto covid, ma sono rimasti aperti i servizi essenziali come l’ambulatorio pneumologico e le procedure endoscopiche sia diagnostiche che palliative soprattutto per i pazienti oncologici. Io in questi mesi mi sono occupato principalmente di endoscopia e ho fatto solo alcuni turni in area covid. Il clima che si avverte nel personale rispetto alle prime ondate di malattia è di maggior stanchezza e rassegnazione verso una malattia che si ripresenta ogni volta con nuove sfide, anche se rimane sempre la volontà di far tutto quello che è possibile per curare ed assistere al meglio i pazienti a noi affidati. Credo che questa esperienza ci abbia confermato ancora una volta la forza della natura e che siamo creature soggette a leggi che vanno oltre la nostra capacità intellettiva o volontà di dominarle e ci offre l’opportunità di alzare lo sguardo ad una dimensione Spirituale e ultraterrena che ci dà risposte sul senso della vita.

63 Medici prima linea

La BIBBIA RACCONTA...

Seguendo l’invito di papa Francesco che intende coinvolgere tutti in vista dell'Assemblea del Sinodo dei Vescovi di ottobre del prossimo anno, per il quale è in corso in tutte le diocesi del pianeta una prima fase di ascolto e discernimento che si concluderà il prossimo aprile, anche noi avanziamo un piccolo contributo. Ricordo qui solo un passaggio della preghiera per il Sinodo: «Siamo deboli e peccatori; Spirito Santo non lasciare che promuoviamo il disordine. Non lasciare che l'ignoranza ci porti sulla strada sbagliata né che la parzialità influenzi le nostre azioni».

Dovremmo conoscere, poiché “pubblicato” da oltre 3500 anni e disponibile alla riflessione di buona parte dell'umanità, almeno di coloro che si riconoscono nelle tre principali religioni monoteiste, l'episodio biblico che racconta di quando Giacobbe poté finalmente lasciare suo suocero Labano, per ritornare nella sua terra dopo quattordici anni di pastorizia, con il suo primo amore, Rachele, sua seconda moglie, e la moglie

Lia. Nel leggere di questa rocambolesca “fuga”, veniamo a sapere che Rachele, nel fare i bagagli, fece incetta degli idoli di suo padre all'insaputa di tutti. Quando Labano si rese conto che gli erano stati rubati gli idoli, inseguì Giacobbe e perquisì tutte le tende dell'accampamento, ricevendo l'assicurazione dal genero che avrebbe messo a morte chiunque fosse stato trovato in possesso degli idoli scomparsi. Labano arriva anche nella tenda di Rache-

le, ma questa aveva nascosto la refurtiva nella sella di un cammello sulla quale si era seduta, scusandosi con il padre di non potersi alzare poiché interessata da “quelle cose che capitano alle donne una volta al mese”. Gli idoli non vengono trovati e Labano è così costretto a scusarsi con Giacobbe che da parte sua non esita a farglielo pesare... ma andate a leggervi il racconto perché è molto gustoso. Veniamo dunque al Sinodo dei Vesco-

64 Il Sinodo dei Vescovi
di Franco Zadra
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vi e al nostro piccolo contributo. C’è forse un idolo che si nasconde dentro la Chiesa e che mette a rischio la vitalità della comunione ecclesiale, un idolo sottratto al mondo così come gli idoli che Rachele rubò a Labano. Questo idolo lo potremmo chiamare “la salvaguardia dell'immagine a ogni costo”, la “buona fama”, la “propaganda artificiale”, usando lo

stesso concetto che passò per la mente di Gesù quando accusò i farisei di essere dei “sepolcri imbiancati”, o di preoccuparsi di pulire solo l’esterno del piatto. Noi, qui, non ci sentiamo rivestiti di tanta autorità messianica e nemmeno abbiamo la pretesa di sentenziare con supponenza nei confronti di una realtà che amiamo con le più sincere intenzioni. Cerchiamo al limite di ragionare, in cerca di alternative, nel tentativo di liberarci da ciò che ci rende meno sereni e più tiepidi, poiché timorosi, nella nostra professione di fede. Ora, non intendiamo fare un elenco di fatti nei quali la Chiesa è apparsa più interessata a difendere la propria immagine, sacrificando a volte finanche la sua umanità all’idolo di cui sopra, invece di affrontare il problema che la impaccia nella consapevolezza che siamo tutti peccatori. È doloroso anche per noi divulgare vicende imbarazzanti. Vorremmo piuttosto cogliere nella vicenda della matriarca Ra-

ONGARO CLAUDIO

chele, la cui tomba a Betlemme è ancora oggi il terzo sito religioso più importante per gli ebrei, ma onorato anche da cristiani e musulmani, un suggerimento non tanto di una strategia per continuare a nascondere gli idoli del mondo, ma per una verifica approfondita che ci renda più liberi di fronte a essi.

«Man mano che maturiamo – scriveva don Luigi Giussani – siamo a noi stessi spettacolo e, Dio lo voglia, anche agli altri. Spettacolo, cioè, di limite e di tradimento, e perciò di umiliazione, e nello stesso tempo di sicurezza inesauribile nella grazia che ci viene donata e rinnovata ogni mattino. Da qui viene quella baldanza ingenua che ci caratterizza, per la quale ogni giorno della nostra vita è concepito come un’offerta a Dio, perché la Chiesa esista dentro i nostri corpi e le nostre anime, attraverso la materialità della nostra esistenza».

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Il Teatro “DE LA SENA” e GOLDONI

Uno dei simboli della città di Feltre è senza dubbio il Teatro “de la Sena”, tradotto con “Teatro della scena” e noto anche come “La Piccola Fenice”. Questo illustre soprannome è dovuto alla somiglianza con lo storico edificio veneziano, dato che l’architetto Giannantonio Selva progettò entrambi gli stabili. Oltre che per il legame con il Teatro della Fenice a Venezia, il Teatro de la Sena è noto anche per essere stato la cornice dell’esordio di Carlo Goldoni, commediografo nato nella Serenissima. A Feltre Goldoni iniziò la sua carriera proponendo al pubblico La Cantatrice e Il buon padre, due intermezzi che servivano a intrattenere il pubblico durante alcun e opere realizzate dal librettista Metastasio. Entrambe le opere, datate nel 1730, vennero scritte appositamente per un gruppo dilettantistico originario di Feltre, che le mise in scena nel teatro cittadino durante il periodo di carnevale. Per aver conferito ulteriore prestigio alla città e a uno dei suoi luoghi più suggestivi, venne deciso di dedicare una via a Carlo Goldoni. La

si può trovare come via perpendicolare a via Arnaldo Fusinato, ed è una stradina privata che ha il compito di unire la via citata alla parallela via Anconetta.

CARLO GOLDONI

Nel dettaglio però, chi è stato Carlo Goldoni? Oltre ad essere vicino a questa cittadina, dove ha vissuto e lavorato scrivendo così una delle pagine più significative del teatro all’italiana, cosa fece? Goldoni, avente i natali a Venezia viaggiò tra diverse località italiane come Roma, Perugia, Chioggia, Pavia e Tirolo, per citarne alcune. Un’esigenza che derivò sia dal seguire il padre nei suoi spostamenti lavorativi, sia dalla volontà di studiare in diversi atenei in ambito legislativo. Una carriera che perseguì, rimanendo però sempre fedele alla prima sua più grande attrazione; la produzione di testi teatrali. Il suo debutto, come già menzionato, è avvenuto nella città di Feltre, esperienza che gli consentì di entrare a far parte in modo continuativo nel teatro e viverlo sempre in ascesa. I teatri principali della città di Venezia rimasero entusiasti del lavoro di

Goldoni e Girolamo Medebach, attore, sfidò il commediografo a scrivere per la sua compagnia ben sedici opere in un solo anno, il 1750. I teatri di San Samuele, di Sant’Angelo e di San Luca ospitarono una quantità immensa dei capolavori di Carlo Goldoni. Non si fermò però qui. Terminò la sua carriera in Francia, dopo aver lavorato per Luigi XV. Oltre al ricco catalogo teatrale dell’autore, ciò che caratterizza la figura di Goldoni è soprattutto la sua capacità di dettare un cambiamento coraggioso all’istituzione teatrale. La Riforma Teatrale che attuò portò numerose novità alle rappresentazioni teatrali. Goldoni analizzò la Commedia dell’arte, una modalità di fare teatro nata nel XVI secolo e apprezzata anche all’estero. Chi lavorava con questo metodo si serviva di alcune maschere, di personaggi macchiettistici privi di profondità interiore, e inoltre, di testi teatrali che in realtà spiegavano agli attori soltanto le azioni e alcune frasi da recitare (detti lazzi) e non dei copioni completi. Colombella, Arlecchino, Pantalone e tutte le altre maschere carnevalesche che conosciamo, erano

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protagoniste della Commedia all’italiana messa in discussione da Goldoni. Egli sovvertì questo schema ripetitivo iniziando a scrivere interamente il copione per le parti da protagonista, come nel caso de “Il momolo cortesan”, nato nell’anno 1738. Pochi anni dopo decise di estendere la scrittura dei copioni scritti e non limitarsi a trascrivere in modo accurato solo la parte del protagonista. Con "La donna di garbo” e “Il servitore di due padroni” inaugurò così i copioni integrali. Con questa pratica l’idea dell’autore era principalmente quella di non creare uno stacco eccessivo tra il mondo reale e il mondo teatrale. L’assenza di improvvisazione stereotipata basata sulle maschere lasciò spazio a una recitazione più realistica, vicina agli atteggiamenti che le persone adottano nella vita reale. Un’altra modifica che venne introdotta nella riforma volta al fine di rendere le rappresenta-

zioni teatrali più verosimili fu l’utilizzo dei dialetti. Dialetti che combinati ai copioni scritti interamente contribuiscono anche a conferire alle commedie un valore morale ed educativo apprezzato dal pubblico. Il Teatro della Sena ha una

rilevanza storica di per sé eccezionale, arricchita ulteriormente dal ruolo di una personalità rivoluzionaria come quella di Carlo Goldoni, un uomo di mondo e di teatro.

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Feltre: le lapidi cancellate

Passeggiando per il centro storico di Feltre, ai più curiosi sarà sicuramente capitato di domandarsi il motivo per cui alcune targhe incise sui palazzi non siano leggibili.

In verità questo genere di lapidi è presente su gran parte del territorio feltrino, tanto che si potrebbe ricostruire quasi l’intera storia di Feltre attraverso le iscrizioni che riportano, considerando che la più antica, un frammento ritrovato in via Cornarotta, risalirebbe addirittura al I o al II secolo a.C. Ma le lapidi più interessanti e presenti in maggior numero sono senza alcun dubbio quelle risalenti ai secoli del dominio veneziano sul feltrino: la Serenissima governò infatti sulla città dal 1404, a seguito della sottomissione volontaria da parte di Feltre, sino al 1797, anno della caduta della

Repubblica Veneta. È proprio durante questo arco di tempo che venne scolpita la maggior parte delle lapidi presenti su suolo feltrino: si tratta di iscrizioni onorarie scolpite su pietra, attraverso le quali era consuetudine da parte delle città che facevano parte dello Stato Veneziano onorare i Rettori di terraferma, funzionari della Serenissima appartenenti al patriziato che avevano poteri civili, militari e giudiziari e che, inviati nei territori di dominio della Repubblica, avevano il compito di controllarli e al termine del mandato, presentare al Senato una relazione sul proprio operato e sui luoghi in cui avevano governato. Possiamo ancor’oggi ammirare queste targhe perlopiù nei pressi della cittadella, a partire da Porta Castaldi, passando per Piazza Maggiore, fino a Porta Pusterla ed è interessante sapere che un tempo le vie cittadine erano costellate di lapidi e di stemmi, mentre numerose statue trovavano posto nel Salone del Consiglio e in quello del Palazzo Pretorio, che oggi coincidono rispettivamente con il teatro

della Sena e la sala consigliare. Di queste, solo due sono sopravvissute e sono ancora oggi situate nella loggia del Palazzo della Ragione.

Ma per quale motivo non siamo più in grado di leggere le parole incise sulle lapidi dei palazzi del centro storico? Due sono le risposte che ogni feltrino e ogni visitatore interessato alla questione si sarà sentito dare: è stata la Repubblica di Venezia. È stato Napoleone. Occorre dire che sono entrambe esatte.

Perché se è vero che la Serenissima aveva iniziato l’opera di scalpellatura, è altrettanto vero che gran parte del danno compiuto avvenne per mano delle truppe dell’Impero francese.

Partiamo dal principio. Perché Venezia

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Storie di casa nostra di Beatrice Mariech

avrebbe deciso di sfregiare le targhe sulle quali venivano tessute le lodi dei suoi funzionari? Gli omaggi da parte delle città ai Rettori e al loro operato avevano iniziato a sembrare eccessivi alla Serenissima e di conseguenza nel dicembre del 1691 il Doge decretò che venisse proibita la realizzazione di nuove statue, stabilendo inoltre che qualsiasi tributo già presente, fosse esso statua, mezzobusto o iscrizione avrebbe dovuto essere eliminato. Venne dunque abolito l’utilizzo delle lapidi in onore dei funzionari e furono ingaggiati operai per scalpellare le targhe già presenti: a testimonianza di ciò abbiamo vere e proprie ricevute relative al corrispettivo che spettava a chi era stato assunto per portare a termine l’opera di cancellazione delle targhe e di smantellamento delle statue.

Se agli occhi di Venezia l’omaggio feltrino sembrava un mero strumento di adulazione, l’intento da parte dei cittadini era in realtà quello di ricordare delle figure che

avevano ricoperto il loro ruolo di governatori in maniera illustre, assicurando sempre pace e giustizia e aiutando la popolazione, talvolta anche economicamente, in prima persona.

Passiamo ora al 1797: la Serenissima Repubblica di Venezia è ufficialmente caduta in seguito all’avanzata dell’esercito di Napoleone Bonaparte e il feltrino è invaso dalle truppe francesi sotto il comando del generale André Masséna. In questo periodo la demolizione delle statue e la cancellazione delle lapidi erano divenute sistematiche, poiché l’Imperatore di Francia era intenzionato a far scomparire qualsiasi testimonianza legata a Venezia. I soldati francesi terminarono dunque l’opera iniziata dalla Serenissima, sebbene le motivazioni in questo caso fossero completamente differenti. Napoleone, infatti, aveva messo in atto una vera e propria damnatio

memoriae nei confronti della Repubblica Veneta, che nel caso di Feltre culminò con la distruzione della statua del leone di San Marco che, ripristinata, spicca ancora oggi sopra Piazza Maggiore.

Sebbene dunque molti dei testi riportati sulle lapidi siano oggi in parte o completamente indecifrabili, possiamo tuttavia continuare ad ammirare le loro cornici in perfetto stile veneziano a riprova del fatto che la storia, sebbene si tenti di cancellarla, vive.

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Curiosità in controluce di Alice Vettorata

La Mail Art

il termine Mail Art venne ufficialmente coniato solo nel decennio successivo.

Da quanti anni, aprendo la buca delle lettere non trovate al suo interno una cartolina? Con i classici saluti scritti sulla parte bianca, a lato dei francobolli e magari anche qualche piccolo segno grafico che ricorda una faccina con il sorriso? Scommetto abbastanza tempo. Ci sono però persone che hanno modificato questo tipo di comunicazione, iniziando a spedire manufatti d’arte tramite posta, facendoli recapitare presso qualche abitazione. Sicuramente andando a controllare ora, nessuno di noi troverà un Caravaggio ben riposto con un francobollo appiccicato alla cornice. Però, una cerchia di artisti presente già nel 1950 inviò proprie opere ad altre persone, facendo nascere così la Mail Art. I manufatti che possono essere considerati materiale idoneo per essere inserito nella categoria della Mail Art non hanno limiti di supporto, entità o tema da trattare. Infatti, qualunque oggetto possa essere spedito aderisce perfettamente agli ideali di base che caratterizzano questo modo di comunicare, che non è affatto nuovo. Il servizio postale infatti è attivo dal 1862, e coloro che decisero di sfruttare il suo potenziale per far circolare prodotti artistici furono principalmente i Futuristi e i Dadaisti durante gli anni ‘50. Anche se

Ciò su cui gli artisti decisero di fare leva fu la possibilità di creare un legame tra l’artista e chi desidera fruire della sua arte. Uno scambio che può divenire reciproco e continuativo nel tempo, non solo tra l’artista e l’amante d’arte.

Infatti la Mail Art è anche un modo per dare vita a collaborazioni tra artisti differenti che provengono da ogni parte del mondo. Così agendo si conferma il vero valore di questa corrente, il quale consiste proprio nell’evidenziare il potere dello scambio di idee e arte, ignote fino al momento dell’apertura della buca delle lettere, a discapito del lato economico. Basandosi su questi intenti Ray Johnson, artista americano pioniere del movimento NewDada e della prima Pop Art, fondò la New York Correspondence School (La scuola della corrispondenza), sede di ritrovo per numerosi artisti, spesso associati anche ad un altro movimento, il Fluxus, i quali disseminavano arte nel mondo servendosi della comunicazione postale. Realizzando francobolli d’arte, chiamati artistamp e apponendoli a insoliti collage o pitture da spedire, la Mail Art prese forma.

Vennero anche realizzate mostre che esponevano le opere

scambiate tramite posta, decisione che creò una spaccatura all’interno del movimento, il quale era nato come dialogo privato e distante dalle regole di mercato. Bisogna dire però che la caratteristica che accomuna le varie modalità di realizzare arte è il ruolo rilevante, direi essenziale, del pubblico, poiché questo è il destinatario al quale è indirizzata l’opera. L’arte è per le persone e per questo motivo necessita di interazione tra più soggetti. Che si tratti di un pubblico che applaude, ride o si commuove durante uno spettacolo teatrale o che sia il commento che viene fatto dall’osservatore nei confronti di un quadro, il suo compito è importantissimo.

A oggi alcuni musei hanno riscoperto il valore di questa corrente artistica, come il Museo Civico e della Mail Art visitabile a Montecarotto, Ancona, il quale ha dedicato un intero spazio proprio alla Mail Art. Inoltre, come spesso accade a molte delle pratiche che venivano svolte in forma cartacea, ora è presente anche il loro corrispettivo digitale; l’Email Art. Che si realizzino delle opere da spedire in formato tradizionale o nella modalità digitalizzata, la Mail Art può far riscoprire un lato creativo della nostra personalità.

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Il Cigno: simbolo di amore fedele, purezza e segreti rivelati

ASan Valentino le immagini di innamorati e i simboli dell'amore romantico, fedele e puro spuntano un po' dappertutto. Tanti sono gli animali a cui si fa riferimento quando ci si riferisce agli innamorati e il cigno è sicuramente uno di loro. Anche bomboniere e biglietti nuziali sono spesso adornati da immagini di coppie di cigni che con i loro lunghi ed eleganti colli intrecciati formano una figura a cuore tanto delicata quanto indissolubile. In effetti, l'etologia insegna che il cigno è un animale monogamo, ovvero tende a creare un legame di coppia stabile ed esclusivo per tutta la vita. Le coppie generalmente si formano all'età di due anni, quando ancora non son riproduttive, e se tutto andrà bene non si lasceranno mai più- il che significa che saranno in grado di festeggiare come minimo “le nozze di porcellana” , ovvero i 20 anni della loro unione.

I cigni sono animali longevi e alcuni esemplari fortunati arrivano a spegnere le 35 candeline di una ipotetica torta che, se un giorno vi capiterà mai di voler preparare, sarà composta da materiale vegetale e qualche piccolo residuo di proteine animale imbrigliatosi naturalmente tra le erbe delle acque lacustri, loro habitat privilegiato. Offrir loro uno snack di pane è comunque possibile , assicuratevi solo che sia spezzettato in piccoli bocconi e bagnato perché il loro becco è privo di denti e, in casi rari, potrebbero soffocare. Se l'animale rifiuta la vostra offerta di cibo, non prendetevela: i cigni raramente rischiano il sovrappeso poiché la natura ha donato loro la capacità di non mangiare mai oltre il dovuto e già solo questo li rende animali straor-

dinari e degni di ogni nostra ammirazione!

Ma è la loro eleganza e maestosità e magia che li ha fatti entrare nelle mitologie dei popoli di tutto il mondo.

Ad esempio, Ham e Sa sono due cigni che si cibano di miele di loto, il fiore della sapienza nella cultura induista, mentre presso i Celti i cigni trainavano la barca solare nell'oceano celeste e conducevano gli eroi nell' Aldilà. In Grecia erano considerati Ministri di Apollo, in Irlanda gli antichi poeti e cantori portavano mantelli fatti di piume di cigno per la relazione che questo uccello ha con la musica e il canto e tra coloro che analizzano i sogni, si dice che un cigno è simbolo di una verità che a breve ci verrà svelata....

Ma ora qualche dato scientifico/oggettivo: i cigni sono i più grandi membri della famiglia degli Anatidi, parenti stretti di anatre e oche. Un cigno Reale, il “classico” alle nostre latitudini , ha un peso medio sui 10 kg e un apertura alare di 2 metri e mezzo. I cigni son diffusi più o meno in tutto il mondo: quelli che vivono in territori molti freddi son costretti a migrazioni che affrontano con velocità di anche 100 Km all'ora. In Italia sono fondamentalmente stanziali. Se vorrete entrare in contatto senza spostarvi troppo da Feltre con questa meravigliosa creatura suggerisco una giornata dedicata al lago di Busche, tra i confini di Lentiai e Cesiomaggiore. Il bacino artificiale ospita fin dagli anni '80 circa 6

esemplari di Cigni Reali e, chicca rara a livello nazionale, anche un Cigno Nero. Importante sito di osservazione della Lipu e birdwatchers, fortunatamente mai violato da atti vandalici a danno di questi esseri supremi fino ad ora, il lago di Busche può offrire in tarda primavera o inizio estate anche lo spettacolo delle famigliole che nuotano tutti assieme in fila indiana nel centro del suo specchio d'acqua: prima la mamma, poi i piccoli, infine il papà. Ogni anno, prima dell'inverno successivo, i piccoli poi se ne andranno per la loro strada perché i cigni sono sì amorevoli e super protettivi genitori ma ad un certo punto diventano aggressivi e rivendicano il territorio. O forse semplicemente hanno il desiderio di stare soli in coppia, di rimanere indisturbati a corteggiarsi nuovamente, di avere la possibilità di intrecciare i loro colli e creare quel cuore delicato ma indissolubile e per far sognare tutti i romantici tra noi.

Sulla realtà dei Cigni del lago di Busche ringrazio la cortese e preziosa collaborazione del Dott. Forestale Michele Cassol.

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Non
di Monica Argenta
solo animali

Racconti d'arte di Daniela Zangrando*

Un CLOWN non fa CARNEVALE?

Per questo pezzo ero partita con le migliori intenzioni: quelle di raccontarvi il carnevale attraverso l’arte. Anzi, attraverso un’opera d’arte contemporanea. La vedete nelle immagini. Ci sono dei clown, parecchi clown. Paiono perfetti per una sfilata in maschera, pronti a salire su un carro e attraversare le vie tra lanci di coriandoli e stelle filanti. Fanno parte di “Vocabulary of Solitude”, opera di Ugo Rondinone, artista di origini svizzere che vive a New York e che possiamo considerare tra i più rappresentativi della sua generazione.

Quando penso al carnevale, non posso far a meno di tornare all’infanzia. A quella foto che mi ritrae bambina, mano nella mano con lo “Smotazin”, una maschera lugubre, per me spaventosa. Ricordo la mia espressione impaurita, e la lingua infernale, troppo lunga e troppo rossa, della maschera. Il mio braccio teso, che voleva sfuggire alla stretta. Penso anche alle feste chiassose e

spensierate, organizzate a casa, con tanto di frittelle, castagnole, e danze. Ai carnevali universitari veneziani, al sempre rinnovato stupore per l’eleganza di maschere e abiti e ai volti sfatti di trucchi slavati e alcol, che attraversavano le calli di notte tra gli schiamazzi. Alle maschere popolari, piene dell’energia in potenza del travestimento, del mostrarsi non per chi si è ma per chi si vuol essere, almeno una volta l’anno. Guardo i clown di Rondinone e mi impegno per fare un collegamento, ma non ci vedo nulla di tutto questo. Non posso dirvi che ci sia la festa, l’eccesso, e neanche la voglia di trasgredire.

Mi sforzo di pensare ancora alla mia idea di maschera e mi viene in mente Leoncavallo. Avrete sentito tutti almeno una volta nella vita la famosissima aria “Ridi, Pagliaccio” – che in realtà si intitola “Vesti la giubba” – e ne ricorderete bene l’amarezza. Non si può dire che Canio sia un clown allegro. È un attore che, appena scoperto il tradimento della moglie, si trova a dover recitare la sua parte di pagliaccio, mentre, “preso dal delirio”, non sa più quel che dice e quel che fa. D’altro canto, prima di tutto è un attore, e non gli resta altro da fare che indossare la giubba, infarinarsi la faccia, e andare in scena, vestendo il pianto con le risate e i singhiozzi con le smorfie. “Ridi, Pagliaccio, sul tuo amore infranto! Ridi del

duol, che t’avvelena il cor!” – e intanto la gente applaude e si diverte. Butto di nuovo un’occhiata ai clown dell’opera, ma non leggo in loro nemmeno questa tensione drammatica, questo dolore. Forse non li sto osservando bene? Cosa mi sfugge? Se Ugo Rondinone insiste sul fatto che l’opera d’arte non vada per forza interpretata, ma solo descritta, sto davvero sbagliando rotta. Guardiamola insieme. Si tratta di quarantacinque clown di proporzioni umane, ventitré donne e ventidue uomini di etnie diverse. Stanno seduti, o stesi. Come ogni clown che si rispetti, hanno una bombetta nera in testa, naso rossissimo, e sono agghindati con ampi collari e costumi colorati. Sembrano vivi, eppure nessuno si muove. Stanno in silenzio. Vi verrà da camminare tra di loro in punta di piedi, per evitare che le scarpe facciano rumore sul pavimento.

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Proverete a chinarvi, per incrociare il loro sguardo, ma lo troverete rivolto a terra. Vi aspetterete che da un attimo all’altro qualcuno di loro si alzi e inizi a far qualche mossa buffa, ma non succede nulla. Niente di niente. Stanno lì e basta. Ognuno di loro porta il nome di un’azione quotidiana, che fa parte della lista di azioni che l’artista ha stilato a partire da quelle che compie nell’arco di una giornata. Essere, respirare, dormire, sognare, svegliarsi, alzarsi, sedersi, ascoltare, guardare, pensare, stare, camminare, pisciare, fare la doccia, vestirsi, bere, scoreggiare, cagare, leggere, ridere, cucinare, odorare, assaggiare, mangiare, pulire, scrivere, sognare ad occhi aperti, ricordare, piangere, fare un pisolino, toccare, sentire, lamentarsi, divertirsi, fluttuare, amare, sperare, desiderare, cantare, danzare, cadere, maledire, sbadigliare, spogliarsi, stendersi. Quarantacinque azioni. Un vocabolario

quasi, della solitudine, come ci dice il titolo. Ma non è una solitudine che rivela il peso di un isolamento, una tristezza. È solo la condizione del singolo, e non ha alcuna enfasi, né connotazione negativa. I clown, semplicemente, sono. Con le loro azioni raccontano un uomo nelle sue ventiquattro ore. Tengono gli occhi socchiusi. Forse meditano? Senza alcuna pretesa di divertire, di far ridere, stanno concentrati su quel che succede dentro di loro nel momento in cui stanno seduti, immobili, in silenzio. E noi,

con loro, senza impastarci nel turbinio delle nostre passioni, ci permettiamo per un attimo di guardarci da fuori.

73 Racconti d'arte
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Il COLORE dell’AMORE

anche forza e protezione in battaglia. Amore e fertilità ma anche sangue e distruzione, due opposti per uno stesso colore…

“Il rosso è un colore affascinante; è vita, è il sangue della morte, è la passione, è l’amore, è il perfetto antidoto alla tristezza”. Valentino. Febbraio è il mese per eccellenza degli innamorati, con il suo quattordicesimo giorno vuole celebrare questo bellissimo sentimento; ed ecco che comincia la caccia a pupazzi, cuori, rose rosse… ma come mai associamo proprio questa tinta purpurea al sentimento dell’amore? E come spiegare il fatto che il rosso rappresenti anche sentimenti del tutto contrari a quest’ultimo, come la rabbia, il male, il sangue…

Il rosso è un colore primario, in quanto tale, non è creato attraverso la mescolanza con altre tinte; in natura si ottiene da alcune piante e alberi, oltre che da molluschi.

Alcuni studi di biologia, suggeriscono che il colore rosso e i suoi significati legati alla sessualità e prosperità affondino le radici fin dagli albori della storia umana: un colorito più roseo, infatti, indicava (e indica ancora oggi) un

soggetto in salute, portando, quindi, a una scelta riproduttiva verso questi individui.

Il rosso è simbolo delle pulsioni: passione, energia, forza, appetiti e gioia; in latino la parola “Rubens” ha il duplice significato di rosso e colorato, in russo questo colore attraverso la parola “Krosuoi” prende il significato di bello e nella religione ebraica i termini “Adamah", ossia terra, “Adam” uomo e “Adom" rosso hanno la stessa radice: “Dam” ossia sangue.

È chiaro, quindi, come fin dagli albori questo colore porti dentro di sè significati profondi per tutte le popolazioni del mondo: in Cina il rosso è un portafortuna, in Giappone rappresenta la felicità e protezione, mentre in Nepal è il colore delle spose. Nell’antico Egitto era considerato positivo se legato al corpo umano, negativo se associato al deserto e alla sua inaridità, mentre per gli indiani d’America significava fertilità ma

D’altronde questi significati, all’apparenza opposti, sono legati da uno stesso filo: l’amore può essere passionale ma anche distruttivo, può rappresentare il sangue e la morte ma anche la rinascita; molte sono le credenze per cui lo spargimento di sangue sulla terra, rendesse quest’ultima vitale e fertile; sangue e vino, entrambi di colore rosso, venivano usati per calmare gli dei e il sangue di un nemico potente trasmetteva la forza presente nel corpo in cui scorreva a chi lo aveva sconfitto.

Nella porpora il rosso diviene un colore profetico e spirituale, proprio perché difficilissimo da produrre

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Donna e moda di Laura Paleari

nell’antichità, veniva indossato solo dagli uomini più importanti e con le cariche sociali più alte.

Nelle sue tinte più chiare, come il rosa, era comunque associato a ricchezza e potenza; fino agli anni Trenta il rosa veniva utilizzato dagli uomini, simbolo di forza e passione, proprio perché molto vicino al rosso.

Tutti questi simboli e significati associati al rosso, anche se in modo diverso, li possiamo riscontrare ancora oggi.

Il rosso d’altronde è uno dei colori più usati nelle strategie di comunicazione visiva. In natura, questa tinta, come d’altronde altri colori, ha funzione di richiamo (pensiamo ai frutti) e d’avvertimento (come i colori sgargianti usati dagli animali per intimidire).

Proprio per questo utilizziamo il rosso anche per i segnali d’avvertimento perchè è un colore impattante che attira l’attenzione.

Laurie Pressman dell'Istituto Pantone, la massima autorità del mondo in materia colori, parlando del rosso dice:“…Proprio come un bambino

è attratto dalle caramelle, così noi siamo irresistibilmente attratti dal rosso: è una reazione fisiologica che va oltre il nostro controllo…”

Basti pensare che l’università di Manchester ha dimostrato che in media un uomo posa il suo sguardo per 7,3 secondi sulla bocca di una donna che porta il rossetto rosso e solo 2,2

secondi su chi non lo porta e molti altri studi evidenziano come indossare il colore rosso faccia sentire più sicuri di sé, più forti e passionali.

Che sia, dunque, nella moda, nel marketing o nella vita di tutti i giorni, possiamo dire che il rosso esercita un fascino degno del sentimento più importanti di tutti: l’amore.

75 Donna e moda

LA GUERRA ITALO-TURCA

la sconfitta ad Adua ne 1986.

titolavano i giornali a fine settembre del 1911. Fra questi anche il Trentino di Alcide Degasperi. E così anche i trentini, quindi, grazie alla stampa dell'epoca, ebbero modo di conosce gli eventi bellici della guerra di Libia 1911-1912, considerata da molti, e anche dai contemporanei, la grande avventura coloniale del Regno d'Italia. Il conflitto fra Impero Ottomano e Regno d'Italia, scoppiò il 29 settembre del 1911. A determinare le cause del conflitto furono, semplicemente, le spin te imperialiste di Roma.

L'Italia, infatti, nata solo nel 1861, al tempo dei fatti alleata di Vienna e Berlino con la Triplice Alleanza, desiderava di espandere i suoi domini nel mediterraneo: in poche parole, anche il Regno d'Italia voleva ergersi a potenza coloniale.

L'Egitto e il Marocco erano già rispettivamente sotto il controllo Britannico e Francese. La Germania si era già ritagliata un posto in Africa. Esclusa l'Austria-Ungheria, mancava solo l'Italia la

quale, in questo scenario geopolitico, puntava a controllare una porzione dell'Africa settentrionale. L'Italia quindi si affacciò sulla scena coloniale in ritardo rispetto a Francia, Regno Unito e Germania. Le sue prime esperienze iniziarono a fine Ottocento con le spedizioni in Eritrea e Somalia e con il tentativo di conquista dell'Abissinia che però si concluse con

Tornando alla guerra Italo-Turca del 1911.12, il conflitto si concentrò in Tripolitania e in Cirenaica: l'attuale Libia. Il governo italiano guidato da Giolitti, dopo essersi accordato con Parigi e Londra per la sistemazione delle rispettive aspirazioni coloniali nell’Africa settentrionale, intimò alla Turchia di sgombrare la Libia. Ovviamente Costantinopoli rifiutò e fu l'inizio della guerra e dell'avventura coloniale italiana in Africa. A sostegno della guerra vi fu anche una forte campagna di propaganda che aveva al centro il ruolo dell'Italia, non solo come potenza militare, ma anche come istituzione morale capace di portare la libertà fra le popolazioni assoggettate al giogo ottomano

Il corpo italiano di spedizione fu inizialmente di 34.000 uomini, per poi arrivare 100.000 nel 1912. In campo ottomano vi erano in Tripolitania circa 5000 uomini e 2000 in Cirenaica, cui si aggiunsero le forze autoctone accorse all’appello della guerra santa. Le operazioni militari iniziarono il 5 ottobre

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«Verso la guerra Italo-Turca»
Ieri avvenne di Andrea Casna

1911 con l’occupazione delle città costiere: dopo Tripoli e Tobruk furono prese anche Derna, Bengasi e Homs. Il 5 novembre 1911 re Vittorio Emanuele III proclamò l’annessione all’Italia di Tripolitania e Cirenaica. Fu per l'Italia una guerra faticosa e impegnativa, soprattutto a causa della scarsa conoscenza del territorio. Fu anche l'occasione per sperimentare nuove armi e nuovi mezzi, come per esempio, i dirigibili, gli aerei, mitragliarci, nuovi pezzi di artiglieria, il telefono e il telegrafo.

L’Italia spostò poi la guerra nell’Egeo al fine di procurarsi delle basi di appoggio con lo scopo di bloccare le coste turche. Fra l'aprile e il maggio del 1912 truppe italiane occuparono l’isola di Stampalia, costrinsero i Turchi alla resa a Rodi per poi occupare il Dodecaneso. A mettere i turchi nella condizione di avviare le trattative per la resa furono soprattutto i timori di sollevazioni nella penisola balcanica. La pace fu firmata a Losanna il 18 ottobre 1912: l’Italia ottenne la Libia e l’amministrazione del Dodecaneso.

Nel corso del conflitto vi fu, per la prima volta nella storia, l'uso dell'aviazione a scopi militari. E dalle pagine dei giornali la popolazione civile iniziò a conoscere proprio la guerra aerea. «Questa mattina -scriveva il Trentino di Alcide Degaseri, il 21 novembre 1911il capitano Piazza (Carlo Maria Piazza

871-1917) con il suo Bleriot si è innalzato dirigendosi con volo risoluto e rapido verso la parte orientale dell'oasi. Dapprima il capitano Piazza si è diretto verso Aziza, dove l'aeroplano ha fatto parecchi voli, poi verso il lago di Mellaa, donde ha fatto rotta decisa in direzione di Tagiura, spaziando sopra l'oasi. Quando il capitano Piazza, dopo la sua fortunata escursione aerea, è tornato al luogo di partenza, molti ufficiali ansiosamente attendevano. L'abbiamo pregato di descriverci quanto aveva scorto. Egli era lieto e soddisfatto della missione compiuta ed ha narrato di avere scorto benissimo gruppi di arabi sparsi qua e là nell'oasi. Ad un certo punto, manovrando con rapidità e sicura, della quale gli ufficiali aviatori sono ormai maestri, egli fece cadere dall'aeroplano 4 bombe svedesi. Queste bombe erano fin qui in esperimento, avendo qualche somiglianza con quelle del capitano Bontempelli, ma differenziano da esse nella struttura interna e nella forma esteriore. Occorre dire che anche le bombe svedesi esplodono al minimo contatto e sono capaci di produrre danni micidiali entro una zona di parecchie centinaia di metri. Il capitano Piazza ha gettato stamane 4 bombe a breve distanza l'una dall'altra sopra l'accampamento del nemico presso il

lago Mellaa, si suppone che l'effetto sia stato disastroso per il nemico perché, da quanto ha potuto scorgere durante il volo, le esplosioni sono avvenute in modo perfetto e tra il fumo sollevato ha visto la fuga precipitosa della gente spaventata».

Questa appena letta è una delle prime cronache dedicate alla guerra aerea. E su tale tema al Museo Storico Italiano della Guerra di Rovereto si trova un piatto di ceramica che raffigura un bombardamento aereo: il primo novembre 1911, infatti, il tenente Giulio Gavotti lanciò quattro ordigni esplosi su Ain Zara e sull'osai di Tagiura.

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LA MALASANITÀ IN ITALIA

il primo gennaio e il 19 novembre 2020).

Quando si parla di malasanità il riferimento non è soltanto per l’insufficienza delle strutture, cattiva gestione della sanità pubblica, la carenza di personale o per i mancati finanziamenti necessari a fare funzionare, nel migliore dei modi, tutta la macchina sanitaria, ma principalmente per l‘insieme di errata cura medica o gravissimi errori sia da parte del personale sanitario, medici compresi sia degli ospedali o cliniche private. Comportamenti incuranti e negligenti che non di rado causano danno al paziente il quale è giustamente motivato a rivolgersi in sede giudiziale per richiedere un giusto e adeguato risarcimento.

Per la cronaca e per avere una esatta dimensione dei casi di malasanità basti pensare che ogni anno, nel nostro paese, sono istruite circa 300mila cause contro medici e strutture sanitarie. A questo si deve aggiungere che nel 2020, le spese legali da contenzioso e da sentenze sfavorevoli, che la nostra sanità ha dovuto sostenere, ammontano a circa 180milioni di euro (cifre queste che sono presenti nella ricerca “Spese legali nella sanità” del Gruppo italiano per le ricerche di opinione e di mercato Demoskopika, rilevati tra

Da una recentissima indagine si dimostra che i reparti dove si verifica il maggior numero di casi di “malasanità” sono: ortopedia e traumatologia (20,4%), chirurgia generale (13%), nel pronto soccorso (12,6%) e in ostetricia e ginecologia (10,9%). Per quanto riguarda, poi, gli interventi, quelli che detengono il triste primato sono i chirurgici (quasi il 40%) seguiti da errori diagnostici (circa il 21%), quelli terapeutici (10,8%) e le infezioni che avvengono in ospedale o pronto soccorso (6,7%)

Ma quando è che il paziente ha diritto al risarcimento? Quando è incontrovertibilmente accertata la colpa e quindi la diretta responsabilità medico-sanitaria che ha causato un danno fisico, psichico (di qualsivoglia genere e natura), una lesione parziale, invalidità permanente o il decesso di una persona.

E più precisamente quando il paziente non è stato visitato, operato e curato in maniera corretta, tanto che da tale negligenza si origina, per

appunto, un danno. In altri termini quando  si concretizza una situazione di negligenza, imprudenza, imperizia, intervento mal eseguito, errata oppure omessa diagnosi, mancato consapevole consenso del paziente o altro grave errore.

Per quanto riguarda la richiesta di ottenere un adeguato risarcimento in base al danno subito, molti pazienti, vittime di malasanità, si rivolgono a un avvocato per patrocinare la loro causa, avere giustizia e un adeguato risarcimento del danno. In questi casi, anche se la scelta dell’avvocato appare opportuna, è bene anche considerare la possibilità, di rivolgersi a strutture organizzate con avvocati e medici legali (esperti nella tutela e del diritto alla salute) i quali, con la loro esperienza, saranno in grado di dare il supporto adeguato, consigliarlo nell’azione legale corretta contro medici e/o ospedali, offrirgli tutte la garanzie prevista dal nostro ordinamento al fine di ottenere un congruo risarcimento per il paziente e/o per i propri familiari

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QUALE SORTE PER LA PATENTE?

La guida in stato di ebbrezza costituisce uno dei reati che, più di frequente, gli avvocati si trovano a trattare.

Spesso, però, oltre al fatto di essere chiamati a rispondere di un reato davanti ad un giudice (penale), la grande preoccupazione del soggetto fermato alla guida dopo qualche bicchiere di troppo riguarda la sorte della patente di guida.

Infatti, la norma che prevede la contravvenzione di guida in stato di ebbrezza, declinata secondo diverse soglie di rilevanza penale (prima ipotesi: tasso alcolemico superiore a 0,5 e non superiore a 0,8 grammi per litro; seconda ipotesi: tasso alcolemico superiore a 0,8 e non superiore a 1,5 grammi per litro; terza ipotesi: tasso alcolemico superiore a 1,5 grammi per litro) stabilisce anche la durata della sanzione amministrativa della sospensione della patente, anch’essa diversificata in base al tasso alcolemico.

Il periodo di sospensione della patente di guida può andare da un minimo di tre mesi ad un massimo di due anni, con possibilità di raddoppio in casi particolari.

È evidente come un periodo così lungo di sospensione della patente di guida possa comportare disagi notevoli, nella gestione ad esempio del lavoro o delle esigenze familiari.

Il provvedimento di sospensione della patente di guida è emanato dal Prefetto o dal Commissariato del Governo (per la provincia di Trento) e può essere impugnato davanti al Giudice di Pace entro 30 giorni dalla sua notifica. La valutazione dell’impugnazione è questione delicata, sia perché ovvia-

mente comporta un esborso economico in capo al soggetto che la richiede, sia per il fatto che la sua possibilità di accoglimento dipende, in larga parte, dalla strategia che verrà attuata nel giudizio penale.

Va detto infatti che il processo penale può riverberare i suoi effetti anche sul periodo di sospensione della patente, pur se si tratta di due accertamenti diversi che seguono iter indipendenti. Nell’ambito del processo penale è prevista la possibilità di definire la posizione dell’imputato attraverso lo svolgimento di lavori di pubblica utilità (ai sensi dell’art. 186 comma 9 bis C.d.S.): ciò consente, alla fine del periodo di lavori, di ottenere un dimezzamento del periodo di sospensione della patente di guida, oltre all’estinzione del reato. Nel momento in cui, però, alla guida in stato di ebbrezza si aggiunge il coinvolgimento in un incidente stradale, la situazione si aggrava non poco e, ancor di più, è opportuno lo studio attento di come procedere. La citata forma di lavori di pubblica utilità non può

essere attivata: vi sono altri utili strumenti, come la messa alla prova ai sensi dell'art. 168 bis c.p. che possono essere applicata ma con preclusioni specifiche come il fatto che può essere richiesta solo una volta.

In caso di messa alla prova (ex art. 168 bis c.p.) le sanzioni amministrative rimangono impregiudicate ma di competenza dell'Autorità Amministrativa, quale è obbligata a svolgere una specifica valutazione prima di irrogare le medesime.

Certo è che un tempestivo contatto con un legale di fiducia può condurre a soluzioni decisamente positive, limitando al minimo i disagi.

*Avvocato Erica Vicentini, del Foro di Trento, Studio legale in Pergine Valsugana, Via Francesco Petrarca, 84) , Chi desiderasse avere un parere su un problema o tematica giuridica oppure una risposta su un particolare quesito, può indirizzare la richiesta a: direttore@valsugananews.com

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I Raw Crew in cronaca

Molte volte vi sarà capitato di vedere in televisione le performance di atleti che sulle proprie bici o moto fanno delle autentiche acrobazie in area, uno sport appassionante e allo stesso tempo duro da praticare. Da diversi mesi a Lentiai è stato posizionato lo skate park che per decenni era sito a Mel vicino alle scuole. Qui operano i Raw Crew, un

gruppo di ragazzi di età compresa tra i 20 e 30 anni, con la passione degli action sport come ad esempio bmx ,skate motocross, freestyle motocross, downhill , mtb enduro e discipline invernali come snowboard e freeski. Il loro obiettivo è di passare la loro esperienza ai più giovani, in maniera da facilitargli l'approccio e la pratica di queste discipline meno convenzionali e poco conosciute rispetto al calcio e ad altri sport. Gli skate park sono strutture poco diffuse, quello di Lentiai è l’unico in provincia di Belluno e uno dei sette della regione Veneto, proprio per questo motivo sono molto utilizzati soprattutto dai tanti giovani appassionati. “Facciamo spesso trasferte fuori provincia per far conoscere a pieno queste pratiche sportive portando i ragazzi a conoscere simili realtà nelle varie provincie vicine e non solo”, affermano gli associati. “Da un paio di anni siamo diventati anche associazione sportiva dilettantistica affiliata ad Aics, la Blbike, passo fondamentale per poter dare un assicurazione ai ragazzi che aiutia-

mo e per poter gestire lo Skatepark”. Nel periodo pre lockdown sono stati organizzati dei campi estivi per dare  ai giovani interessati e curiosi, la possibilità di conoscere e cimentarsi in sicurezza con queste discipline meno blasonate ma che riscontrano sempre più apprezzamenti. Il sogno dei membri della Raw Crew è quello di trasformare questa passione in una vera e propria professione, realizzando un nuovo skate park

sempre aperto e con strutture moderne ed efficienti. Il tutto sarà realizzabile se arriveranno contributi economici, permettendo così di garantire un futuro radioso a queste discipline un tempo poco conosciute che oggi possiamo apprezzare e valorizzare più efficacemente  anche sul territorio bellunese. Per

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informazioni:
blbike.asd@gmail.com Società,
giovani e sport di Alex De Boni

Tra due e quattro ruote

L’associazione sportiva BL Racing festeggia la conclusione del proprio 25° anno di attività come Scuderia e Moto Club. Un traguardo di grande prestigio per il gruppo zumellese che in questo quarto di secolo ha visto difendere i colori sociali 505 diversi piloti, partecipando a 4038 gare. Alcun di loro sono stati premiati, in occasioni delle annuali cene, per il raggiungimento di importanti obiettivi come ad esempio Vettorel Fabrizio, Soravia Luca, Stival Ivan e Pais De Libera Roberto per la 100^ gara con la Scuderia – Moto Club BL Racing. Al raggiungimento e superamento di ogni 1000 partecipazioni, come Team, è stato dedicato un poster raffigurante i piloti e la relativa gara del risultato, e precisamente, in ordine di data: 1000^ – Rally Monte Avena del 23-25 giugno 2005 - Vettorel Fabrizio

– Savaris Simone, 2000^ – Rally Colli

Trevigiani del 6-7 marzo 2009 - De Stefano Camillo – Bertato Paolo, 3000^

– Supermotard a Ottobiano del 29 giugno 2014 - De Cassan Danny, 4000^ –Rally S. Martino di Castrozza e Primiero del 17-19 settembre 2021 – Stival Ivan - Pais de Libera Roberto. Per quanto riguarda il bilancio della stagione

appena conclusa, causa restrizioni covid non è stato possibile svolgere la tradizionale festa annuale, ma nonostante questo non mancano i motivi per essere soddisfatti di questo 2021 appena terminato. Per la categoria Supermotard gli onori della cronaca sono per Mattias De Vallier, 18enne di Voltago Agordino che si è classificato 2° assoluto nel Campionato Triveneto – Romagnolo SM2 Under 24, collezionando anche tre vittorie. Una sicura promessa del motociclismo. Per quanto riguarda il Rally, nel Campionato Italiano WRC hanno confermato la loro supremazia nella classe RS2.0 Plus Stival Ivan con Pais de Libera Roberto, vincendo anche dei Premi Michelin Rally Cup. Nella Coppa Rally Zona 4, sempre del Michelin Rally Cup, vincono la classe Petozzi Roberto con Moruzzi Genny. Nella Coppa Rally Zona 3, ACI Sport, hanno vinto la coppa di classe gli equipaggi Ghegin Filippo – Ghegin

Elisa in Classe

RS2.0 Nella Coppa Rally

Zona 4, ACI Sport, hanno vinto la coppa di classe gli equipaggi formati da Curto Ivan –Pizzol Fabio in Classe K10 e Ghegin Luca –Ghegin Elisa in

Classe RS2.0 Incetta di premi nel Trofeo Italiano Velocità Montagna Nord, infatti hanno vinto: Accorsi Lorenzo il gruppo Produzione di Serie e naturalmente la classe 1600, Guerra Luca la classe RS 1,4, Bommartini Matteo la classe RS 1,6 Plus,  Vettorel Fabrizio la classe N 1600, Bommartini Fabrizio la classe ProdE 1600, Vettorel Alessandro la classe E1 1400 ed alla finale nazionale di Orvieto – Salita La Castellana vincendo la rispettiva classe hanno ricevuto il relativo premio ACI Sport Accorsi Lorenzo e Vettorel Fabrizio.

Infine nella categoria “velocità salita auto storiche” Raffaele Terlizzi ha vinto la Coppa di 3° di Classe SIL 1000 nel 3° raggruppamento con la fida A112 Abarth.

“Un anno, nonostante tutto, ricco di soddisfazioni, con 73 vittorie di classe e 43 podi, per l’impegno profuso, tra mille difficoltà dei protocolli di sicurezza, dai nostri 69 piloti che hanno partecipato a 187 gare, e di tutta la BL Racing, con il dovuto ringraziamento a tutte le ditte che ci hanno supportato”, commenta il presidente Walter Robassa.

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Lo sport in cronaca di Alex De Boni

Curiosità dal mondo LO SAPEVATE CHE....

...la neve è un ottimo isolante dal freddo: dentro un igloo la temperatura sale fino a 15 °C. Gli Inuit e le altre popolazioni artiche sfruttano da sempre la "termoregolazione umana" per scaldare le loro case di ghiaccio. Queste sono talvolta collegate tra loro attraverso cunicoli sotterranei. A Montreal in Canada hanno preso ispirazione da questi tunnel per costruire una rete stradale a prova di gelo con oltre 30 chilometri di strade sottoterra!

…mettere un piede fuori casa è una questione di vita o di morte per i kombai, popolazione dell'Indonesia. Le loro abitazioni sono infatti sopraelevate, sorrette da pali che possono raggiungere i 50 metri di altezza. Solo così possono sfuggire all’umidità della foresta pluviale in cui vivono. In Indonesia, infatti, cadono mediamente 3200 millimetri d’acqua in 238 giorni all’anno.

…in Turchia esistono città scavate nella roccia. La Cappadocia è infatti una regione dove le rocce vulcaniche particolarmente friabili sono state scavate in tempi antichi vere e proprie città sotterranee, distribuite su più livelli. Ai piani superiori erano collocate le abitazioni, quelli inferiori erano adibiti a deposito e alle cerimonie religiose. Qui vi trovarono riparo i primi cristiani perseguitati. Qualcosa di simile lo troviamo anche qui in

Italia a Matera o in Toscana, dove troviamo la stessa roccia, il tufo.

…la casa degli indiani d’America delle grandi pianure erano i tepee. Queste tende, dove vivevano i cacciatori nomadi, erano di forma conica e formate da un'intelaiatura di 15 lunghe pertiche, conficcate nel terreno e unite al vertice, ricoperte di pelle di bisonte o di daino. All'interno, al centro era collocato il fuoco e il foro che completava la sommità del cono permetteva l'uscita del fumo all'esterno. I villaggi erano circolari, con al centro il tepee dedicato alle cerimonie collettive.

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La macchina per cucire

Una delle invenzioni che di fatto ha aiutato la donna nelle sue faccende e occupazioni giornaliere è stata la macchina da cucine. Sulle sue origini non si hanno certezze, ma da documenti d’epoca è certificato che l’industria della macchina per cucire ha avuto inizio nel XIX secolo e si ritiene che siano stati in molti a brevettare un qualcosa di molto simile al suo funzionamento: nel 1755 tale Frederick Wiesenthal, nel 1790 Thomas Saint e nel 1830 il sarto francese Barthèlemy Thimonnier che brevettò il primo vero impiego della macchina per cucire. In Italia la prima industria a produrre le macchine per cucire fu la Filotecnica Salmoiraghi nel 1877. I primi modelli erano azionati a mano mediante una manovella che faceva muovere un volano. La donna con la mano destra si produceva

il movimento dell’ago, della spoletta e il trascinamento del tessuto, con la sinistra si controllava e si indirizzava la tela da cucire. Negli anni a seguire le macchine per cucire funzionavano a pedale cui era collegata una cinghia che produceva il movimento e quindi entrambe le mani erano libere di agire. Merito del pedale si deve a Isaac Merrit Singer che nel 1851 ne brevettò il funzionamento. Oggi il totale movimento della macchina per cucire è coordinato da una specifica tecnologia computerizzata che sfruttando particolari programmi è in grado di eseguire alla perfezione cuciture di qualsiasi tipo quali ricamo, imbastitura, rammendo ecc.

Da aggiungere che le attuali macchine si differenziano sia in

base alla loro struttura e sia per lo specifico utilizzo. Da qui, data la complessità del loro funzionamento, vi è la necessità di rivolgersi sempre a negozi specializzati o a coloro i quali sono veri esperti del settore, e non solo per ricevere gli appropriati suggerimenti per un idoneo e funzionale acquisto, ma anche e principalmente per un buon servizio di assistenza.

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Superati i famosi “giorni della merla”, eccoci finalmente a febbraio. Il desiderio di lasciarci alle spalle l’inverno è più forte che mai, le giornate si stanno allungando e la nostra mente è già proiettata verso i profumi e i colori della primavera. Ma non ci siamo ancora. Nelle zone più ombreggiate di molti dei prati e giardini del nostro territorio, gli ultimi residui di neve devono ancora sciogliersi e la brina resiste, nel peggiore dei casi, quasi fino all’ora di pranzo. Per fortuna, alcune piante sono già uscite dal loro “letargo”.

Una di queste è il calicanto d’inverno. Il nome scientifico, Chimonanthus praecox, ben spiega la principale attrattiva di questo arbusto: “cheimon” e “anthos” sono termini greci che significano rispettivamente “inverno” e “fiore”, mentre “praecox” si riferisce alla precocità della fioritura, che avviene in febbraio o marzo.

Si tratta di una pianta nativa delle fredde foreste montane di Sichuan, Hubei e Zhejiang, regioni della Cina sud-orientale, che ben si è adattata al nostro clima. Il calicanto d’inverno, infatti, veniva già impiegato come pianta ornamentale nei giardini europei ottocenteschi, e anche nei giardini privati della nostra provincia se ne vedono tanti di una certa età.

I fiori del calicanto d’inverno sbocciano

ben prima che la pianta abbia iniziato la produzione di foglie, e il risultato è affascinante: un arbusto completamente nudo, coi sottili rami allungati verso il cielo, che si ricopre di piccoli fiorellini bianchi o gialli, con una macchia porpora al centro. Il loro profumo soave è inconfondibile. L’intensa fragranza, dolce, con una punta aromatica, si diffonde in tutta l’area circostante infondendo serenità, e si dice possa addirittura aiutare a placare ansia e stress.

In primavera inoltrata il calicanto d’inverno si riempie di foglie verdi, ruvide al tatto, allungate e lanceolate (in un certo modo simili a quelle di un pesco). La sua vegetazione densa e intricata crea un’ombra ideale per ripararsi durante le calde giornate estive. In autunno le foglie prendono una tonalità dorata e, salvo forti colpi di vento, rimangono attaccate all’arbusto piuttosto a lungo, prima di cadere a terra.

Se l’idea di mettere a dimora un esemplare di calicanto d’inverno nel vostro giardino vi stuzzica, è bene conoscere le nozioni di base per la sua coltivazione.

Fortunatamente per chi ritiene di non avere il pollice verde, questa pianta non si ammala facilmente e resiste molto bene all’inquinamento cittadino. Non teme il gelo e la neve, resistendo a temperature molto rigide: non perde i fiori nemmeno a -12°C!

Possono passare anni prima che gli esemplari giovani inizino a fiorire; perciò, vi conviene acquistare una pianta allevata in vaso, già abbastanza grandina, chiedendo consiglio al vostro vivaista di fiducia.

D’inverno l’esposizione ideale è in pieno sole e al riparo dal vento. In questo modo, i fiori sbocceranno con maggior abbondanza. D’estate questo arbusto preferisce trovarsi in zona di mezz’ombra.

Il terreno ideale è fertile e ben drenato, anche se argilloso, con pH neutro o subacido; il calicanto d’inverno non gradisce i suoli eccessivamente calcarei.

Preparate una buca d’impianto capiente e concimata sul fondo con compost o stallatico in pellet ricoperto da uno strato di terriccio (è consigliabile che le radici non tocchino direttamente il concime).

La pianta ha bisogno di essere bagnata abbondantemente – pur evitando con attenzione i ristagni idrici – soltanto nei primi anni dall’impianto, oppure durante periodi particolarmente siccitosi. Dopodiché, può vivere tranquillamente accontentandosi dell’acqua piovana.

La concimazione è importante per ottenere ricche fioriture: va effettuata ogni anno in autunno (novembre) con un concime organico a base di humus, letame, stallatico, eccetera.

Il calicanto d’inverno è una pianta a bassa manutenzione: si può potare occasionalmente per migliorarne la forma, eliminare i rami troppo affollati e rimuovere quelli secchi; tuttavia, è bene evitare potature troppo severe. Come già spiegato, i fiori sbocciano sul “legno vecchio” (rami di uno o due anni), pertanto una potatura eccessiva può provocare una scarsa fioritura. Un accorgimento importante: potare questo arbusto in primavera, dopo che i fiori sono appassiti.

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La natura in casa di Niccolò Sovilla
Il calicanto d’inverno: profumo di primavera
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Il pasto degli Antichi Romani, dalla frugalità ai sapori

Agli inizi leggendari di Roma, sulle navi di Enea, secondo il racconto di Virgilio, durante una travagliata

navigazione durata sette anni, i marinai troiani potevano nutrirsi quasi esclusivamente della polenta di farro accompagnata dai pesci pescati durante il viaggio e dalla poca carne acquistata nei porti. Quando poi, Seneca critica la sregolatezza dei costumi dei suoi contemporanei ne individua la causa nella perdita di quella “parsimonia veterum”, la dote morale della frugalità che

si riscontra nelle abitudini alimentari primitive dei popoli latini, quando si nutrivano soprattutto di puls, un'insipida polenta di farro cotta in acqua e sale, con contorno di legumi, pesciolini salati (gerres o maenae), frutta, formaggi e, raramente, di carne. Come ci testimoniano molti scrittori latini, l'antica alimentazione romana era fatta soprattutto di vegetali, com'era nell'uso dei vicini etruschi da cui nei periodi di carestia provenivano a Roma lungo il Tevere i rifornimenti di grano che permisero dal II secolo a.C. la produzione del pane in tre qualità. Candidus, fatto di farina bianca finissima, secundarius, sempre bianco ma

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Quattro passi nell'antichità

Quattro passi nell'antichità

con farina miscelata e plebeius o rusticus, una specie di pane integrale. Dagli etruschi, più ricchi e ai quali «le possibilità economiche e le necessità del decoro gentilizio lo consentivano», giunse a Roma l'abitudine di nutrirsi di un cibo più variato e ricco di proteine costituito sia da selvaggina che da animali di allevamento. Quando poi Roma entrò in contatto con i Greci della Magna Grecia, da loro imparò ad apprezzare i frutti dell'olivo e della vite che aveva usato fino a quel momento soprattutto per i riti religiosi. A partire dall'età di Augusto, con la conquista dell'Oriente e gli intensi rapporti commerciali con l'Asia arrivò a Roma «tutto quanto la terra produce di bello e di buono».e l'alimentazione romana si raffinò. Al cibo inteso come puro sostentamento cominciò in epoca imperiale a sostituirsi, anche con l'uso delle spezie e dei profumi, il gusto e la cultura del cibo, passando dalla pura alimentazione ai sapori.

I romani incominciarono così a mangiare in tre pasti quotidiani (ientaculum, cena e vesperna, poi prandium). Raramente però dedicavano molta attenzione ai primi due pasti che non erano mai molto nutrienti e il più delle volte ne abolivano uno. Alcuni anziani seguivano l'ordine dei tre pasti perché così avevano loro consigliato i medici come a Plinio il vecchio, sempre molto frugale, e a Galeno che consumava lo ientaculum verso l'ora quarta. I soldati si accontentavano di un prandium verso mezzogiorno. Marziale ci descrive il suo ientaculum costituito da pane e formaggio,

mentre il prandium consisteva in carne fredda, verdura, frutta e un bicchiere di vino miscelato con acqua.

Ancora più limitato lo ientaculum di Plinio il Vecchio (cibum levem et facilem) a cui seguiva una merenda per prandium (deinde gustabat) il tutto senza apparecchiare (sine mensa) e senza doversi lavare le mani (post quod non sunt lavandae manus).

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Salute e benessere di Alex De Boni

La CELIACHIA

Esistono persone celiache e persone in parte celiache? Assolutamente no, esiste soltanto essere o meno celiaci. Il dubbio però sorge spontaneamente se si valutano i menù che sempre più ristoranti bellunesi non certificati propongono. Ma cos’è la celiachia? E’ una infiammazione cronica dell'intestino tenue, scatenata dall'ingestione di glutine in soggetti geneticamente predisposti. Essa è caratterizzata da un quadro clinico variabilissimo, che va dalla diarrea profusa con marcato dimagrimento, a sintomi extraintestinali, alla associazione con altre malattie autoimmuni.

A differenza delle allergie al grano, la Celiachia e la Dermatite Erpetiforme

non sono indotte dal contatto epidermico con il glutine, ma esclusivamente dalla sua ingestione. La celiachia non trattata può portare a complicanze anche drammatiche, come il linfoma intestinale. Questa malattia può essere identificata con assoluta sicurezza attraverso la ricerca sierologica e la biopsia della mucosa duodenale in corso di duodenoscopia.

La dieta aglutinata è l’unica terapia disponibile per i celiaci e va eseguita con rigore per tutta la vita. Ma come si organizza e quali sono le normative per un ristorante gluten free? Per prima cosa bisogna formare il personale e prepararlo alle varie problematiche che possono insorgere; secondo aspetto

fondamentale è che il ristoratore deve essere in grado di gestire tutto nei minimi particolari. Lo scopo primario è quello di non contaminare i cibi e quindi le celle frigo,  gli scaffali e gli elettrodomestici per le cotture devono essere destinati esclusivamente ai prodotti senza glutine.

Scegliere una cucina dedicata a chi soffre di celiachia significa rivolgersi a fornitori specializzati che offrono prodotti appositamente creati per i celiaci tra questi anche aromi, spezie e condimenti.

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contenenti glutine; per questo, sui mezzi di trasporto per alimenti, devono essere adeguatamente separati, protetti ed identificati. Se un ristoratore  decide di dedicarsi  ad entrambe le cucine (tradizionale e senza glutine) allora il discorso sarà ancora più complesso perché, il locale, dovrà destinare una parte della cucina alla preparazione esclusiva di questi alimenti. Non solo, anche gli attrezzi e gli utensili da utilizzare dovranno essere differenti.

Molti locali che attualmente propongono menù senza glutine non sono in grado di garantire che non vi siano contaminazioni con cibi dei menù tradizionali, questo fa sì che non si possa più parlare di menù senza glutine, quindi vi è in questo modo non solo una pubblicità ingannevole, ma si corre il serio rischio di incorrere in avvelenamento da glutine. Questa mania dilagata negli ultimi anni è sfuggita ai controlli degli

enti preposti che adesso sono chiamati a vigilare con maggiore severità sul territorio provinciale. Non esistono persone poco celiache, esistono persone

celiache punto, da qui il fatto che non possono esistere locali non certificati che propongano menù gluten free a rischio contaminazione.

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Il TAGLIANDO e la REVISIONE dell’AUTO

Quando si parla della sicurezza, funzionalità e prestazioni ottimali dell’automobile, sia essa a benzina o diesel, è necessario rispettare, sempre, due importantissime scadenze: il tagliando e la revisione.

Il primo è un particolare controllo di manutenzione ordinaria che esamina e verifica tutte le componenti dell’automobile che nel tempo e con il tempo sono o possono essere soggette alla normale usura o consumo. Di solito questa verifica si fa in una qualsiasi officina meccanica anche se è buona regola recarsi presso un’officina autorizzata dalla casa madre perché, facendolo, si rende valida e a volte anche può prolungare la garanzia sull’auto rilasciata nel momento dell’acquisto. La data del tagliando è sempre riportata sul libretto di manutenzione dell’auto.

La revisione invece è una particolare “ispezione” dell’auto a scadenza periodica, prevista per legge, quindi obbligatoria, per verificare l’efficienza del veicolo e se lo stesso è conforme alle norme del Codice della strada.

La revisione, che può essere fatta sia presso le sedi della Motorizzazione civile oppure, in alternativa, presso i centri privati autorizzati, prevede l’obbligatoria ispezione e il controllo dei freni, della trasmissione, delle emissioni inquinanti e

di tutte le parti che hanno il compito di garantire la stabilità, la sicurezza del veicolo e le sue buone prestazioni. Mentre per il tagliando non vi sono particolari voci da registrare nel libretto di circolazione, per quanto riguarda invece la revisione possono esserci, dopo il controllo globale dell’auto, tre possibili risultati o esiti:

- quello “regolare” ovvero si certifica che il veicolo ha superato l’esame;

- quello “da ripetere” vi è la necessità di ripetere la verifica poiché si sono riscontrate anomalie o difetti. In questo caso l’auto può circolare solo dopo aver effettuato i lavori richiesti e con una dichiarazione di esecuzione a regola d’arte, fatta dall’officina che li ha eseguiti, ma entro 30 giorni dalla prima data dovrà sottoporsi a un’altra revisione;

- quello “sospeso” quando si sono riscontrate gravi anomalie e mal funzionamenti e quindi il veicolo non può circolare fino all’esecuzione dei necessari lavori per ripristinare la piena e totale efficienza e aver superato la successiva revisione con esito regolare.

Importantissimo sapere che la prima revisione dell’auto deve essere fatta dopo quattro anni dalla prima immatricolazione e successivamente ogni due anni e sempre entro il mese corrispondente a quello in

cui è stata effettuata l’ultima revisione. Tali scadenze si applicano per le autovetture, autocaravan, autoveicoli adibiti al trasporto di cose o ad uso speciale a condizione, però, che la massa complessiva non sia superiore ai 3.500 Kg. E devono sottostare alla revisione anche i motoveicoli e ciclomotori. La stessa scadenza ( 2 anni) è anche per i veicoli che sono riconosciuti di interesse storico e collezionistico.

E’ obbligatoria, invece, farla ogni anno per tutte le autovetture adibite al servizio taxi, noleggio con conducente, per gli autobus, le autoambulanze e per autoveicoli utilizzati per il trasporto di cose e i rimorchi di peso complessivo superiore ai 3.500 Kg. Una triste nota riguarda coloro i quali circolano senza aver effettuato la revisione dell’auto perché il Codice della strada prevede una sanzione amministrativa che varia da 169 a 680 euro ( questi importi si raddoppiano in caso di revisione omessa per più di una volta). Oltre alla multa è previsto anche il fermo immediato del veicolo fino all’effettuazione della revisione e la segnalazione sul libretto di circolazione. Se invece si circola durante il periodo di sospensione si rischia una multa fino a 7.993 euro, più il fermo amministrativo di 90 giorni. (a.m.)

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FELTRINO NEWS è un periodico mensile distribuito gratuitamente in tutti i comuni della Vallata Feltrina e della Conca bellunese. È stampato in 6mila copie con una foliazione di 96/104 pagine tutto a colori e su carta patinata con formato 23cm x 31cm.

FELTRINO NEWS è un free-press non schierato politicamente e quindi suo precipuo compito è quello di dare una corretta informazione e giusta narrazione dei fatti, degli eventi e degli avvenimenti, siano essi politici, socia li, culturali o economici.

La redazione di FELTRINO NEWS è formata da 30 collaboratori di cui 12 giornalisti, 2 avvocati, 1 ingegnere, 2 psicologhe e una corrispondente dagli USA. La consulenza medico-scientifica è garantita da 4 medici.

FELTRINO NEWS viene posizionato in oltre 320 punti quali edicole, farmacie, supermercati, centri commerciali, alberghi, ristoranti, parrucchieri, autostazioni, ambulatori, ospedali, bar, negozi, macellerie

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