l’Unità Laburista - Libera Uscita - Numero 41 del 1º luglio 2021

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Numero 41 del 1° luglio 2021

Libera Uscita


Sommario  l’Editoriale del Direttore/Soffia un cattivo vento sul Paese - pag. 4 di Aldo AVALLONE  Valori e interessi, gemelli diversi - pag. 9 di Giovanni AIELLO  Buon lavoro - pag. 14 di Raffaele FLAMINIO  Pensieri semplici - pag. 20 di Antonella GOLINELLI  Da Vermicino a Mottarone, un lungo fil rouge - pag. 24 di Rosanna Marina RUSSO  Marx e il denaro - pag. 29 di Giovan Giuseppe MENNELLA  Libera stampa in libero Stato - pag. 37 di Aldo AVALLONE  Selfie di fine anno - pag. 41 di Lucia COLARIETI  A Casteldilago l’albergo diffuso nel borgo sospeso - pag. 44 di Veronica D’ANGELO  Un film... - pag. 50 di Anna NAPOLITANO  Cristo! Ma non sei più marxista? - pag. 54 di Aldo AVALLONE 2


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l’Editoriale del Direttore

Soffia un cattivo vento sul Paese Aldo AVALLONE

Appena pochi giorni fa l’ISTAT ha rilasciato i dati relativi al 2020 sulla povertà nel nostro Paese. Ebbene il quadro che ne viene fuori è allarmante: più di due milioni di famiglie e oltre 5milioni e 600mila individui vivono in povertà assoluta. In termini percentuali, rispetto alla popolazione, si tratta del 7,7% del totale dei nuclei familiari (6,4% nel 2019) e del 9,4% delle persone (7,7% nel 2019). Per quanto riguarda la povertà relativa, le famiglie sotto la soglia sono poco più di 2,6 milioni (10,1%, da 11,4% del 2019). L’Istituto nazionale di statistica propone ulteriori analisi riguardo alle differenze territoriali, all’età, alla concentrazione o meno della povertà nelle grandi città o nelle zone rurali. Dati interessanti per chi vorrà approfondire il tema ma la considerazione che salta agli occhi è che nel Belpaese c’è sempre più gente che fatica a sopravvivere. E appare evidente che tutto ciò accade nonostante le misure di soste4


gno al reddito previste dalle misure governative. Mi domando dove saremmo oggi senza il tanto criticato reddito di cittadinanza e dove potremmo ritrovarci nel prossimo futuro visto che l’esecutivo guidato da Draghi con il Decreto sostegni bis ha prorogato fino al 28 agosto il blocco dei licenziamenti, in scadenza il 30 giugno, solo per le aziende che chiederanno la cassa integrazione per emergenza Covid. Tutte le altre avranno libertà di licenziamento. Nel prossimo autunno si rischia l’apertura di una stagione di forte conflittualità sociale che ci riporta alla mente il famoso autunno caldo del 1969. Questo provvedimento ha confermato, semmai ce ne fosse stato ancora bisogno, che le scelte economiche di Draghi sono improntate alla difesa degli interessi confindustriali a scapito di quelli dei lavoratori. Il primo ministro sarà certo competente ma la sua competenza non è assolutamente neutra. Infatti, Confindustria esulta in quanto potrà operare in piena libertà le sue riconversioni che, in pratica, consistono nel licenziare i lavoratori cinquantenni per assumerne altri più giovani con contratti con minori garanzie. Di fatto una semplice sostituzione mentre appare evidente che la priorità dovrebbe essere quella di allargare la platea degli occupati. Un ulteriore segnale delle scelte governative viene dalla nomina dei componenti del Nucleo tecnico per il coordinamento della politica economica, una struttura in forza al Dipartimento della programmazione economica presso la Presidenza del Consiglio. I consiglieri scelti da Draghi, Carlo Cambini, Francesco Filippucci, Marco Percoco, Riccardo Percoco, Riccardo Puglisi e Carlo Stagnaro sono tutti di idee liberiste, contrari all’intervento dello Stato in economia. Tra questi, in particolare, spiccano i nomi di Carlo Stagnaro e Riccardo Puglisi. Il primo è direttore ricerche e studi dell’Istituto Bruno Leoni retto da Alberto Mingardi, tra i fondatori del movimento ultraliberista “Fare per fermare il declino” (con Oscar Giannino e Michele Boldrin) e durante il governo Renzi capo della segreteria tecnica della ministra dello Sviluppo Federica Guidi. Il secondo, professore associato presso l’Università di Pavia, anch’egli è noto per le posizioni liberiste tanto che nel maggio 2020 criticò la scelta del governo di calmierare il prezzo delle mascherine che, secondo lui, doveva essere lasciato al libero mercato. Soffia un cattivo vento nel Paese. Si muore sul posto di lavoro dove i padroni riducono le misure di sicurezza per aumentare la produttività e durante le manifestazio5


ni, dove a Novara è stato ucciso un rappresentante sindacale investito da un camion che ha forzato il presidio dei lavoratori. E, ancora, a Lodi pochi giorni fa squadracce di picchiatori hanno aggredito i lavoratori in sciopero. Con il cambio del governo i padroni hanno compreso che il vento fosse cambiato e ne hanno subito tratto le conseguenze. E la sinistra? Le difficoltà del Partito Democratico e di Leu che siedono al governo con i ministri leghisti e di Forza Italia sono evidenti. Lo affermiamo con dispiacere osservando la realtà con sguardo che viene da sinistra. Certo, il ministro Orlano ha indicato una ragionevole mediazione sul blocco dei licenziamenti, proposta immediatamente bocciata dal premier. Il segretario Letta ha proposto un lieve incremento della tassa di successione sui grandi patrimoni il cui ricavato sarebbe stato destinato ai giovani del nostro Paese. Ma anche questa ha subito la stessa sorte di quella di Orlando. Leu, al di là dell’operato estremamente equilibrato del ministro Speranza (che pure sconta la grande confusione comunicativa del governo sul piano vaccinale), dovrebbe far pesare maggiormente la propria presenza nella maggioranza, ma oltre qualche proposta di emendamenti non riesce ad incidere. La terza gamba della futura alleanza elettorale del polo progressista, il Neo Movimento 5 Stelle di Giuseppe Conte è impegnato in un decisivo restyling che, però, ad oggi non sappiamo ancora dove lo condurrà. A fronte di un quadro politico dove le forze riformiste appaiono in difficoltà, viene legittimo domandarsi quale sia il vantaggio di essere ancora dentro a questo governo. È certamente comprensibile la necessità di garantire la coesione nazionale in un momento in cui la pandemia, seppure in remissione, non è stata ancora sconfitta, mentre sarà necessario spendere bene i fondi europei legati al Piano Nazionale di Rinascita e Resilienza. Ma a che prezzo? Fino a che punto si potranno accettare le scelte di Draghi che va avanti sulla sua strada come un carro armato, per compiere la missione per la quale è stato designa6


to: riportare alla ragione quei “pazzerelloni incontrollabili” del governo giallorosso? Se non si riesce a incidere sulle politiche governative, anche in funzione di consenso elettorale non sarebbe meglio uscire dall’esecutivo, pur rimanendo in maggioranza, valutando volta per volta i provvedimenti da appoggiare? Domande alle quali è oggettivamente difficile fornire una risposta. Ma credo che ora occorra avere occhi lungimiranti. Agire oggi guardando al futuro. La sinistra nel nostro Paese sconta ancora gli errori grandi commessi in passato. La sinistra, nel cui DNA dovrebbe esserci la difesa dei lavoratori, in questi anni ha “tradito” le proprie origini e la propria ragion d’essere. La condivisione, tranne poche e rare eccezioni, di una visione liberista ha portato a confondere gli interessi del capitale e del lavoro. Non è forse anche per questo che si è perso consenso dal proprio elettorato di riferimento? Per lunghi anni criticare l’impresa e il profitto è stato considerato quasi una bestemmia. E ora, forse troppo tardi, ci accorgiamo che c’è differenza tra gli interessi del capitale e gli interessi del lavoro. La tragedia del Mottarone, dove i gestori dell’impianto hanno deliberatamente messo fuori uso i sistemi dei freni di emergenza per non perdere il profitto, ne è l’esempio lampante. Ma situazioni simili accadono ogni giorno in ogni parte d’Italia. Soffia un cattivo vento sul Paese. Non è più tempo di tatticismi, serve darsi una mossa. Ora. Altrimenti sarà troppo tardi. 7


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Politica

Valori e interessi, gemelli diversi Giovanni AIELLO

Si tratta sempre di una bella grana: contemperare valori ed interessi! Ma se è vero che i “valori” sono definiti nel loro insieme come “il complesso delle qualità positive e ideali che costituiscono punti di riferimento fondamentali” (repubblica.it), verrebbe facile da immaginare che essi già coincidano ipso facto anche con i nostri principali interessi. E quindi, il contemperare gli uni con gli altri, non dovrebbe essere poi tanto difficile come dicono. Gli “interessi”, d’altra parte, sono a loro volta l’insieme di “ciò che appare atto a soddisfare i nostri bisogni, la considerazione di ciò che può contribuire al nostro benessere o esserci utile, vantaggioso” (treccani.it). E cosa c’è di più utile e vantaggioso per il nostro benessere se non proprio i valori, visto che essi ispirano i comportamenti più adeguati e positivi per tutti noi. Eppure, a ben vedere, questi due fratelli, ovvero “valore ed interesse”, che ad un primo sguardo (e nelle rispettive accezioni più ampie) sembrerebbero finanche gemelli, tanto da apparire quasi come una cosa sola, in realtà nel corso del 9


tempo si sono sempre più allontanati. Da qui il motivo per cui contemperarne la presenza è diventata oramai un’impresa al limite dell’impossibile. Anche perché, la profonda somiglianza reciproca, spesso ci spinge a sovrapporli, o peggio a confonderli. Attenti a (non confondere) quei due! - E proprio quando li confondiamo, allora cominciano i guai. Ne arriva una conferma recente e macroscopica dalle dichiarazioni parossistiche di Mario Draghi, il quale, a margine del recente G7 tenutosi in Cornovaglia, ha ricordato come "il presidente Biden abbia voluto ricostruire le alleanze tradizionali", e ancora che "il tema politico dominante è stato quale atteggiamento debba avere il G7 nei confronti della Cina e in generale di tutte le autocrazie, che usano la disinformazione, i social media, fermano gli aerei in volo, rapiscono, uccidono, non rispettano i diritti umani, usano il lavoro forzato.”. Queste, ad un primo ascolto, sembrerebbero parole sui valori. Ma come è evidente esprimono invece l’esigenza di ridare priorità agli interessi dell’Occidente e alla loro salvaguardia nel contesto atlantico della Nato (ribadita pochi giorni dopo anche nel vertice di Bruxelles), rispetto a paesi, Russia e Cina su tutti, che competono in modo sleale. Sono autocrazie, si diceva. Ma quanto a vocazione autocratica, anche organizzare un summit con soli sette invitati, sembra una scelta mica da scherzare. Il G7 infatti, dal punto di vista del diritto internazionale, è una sorta di privé a carattere del tutto informale (non esiste alcun atto istitutivo di quest’organo), una specie di “Clubhouse” degli affari in cui si discute fra amici di come gestire il 60% circa della ricchezza mondiale, per di più quasi sempre senza alcun risultato apprezzabile. E non fa eccezione in negativo nemmeno questa edizione 2021, nel corso della quale infatti, sebbene liberi dai protezionismi di Trump, ci si è giusto limitati a rispolverare il vecchio sodalizio fra i paesi in orbita Usa e a stabilire la dona10


zione di 1 miliardo di vaccini in favore dei paesi “poveri” (come ancora si ostinano offensivamente a definirli anche i principali servizi dei tg nazionali). La misura della libertà - Insomma, per dirla con i versi del cantautore Rino Gaetano (del quale il 2 giugno è ricorso il quarantennale della scomparsa, avvenuta in un controverso incidente stradale), “Capofortuna… regala sorrisi distesi ai suoi elettori, ai bambini bon bon”, che nel nostro caso diventano strette di mano per i media e medicine per i bisognosi. Ci troveremmo dunque, almeno secondo il racconto dei paesi liberi, dentro lo spazio della condivisione dei valori democratici e soprattutto della solidarietà, che infatti “deve essere la base nella ricerca di soluzioni globali”, come affermò nel 2011 Ban Ki-Moon, l’allora Segretario Generale delle Nazioni Unite. Ma rimane ancora un dubbio molto pesante su quale sia in concreto l’unità di misura di questa libertà democratica che l’Occidente vorrebbe tanto condividere con il resto del mondo. Forse la libertà si misura in vaccini, direbbe il sarcastico polemista, durante un ipotetico talk della sera. Ma no, si misura in diritti, lo incalzerebbe l’idealista filosofo della politica. Vi prego, non prendiamoci in giro, la libertà si misura in denaro, chioserebbe infine il cinico burocrate materialista. E a ben guardare nessuno dei tre avrebbe completamente torto, visto che i vaccini (al netto delle tante incertezze di questi mesi) rappresentano uno strumento per assicurare il diritto alla salute, ma non sono certo arrivati ovunque nello stesso momento, e ciò proprio perché costano decisamente cari ed era a vario titolo conveniente centellinarli dose a dose. Ciò detto sembrerebbe di essere sempre al punto di partenza, anche se in realtà l’esperienza quotidiana ci suggerisce una via d’uscita. L’area dei diritti, infatti, è certamente una indispensabile base di partenza. Ma la libertà di pensiero, o ad esempio quella di circolazione e soggiorno sul territorio della Repubblica, ci serviranno davvero a poco se nel frattempo siamo senza reddito e non possiamo permetterci neanche un paio di corse in metro per uscire dal no11


stro quartiere. Dunque, attenzione! Perché “libertà è partecipazione”, ma nel nostro sistema la partecipazione è “a gettone”, per cui anche accumulare soldi significa accumulare libertà. E se nel corso della nostra pur breve vita avremo abbastanza denaro da comprarci una porzione di eternità, allora saremo tranquillamente portati a fregarcene di tutti gli altri, della sfera pubblica, dei diritti e di quello che accadrà dopo di noi. Dunque, i due fratelli si sono infine ritrovati, ma all’altro capo del filo. Forse quello sbagliato. L’interesse personale è assurto a valore universale (nelle comunità più civili accade esattamente il contrario: il valore universale assurge il più possibile anche ad interesse personale). Al punto che lo spazio di espressione democratica sembra attualmente coincidere con lo spazio di accesso ai consumi. Quegli stessi consumi e quegli stessi sprechi che, com’è oramai dimostrato oltre ogni ragionevole dubbio, ci stanno costando davvero carissimi in termini di economia reale, in termini climatici, sanitari e umanitari. Uno non vale uno - E allora, delle due l’una. Interessi o valori. Contemperare proprio non si può. Se accettiamo l’idea che nascano continuamente conflitti, a ogni livello sociale (anche il nostro), per l’accumulo di mezzi, non potremo essere allo stesso tempo impegnati insieme per risolverli. E fino a quando misureremo prevalentemente in denaro il valore della nostra libertà, allora ci sarà sempre qualcuno disposto a lesinare sulla manutenzione del viadotto Polcevera, a inserire forchettoni sui cavi d’acciaio della funivia del Mottarone, rimuovere la griglia di protezione del macchinario tessile che ha ingoiato Luana D’Orazio, a organizzare un raid punitivo per disperdere il presidio dei lavoratori cassaintegrati o a costruire con la sabbia le residenze per gli studenti. Ci sarà anche qualcuno disposto a testare illegalmente i farmaci su persone inermi nelle zone di guerra, a sversare liquami radioattivi in mare, a trafficare in armi, in droga e in esseri umani. E ancora ad abusare dei lavoratori, delle donne e dei bambini, ad uccidere giornalisti e investigatori 12


per impedire loro di andare in fondo alle inchieste, ad accettare tangenti e poi nascondere fondi nei paradisi(?!) fiscali, a diffondere notizie fasulle, a depistare e a mentire spudoratamente durante una seduta in parlamento o davanti alle telecamere al termine di un vertice internazionale. E proprio in quell’esatto momento, per via di quelle stesse bugie, qualcun altro ancora, da qualche parte in Italia e nel mondo, sarà costretto dalla necessità più stringente a fare un lavoro sporco che danneggia altre persone, a vendere merce scadente o a vendere se stesso, a lasciare la sua casa, il suo paese e a rischiare la vita pur di provare a sottrarsi alla fame, alla guerra e ad una condanna senza appello alla disperazione. In definitiva, l’indicazione che ci arriva è probabilmente quella per cui non si possono applicare criteri di mercato quando si parla di risorse e di strutture che sono necessarie ed importanti per tutti, come acqua pubblica, energia, territori, case, strade, treni, ospedali, scuole, università. Non si può più sopportare (anche in senso macroeconomico) che una società composta dai “pochissimi” sia messa nelle condizioni morali e materiali di prosperare, spesso a qualsiasi costo, sacrificando il benessere dei restanti “moltissimi”. Anche perché, una fortuna che sia solo di alcuni, ha necessariamente molto a che fare con il dominio, e non certo col progresso. E se i cattivi fino ad oggi hanno ragionato sempre in grande, traendo il massimo dalle speculazioni su scala mondiale principalmente basate sul social dumping, allora è venuto davvero il momento che anche i buoni comincino a fare altrettanto, ma a modo loro (favorendo per esempio “una regolazione della concorrenza sociale guidata da principi internazionalmente riconosciuti di rispetto dei diritti fondamentali” - Perulli, 2011). E questo perché una libertà che sia figlia dell’avidità o, al contrario, che sia ricattata dalla paura di non sopravvivere, non potrà mai essere veramente “libera”, e non potrà mai esprimere il suo reale valore. Il nostro. 13


Lavoro

Buon lavoro! Raffaele FLAMINIO

È notizia di questi giorni che una nota azienda dolciaria italiana, specializzata nel confezionamento di gelati, cerca personale per assolvere ai picchi produttivi inevitabili per la stagionalità e per l’agognata, ripresa sociale e produttiva tanto invocata dal mondo intero e, in particolare, da quello imprenditoriale. L’azienda in questione propone 350 assunzioni stagionali, le domande pervenute all’ufficio Risorse Umane ammontano a 2.500 e, con molta probabilità sono destinate ad aumentare, i curricula pervenuti sono stati redatti da giovani compresi nelle fasce di età, tra i 17 e i 30 anni. Mi sono chiesto il perché ci sia stata un tale risposta? Sono andato a consultare il CCNL di Categoria, gli accordi aziendali, a dare uno sguardo alla struttura produttiva che è innovativa, dinamica, 14


tecnologicamente

avanzata.

Leggendo,

apprendo

che

la

nota

azienda,

volontariamente, ha siglato nel 2016 un Accordo di programma sulla sostenibilità ambientale con il Ministero dell’ambiente. Senza perdermi in chiacchiere affermo che si tratta di un’azienda nazionale, sana, responsabile socialmente, radicata ad “Opera d’Arte” nel territorio. Insomma, un posto buono come si sarebbe detto una volta. Il posto buono è un impiego che garantisce salario adeguato, diritti, rispetto per le persone che vi lavorano e per le famiglie che sono quelle che consumano i gelati. Perché allora tanti imprenditori non trovano lavoratori? O perché tanti potenziali lavoratori non cercano o non accettano il lavoro? Potrei iniziare una conferenza sull’argomento, ma vi rispondo con una domanda: Chiedete ai vostri figli? E chiedete pure se, notano differenza ante Covid e post Covid? Ho intervistato alcuni giovani compresi tra i 17 e i 30 anni per capire. Giorgio 21 anni diplomato, meridionale, la sua aspirazione è fare l’artista (che, come sappiamo, in Italia non è considerato un lavoro) ha diverse esperienze nel campo della ristorazione. È stato lavapiatti, facchino, aiuto in cucina, addetto di sala. I suoi “datori di lavoro”? piccoli “imprenditori”. Io dico spietati padroncini che sguazzano nella disperazione giovanile e nella feroce concorrenza per ottenere qualche spicciolo. Giorgio a che cosa aspiri? È difficile dirlo, per ora all’autonomia. Ma i tuoi genitori ti sostengono? Certo come possono ma la paghetta non risolve nulla anche se quella che ti offrono per un lavoro è meno di una paghetta. Non hai chiesto il reddito di cittadinanza? Vivo con i miei, dove potrei andare senza un 15


lavoro che sia degno di questo nome? Hai detto che in passato hai lavorato nella ristorazione, prima del covid la paga com’era? Prima di tutto sempre a nero e poi 20 euro per 15 ore e le mance dal binocolo, per una questione di gerarchie, sei l’ultimo arrivato. Sei il mozzo e non hai neanche il diritto di esistere.

È

terribile. Come individuo non esisti, sei alla mercé di tutto e di tutti. Arrivi a casa che sei morto, io per esempio non ho mezzi miei, i servizi di trasporto sono scadenti e torno a piedi a casa, abito nella parte collinare della città immagina la fatica e il giorno dopo ricominci. Secondo te, quanto duri per quanto giovane? Ho tanti amici che sono laureati a pieni voti, master e sono senza lavoro, gli dicono che sono troppo specializzati. Giorgio e ora che si riapre, le cose come vanno? Non è cambiato nulla è tutto uguale. Prova a fare qualche intervista a qualcun altro nei pressi del lavoro, vedi se ti rispondono. Non vogliono parlare hanno paura. La situazione è drammatica. Mi abbandona perché è già tardi e rischia di perdere il “lavoro”. In Italia abbiamo tanti ammortizzatori sociali, pochi controlli e tante truffe ai danni dei soliti noti. Abbiamo assistito al pianto continuo di migliaia di piccoli “donatori di lavoro” che lamentavano la mancanza di assistenza dello Stato. Poi l’assistenza è arrivata ed è cominciato il nuovo pianto: sono pochi. Allora ho incrociato i dati delle dichiarazioni Iva, dei fatturati, delle dichiarazioni dei redditi. Tutte miserrime, i sussidi equiparati hai fatturati, quindi bassi. E allora? Si ricomincia da dove si è interrotto. Lo sfruttamento e la concorrenza al ribasso sul lavoro e la incessante richiesta di flessibilità lavorativa. Alcuni dati statistici che ho consultato (Istat) ci dicono che il 21 %, dei lavoratori occupati, dichiara di essere preoccupato di rimanere in buona salute. Il 20% ha ritenuto difficile e faticoso, gestire lo stress ed equilibrare il tempo di vita e di lavoro, il 13% gestire il 16


quotidiano, il 12% è preoccupato circa la capacità di essere produttivo. L’altro dato interessante e che in pandemia si è lavorato oltre 20 ore in più a settimana, senza adeguato riconoscimento economico. I dati riportati riguardano chi ora lavora. La domanda è: fino a quando? Secondo invece le stime dei manager, il ritorno alla normalità (mi sono già espresso sull’argomento) ha dato uno slancio di ottimismo, in particolare per i più giovani – la risorsa più preziosa e plasmabile di cui si dispone – dichiara “La sfida ora, per i datori di lavoro e dei team Risorse Umane è quella di trovare i modi possibili di SFRUTTARE le positività. E dove possibile alleviare gli svantaggi per assicurarsi che il personale rimanga ottimista, motivato e incoraggiato a progredire lavorando al meglio” Queste sono le nuove idee, che convergono su un concetto ‘SFRUTTARE’. Naturalmente dipende dai punti di vista e dalla comodità della poltrona da cui si enunciano i nuovi e rivoluzionari principi. Di contratti, di salari, di orari di lavoro, di diritti manco a parlarne. Continuando a spulciare dati, attività davvero avvilente comprendendone il senso, ho scoperto che c’è anche il lavoro a scacchi. Incredibile ma vero. Assumo un cameriere gli faccio un contratto part- time da venti ore settimanali tutto regolare, giusto da esibire nell’eventualità che uno dei mille ispettori INPS piombino in massa nel mio ristorante, e poi gli impongo di lavorare 60 ore settimanali, l’eccedenza in nero e al compenso che stabilisco io. Vado avanti nella ricerca di dati, e scopro che alcune associazioni di categoria non trovano, camerieri, cuochi, barman, bagnini e altri stagionali. Ne mancano all’appello circa 150.000. La domanda è da interrogativo retorico. Anche i profili lavorativi di alto livello sono vacanti, in informatica per esempio, i tecnici e i programmatori sono introvabili. Perché? Non c’è bisogno di aspettare l’ardua sentenza dei posteri. Chiedete ai 17


vostri figli o a chi quel lavoro l’ha fatto e l’ha perduto e non per colpa della Cina o dell’India, perché Eurostat ci dice che il monte salari in Italia è calato di 39 miliardi circa, in questo anno ed era già in decrescita prima dell’avvento del Covid. Infatti, si è passati da 598 miliardi a 486 miliardi. La Germania è a quota 13 miliardi, la Francia a quota 33, il monte salari calcolato, però, è di circa 898 miliardi. Negli altri Paesi la crisi morde, da noi sbrana. I nostri stipendi lordi si fermano a 2.102 euro mensili ad eccezione dei Paesi dell’est , eden, in Francia siamo a 2.369 euro lordi mensili, in Germania a 2.891 euro lordi mensili sopra di noi ci sono altri 11 Paesi. Parliamo solo di gap salariale, di gender gap salariale (retribuzioni al femminile) di diritti e formazione è meglio non parlarne. Il cuneo fiscale nel nostro Paese è al 46%, la base lavorativa si restringe sempre più, e le politiche sul lavoro riguardano misure sulla decontribuzione e altre diavolerie. Il Principe de Curtis, in arte Totò direbbe: “Ma mi faccia il piacere”. Il quadro è pressappoco questo: abbiamo 5,2 milioni di lavoratori che guadagnano meno di 10.000 euro lordi l’anno, 3 milioni che guadagnano meno di 9 euro all’ora. 500.000 stagionali guadagnano meno di 3 euro all’ora per sette giorni su sette, da questa soglia in poi sono invisibili anche all’INPS oltre che per noi. La logistica ha incamerato molti di questi lavoratori poveri, che sono poi diventati invisibili controllati dall’algoritmo e dove la concorrenza e la precarietà sono belve feroci. Siamo tutti flessibili: come Canne al vento.

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Politica

Pensieri semplici Antonella GOLINELLI

Il Direttore ha detto: questo mese argomento libero. Alè festa grande. Vuoi non approfittare di questa ondata di libertà per scrivere le tue osservazioni sul mondo che ti circonda? Quando mai! Da qualche settimana si sono alleggerite le restrizioni “causa malattia”, la gente ha ricominciato un po' alla volta a gironzolare con esiti a volte esilaranti, altre volte tragici. Il più delle volte comici. Dunque, vorrei cominciare chiacchierando degli omarelli, normalmente di una cer20


ta età, che esibiscono autovetture con motori potenti (e va bene) e dotati di cofani esagerati. Allora, li vedi affondati nel sedile di guida (a volte guidano pure semistesi), più che altro li intuisci dietro i vetri fumè dal baluginio dell'occhiale griffato posto subito sotto all'avanzo del ciuffo ribelle (una volta) che guardano il mondo con un'espressione di sfida perenne mista allo schifo. Una collezione di smorfie di disgusto per i poveretti che non hanno il cofano che hanno loro, che si sono conquistati come simbolo di successo sociale. Ve lo dicono a chiare lettere che loro sono di successo. Per forza! Hanno un cofano tanto! L'avantreno in questione, con colore che normalmente va dal grigio al nero profondo, sbuca dagli incroci. Prima la mascherina con una serie di fanali tali da illuminare un campo da calcio. Dicevo, sbuca dagli incroci e avanza dapprima lentamente (se sei fortunato) e pare non finisca mai. E' lunghissimo. E tu che ti stai avvicinando all'incrocio ti chiedi “arriverà anche il resto?”. Sembra un mercione, un postale infinito di lontana memoria. Alla fine, arriva l'abitacolo e il muso dell'auto è già praticamente dall'altra parte dell'incrocio intasando la via, bloccando la strada e la circolazione tutta. Deve passare lui, anzi LUI. Lui che ce l'ha lungo, il cofano, e lo esibisce al mondo con orgoglio. Perché lui è così. È ovvio no? La proiezione di se stessi. Adesso, io non ho mai verificato di persona la veridicità di queste identificazioni esibite, di queste proiezioni pubblicitarie però le trovo francamente imbarazzanti.

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Sono francamente difficili da gestire quando si piantano bloccati in mezzo ad un incrocio, magari multiplo, impedendo qualsiasi tipo di movimento a tutti. Sono fastidiosi nella loro pretesa di passare sempre e comunque col loro cofano che invade e occupa tutti gli spazi disponibili. E se suoni? Dio ci salvi dal loro risentimento! Come osi! Tu che giri con una scatoletta di scarsa cilindrata (che parcheggi e fai manovra in un francobollo) usare il clacson per segnalare la tua presenza! Tu che non hai un tale cofano (al massimo la cofana storta della mattinata difficile) ti permetti di insinuare non siano in grado di manovrare un tale transatlantico in loro possesso? CAFONA! Alla grande che sono cafona! E se non ti cavi dal mezzo l'ignorantona agricola che alberga in me scende e ti ammacca la dentiera! Il tutto scandito in italiano perfetto che non si sa mai da che parte arrivi il possessore orgoglioso di tale smisurato cofano e urlato fuori dal finestrino con un uso di decibel da concerto rock. Sia mai siano duri d'orecchio. Ora, io non voglio incitare ad atti di violenza, sia chiaro, ma sappiate che scappano a gambe levate smoccolando non si sa in quale lingua. Pare quasi che il cofano imponente si ammosci all'impudente invettiva, divenendo esile. Proprio visivamente, il cofano scompare. Chissà dove sparisce. Oh! Ma parliamo anche dei giovanotti con il monopattino elettrico, ultimo fenomeno di mobilità che trovo affascinante. Giovani se non giovanissimi, ancora senza bisogno di esibire il cofano, li vedi impettiti sostanzialmente in due pose. 22


O sono appollaiati come i dipinti egizi, un piede infilato all'altro come negli affreschi delle piramidi, di profilo (e lì noti la canoppia inutilmente mascherata dall'ala del berretto) o assumono quella garbata posa da etoile, con un piede angolato e sporgente. Ma con garbo. Peccato che i giovanotti moderni siano dotati di estremità che vanno dal 44 in su. In pratica dei Pippo. E l'effetto è quello c'è poco da fare. Il piede pende. La posa è elegante ma il piede cade. L'effetto tre quarti si rovina. Arrivano ronzando cercando di non arare la pista ciclabile, oppure ronzando e mostrando al mondo un occhio solo. Che speri sempre di vederlo tornare indietro chiedendoti se dall'altra parte c'è l'altro occhio o una benda da pirata. Questi mai un fremito, mai un'occhiata al mondo. Lo sguardo fisso rivolto al futuro. Capisco che l'equilibrio sia precario ma guardati attorno. Cosa vuoi avere lo sguardo rivolto al futuro? Il futuro è la bolletta dell'elettricità. Che io mi chiedo: una pedana un filino più larga? Una volgarissima dinamo per ricaricarsi in movimento? Troppo antica e pretenziosa eh? 23


Storia e Cronaca

Da Vermicino a Mottarone, un lungo fil rouge Rosanna Marina RUSSO

Lo ricordo perfettamente quel cerchio simile a un buco nero. Ricordo nei minimi dettagli tutto quello che successe tra l’11 e il 13 giugno del 1981. Forse per la drammaticità in sé dell’evento o forse per la rappresentazione che ne fu fatta. Qualche giorno fa sui social impazzavano critiche a un video trasmesso da Rai 3 che mostrava la dinamica dell’incidente avvenuto sulla Funivia del Mottarone e insieme la drammaticità dei volti delle 14 vittime. 24


E questo “mostrare” il dolore, questo stendere davanti ai nostri occhi lo smarrimento e la paura mi ha riportato indietro a quei giorni. Perché tutto è cominciato lì. A Vermicino. Era il 10 giugno 1981. Ferdinando Rampi e suo figlio Alfredino, di sei anni, stavano facendo una passeggiata nelle campagne di Vermicino. A pochi metri dalla loro abitazione il piccolo, con l’autorizzazione del padre, si avviò da solo verso casa, attraversando i prati. Ma non arrivò mai. Quasi subito cominciarono le ricerche. Qualcuno si ricordò dell’esistenza lì vicino di un pozzo artesiano, ma questo fu trovato coperto con delle assi di legno e, quindi, le ricerche continuarono in altre direzioni. Solo più tardi si rimossero quelle assi e si capì dai lamenti che Alfredo era proprio lì, incastrato a circa 30 m di profondità. Tirarlo fuori, però, non sembrò una cosa difficile. Le televisioni private locali nel cuore della notte lanciarono un appello per trovare un mezzo meccanico adatto. Il caso volle che Pierluigi Pini, inviato del Tg2, assistesse alle trasmissioni. Incuriosito, si diresse verso Vermicino e, capita la situazione, diffuse la notizia. Il palinsesto televisivo Rai venne modificato radicalmente: all’inizio il Tg1 sforò nei tempi, poi si fece ricorso alle edizioni straordinarie, infine si mise in piedi una continua diretta televisiva che si immaginò breve. Fino a quel momento non si era mai tentata una lunga diretta fuori dagli studi televisivi e la Rai, quindi, non era tecnologicamente attrezzata a far fronte a eventi del genere. Ad un certo punto successero due cose che cambiarono il volto dell’informazione stessa, creando una modalità assolutamente nuova e trasformando la rotondità del pozzo in un circo mediatico: venne diffusa la voce di Alfredino tramite un microfono calato con una fune e venne dato un volto umano alla vicenda, quello della madre angosciata per la sorte del figlio. Il microfono portò a tutti lo strazio di ogni 25


minuto di Alfredino attraverso la sua voce lontana, affaticata, impaurita e le telecamere testimoniarono il dolore di una madre che a un certo punto, un punto cruciale, fu presa per una spalla e fatta voltare bruscamente “a favore di telecamera”. L’informazione da quel momento in poi registrerà una progressiva perdita della pudicizia di fronte a drammi personali e collettivi. La situazione del bambino, nel frattempo divenne disperata. Era scivolato ancora più in basso, di altri 30 metri, a causa delle vibrazioni di una escavatrice e le varie soluzioni immaginate non furono più praticabili. Si calarono in quell’abisso altri soccorritori provando l’impossibile e l’ultimo, il 13 mattina, annunciò la probabile morte di Alfredo. L’impatto emotivo per i 28 milioni di italiani che avevano seguito la vicenda fu profondo, ma lo fu anche quello culturale tanto che da quel 13 giugno si ricercò la spettacolarizzazione della cronaca nera. La televisione perse l’innocenza dello sguardo modificando l’estetica della narrazione e il giornalismo perse la sua prerogativa di mediare narrando. Il confine tra il “prima” e il “dopo” fu quel microfono calato nel pozzo, fu lo sguardo di quella madre. Piero Badaloni, il primo conduttore dell’edizione straordinaria del Tg1 voluta dall’allora direttore Emilio Fede, nel ricordo rilasciato a TvBlog, ha detto: “Da allora, infatti, molti programmi televisivi popolari della mattina e del pomeriggio cominciarono a cercare e a raccontare storie di dolore, convinti che solo in quel modo si potesse attirare l’interesse del pubblico e aumentare l’ascolto. Nacque la cosiddetta “TV del dolore”. Un modo per stimolare solo curiosità morbosa, non certo partecipazione alle sfortune degli altri, come si voleva far credere” Anche con la tragedia del Mottarone c’è il tentativo di mantenere alto il livello di attenzione mediatica attraverso la curiosità di conoscere dettagli che non sono così 26


rilevanti. Dovrebbe essere più importante l’inchiesta, non sapere quali sono state le prime parole del bimbo, unico sopravvissuto, al suo risveglio in ospedale. C’è più che mai viva la golosità del sensazionalismo. Quaranta anni dopo, dunque, Vermicino non ha insegnato alcunché alla TV. Anzi. Verrebbe da dire che la tv continua a non capire cosa sia successo davvero davanti a quel pozzo, o finge di non capirlo. Non parla mai, ad esempio, della pressione psicologica che quella diretta determinò nei soccorritori, più volte ricordata da chi in quel pozzo ci si è calato per salvare il bambino. Fu per quella pressione psicologica che cominciarono i primi dissidi tra i vari soccorritori giunti sul posto? O fu per l’impotenza a riuscire in quella impresa? O fu per la grande folla presente attorno a quel pozzo che rendeva difficile ogni tipo di soccorso? O fu per l’impossibilità a decidere una strategia unica? Forse fu per tutte le cose insieme. Di certo dagli errori commessi, dalle innegabili improvvisazioni, dalle azioni inefficaci nacque l’appello di Franca Rampi perché tragedie simili non si ripetessero. Appello raccolto dal presidente Pertini che creò il Ministero della Protezione civile. Perché è così. Nessuna persona e nessun evento è a una sola dimensione. Perciò se da una parte Vermicino è il ciuffo biondo di quel bambino che il 13 giugno smise di parlare con la mamma, dall’altra è la Protezione Civile, nata un po’ attorno a quel pozzo, a chiudere simbolicamente un cerchio. 27


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Politologia

Marx e il denaro Giovan Giuseppe MENNELLA

Ha ancora senso parlare di Karl Marx, oggi? 29


Noi pensiamo che la risposta sia: assolutamente sì. In un mondo in cui crescono a dismisura le diseguaglianze e la ricchezza è sempre più concentrata in poche mani, dove i lavoratori hanno sempre meno tutele e le parole “giustizia sociale” sono state pressocché cancellate dal lessico politico, sì, noi pensiamo che ancora più di prima sia necessario parlare di Karl Marx. E scoprirlo in vesti inedite, nella parte più intima e personale, al di là della immensa bibliografia che esiste su di lui e sulla sua opera, rappresenta davvero una sorpresa interessante. Che rapporto aveva il maggior critico del capitalismo nei confronti del denaro? È questo il punto centrale su cui ruota il documentatissimo saggio di Nicola De Ianni, già professore associato di Storia economica presso l’Università Federico II, intitolato appunto “Marx e il denaro. 1835-1883”, edito da Rubbettino. È uno dei paradossi della storia e del pensiero che il filosofo che voleva liberare l’umanità dalla schiavitù del denaro e del capitalismo, sia stato tormentato a lungo nella vita di relazione dalla ricerca affannosa di soldi, chiedendo continuamente l’aiuto finanziario di amici, parenti, compagni di partito, editori. Ma il paradosso, forse, è solo apparente. La cronica mancanza di mezzi finanziari nell’esistenza di Marx potrebbe essere stata proprio una conseguenza pratica del suo sforzo teoretico volto a convincere i lettori a non conferire eccessiva importanza all’affannosa ricerca della sicurezza economica. Il saggio del professor De Ianni, scavando in una amplissima messe di lettere e documentazione, aiuta anche a capire che il pensiero marxiano si orientò a considerare la sopravvalutazione del danaro come forza principale di cambiamento, capace

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di rovesciare, di per sé, i rapporti sociali, quasi una parafrasi del canto infernale delle streghe del Macbeth. Il libro fa balzare viva agli occhi del lettore anche la minuta cronaca delle peripezie familiari e amicali del filosofo di Treviri. I viaggi, le proteste accorate, le indignazioni, l’emissione di cambiali, le richieste di denaro a Engels, ai familiari, agli amici e anche ai nemici, agli editori, i rapporti ora teneri, ora preoccupati, ora poco commendevoli con la famiglia, tra cui spicca la figura bellissima, innamorata ma indipendente della moglie Jenny. C’è qualcosa che ricorda i rapporti personali complicati e perigliosi di un altro grande, Alessandro Manzoni, come descritti con messe di documenti e di chiose a latere da Natalia Ginzburg ne “La famiglia Manzoni”. Un cattolico credente e un rivoluzionario ateo, accomunati da una biografia problematica e contraddittoria sul piano psicologico. Abbiamo provato ad approfondire alcune tematiche specifiche del saggio con il professor De Ianni. Marx è considerato unanimamente quale il maggior teorico del cambiamento sociale, anche in forma rivoluzionaria. Ma si può definire un rivoluzionario anche nei rapporti personali e familiari? Certamente sì. Era una mente aperta, molto rigoroso nel metodo e selettivo nei rapporti umani: guardava avanti. Superata la fase rivoluzionaria del ’48, dagli anni Cinquanta a Londra, dove emigrò, organizzò una vita di studio finalizzata in massima parte alla analisi della società capitalista. Il suo impegno fu spesso distolto dalle necessità materiali per il sostentamento della sua famiglia. Gli articoli che scriveva come corrispondente per la “New York Tribune”, il più diffuso quotidiano a31


mericano del periodo, non gli garantivano compensi sufficienti. Anche nei rapporti personali, può essere definito un rivoluzionario, sempre pronto a fornire prove di generosità, nonostante le ristrettezze economiche in cui versava e che si fecero addirittura drammatiche dal 1863 quando si interruppe la collaborazione con la “New York Tribune”. Comunque, la sua casa rimase sempre a disposizione di amici e compagni. Il rapporto con Engels può definirsi speciale e straordinario, l’amicizia di una vita. Ebbe solo un momento di vera crisi nel gennaio del 1863 quando Marx di fronte alla notizia della improvvisa morte della compagna dell’amico, Mary, scrisse una assurda lettera egoista ed egocentrica dove dopo qualche distratta parola di circostanza infierì con i suoi soliti problemi di denaro. Engels rispose assai freddamente, criticandolo per aver fatto prevalere il suo “gelido modo di pensare”. Marx si scusò per aver scritto quella lettera e disse di essersene pentito appena l’ebbe spedita. Ma ci teneva a dire che in nessun caso era dovuta a “mancanza di cuore”, ma soltanto a pressioni esterne. Engels apprezzò la sincerità ed accettò le scuse. “E sono lieto -scrisse- di non aver perduto con Mary anche il mio più vecchio e migliore amico”. Nei rapporti familiari Marx era un marito innamorato e un padre affettuoso ed attento. Ancora nel dicembre 1863 scrisse alla moglie dalla Germania dove si era recato per la morte della madre, una tenerissima lettera in cui diceva di essere andato in pellegrinaggio alla vecchia casa dei Westphalen poiché gli ricordava l’epoca più felice della giovinezza che custodiva il suo più grande tesoro. Ed aggiungeva: “Non passa giorno senza che mi chiedano da destra e da sinistra notizie di quella che una volta era la più bella fanciulla di Treviri e delle regna del ballo. Per un marito è una cosa maledettamente gradevole che sua moglie contini a vivere nella fantasia di una città intera come una principessa incantata”. 32


Marx voleva che le tre figlie fossero felici e sindacò più di una volta sulla scelta dei loro compagni. Proverbiale la lettera scritta a Paul Lafarge fidanzato di Laura nell’agosto del 1866 in cui chiedeva che fosse chiarita la sua posizione economica prima di dare il suo assenso al fidanzamento. “Della sua famiglia – scriveva Marx – io non so assolutamente nulla (…) Del resto, Lei che si dichiara realista, non potrà attendersi che io mi comporti come un idealista per quanto riguarda l’avvenire di mia figlia: un uomo positivo come Lei, che vorrebbe abolire la poesia, non vorrà fare della poesia a spese di mia figlia”. Spesso lamentò il fatto che Longuet, il marito della sua prima figlia, Jenny, avesse un atteggiamento egoistico e fece tutto il possibile, salvo quasi a pentirsene in diverse lettere sfogo con Engels, per impedire che Eleanor (Tussy), l’ultima figlia sposasse il giornalista e scrittore comunardo Prosper Olivier Lissagaray perché, nel 1873, aveva quasi il doppio dei suoi anni. Comunque, è certo che Marx visse più di una contraddizione per la scelta di dare alle figlie una educazione borghese. Nelle pagine del libro viene raccontata la sua esperienza di collaboratore di vari giornali e riviste, in particola la Neue Oder Zeitung. Lo si può definire come un grande giornalista, oltre che un grande pensatore? Oltre che un infaticabile e grandissimo studioso fu anche sicuramente un ottimo giornalista perché aggiunse al mestiere il suo rigore scientifico. Inoltre, aveva il gusto della polemica ed una insospettata vena di ironia che lo rendeva di godibilissima lettura. Oltre che negli articoli apparsi sulla “Tribune”, Marx aveva già scritto nel 1847 in francese Miseria della filosofia contro il saggio di Proudhon, Filosofia della miseria e nel 1848, con Engels, Il Manifesto del Partito Comunista. Nel 1852 scrisse Il 18 Brumaio di Luigi Bonaparte in cui analizzò il colpo di stato di Napoleone III del 1851. Nel 1852 scrisse il pamplet I grandi uomini dell’esilio e nello 33


stesso anno il saggio Rivelazioni sul processo dei comunisti a Colonia. Nel 1853 Il cavaliere della magnanima coscienza opuscolo polemico contro l’avversario, August Willich e infine nel dicembre 1860, Herr Vogt, un altro dei “somari dell’emigrazione”. Sono tutte pubblicazioni che esaltano lo spirito di giornalista polemista di Marx. Di cosa trattavano i numerosi articoli che scrisse per la statunitense Tribune e per l’Enciclopedia del giornalista Dana, o per lo più fece scrivere a Friedrich Engels, definiti come “di carattere militare”? Per l’enciclopedia divise il compito con Engels. Si trattava più che altro di voci di un dizionario in ordine alfabetico. Le voci di carattere militare furono tutte scritte da Engels che era un vero esperto in materia. Molto più interessanti, articolati e vari i temi sulla “Tribune”. Marx cominciò con una serie di 19 articoli sul 1848 in Germania, per il quale ricorse quasi esclusivamente all’aiuto di Engels. Poi, dal 1852, si soffermò essenzialmente sulla politica inglese, in effetti era un corrispondente da Londra, scrivendo di politica ed economia. Passò in rassegna, nei circa 12 anni di collaborazione, dal 1851 al 1863, in rassegna la politica dei principali leaders da Peel a Russel, da Aberdeen a Palmestron, da Smith a Disraeli ed esaminò i principali temi industriali, commerciali e finanziari. Ad esempio, su Lord Palmestron scrisse una serie di articoli che riscossero un grande successo tanto da essere pubblicati in opuscolo. Dopo aver letto il saggio che descrive minuziosamente le difficoltà economiche di Marx, viene immediato chiedersi se sarebbe stato ugualmente un grande pensatore se fosse stato oculato nell’amministrazione del denaro. O, meglio, se avesse intrapreso una regolare carriera accademica ben stipendiata, come avrebbe voluto il padre. 34


Per atteggiamento ed impostazione di vita non avrebbe mai potuto essere un oculato amministratore delle proprie risorse finanziarie. Sin da ragazzo quando era studente a Bonn e Berlino si dimostrò del tutto incapace di redigere un bilancio delle sue spese come il padre gli chiedeva. Spendeva sempre di più di quanto aveva. Quel che sorprende è che ciò avveniva indipendentemente dalla quantità delle risorse di cui disponeva. In quegli anni dilapidò tutta la parte di eredità paterna che a malincuore la madre gli concesse e contribuì con la moglie Jenny a fare altrettanto delle risorse della famiglia di lei cioè del barone e della baronessa Von Westfalen. Questa è la fase giovanile e dura fino al 1849. Nel libro l’ho definita della sufficienza poiché tale era l’atteggiamento nei confronti del denaro. Seguì poi la fase della sofferenza, dalla fine del 1849, che durò per circa vent’anni in cui la spirale dei debiti, nonostante l’aiuto concreto dell’amico Engels, era tale da rendere impossibile una vita normale. Tra il 1863 e il 1864 Marx ebbe il resto dell’eredità materna e ed un‘altra dal suo compagno Lupus per un totale di 1400 sterline. Si trattava di una grossa cifra con la quale avrebbe potuto viver e tranquillamente per 4 o 5 anni. Invece tra restituzione di debiti, spese per la casa ed altre varie, dopo pochi mesi si trovò ancora nelle condizioni di chiedere qualche sterlina a Engels. Infine, Marx raggiunse l’equilibrio soltanto nel 1869, quando Engels, ottenuta la liquidazione della partecipazione nell’azienda di famiglia in cui aveva lavorato per vent’anni, si offrì di pagargli tutti i debiti e di garantirgli un appannaggio annuale, che poi, diventerà un vitalizio. Gli ultimi anni furono i più difficili per le condizioni di salute di Marx che cominciarono progressivamente a peggiorare. Ad Engels restò il compito di curare l’eredità scientifica dell’amico e di provvedere alla pubblicazione postuma dei successivi due volumi del Capitale. 35


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Politica

Libera stampa in libero Stato Aldo AVALLONE

La Costituzione italiana tutela la libertà di stampa. In particolare, l’articolo 21 recita: “Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione. La stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure (etc. etc.)”. Dopo gli anni bui del ventennio fascista, i padri costituenti ritennero opportuno che il principio fondamentale della libertà di stampa fosse rimarcato in un articolo spe37


cifico della nostra Carta costituzionale a tutela della democrazia appena riconquistata. Naturalmente un principio scritto sulla carta resta tale se non viene trasposto nella realtà, in un’applicazione quotidiana. Anche nella democratica Italia postfascista una stampa davvero libera può dare fastidio al potere costituito, soprattutto dove, come accade nel nostro Paese, non esistono, se non con rarissime eccezioni, editori puri, ma le grandi testate radiotelevisive e giornalistiche sono di proprietà di gruppi imprenditoriali privati che ne indirizzano le linee editoriali. L’esempio più clamoroso (ma ve ne sono altri ben rilevanti) è il gruppo Mediaset in mano a Berlusconi che ne ha fatto l’arma principale in tutte le sue campagne elettorali. Un discorso a parte meriterebbe il servizio pubblico della RAI, da sempre lottizzato politicamente. Ogni governo, al suo insediamento, ha promesso la riforma della RAI per sottrarla dalla dipendenza dei partiti ma le tante riforme che si sono susseguite finora non hanno raggiungo lo scopo. Verrebbe da pensare che nessun partito abbia davvero interesse a sottrarre il servizio pubblico dal giogo politico. Del resto, l’Italia nella classifica mondiale della libertà di stampa, stilata ogni anno da “Giornalisti senza frontiere”, nel 2021 si colloca solo al 41esimo posto. Questa lunga ma doverosa premessa per giungere alla notizia di qualche giorno fa che ripropone sotto lo sguardo, a dire il vero un po’ disattento, dell’opinione pubblica il tema della libertà di stampa e, conseguenzialmente, della tutela delle fonti da parte dei giornalisti. Ebbene, il Tribunale amministrativo regionale del Lazio, con propria sentenza del 18 giugno, a seguito di richiesta dell’avvocato Mascetti, ha deliberato l’accesso agli atti e a tutta la documentazione relativa a una inchiesta che lo riguardava trasmessa nella puntata di Report del 26 ottobre scorso dal titolo “Vassalli, valvassori e valvassini” sul tema degli appalti pubblici in Lombardia. Di fatto, ha considerato 38


le mail e tutti i documenti riguardanti l’inchiesta di Report dei meri atti amministrativi e non fonti giornalistiche da tutelare come per legge. Si tratta di un precedente pericoloso che potrebbe limitare ulteriormente la possibilità dei giornalisti di adempiere a uno dei compiti fondamentali della stampa libera, quella di controllo democratico del potere. Chi di noi non ricorda Dustin Hoffman e Robert Redford in “Tutti gli uomini del presidente” nei panni dei due giovani cronisti del Washington Post che con la loro determinazione scoprono il collegamento tra la Casa Bianca e il caso Watergate, provocando le dimissioni del presidente Nixon? Nessuno di noi oserebbe paragonare l’ottimo Sigfrido Ranucci al giornalista interpretato da Robert Redford, non fosse altro per ragioni fisiche, né tantomeno il leghista Andrea Mascetti al presidente degli Stati Uniti. Ma anche in questa vicenda di Report emerge chiaramente il tentativo da parte del potere di intimidire la stampa quando si permette di toccare temi non graditi. Per fortuna, vi è stata una risposta forte da parte dei vertici dell’azienda, dello stesso Ranucci e di esponenti politici dell’area progressista a difesa del segreto professionale e della tutela delle fonti. Principio, peraltro, più volte confermato dalla Corte europea dei diritti umani. In particolare, ricordiamo una sentenza dell’ottobre scorso nella quale viene ribadito che le autorità nazionali non possono obbligare un giornalista a rivelare la fonte. E questo anche quando la rivelazione potrebbe servire a individuare l'autore di un reato. La Corte, infatti, ha accolto il ricorso di una giornalista svizzera che aveva pubblicato un articolo sulla vendita non autorizzata di droghe leggere, svelando notizie fornite da una fonte che aveva chiesto di rimanere anonima, alla quale l’autorità giudiziaria aveva ingiunto di fornire il nome dell’informatore. Sul “caso Report” la RAI proporrà appello al Consiglio di Stato. Sarà importante seguirne gli sviluppi. 39


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Racconto

Selfie di fine anno Lucia COLARIETI

Siamo a fine anno; non la fine del calendario che viene a dicembre e festeggeremo con veglioni e botti, quest’anno sperando di non dover contare il numero degli invitati e potendoci stringere forte, ma parlo dell’arrivo dei mesi estivi, che, ognuno di noi dell’emisfero boreale, tende a considerare come una chiusura. Per questo ho deciso di proporre una galleria di selfie, o autoritratti come si chiamavano una volta ma così non avrebbero lo stesso impatto. 41


Mi sono detta che avrei potuto scattare alcuni primi piani e mostrarmi ai lettori che non mi conoscono, mi riferisco a quei due o tre che non sono miei amici e che mi leggono, poi magari mi diranno loro perché. Insomma, una bella galleria di immagini del mio viso in luoghi affascinanti, un sorriso, uno sguardo e nessuna fatica per mettere una dietro l’altra parole con un senso, nessuno sforzo di articolare un concetto o veicolare un significato attraverso la nostra bella lingua italiana. Magari avrei potuto aggiungere qualche effetto speciale, un magnifico primo piano della mia colazione e poi del bicchiere di acqua che bevo ogni mattina o anche delle dieci mandorle che prendo come spuntino. Sono certa che i lettori avrebbero afferrato subito il senso di ogni immagine senza dover stancarsi a leggere. Quindi con puntiglioso impegno ho preso il cellulare, l’ho impostato sulla camera e ho utilizzato quelle freccette che consentono di girare l’obiettivo su di me, perché scattare foto rivolgendomi il dorso del cellulare mentre cerco di pigiare il tasto della foto sarebbe stato troppo difficile. Lo sapevo già che i selfie non sono il mio forte ma ero certa che ci sarei riuscita. Dopo qualche ritratto al pavimento, mentre scoprivo che la fotocamera scatta anche se solo tocchi lo schermo, ho provato a riprendermi in uno specchio, ma il cellulare davanti alla faccia non veniva granché, poi ho provato dal basso e il soffitto era uguale a qualunque altro soffitto, ho alzato lo sguardo come insegnano i giovani, la faccia seria non si addiceva allo scatto, mi sentivo molto cretina a ridere da sola davanti ad uno smartphone, ho abbozzato qualche sorriso, con i denti, senza denti, più lontano, più vicino, da destra, da sinistra, forse obliquo viene meglio, sono uscita sul balcone e mi sentivo addosso gli occhi indagatori delle vicine. 42


Comunque, cari amici lettori - meglio mettervi tutti insieme perché non so quanti lettori ci sono oltre agli amici - niente da fare. Guardando la galleria che ho sul cellulare, dinanzi a pavimenti, soffitti, pezzi di specchi, nasi, gonfiori, rughe, occhi a pesce lesso, denti in primo piano, smorfie, occhiaie e altre amenità varie, sono stata colta da un attacco di risate, per cui per chiudere questo anno passato e salutarci vi dovete accontentare dello strumento che padroneggio meglio: le parole. Questa sono io: ad ogni numero alle prese con un nuovo titolo. Ogni racconto nasce da una riflessione interiore, da uno scavare dentro me stessa fino a veder fiorire il nucleo di una storia che chiede di essere raccontata. Una sfida esaltante e stimolante nel trovare il tono, lo stile, il ritmo, nel tagliare e limare, correggere e integrare fino a quando le parole sembrano essere esattamente al loro posto, nella posa giusta per sorridere all’obiettivo. Poi il racconto viene pubblicato e so che ognuno farà sue quelle parole, le specchierà nella propria vita e nel proprio lessico, talvolta lasciandole scorrere come nulla fosse talaltra accorgendosi che proprio quella frase sembra scritta per sé stessi. Scrivere e leggere: una magnifica avventura che richiede la risorsa più preziosa: il tempo. Io voglio continuare a viverla, magari insieme a quei due o tre che mi leggono oltre i miei amici.

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Turismo

A Casteldilago l’albergo diffuso nel borgo sospeso Veronica D’ANGELO

Non sapevo cosa fosse un albergo diffuso fino all’estate scorsa, quando appena usciti dal maledetto lockdown, con la voglia di ricominciare a muoversi e a viaggiare, ma ancora con il timore di ritrovarsi in luoghi affollati, con un’amica decidiamo di concederci qualche giorno di vacanza in Umbria e prenotiamo presso un albergo diffuso a circa cinque chilometri dalle cascate delle Marmore, il “Borgo San Valentino”.

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L’albergo diffuso è una modalità di ospitalità turistica nata recentemente per ripopolare le case vuote danneggiate dal terremoto del 1976 in Friuli, basata sul recupero e la ristrutturazione di case abbandonate, generalmente preesistenti e vicine tra loro, sparse in un borgo antico o un villaggio rurale.

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Come un albergo tradizionale, però, i vari edifici hanno una gestione centralizzata che si occupa del ricevimento e dell’accoglienza, e servizi comuni per tutti gli ospiti, dislocati in altri spazi all’interno di un’area omogenea predefinita. Il “Borgo San Valentino” si trova a Casteldilago, un piccolo e caratteristico borgo medievale immerso nel cuore della Valnerina, incluso tra i borghi più belli d’Italia, che sorge su uno sperone roccioso dove un tempo dovevano esserci un castello e un lago di cui non c’è più traccia. All’arrivo veniamo accolti in un bell’edificio in pietra, sede del ristorante “Osteria dello sportello”, dove ho prenotato anche la cena, e scopro che è anche il luogo deputato alla nostra prima colazione. Giuseppe, uno dei titolari, ci aspetta lì e dopo aver completato le formalità burocratiche ci accompagna a piedi al nostro alloggio, un centinaio di metri più su, aiutandoci con i bagagli. Mentre saliamo per ripide stradine acciottolate, tra gli sguardi di anziani curiosi, Giuseppe ci racconta di come lui e i suoi due cugini, originari del posto, cominciarono ad acquistare e ristrutturare le case abbandonate di Casteldilago, rispettando la struttura in pietra degli edifici e mantenendo gli interni rustici di un tempo, con l'intento di rivitalizzare il paese e contribuire allo sviluppo turistico. Il nostro appartamento è in cima alla cinta muraria che un tempo difendeva la città, proprio accanto alla piccola Chiesa di San Valentino, in cui sono stati restaurati alcuni affreschi del Cinquecento. In paese c’è anche un museo della ceramica, che contiene maioliche di ottima fattura ritrovate in una antica cisterna durante la ristrutturazione di un edificio, catalogate e in parte restaurate da Sir Timothy Clifford, storico dell’arte ed ex direttore della Galleria Nazionale di Scozia, che inna-

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morato di Casteldilago vi acquistò una dimora dove tuttora vive per alcuni mesi dell’anno.

Dopo un tuffo in piscina, per il quale dobbiamo riscendere a valle del borgo, ci avviamo al ristorante per la cena, attraversando le viuzze del paesino e il vociare sommesso degli abitanti del luogo, ormai abituati alle incursioni di turisti che per qualche notte diventano vicini di casa. L’Osteria dello Sportello è l’unico ristorante del borgo. Inserito all’interno dell’antico palazzo nobiliare del paese, probabilmente una residenza estiva dei duchi di Spoleto, è stato magnificamente restaurato ed arredato. Con le sue splendide travi a vista e i muri in pietra, ha la stessa languida atmosfera che pervade il borgo medievale. Ci sediamo sulla piccola terrazza, con vista sulla valle del Nera, e ci godiamo il tramonto, gli ottimi vini della regione e la cena, un vero tripudio di sapori locali: dalla norcineria alle minestre contadine, dalla pasta fatta a mano ai piatti a base di tartufo. Tutto in questo posto sembra aver conservato le tradizioni e la cultura del passato. Casteldilago, infatti, sembra un borgo sospeso nel tempo, dove la calma e la quiete che si respirano non sono quelle dei paesini abbandonati, ma quelle tipiche dei luoghi abituati al vivere lento, dove gli abitanti hanno la cordialità delle famiglie imparentate tra loro, tanto che un pranzo familiare può tenersi anche apparecchiando una lunga tavolata lungo la stradina che unisce due case. E la sensazione diversa che si ha alloggiando in questo posto, mentre si attraversano i vicoletti alla ricerca della sala colazione o della piscina, è di essere ospiti non

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di una struttura alberghiera, ma di tutta la comunità, rendendo la permanenza in questo borgo una esperienza culturale più che turistica. Non so se tutti gli alberghi diffusi possono vantare questa stessa atmosfera magica, ma non mi meraviglia che uno scozzese come Sir Timothy Clifford, abituato ad essere circondato dalla storia e dall’arte, sia rimasto affascinato da Casteldilago e non lo abbia lasciato più.

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Cultura

Un film… Anna NAPOLITANO

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Mandibules una storia bizzarra, l’attore Grègoire Ludig, che nel film è Manu, lo si vede in una spiaggia vicino Saint Tropez. È solo, d’inverno dorme in un piumone sulla spiaggia, scivola in acqua ma non se ne importa. Lui vive così. E’ trasandato, ha i capelli lunghi e la calma del drugo Jeff Bridges nel “grande Lebowski”. Un tipo gli propone di portare una valigetta piena di soldi; senza fare domande, deve accettare. Manu ruba una vecchia Mercedes già rubata e porta con sé il suo amico Jean Gab interpretato da David Marsais. Insieme partono, sentono un rumore nel bagagliaio, vi trovano una mosca gigante che chiameranno Dominique e che cercheranno di addestrare a diventare un drone, intanto la mosca mangia tantissimo, si nutre di scatolette per gatti. Così inizia l’avventura che avrà dei risvolti inimmaginabili. Una storia che fa ridere abbastanza, i due protagonisti ingenui, infantili, sono irresistibili, sono molto uniti tra di loro, il loro legame è segnato da un linguaggio bizzarro, che ricorre a parole senza senso, che serve a sottolineare come l’uso di certe parole, tra amici serva a rafforzarne il legame infatti “Torò, Torò” per salutarsi, trasmette allegria per esempio. I due nel loro viaggio incontreranno un gruppo di ricchi borghesi apparentemente più normali di loro. Tutto è bizzarro, tutto sembra illogico e in questo strano mondo i due con la loro naturalezza e spontaneità risultano invincibili. Guardando il film non arriva un unico e preciso messaggio: Mandibules è scritto e diretto da Quentin Dupieux che è anche produttore discografico e musicista, conosciuto come Mr Oizo, una storpiatura della parola “oiseau”. Questo film fu presentato l’anno scorso fuori concorso a settembre alla mostra del cinema di Venezia, regalando un po' di leggerezza ai giornalisti ed appassionati, in tempi di pandemia. 51


E’ uscito questo 17 giugno nelle sale con I Wonder Pictures e nel vederlo può essere un’occasione per riprendere la piacevole abitudine di andare al cinema e godersi la visione di un film divertente che ci mette di fronte all’insensatezza della vita e ci invita a vivere in modo spontaneo, autentico anche un po' ingenuo e apparentemente folle, il che ci può rendere più normali e amabili di quanto si possa immaginare, scoprendo inoltre come quell’apparente normalità dei ricchi che incontreranno i protagonisti, celi altri mondi bizzarri. Dunque, perché vederlo? Perché Quentin Dupiex non suggerisce certo la chiave della felicità, ma in settantasette minuti riesce a raccontare una storia che ci fa dimenticare la pandemia, ci regala minuti di leggerezza, come in una bolla d’aria e forse si può pensare che la vita sia in minuti di felicità, nulla di più. Dupiex non impone letture, perché le letture possono essere tante, lo spettatore è libero attraverso la leggerezza che percepisce di inoltrarsi in messaggi più sottili, infatti per non limitarsi alle apparenze, è questo un film che va visto! Mr Ozio è uno bravo! E già in Rubber presentato a Cannes nel 2010, raccontava di uno pneumatico serial Killer, nel 2019 sempre a Cannes con doppia pelle, primo suo film arrivato in Italia anche se in streaming, faceva innamorare Jean Dujardin di una giacca di daino. Mandibules, in tempi di pandemia invece di Cannes ha raggiunto Venezia 77 per raccontarci di una mosca gigante che bizzarra che sia, è sicuramente meno assurda delle stranezze a cui siamo abituati senza rendercene nemmeno conto e che passano per normali. E allora vi invito a vederlo e vi saluto con Torò, Torò!

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Racconto

Cristo! Ma non sei più marxista? Aldo AVALLONE

Il comitato centrale del partito comunista si svolgeva nella solita cantina di un casermone popolare della zona di San Siro. Erano anni ormai. Da quando alle ultime elezioni il movimento nazional-sovranista aveva preso il potere e quindi aveva messo fuori legge tutti i partiti di sinistra, era già trascorso molto tempo. I fasti delle Botteghe Oscure erano ormai racconti mitici che si perdevano nel ricordo di un passato che solo pochi osavano ricordare. Ora il PCI aveva qualche centinaio di iscritti in tutta Italia e cercava disperatamente di intervenire su una realtà che non comprendeva più. Non che mancassero capacità di analisi e le persone giuste, semplicemente non se ne sapeva più niente. La radio, la televisione e tutti i giornali erano controllati. Sui social, ormai divenuti il principale strumento di informazione per una popolazione totalmente incapace di 54


distinguere una notizia vera da una falsa, il governo organizzava campagne di disattenzione di massa, utilizzando di volta in volta le categorie sociali più disparate. Nel mirino del rancore collettivo erano caduti dapprima gli immigrati e poi gli emigrati, quindi i troppo buoni e i troppo cattivi, e ancora i radical chic e gli straccioni, o gli intellettuali e gli ignoranti. A cadenza temporale variabile nessuno sfuggiva al rigore della democratica dittatura al potere. Di conseguenza anche i rapporti umani erano alquanto mutati: nel clima di odio imperante una squallida abitudine alla delazione aveva contagiato tutti i cittadini. Ognuno era pronto a denunciare e mettere alla gogna il proprio simile alla più piccola mancanza. Su facebook un macellaio accusava il concorrente di vendere carne avariata eliminandolo dal mercato, su instagram un ammalato denunciava il medico per non essere guarito in tempo da una fastidiosa influenza rovinandogli la reputazione, su whats app una moglie gelosa metteva alla gogna l’amante del marito, scatenando la giusta ira del web. Insomma, una gigantesca rete di odio e malevolenza partiva dai social per coprire la nazione intera. Con queste premesse appariva veramente un miracolo la pur piccola organizzazione di partito che il PCI era riuscito a mantenere. Si scendevano due rampe di scale umide e maleodoranti, quelle zone non erano molto curate dall’amministrazione locale, e dal buio quasi totale si entrava in uno stanzone violentemente illuminato dai neon. Pur essendo marzo inoltrato faceva ancora molto freddo. Un tavolo addossato a una parete, delle sedie sparse e alcune panche erano tutto l’arredamento della sala. Solo una sbrindellata bandiera rossa inchiodata a una parete e una vecchia fotografia di Berlinguer, ghignante e persuasivo, sopra un palco con la scritta inneggiante al primo governo di unità nazionale, toglievano all’ambiente l’aria di una strana aula scolastica in un turno del pomeriggio. 55


Il primo a parlare fu un vecchissimo compagno dall’età ormai indefinita. I lunghi capelli bianchi e la stinta sciarpa rossa al collo lo facevano sembrare un fantasma uscito da un fotogramma di chi sa quale film neorealista; gli stretti occhi infossati erano spie di un passato che non si voleva dimenticare. Parlò a lungo, con una voce strascicata che gli usciva dalle gengive sdentate e un unico, tedioso, cantilenante tono. Il suo fu un intervento molto confuso: la situazione economica, l’opposizione interna ed esterna, i livelli organizzativi. Tutto andava e veniva nelle parole del vecchio e nelle menti dei presenti come un sogno prepotente che fatica a raggiungere la coscienza e ne è prontamente ricacciato da altre e più potenti fantasticherie. Lo sopportavano a stento, ma raccontava che suo nonno aveva fatto il sessantotto e che in gioventù aveva anche conosciuto Ingrao e parlato più volte con D’Alema. Concluse l’intervento affermando che si dovevano cercare fondi per l’acquisto di armi e inneggiando a una rivolta ormai vicina. I compagni che lo seguirono non furono certo da meno nelle loro dissertazioni, ideologicamente chiare e precise ma con un unico, insormontabile difetto: mancavano assolutamente di senso pratico. Apparve perciò ancora più inaspettata e imprevedibile per le sue conseguenze la proposta del giovane segretario della sezione di Gallarate: perché non applicare all’analisi politica i mezzi tecnici che il progresso e le nuove invenzioni avevano introdotto in quella loro ben strana società? Fu la scintilla che diede il via a una lunga discussione, accesa e polemica, a volte anche violenta, non interrotta nemmeno al momento del solito rinfresco, offerto come ogni volta verso le ventidue. Discussero fino a tarda notte. 56


Il Big Ben aveva appena suonato mezzogiorno quando l’uomo dalla folta capigliatura e dal pastrano scuro imboccò il ponte sul Tamigi. Si avviava alla solita osteria per mangiare qualcosa e discutere di politica. Solo da poche settimane era a Londra e faceva ancora fatica a orientarsi, ma già incominciava ad apprezzare e amare la strana atmosfera di quella città, provinciale e cosmopolita, conservatrice e liberale, ossessiva e rivoluzionaria come nessun altro posto. L’aria in quel mattino d’inizio primavera era tersa, solo a ovest incupita dagli scarichi delle ciminiere delle industrie tessili in continua espansione. Aveva molto da pensare in quelle sue prime giornate londinesi: gli avvenimenti di quegli ultimi mesi, a Parigi in primo luogo, e poi in tutta Europa, non erano ancora completamente chiari nella sua mente, sarebbe occorso ancora del tempo prima di poter elaborare un’analisi soddisfacente della situazione. Perciò non si accorse subito della insolita macchina che d’improvviso era apparsa come dal nulla e ora era ferma lì di fronte a lui. Il luogo era quasi deserto, solo rari passanti in lontananza. Ne scesero due uomini vestiti in maniera strana, molto strana, e in un tedesco non perfetto gli chiesero: «Scusi, che anno è questo?». Sorprendente. «Ma il 1849, certo!». «E’ lei il signor…Marx Karl, di Treviri?». «Beh, sì». «Le dispiace venire con noi?»

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E senza avere il tempo di dare una risposta si ritrovò in quell’oggetto misterioso con la sensazione precisa di viaggiare in maniera incredibilmente veloce ma nello stesso tempo di non muoversi affatto. Un lungo, rumoroso, insolito applauso accolse il signor Marx Karl di Treviri al suo ingresso nella fredda cantina di San Siro. I compagni del comitato centrale erano tutti in piedi, qualcuno, sottovoce, cantava l’Internazionale. Una strana atmosfera fatta di un misto di fiduciosa attesa e inspiegabile paura aveva preso le menti di quegli uomini all’ingresso del Grande Maestro. L’impresa era stata ardua e irta di difficoltà, ma ora tutti i loro problemi sarebbero stati risolti. Il Maestro si guardò intorno non molto sorpreso, quelle facce, quel motivetto canticchiato sommessamente, quella cantina, non avevano nessun aspetto di incredibile novità, al contrario si sarebbe potuto affermare che, in un certo senso, gli fossero addirittura familiari. Nei giorni in cui era vissuto nella nuova epoca aveva raccolto il maggior numero possibile di informazioni utili per farsi un’idea abbastanza precisa della situazione e ora era pronto. Con calma si levò il pastrano scuro, si guardò le mani e finalmente parlò. «Compagni, quella che mi è stata offerta con la mia venuta qui oggi rappresenta per me un’occasione veramente eccezionale e per questo non posso che porgervi il mio più sentito ringraziamento». Un applauso di circa un minuto e mezzo gli diede il tempo di riordinare un’ultima volta le idee, quindi riprese.

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«L’avere la possibilità di verificare nel futuro se le proprie idee siano più o meno esatte è una facoltà che qualsiasi studioso vorrebbe poter ottenere. A me è stata concessa e devo dirvi che, malgrado una certa scarsità di informazioni sicure, dai documenti che ho avuto a disposizione, ho potuto farmi un’idea abbastanza chiara della vostra situazione e anche, sia pure con i limiti dettati da un’analisi un po’ affrettata, ho elaborato una chiara strategia da attuare».

Un fremito percorse

l’uditorio: come parlava bene il Maestro! «La prima dote di un buon comunista, come certo saprete, è il sapere riconoscere i propri errori, in una parola fare autocritica: ebbene come prima cosa io vi dirò che ho fatto molte cazzate (sì, disse proprio così). Avevo creduto che lo sviluppo logico e finale della fase capitalistica sarebbe stata necessariamente la rivoluzione, che la continua accumulazione di capitale avrebbe portato alla proletarizzazione sempre maggiore delle classi medie e, infine, anche dei piccoli e medi capitalisti rovinati dai grandi monopoli. Beh, devo dirvi che tutto questo non è risultato esatto. La storia mi ha insegnato che le uniche rivoluzioni socialiste sono avvenute in paesi economicamente arretrati, inoltre ciò che è accaduto in seguito in quelle nazioni non è stato certo edificante. Mao deve essere stato un grande uomo, peccato che sia morto, mi avrebbe fatto piacere conoscerlo. Ma quello che è successo in Cina dopo la sua scomparsa è stato devastante. Lenin, poi, con la sua fissazione dell’imperialismo e ancora Stalin e quelli che son venuti dopo! Compagni, devo dirvi che ho rivisto molte delle mie posizioni. Le classi oggi non sono più così definite come ai miei tempi, i padroni non si vedono più, ci sono le multinazionali, il potere finanziario, il clan Bildemberg, non si può parlare più di lotta di classe in termini storici».

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L’assemblea era perplessa. Qualcuno cominciò a rumoreggiare. Un compagno di base disperato gridò: «Cristo! Ma non sei più marxista?». Un gelo profondo percorse la sala. Marx per fortuna non comprese e continuò imperterrito. «E’ chiaro che le mutate condizioni storico-politiche portano a un cambiamento di strategia. Compagni, in questo particolare momento storico il nostro obiettivo deve essere…» E parlò per oltre due ore senz’alcuna interruzione. Quindi salutò, infilò lo scuro pastrano, vecchio ormai di chi sa quanti anni e, stanco ma soddisfatto, abbandonò la sala. L’approvazione alle proposte del Maestro fu unanime e incondizionata ma, del resto, chi sarebbe stato il folle da osare disapprovarle? Si decise di dare attuazione al piano.

A questo punto, cari lettori, l’autore vi propone due possibili finali. A voi scegliere quello che vi è più congeniale. Ma probabilmente sa già quale sarà il più gettonato.

Finale 1) Erano arrivati alla spicciolata, tra mille difficoltà, da ogni parte del Paese. Dalle Alpi a Lampedusa, da Ventimiglia a Gorizia, mischiati ai turisti del periodo pasquale, e ora finalmente i delegati eletti dalle assemblee provinciali si affollavano nella cantina di San Siro ornata a festa per l’occasione. Sarebbe stato un giorno storico e nessuno aveva voluto mancare all’evento che avrebbe cambiato completa60


mente il futuro del partito. Erano trascorsi due mesi dal discorso del Maestro e ora, infine, era tutto pronto per dare seguito alle sue indicazioni. «Buongiorno a tutti e grazie di essere qui – esordì il segretario pro tempore, Ambrogio Cataldi, elegantemente fasciato dal completo grigio fumo firmato Ermenegildo Zegna – Questo è un giorno speciale e l’assemblea nazionale odierna rappresenta una pietra miliare nella nostra storia. Come certamente saprete, con uno sforzo eccezionale, qualche settimana fa siamo riusciti a condurre tra noi il Grande Maestro e grazie a lui, alla sua esperienza, alle sue analisi politiche, ai suoi consigli, siamo qui oggi per approvare il nuovo statuto del partito. Il mondo è profondamente cambiato e questa assemblea ne prenderà atto. Dobbiamo dire basta alla nostalgia, ai ricordi di un passato che ha perso completamente il proprio senso storico e non potrà mai più tornare. Difesa dei diritti dei lavoratori, eguaglianza, giustizia sociale, sono tutte parole vuote di significato. Niente più sacrifici né lotte, lo spirito della nostra epoca è quello del piacere edonistico, qui, subito, senza più indugio alcuno. Propongo, pertanto, e sottopongo la questione al vostro voto, di modificare il nome del partito da PCI a PCI». I delegati si guardarono tra loro perplessi. «Sì, da oggi il nostro sarà il Partito Consumista italiano! Chi è d’accordo alzi la mano». Nella cantina di San Siro iniziò la votazione. Intanto, seduto comodamente al tavolino del bar Motta a piazza San Babila, il signor Marx Karl di Treviri beveva un Campari soda, mangiucchiando salatini, in compagnia di Rosa Romano. La ragazza alta, bionda e con due splendidi occhi azzurri, gli sussurrò piano all’orecchio: «Karl, mi dispiace ma ora devo proprio anda61


re, tra un’ora dovrò sfilare per Armani. Dopo ci sarà la solita festa: buffet favoloso e champagne a volontà. Che fai, mi accompagni?» Finale 2) Sbarcarono nella città che non avevano mai visto prima e che pure conoscevano a memoria alle prime luci dell’alba di un giorno d’estate. Il parco, si chiamava Prater, immenso e verdissimo, risuonava del canto di innumerevoli uccelli; poco lontano sonnacchioso e blu scorreva il Danubio. Da quel momento tutte le loro mosse erano state previste fin nei minimi particolari. I compagni scelti dal comitato centrale attraverso una lunga selezione avevano studiato anni per prepararsi alla missione. Avevano imparato le lingue, affinato i gesti e perfino alcuni tic, ricostruito minuziosamente gli abiti e le uniformi. La chirurgia plastica aveva dato loro l’ultimo, determinante strumento per l’azione. L’occasione migliore era certamente quella: il Congresso. Averli tutti riuniti e a portata di mano rendeva la cosa molto più semplice. Le sostituzioni avrebbero potuto richiedere anche del tempo ma l’esito finale era assolutamente sicuro. Gabriella De Marchi, studentessa del secondo anno della facoltà di storia e filosofia all’Università statale di Milano, nella biblioteca dell’istituto si preparava all’esame di storia contemporanea. Il programma comprendeva la nascita della società socialista e la ragazza, attenta, leggeva il documento finale del Congresso di Vienna, anno 1815, all’incirca duecentocinquanta anni prima. “Noi sovrani d’Europa, qui riuniti per dare un volto nuovo alle nostre nazioni e leggi più giuste a tutti i nostri popoli, decretiamo: Punto primo: La proprietà privata è considerata un furto, pertanto viene abolita. Punto secondo: … 62


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