Birra Nostra Magazine 4_2023

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BIRRA NOSTRA

NOVITÀ, DEGUSTAZIONI, PRODUZIONI, ITINERARI NEL MONDO BIRRARIO

TENDENZE

LE BIRRE ANALCOLICHE.

UNA NUOVA FRONTIERA di Lorenzo “Kuaska” Dabove

BIRRE E BIRRIFICI

BIRRE ARTIGIANALI ICONICHE.

ARSA DI BIRRANOVA di Andrea Camaschella

GASTRONOMIA

QUANDO IL QUINTO QUARTO E

I SALUMI SONO DI PESCE di Roberto Muzi

FOCUS

Ammostamento a decozione

a cura di Giorgia

Bertan N.4| LUGLIO 2023 MAGAZINE

IL POTENZIALE in un ossimoro

Se i nostri lettori tornano con la memoria allo studio dei poeti e dei loro componimenti ricorderanno la poesia “Temporale”, nella quale Pascoli descrive il silenzio assoluto che precede lo scatenarsi della tempesta con l’espressione “tacito tumulto”. O ancora, Leopardi, che chiude l’“Infinito” con i celebri versi “e il naufragar m’è dolce in questo mare”. L’ossimoro è questo, un paradosso apparente che nasce dall’accostamento di parole tra loro contrastanti. In questo numero è proprio l’ossimoro a caratterizzare i nostri pezzi, partendo da quello di apertura che ci ricorda come per molti consumatori di birra l’espressione birra analcolica sia appunto una contraddizione in termini! Tocca a Lorenzo Dabove, meglio conosciuto come Kuaska, acuto osservatore del panorama birrario, giudice e scrittore di birra e da questo numero collaboratore del nostro periodico, proporre una lettura alternativa e retroattiva dell’insolito binomio che nel tempo ha saputo attirare l’attenzione del pubblico in virtù di un inevitabile cambio di mentalità che tutte le innovazioni portano insito in loro. Il cambio di trend nella produzione e nei consumi di birra analcolica è analizzato anche da Christian Schiavetti che, nel raccontare la storia del Birrificio Pfefferlechner, analizza la maggiore attenzione dei consumatori nei confronti di questa tipologia di birre prendendo in causa aspetti salutistici e di sicurezza legati al consumo di alcolici. Se continuiamo nell’analisi del potenziale contenuto in un ossimoro come non parlare dell’accoppiata cioccolato/ birra a cura di Massimo Faraggi o di una cena dall’effetto sorprendente a base di

salumi di pesce (esiste paradosso più potente?) e birre artigianali raccontata da Roberto Muzi. Il numero è poi arricchito dal racconto sulle birre artigianali iconiche di Andrea Camaschella che si sposta in Puglia e narra di coraggio, di cultura popolare e della capacità pugliese di non arrendersi mai: qualità imbottigliate in Arsa di Birranova, una birra che solo grazie alla tempra del suo ideatore si sta ritagliando un posto di tutto rispetto ai numerosi concorsi dove viene presentata. Matteo Malacaria riprende invece la sua analisi del mercato birrario collegandola al turismo, anzi ai turismi! Nella parte dedicata alla tecnica e alle materie prime, Giorgia Bertan analizza la decozione e l’ammostamento accompagnando il suo pezzo con indicazioni di tipo pratico utili a preservare la qualità del prodotto finale mentre Michele Matraxia analizza l’uso dei lieviti nella produzione della birra artigianale e casalinga. Antonio Boschi prosegue il suo viaggio musicale, questa volta in terra emiliana, per raccontarci di un duo di alternative country dal nome “Big River”, dove il collegamento al grande fiume Po non è affatto casuale. Chiude infine un mio articolo dedicato all’uscita della prima guida di turismo brassicolo curata dal fondatore del marchio Birra Nostra, Luca Grandi.

Un numero estivo ricco che scava negli accostamenti impossibili per rivelare il potenziale degli ossimori in grado di generare nuovi sapori, accostamenti non banali che rivelano un potere degustativo enorme che apre le porte a sensazioni inaspettate. A questo punto quindi…

BIRRA NOSTRA MAGAZINE 1 luglio 2023 Editoriale
Buona lettura e buona bevuta! MIRKA TOLINI Professionista della scrittura e della comunicazione, collaboro da dieci anni al progetto Birra Nostra
2 BIRRA NOSTRA MAGAZINE luglio 2023 SEGUICI SU facebook.com/BirraNostraMagazine IN QUESTO NUMERO... EDITORIALE Il potenziale in un ossimoro 1 BIRRE E TENDENZE Le birre analcoliche: una nuova frontiera 4 di Lorenzo “Kuaska” Dabove BIRRE DA RACCONTARE Pfefferlechner, birra analcolica artigianale 10 di Christian Schiavetti BIRRE E BIRRIFICI Artigianali e iconiche: Arsa di Birranova 16 di Andrea Camaschella MARKETING Uno, nessuno, centomila turismi 22 di Matteo Malacaria TECNICHE Ammostamento a decozione: reliquia del passato o scelta di qualità? 28 di Giorgia Bertan MATERIE PRIME Gestione lieviti nella produzione birraria 34 Nutrizione e modalità di inoculo di Michele Matraxia 4 28 16 10 NOVITÀ, DEGUSTAZIONI, PRODUZIONI, ITINERARI NEL MONDO BIRRARIO MAGAZINE
BIRRA NOSTRA

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BIRRA NOSTRA MAGAZINE 3 luglio 2023 HOMEBREWING Birra e cioccolato 40 di Massimo Faraggi GASTRONOMIA Quinto quarto e salumi di pesce 48 di Roberto Muzi
E MUSICA Emilia: tra fiumi, birre e musica d’autore 54 di Antonio Boschi TURISMO BIRRARIO Guida per viaggiatori in fermento 60 di Mirka Tolini NOVITÀ DAL MONDO BIRRARIO a cura della redazione 62 HANNO SCRITTO PER NOI
BIRRA
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BIRRA ARTIGIANALE ITALIANA QUALITÀ 48

Le birre analcoliche

UNA NUOVA FRONTIERA

birre artigianali in lattina, anch’esse all’inizio identificate con le mass market lager delle multinazionali ma che ora stanno riscuotendo un inarrestabile successo: molti nuovi birrifici e beer firm partono commercializzando esclusivamente lattine e altri produttori, anche tra i pionieri, affiancano lattine alle loro tradizionali bottiglie che agli albori del movimento rappresentavano, per foggia e design, uno dei nostri aspetti più riconoscibili.

Ricordo nitidamente la data dell’11 aprile 2004, domenica di Pasqua. Mentre a casa mia stavano impiattando il leggendario agnello al forno di mia mamma io, in volo verso San Diego, toglievo con terrore la copertura di stagnola che purtroppo liberava il contenuto del simil-pranzo fornito dalla Delta Airlines. Era la mia prima volta come giudice alla World Beer Cup. Non potrò mai scordare il mio primo tavolo di degustazione: non solo per il parterre de Roi con il mio Maestro Mi-

chael Jackson in testa, ma anche per le prime birre che dovemmo valutare che, con mia somma sorpresa, erano quelle della categoria 1, cioè le analcoliche! Immagino che come me, all’epoca, la maggior parte degli addetti ai lavori e gli appassionati identificassero le birre analcoliche con quelle inodori e insapori proposte dalle multinazionali. E infatti quella convinzione fu totalmente confermata dalle medaglie assegnate in quella occasione. Riscontro delle chiare analogie con l’avvento delle

Tra mille difetti, uno dei pregi che mi viene riconosciuto riguarda la mia apertura mentale verso innovazioni che portino a un cambiamento di mentalità. Farò l’esempio del fenomeno del caffè in capsule, ormai da tempo affermatosi nel nostro Paese: tanti anni fa assistetti alla presentazione di una start-up per il lancio nel mercato italiano del caffè in capsule, ideato negli anni Ottanta dall’ingegnere svizzero Eric Favre. Il relatore fu deriso un po’ da tutti e uno dei presenti predisse un flop sicuro, citando addirittura Eduardo De Filippo nella famosa scena del balcone in “Questi fantasmi” dove, con la sua inimitabile flemma, si prepara un caffè seguendo un rituale a dir poco maniacale.

Seppur nel nostro campo le cose siano velocemente cambiate, ancor oggi vengo visto con diffidenza quando affermo in pubblico che le birre artigianali analcoliche non saranno una nuova sfida futura ma che rappresentano già una realtà da tenere in grande considerazione e in rapido sviluppo. Permettetemi una semplice considerazione: non capisco

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Lorenzo “Kuaska” Dabove
di

perché un appassionato non abbia il diritto di reperire birre analcoliche di accettabile qualità se per motivi di salute, per il mettersi alla guida, dopo un’attività sportiva o perché si torna al lavoro dopo la pausa pranzo o, nel caso di una donna, che sia in stato interessante, non possa tranquillamente bersi un paio di birre, meglio se buone.

Zero alcol, zero gusto?

Ho volutamente scritto “di accettabile qualità” in quanto le prime non industriali che assaggiai negli anni Ottanta e Novanta, perlopiù bavaresi da agricoltura biologica, trovate esclusivamente in negozi salutistici ed erboristerie, rappresentavano già un bel passo in avanti ma non potevano ancora certo reggere il paragone con le artigianali alcoliche di bassa gradazione: avevano corpo troppo esile e tenue intensità degli aromi percepiti, dei gusti e delle

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San Diego World Beer Cup 2004

sensazioni boccali. Il cambiamento era però nell’aria e, a parte interessanti ma sporadici tentativi, chi se non i lungimiranti visionari, imprenditori punk del birrificio scozzese Brewdog potevano scioccare il ristagnante mondo delle birre? Ed ecco che, come una bomba, arrivò nel gennaio 2020 la notizia dell’apertura, a Londra in Old Street, dell’AF (Alcohol-Free) bar che serviva solo birre di ABV (Alcohol by Volume) inferiore allo 0,05%, limite al di sotto del quale in alcuni paesi come il Regno Unito una bevanda è considerata analcolica. Amici del CAMRA (Campaign of Real Ale), del quale faccio parte da sempre, mi confermano che nel Regno Unito si definisce “Alcohol-Free” una birra non oltre lo 0,05% ABV, “De-Alcoholised” non oltre lo 0,5% ABV e “Low-Alcohol” non oltre l’1,2% ABV.

Come si sa, io assaggio tutto, dalle birre degli hard-discount ai più celebrativi e classici capolavori e lo stesso faccio per le birre analcoliche. Sono già terribili quelle analcoliche industriali di prima fascia, potete immaginare come siano quelle di seconda! Se nelle prime, le note di DMS ti aggrediscono come se si stesse bevendo il liquido scolato da una scatoletta di mais, nelle seconde, se possibile ancor più scarse di corpo, tali note interagiscono con quel poco di luppolo creando una sorta di vegetale bruciacchiato che preferiremmo non trovare. Se può sembrare difficile riconoscere una birra alcolica industriale dalle altre, in realtà ciò è possibile e ve ne darò un esempio concreto. Nel 2003, da delegato dell’EBCU, fui invitato al Festival di Hallein in Austria, vicino a Salisburgo. Tra le iniziative per il pubblico, gli organizzatori di Bier IG (associazione di consumatori austriaci), avevano organizzato una specie di concorso che consisteva nel sottoporsi ad una prova che, se superata, dava diritto a partecipare all’estrazione di premi, tra cui una fiammante moto. Tale prova consisteva nel degustare birre da cinque bicchieri: nei primi due la stes-

sa birra, nel terzo e nel quarto un’altra birra e nel quinto una singola birra, non accoppiata, da riconoscere, così come andavano identificate le due coppie. Sembra incredibile ma la moto rimase al suo posto, non assegnata, in quanto, tra i visitatori, nessuno aveva superato la prova. Questo gioco-esperimento mi colpì e lo adottai in seguito per studenti e appassionati ricavandone un dato statistico interessante: la media di chi lo superava si attestava sul 20% ma se per il quinto bicchiere utilizzavo una birra “discount” la media saliva; molti riuscivano a identificarla, anche se magari sbagliando poi le accoppiate degli altri quattro bicchieri. Lo stesso lo volli fare un paio di volte con birre analcoliche industriali di prima fascia, senza però dire il tipo di birra, ma nessuno riuscì a completare l’esperimento. Pro-

verò con un’analcolica “discount”: non credo però sia meno difficile da identificare a riprova della scarsa intensità di aromi e gusti presenti in tali birre. Intensità, complessità e carattere che però troviamo nelle prime promettenti birre analcoliche artigianali!

Birre analcoliche: la nuova sfida

Da quando, dopo aver accettato e promosso le lattine, individuai nelle birre analcoliche la successiva nuova sfida ai pregiudizi, una serie di curiose coincidenze mi sono piovute addosso. Nei pochi ma significativi concorsi internazionali cui partecipo come giudice (oggi giorno ormai ce ne sono così tanti e quindi con così tante medaglie che sembra di essere entrati nel campo del wrestling) mi assegnano, sembra incre-

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dibile, sempre la degustazione di birre analcoliche. Per fortuna non più quelle insipide del mio primo tavolo di giuria del 2004! Inoltre, oggi sono chiamate “non-alcoholic new style”: penso che, in questo caso, l’appellativo “new” sia molto adatto in quanto non sono servite solo lager, come le prime analcoliche, ma birre dagli stili più disparati; in prevalenza IPA ma non solo, con sorprendenti novità come Imperial Stout e Abbey Ales!

Altre curiose coincidenze mi capitarono recentemente a Nashville, in occasione della mia partecipazione alla World Beer Cup 2023: dopo essere uscito dal Johnny Cash Museum carico di regali per mia nipote, fan del famoso cantante country, raggiungo gli amici in un locale nei pressi della Broadway. Scelgo una birra leggendo nel menù solo il nome “Golden”. Mi piacque e pensai fosse una session, invece scoprii essere una birra analcolica e pure gluten-free! Precisamente, la Upside Dawn con luppoli britannici e americani, dell’Athletic Brewing Company che ha due siti di produzione, a Mildford nel Connecticut e, in California, a San Diego. L’ultimo giorno a Nashville, poco prima della cerimonia di premiazione della World Beer Cup, i giudici possono assaggiare birre locali e a me cosa capita? Un’analcolica ovviamente!

Dal punto di vista prettamente olfattivo e soprattutto gustativo, denoto, almeno finora, una netta differenza tra le birre caratterizzate dall’impiego di una forte quantità di luppolo, American IPA in testa, e quelle con aggiunta di erbe, spezie, frutta, caffè ecc. Le prime reggono meglio l’inevitabile, seppur eterogeneo, paragone con le alcoliche, specie con le Session IPA, mentre le seconde, in genere, ma non tutte ovviamente, denotano una mancanza di equilibrio tra la già esile parte maltata, non sostenuta da un corpo adeguato e gli ingredienti in aggiunta: spesso questi risultano coprenti, tanto che a volte sembra di bere una bibita più che una birra.

Dalla teoria alla pratica

Ciò gioca a favore dei tanti, spero solo temporanei, detrattori. Per spiegarmi meglio, propongo due esempi concreti, a mio avviso, sufficientemente indicativi, ricavati da mie esperienze personali con le due birre analcoliche che mi hanno maggiormente colpito, la prima caratterizzata da una generosa luppolatura e la seconda per la quale il birraio ha utilizzato numerosi altri ingredienti. La prima birra è la Coconut Grove, Juicy Pale Ale alkoholfrei di Kehrwieder Kreativbrauerei di Amburgo del geniale birraio, scrittore, storico e mio grande amico Oliver Wesseloh. Birra innovativa, un vero e proprio capolavoro a partire dall’olfatto con un

bouquet esplosivo per un copiosissimo utilizzo di cinque luppoli che definirei “iene” come il Bru-1 portatore sano di ananas, il Galaxy con decise note di pesca, frutto della passione, guava e così via, il Sabro con cocco violento, Vic Secret (che ricorda il Topaz) con una macedonia di frutti tropicali e infine il Cryo-Talus che, grazie a Dio, conferisce gradite note fresche e floreali con punte di pompelmo rosa. Per fortuna Oliver ha fornito sufficiente corpo per sostenere un terrificante retrogusto grazie (o per colpa, a seconda delle opinioni) di un dry hopping da ultras dell’amaro. Vi ricordo che stiamo parlando di una birra analcolica che ho degustato con grande piacere tanto che, nel video che

BIRRA NOSTRA MAGAZINE 7 luglio 2023 BIRRE E TENDENZE
Upside Dawn di Athletic Brewing Company

ho postato su Facebook e Instagram si nota che pensavo di bere una normale birra alcolica.

La seconda birra si piazza invece agli antipodi della prima. Mi riferisco alla recente “new entry” Botanic, la prima birra analcolica griffata Baladin, da un’idea di Teo Musso, il birraio più geniale e visionario del nostro panorama artigianale. L’ho assaggiata per la prima volta a Rimini al Beer & Food

Attraction 2023 trovandola subito originale seppur in pieno stile Baladin: equilibrata, senza estremismi nell’olfatto e nel gusto nonostante venga definita “relaxing beer” e nonostante venga utilizzato un mix di erbe e spezie caratterizzate da note balsamiche e punte ficcanti come il coriandolo,

la genziana, la passiflora e la canapa fresca come ingrediente principale. Superfluo poi sottolineare come gli ingredienti siano totalmente italiani, filosofia che Teo sente nel suo cuore e che ha sempre predicato. La Botanic non mi ha totalmente sorpreso perché Teo ha sempre dimostrato un amore e una propensione per l’utilizzo delle spezie, vocazione naturale per un birraio ispirato inizialmente dal mondo belga. Queste sue doti si sono rivelate decisive e vincenti per una birra unica, non paragonabile ad altre analcoliche.

Una nuova realtà

Ho preso come esempio queste due birre così opposte, con un enorme distanza: nello sconfinato spazio tra

questi due estremi si possono posizionare un numero di birre analcoliche in continua crescita e di sempre maggior qualità, per poter dimostrare come ormai le cosiddette “non-alcoholic new style” rappresentino, volenti o nolenti, un’innegabile realtà. Lascio ad altri l’approfondimento su temi prettamente tecnici come le leggi e le normative, i lieviti consentiti e i processi produttivi, in particolare relativi alla fase di fermentazione, come le operazioni denominate “sottrattive” dal prodotto finito o quelle di interruzione della fermentazione stessa. Per fortuna io faccio il degustatore e, accanto alle birre alcoliche, oggi posso studiare anche quelle analcoliche “new style” con una certa curiosità e senza alcun pregiudizio. ★

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Botanic di Baladin Coconut Grove di Kehrwieder Kreativbrauerei
MACCHINE IMBOTTIGLIATRICI 1.000-20.000 B/H fraz. Cappelli 33/b, 12040 Ceresole d’Alba (Cn) tel. +39 0172 574 416 - fax +39 0172 574 088 email: gai@gai1946.com - www.gai1946.com Scriba Studio / ph Paolo Marchisio Qualità la progettiamo, la costruiamo, la imbottigliamo

PFEFFERLECHNER, birra analcolica artigianale

Le birre analcoliche sono ormai un fenomeno in ascesa anche tra i consumatori italiani. Mantenere un certo carattere e una qualità tali da non far rimpiangere le tanto amate birre artigianali non è sempre facile, ma negli ultimi tempi i risultati promettono bene.

Sono infatti tanti i motivi che ci portano a bere birre analcoliche: problemi di salute, gravidanza e allattamento per le

donne, patologie varie, assunzione di farmaci, divieto assoluto di consumare alcolici, diete e altro, oltre alla paura di mettersi alla guida dopo aver bevuto. All’estero, in alcuni Paesi, il mercato è già ben sviluppato, mentre in Italia siamo giusto all’inizio, ma con realtà e prodotti interessanti; qualche esempio è rappresentato da l’Olmaia di Montepulciano in provincia di Siena e Birra Salento di Leverano, in provincia di

Lecce (questi due birrifici hanno collaborato per produrre la linea “Alcol-Fri”), Rebeers sempre in Puglia, Guggenbräu a San Genesio Atesino in provincia di Bolzano e, tra gli ultimi esempi usciti

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di Christian Schiavetti

sul mercato, l’analcolica del Birrificio

Via Priula di San Pellegrino Terme, in provincia di Bergamo.

Tra i primi a produrre una linea di birre analcoliche, c’è il birrificio altoatesino Pfefferlechner, con la linea denominata Freedl, con tre diverse tipologie nate dalla creatività di Maria Elisabeth Laimer, proprietaria insieme alla famiglia.

? Maria Elisabeth, partiamo da lontano: quando, dove e come nasce il Birrificio Pfefferlechner? Oltre alla parte produttiva, avete anche un bel locale ed una piccola distilleria. Il Birrificio Pfefferlechner prende vita nel 2005 a Lana in provincia di Bolzano, in Trentino-Alto Adige, per noi in Sud Tirolo. Nasce all’interno della nostra osteria contadina dove una documentazione cita il maso Pfefferlechner già nel 1279. Il birrificio ha un impianto da 5 hl con caldaia in rame a vista e una produzione annua di circa 1000 hl. Il nostro ristorante è stato aperto da mio padre Martin, con il focus orientato prevalentemente sulla cucina regionale e la sincera ospitalità e nel 1997 viene aperta anche una piccola distilleria con la quale produciamo, a seconda della stagione, diversi tipi di grappe e distillati, come quello di ciliegie, e birra per la consumazione principalmente all’interno del locale, con l’alambicco che si trova proprio nella Schnapstube. Il Pfefferlechner incanta i propri ospiti con l’atmosfera tipica delle vere osterie contadine (Buschenschank in tedesco) con le accoglienti stube, con la rustica cantina e naturalmente, con la vista sulla stalla. Inoltre, all’esterno, abbiamo un bel Biergarten, dove sorseggiare le nostre birre in totale relax, un parco giochi e un mini zoo con gli animali per i clienti più piccoli.

? Pfefferlechner: qual è l’origine di questo nome?

Pfefferlechner è il nome del maso, risalente al 1279 o forse prima. Per que-

sto la nostra linea di birre artigianali si chiama Pfeffer; per esempio Pfeffer Hell. Per la nuova linea di birre analcoliche abbiamo creato un nuovo brand che si chiama Freedl, che è una combinazione della parola alcohol free e il soprannome sudtirolese Fredl

? Quali birre realizzate al momento?

Abbiamo diversi tipi di birre: le birre classiche disponibili tutto l’anno sono Pfeffer Hell da 5° Alc. a bassa fermentazione con malto Pilsner, dal sapore maltato e con una leggera nota amara

BIRRA NOSTRA MAGAZINE 11 luglio 2023 BIRRE DA RACCONTARE
Maria Elisabeth e Maximilian Laimer, titolari di Pfefferlechner

data dai luppoli; Pfeffer Schwarz da 5.5° Alc., nera sempre a bassa fermentazio-

Analcoliche per tutti i gusti

Freedl Classic

ne con sentori di malti tostati, prodotta con vari malti scuri e Pfeffer Pale Ale da

5° Alc. prodotta con il 100% di malto altoatesino, ad alta fermentazione in stile inglese, la più amara della nostra gamma. Poi abbiamo diverse birre stagionali, come una birra alle ciliegie di nostra produzione o alle castagne da 6° Alc., dove usiamo farina di castagne e malti scuri; ma anche una birra invecchiata per oltre 3 mesi in botti di quercia, scura da 6° Alc. con sentori maltati, affumicati e dolci che ricordano la vaniglia. Infine, naturalmente, abbiamo anche le nostre birre analcoliche, che sono il nostro focus principale come birrificio in tre differenti varietà.

? Quando e perché avete deciso di allargare la gamma inserendo birre senza alcol?

Già nel 2015 avevamo iniziato i primi esperimenti, ma era davvero difficile e non c’era ancora un vero e proprio stu-

Prodotta come una Pale ale, colore dorato, limpida con fine schiuma bianca. Profilo aromatico improntato sull’agrumato, delicato ma duraturo; in bocca tenui accenni di cereale, pane bianco e miele millefiori, chiusura amara tra sentori erbacei e resinosi, per una ovvia facilità di beva. Ottima come aperitivo e in qualsiasi momento.

Freedl Calma

Prodotta con basilico alpino; al naso domina il basilico, l’aroma erbaceo si amalgama a quello dei luppoli, in bocca cereale e note erbacee e vegetali. Ovviamente deve piacere il basilico, ma è una birra di facile beva davvero particolare.

Ottimo abbinamento con una vera pizza napoletana o piatti con basilico. Dorata leggermente velata con schiuma bianca finemente persistente.

Freedl Citrino

Prodotta con scorze di limoni e diverse varietà di luppolo, color oro antico, limpida con schiuma bianca a grana fine. Sentori agrumati al naso, oltre che erbacei e floreali; leggermente citrica in bocca dove ritroviamo gli agrumi e freschezza palatale

impressionante. Si abbina perfettamente con barbecue, meglio se di pesce e deliziosi tacos e altri piatti leggermente saporiti.

12 BIRRA NOSTRA MAGAZINE luglio 2023 BIRRE DA RACCONTARE

Come si produce una birra analcolica?

Normalmente, una birra con tasso alcolico tra lo 0 e 0.5% viene considerata non alcolica. In Italia il limite legale per considerare una birra come analcolica è 1.2%, ma la percentuale varia da Paese a Paese. Il processo di produzione è lo stesso che viene impiegato per produrre tutte le birre, ovviamente riducendo il tasso alcolico. Ci sono due modi per farlo: il primo metodo prevede l’eliminazione dell’alcol dopo il processo di fermentazione. Un modo per farlo è per mezzo della osmosi inversa: la birra viene filtrata attraverso una speciale membrana eliminando l’etanolo; oppure si può eliminare l’alcol tramite un processo di evaporazione sottovuoto, dal momento che l’alcol evapora a una temperatura più bassa rispetto all’acqua. Il secondo metodo prevede l’impiego di una quantità minore di malto, usando anche tipologie di malti che

permettono una fermentazione ridotta, oltre ad usare un ceppo di lievito che produce meno alcol: processa infatti glucosio e maltosio, ovvero gli zuccheri che gli altri lieviti trasformano più facilmente in alcol, in modo meno efficiente. Attualmente esistono in commercio lieviti idonei a produrre birre analcoliche, come il Safbrew LA-01 prodotto dalla Fermentis, un ceppo di Saccharomyces cerevisiae var. chevalieri selezionato appositamente per birre a bassa gradazione alcolica (<0.5%); il LA-01 non metabolizza maltosio e maltotriosio. Un altro esempio è quello della Fermo Brew, ibridizzato per esaltare esteri fruttati in birre a basso grado alcolico. Per entrambi i ceppi, i birrai solitamente impiegano la tecnica della fermentazione interrotta, abbattendo la temperatura del tino di fermentazione.

dio. Poi nel 2018 abbiamo trovato una tecnica che ci permettesse di produrre una birra naturale senza alcol con un buon risultato finale. Il nostro obiettivo era quello di produrre birre di alta qualità e ugualmente piacevoli, semplicemente senza alcol, mettendo in campo la stessa passione e artigianalità con cui si producono le birre alcoliche. In questo modo si ottiene un prodotto sano, naturale, molto simile alla birra ma analcolico.

? Quante tipologie avete e come si differenziano?

Oggi abbiamo tre diverse birre analcoliche. La Freedl Classic è realizzata come una Pale Ale con acqua alpina, malto e diversi tipi di luppolo; poi abbiamo la Freedl Calma, con cui abbiamo vinto il secondo posto all’European Beer Star Award nella categoria Freestyle,

prodotta con il basilico alpino che cresce a 1500 m nel Parco Nazionale dello Stelvio. Il basilico può ridurre lo stress e contribuisce a reintegrare le riserve naturali di energia; è inoltre una delle erbe aromatiche più antiche conosciute e ad oggi viene impiegato prevalentemente in cucina, come per il famoso pesto alla genovese; inoltre ha un effetto antinfiammatorio e fa bene allo stomaco e al fegato. Da quest’anno infine abbiamo inserito nella linea anche la Freedl Citrino, una birra rinfrescante che viene prodotta con scorze di limone, che donano alla birra un gusto estivo e tonificante.

? Perché un consumatore dovrebbe scegliere la birra analcolica?

Ci sono diversi motivi; ultimamente molte persone la provano per curiosità, ma i motivi principali risiedono

nella riduzione dell’assunzione di alcol e di calorie. Infatti una birra analcolica contiene meno calorie rispetto alla sua controparte con alcol ed è quindi adatta a tutte le persone che stanno seguendo una dieta.

Per esempio, 1 grammo di alcol etilico fornisce circa 7 Kcal e quindi più una birra è alcolica, più calorie contiene. Soprattutto la generazione Z beve meno alcolici rispetto alle generazioni precedenti: il consumatore cerca un tenore di vita più sano.

Si tratta senza alcun dubbio di una bevanda ideale da consumare anche dopo uno sforzo fisico, come una corsa, una lunga pedalata o una camminata in montagna, solo per citare qualche attività dove è richiesto un certo sforzo fisico, così da reintegrare i sali persi con lo sforzo e il sudore con una bevanda sana.

BIRRA NOSTRA MAGAZINE 13 luglio 2023 BIRRE DA RACCONTARE

? Quali progetti avete per il futuro per quanto riguarda il birrificio e la linea analcolica oltre che per i distillati?

Vogliamo puntare fortemente sul divertimento senza alcol e produrre al-

ternative di alta qualità, in modo che nessuno debba più rinunciare all’aperitivo. E nel farlo, come quando abbiamo iniziato con il birrificio, vogliamo far partecipare i nostri ospiti alla fase di creazione prodotti. Quindi

Birra analcolica: pro e contro

Pro:

❱ Il basso contenuto di alcol e zuccheri favorisce una minore assimilazione di calorie, quindi è adatta ai fanatici del fitness;

❱ a livello economico la produzione è più sostenibile per i produttori;

❱ avvicinare e formare nuove categorie di consumatori, quali minorenni e sportivi, o persone con patologie;

❱ maggior sicurezza per chi si mette alla guida, oltre che la possibilità di bere birra sul posto di lavoro;

❱ nessun divieto per chi pratica religioni che vietano il consumo di alcol.

Contro:

concentrarci maggiormente sulla linea Freedl. ★

Info e contatti: https://www.pfefferlechner.it https://freedl.it

❱ Difficoltà a livello di impiantistica e macchinari per i piccoli produttori artigianali;

❱ limitazione stilistica, essendo l’alcol una parte caratterizzante di alcuni stili, come ad esempio Tripel o Imperial Stout;

❱ difficoltà nel creare nuovi stili da associare alla nuova categoria di birre analcoliche;

❱ difficoltà nel processo di dealcolazione, ovvero garantire e mantenere il gusto e la consistenza del prodotto finale;

❱ applicare il giusto prezzo alla birra, pur essendo priva di alcol e caratterizzata processi più lunghi in fase di produzione.

14 BIRRA NOSTRA MAGAZINE luglio 2023 BIRRE DA RACCONTARE

Birre artigianali iconiche ARSA DI BIRRANOVA

L’Arsa non fu la prima birra prodotta dal birrificio Birranova di Conversano (BA) e non è nemmeno la birra più venduta del birrificio, eppure è una birra iconica, coraggiosa e che racconta la storia della Puglia, della sua cultura popolare e della capacità dei suoi abitanti di non chinare la testa, di non arrendersi, mai. È anche una birra che si è spesso distinta nei concorsi, portando a casa significativi riconoscimenti. Nel bicchiere è elegante, di colore scuro, tendente al nero, con schiuma a grana

fine e persistente di un intrigante colore beige. I profumi portano subito alla memoria le giornate passate a Bamberga e dintorni, alle Rauchbier della Franconia: sentori affumicati, avvolgenti ma non invadenti, e ancora i malti con note tostate, dal pane abbrustolito alla frutta secca (prugna in particolare, forse una nuance di albicocca disidratata, appena accennata); poco lo spazio lasciato all’erbaceo dei luppoli. In bocca il corpo è slanciato, tipico delle Schwarz, così come la bevuta che solo sul finale, secco

il giusto, svela nuovamente l’anima affumicata con un piacevole retrogusto, persistente il giusto tempo per approcciarsi al sorso successivo. I sapori sono ben bilanciati così come ogni elemento in ogni momento. Una birra da bere in semplicità. La mano del birraio è gentile, chirurgica nell’addolcire ogni asperità delle tostature ed evitare note bruciate o torrefatte, senza nulla togliere al piacere di gustarla, studiandola per assaporarne i vari aspetti, o di berla chiacchierando con gli amici. Dissetante e appagante. Non a caso una delle preferite di Donato Di Palma, il deus ex machina di questa birra e di Birranova: capita di vederlo mentre si spilla una Arsa al pub o durante gli eventi così come di vederlo col bicchiere di Arsa, inconfondibile anche alla vista, in mano. È anche la birra che offre più volentieri se si va a trovarlo, per fare due chiacchiere. Incontra decisamente i suoi gusti e il suo modo di bere e spiega il suo modo di produrre.

Le origini

La fortuna di Donato (che poi, oggi, è anche la nostra di fortuna) è stata la possibilità di viaggiare all’estero, in Inghilterra per studiare la lingua, sin dal 1988 - forse dovremmo dire negli anni ’90, ma a quei tempi capitava di assaggiare la birra, e non solo, anche prima dei 16 anni – qui scoprì le prime birre, le prime al di fuori delle classiche (e noiosissime) lager industriali che si trovavano all’epoca in Italia. Da qui parte la sua ricerca, fomentata dalla sua innata curiosità, alla continua ricerca di prodotti nuovi, diversi. Certo, in Puglia in quegli anni è

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di Andrea Camaschella
Donato Di Palma, fondatore di Birranova

difficile trovare birre particolari, per altro il problema si presenta in tutta Italia. Qualche birra belga però si trova e questo inizia ad ampliare il panorama. Il desiderio di approfondire, di capire le differenze e da dove arrivassero, lo porta in realtà a scovare un libro sulle produzioni casalinghe. Questo alza l’asticella, si passa dal bicchiere a iniziare l’avventura da homebrewer. Nel frattempo, Donato, diplomato ragioniere programmatore, è entrato nell’azienda di famiglia e muove i primi passi nel mondo del lavoro. Il suo futuro pare segnato, fino al prendere il posto del padre e in un certo senso sarà così, visto che Birranova occupa sin dall’inaugurazione la prima sede dell’azienda di famiglia, sotto la casa dove Donato è nato (letteralmente: fu un parto casalingo) e cresciuto. Forse non erano esattamente questi i programmi del padre ma il futuro birraio inizia un percorso che lo porta a non accontentarsi più dei pentoloni di casa e a cercare qualcosa di più grande. Un’idea che si gonfia, che prende forma, che lo porta a conoscere Paolo De Martin, birraio veneto, fino a stargli a fianco nella sala cottura del birrificio la Barchessa di Villa Pola (TV) e poi anche in Germania. Impara a usare la sala cottura e a gestire la cantina. Sono gli anni dell’affinamento della sua preparazione e scopre, o meglio tocca da vicino, le prime, vere lager e si accorge che possono essere birre molto interessanti: “fino a quel momento avevo sempre provato a produrre in casa birre ad alta fermentazione e per comodità aveva scelto qualcosa che fosse più semplice da controllare senza la tecnologia di un birrificio”, spiega Do-

nato. L’Arsa viene da lontano, non come il grano arso, ma poggia le basi proprio su queste scorribande in Germania con Paolo.

A questo punto Donato è pronto per il grande passo e nel 2007 in quel di Triggianello - una piccola frazione di Conversano in provincia di Bari, località nata nella seconda metà del XIX secolo attorno a una cantina vinicola - inaugura il birrificio Birranova. Il progetto prende forma anche grazie a Paolo che dispensa consigli oltre a consegnare l’impianto e la sua influenza: la formazione teutonica è evidente nelle prime birre del birrificio. La formazione tedesca di Donato si riflette sulla prima birra prodotta, la Negramara, ottima interpretazione di una Alt: “prima ancora di incontrare Paolospiega - avevo fatto un viaggio a Düsseldorf con degli amici e scoperto queste birre che poi replicai in molte occasioni a casa”.

La nascita di Arsa

Il mercato di allora non era però pronto alle basse fermentazioni; o meglio, sono i tempi in cui si pensa che queste birre non possano viaggiare se non con la catena del freddo e comunque che abbiano una shelf life limitata. Questo rendeva molto complicato vendere fuori dai confini pugliesi, che per altro, soprattutto in quegli anni, faticavano comunque ad assorbire le vendite. Donato studia, ascolta e piano piano porta quasi tutte le referenze ad alta fermentazione: “la Trebbiana, la nostra Helles bavaresespiega - restò a bassa per essere venduta soprattutto nel nostro locale o in pub vicino a noi, per il resto cambiai alcune

birre e le portai tutte ad alta”. Nasce così la Linfa, la Pale Ale, per raccontare Birranova ovunque.

L’Arsa non è esentata: nasce attorno al 2011 come Schwarz, cioè una birra scura, teutonica, a bassa fermentazione ma si trasforma rapidamente in una Smoked Porter quindi ad alta fermentazione per poi tornare, in tempi più recenti, a essere una Schwarz. È una birra coraggiosa in un Paese come l’Italia che guarda al colore nero come a un ostacolo alla bevuta e, quando esce, è appunto anche a bassa fermentazione. La trasformazione in Smoked Porter non sposta di molto il mercato ma le permette almeno di viaggiare e oggi che ha i suoi clienti affezionati è tornata a bassa fermentazione e continua a viaggiare.

Premesso che parlare di terroir in una birra è sempre complesso, perché ci sono molti elementi (ingredienti) che spesso di territoriale non hanno nulla, in questo caso l’idea di riprendere un’antica usanza, popolare, per caratterizzare una birra, oltre a essere un’idea innovativa, rappresenta un forte legame con la cultura e il territorio locali. L’Arsa è la prima birra che guarda appunto a cultura e territorio locali in quel di Birranova, che fa parlare di sé per l’ingrediente, che incuriosisce e

BIRRE E BIRRIFICI

permette a Donato di coniugare alcune sue passioni: il grano arso, o meglio la cultura pugliese, le birre scure e quelle affumicate in ogni caso tedesche. Dal 2007 a oggi di birra ne è passata sotto gli occhi di Donato e purtroppo anche birrai e birrifici: vista la scelta di Vito Lisco di chiudere la produzione di Svevo per dedicarsi al pub, oggi Birranova è il più “antico” dei birrifici pugliesi in attività. La Puglia è terra felice per la qualità delle birre e conta oggi più di 70 tra birrifici

e brewpub (oltre a poco meno di 50 beerfirm) ma il quadro non è esattamente roseo se lo si osserva nel dettaglio. Il mercato è ancora complicato e far quadrare i conti non è affatto facile, come dimostrano le chiusure che dal 1997 ammontano a 52: “Quando ho aperto Birranova fare birra in Puglia era ancora considerata una roba da matti”, conferma Donato. “Non è stato facile ma siamo ancora in attività, siamo secondi dopo Birra Salento per produzione in Puglia e

forse questo è stato un elemento determinante per mantenere salda la società. Altri aspetti sono stati la nostra tenacia, la convinzione, la caparbietà nel raggiungere standard qualitativi elevati e mantenerli costanti. Credo che il mercato ci abbia premiati per questo”.

Il vero segreto di Donato risiede nella capacità imprenditoriale assorbita nell’impresa di famiglia dove ha iniziato a lavorare osservando il padre sin da ragazzo. Ha anche imparato a evitare passi falsi osservando gli altri, cercando di capire gli errori altrui per non caderci a sua volta.

Anche la capacità di demandare i compiti e le responsabilità è fondamentale per capire Birranova. Tante volte abbiamo conosciuto birrai, anche eccellenti e talentuosi, diventare schiavi della propria sala cottura, lavorare allo sfinimento, spaccarsi la schiena ogni giorno e non potersi permettere un giorno libero o anche solo di ammalarsi. Aspetto che anche Donato ha colto e appena possibile ha inserito aiuti in produzione, scegliendo non professionisti del settore ma persone appassionate da formare personalmente, partendo da zero, in modo che potessero eseguire le tecniche e i modi che caratterizzano le birre di Birranova. Questo ha permesso a Donato di preservare il fisico ma soprattutto di mantenere lucidità concedendogli

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il tempo per viaggiare, per staccarsi dalla produzione e dedicarsi a conoscere altre realtà, confrontarsi con i colleghi, trovare nuovi stimoli, scoprire nuove tecniche. In sostanza gli ha permesso di crescere e far crescere l’azienda, con calma, con passi sicuri e costanti ed evitare di fossilizzarsi solo su cose conosciute.

C’è un bivio: “il logorio mentale contro la libertà di imparare, scambiare opinioni etc.” ed è chiaro come la pensa il nostro.

GRANO ARSO

L’Arsa è una birra che racconta la cultura popolare e il terroir pugliese attraverso il grano arso però… no, il grano arso non è una qualità di frumento autoctono e antico ma non è nemmeno un grano moderno o tecnologico. Per complicarci la vita potremmo però dire che sì, può anche essere un grano antico così come uno moderno e iper tecnologico, dipende semplicemente dal frumento scelto. Cominciamo dal nome, grano arso, e la Treccani ci viene incontro: arso è il participio passato di “àrdere v. tr. e intr. [lat. ardēre, con mutamento di coniug.] (pass. rem. arsi, ardésti, ecc.; part. pass. arso). – 1. tr. Bruciare per mezzo del fuoco […] Per estens., riferito ad altri agenti, consumare, disseccare”.

Si deve risalire al periodo latifondista per scovare le prime tracce del grano arso, quando ai contadini veniva concesso di raccogliere e utilizzare i chicchi di grani rimasti sui campi, dopo la bruciatura delle stoppie. La farina che se ne ricavava poteva essere integrata da una piccola parte di farina bianca e dare origine a una farina scura, integrale, dal sapore amaro che dava origine a un pane molto gustoso e colorato. Va detto che tale pratica dava origine a un prodotto cancerogeno, problema che all’epoca era sconosciuto e forse

Donato è un osservatore attento e acuto, riflessivo, sa ascoltare e quando procede in una direzione è solo dopo aver valutato pro e contro. Si prende i suoi rischi e se ne assume le responsabilità, il solo fatto di essere un birraio in Puglia ne è la prova lampante, ma è appunto un imprenditore, caparbio quanto preparato che ha saputo dimostrare a suo padre e agli altri della sua famiglia che era in grado di fare da solo, seguendo

una passione, la sua passione, contro il parere e le sensazioni di tutti.

La birra secondo Birranova

L’Arsa racchiude tutto questo, a ogni sorso. E il futuro sarà sempre e comunque complicato, perché è difficile fare impresa in Italia e il mercato delle birre artigianali è sempre impervio ma Birranova, inteso come marchio e come gruppo, coeso e passionale, guarda già ai passi

incideva marginalmente, visto che l’età media era molto più bassa di quella odierna. Oggi la pratica della bruciatura incontrollata è stata sostituita da una più salutare tostatura estrema e controllata che apporta soprattutto sentori affumicati. Tra l’altro nel grano arso i peptidi gliadina e glutenina denaturano e quindi non si trova presenza di glutine. Nel periodo in cui in Italia si diffondeva l’uso del carbone vegetale per rendere nero il pane o la

pasta (pratica che oggi si sta decisamente affievolendo), la Puglia rispose rispolverando la sua tradizione, la sua cultura popolare. Oggi se ne usano percentuali piuttosto basse, che donano comunque un caratteristico colore nerastro e anche se non è più tanto di moda non è impossibile trovare, in Puglia, orecchiette o taralli di colore scuro con grano arso tra gli ingredienti. Nella foto un cornetto nero, esempio di utilizzo di grano arso.

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successivi. La gamma di birre è oggi più che completa, oltre al mondo tedesco guarda a quello nordamericano, anglosassone, belga con interpretazioni o reinterpretazioni sempre interessanti; è suddivisa in 3 linee: Linea Classic, Limited Edition (le birre prodotte più raramente o stagionali) e Why Not (le sperimentazioni più estreme di Birranova). Luppoli, malti e ogni ingrediente, fino all’acqua di mare usata nella Margose (Gose di Lipsia da 4,2%) sono usati in modo tecnico e raffinato. Come in ogni altro grande (inteso dal punto di vista della qualità, non delle dimensioni) birrificio, il bilanciamento, la semplici-

tà del sorso, è il mantra in produzione. In questa ottica ecco appunto l’Arsa, la Nova Pils (Italian Pils – cioè con luppoli aggiunti in dry hopping – da 5%), la Marziana (Märzen da 5%), la Linfa (APA da 5%), la Giara (Blanche da 5%) e ancora la Beva (Belgian Ale da 6,5%), la Abboccata (Bock ambrata da 6,5%) ma anche la Negramara Extra (American Double IPA da 8%).

Non mancano comunque birre complesse, da meditazione, come la Tensione Evolutiva (Barley Wine da 11,6%) e la Roccia Scura (Imperial Stout da 9%) o di nuovo territoriali come la Ruffiana (Italian Grape Ale da 7,4% con uva moscato)

Produrre Arsa a casa propria

e la birra di Natale, la Primatia (Dubbel da 9%, con cotto di fichi, tipica base per dolci pugliesi).

In Birranova si è sempre guardato a birre che potessero esprimersi tanto al pub quanto in un ristorante e questo spiega pure il successo della birreria che si trova a due passi, letteralmente, dal birrificio. Il controllo qualità è costante e la crescita passa anche attraverso collaborazioni con altri birrifici e birre one-shot perché così si continua a sperimentare ed eventualmente a cambiare qualche aspetto in produzione. Non si sta mai fermi, non ci si siede sugli allori, questo è Birranova, questo è Donato. ★

Lievito: W 34/70. Se non vi sentite confidenti con la bassa fermentazione, S-04 SafAle (l’apporto aromatico del lievito non è una caratteristica di questa birra).

Fermentazione: 10 giorni a 12°C, poi lagerizzazione per 20 giorni a 2°C. Confezionamento isobarico o in alternativa, usare lievito F2 in imbottigliamento con 6 g/l di saccarosio.

IBU: 23.2

Colore: 70 EBC

OG: 1.056, Plato 13.79

Grado alcolico: 5,5

Bicchiere consigliato: boccale tedesco

Temperatura di servizio consigliata: 6°C – 8°C

20 BIRRA NOSTRA MAGAZINE luglio 2023 BIRRE E BIRRIFICI Ricetta per 23 litri Pale Malt 3 kg Munich Malt 1 kg Cara Munich kg 0.42 Spitz (malto sottomodificato) 0,23 kg Grano Arso 0,30 kg Rapporto acqua/malto 3:1 Protein rest 50°C 10 min Beta amilasi 63°C 30 min Alfa amilasi 72°C 30 min Mash out 78°C 10 min Sparge Luppoli – Bollitura 60 minuti Magnum 14,8 IBU 60 min Perle 5.8 IBU 20 min Magnum 6,5 g 10 min Magnum 13 g g 0 min
2 5 ANNI DI I NNOVAZION I E BIOTECNOLOGIE AGROALIMENTAR I AMMOSTAMENTO FILTRAZIONE RAFFREDDAMENTO BATTERI LATTICI RAFFREDDAMENTO FERMENTAZIONE LIEVITO MATURAZIONE CONFEZIONAMENTO BOLLITURA 12 - 24 h 100° C

Uno, nessuno, CENTOMILA TURISMI

La birra artigianale diventa destinazione (talvolta persino protagonista) delle vacanze degli italiani

Non esiste il turismo, esistono i turismi. Inizio l’articolo rendendo omaggio e parafrasando il più iconico aforisma italiano inerente la birra coniato da Lorenzo Dabove, alias Kuaska, per sottolineare come l’eterogeneità sia facilmente applicabile a tutte le possibili varianti del concetto “birra”. Anzi, oggi più che mai il plurale è obbligatorio.

Nel mio ultimo articolo (vedi BNM 3/23) ho dettagliato, prima dal punto di vista teorico e successivamente dal punto di vista dei benefici pratici, i concetti di segmentazione e posizionamento. A fine articolo ho svelato una realtà raccapricciante: queste due azioni di marketing non sono più solamente consigliate, bensì obbligatorie! Questo perché, laddove la competizione diventa galoppan-

te, vige un’altra regola “differenziati o muori”, per citare Jack Trout. Tralasciando l’industria, che gioca in un campionato a parte, per il settore della birra artigianale italiana, che invece rappresenta una nicchia di mercato, bisogna considerare la convivenza di tante, tantissime imprese per le quali crearsi un’identità specifica che le faccia emergere per distacco dalla concorrenza è essenziale se

22 BIRRA NOSTRA MAGAZINE luglio 2023 MARKETING
di Matteo Malacaria

vogliono sopravvivere. Per quanto possa essere paradossale il nemico da sconfiggere non è la concorrenza piuttosto… l’anonimato! Ecco quindi che diventa essenziale presentarsi al pubblico con una proposta chiara di identità. Il concetto è giustificare al mercato, e quindi agli occhi dei consumatori, la propria esistenza: io, impresa, esisto perché offro qualcosa di unico nel suo genere, o comunque sufficientemente diverso dalla concorrenza che già è presente sul mercato e che probabilmente subentrerà (il profitto attira nuovi concorrenti così come le carcasse attirano gli avvoltoi). Preciso che il problema di fondo non si rinviene sul lato dell’offerta, ovvero nel numero di imprese che compongono la famosa torta di mercato, bensì sul lato della domanda che, per quanto il mondo abbia bisogno di dolcezza, rimane numericamente ed economicamente limitata.

Turisti consumatori

Questo piccolo preambolo mi è necessario per introdurre l’argomento di oggi, ovvero quello dei turismi. Perché se i consumatori diventano sempre più informati e le loro esigenze sempre più complesse, sia per passioni sia per interessi, le motivazioni che li spingono a mettersi in viaggio diventano le più disparate. Ecco perché è limitante e fondamentalmente fallimentare affrontare il concetto come fosse unico e indivisibile. Il compito degli operatori turistici è quello di intercettare dei bisogni, analizzarli e creare una proposta in grado di soddisfarli. Vista la mole di esigenze possibili è pacifico sostenere che è impossibile soddisfarle tutte. Del resto è già stato detto più volte in queste pagine che creare una proposta che vada bene a tutti equivale a non accontentare nessuno, perlomeno in un mercato di nicchia. Questo determina l’attuale prolificazione di turismi, tra i quali entra a gamba tesa quello che ci stuzzica di più: il turismo della birra. Un tema abbastanza recente, perlomeno alle nostre latitudini,

il cui futuro è ancora da scrivere. Anche stavolta in Italia siamo perfettamente in tempo per iniziare a fare bene, prendendo spunto da modelli che sono nostri dirimpettai. Ricordo con grande piacere, ai bei tempi della mia esperienza in Inghilterra, come il sabato sera facesse rima con pub crawling: sfruttare la libertà da lavoro per trotterellare di pub in pub, insieme agli amici, era il passatempo più diffuso. In Regno Unito, infatti, la birra permea lo stile di vita della popolazione locale, che con essa impara a convivere e lo fa con grande coinvolgimento. Per questo motivo è inappropriato parlare di appassionati: certamente ci saranno figure più o meno entusiaste del fenomeno birra artigianale, tuttavia tutta la popolazione indiscriminatamente ha la birra nel proprio DNA e con essa la frequentazione del suo luogo istituzionale, il pub per l’appunto.

Il pub crawling

Una forma di turismo birrario a tutti gli effetti, il pub crawling, che sia fatto per

ragioni squisitamente ludiche oppure per briose sessioni di studio itineranti, in ambedue i casi indica una tipologia di turismo mossa dal desiderio di scoprire birre e birrifici locali, dalla volontà di conoscere più da vicino le culture locali in una forma non solo informativa bensì esperienziale – termine assai in voga, ultimamente. In soldoni si viaggia per bere. Ora, capirai bene che per l’Italia, Paese che ogni anno attira orde di turisti enogastronomici interessati a conoscere più da vicino e ad assaggiare le sue prelibatezze vitivinicole e le eccellenze del territorio, il turismo birrario rappresenta un tassello che va ad arricchire un puzzle già molto interessante. Oggigiorno infatti la birra artigianale può ergersi da sola a destinazione e/o tema vacanziero, semplicemente deviando da un sentiero già battuto ed esplorato del quale rappresenta una sottocategoria. L’offerta così estesa intercetta una domanda crescente a livello locale, nazionale e persino internazionale. Del resto, nonostante la poca esperienza in questo

BIRRA NOSTRA MAGAZINE 23 luglio 2023 MARKETING

ambito, i numeri sono dalla nostra parte: secondo il report 2022 di Assobirra, in Europa siamo al quarto posto per numero di micro-birrifici (alle spalle di Regno Unito, Germania e Francia). Anche i locali birrari, qui da intendersi come birrerie specializzate e pub, così come gli eventi e i festival tematici, contribuiscono ad alimentare l’entusiasmo di questa nuova generazione di turismo, offrendo una ragione in più per visitare l’Italia o per rimanervi, in caso di turismo nazionale. Appurata la presenza di una domanda e beneficiando di un enorme potenziale di offerta, da risolvere rimane la questione assai spinosa di predisporre un’offerta tematica ad hoc. Il che, data la peculiare e straordinaria incapacità delle imprese italiane di fare rete, pronte a remare controcorrente pur di non collaborare con il “nemico”, rende l’attuazione del turismo birrario più facile a dirsi che a farsi.

Piccolo è bello

Il Belgio ha le Fiandre (e non solo), Dublino ha la sua celebre Guinness Storehouse, mentre in Germania c’è l’Oktoberfest. Va bene, è chiaro, non sono tutte iniziative strettamente correlate alle realtà artigianali, tuttavia mi sono permesso di tirare in ballo questi mostri sacri per puntare i riflettori sul fatto che, quando si parla di questi paesi, si verifica un fenomeno assai singolare: si pensa alla birra. L’Italia non ha questo potere evocativo, storicamente attribuito al vino, ma non è un problema. Se all’estero va forte il turismo birrario legato a eventi di massa, l’Italia è il Paese in cui vige il motto “piccolo è bello”. Lo stesso motivo per il quale anche un appassionato di birra proveniente dagli Stati Uniti ha poco di cui lamentarsi in merito a quantità e qualità di birrifici artigianali e nutre sempre grande interesse nei confronti dell’Italia e dei suoi microbirrifici, di cui subisce il fascino. Ecco che in Italia occorre necessariamente pensare al turismo birrario in un’ottica ridimensionata e scommettere sul potere attrattivo delle iniziative locali, inti-

me e romantiche. Oltre alle dimensioni cambia anche l’oggetto della proposta. Mentre all’estero il turista birrario è uno scapestrato, in Italia è piuttosto un curioso, interessato a vivere un’esperienza coinvolgente ed emozionante anziché a mandare giù secchiate di birra. Il che è un ottimo punto a favore del Belpaese che, pur non potendo competere numericamente, può tranquillamente compensare la quantità con la qualità della domanda, presumibilmente più matura e alto-spendente, sia nei confronti della birra sia di ciò che le fa contorno.

L’ospitalità vince

Alla luce di ciò la proposta turistica a tema dovrebbe stressare pochi ma buoni concetti: fare leva sul senso di appartenenza alle comunità locali, invitare alla scoperta e al consumo delle tipicità rinvenibili solo in un circoscritto perimetro geografico, ingolosire e irretire gli assetati con ricette birrarie che diventano sempre più espressione del territorio grazie all’estro creativo dei birrai e all’impiego di ingredienti locali. Non da ultimo, il leitmotiv dell’offerta turistica nostrana è senza ombra di dubbio il fat-

24 BIRRA NOSTRA MAGAZINE luglio 2023
MARKETING

tore umano, già rivelatosi fondamentale in un altro ambito dell’hospitality come il settore ristorativo. Pensaci e dimmi se sei d’accordo con me: il tuo ristorante preferito è quello dove mangi meglio oppure è quello in cui, pur non essendo un’eccellenza, ti senti maggiormente a casa? In questo secondo caso certamente la posizione, l’arredamento, il menu e altri aspetti della proposta ristorativa giocano il loro ruolo, tuttavia sarà del proprietario in cassa e dei modi del personale che ti ricorderai. Personalmente ritengo che il pub vincente sia quello in

cui l’oste è certamente devoto alla causa artigianale, tuttavia a parità di dedizione continuo di gran lunga a preferire le emozioni che provo quando sono lì, piuttosto che la qualità e varietà dell’offerta gastro birraria. Poi va bè, gli orsi esistono e alcuni di essi sono mascherati da uomini che, nella loro indole assai introversa, meritano di bere in solitudine ma sono una specie rara. Certamente in ambito turistico, molto più che in altri settori, è vincente l’ospitalità. È lei a rendere memorabile l’esperienza. Il turismo birrario potrà tranquillamente

fare a meno della loro fedeltà, avendo già fatto una scelta molto più dura quale rinunciare al turismo di massa.

Il turista birrario

Arriviamo così quasi in fondo all’articolo con una domanda fondamentale: chi è il turista birrario? C’è chi organizza viaggi mettendo al centro la birra nelle sue molteplici declinazioni (il sottoscritto, perlomeno prima di diventare papà e appendere il bicchiere del bevitore seriale al chiodo); poi c’è chi, invece, concepisce la birra come qualcosa che aggiunge un pizzico di sale a un viaggio già di per sé saporito (il sottoscritto, quello di oggi, con famiglia e pargola al seguito). Secondo te quale dei due profili rappresenta la “vacca grassa” per l’addetto ai lavori? Un po’ di tempo fa la mia risposta sarebbe stata il turista birro-centrico: con un’offerta su misura dei suoi interessi, chi meglio di lui è un cliente ideale? Il limite della mia risposta è stato il dilemma di molti imprenditori birrari (e non solo): considerare il proprio punto di vista come una fedele rappresentazione della realtà. Errore. Errore di calcolo, erroneo giudizio, visione distorta della realtà, lo puoi definire come preferisci. In gergo si chiama bias cognitivo e ne siamo affetti tutti. Io, tu, tutti. L’importante è esserne consapevoli per riconoscerlo come proprio limite e utilizzarlo come segnale d’allarme prima di avventarsi in valutazioni affrettate. Tornando all’esempio del cliente ideale, il bias si manifesta quando si sedimenta nel cervello la classificazione di un settore in base a criteri non oggettivi come la somiglianza. Ecco perché una volta, quando ero ancora uno sbarbatello del marketing, avrei definito me stesso come il cliente ideale per un operatore birrario. Una volta, non oggi. La lungimiranza deriva dalla capacità di ragionare seguendo un punto di vista diverso: quanto è motivato il singolo individuo che deve regalarsi una buona bevuta, rispetto a chi deve provvedere al bisogno dei suoi cari e regalare loro una bella esperienza? Ma

BIRRA NOSTRA MAGAZINE 25 luglio 2023 MARKETING

soprattutto, quanto spenderebbe il singolo individuo rispetto a una comitiva? Ancora una volta la famiglia si pone come pubblico ideale, insieme ai gruppi organizzati, che in sede di turismo birrario pagano e ringraziano – soprattutto quelli provenienti dall’estero.

Case study

Sebbene il singolo caso non sia sufficiente per fare statistica, guardando poco distante vedo un birrificio italiano molto vocato al marketing come Cr/ Ak che sembra aver adottato lo stesso approccio: l’attuale policy ristorativa pare darmi ragione. Vai in birrificio, accomodati nel suo beer garden mentre sorseggi una Giant Step e guardati intorno: noterai che, pur essendo Padova una città dalla forte vocazione universitaria, la maggior parte dei clienti presenti è rappresentata da professionisti.

E da famiglie. Perché? Perché questo birrificio, come anticipato, sa che il marketing è importante. E per marketing non si intende solo pubblicità, si intende soprattutto fare strategia. Per esempio il summenzionato posizionamento: la scelta delle materie prime, la selezione birraria e il menu ristorativo, sostenuti da una robusta comunicazione che lavora sulla percezione della qualità al consumatore, si riassumono nello scontrino, decisamente più alto della media a parità di offerta. Nessun cliente storce il naso: il birrificio è stato sincero fin da subito, rendendo chiaro il concetto che è possibile bere e mangiare a prezzi modici, ma non da Cr/Ak. Questo, unitamente al branding - promuovere, valorizzare e monetizzare il marchio - ha fatto sì che, in maniera assolutamente naturale, i clienti con poca pecunia si accomodassero in

completa autonomia fuori dal locale, ringraziando pure. Giacché a Padova, oltre alla parte universitaria, c’è anche quella benestante, il birrificio ha scelto il suo pubblico ideale e ha volutamente tagliato fuori il resto. Improvvisamente l’idea di un’offerta così strutturata ha trovato riscontro in una domanda interessata, che è consapevole e ben felice di pagare 6 euro la pinta in tap room Bingo! Ovviamente scegliere tra nerd e consumatori spassionati non basta per determinare un corretto posizionamento, tuttavia dovrei aver reso l’ideaspero - e per ora mi ritengo più che soddisfatto. Respira, siamo ancora a metà articolo. La seconda parte ti aspetta nel prossimo numero, nel frattempo vado a fare due passi in montagna, anche se temo che sarà più facile portare a termine l’escursione che trovare un rifugio dove si beve buona birra! ★

26 BIRRA NOSTRA MAGAZINE luglio 2023 MARKETING

MIKROPOLIS COCKTAILS Best drink, right moment, right format

Da un pub nel cuore di Copenaghen alla produzione negli spazi di To Øl City. Mikropolis produce cocktail in lattina, curati nei minimi dettagli. Dalla produzione degli ingredienti, come bitter e toniche, alla miscelazione. Mikropolis ha un principio semplice: creare le migliori bevande del momento, nel formato giusto. Oggi produce quattro cocktail premiscelati in lattina che sono appena arrivati in Italia anche in fusto.

I cocktails

Lemon Verbena G&T: Gin&Tonic biologico con aggiunta di verbena. Ha una dolcezza appena accennata ed una spiccata vena erbacea: ginepro, coriandolo e scorza di limone equilibrati del gentile retrogusto della chinina e della verbena. Si serve sul ghiaccio guarnendo il bicchiere con una fettina di limone o qualche foglia di verbena.

Ginger Transit: ispirato al Moscow Mule, Ginger Transit è un cocktail pericolosamente rinfrescante e dissetante. Prodotto con vodka, zenzero, lime e spezie. Si serve su ghiaccio con uno zest di limone o lime a esaltare le sue note agrumate ed il delicato pizzicore dello zenzero.

Negroni: Per un buon Negroni, l’equilibrio tra dolce, amaro e secco è fondamentale. Questa versione contiene un gin prodotto con più di 24 botaniche, vermouth e Junta Aperitivo, bitter prodotto da Mikropolis. Ogni lattina contiene due negroni, da servire con ghiaccio ed una fettina d’arancia oppure per sperimentare con un negroni&tonic.

Nordic Cosmo: il classico Cosmopolitan con un twist nordeuropeo. In questo cocktail il ginepro trova grande spazio d’espressione equilibrato da una componente fruttata e morbida data dall’aggiunta di mirtilli. È divertente e dissetante, da servire su ghiaccio o ben freddo nel bicchiere.

Perchè scegliere i ready-to-drink?

I cocktail Ready-to-drink hanno avuto negli ultimi anni grandissima diffusione sia all’estero che in Italia. Trovano spazio nei frigo dei consumatori finali che cercano un cocktail di alta qualità già pronto e vengono scelti dai pub e ristoranti per i vantaggi che offrono. Dalla garanzia di qualità, al risparmio sui tempi di servizio e sugli spazi di stock.

Lattine e fusti

I cocktail di Mikropolis sono in lattina da 0,250 lt., pensati per essere serviti su ghiaccio e arricchiti con garnish. A partire da Giugno 2023 sono disponibili in Italia tramite Ales&Co, distributore e importatore di Mikropolis in Italia, anche in formato Key Keg da 20 L. Si vuole così rispondere alle richieste di festival ed eventi dove il grande afflusso di persone richiede un servizio rapido ed efficiente, e dei locali di cui la birra è il cuore pulsante, ma che vogliono aprirsi a nuove opportunità e occasioni di consumo. www.alesandco.it

BIRRA NOSTRA MAGAZINE 27 luglio 2023 INFORMAZIONE PUBBLICITARIA

AMMOSTAMENTO A DECOZIONE Reliquia del passato o scelta di qualità?

Quante volte avete sentito o avete pronunciato questa frase? A me l’hanno detta un sacco di volte ma non sono riusciti a placare quell’irrefrenabile voglia di perdere qualche ora

(poi giorno, poi mese...) per scoprirne di più sulla decozione. Se anche voi siete un po’ curiosi o se siete tra quelli che usano il malto melanoidinico, vi invito a leggere i risultati dei test che ho effettuato.

Trattandosi di un metodo complesso e da molti ritenuto obsoleto, sono stati in molti a sconsigliarmelo ma, essendo ancora oggi utilizzato, non riuscivo a comprendere come potesse essere sostituibile da una semplice modifica nella scelta dei malti. La teoria sui libri afferma che la decozione, nonostante la maggiore complessità di esecuzione, la necessità di un impianto idoneo e le tempistiche dilatate, apporta notevoli cambiamenti al prodotto birra, spesso ricercati in stili tedeschi e cechi. Non solo favorisce la formazione di melanoidine, ma migliora anche la scomposizione dell’amido del malto aumentandone la resa in estratto e crea composti proteici che flocculano prima di arrivare in bollitura creando meno residui in caldaia e più prodotto trasferito al fermentatore. Ma facciamo un passo indietro. Di preciso come funziona questo tipo di ammostamento? La decozione prevede il raggiungimento delle pause enzimati-

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di Giorgia Bertan
“Decozione? Ma non serve a niente. Usa un po’ di malto melanoidinico al posto di complicarti la vita!”.

che tramite l’estrazione di una porzione di mosto poco dopo il mash-in che viene trasferita in una caldaia separata e portata a bollore. Alla temperatura di 100 °C viene reimmessa nell’intera miscela provocandone il riscaldamento fino alla pausa enzimatica successiva. L’ammostamento a decozione può prevedere una tripla, doppia o singola estrazione e bollitura delle porzioni di mosto. La scelta del metodo è guidata da varie ragioni: il grado di complessità che si vuole dare alla birra, le caratteristiche dello stile prodotto, le materie prime utilizzate. Le declinazioni e gli adattamenti di questa tecnica sono davvero molteplici. Alcuni birrai hanno convenuto sul fatto che è meglio portare a ebollizione solo la parte liquida per evitare l’estrazione di tannini dai grani a seguito della bollitura e la conseguente astringenza percepibile nel prodotto birra. L’utilizzo di orzo distico maltato, dato il suo contenuto amidaceo in percentuale maggiore rispetto al suo rivestimento esterno, però riduce considerevolmente l’estrazione di tannini. Il controllo del pH e il suo mantenimento sotto il valore di 5,4 durante l’ammostamento si rivela altresì indispensabile. Bisogna inoltre tenere in considerazione che gli enzimi si trovano in prevalenza in soluzione nel liquido e che con le alte temperature si denaturano, cessando la loro attività in modo permanente. È per questo motivo che a inizio ammostamento si tende a portare a bollore porzioni più dense, mentre a fine ammostamento, per aiutare la disattivazione dell’attività enzimatica e raggiungere il mash-out, si preferisce prelevare una porzione più liquida. Il vero ostacolo per molti è in realtà molto più pratico: come trasferire il mosto con i grani e come portarlo a ebollizione se la sala cotta non è pensata per farlo? Il rischio di creare ostruzioni nei tubi e nella pompa, se non progettati per trasferire mosti densi, è infatti molto alto.

Dalla teoria alla pratica

Con tante nozioni in testa mi sono messa all’opera e ho prodotto due campioni

di Bohemian Pils applicando la stessa ricetta ma utilizzando due metodi di ammostamento differenti: l’infusione e la decozione. La delicatezza aromatica di questo stile ha permesso di percepire le variabili apportate dai due processi produttivi nei test sensoriali che ho in seguito condotto. Ho prodotto le due birre con un impianto da homebrewing all-inone da 30 litri e una pentola riscaldata a fiamma diretta utilizzata per la doppia decozione delle porzioni di mosto. L’intento di mantenere tutte le variabili fisse ha prodotto una ricetta adattata a entrambi i sistemi di ammostamento con un rapporto iniziale tra grani e acqua di 1:4 (4,5 kg di malto Pils e 18 litri di acqua) e le seguenti pause enzimatiche:

❱ Mash-in a 52 °C con 5 minuti di pausa proteica per permettere la miscelazione dei grani, il controllo del pH e l’acidificazione del mosto;

❱ rampa di 15 minuti per arrivare a 62 °C effettuata in entrambi gli ammostamenti per infusione;

❱ pausa a 62 °C per l’attività delle β-amilasi, mantenuta per 60 minuti nel mosto a decozione e per 40 minuti nel mosto a infusione;

❱ pausa a 71 °C per l’attività delle α-amilasi mantenuta per 20 minuti nel mosto a infusione e per 50 minuti nel mosto a decozione;

❱ mash-out a 77 °C con ricircolo di 10 minuti prima di effettuare lo sparging.

I tempi più dilatati delle pause nell’ammostamento a decozione comprendono il mantenimento dell’intera miscela alla temperatura desiderata, il tempo per l’estrazione dei grani e del liquido, il riscaldamento lento della porzione estratta con attesa di reazione negativa al test dello iodio nel caso del primo decotto

e l’innalzamento della temperatura fino a raggiungere la bollitura, mantenuta per 10 minuti per la prima decozione e per 5 minuti per la seconda. La percentuale di miscela estratta per entrambe le decozioni è stata pari al 35% circa (8 litri totali) con un’unica differenza nella densità delle due: per la prima decozione si è estratta una miscela più densa, mentre per la seconda più liquida. Alla fine della filtrazione e dello sparging con 14 litri di acqua, il volume pre-boil del mosto ottenuto per decozione era di 29,5 litri con una densità di 10 °P. Il mosto ottenuto per infusione invece era di 29 litri con densità di 9 °P. La durata della bollitura è stata di 75 minuti con tre gittate di luppolo Saaz a 60, 30 e 5 minuti per un totale di apporto in amaro di 29 IBU. Per effetto della bollitura il mosto si è concentrato di 1,6°P in entrambi i casi arrivando a ottenere 20,5 L a 11,6 °P di mosto ottenuto per decozione e 20 L a 10,6 °P con l’infusione. A seguito della fermentazione con lievito secco Saflager W-34/70 e di una lunga maturazione a freddo ho ottenuto i seguenti risultati: la tabella va qui di seguito

Gli assaggi

Al fine di determinare l’esistenza di una differenza percepibile a livello sensoriale tra i due prodotti ho scelto di condurre alcuni test sensoriali su un panel di assaggiatori che consumano birra di frequente, non tutti necessariamente con esperienza pregressa in analisi degustativa o operanti nel settore birrario. Nonostante non sia stato possibile ricreare un ambiente privo di stimoli sensoriali esterni, come in una cabina di degustazione da laboratorio, ho cercato di ridurre al minimo possibili interferenze ed elementi disturbanti, scegliendo momenti e luoghi tranquilli per condurre i test.

BIRRA NOSTRA MAGAZINE 29 luglio 2023 TECNICHE
Metodo Densità finale Attenuazione apparente % alc./vol. Decozione 3,4 °P 71% 4,38% Infusione 2,6 °P 75% 4,25%

Test triangolare

Per stabilire se esistono delle differenze percepibili tra i due prodotti i 30 assaggiatori hanno ricevuto tre campioni, di cui due identici, da 10 cl cad. e hanno dovuto identificare quale dei tre era il campione diverso. Se non percepiscono differenze devono comunque fare una scelta. I campioni non erano in alcun modo riconoscibili da chi assaggia e sono stati serviti in bicchieri non trasparenti, semplicemente codificati da numeri di 3 cifre. A livello statistico per concludere che esiste una differenza significativa tra i campioni si dovevano ottenere almeno 15 risposte esatte su 30. I risultati dei test effettuati con i campioni di Pils hanno evidenziato 14 soggetti che hanno riconosciuto il campione diverso. Trattandosi di due campioni molto simili, prodotti con le stesse materie, si può constatare che esiste una differenza tra i due campioni, anche se non sostanziale.

CATA Test

Il secondo test effettuato, il CATA Test, è mirato a ottenere informazioni su come vengono percepiti i due campioni a livello sensoriale. 50 assaggiatori hanno ricevono i due campioni identificati con codici numerici e una scheda con una lista predefinita di attributi generati a seguito di uno studio pilota. Prima di effettuare il test gli assaggiatori sono stati istruiti sul significato di alcuni termini qualora avessero dubbi in merito o non ne fossero a conoscenza. Analizzando i risultati ottenuti si evince un maggiore stimolo sensoriale dato dal campione B (decozione), con un totale di descrittori attribuitigli pari a 216 contro i 204 al campione A (infusione). Nel dettaglio, secondo quasi la metà del panel di assaggiatori il campione B è risultato maltato e, più precisamente, 21 assaggiatori percepiscono sentori di cereale mentre 18 avvertono sentore di crosta di pane. L’amaro e il dolce quasi si equivalgono, con una leggera flessione verso l’amaro che ha ricevuto due punti in più rispetto alla voce “dolce”,

lasciando pensare a un bilanciamento tra loro. È risultato, a sorpresa, più luppolato rispetto al campione A con note erbacee per 13 soggetti e floreali per 10 soggetti. Nel campione A sono state invece percepite note di cereale, miele e

sentori fruttati e il corpo è risultato più secco rispetto al campione B. L’amaro e il dolce in questo caso si bilanciano con 18 indicazioni su entrambe le voci. Confrontando il resto delle valutazioni, inaspettatamente il campione A è stato

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TECNICHE
I due batch a confronto Fig. 1 - Profilo sensoriale dei campioni

percepito più astringente. Interpretando i risultati ed essendo a conoscenza del più alto contenuto di destrine nel campione B, che donano dolcezza, posso ipotizzare che l’amaro percepito da 21 persone sia in realtà anche conseguenza dell’estrazione di tannini durante la decozione. È interessante notare come la presenza di tannini non sia percepita come astringenza sul palato, bensì molto probabilmente come amaro. Si può supporre anche che sia proprio il contenuto di destrine e la maggiore corposità del prodotto B a ingentilire l’amaro tannico.

Test di preferenza

Arriviamo al test più personale, quello di preferenza. Per condurre questo test mi sono rivolta a 50 soggetti accomunati da due fattori principali: sono consumatori di birra e risiedono in nord Italia. Si tratta di un panel eterogeneo di età compresa tra i 20 ai 63 anni, con una maggiore percentuale di individui tra i 25 e i 35 anni. Ho chiesto loro di esprimere una valutazione da 1 a 9 per ognuno dei due campioni somministrati, in cui 1 è “estremamente sgradevole” e 9 “estremamente gradevole”. Dal grafico sottostante, che riporta il grado di preferenza totale dei campioni, si evince un livello di gradimento maggiore per la decozione con un punteggio di 351 contro i 320 per il campione a infusione. La media dei voti per il campione a decozione è stata di 7,02, mentre per quello a infusione di 6,4, con un totale di 27 preferenze per la decozione (54%), 14

per l’infusione (28%) e 9 soggetti (18%) che hanno espresso una eguale valutazione per i due campioni.

Ne vale la pena quindi?

In presenza di malti poco disgregati, la decozione è di grande aiuto e, a pre-

scindere dal potere diastatico del malto, una percentuale di amido può restare intrappolata nei chicchi di malto non solubilizzandosi completamente. Portare i grani sopra i 75 °C ne causa l’esplosione con conseguente esposizione del loro contenuto amidaceo che viene rilascia-

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DECOZIONE INFUSIONE ENTRAMBI
Fig 3 - Percentuali di preferenza Fig. 2 - Grado totale di preferenza dei campioni

to nell’estratto liquido. L’amido diventa così accessibile all’attività delle α- e β-amilasi, ancora attive nel mosto principale, durante la pausa diastatica. Di fatto con la decozione la resa in estratto è maggiore. La buona degradazione delle proteine durante l’ammostamento a decozione aiuta a migliorare corpo e schiuma della birra, ma è anche di aiuto nel processo successivo di bollitura. Anche se è comune il First Wort Hopping (aggiunta di luppolo al mosto prima della bollitura), quando si conduce un ammostamento a infusione bisognerebbe far bollire 15-30 minuti il mosto prima di aggiungere il luppolo. Questo per permettere che la bollitura scomponga e faccia precipitare alcune proteine. Se non si procede in questo modo i polifenoli del

luppolo potrebbero legarsi ai flocculi di proteine e precipitare con essi insieme alle resine prima della loro utilizzazione completa. Dato che il luppolo non deve contrastare una grande quantità di proteine nei mosti ottenuti per decozione, per ottenere lo stesso apporto di amaro e aroma, in proporzione si può utilizzare una minor quantità di luppolo rispetto a quella utilizzata in mosti prodotti per infusione. Comparando i due campioni e le loro fasi di produzione ho appurato la veridicità di quanto studiato sui libri. Ho notato nel mosto a decozione:

❱ Una resa in estratto di 1 °P maggiore rispetto a quello prodotto in infusione;

❱ una minore quantità di residui di proteine sulle pareti dell’impianto a fine bollitura;

❱ la conseguente minore formazione di trub sul fondo del tino alla fine del raffreddamento;

❱ un’efficienza maggiore in termini di quantità di prodotto trasferito.

Degustando i due prodotti in più momenti, durante le fasi di fermentazione, maturazione e a seguito del loro confezionamento in bottiglia, ho percepito delle differenze che rendevano il prodotto a decozione più piacevole al palato. Personalmente ho trovato la birra prodotta per decozione più morbida e corposa con un bilanciamento tra i sapori, anche se leggermente spostato verso il dolce. Ho preferito l’amaro più evidente avvertibile nella birra prodotta a infusione, che risulta più secca e in cui vengono esaltati maggiormente i sentori luppolati. Per contro non ho apprezzato la sua scarsa aromaticità, che ho trovato un po’ spenta e priva di carattere e ho notato una sua mutevolezza repentina nel breve tempo che si è tradotta in una minore stabilità nel tempo.

Quindi tornando alla domanda iniziale “Decozione: sì o no?” si può comprendere facilmente il mio punto di vista, ma lascio trarre a voi le vostre conclusioni. ★

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Fig 4 - Densità del mosto a infusione a fine bollitura Fig 5 - Densità del mosto a decozione a fine bollitura
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GESTIONE DEI LIEVITI NELLA

PRODUZIONE BIRRARIA

Nutrizione e modalità di inoculo

Recentemente i lieviti non-Saccharomyces sono stati oggetto di studio per le loro peculiari vie metaboliche ed enzimatiche. Le ragioni di questo interesse derivano dalle crescenti critiche inerenti le fermentazioni

guidate da inoculi di ceppi commerciali di Saccharomyces cerevisiae. Secondo diversi autori e birrai, l’uso esclusivo di lieviti starter di S. cerevisiae porterebbe a un appiattimento delle caratteristiche sensoriali dei prodotti finiti, per quan-

to riguarda l’aspetto gusto-olfattivo, specialmente se confrontato con le fermentazioni spontanee. Tuttavia, in una fermentazione spontanea lo sviluppo e la successione di specie e ceppi diversi conferisce alla bevanda fermentata una

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di Michele Matraxia

maggiore complessità e caratteristiche sensoriali distintive al prodotto finale. I microrganismi responsabili della fermentazione spontanea, sono in parte i lieviti non-Saccharomyces, definiti anche come lieviti “indigeni” o “selvaggi” per distinguerli dalle colture esogene aggiunte al mosto (Varela, 2016). Il metabolismo di questi microrganismi è responsabile della formazione di diverse centinaia di composti attivi aromaticamente, che conferiscono alle bevande fermentate un profilo sensoriale unico ma allo stesso tempo non facilmente riproducibile. Tuttavia i lieviti indigeni, a causa della loro scarsa tolleranza all’alcol e per l’eccessiva produzione di composti secondari, sono incapaci di completare la fermentazione alcolica. Per tale ragione, nelle fermentazioni guidate, vengono spesso utilizzati in coinoculo con S. cerevisiae (Vaudano et al., 2014). L’impiego di “nuovi” microrganismi però richiede un ulteriore approfondimento delle conoscenze in termini di modalità di impiego, ovvero le tempistiche di inoculo e di nutrizione azotata, che verranno trattate nei prossimi paragrafi del presente articolo, prendendo come riferimento le produzioni di birra e idromele.

Nutrizione dei lieviti

Analogamente a quanto avviene con la nutrizione umana, ove i macro nutrienti come carboidrati, proteine e grassi vengono dosati per trovare un bilanciamento perfetto con le nostre esigenze, anche i microrganismi hanno esigenze nutrizionali specifiche per poter concludere al meglio le fermentazioni di cui spesso sono protagonisti.

Negli ambienti naturali, i lieviti possono utilizzare un’ampia gamma di composti che contengono azoto. L’assimilazione di questi composti può avvenire in modi e gradi diversi, in base alla natura chimica del composto azotato e alla specie di microrganismo che lo utilizza, regolando in genere i due aspetti di crescita/ duplicazione e di attività metabolica.

L’influenza dell’apporto di carbonio e azoto sull’aroma fermentativo del lievito è ben nota, dato che diversi studi si sono concentrati su questo aspetto, soprattutto per quanto riguarda la produzione di vino. I principali composti fruttati e/o floreali attivi nell’aroma del vino sono attribuibili al metabolismo dei lieviti durante la fermentazione alcolica e la loro sintesi può essere fortemente influenzata dalle pratiche di vinificazione. Sul mercato enologico sono disponibili numerosi coadiuvanti (enzimi, minerali argillosi, acidi organici, antiossidanti e nutrienti per il lievito) che possono favorire un decorso regolare della fermentazione alcolica e influire sulla qualità del vino finale (Alfonzo et al., 2021; Claus et al., 2018). A seconda della composizione della matrice da fermentare, il lievito incontrerà condizioni diverse, essendo l’ambiente di fermentazione variabile in termini di pH, acidità, zuccheri disponibili, azoto assimilabile, vitamine, sali minerali, presenza di fattori inibitori. Analogamente, le

esigenze nutrizionali variano anche in relazione alle specie di lievito utilizzate. Facendo un’analogia, così come la dieta di un bodybuilder sarà sicuramente diversa rispetto a quella di una persona sedentaria o rispetto a quella di un altro mammifero, anche per i lieviti di diverse specie vale lo stesso discorso, in quanto le loro esigenze in termini di zuccheri, composti azotati e composti minerali saranno dipendenti dal loro metabolismo, e di conseguenza variano sia da specie a specie che da ceppo a ceppo. Un chiaro esempio è il mosto di miele da cui si realizza l’idromele, in quanto risulta carente di azoto prontamente assimilabile (APA) dal lievito, che solitamente è di circa quattro volte inferiore rispetto alla soglia ottimale di fermentazione di 150 mg/L (Ribéreau-Gayon et al., 2006).

Il contenuto in APA nel mosto-miele è anche dipendente dal rapporto di diluizione con acqua. Questa carenza è causa di arresti o rallentamenti della fermentazione alcolica, portando alla sintesi di cattivi odori causati principalmente

BIRRA NOSTRA MAGAZINE 35 luglio 2023 MATERIE PRIME
L’aggiunta di coadiuvanti tecnologici, una pratica diffusa anche in birrificio

da composti solforati di origine microbica. Per evitare l’insorgenza di questa comune problematica, normalmente la carenza di azoto nei mosti-miele viene compensata attraverso l’aggiunta di fosfato di ammonio (DAP). Almeida et al. (2020) hanno evidenziato come l’abitudine di integrare il mosto di miele con DAP o solfato di ammonio abbia portato a un maggiore consumo di zucchero, a una maggiore gradazione alcolica e quindi ad una migliore resa fermentativa. Roldán et al. (2011) hanno utilizzato con successo il polline, la più importante fonte di proteine, lipidi, minerali e vitamine per la sopravvivenza delle api, come attivatore fermentativo per mi-

gliorare il corso della fermentazione e le caratteristiche finali dell’idromele. Nella produzione di birra, recentemente, si sta prestando particolare attenzione alla fermentazione delle cosiddette birre “High Gravity” (HG). Oltre a essere un tipo di birra ad alto contenuto alcolico, le birre HG possono essere utilizzate per aumentare l’efficienza produttiva del birrificio. Questo metodo è utilizzato principalmente per le birre lager e prevede quasi sempre l’aggiunta di sciroppi zuccherini in un mosto standard, sbilanciando così la composizione del mosto a svantaggio dell’azoto (Lei et al., 2012). Diversi autori si sono concentrati su questo aspetto. Li et al. (2019) hanno appli-

cato con successo gli idrolizzati proteici della farina di noce sgrassata come fonte di azoto nel mosto ad alta gravità, migliorando la crescita e la vitalità del lievito, l’accumulo di glicogeno e di trealosio, nonché l’aumento degli alcoli superiori e degli esteri, ottenendo un gusto più equilibrato nella birra finale. Yang et al. (2018) hanno utilizzato gli aminoacidi chiave per il lievito di birra (lisina e leucina), sotto forma di peptidi e miscele di aminoacidi semplici, per migliorare le prestazioni della fermentazione del lievito su un mosto di birra ad altissima gravità a 24 gradi Plato. Ciosek et al. (2020) hanno valutato l’integrazione con ioni magnesio e zinco per la produzione di birra acida, dove i batteri lattici (BL) sono impiegati per la produzione di acido lattico in una fermentazione mista con lieviti, dimostrando che l’integrazione di ioni può influenzare positivamente o negativamente la crescita dei ceppi di BL, la diminuzione del pH, la produzione di acido lattico e le concentrazioni di composti volatili. Infine, Ribeiro-Filho et al. (2021) hanno studiato l’effetto di nove diversi trattamenti sperimentali (azoto ammoniacale, fosfato inorganico, potassio, magnesio, rame, zinco, ferro, manganese e una miscela composita) su tre diversi ceppi di Saccharomyces, evidenziando cambiamenti significativi in termini di composti aromatici tra i trattamenti.

In sintesi, soprattutto quando le condizioni di fermentazione dei mosti sono particolarmente complesse, come nel caso delle birre ad altissima gravità e delle birre acide, è necessario prestare attenzione alla nutrizione dei microrganismi, per garantire l’assenza di difetti dovuti a fermentazioni bloccate o in presenza di stress nutrizionali.

Strategia di inoculo delle colture fermentative

La crescente domanda di bevande innovative e uniche ha creato numerose opportunità e strategie per creare nuovi prodotti fermentati, come birre o idro-

36 BIRRA NOSTRA MAGAZINE luglio 2023 MATERIE PRIME
Il “Philly Sour” è uno dei primi ceppi di lievito non-Saccharomyces messi in commercio per la produzione di birra
i

meli (Habschied et al 2020; Iglesias et al., 2014). Il grande potenziale di questo segmento di mercato è confermato dal costante aumento delle unità produttive di birrifici e idromele in molti Paesi, incoraggiato dalla volontà dei consumatori di provare sempre nuovi prodotti. Per raggiungere questo obiettivo, la strategia di aumentare la complessità microbica e fermentativa sembra promettente. Sulla base del successo consolidato del Lambic belga e, in generale, delle birre a fermentazione mista, sono in corso diversi sviluppi in questa direzione. Nel settore vitivinicolo, numerosi studi hanno dimostrato che l’impiego di più ceppi di lievito, utilizzati in co-inoculo o in inoculo sequenziale, è una strategia diffusa e consolidata per aumentare la complessità e il valore qualitativo della produzione di vino. Questo argomento è infatti oggetto di studio in Italia da diversi anni, come dimostra lo studio condotto da Zironi et al. (1993).

Numerose specie, tra cui Torulaspora delbrueckii (Simonin et al., 2018), Metschnikowia pulcherrima (Canonico et al., 2019), Kluyveromyces marxianus (Barone et al., 2021), Candida zemplinina (Di Maio et al., 2013), Pichia kluyveri (Hu et al, 2021), Lachancea thermotolerans (Vaquero et al., 2021) sono state impiegate in enologia nell’ultimo decennio per perseguire diversi obiettivi, come l’acidificazione microbica, la bioprotezione pre-fermentativa, l’aumento del glicerolo, la riduzione dell’etanolo e in generale il miglioramento della qualità complessiva dei vini.

Nel settore birrario, con qualche anno di ritardo rispetto al settore vitivinicolo, si stanno diffondendo le stesse pratiche per ottenere produzioni innovative con fermentazioni guidate, utilizzando ceppi non-Saccharomyces. Le principali ragioni per l’utilizzo di lieviti non convenzionali nella produzione di birra includono la bio-aromatizzazione, l’acidificazione, lo sviluppo di enzimi che rilasciano precursori aromatici, la produzione di birre a basso contenuto calorico e alcolico, la

produzione di birre probiotiche o arricchite (Holt et al., 2018; Puligundla et al., 2021). L’utilizzo di più specie richiede uno studio approfondito sulle interazioni tra i diversi microrganismi, considerando la compatibilità e la competizione tra i ceppi coinvolti nella fermentazione. Un’altra variabile da considerare è che l’uso di diversi microrganismi può avvenire in fasi temporalmente distinte.

I BL sono spesso utilizzati da soli nella pratica del kettle-souring, inoculando le specie batteriche selezionate (Lactiplatibacilluss spp. o Pediococcus spp.) in assenza di luppolo, prima della bollitura. Il mosto viene quindi lasciato acidificare per 24-48 ore fino al raggiungimento del pH desiderato. Successivamente la birrificazione procede nel modo classico, con bollitura, luppolatura, raffreddamento, inoculo del lievito e successivo avvio della fermentazione primaria. Tra i vantaggi di una separazione temporale dell’inoculo delle due specie, con la tecnica dell’inoculo sequenziale, vi è

un maggiore controllo delle condizioni di temperatura, ossigenazione e nutrizione per ogni coltura singolarmente, consentendo un maggior controllo e replicabilità della produzione.

Per migliorare la componente organolettica di origine biologica (bio-flavouring), Holt et al. (2018) hanno esaminato 17 specie di lieviti non convenzionali, inoculandoli 48 ore prima dell’uso di un ceppo commerciale di S. cerevisiae. Canonico et al. (2016) hanno utilizzato il ceppo T. delbrueckii DiSVA 254 in coinoculo con il ceppo starter commerciale S. cerevisiae US-05 in diversi rapporti (1:1, 10:1, 20:1). I dati ottenuti hanno dimostrato che il ceppo non-Saccharomyces influenzava il profilo analitico e aromatico della birra quando il rapporto di inoculo (T. delbrueckii/S. cerevisiae) era superiore a 10:1. In queste condizioni di fermentazione mista, si è registrato un maggior consumo di APA, probabilmente legato alla sintesi di composti aromatici.

38 BIRRA NOSTRA MAGAZINE luglio 2023 MATERIE PRIME
Cellule di lievito viste al microscopio

La presenza di più ceppi inoculati di specie diverse può essere migliorata modulando parametri come la temperatura. In ogni caso, la presenza di un ceppo secondario influenza la crescita di quello principale, come riportato da Gobbi et al. (2013).

Nell’idromele, ad oggi sono stati pubblicati pochi lavori sull’uso combinato di più lieviti. Li e Sun (2019) hanno impiegato separatamente due diversi ceppi commerciali di L. thermotolerans e T. delbrueckii, in combinazione con il ceppo enologico commerciale S. cerevisiae EC1118, inoculati in sequenza dopo 48 ore dal lancio del ceppo non-Saccharomyces nel mosto di miele di vitex. La

combinazione L. thermotolerans/S. cerevisiae si è distinta per il più alto aroma di miele, la qualità del gusto e l’impressione generale, mentre T. delbrueckii/S. cerevisiae ha migliorato l’aroma fruttato e infine l’uso della coltura singola di S. cerevisiae EC1118 ha prodotto un idromele sbilanciato, con note pronunciate di “sapone”, “cera di candela”, “oleoso” e “grasso”.

Lopes et al. (2020) hanno invece inoculato Meyerozyma caribbica e S. cerevisiae contemporaneamente nel mosto di idromele; in questo caso il non-Saccharomyces è stato inoculato in una concentrazione maggiore rispetto a S. cerevisiae, per aumentarne la dominanza

e la competitività nelle prime fasi della fermentazione alcolica.

Conclusioni

Come evidenziato dagli studi sopra citati, non sembra esistere una modalità di inoculo delle colture che garantisca risultati migliori di altre in assoluto. Piuttosto, la scelta di un inoculo sequenziale rispetto a un co-inoculo deve essere valutata caso per caso, in base al tipo di matrice da fermentare, alle condizioni di pH, zuccheri, APA, temperature e compatibilità dei ceppi utilizzati. ★

Bibliografia: movimentobirra.it/bibliografia

BIRRA NOSTRA MAGAZINE 39 luglio 2023 MATERIE PRIME
Preparazione dell’inoculo impiegato in prove di fermentazione in laboratorio

BIRRA E CIOCCOLATO

Birra e cioccolato: un matrimonio che potrebbe forse sorprendere il neofita, ma che l’appassionato birrofilo ormai dà quasi per scontato: mentre solo pochi vini, scelti fra quelli liquorosi, si abbinano bene al cioccolato, alcuni stili di birra sembrano fatti apposta per accompagnare dolci a base di cacao o anche cioccolato in purezza. In questo articolo ci concentriamo però sull’aspetto che più interessa homebrewer e birraio: il cioccolato nella birra. La creatività dei birrai artigianali e degli homebrewers da tempo ha spaziato anche nell’utilizzo diretto di questo ingrediente, utilizzo che non è comunque una novità: si pensi alla tradizionale birreria Young’s che da anni ha in repertorio la

sua classica Chocolate Stout. Il cioccolato (o meglio, il cacao) sembra inserirsi in modo naturale soprattutto nelle ricette di alcuni stili di birra, stout (imperial e non) in particolare. Occorre anzitutto chiarire che spesso l’aggettivo chocolate riferito a una birra non sottintende necessariamente l’utilizzo di questo ingrediente. A volte si fa riferimento al chocolate malt, un tipo di malto ottenuto mediante una tostatura prolungata e a temperature elevate, ma non altrettanto spinta come quella per ottenere un black malt o un roasted barley. In verità il chocolate malt pur avendo sentori di cioccolato richiama maggiormente gli aromi di caffè, ma è l’insieme della ricetta, con l’uso di altri malti tostati o caramellati oltre

al chocolate, che permette di ottenere una birra i cui aromi e gusto richiamano il cioccolato. A questo punto è bene fare una distinzione fra cacao e cioccolato. Il primo è l’ingrediente (più precisamente, le fave della pianta di cacao), il secondo è un lavorato ottenuto con una procedura piuttosto lunga e complessa. Sarebbe quindi più corretto parlare di birre al cacao, visto che questo, come vedremo, può venire utilizzato in varie forme, fra le quali quella di cioccolato vero e proprio non è la più frequente.

Dal cacao al cioccolato1

Il cacao (Theobroma cacao) è un albero sempreverde appartenente alla famiglia delle Malvaceae, originario

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di Massimo Faraggi

dell’America. Il frutto (detto cabossa) è di forma allungata di circa 15-30 cm di lunghezza e 8-10 cm di larghezza. All’interno di una polpa sono racchiusi da 25 a 40 semi a forma di mandorla, di colore bruno-violaceo, contenenti zuccheri, grassi, albuminoidi, alcaloidi e coloranti. Tra questi alcaloidi, i più importanti sono la teobromina e la caffeina (contenuta in quantità simile al caffè): il primo è un euforizzante mentre il secondo è un eccitante. Nel processo di produzione, si fanno fermentare assieme polpa e semi per 5 o 6 giorni con una temperatura che si assesta tra i 45 e i 50 °C. La fermentazione inattiva il seme e provoca il rammollimento della polpa rimasta aderente al seme, che viene eliminata; si ha un processo di leggero addolcimento del cacao, una colorazione bruna del seme, l’ossidazione dei polifenoli e la formazione dei precursori d’aroma. I semi vengono sottoposti ad essiccazione al sole per 7-15 giorni per bloccare la fermentazione e per ridurre il contenuto di umidità.

La tostatura (o torrefazione) dura fra i 70 e i 120 min, con temperatura variabile in funzione del prodotto che si vuole ottenere (cacao da cioccolato o cacao in polvere). Si ha un’ulteriore riduzione dell’umidità del frutto e la formazione dell’aroma del cioccolato mediante l’instaurarsi delle reazioni di Maillard e l’ossidazione dei composti fenolici, con evaporazione di acido acetico e di altri esteri volatili negativi per l’aroma. Altro ruolo importante è quello igienico - sanitario, dato che così si uccidono microrganismi sopravvissuti ai precedenti trattamenti. Si procede poi all’eliminazione delle bucce. Quello che si ottiene a questo punto sono le fave di cacao (cocoa nibs), che possiamo considerare l’ingrediente “base” per le successive lavorazioni e impieghi: produzione di cacao in polvere, burro di cacao, cioccolato o altri utilizzi alimentari… inclusa l’aromatizzazione delle birre.

Le fave di cacao vengono macinate ottenendo la cosiddetta grue di cacao

(o granella). La grue viene riscaldata e grazie alla liquefazione dei grassi viene trasformata in una massa viscosa detta pasta o massa o liquore di cacao (cocoa liquor). La composizione della massa di cacao (che corrisponde a quella delle fave o grue) è approssimativamente2: Grassi: 53%; Carboidrati: 17%; Proteine: 11%; Tannini: 6%; Teobromina: 1.5%.

Questa massa di cacao viene sottoposta a pressione per ottenere la separazione dei grassi, ottenendo da una parte il burro di cacao, utilizzato nell’industria della cosmesi; dall’altra la polvere di cacao, ampiamente commercializzata, con eventuali aggiunte di altri ingredienti, come cacao solubile per la preparazione di bevande: la classica cioccolata calda con le sue varianti. Sebbene burro di cacao e cacao in polvere rappresentino una cospicua fetta dei prodotti ottenuti dalla lavorazione, una parte di essi (insieme alla massa di cacao) viene destinata alla produzione del cioccolato. Viene effettuata una miscelazione di questi tre ingredienti, apparentemente ritornando alla composi-

zione originale: in realtà le proporzioni variano a seconda del tipo di cioccolato, per cui in certi casi il contenuto di burro di cacao può essere maggiore rispetto a quello originale delle fave (o della massa). Oltre a burro, polvere e massa, vengono aggiunti zuccheri e in certi casi aromi di vario genere. Le successive fasi (concaggio e tempra) sono rivolte ad ottenere la consistenza e le proprietà meccaniche tipiche del cioccolato: in sintesi, si tratta di scaldare e mantenere la miscela ad una determinata temperatura e di un successivo raffreddamento controllato e graduale che permetta la corretta cristallizzazione, ottenendo un prodotto dalla caratteristica consistenza e “palato”, sufficientemente rigido ma anche facile da sciogliere.

Cioccolato o cacao?

Nella birra, i grassi sono controindicati: oltre a non apportare benefici, sono dannosi soprattutto per la ritenuta della schiuma e per l’aspetto. Fra ingredienti originali e lavorati, l’unico da scartare è quindi naturalmente il burro di cacao, mentre in altri casi dovremo

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Dobloni di pasta di cacao

fare comunque i conti con un certo contenuto di grassi. L’uso di vero e proprio cioccolato non è da scartare, facendo attenzione alla sua composizione; la mia considerazione è che comunque tutto il processo di lavorazione dalle grue di cacao in poi è finalizzato principalmente ad ottenere caratteristiche di “palato” specifiche, che di per sé non interessano per l’aromatizzazione della birra, quindi l’uso di cioccolato non comporta particolari vantaggi rispetto all’ingrediente originale. Il momento e la modalità dell’inserimento del cacao/ cioccolato nel ciclo produttivo della birra dipendono dal tipo di ingrediente e discendono da considerazioni sia organolettiche che pratiche, similmente all’introduzione di spezie, erbe e altri ingredienti in generale.

Per il cacao o derivati, non ritengo ci sia sostanziale differenza organolettica fra introduzione a freddo o caldo, o perlo-

TECNICHE DI UTILIZZO

Esistono diversi metodi per utilizzare erbe e spezie nella birra, che differiscono per la fase produttiva in cui vengono inserite e per il metodo di estrazione (a freddo o a caldo). La scelta, oltre a essere guidata dalle considerazioni di natura pratica, può essere ispirata all’utilizzo tipico degli ingredienti in altri ambiti, ad esempio, la preparazione di tisane o l’aromatizzazione di liquori:

1. infusione negli ultimi minuti di bollitura o in raffreddamento, a similitudine della luppolatura da aroma;

2. infusione a freddo durante la fermentazione, a similitudine del dry-hopping;

3. preparazione di una “tisana” con infusione delle spezie/erbe in poca acqua e aggiunta della parte liquida al momento di imbottigliare;

4. infusione degli ingredienti in poco alcool puro alimentare o in distilla-

meno motivi per evitare l’inserimento a caldo. Gli aromi tipici del cacao sopravvivono infatti a lunghe lavorazioni a caldo, per non parlare della preparazione della cioccolata calda come bevanda.

Quale birra scegliere per essere aromatizzata dal cacao?

La scelta prediletta nella gran parte dei casi, sia da produttori commerciali che casalinghi, è quella di stout (o porter), soprattutto imperial stout. La ragione è duplice: questi stili di birra hanno di per sé aromi che spesso richiamano il cioccolato, quindi l’aggiunta di cacao vero e proprio ben si amalgama nell’equilibrio della birra. Un altro motivo è che una parte importante delle sensazioni provate nella degustazione del cioccolato è quella relativa a consistenza e palato, che non vengono veicolate dall’aggiunta dell’ingrediente. Birre molto corpose

e morbide come imperial, oatmeal o anche sweet stout ben si prestano a riprodurre sensazioni boccali analoghe. Nulla vieta di provare a inserire aromi più o meno intensi di cacao senza voler necessariamente ricreare un vero e proprio “effetto cioccolato”, quindi con birre anche meno corpose oppure che non hanno di per sé aromi particolarmente spinti di cioccolato. Nel primo caso possiamo pensare a una belgian strong dark ale, aromaticamente compatibile, ma dal corpo non eccezionalmente robusto per via dell’elevata attenuazione. Due esempi sono l’eccellente Noel Chocolate di Baladin e la Kasteel Barista Chocolate Quad. Un’altra possibilità è rappresentata da un barley wine, in cui l’aroma di cioccolato è meno presente nella birra base ma ben si amalgama, ricreando nel bicchiere un classico abbinamento cibo-birra. Anche in questo caso le proposte commerciali non sono

to, e aggiunta della parte liquida al momento di imbottigliare. Tutti i metodi funzionano: l’efficacia di estrazione è maggiore con il metodo 4), minore con il 2), intermedia con l’1) e il 3). I metodi 1) e 3) prevedono un’estrazione a caldo, il 2) e il 4) a freddo: nella scelta si deve tener conto delle caratteristiche degli ingredienti. La stessa estrazione a caldo può avere effetti diversi a seconda della temperatura, ad esempio fra bollitura o fase di raffreddamento. I metodi 3) e 4) hanno il vantaggio di permettere un dosaggio ponderato: è possibile cioè aggiungere il liquido (tisana o alcool “aromatizzato”) al mosto un poco alla volta, mescolando e assaggiando fino ad ottenere l’effetto desiderato (per quanto non sia facile la valutazione su una birra ancora immatura e in condizioni di carbonazione e temperatura diverse

dall’ideale). Inoltre, tutte le tecniche tranne la 1) permettono di destinare all’aromatizzazione solo una parte della birra prodotta, cosa spesso utile per questo genere di sperimentazioni. I metodi 3) e 4) (infusione in alcool o acqua calda) rispetto al 2) hanno anche il vantaggio di permettere una sanitizzazione/sterilizzazione dell’ingrediente.

Attenzione che con il metodo 4) si ha un innalzamento del grado alcolico, che potrebbe sbilanciare la birra. Se si vuole limitare questo effetto, usare la minima quantità di alcool che permetta l’infusione degli ingredienti. Anche con i metodi 3) e 4) è possibile effettuare l’aromatizzazione durante la fermentazione (invece che al momento di imbottigliare), inserendo nel mosto anche la parte solida oltre che quella liquida.

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molte: ricordiamo la Tosta di Pausa Café, dove tuttavia la percentuale di cacao (0.01%) è davvero esigua. Altre scelte ancora meno frequenti ma interessanti possono essere bock, doppelbock, brown ale o mild e persino una Extra Special Bitter, come suggerisce John Nanci di Chocolate Alchemy. 3 In ogni caso – come in genere per tutte le aromatizzazioni – si può scegliere se caratterizzare fortemente il prodotto come “birra al cioccolato” o inserire l’aroma in modo delicato, a complemento più o meno evidente della palette aromatica della birra. Esaminiamo ora le varie forme dell’ingrediente e le relative tecniche di utilizzo.

Fave di cacao

L’uso di fave di cacao sembra essere il modo più diretto e naturale di utilizzare il cacao nella birra e il più utilizzato dai birrifici. Le fave vanno macinate in modo grossolano in un mulino impostato con distanza ampia fra i rulli (o dischi); per piccole quantità si può usare un mattarello. In alternativa si possono acquistare fave già macinate (grue).

Sono possibili quasi tutte le tecniche: inserimento a caldo, nel mash o a fine bollitura, oppure a freddo, in maturazione stile “dry-hopping”. La tisana a fine fermentazione mi sembra meno pratica: l’estrazione tramite alcool è efficace, ma il volume delle grue è ben maggiore rispetto ad una spezia e la quantità di alcool richiesto per immergerle è di conseguenza notevole, tanto da provocare un innalzamento del grado alcolico che può risultare eccessivo. Da parte mia ho utilizzato le fave di cacao (macinate da me) in una oatmeal stout e una belgian strong dark ale, sempre usando la tecnica dell’estrazione alcolica: ho usato il minimo possibile di alcol alimentare diluito tra i 40° e i 70°, quando basta per farlo assorbire dalle grue senza realmente sommergerle, con un innalzamento del grado alcolico stimato in 1% circa. Il risultato è stato soddisfacente: la tenuta di schiuma si è un po’ deteriorata (come da previsione) ma nei limiti dell’accettabile; difetto compensato da un’ottima riuscita a livello organolettico. Alla luce della mia esperienza, la dose di grue di cacao può variare dai 25 ai

40 g per litro per avere un effetto ben avvertibile; i birrifici solitamente usano dosi inferiori, ma quando ho utilizzato 15 g/l il risultato è stato molto delicato, soprattutto confrontato con la birra base non aromatizzata che già aveva sentori di cioccolato.

Pur avendo utilizzato con successo l’estrazione alcolica, consiglio di provare anche con l’inserimento a fine bollitura, con dosi paragonabili a quelle sopra descritte. L’utilizzo a freddo, stile dryhopping è probabilmente efficace, ma non permette la contestuale sterilizzazione dell’ingrediente: si tratta quindi di assumersi un rischio calcolato. Le fave di cacao, molto utilizzate nei paesi sudamericani, sono facilmente reperibili online sotto forma di grue, quindi pronte per l’utilizzo. Citiamo infine il possibile utilizzo sotto forma di pasta di cacao, talvolta reperibile come ingrediente per gli artigiani cioccolatai.

Bucce di cacao

Esse sono generalmente considerate un prodotto di scarto della lavorazione, utilizzabili al più per uso agricolo o

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Fave di cacao intere e macinate

come combustibile; nei paesi dell’America Latina, come in Perù, sono tradizionalmente utilizzate per la preparazione di tisane gradevoli e corroboranti, visto il loro ottimo aroma di cacao. Le proprietà salutari delle bucce sono state analizzate alla luce del loro alto contenuto di flavonoidi, e risultano anche avere un’elevata concentrazione di Teobromina.4 Non avendo significative quantità di grassi ma solo le sostanze aromatiche del cacao, sembrano essere molto interessanti per l’uso nell’aromatizzazione della birra. La mia esperienza personale non è stata particolarmente soddisfacente e significativa: utilizzata in dry-hopping in una Imperial Stout, l’effetto non è stato quasi avvertibile, forse per la dose piuttosto prudenziale, seppur non trascurabile (ca 12 g/l). Volendo ripetere l’esperienza, aumenterei le dosi almeno a quelle suggerite per le grue, se non di più (ad esempio 30 g/l). L’utilizzo più congeniale, affine al suo impiego tradizionale potrebbe essere quello di tisana all’imbottigliamento,

sebbene la quantità di acqua richiesta può essere tale da diluire un po’ troppo la birra. L’alternativa è a fine bollitura, anche se gli aromi volatili potrebbero non sopravvivere fino alla birra finita. Come si può vedere, c’è margine per sperimentazioni, senza escludere un utilizzo complementare alle altre tecniche e forme di cacao. Da qualche tempo sembra che l’utilizzo di bucce di cacao per tisane si sia esteso al di fuori dell’America Latina, per cui sono ora facilmente reperibili online. Considerato che in origine si tratterebbe di un prodotto di scarto, i prezzi sono piuttosto alti rispetto ad un approvvigionamento diretto.

Polvere di cacao

Il cacao in polvere può sembrare a prima vista un ingrediente artificiale, o per lo meno una scorciatoia, un po’ come utilizzare l’estratto di malto o il “kit” per fare la birra. In realtà, dato che la polvere di cacao è la parte che rimane dopo aver estratto il burro di ca-

cao, il suo uso è interessante, poiché la quantità di grassi, pur se non eliminata, è decisamente ridotta!

Di per sé è piuttosto amara e acidula, caratteristiche che in certi casi (processo di tipo “olandese”) vengono modificate con processo di alcalinizzazione che riduce l’amaro e migliora la solubilità, a scapito della concentrazione dei flavonoidi, benefici per la salute. La composizione del cacao in polvere risulta essere: 5 Carboidrati: 58-60%, di cui fibre: 33-37%; grassi 14%; proteine 20%; acqua 3%, oltre a un contenuto elevato di minerali.

Attenzione che il cacao in polvere in commercio potrebbe avere una composizione diversa, soprattutto per la presenza di altri ingredienti, tra cui lo zucchero. Ho utilizzato la polvere di cacao in due occasioni, per una sorta di Black Ipa e una Dubbel. In entrambi i casi l’ho impiegata sotto forma di tisana, ovvero una sorta di “cioccolata calda” perché mi sembrava più coerente con il suo utilizzo standard e per poter destinare all’esperimento solo una parte della cotta; in una delle occasioni ho utilizzato per la tisana parte della birra stessa al posto dell’acqua. Per la BIPA ho inserito l’infuso all’imbottigliamento, ma il discioglimento non è stato ottimale, compromettendo aspetto e in parte il palato della birra. Per la Dubbel l’inserimento è avvenuto in fase di fermentazione (nel secondario) con risultati leggermente migliori anche se non del tutto soddisfacenti. A livello organolettico, l’aggiunta del cacao, pur avvertibile, ha avuto un effetto marginale, dovuto probabilmente alle dosi molto prudenziali di circa 6 g/l. Alla luce di quanto sopra, proverei il cacao in polvere in dosaggio tra i 15 e i 25-30 g/l, preferibilmente a fine bollitura o flame out.

Cioccolato

Come abbiamo già osservato, la lavorazione che si effettua per ottenere il cioccolato non presenta ai nostri fini

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Bucce di cacao

vantaggi rispetto a cacao, ma neppure particolari controindicazioni. È necessario selezionare il cioccolato, non solo in base alla sua origine varietale ma soprattutto per la composizione, evitando quello con maggiore presenza di burro di cacao (grassi) che potrebbe essere in percentuale ancora maggiore rispetto al cacao originale. Gli zuccheri, solitamente presenti, non sono un grosso problema perché in gran parte saranno fermentati. Attenzione; teniamo presente che se scegliamo un cioccolato con meno cacao (e più zuccheri), il burro di cacao sarà in quantità minore, ma proporzionalmente lo sarà anche il resto delle sostanze aromatiche del cacao. Personalmente non ho mai utilizzato il cioccolato nella birra; alcuni birrifici lo usano dopo averlo sminuzzato/grattugiato. Le dosi da utilizzare dovrebbero

rispecchiare quelle indicate per le grue, di simile composizione, mentre le tecniche sono simili a quelle suggerite per il cacao in polvere.

Tips from the PROs

Le indicazioni di mastri birrai e homebrewer esperti non sono del tutto concordi su quantità e metodi di utilizzo.

Fra gli articolisti della rivista americana Brew Your Own, Terry Foster preferisce fave o cioccolato in late boil, sostenendo che parte dei grassi si depositi nel trub, mentre il collega Michael Toinsmere preferisce usare polvere di cacao sciolta in acqua calda a fine fermentazione. Garrett Oliver di Brooklyn Brewery sostiene che l’aggiunta di fave a fine fermentazione possa ridurre l’estrazione di grassi grazie all’alcool presente, ma paventa che una presenza prolungata delle grue

in maturazione possa provocare l’estrazione di tannini.6

Wayne Wambles di Cigar City Brewing usa le grue in fermentazione/maturazione, con un sistema in cui parte del mosto viene fatta ricircolare in un pic-

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colo serbatoio con le grue. Chris Mayne di Northshire Brewery usa una piccola quantità di cioccolato in bollitura per una stout più delicata, mentre per la Chocolate Apocalyps introduce grue nel mash, cioccolato in bollitura e ancora grue (sterilizzate in autoclave) a fine fermentazione. Anche Fabio Brocca di Lambrate usa le grue di cacao in maturazione per la sua Black Porter. Per quanto riguarda le dosi, sono in genere decisamente più basse rispetto a quelle che ho suggerito più sopra: Foster 5-7 g/l, e anche Wambles non si spinge oltre, mentre il mastro

cioccolatiere John Nanci di Chocolate Alchemy è più generoso, suggerendo almeno 10/12 g/l. La differenza può essere il fatto di introdurre il cacao come complemento a una birra con aromi simili, rispetto all’affidarsi al solo cacao per una vera e propria “birra al cioccolato”. Non vi è quindi una risposta univoca su tecniche, ingredienti e dosi raccomandate, ma confido che il materiale raccolto per questo articolo e la condivisione della mia esperienza possa fornire delle basi per ulteriori sperimentazioni da parte di birrai casalinghi e pro.★

ABBAYE DE CHOCOLATE

Note:

1. sintesi da wikipedia.org

2. Wolke, Robert L. (2005). What Einstein Told His Cook 2, The Sequel: Further Adventures in Kitchen Science (Hardcover). W. W. Norton & Company. p. 433

3. Dave Green, Brewing with chocolate: tips form the Pro BYO, October 2018

4. https://www.cacaoteaco.com/blogs/blog/ health-benefits-of-cacao

5. “Cocoa, dry powder, unsweetened per 100 g” USDA Food Data Central, 2020

6. Terry Foster, Brewing with chocolate, Brew Your Own, Ott 2015

Clone Chimay Blue con aggiunta di cacao

Lievito

Wyeast 1214 Belgian Abbey Ale (1l starter)

Acqua residuo fisso ca. 180, non trattata

Ammostamento di grani e fiocchi

45min @ 63 °C poi 72 °C 20 min e fino a conversione.

(cassonade brune o muscovado)

Grue di cacao: 35 g per ogni litro di birra destinata ad essere aromatizzata

OG 1085 FG 1014 ALC 9.5% (tra 10% e 10.5% la versione aromatizzata) IBU 30 Quantità per 10 l. Luppoli

Bollitura 60 min. con aggiunta dello zucchero

Pitch dello starter di lievito a 22 °C, lasciare salire fino a 24 °C

Fermentazione 7-10 gg prima di trasferimento in secondario (o spurgo dei lieviti)

Maturazione 7 gg

Per l’aromatizzazione

Immergere le fave di cacao tostate, sbucciate e frantumate, 35 g per ogni litro di birra, in altrettanti ml di alcool alimentare diluito a 40° o in altrettanto distillato. Lasciare per alcune ore (6-12), poi unire al mosto in maturazione, sia il liquido che le fave (in una hop bag, appesantita perché non galleggi), per alcuni giorni. In alternativa, aggiungere le grue negli ultimi 10 min di bollitura. Priming 6.5 g/l con aggiunta di lievito F2 per la rifermentazione.

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Malti Pils 1750 g Pale ale 1200 g Special B 150 g Caramunich II 200 g Fiocchi di frumento 500 g Zucchero scuro 400 g
Cascade 5.5% AA 60 min 28 g Hallertauer 3.5% AA 0 min 10 g
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QUANDO IL QUINTO QUARTO e i salumi sono di pesce

L’abbinamento birrario alla prova dei tagli ittici meno nobili

Ci sono due elementi dell’enogastronomia che più di tutti mi affascinano e che, per alcuni versi, in certe occasioni, riescono a fondersi. Da una parte, il mondo per me familiare delle fermentazioni, macerazioni, acidificazioni i cui esiti frequento quotidianamente e che non finiscono di sorprendermi, non smettono di farmi pensare alla bellezza misteriosa di questa millenaria interazione invisibile: trovo semplicemente coinvolgente la capacità di questi piccoli amici, invisibili a occhio nudo, di riuscire a vivere di

riciclo, di mettere continuamente a disposizione delle creature di questo pianeta materia nuova, frutto di un lavorio costante, di trasformazioni indispensabili, geniali, a volte irripetibili.

Dall’altra parte, invece, c’è la vera e propria arte del recupero culinario, della valorizzazione dell’umile scarto che, ben lavorato, diventa piatto buonissimo, che tanto è connessa al nostro essere umani e che molto ha a che vedere con la poca disponibilità di cibo, con la mancanza di tecnologie di conservazione e con il saper fare delle nostre non-

ne, sempre più da foto in bianco e nero, sempre più temporalmente distanti, brave a fare tanto con poco, a generare una zuppa dai sassi.

Questi due elementi così fertili si toccano proprio nel momento in cui, in cucina, per trasformare e conservare, bisogna essere bravi a interagire con il mondo micro-organico: il punto d’incontro sta proprio nel “complesso governo dell’anarchia”, nella capacità di preparare il terreno a lieviti e batteri e incanalare il loro lavoro verso una direzione conveniente. Ciò che nel mondo birrario accade, di fatto, per la produzione del caro lambic.

Avendo questi due elementi sempre in testa e con la voglia di sperimentare casi e applicazioni, mi trovo un pomeriggio da due amici, Silvia Mazzone e Marco Giuseppetti, coppia nella vita e nel lavoro, che nel loro ristorante fanno proprio di questa fusione, applicata alle preparazioni del pesce, una splendida peculiarità. Mentre nel silenzioso giardino della loro casa bevevamo e discorrevamo informalmente di cosa si aveva nel calice, del meteo e del necessario più e meno, mentre il primo sole primaverile usciva e rientrava dalle nuvole per salutare le nostre chiacchiere, ho tirato fuori l’argomento e ci siamo chiesti come fosse possibile che non avessimo mai pensato prima a dedicare un pranzo ai salumi e al quinto quarto di pesce abbinandoli alle birre artigianali.

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di Roberto Muzi

In pochi minuti abbiamo deciso il come e il quando e dato l’avvio a tutti i necessari preparativi organizzativi. Andandomene, già eccitato al pensiero di questa esperienza, ho pensato che l’amicizia sia proprio una cosa importante e meravigliosa, che regala momenti di condivisione e intelligenza affettiva che non hanno prezzo e che invece hanno tantissimo valore, in quanto moltiplicatori di idee e di energie positive.

Un lavoro difficile

Marco e Silvia, lontano dalle grandi città, dove di certo le proposte alternative e gli azzardi conoscono richiami più favorevoli, stanno portando avanti con competenza e convinzione un lavoro basato proprio sulla seconda vita dei cosiddetti avanzi e sulle loro tecniche di trasformazione-conservazione: qualcosa di diverso e di davvero interessante rispetto alla sterminata offerta di locali con offerta turistica (leggi: piatta), da spaghetti con le vongole e fritture di paranza. Sono impegnati già da sei anni nel progetto gastronomico de La ricciola saracena. Nato rilevando l’omonima osteria presente nella guida tematica di Slow Food, dunque improntata sui piatti della tradizione, e apportando, anno dopo anno, una presa di consapevolezza dopo l’altra, un percorso di studio e ricerca dopo l’altro, cambiamenti che hanno reso l’ambiente e la proposta sempre più rispondenti alla loro visione di ristorazione.

Siamo a Sperlonga, splendido borgo allignato su uno sperone roccioso dell’estremo litorale sud del Lazio, con evidenti influenze campane nelle inflessioni dialettali e culturali, e caratterizzato da uno dei mari più godibili della regione. Nel centro storico non c’è spazio per le automobili, ma solo per le passeggiate a piedi, salendo scalette e attraversando vicoli. Proprio in una delle tante stradine in cui ci si può imbattere, senza nessuna possibilità di perdersi e con molte possibilità di ritrovarsi improvvisamente di fronte a

scorci della splendida costa, troviamo l’antico Palazzo Sabella, al cui piano terra trova indirizzo La ricciola saracena, nello stesso sito dove anticamente operava un frantoio, con una mola trainata da muli.

Marco, dalla gentilezza proverbiale, si occupa della sala e della carta dei vini, composta e proposta con attenzione, caratterizzata dalle fermentazioni spontanee e sottoposta a una costante rotazione ragionata; Silvia, invece, è “la signora della cucina”, piena di idee e di energie, e ha cambiato gradualmente la proposta alimentare, sempre ancorata

alla cucina di mare, ma interpretata in maniera tecnica ed espressivamente più libera, con il presupposto filosofico dello “scarto zero”, che si materializza nei piatti di macelleria di mare dalle innovative tecniche di frollatura. La materia prima di base è il pescato locale, con prospettive di cottura e manipolazione ampliate. Così oggi nel menù possiamo trovare: plin di ricciola con estratto di cavolo rosso e miso, saltimbocca di pesce spada alla romana, tonno rosso “in tre tagli”, crudi di pesce variamente frollati, tacos pulled fish, guacamole e pico de gallo

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Silvia Mazzone e Marco Giuseppetti, anima de La Ricciola Saracena

Forchetta e calice in mano!

Ecco allora la cronaca di questo pranzo certamente fuori dal comune, durante il quale è stato divertente azzardare abbinamenti e sperimentare anche stili poco noti: non ci sarebbe stato spazio per raccontare tutte le impressioni, le riflessioni e suggestioni provocate dagli abbinamenti non riusciti, ma ancora una volta questi esiti sottolineano come l’abbinamento sia la più inesatta e meravigliosa delle scienze.

Ho trovato ancora più speciale che Marco e Silvia si siano seduti assieme a noi, rendendoci ancora più consapevoli dei dettagli del lavoro svolto per realizzare questo menu, confrontandosi apertamente sugli esiti delle preparazioni e sugli effetti gustativi delle tecniche usate.

L’abbrivio ce l’ha dato un morbidissimo pan brioche fatto in casa con salsa tzatziki, alga dulse e coppa di pesce (ritagli di varie specie, impastati e cotti a bassa temperatura, aggiunti di spezie ed erbe aromatiche, messi in forma come un piccolo bauletto da tagliare a fette sottili), e guarnizione finale con pomodorini confit e un’alga galiziana chiamata lechuga

Piatto dalla delicatezza rara, in grado di porgere un’ampiezza gustativa e aromatica che va dal lattico allo speziato, dall’erbaceo al sapido, con un morso rotondo, dinamico e coinvolgente, che ha messo perfettamente in mostra il modo di lavorare e il tocco della chef

Per l’abbinamento abbiamo scelto la Zerbster bitterbier di MC 77 (Serrapetrona, MC), 4.5%, ispirata allo stile omonimo e praticamente scomparso anche nella sua patria natia (Zerbst, nel länd tedesco di Sassonia-Anhalt, Germania del nord) ed ennesima prova della classe produttiva di Cecilia Scisciani e Matteo Pomposini (che peraltro, incredibilmente, ho scoperto essere cari amici di Silvia e Marco. È proprio vero, “le persone interessanti finiscono sempre per incontrarsi”, come diceva Vinicius De Moraes).

Prodotta con malto affumicato su legno di ontano e fermentata con un lievito tedesco ad alta fermentazione, da qualche anno allevato in casa e utilizzato già per altre etichette, conferisce una nota fruttata e profila una birra fragrante e leggera.

L’abbinamento raccoglie consensi e soddisfazioni: l’interazione è decisamente lieta, i malti si integrano con la cremosità della salsa e la grassezza della coppa, incontrando proficuamente erbe e alghe, mentre sul finale le note affumicate sposano in modo entusiasmante le percezioni umami. La gasatura leggera e la lievissima acidità detergono il palato lasciando in bocca un’incantevole sensazione affumicata, che rimanda a uno speck di pesce.

Una ricetta contro lo spreco

Proseguiamo con un assiette di salumi ittici dalle variegate e profumate conce: ventresca di tonno con alloro; coda di pesce spada con barbabietola; filetto di pesce spada con rosmarino, alloro e ginepro; ricciola con lavanda. Oltre alla realizzazione curata e alle intuizioni aromatiche, quello che - almeno a mio avviso - ha elevato la godibilità del piatto è l’elemento intangibile e totalmente culturale dell’aspetto filosofico e del pensiero ecologico. Pensare che nella quasi totalità dei ristoranti le parti utilizzate per queste preparazioni vengono butta-

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GASTRONOMIA
Zerbster bitterbier di MC 77 Assiette di salumi ittici Pan brioche fatto in casa con salsa tzatziki, alga dulse e coppa di pesce

te nel secchio fa diventare tristi: niente di edibile può essere gettato, mai, ma ciò è ancora più vero nei tempi attuali, dovrebbe essere considerato un peccato imperdonabile ed entrare nella testa di tutti come una prospettiva inderogabile. Vista la varietà dei salumi in assaggio e la presenza di variegati intingoli l’idea è stata di muoversi su due opzioni: a tavola è così comparsa la Space Girl, Vermont APA di Eastside brewing (Latina), 5%, dorata e lievemente velata, che si offre con un naso generosamente fruttato (tropicale) e resinoso, mentre in bocca si caratterizza per la setosità complessiva, accompagnata da una certa secchezza, senza amari soverchianti. Il tutto le permette di funzionare molto bene in abbinamento con gli affettati tal quali, attenuandone le sapidità o accompagnandone le invitanti note aromatiche. Associando invece i salumi agli accompagnamenti presenti – cavolo rosso fermentato, sambal (salsa di origine malesiana) di fragole e peperoncino, burro alle erbe, giardiniera – abbiamo fatto uscire dal frigorifero la Larkin street, Double IPA di Porta Bruciata (Rodengo

Saiano, BS), 8%, più intensa, corposa, persistente e alcolica e in grado di mantenere un ricercato equilibrio tra le componenti aromatiche (mandarino, pompelmo rosa, melone bianco, resinoso) e gustative, caratterizzate dal notevole bilanciamento tra ingresso a tendenza dolce, percezioni amare e giusta asciuttezza.

Nell’interazione con la più articolata e complessa trama gusto-olfattiva fa emergere la sua maggiore personalità, mentre risultano decisive la componente maltata e il contributo della CO₂ per tenere testa alle piccantezze, alle grassezze e all’acidità.

Primo piatto

È il tempo del primo, degli spaghetti quadrati (realizzati da un piccolo laboratorio artigianale della vicina Fondi) alla ‘nduja di tonno, ricavata dalla paziente sfilettatura di ogni genere di ritaglio delle parti nobili del tonno:

una salsa saporita, equilibrata, viva, per certi versi sorprendente. L’abbinamento con la Falesia, storica, buonissima e inossidabile bock di Birrificio Lariano (Sirone, LC), 7%, risulta convincente: i malti caramellati e le dolcezze sono necessari per mantenere la bocca in equilibrio, visto il piatto untuoso e avvolgente, e per incontrare al meglio le persuasive note sapide. È una birra dalla straordinaria versatilità gastronomica e dalla spiccata personalità gustativa, in grado di tenere testa a un piatto così esuberante. Dopo la deglutizione, in bocca resta un’avvincente sensazione di paprika dolce, che fa tornare al piatto con il desiderio di replicare il matrimonio.

Un secondo speciale

Per secondo Silvia ha preparato delle alette di tonno cotte sulla piastra ya-

BIRRA NOSTRA MAGAZINE 51 luglio 2023 GASTRONOMIA
Space Girl di Eastside brewing Larkin Street di Porta Bruciata Spaghetti quadrati alla ‘nduja di tonno

kitori (alimentata a carbonella e tipica della cucina giapponese): senza esagerazioni, questo piatto è stato un’illuminazione, una delle cose più buone e originali che abbia mai mangiato. Essendo una parte del pesce stimolata dal moto natatorio costante, ma anche attaccata alla ventresca, annovera sia la presenza di una parte grassa che di una muscolare, irrorata e tonica: un pezzo raro (poiché ogni tonno ha solo due piccole alette), ma veramente speciale, grazie anche alla peculiare cottura lenta, che libera strati aromatici nascosti e ricorda la consistenza di un pulled pork e il sapore (commovente) delle alette di pollo cotte alla brace (certamente una delle mie madeleine). Da giubilare come un soave dono inaspettato, lasciando nel piatto solo resti non alimentari di lische e brandelli.

Per l’abbinamento abbiamo chiamato in causa la Pavel, tmavè di Lieviteria (Castellana Grotte, BA), 5.5%, uno stile raro e sottovalutato, realizzato in ma-

niera impeccabile e personale dalle sapienti mani di Angelo Ruggiero, vero cultore della Mitteleuropa brassicola. Muovendosi tra torrefazioni, zaffate caramellate e frutta secca, con un aspetto palatale che arrotonda, leviga e opportunamente monda le poche componenti untuose/grasse presenti, lascia in bocca una vaga sensazione erbacea e un dialogo costante tra le note proteiche e quelle tostate. Un accordo fecondo e insospettabile, che ci ha lasciato col sorriso dello stupore, nato da due elementi che non avrebbero mai avuto l’occasione di dialogare se non in un’occasione gioconda come questa.

Dulcis in fundo

Non potevamo farci mancare la chiosa dolce, a base di (un ottimo) savoiardo fatto in casa con spuma di mascarpone e sottile disco croccante di cioccolato: delicato, stuzzicante, poco zuccherino, che gioca più che altro sulle

differenti consistenze, i contrasti gustativi e il vincente incontro tra la morbidezza lattica e il foglio di cioccolato a guarnire.

L’abbinamento con la sempre interessante Chocolate porter di Birra Perugia (Perugia), 5.3%, è risultato davvero fortunato. La birra è caratterizzata da una ricca base di malti (Maris Otter, Brown e Crystal, con aggiunta di avena e roasted barley), addizionata di granella del nobile cacao Arriba Nacional a fine fermentazione: al naso offre note di biscotto ben cotto, terroso, caramello, frutta secca e pane da farine scure, mentre in bocca si presenta con un deciso profilo maltato.

È quest’ultimo a interagire prolificamente con un dessert che non fa della dolcezza la sua ragion d’essere, accompagnando con le tostature l’atavica cremosità lattica e richiamando l’effimero ricordo del sottile disco di cioccolato. ★

52 BIRRA NOSTRA MAGAZINE luglio 2023
GASTRONOMIA
Savoiardo con disco croccante di cioccolato Chocolate porter di Birra Perugia Alette di tonno

T U R I SM O BI RRAR I O

LE QUAT TRO GUIDE PER I VIAGGIATORI IN FERMENTO

Un viaggio con esperti di turismo e di birra nelle quattro macroaree geografiche d’Italia per scoprire:

● i p ercorsi p er un turismo lent o

● l’ art e, la cu ltu ra e i p aesaggi na tu ra li

● i birri fi ci ar tigi ana li di qu ali tà

NOR D E S T NOR D OVES T
C E N TR O S UD E ISOL E
SCO P RI L E G UI D E S U WW W. ED IZIO N I LS WR.I T Nord ovest Nord est Centro Sud e isole

EMILIA: TRA FIUMI, birre e musica d’autore

L’Emilia è una terra molto particolare; la ami o la odi ma, certamente, non passa inosservata. È una terra dove le persone lavorano come muli, producono ed inventano. Siamo creativi da queste parti e pure “zucconi” ma, alla fine, ce la facciamo sempre a cavare il ragno dal buco. Perché siamo fatti così, orgogliosi come pochi ma, anche, ridanciani ed ospitali.

È una terra questa che quando la gente si mette coi piedi sotto la tavola allora è festa grande perché ad imbandirla ci sono i prodotti di un territorio che ha saputo regalare di tutto, e il lavoro dell’uomo ma, soprattutto, delle donne in cucina è di quelli da medaglia d’oro. Che poi, di medaglie ne sono arrivate davvero tante. Salumi ed insaccati, formaggi, vino e anche la birra sono pro-

dotti che ci invidiano in ogni angolo del mondo, come i nostri primi, i secondi, il pesce ed i dolci, perché non ci facciamo mancare nulla. Ma è anche una terra di musica, perbacco se lo è. Dalle sinfonie operistiche ottocentesche del maestro Giuseppe Verdi alle direzioni orchestrali di quel “satanasso” di Arturo Toscanini per arrivare al re del bel canto, quel Luciano Pavarotti che ha

BIRRA E MUSICA
di Antonio Boschi

avuto anche l’ardire di unire opera lirica e rock. Ed ecco che arriva il rock, e anche qui siamo in pole position come la miglior Ferrari (anche questa totalmente emiliana), perché l’Emilia della musica ci ha raccontato tante storie rock’n’roll e blues come i migliori racconti di Giovannino Guareschi. La via Emilia come la Route 66, e se i tanti storici big come Guccini, Dalla, Zucchero, Ligabue, Vasco Rossi sono conosciuti in ogni angolo del globo, c’è un fermento musicale giovanile e non ed un sottobosco attivo e sempre pronto a regalare sorprese. Sarà forse colpa del Po - qui in Emilia nel suo tratto più caratteristico che ce lo fa paragonare al fiume della musica americana per eccellenza, il Mississippi - o dei suoi tanti affluenti ma sembra che il fiume qui sappia dettare quel ritmo che dal blues passa al rock e alla country music con una semplicità che persino oltre oceano ci guardano con interesse. Ed allora oggi parliamo di due realtà musicali che possiamo definire emergenti, ma che hanno già ben radicato la loro musica tra i locali, festival e le feste paesane locali e, guarda caso, entrambi hanno nel loro nome d’arte la parola river, ovvero fiume.

Big river: “Beers in the garage”

Partiamo con i Big River, un duo alternative country di Bologna attivo dal 2016 che ha saputo costruire il proprio sound attraverso un’intensa attività live percorrendo tutto il Nord Italia, Germania, Svizzera, Slovenia e Croazia. Di chiara matrice classic rock e southern rock il duo composto da Federico Martinelli (voce, chitarra, lapsteel e armonica) e Pierluigi ‘PG’ Punzo (chitarra, basso, loop station e synth), evolve la propria visione della musica americana arricchendola con una dose di elettronica aggiungendo synth, loopstation e batterie elettroniche all’interpretazione del genere e dando vita ad un sound innovativo tra il classic e l’alternative country. La loro discografia si compone di ‘Live

Experience’ (2017) e ‘Girl with Nails Painted Black’ (2021).

Nella primavera del 2023 hanno dato luce al nuovo singolo “Beers in the Garage”, brano fortemente ispirato alla musica americana, proposto con un sound sperimentale ed innovativo per il genere. Un sound inedito, fresco e intrigante per accogliere con leggerezza l’arrivo dell’estate dove, come nella miglior tradizione, si sbocciano birre clandestine bevute segretamente in un garage sotterraneo. La componente elettronica, prodotta al Busker Studio di Fabio ‘Bronski’ Ferraboschi, è molto presente nell’arrangiamento e trasforma la canzone in un esperimento del tutto inedito.

I Big River dichiarano: “Tra le nostre ultime produzioni in studio abbiamo scelto ‘Beers In The Garage’ per la sua freschezza sonora e la sua energia. È un brano che invita alla semplicità e alla leggerezza, ideale per avvicinarci con il piede giusto all’estate 2023”. Molto simpatico il videoclip del brano, realizzato in un unico piano sequenza e autoprodotto dagli stessi Big River in collaborazione con SlowMotion Studio di Bologna, che racconta di una festa che si materializza improvvisamente in un garage. Spunta-

BIRRA NOSTRA MAGAZINE 55 BIRRA E MUSICA
Lucio Dalla

no birre di ogni genere e un manipolo di curiosi personaggi prende rapidamente forma per dar vita ad una serie di paradossali situazioni che sfociano in un grande finale tutto da scoprire. Birra Nostra e Birra Nostra Magazine, hanno deciso di essere media partner del lancio del singolo “Beers in the Garage”.

Ellen river: “Life”

E qui il fiume è ancora più presente e scorre come solo i fiumi più imprevedibili sanno fare tra le note di questo “Life”, doppio album della cantautrice modenese Ellen River. Chi si cela dietro a questo nome d’arte non deve essere affar nostro, bensì dobbiamo prestare una grande attenzione a quello che ci vuole raccontare con queste 27 canzoni scritte con quel piglio tipicamente emiliano che le ha permesso di fare un “azzardo” discografico nel periodo in cui escono quasi solo singoli o album striminziti. Ma Ellen sapeva cosa voleva raccontare e, alla fine, la partita l’ha vinta lei e questo ce lo confermano le tantissime recensioni uscite sulle principali testate giornalistiche di settore che ancora oggi parlano di “musica d’autore”. Perché è proprio questa forse l’unica “categoria” nella quale possiamo infilare “Life”, seconda opera a nome di Ellen River dopo il già apprezzato “Lost Souls” del 2018. Ma questa è un’altra musica, in “Life” Ellen ha voluto piazzare la sua vita, le sue esperienze, le storie che ha interiorizzato, le emozioni che riceve parlando con le persone ma, anche, leggendo libri, ascoltando musica e guardando film. Storie di vita delle quali non sempre va cercato un significato preciso, se non quello che abbiamo dentro ciascuno di noi che ascoltiamo. Non chiediamole cosa ci volesse raccontare, ma impariamo ad ascoltare le storie che sonnecchiano nella nostra anima e lasciamole uscire cullate o stimolate da queste canzoni, una più bella dell’altra in un vortice sonoro che sa prenderti per mano e condurti per oltre 80 minuti in un mondo parallelo. Questo è il po-

56 BIRRA NOSTRA MAGAZINE luglio 2023 BIRRA E MUSICA
I componenti dei Big River Federico Martinelli (sinistra) e Pierluigi Punzo (destra)

tere salvifico della musica. Ascoltando “Life” capirete come la via Emilia sia per davvero la nostra Route 66, perché c’è tanta di quell’America in questo album che le stelle e le strisce potrebbero uscire dalle casse del vostro impianto hi-fi e colorarvi le pareti di casa, un po’ come in quei favolosi anni ’60 e ’70 di cui questo album è intriso fino al midollo, con forti richiami anche al decennio della rinascita, ovvero gli anni Novanta dove la musica ha saputo prendersi una grossa rivincita. Blues, Country, Soul, Rock, Gospel, Grunge e Cantautorato sono gli ingredienti più visibili in questa “torta musicale” che Ellen River ha cucinato e ci ha regalato, ma gli elementi segreti - quelli che i migliori pasticceri, chef o mastri birrai aggiungono per rendere unico il prodotto – quelli no, a quelli mica puoi dare un nome perché sono le emozioni, e quelle le sai regalare solo se sei un grande artista, e “Life” ne è talmente tanto impregnato che neanche la miglior zuppa inglese. In tantissime recensioni o interviste l’autrice è stata paragonata a differenti figure del mondo musicale, forse è normale andare a cercare una probabile somiglianza, ma non ha senso quando siamo al cospetto di un’artista poliedrica che, nonostante la giovane età, ha saputo e voluto ascoltare di tutto, vivendo la musica come fosse l’aria per respirare, entrando nei brani altrui come si fa quando si sa ascoltare la musica per davvero. Che sia un vecchio bluesman degli anni ’30, una songwriter, un cantautore o una band Ellen ascolta tutto con una curiosità ed un interesse contagioso, e questo esce con forza dalla sua musica che è sicuramente rimasta contaminata dalle tante ore passate in loro compagnia. Che siano Muddy Waters, Lucinda Williams, John Prine, i Jefferson Airplane, I Creedence, Pearl Jam o Mark Lanegan non importa, perché quello che resta è il sound di Ellen River e le sue emozioni, il tutto cantato in un perfetto inglese, perché queste sono canzoni che vanno cantate solo ed esclusivamente in questa lingua, perché

BIRRA NOSTRA MAGAZINE 57 luglio 2023 BIRRA E MUSICA
Ellen River (Ph. Antonio Boschi) La cover di “Life” di Ellen River

è giusto così e perché è così che escono dal cuore di Ellen. Confesso che faccio fatica a parlare di questo doppio album perché un po’ l’ho visto crescere e perché ho avuto l’onore di poterne curare la veste grafica e, quindi, nulla vi dirò di questo. Ma restano le emozioni, quelle che mi sono entrate immediatamente dentro già al primo ascolto, senza nemmeno aver letto i testi. Solo la musica. Ebbene sono state tante e tali che era un bel po’ che non mi capitava una cosa del genere e sono assai felice che oggi abbiamo tutti la possibilità di trovarci di fronte al lavoro finito di questa donna che ha coronato un suo sogno, che ha anche combattuto e fatto sacrifici per portare a termine questo grande lavoro con l’aiuto di una piccola schiera

di collaboratori che lei ha saputo individuare e che hanno da subito creduto in lei offrendo il loro contributo con passione e professionalità. Ecco, quindi, che spicca il grande lavoro di Boris Casadei con tutte le sue chitarre, la sezione ritmica nelle sicure mani di Diego Sapignoli alla batteria e percussioni e Rodolfo Valdifiori al basso. A questi si aggiungono il banjo del “vikingo folk”

Marco Maccari, il pianoforte e la fisarmonica trasognante di Stefano Zambardino, l’organo Hammond di Enrico Giannini, il violoncello di Enrico Guerzoni e il violino di Luca Falasca. E, per chiudere, la pedal steel che regala quel tocco country ed americana roots grazie alla preziosa presenza di Alex Valle, il tutto sotto la regia, attenta, passio-

nale e meticolosa di Gianluca Morelli dello studio DeckLab di Rimini dove il doppio album è stato registrato. Al resto ci ha pensato lei, Ellen River, con quella voce e quelle parole che sanno andare a colpire nei punti nevralgici della nostra anima.

E allora, se state leggendo questa rivista, se vi state appassionando alla musica che da queste pagine cerchiamo di consigliarvi, prendete una delle ottime birre - magari tra quelle artigianali prodotte proprio in Emilia - e lasciatevi trascinare dalla musica dei Big River o di Ellen River e vedrete che la giornata avrà tutto un altro sapore. ★

58 BIRRA NOSTRA MAGAZINE luglio 2023 BIRRA E MUSICA
Ph: Antonio Boschi

GUIDA PER VIAGGIATORI in fermento

Èuscita in questi giorni la prima, vera Guida di turismo brassicolo dal titolo Turismo Birrario. Guida per viaggiatori in fermento edita dai tipi di LSWR. L’opera si compone di quattro diverse guide, suddivise per aree geografiche: Nord-Est, Nord-Ovest, Centro Italia, Sud e Isole, così da poter lasciare al lettore la libertà di scegliere cosa acquistare.

? Per presentarci l’opera abbiamo incontrato Luca

Grandi che della Guida è l’ideatore nonché curatore…

L’idea di una Guida che unisse informazioni turistiche e riferimenti ai birrifici

artigianali italiani ha radici nel 2011, quando uscì il volume La via della Birra. Un Grand Tour attraverso l’Italia dei birrifici artigianali, scritta a tre mani e pubblicata nella collana Gargantua e Pantagruel dall’Editore Aliberti. Quel libro è stato prodromico a quest’ultimo lavoro, in quanto descriveva i birrifici inseriti in contesti turistici interessanti, senza necessariamente metterne in primo piano le birre. Lo scopo era infatti quello di legare la presenza di un birrificio alle bellezze del territorio che lo ospitava, sollecitando così la curiosità di un appassionato di birra disposto al viaggio, che è grosso modo il profilo di chi, già oggi, affronta lunghe distanze

per partecipare ai numerosi festival, alle fiere di settore e ai vari contest che si organizzano in Italia.

60 BIRRA NOSTRA MAGAZINE luglio 2023 TURISMO BIRRARIO
di Mirka Tolini
Luca Grandi

? Nasce così Turismo Birrario...

Sì. Fra l’uscita de La Via della Birra e questa Guida ci sono state tuttavia di mezzo le molte fiere di settore che ho organizzato in questi anni con Birra Nostra, le decine e decine di degustazioni che ho tenuto allo scopo di promuovere essenzialmente i birrifici e i loro territori e soprattutto il rilancio, nel 2019, di Birra Nostra Magazine, che ospita regolarmente da anni rubriche di turismo brassicolo. In questo periodo di tempo ho realizzato quanto interessante sarebbe stato affrontare un percorso così suggestivo - in parte già esplorato in questi anni grazie all’intraprendenza di alcuni birrifici artigianali e dalla sempre maggiore richiesta di turismo esperienzialecreando e proponendo itinerari di prossimità, sulle cui rotte insistono anche quei birrifici artigianali che si sono attrezzati per ospitare viaggiatori e appassionati di birra. Viaggiatori in fermento, appunto.

? La Guida è quindi la risposta a una domanda di turismo alternativo?

Di certo c’è che in Italia il fenomeno dei birrifici artigianali ha avuto, in quest’ultimo decennio, un incremento esponenziale e che tutte le regioni sono oramai ben rappresentate.

Peraltro, anche allo scopo di rispondere commercialmente a tale incremento, molti birrifici hanno deciso di vendere gran parte della propria birra in locali di

loro proprietà come i brewpub o le taproom e, per farlo al meglio, hanno poi ampliato l’offerta con ottimo cibo da abbinare alle loro birre.

Gli ultimi report sul consumo medio pro capite di birra, poi, sono incoraggianti: in Italia, la birra si consuma quasi quanto il vino. Segno che anche da noi, come in quasi tutto il resto d’Europa e in molte aree mondiali, la birra è stata ampiamente sdoganata e oggi il suo consumo è considerato normale, non più limitato ad occasioni e luoghi di consumo speciali. Questo aspetto, di rimando, ci fa capire quante persone e quanti appassionati siano oggi disposti al viaggio, per poter conoscere birrifici e birrai.

La Guida ha quindi messo a terra questa richiesta, proponendo itinerari che tuttavia arricchiscono questa esperienza di viaggio, associando quindi ai birrifici tutto quanto può offrire - di culturale, artistico e spesso gastronomico - il territorio che li ospita.

? Può quindi essere considerata a tutti gli effetti, come già scritto, la prima, vera Guida di turismo brassicolo...

Direi proprio di sì. Ad oggi non è stata mai proposta un’opera così ampia, in questo settore. Ho coordinato il lavoro di otto persone che con me hanno scritto 60 itinerari e recensito un’ottantina di birrifici coprendo tutte le regioni d’Italia: è stato un lavoro lungo e meticoloso. Colgo anzi l’occasione per ringraziare Giulia

Vinci, Pierluigi Bruzzo, Alberto Calderoni e Gabriele Navoni che con Naike Mulas - che li ha coordinati - hanno scritto con precisione e competenza di turismo. Ed anche Andrea Camaschella, Matteo Ferrigno e Luca Pretti che li hanno affiancati nella recensione dei birrifici. Un lavoro di squadra che ha garantito un risultato all’altezza delle aspettative dei lettori.

? Cosa ti aspetti da questo lavoro?

Per me è una preziosa tappa del percorso che ho intrapreso professionalmente da oltre quindici anni in questo settore, così affascinante e complesso. Mi occupo di turismo brassicolo da tempo e credo ci sia ancora molto da fare, una cosa su tutte ad esempio la formazione. I birrifici sono infatti veri e propri presìdi del loro territorio: è, e sarà sempre più indispensabile, connettere sempre più tutti gli attori che contribuiscono a far vivere turisticamente, artisticamente, culturalmente e produttivamente quel territorio così come risulta fondamentale conoscere a fondo le regole dell’ospitalità. Un percorso indispensabile che, ne sono sicuro, verrà affrontato dai birrai e dai loro collaboratori con sempre maggiore competenza.

? Quali i progetti futuri all’orizzonte, oltre alla promozione della Guida?

Una nuova edizione di questa Guida, naturalmente, con nuovi itinerari e molti, moltissimi altri birrifici da visitare! ★

BIRRA NOSTRA MAGAZINE 61 luglio 2023 TURISMO BIRRARIO

UN RICORDO DI FABIO DE FILIPPI

Il 6 giugno ci ha lasciati Fabio de Filippi. Per me è doveroso ricordare qui un amico che per tanti anni mi ha accompagnato nelle mie iniziative, appoggiandomi e spronandomi con suggerimenti e consigli sempre preziosissimi. Per anni ha affiancato l’attività dei microbirrifici, coinvolgendo i birrai e gli operatori del settore in iniziative sempre di alto profilo e sempre condotte col suo stile da sornione ossequioso, quel modo che lo rendeva immediatamente empatico con le persone.

Fabio apparteneva ancora a quella visione del mondo e della vita che ce lo

SCHIUMA 2023

La seconda edizione di “Schiuma craft beer Village” ha visto, riunita sulla spiaggia di Scicli (RG), una rappresentanza significativa di birrifici italiani. Durante la manifestazione gli organizzatori hanno lavorato per valorizzare e diffondere la cultura brassoga-

faceva diventare irresistibile quando ci parlava, con pertinenza, preparazione e competenza, di lavoro. Perchè ci aggiungeva sempre quella disponibilità all’ascolto che gli consentiva di essere sempre aggiornato. Perché non ti faceva mai pesare la sua enorme esperienza, anzi. E perchè era un veneziano doc: già questo, ai miei occhi, me lo rendeva unico. Credo che questo mondo, il mondo della birra, abbia perso uno dei suoi migliori ambasciatori. (l.g.)

stronomica in una modalità che unisse bellezza, creatività, tecnica, divertimento e benessere. Tra le storie presentate anche quella di un’azienda che ha riconvertito parte dei suoi terreni per produrre birra alla canapa. I partecipanti all’evento hanno potuto anche iscriversi a

laboratori legati al gusto e masterclass con chef e cuochi siciliani, oltre che a degustazioni di birra e laboratori di degustazione ludico sensoriale. Al centro della manifestazione la birra, il buon cibo e le eccellenze del territorio e dell’ottima musica. (e.p.)

NOVITÀ DAL MONDO BIRRARIO 62 BIRRA NOSTRA MAGAZINE luglio 2023 a cura della redazione

GLI STILI BIRRARI DI EBCU

EBCU (European Beer Consumer Union), la federazione delle associazioni europee degli appassionati e consumatori di birra (a cui aderiscono anche MoBI e Unionbirrai) ha recentemente pubblicato online la propria proposta di suddivisione degli stili della birra. Nel mondo birrario il documento più consultato e citato è probabilmente quello del BJCP (Beer Judge Certification Program), ma altri enti e associazioni propongono la propria suddivisione, dalla Brewers Association a Unionbirrai.

A differenza degli stili descritti da BJCP e altri, l’approccio di EBCU è sicuramente meno analitico (nessun dettaglio di IBU, OG SRM...) e più discorsivo: si tratta di raccontare gli stili birrari ai semplici consumatori, non - come negli altri casi - di dare indicazioni per giudicare la birra in un concorso. L’opera, a cura dell’inglese Tim Webb, ha il merito di proporre una divulgazione meno specialistica, pur inserendo nelle descrizioni anche stili rari e inusuali. (d.b.)

https://beer-styles.ebcu.org/

BIRRA, CONSUMI IN CRESCITA

Il report annuale di Assobirra, pubblicato lo scorso maggio, fotografa un settore in ripresa rispetto alla frenata degli eventi pandemici del biennio 2020-21. Secondo tali cifre nel 2022 il consumo italiano è stato di 22,3 milioni di hl con un dato pro capite balzato a 37,8 litri, due in più rispetto al massimo storico del 2019. Analizzando i numeri, si nota tuttavia che il comparto “craft” non è pienamente protagonista, pur con una stima di produzione in aumento in valori assoluti: la quota “lager” (rappresentativa delle produzioni industriali) appare crescere percentualmente rispetto alle “birre speciali”. Considerando inoltre i dati produttivi dei singoli gruppi aziendali, alla voce “aziende non associate e microbirrifici” nel report sono imputati 1,45 milioni di hl e 6,5% del comparto nazionale: scorporando i dati stimati del gruppo Forst-Menabrea, qui inclusi, si giunge

a un dato produttivo del comparto artigianale di circa 600.00 hl, pari al 2,6%. Il dato stimato pre pandemia

era del 3,1: gli italiani apprezzano maggiormente la birra ma rimangono fedeli al prodotto industriale. (d.b.)

NOVITÀ DAL MONDO BIRRARIO BIRRA NOSTRA MAGAZINE 63 luglio 2023

HANNO SCRITTO PER NOI

Giorgia Bertan

Laureata in Mediazione linguistica e culturale, con un passato nella logistica e una grande passione per la birra artigianale che mi accompagna da una decina di anni. Nel 2020 ho mollato tutto per tornare sui banchi di scuola e diventare birraia. Oggi mi divido tra Piemonte e Lombardia lavorando in produzione da Birrificio Castagnero e Serra Storta.

Antonio Boschi

Grafico di professione e grande appassionato di musica e di arte. Titolare dell’agenzia WIT Grafica & Comunicazione, ho ideato e organizzato alcuni festival, tra cui il Rootsway premiato nel 2009 come migliore a livello europeo. Redattore della rivista Il Blues, da anni collaboro con Visit USA Italy oltre ad essere uno dei soci fondatori della società A-Z Blues. Autore del libro Blues

Pills e altre storie

Andrea Camaschella

Appassionato di birra da svariati anni, sono coautore dell’Atlante dei Birrifici Italiani, docente ITS Agroalimentare per il Piemonte e in svariati altri corsi.

Lorenzo “Kuaska” Dabove

Degustatore, esperto, docente, giudice e scrittore di birra. Pioniere nel supportare il movimento artigianale italiano. Principale combattente nel preservare il lambic e la gueuze tradizionali. Dal mese di aprile 2021 ho assunto la carica di Presidente del Comitato Tecnico Scientifico dell’Accademia delle Professioni di Padova. Ho pubblicato “La birra non esiste”, “Le Birre” e “Il Manuale della Birra” con contributi e capitoli di libri di Michael Jackson, Tim Hampson, Garrett Oliver, Randy Mosher, Tim Webb e Stephen Beaumont.

Massimo Faraggi

Pioniere dell’homebrewing in Italia e docente di birra fatta in casa, sono stato co-fondatore di MoBI e curatore della rivista dell’associazione. Sono autore di articoli e libri di tecnica e cultura birraria.

Matteo Malacaria

Giudice qualificato BJCP e beer sommelier, autore del blog Birramoriamoci. it e del libro Viaggio al centro della birra. Mi occupo di comunicazione e marketing applicati al settore birro gastronomico e sono docente presso la NAD di Verona.

Michele Matraxia

Ex PhD Student presso il Dipartimento Scienze Agrarie, Alimentari e Forestali (SAAF) dell’Università degli Studi di Palermo, docente di scienze agrarie e homebrewer. Mi occupo di selezione e screening tecnologici su lieviti nonconvenzionali per le produzioni di birre e idromeli. Ho da poco discusso la mia tesi di dottorato dal titolo “Innovazioni biotecnologiche nei processi fermentativi delle birre e di bevande fermentate a base di miele”.

Roberto Muzi

Formatore, sommelier, assaggiatore ONAF e consulente di settore. Laureato in Scienze Politiche, sono stato responsabile regionale per la Guida alle birre d’Italia di Slow Food Editore dal 2014 al 2021 e giurato in diversi concorsi birrari nazionali.

Christian Schiavetti

Appassionato alla birra con le prime bottiglie collezionate e i primi sottobicchieri. Dal 2010 ho iniziato a viaggiare in Belgio e in Franconia ma non solo. Diversi corsi targati MoBI, anche da homebrewer e Good Beer, mi hanno portato ad aprire il blog “Birre Bevute 365” e collaborare tra altri con Giornale della Birra e Guida alle birre D’Italia. Amo viaggiare e in particolare amo le birre tedesche.

Mirka Tolini

Professionista della scrittura, sono arrivata alla birra artigianale per amicizia. In dieci anni entrambi i legami sono fermentati!

64 BIRRA NOSTRA MAGAZINE luglio 2023
Giorgia Bertan Antonio Boschi Andrea Camaschella Lorenzo “Kuaska” Dabove Massimo Faraggi Matteo Malacaria Michele Matraxia Roberto Muzi Christian Schiavetti Mirka Tolini

T i p o d i c a m p i o n e :

M o s t o

M o s t o i n f e r m e n t a z i o n e B i r r a f i n i t a

P a r a m e t r i :

A l c o l , S G , d e n s i t à , p H , R D F , e s t r a t t i ( g r a d o P ° ) e c a l o r i e

B e e r F o s s ™ F T G o

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