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considerare la possibilità " di abbandonare il Veneto per organizzare una nuova linea difensiva più efficace. Se infatti gli italiani avessero continuato ad avanzare, avrebbero potuto coglierli alle spalle, infliggendo all'esercito austro-ungarico un'enorme perdita di uomini e armi. Bisognava preservare l'integrità dell'Esercito se si voleva anche solo mantenere l'ordine in Patria e preservare la monarchia asburgica. L'Italia, forte dei primi sfondamenti, era intenzionata a riconquistare al più presto i territori perduti a Caporetto nonché quelli ambiti ad inizio guerra, tentando al contempo di scompaginare e catturare quanti più prigionieri e armi possibili al nemico. L'Austria, dal canto suo, era determinata a difendere quanto più possibile le terre del Trentino, Veneto e Friuli dalle truppe italiane lanciate alla conquista, facendo ripiegare al meglio le proprie truppe dietro nuove linee di resistenza. La motivazione era la medesima per entrambi gli schieramenti: arrivare al tavolo delle trattative di pace, ormai inevitabili, con un prezioso "pegno territoriale" ottenuto con l'azione militare. L'Italia avrebbe reclamato la sua conquista, a cui aggiungere la volontà di autodeterminazione dei popoli friulani e trentini come italiani (in quanto avevano più volte acclamato il loro arrivo), in ottemperanza ai principi wilsoniani; l'Austria, invece, avrebbe quantomeno potuto usare il Veneto come merce di scambio per ottenere
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più miti condizioni di resa. Tuttavia, l'Esercito austro-ungarico, dal momento in cui gli italiani avevano sfondato la linea del Piave, si era trovato in così gravi difficoltà da convincere il Comando Supremo austriaco a ordinare la ritirata generale fino ai confini nazionali, ultimo utile baluardo di difesa. Non era passato nemmeno un giorno da questa risoluzione che, già la sera del 28 ottobre, al generale Arz erano giunte notizie terribili dal settore trentino e dalle armate di Boroevic: si moltiplicavano defezioni e ammutinamenti tra i reparti, tanto che a causa delle condizioni delle truppe la manovra in ritirata era inattuabile. L'unica soluzione era chiedere un armistizio immediato e senza condizioni. Alle 9:20 della mattina del 29 ottobre, il delegato del Generale Weber, il capitano Kamillo Ruggera, superò le linee italiane a Serravalle reggendo una bandiera bianca e rischiando di farsi impallinare. Consegnava poco dopo una lettera in cui si chiedeva di aprire le trattative per l'armistizio, ma quando il Comando Supremo italiano ne fu informato, quest'ultimo ne contestò la validità, chiedendo che fossero mandati dei delegati plenipotenziari per iniziare una trattativa. La lettera di Weber, lungi dall'aver indotto i comandanti italiani a cessare le ostilità, metteva ancor più premura e iniziativa a lanciare i propri soldati alla conquista dei territori ambiti giacché, ora ne avevano certezza, i nemici non erano più in grado di fermare efficacemente l'avanzata del Regio Esercito.