Rete • Zeta Numero 4 | Maggio 2023

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Rete Periodico del Master in Giornalismo e Comunicazione multimediale Università Luiss Guido Carli Numero 4 Maggio 2023 Il Faro di Fiumicino I sopravvissuti di Parigi 18 Le corride 40 Il tennis a Roma 28 16 La festa del Napoli 48

Italian Digital Media Observatory

Partner: Luiss Data Lab, RAI, TIM, Gruppo GEDI, La Repubblica, Università di Roma Tor Vergata, T6 Ecosystems, ZetaLuiss, NewsGuard, Pagella Politica, Harvard Kennedy School, Ministero degli Esteri, Alliance of Democracies Foundation, Corriere della Sera, Reporters Sans Frontières, MediaFutures, European Digital Media Observatory, The European House Ambrosetti, Catchy

Olexandra Matviichuk - Centro di Cooperazione Internazionale per le Libertà Civili, Nobel Peace Prize 2022

La parola

Coverstory

«Non è una bambina, è mia figlia» di Giulia Moretti e Valeria Verbaro

17 luglio 1944 a San Frediano di Leonardo Pini

Nel metaverso per evadere dal carcere di Giorgio Brugnoli

Italia

Costruire una comunità di Silvia Andreozzi

Un antico inganno di legno di Silvia Pollice

L’equilibrista sul mare di Elena Pomè

L’Aldiquà da difendere di Leonardo Aresi e Dario Artale

Esteri

«L’arte mi ha salvato dall’orrore» di Beatrice Offidani

Il caso Dominion vs Fox News di Luisa Barone

Il Muro della vergogna di Martina Ucci

Tecnologia

La Blockchain Week 2023 di Yamila Ammirata ed Elena La Stella Algoritmi contro i pregiudizi di Enzo Panizio

La scuola ai tempi dell’Ai di Silvano D’Angelo

Photogallery

Roma al centro del tennis di Antonio Cefalù

Ambiente

Un litro al prezzo di due di Lorenzo Sangermano

Una nuova «civiltà dell’orto» di Federica De Lillis

Combattere la povertà in team di Maria Teresa Lacroce

Cultura

Spotify non è contro l’AI di Alissa Balocco

«Netflix, abbiamo un problema» di Niccolò Ferrero

Preservare la tauromachia di Caterina Di Terlizzi

Scovare le bugie di Pinocchio di Silvia Morrone

Un SalTo nel BookTok di Ludovica Esposito

Spettacoli

Lo sciopero degli sceneggiatori di Valeria Verbaro

Sport Napoli è campione d’Italia di Ludovica Esposito e Giorgia Verna

Napoli in rete di Giorgia Verna

La guida di Zeta

La capitale italiana del Veg di Francesco Di Blasi

Parole e immagini

Senza Uguali di Silvia Stellacci

Giacomo Leopardi, La

Rete

Era l’anno 1836, quando l’epidemia di colera infestava le vie di Napoli e Giacomo Leopardi, in cerca di riparo, si rifugiava a Torre del Greco insieme all’amico Ranieri. La malattia, implacabile, se lo sarebbe portato via presto. Non prima, però, di concedergli il dono del tempo per comporre un ultimo inno alla resistenza umana contro una natura che è la radice di ogni sofferenza.

È l’eredità immortale de La Ginestra, da cui emerge con tutta la sua forza la potenza della rete umana, dove ogni uomo è legato all’altro dai fili invisibili della solidarietà. La stessa che oggi tiene insieme tutte le famiglie che non riescono ad essere riconosciute come tali dal governo italiano. Migliaia di coppie formate da genitori dello stesso sesso, che lottano ogni giorno affinché possano godere degli stessi diritti delle coppie eterosessuali.

La loro vita è una corsa continua verso una meta che non sembra mai arrivare, un percorso ad ostacoli fatto di discriminazione e dolore. Come raccontano mamma Alessia e mamma Alessandra, tra le poche fortunate ad aver visto riconosciuta la loro responsabilità genitoriale sulla piccola Matilde.

La forza della rete è anche quella che, oltre 75 anni fa, ha spinto la comunità fiorentina del quartiere San Frediano a dare uno dei più virtuosi esempi di

resistenza al nazifascismo. È l’unione di un’azione collettiva che a Viareggio ha costruito una scuola popolare accessibile a tutti e che dall’altra parte del mondo, a Hollywood, unisce la comunità degli sceneggiatori contro le precarie condizioni lavorative imposte dall’avanzare delle piattaforme di streaming.

Oggi la parola rete ci fa pensare subito al mondo digitale e interconnesso, all’innovazione dell’Intelligenza Artificiale che sempre di più si inserisce nella nostra quotidianità. Anche in quella dei detenuti, che grazie alla realtà aumentata e virtuale possono ora sperimentare la vita di fuori viaggiando al di là delle mura del carcere. Orizzonti inesplorati e fino a poco tempo fa inimmaginabili prendono forma giorno dopo giorno, si insinuano nelle nostre vite ridisegnando i confini delle possibilità umane. Come hanno fatto le reti neurali artificiali alla base di GPT e altri modelli di linguaggio che hanno rivoluzionato il mondo da ogni punto di vista, spingendo anche l’istruzione verso sfide finora sconosciute.

In questa trama intrecciata di storie umane, battaglie per i diritti e progresso tecnologico, emerge una forza resiliente che ci fa andare avanti. Come fa la ginestra, che resiste solitaria sulle pendici del Vesuvio e con la distruzione intorno sopravvive, cresce rigogliosa, resiste, così la potenza della rete ci spingerà ad andare oltre.

A cura di Silvia Andreozzi

Luisa Barone

Elena La Stella

Giulia Moretti

Lorenzo Sangermano

«L’orror che primo contro l’empia natura strinse i mortali in social catena»
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Ginestra
Periodico del Master in Giornalismo e Comunicazione multimediale Università Luiss Guido Carli
ZETA Periodico della Scuola Superiore di Giornalismo “Massimo Baldini” supplemento di Reporter Nuovo Registrazione Reg tribunale di Roma n. 15/08 del 21/01/2008
Direttore responsabile Gianni Riotta Condirettori Giorgio Casadio Alberto Flores d’Arcais
Redazione Viale Pola, 12 – 00198 Roma Stampa Centro riproduzione dell’Università Contatti 0685225358 giornalismo@luiss.it 4 10 6 8 16 15 18 12 14 20 22 24 26 28 30 32 34 36 38 40 42 44 46 48 50 52 54 27
Silvia Stellacci
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«Non è una bambina, è mia figlia»

Le famiglie all’ombra dello Stato

Erano trecento i sindaci di tutta Italia riuniti al Teatro Carignano di Torino lo scorso 12 maggio su appello del sindaco del capoluogo piemontese, Stefano Lo Russo. Trecento rappresentanti delle città che rifiutano la decisione del ministero dell’Interno – e quindi del governo – di interrompere la registrazione all’anagrafe dei figli di coppie omosessuali. Nelle stesse ore, a Roma, procedeva la seconda giornata degli Stati Generali della Natalità 2023, con il dialogo tra Papa France-

Nessun accenno, da parte di Meloni in quindici minuti di discorso, di un’apertura dei diritti della famiglia alle coppie omosessuali, nessuno sbilanciamento. Ha parlato invece di: «una Nazione nella quale tutti, uomini e donne, riscoprano la bellezza di diventare genitori, di accogliere, custodire e nutrire un figlio. Una nazione nella quale fare un figlio è una

sco e la presidente del Consiglio Giorgia Meloni.
I genitori omosessuali fanno rete per poteggere i propri bimbi dalla noncuranza istituzionale DIRITTI Coverstory 6 — Zeta
di Giulia Moretti e Valeria Verbaro
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cosa bellissima che non ti toglie niente, che non ti impedisce di fare niente e che ti dà tantissimo».

La bellezza di diventare genitori è ciò che chiedono anche migliaia di coppie che, anzi, genitori lo sono già e necessitano invece di un riconoscimento da parte dello Stato di una realtà di fatto. La decisione dei trecento sindaci di prendere una posizione in merito non è perciò una contestazione fine a se stessa. Il vero obiettivo è arrivare al più presto a redigere una proposta di legge e portare la discussione in Parlamento, anziché nelle arene televisive, dove l’attenzione si focalizza sugli aspetti più polarizzati, come la gestazione per altri, e non sulle urgenze immediate di migliaia di cittadini.

«La gestazione per altri (gpa) riguarda nella quasi totalità dei casi le coppie eterosessuali», aveva affermato Alessia Crocini, presidente dell’associazione Famiglie Arcobaleno, già a marzo durante una manifestazione a Roma. «È entrata in un dibattito pubblico così feroce solo nel 2016, quando si è iniziato a parlare di unioni civili e famiglie omogenitoriali» e oggi viene usata per distogliere l’attenzione da problemi e difficoltà quotidiane, come è stato ripetuto più volte in questi mesi di sensibilizzazione al tema.

È più concreto e più urgente che in una coppia di mamme o di papà il genitore “non biologico” non possa stare in ospedale con i propri figli, se malati, o

che non possa richiedere congedi retribuiti per prendersi cura di loro. È questione di responsabilità genitoriale, come oggi si chiama la ex patria potestà, di doveriprima ancora che di diritti – di cui i genitori omosessuali vengono privati. Grazie a una sentenza delle Sezioni Unite della Cassazione (38162/2022), l’unica soluzione possibile oggi per tutelare il diritto dei minori ad avere entrambi i genitori riconosciuti dallo Stato è l’adozione in casi particolari, ai sensi della legge 184/1983 (art.44, comma 1, lettera d).

«Quando siamo andate in udienza, la giudice è rimasta sconvolta dal fatto che io stessi adottando mia figlia», afferma a Zeta Alessia, unita civilmente ad Alessandra e madre insieme a lei della piccola Matilde, sei anni. Seppur consentito dalla legge, non è stato semplice ottenere i documenti che sanciscono il riconoscimento della loro famiglia, a partire dall’opinione comune, da tutte le volte in cui Alessia si è sentita dire negli uffici pubblici: ma perché vuoi adottare la figlia di Alessandra? E a cui ogni volta ha dovuto rispondere che no, non stava adottando una bambina figlia di un’altra donna, ma stava adottando sua figlia, una bambina «voluta, pensata e desiderata» da entrambe anche se poi portata in grembo solo da una.

Hanno due memorie differenti, Alessia e Alessandra, dei mesi in cui sono state sottoposte a valutazioni psicologiche e sociali, prima dell’adozione. «Io l’ho

vissuta con più tranquillità, con Alessia sembrava la Santa Inquisizione», così nei ricordi di Alessandra quella è stata una brutta parentesi, ormai superata. Per Alessia il dispiacere è ancora vivido, dopo anni: «Non si sono mai rivolti a Matilde come mia figlia, ma solo la bambina, già a me questa cosa faceva male, non c’è delicatezza. Poi abbiamo dovuto fornire un’infinità di fotografie che provassero che io c’ero sempre stata. Fotografie nostre, private, di coppia e altre in situazioni di socialità. Ho persino dato quella in sala parto, quando tenevo in braccio Matilde ancora sporca di sangue».

Si definiscono però fortunate, Alessia e Alessandra, perché la loro richiesta si è conclusa in positivo dopo solo un anno. Sono stati però necessari colloqui con psicologi e assistenti sociali e sentenze del tribunale per sancire ciò che le due donne sapevano già da quando hanno iniziato il percorso di procreazione assistita in Spagna, ovvero che sono già una famiglia.

delicatezza»

«Se fossimo stati un Alessio e una Alessandra sarebbe stato tutto diverso, a partire dalle spese economiche, perché tutti i farmaci necessari a portare avanti la gravidanza sarebbero stati prescritti e “passati dalla mutua”, come per le coppie etero», afferma Alessia. «Non siamo però un Alessio e una Alessandra e per molti questo si riduce al fatto che abbiamo comprato nostra figlia, purtroppo».

Solo un eventuale intervento dello Stato – e del Parlamento attraverso una legge – potrebbe a questo punto livellare la disparità di diritti che esiste fra cittadini dello stesso Paese sull’unica base del rispettivo orientamento sessuale.

La rete delle Famiglie Arcobaleno si sta già muovendo attraverso una resistenza civile attiva, che nel mese del Pride, giugno, si intensificherà, ma ha già come obiettivo una proposta di legge popolare. Il cambiamento, se arriverà, sarà dal basso. ■

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«Non si sono mai rivolti a Matilde come mia figlia, ma solo la bambina, già a me questa cosa faceva male, non c’è
1. Manifestazione delle Famiglie Arcobaleno a Roma, 26 marzo 2023 2. La presidente dell'associazione Famiglie Arcobaleno, Alessia Crocini, parla dal palco 2

luglio 1944

San Frediano, la ferita e i gappisti

I rapporti dell’Oltrarno con il regime fascista e come questi portarono all’efferato eccidio di Piazza Tasso

Le case in San Frediano sono strette e lunghe, si incastrano tra di loro come in un puzzle e si adattano alla perfezione con il dedalo di stradine che è l’Oltrarno. I balconi in San Frediano non esistono, ma ai suoi abitanti non è mai servito guardare fuori dalla finestra per saper vedere oltre.

Negli anni Trenta e Quaranta del Novecento il mestiere più diffuso è quello dello sceglitore: orde di ragazzini battono le strade in cerca di stracci, pezzi di metallo e di carta da portare nelle botteghe. È un quartiere malfamato, ma in cui c’è un grande senso di comunità e attecchiscono le varie sfumature del pensiero della sinistra italiana. Dal mazzinismo, passando per il socialismo, fino al comunismo che avrà un grande ruolo nella storia politica del quartiere durante il fascismo e nella lotta per la liberazione di Firenze. Durante l'epoca fascista il capoluogo toscano è una città doppia: «Per

Firenze si parla di due estremi – spiega Carmelo Albanese, storico e collaboratore dell’Istituto della Resistenza toscana – Erano presenti i picchiatori del regime, quelli che avevano fatto la marcia del ’22, ma anche alcune delle forme di resistenza più significative al fascismo, come il caso di San Frediano».

Nonostante i tentativi di infiltrarsi nell’associazionismo di quartiere e nei sindacati in fabbrica, il rione dell’Oltrarno non abbassa mai la guardia.

Quando l’avvento del regime sembrava ancora un incubo, si era distinto per i tumulti che seguirono l’omicidio del socialista Spartaco Lavagnini e, anche durante il ventennio, al fascio fiorentino il controllo sulla popolazione scivolava via facilmente. Dopo l’armistizio di Cassibile dell’8 settembre 1943, l’Oltrarno si risveglia con il suono dell’Internazionale e di lì a breve iniziano ad agire, come in

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di Leonardo Pini
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tutta Firenze, i Gruppi di Azione Patriottica (GAP), coordinati da Alessandro Sinigaglia, nome di battaglia «Vittorio».

Non ci vuole molto prima che San Frediano venga identificata come il luogo in cui molti gappisti si rifugiano. Giunti all’ultima boccata di fumo, i vertici cittadini del fascismo decidono di punire quel quartiere che ha resistito fin troppo.

È il 17 luglio 1944: il giorno in cui la polvere da sparo fa scomparire l’odore dei tigli.

L’eccidio di Piazza Tasso

La Gusciana, com’era chiamata anticamente la piazza, negli anni Quaranta non era rigogliosa come è oggi. Non c’erano gli alberi e la superficie era di terra fine, simile a polvere.

Alle sette di sera del 17 luglio 1944, Ivo Poli è già sporco e sudato. Sta giocando ad acchiappino con un amico quando parte la prima raffica di mitra. Gli uomini di Bernasconi, direttore del dipartimento investigativo di Firenze, stanno per perdere il controllo della città e decidono di lasciare un biglietto d’addio.

Scendono dal Poggio Imperiale e attraversano il viale che da Porta Romana arriva in Piazza Tasso. Il coprifuoco è alle 20 e le persone sono scese di casa per frescheggiare aspettando di rincasare per cena. Saltano giù dalla camionetta e sparano. La seconda raffica è quella che uccide Ivo Poli, che era riuscito ad arrivare sull’uscio di casa, tra le braccia della madre. Insieme a lui perdono la vita anche Umberto Peri, Aldo Arditi, Iginio Bercigli e Corrado Frittelli.

La spedizione punitiva continua con un rastrellamento che porterà alla morte di altre 17 persone, fucilate tra il 23 e il 24 luglio alle Cascine. Solo quattro di loro sono gappisti, responsabili a vario titolo degli attentati che dal dicembre 1943 colpivano con regolarità le forze nazifasciste, tutti gli altri sono civili.

La coda dell’attentato di Piazza Tasso colpisce tutti, come spiega il professor Albanese: «Ci sono dirigenti socialisti e comunisti, c’è perfino un prete che si chiamava Don Emilio Molari. La particolarità è che vengono colpiti anche persone da sempre inquadrate nel regime, ma che avevano disertato la Repubblica di Salò e renitenti alla leva». L’eccidio del 17 luglio è l’ultimo atto di un potere

arrivato al capolinea, che ha vissuto con disagio i mesi precedenti, caratterizzati dalla guerriglia urbana e dall’insicurezza creata dai comunisti.

Prima e dopo il 17 luglio

La furia di Bernasconi e dei suoi si spiega con il nervosismo dato dallo sfaldamento delle difese del fascio fiorentino, corpo ormai estraneo di una città che non vedeva l’ora di tornare ad essere libera. Il primo attentato dei GAP è con-

nel quartiere assume una consistenza tale che il Comitato di liberazione nazionale toscano converge sull’Oltrarno una delegazione che coinvolge tutti i partiti antifascisti».

Proprio per questa loro dimensione, mentre gli Alleati, passando per l’Impruneta e i colli del Chianti, si accingono ad accerchiare le forze nazifasciste, i gappisti di San Frediano, in particolare quelli della divisione garibaldina «Arno», fin dal 5 agosto 1944 iniziano a condurre da soli l’azione di bonifica della città, cercando di stanare i franchi tiratori, cecchini che non avevano seguito i tedeschi nella ritirata aldilà del fiume e sparavano su tutto ciò che si muoveva.

tro il colonnello Gobbi, viceammiraglio del Comando delle Forze Armate, nel dicembre 1943. Ad ogni azione i fascisti rispondono rastrellando, torturando e, se trovati colpevoli, fucilando.

«Il vero momento che ha rilevanza per l’eccidio di Piazza Tasso sono gli scioperi operai del marzo 1944, che in Oltrarno trovarono un grande supporto. Infatti, San Frediano di lì a poco è oggetto di altri due rastrellamenti precedenti quello di luglio. «Nonostante questo –spiega Albanese – la lotta di liberazione

«L’11 agosto, ben prima che gli Alleati entrino in città, i partigiani della divisione Arno hanno assunto il controllo della città e instaurato una giunta comunale che comprende un sindaco socialista, un vice sindaco comunista e uno democristiano: era la prima volta che una città si liberava, in un certo senso, da sola» spiega Albanese.

Nonostante la Battaglia di Firenze termini il primo settembre, con la cacciata dei tedeschi da Fiesole e Sesto Fiorentino, i primi segnali di ritorno alla democrazia vengono conquistati grazie alla riottosità e al coraggio di un quartiere sempre ostile al fascismo, e che storicamente «era stato centrale anche nel tumulto dei Ciompi, perché sempre allergica al potere», chiosa Albanese. ■

1. Monumenti ai partigiani caduti di San Frediano e piazza Tasso

2. Drappo del monumento in ricordi ai partigiani caduti

3. Targa commemorativa delle vittime dell'eccidio in piazza Tasso

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«Era la prima volta che una città si liberava, in un certo senso, da sola»
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Un laboratorio nel metaverso per evadere dal carcere

Un nuovo capitolo si apre nel mondo della formazione professionale in carcere grazie all’avanzata tecnologia proposta dalla start-up italiana DIVE. Immaginate detenuti che indossano visori e guanti futuristici, pronti a intraprendere un viaggio di apprendimento virtuale che cambierà per sempre le loro prospettive di reinserimento sociale. Sì, avete capito bene. La realtà virtuale diventa il motore che alimenta questa rivoluzione nel sistema carcerario.

Ma cosa rende DIVE così unica ed eccezionale? Non solo offre un’esperienza di formazione coinvolgente e stimolante, ma rivoluziona completamente il concetto di sicurezza nelle carceri. Finora, molti detenuti sono stati privati dell’opportunità di acquisire competenze pratiche a causa delle restrizioni di sicurezza, ma grazie ai visori e ai guanti di DIVE, questo ostacolo viene superato.

La formazione professionale in carcere raggiunge nuove vette grazie alla potenza della realtà virtuale offerta da DIVE. Questa tecnologia di ultima generazione trasporta i detenuti in un mondo virtuale, permettendo loro di immergersi attivamente nel processo di apprendimento. Il risultato? Motivazione, interesse e un apprendimento più profondo delle competenze che li prepareranno per una nuova vita oltre le sbarre. Ma c’è di più: l’ambiente virtuale offre un feedback istantaneo e dettagliato, consentendo ai detenuti di correggere gli errori e migliorare le proprie abilità in tempo reale.

Ma l’innovazione non si ferma qui. Il ministero della Giustizia ha accolto con entusiasmo questa iniziativa e ha offerto un forte sostegno al programma. L’obiettivo è chiaro: fornire ai detenuti le competenze necessarie per una reintegrazione efficace nella società una volta

di Giorgio Brugnoli
Coverstory 10 — Zeta HIGH TECH
DIVE, con i suoi visori e guanti interattivi, rivoluziona i percorsi formativi dei detenuti

terminata la loro pena. Grazie alla formazione virtuale di DIVE, le opportunità di trovare un lavoro significativo e costruire una vita migliore si moltiplicano.

Oltre ai benefici per i detenuti, l’approccio proposto da DIVE ha il potenziale per ridurre notevolmente i costi associati alla formazione professionale in carcere. Non sono più necessari strumenti, materiali o spazi fisici costosi per condurre le attività pratiche. La realtà virtuale permette di ottimizzare le risorse e di offrire un’ampia gamma di esperienze formative senza richiedere investimenti significativi.

L’esperienza di formazione virtuale offerta da DIVE ha già catturato l’attenzione di numerosi esperti nel campo della giustizia e della riabilitazione. Si prevede che questa soluzione all’avanguardia possa essere adottata non solo nelle carceri italiane, ma anche in istituti penitenziari di tutto il mondo, rivoluzionando l’approccio alla formazione professionale per i detenuti.

DIVE, specializzata nello sviluppo di tecnologie immersive e formazione virtuale, ha creato un sistema avanzato che consente ai detenuti di acquisire competenze professionali in un ambiente simulato, eliminando i rischi e le limitazioni imposte dall’ambiente carcerario. Grazie ai visori virtuali e ai guanti sensoriali sviluppati appositamente, i detenuti possono immergersi in un mondo virtuale realistico e interattivo, dove possono sperimentare diverse professioni e acquisire competenze pratiche in totale sicurezza.

Uno dei settori in cui questa innovativa soluzione sta ottenendo risultati straordinari è quello dei laboratori. Spesso, a causa delle restrizioni di sicurezza, i detenuti non possono toccare strumenti affilati, parti in movimento o apparecchiature elettriche. La loro esperienza si limita a osservare un dimostratore, privandoli di un’esperienza pratica e coinvolgente. Ma con l’introduzione dei visori e dei guanti di DIVE, tutto ciò sta cambiando.

I laboratori nelle carceri stanno adottando con entusiasmo questa nuova tecnologia. Ora i detenuti hanno la possibilità di svolgere attività pratiche utilizzando le loro mani, risolvendo procedure assegnate come se le stessero effettivamente svolgendo dal vivo. Questa innovazione rappresenta una vera rivoluzione nel modo di erogare e intendere il processo

formativo in carcere, offrendo ai detenuti l’opportunità di acquisire competenze specifiche e aumentare le loro prospettive di lavoro una volta tornati in libertà.

La formazione virtuale offerta da DIVE non solo accelera notevolmente l’apprendimento, ma permette ai detenuti di sperimentare una vasta gamma di esperienze professionali in modo flessibile e scalabile. Grazie alle tecnologie di realtà virtuale e aumentata, i detenuti possono simulare esperienze di laboratorio in modo estremamente realistico, replicando fedelmente ogni dettaglio e movimento. La precisione del codice sviluppato da DIVE consente di risolvere distanze fino a 0,5 mm nel mondo virtuale, offrendo un livello di realismo senza precedenti. Il detenuto “evaderà” dalla propria cella imparando nuove skills. ■

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Costruire una comunità

Nell’esperienza della Scuola Popolare di Viareggio l’esempio di un’azione sociale collettiva che la politica partitica sembra aver perso la capacità di compiere

Dai balconi che sovrastano la porta a vetri che è l’ingresso della Scuola Popolare nel quartiere Varignano di Viareggio, in Toscana, sventolano sempre dei lenzuoli. Di fronte stanno abbandonate, le biciclette dei ragazzini che affollano con i loro libri e quaderni il grande tavolo di legno che occupa gran parte della stanza. Chi passa li intravede, attraverso i vetri pieni di adesivi, tra le pareti occupate dalle cartine geografiche, le scritte e le foto che testimoniano il percorso lungo vent’anni che ha portato la “scuolina” a essere un punto di riferimento in un quartiere segnato dal degrado edilizio, dalle difficoltà sociali ed economiche e dalla povertà educativa.

«L'idea della scuola popolare è nata 20 anni fa in ambito politico, tra i giovani di Rifondazione comunista. La necessità era quella di fare in modo che la politica uscisse dalle stanze, aprirla attraverso pratiche sociali. Sentivamo il bisogno di riappassionare noi del gruppo e di riavvi-

cinare le persone alla politica attraverso azioni concrete». Ludovica Antonini è una delle fondatrici, insieme a Susanna Paoletti, della Scuola Popolare. Quando inizia a parlare del suo progetto seleziona le parole, spenge la sigaretta ancora intera in un gesto che sembra fatto apposta per raccogliere tutta la concentrazione, tutta la cura che merita il racconto di questi anni di impegno di comunità.

Perché questo è la scuolina prima di tutto, questo è rimasta attraverso tutte trasformazioni che ha accolto su di sé per uniformarsi ai bisogni del quartiere. Una comunità.

«Abbiamo avuto subito un grandissimo seguito, sono venuti tantissimi bambini e bambine di tutte le fasce di età. I risultati sono stati buoni anche in termini di frequenza. Questi bambini magari non andavano a scuola ma venivano al “centro”. Lo chiamavano così, il centro. Da noi avevano trovato una comunità e poi

di Silvia Andreozzi
STORIE Italia 12 — Zeta

forse una certa purezza, la possibilità di presentarsi senza etichetta».

Nel tempo la Scuola Popolare è entrata a far parte di una rete di realtà del quartiere che lavorano insieme. La parrocchia, l’istituto scolastico di zona, le altre associazioni si riuniscono, adesso informalmente, due volte l’anno.

«C’è un vuoto della politica che si riesce a colmare solo con una comunità. Io a volte ho chiamato il prete, don Marcello, a volte ho chiamato Nella De Angeli, la dirigente scolastica, ma non nego che anche lei ha chiamato tante volte me o Susanna per inserire nel doposcuola qualche ragazzino, supportare attraverso lo sportello psicologico alcune famiglie. Il legame è molto forte».

Il legame è molto forte anche con le famiglie del quartiere, grazie al doposcuola gestito attraverso il volontariato sono emersi altri bisogni. «Con chi entra a chiedere aiuto abbiamo sempre instaurato un rapporto alla pari che negli anni è diventato anche di amicizia». Così succede che emergano le problematiche legate alla mancanza di dispositivi elettronici, per cui l’associazione si è attivata per comprarli e distribuirli, il bisogno di assistenza psicologica e legale, per cui sono stati predisposti due sportelli, la necessità di un aiuto per redigere il curriculum, per la quale sono state predisposti orari di disponibilità.

«L’altra settimana un ragazzo che abita nelle case popolari ci ha chiamato perché la famiglia ha paura di non avere più i requisiti per rimanerci. Una mamma l’altro giorno ha chiesto il nostro aiuto per rimettere in sesto un parchetto dove portava i suoi figli, ora ventenni. Adesso ci porta i nipoti, l'ha rimesso a posto e ha chiesto il nostro aiuto per chiamare la Sea e portare via lo sporco e per fare la richiesta affinché l’erba venga tagliata periodicamente».

Un pomeriggio una signora che ha portato il figlio a studiare insieme a un’amica da poco arrivata in Italia ha detto a Ludovica che ci sarebbe stato bisogno di insegnare la lingua anche alle donne. Così nell’ultimo anno è iniziato anche il corso di lingua per le donne internazionali.

«Con loro abbiamo iniziato un percorso che è anche politico, di costruzione di un’identità di cittadine italiane. Queste donne cominciano a capire quali sono le istituzioni, dove si trova il comune, come fare delle procedure burocratiche.

Tramite questo corso riescono ad avere un contatto più diretto anche con la scuola dei propri figli. Spesso si pensa che i genitori dei bambini stranieri siano disinteressati perché non si presentano a parlare con gli insegnanti. In realtà c’è la grande vergogna di non riuscire a comunicare».

Per essere efficace questa rete di azioni deve aprirsi anche alla politica istituzionale il cui coinvolgimento è però sempre parziale, mediato dall’associazionismo e dall’attivismo civico. «Siamo assuefatti tutti da un certo modo di fare politica che è mediatico. Oggi i partiti si presentano con le soluzioni in tasca e delle promesse che sul momento portano a un’adesione poi, quando non vengono mantenute, provocano sfiducia e abbandono. Io penso che invece bisogna esserci, creare prospettive. Non è una cosa da poco».

Ludovica parla consapevole del fatto che questo percorso, anche politico, è tutt’altro che immediato, che «ha bisogno di tempo per dare risultati». Anche perché oggi essere attivi sui territori significa prima di tutto creare un senso di identità, di collettività, che non può essere calato dall’alto, mentre l’azione di una politica partitica scollegata dal territorio rischia di fare l’esatto contrario.

«Nei quartieri periferici caratterizzati da una larga componente multiculturale si crea un’ambivalenza. Spesso la solidarietà può diventare divisoria, realizzarsi solo all’interno di determinati gruppi». Ma queste divisioni non sono naturali o inevitabili, provengono anch’esse da una gestione politica diversificata, ad esempio, dell’accoglienza. «Quando l’anno scorso erano previsti in arrivo profughi dall’Ucraina fu diffusa una comunicazione che invitava i dirigenti scolastici a garantire in tempi brevi dei mediatori linguistici per i bambini nelle scuole. Un alunno di altre nazionalità aspetta mesi prima di poter sperare di vedersi garantito lo stesso diritto. Così diventa ancora

più preziosa l’idea di creare una rete di comunità, perché la tendenza politica è di creare divisioni».

Spetta quindi all’associazionismo, capace di azioni che si calano nella dimensione quotidiana delle persone, farsi elemento di comunicazione tra queste contraddizioni. Sempre attraverso interventi concreti. Il prossimo passo per la Scuola Popolare è l’organizzazione di un corso di cucina marocchina e pakistana fatto dalle donne del corso di italiano. Così si crea lavoro mentre si costruisce una comunità. ■

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Un antico inganno di legno

TRADIZIONE

Le origini incerte della macchina da pesca, simbolo dell’arte marinaresca

«Dall’estrema punta del promontorio destro, sopra un gruppo di scogli, si protendeva un trabocco, una strana macchina da pesca, tutta composta di tavole e di travi, simile a un ragno colossale», scrive nel 1894 Gabriele D’Annunzio nel suo romanzo autobiografico Il trionfo della morte, per omaggiare la bellezza lussureggiante della natura selvaggia che circonda il litorale abruzzese, dove i protagonisti Giorgio e Ippolita si rifugiano per sfuggire ad una vita interiore molto travagliata.

Assoluto protagonista del paesaggio è il trabocco, un’antica macchina da pesca che, simile ad un grande insetto ligneo caratterizzato da due antenne sporgenti, unisce il blu intenso delle acque marine e il verde scuro degli uliveti che popolano le campagne circostanti, attraverso una passerella fatta anch’essa di travi di legno. Una struttura di cui non si riescono a rintracciare le origini, costruita dall’uomocontadino probabilmente per arricchire l’alimentazione giornaliera della sua famiglia, aggiungendo i frutti del mare a quelli della terra.

Secondo il giornalista abruzzese Enrico Giancristofaro, «non possiamo definire la data di nascita dei trabocchi. Ci sono varie ipotesi anche sull’etimologia del nome stesso: alcune suggestive, altre molto romantiche, altre ancora più concrete e legate a fatti e personaggi storici, sorrette da documenti ufficiali che riguardano il demanio su cui poggiano i trabocchi. C’è chi, basandosi su fonti orali popolari, collega la comparsa dei trabocchi all’arrivo di immigrati ebrei francesi, abili pontieri insediatisi nella località di Vallevò intorno alla metà del XVII secolo, e tedeschi, come il nucleo famigliare degli Heineken (oggi conosciuti nella zona con il cognome Annecchini), anch’essi ottimi artigiani».

Alcuni studiosi locali, invece, affermano in maniera incerta che i trabocchi fossero già presenti sulla costa sin dal Medioevo, quando Stefano Tiraboschi, biografo ufficiale del Papa “del gran rifiuto” Celestino V, nella sua opera Vita santissimi Petri Caelestini (1400-50 ca) riporta la notizia di una visita di Pietro da Morrone

all’Abbazia di San Giovanni in Venere tra il 1235 e il 1240, «sorta sulle ceneri di un antico tempio pagano dedicato alla dea Venere intorno al 1100 d.C.», aggiunge Giancristofaro.

Ma c’è anche chi, attraverso documenti ufficiali sempre risalenti agli inizi del XIII secolo, collega la nascita di queste macchine da pesca all’arrivo di immigrati provenienti dalla Dalmazia, i Vri (antenati dell’attuale famiglia Verì, che ha trasformato la nobile arte dei traboccanti in una redditizia attività di ristorazione). Giunti sulla costa abruzzese grazie ad un contratto di pastinato, i coloni dalmati vennero reclutati per deforestare e lavorare le terre circostanti, che però non erano sufficienti al sostentamento delle loro famiglie.

Da qui, la necessità di reinventarsi, riutilizzando il legname di scarto per costruire «uno strumento terrestre con interessi marini: il trabocco, costituito da una passerella che si protende sul mare, alla ricerca di acque più lontane, ma poggiandosi sugli scogli. Dotato di un casotto per ripararsi dalla pioggia e di un argano collegato ad un sistema di carrucole alle quali erano attaccate le reti, esse venivano abbassate in mare ogni 5-10 minuti, in un continuo saliscendi. La rete doveva rimanere sempre a pelo d’acqua, dove i pesci come i cefali e le seppie sostavano per poi rimanere intrappolati. Insomma, il funzionamento era semplice, come un piccolo inganno», descrive sorridendo Giancristofaro.

Purtroppo oggi, ciò che rimane di questa antica arte ittica è solo la struttura dei

trabocchi, che dominano ancora la costa, in quanto «oggi nghe lu trabocche ngi sfim manghe na gatt, ma ji ci so sfamat sett fije» affermava Masino Verì, l’ultimo vero traboccante scomparso pochi mesi fa. Infatti Giancristofaro aggiunge che «con loro 15 anni fa è finita l’era dei traboccanti puri ed è iniziata quella dei trabocchi come attività turistiche. Prima i traboccanti avevano l’usanza di invitare all’inizio dell’estate gli amici più cari e le personalità di spicco del territorio per mangiare il pesce pescato sul trabocco. Io ho avuto la fortuna di partecipare tante volte e di assistere anche ad un momento magico, che è quello della calata delle reti in mare. Da lì, il passo è stato breve: c’è chi ha iniziato a chiedere “posso invitare qualcuno?” oppure “posso organizzare una festa? Tu cucini e io ti pago”. Questo è stato anche un modo per mantenere in vita i trabocchi, sebbene poi si sia trasformato in un business».

Ma con l’emanazione della direttiva europea Bolkenstein nel 2004, che auspica una de-regolamentazione a tutto tondo del mercato europeo, la proprietà dei trabocchi è stata messa in discussione in quanto ritenuti concessioni demaniali. Una situazione che permetterebbe «un giorno ad una multinazionale cinese di servire sushi qui sopra», afferma amareggiato Giancristofaro, alla quale però ci sarebbe una valida soluzione. Nel maggio 2022, le regioni Abruzzo e Veneto hanno proposto la candidatura del trabocco come Patrimonio immateriale dell’Unesco, «simbolo dell’arte marinaresca e della pesca sostenibile. Un bene che porterebbe ricchezza per tutti». ■

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Italia

L’equilibrista sul mare

Le pinne argentate guizzano, destano le acque intorpidite, schiaffeggiano le correnti. Le truppe dei tonni, schierate nel sale, scivolano lungo trincee di sabbia, ignare dell’agguato delle reti. Il nemico, appostato sulla muciara, ha escogitato l’attacco. Il rais, il capo della tonnara, ha intuito le vie dei venti e il temperamento del mare e ora, sulla piccola imbarcazione, tende un’imboscata in equilibrio tra la vita e la morte. Basta un cenno e i tonnaroti a bordo degli scieri accerchiano le reclute disorientate, issano i lembi delle reti e capovolgono le maglie degli abissi e della superficie. Incitati dalle grida del rais, i pescatori galleggiano sulla camera della morte, il grembo dove ciascuno culla l’altro con la cialoma, l’incessante cantilena di buon auspicio. Gli arpioni rilucono tra le mani ruvide, gli schizzi di acqua e di sangue aggrediscono i volti spaccati dalla fatica, la schiuma fende le chiglie scomposte.

«La mattanza rappresentava il momento più cruento della pesca del tonno, ma costituiva una violenza esercitata dall’uomo nei confronti degli sfortunati animali soltanto allo scopo di garantire la sopravvivenza della comunità. I tonnaroti non si arricchivano mai, ma lavoravano unicamente per garantire un morso di pane in bocca in più alle loro famiglie.

Non si trattava di un mero spettacolo o di un capriccio, come invece avviene per la corrida», spiega Fabio Morreale, Presidente dell’associazione naturalistica e culturale Natura Sicula. «L’operazione richiedeva un grande impegno fisico e intellettuale e non ammetteva errori, perché un colpo sbagliato avrebbe messo a repentaglio l’intera pesca». Lo stesso rais, che era «il regista, e non il produttore, della mattanza», impiegava grande concentrazione per evitare di cadere nelle acque agitate della camera della morte, «perché una tonnara senza rais si sarebbe dovuta leccare a lungo le ferite prima di riuscire a riorganizzarsi».

Sarebbe arduo districare la storia delle tonnare di Sicilia, suggerite nel primo millennio da voci arabe, dalle pulsazioni dei borghi marinari aggrappati alle coste. «I tonni, nuotatori solitari nelle correnti

invernali dell’Oceano Atlantico, allo scoppiare della primavera assecondano gli impulsi riproduttivi e migrano in branchi verso l’incubatrice del Mar Mediterraneo che, grazie alle calde temperature delle acque, favorisce la schiusa delle uova», spiega Morreale.

Per secoli i tonnaroti hanno sbarrato dagli scogli la marcia dei pesci. Il sistema di pesca della tonnara fissa prevedeva l’immersione nei fondali di labirinti di reti che intrappolavano i tonni in tranelli di camere comunicanti. L’ultima, la camera della morte, adescava i pesci per la mattanza: la rete tesa sulle sabbie, issata dai lembi, costringeva i tonni ad abbandonare le profondità per cercare rifugio in superficie. Prima di cadere sotto i colpi violenti dei pescatori, gli animali dimenavano le code come Menadi in preda alla frenesia dionisiaca.

Gli stabilimenti che accoglievano le prede arrese alla brutale cattura brulicavano di ciurme dalle spalle larghe, che con ganci e corde legavano alle altissime travi dell’appiccatoio le code ormai immobili dei tonni. Dalle stanze superiori degli opifici i proprietari della tonnara, membri di famiglie benestanti, dominavano le operazioni di dissanguamento. Poi nella camparía, la rimessa che forgiava gli attrezzi della pesca, le donne pulivano e inscatolavano nelle latte i tranci bolliti.

Sono riti remoti perché oggi, con l’avvento delle tonnare volanti che intercettano i branchi al largo e che repentine ingabbiano i tonni nelle reti di circuizione, «le tonnare fisse non hanno più senso di esistere». Le coste, svuotate dai consueti visitatori, appassiscono di infertilità. La millenaria tecnica di pesca, «più sostenibile sotto il profilo ecologico perché selettiva, dal momento che non coinvolgeva nella cattura anche tutti gli altri pesci presenti nello stesso specchio d’acqua», ha ceduto al nuovo metodo «meno faticoso e più redditizio».

Secondo Morreale ormai le antiche tonnare, perno della tradizione siciliana, «sono destinate a diventare archeologia industriale». Basti pensare alla Tonnara di Santa Panagia, affacciata sulle sfumature azzurre del mare siracusano, che ha registrato un’ultima, scarna mattanza nel 1970. Due restauri conservativi, «destinati soltanto a non far crollare il poco rimasto», non hanno impedito l’inerme abbandono del bene agli sfregi dei vandali. «Il restauro del nulla» dove, un tempo, tutto esisteva. ■

Zeta — 15
Un filo sottile legava la sopravvivenza dei borghi marinari alle tonnare comandate dai rais
SICILIA
1
1-2. Foto di Lorenzo Attardo 2

L’Aldiquà da difendere

Il Faro di Fiumicino è una realtà che rischia di essere cancellata dalla costruzione di un porto che non tutti vogliono

fottuto»

Italia
«Se c’è un Aldilà sono
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Claudio Caligari
FOTORACCONTO
a cura di Leonardo Aresi e Dario Artale

Dante Alighieri ambientò su questo fianco di costa dove sfocia il Tevere, tra Fiumicino e Ostia, l’imbarco delle anime del purgatorio verso l’Aldilà celeste. Ma ad agitare chi vive oggi su queste spiagge è l’Aldiquà. Il Faro di Fiumicino è un rifugio da difendere. Chi di noi non difenderebbe il luogo dove ha dato il primo bacio, festeggiato con gli amici, imparato a nuotare? Difenderlo: ma da chi?

Nel 2022 la compagnia Royal Carribbean, con un’offerta pari a 11 milioni e 450mila euro, si è aggiudicata la concessione dell’area per realizzare un nuovo porto, complementare a quello di Civitavecchia, destinato a navi di grandi dimensioni. I lavori – che spazzerebbero via il porticciolo e i bilancioni, palafitte sulla spiaggia all’occorrenza utilizzate come set cinematografici – non sono ancora partiti, le proteste sì. “No ai porti criminali” recita uno striscione appeso alla ringhiera di un bilancione. Gli fanno eco due signore dall’aria irlandese. Escono da un confronto tra il comitato che si oppone alla costruzione del porto e il giovane Ezio Di Genesio Pagliuca, candidato sindaco del centrosinistra. Uno schieramento politico che negli ultimi anni ha promosso l’iniziativa del colosso crocieristico. Pagliuca uscirà sconfitto dalle amministrative del 15 maggio scorso, vinte dal centrodestra. Che ne sarà del Faro di Fiumicino resta un’incognita. E resta lo striscione appeso alla ringhiera. Dovremmo difendere i luoghi dove ci siamo rifugiati. ■

Attila che vive sopra il mare

«Ho imparato a cucinare nei mejo ristoranti di Roma: Rebibbia e Regina Coeli». Attila, soprannome di Gianfranco Miconi, ha trascorso diversi anni nelle carceri della capitale. Nato nel quartiere Alessandrino, in una baracca – «e me ne vanto» – ora vive sopra il mare. Ha messo a posto un bilancione colorandolo di blu. Il regista Claudio Caligari, allievo di Pier Paolo Pasolini, ha ambientato qui dentro una scena del suo terzo e ultimo film, “Non essere cattivo”. A lui, che sulle spiagge del litorale ha girato anche “Amore Tossico” e “L’odore della notte”, è intitolato simbolicamente il viale che unisce i bilancioni. Una specie di viale del tramonto. Attila oggi vive di cinema. Lavora a Cinecittà come caratterista. Ma la notte torna sempre sopra il mare. ■

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mi ha salvato dopo l’orrore degli attentati di Parigi»

La famiglia, gli amici e la sua nuova professione sono diventati la rete di protezione dell’ex rugbista, sopravvissuto agli attacchi

«Non ha alcun senso rivangare il male, quello che è successo rimarrà nella nostra memoria e nessuno di noi lo dimenticherà mai, ma bisogna guardare avanti. Per questo ho deciso di non rimanere in contatto con gli altri sopravvissuti agli attentati, che ho incontrato durante il processo per il 13 novembre. La mia salvezza sono stati gli amici, la mia famiglia. Mi hanno esortato a superare quello che era accaduto».

Aristide Barraud parla lentamente. Qualcosa del rugbista è rimasto: il fisico asciutto e scattante, l’occhio sveglio, pronto a cogliere ogni movimento dell’interlocutore, o dell’avversario. In lui c’è però anche molto della persona che ha deciso di diventare, dell’artista. Il tono pacato e l’attenzione nella scelta delle parole lasciano intendere molto di una persona che ha scelto di fare della cultura il proprio mestiere.

Prima di diventare Aristide l’artista era Aristide il giocatore, il numero 10 sul campo da gioco del Marchiol Mogliano, una delle maggiori squadre di rugby italiane, dove crescono quasi tutti i componenti della nazionale. Si era formato sportivamente in Francia e poi era venuto ad allenarsi in Italia, dove la sua carriera stava per decollare.

«Nella mia esistenza non c’è solo un prima e un dopo la violenza, quello sarebbe scontato da dire. È cambiato tutto, la mia professione, i miei amici, il luogo dove vivo e, di conseguenza, il mio modo di approcciarmi alla realtà».

Il 13 novembre del 2015, mentre trascorreva alcuni giorni nella banlieue parigina dove è nato, era uscito a bere qualcosa con sua sorella al Petit Cambodge, il bar dove alcuni attentatori del commando del Bataclan spararono sulla folla che si trovava seduta ai tavolini del dehors. Alice Barraud, atleta circense, è rimasta ferita e Aristide ha rischiato di morire dopo aver usato il proprio corpo per fare da scudo a sua sorella. Il rugbista ha passato giorni in terapia intensiva, in bilico tra la vita e la morte. Poi, fuori dall’ospedale, la riabilitazione e i dolori fortissimi, il tentativo di riprendere a gareggiare e poi l’ultima dolorosissima decisione. «Dopo essere uscito per un po’ ho provato a riprendere ad allenarmi, volevo tornare a giocare il prima possibile. A un certo punto è diventato

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«L’arte
Esteri STORIE

troppo rischioso, soffrivo di dolori terribili e quindi ho dovuto smettere». A quel punto Aristide si è trovato nel secondo buco nero della sua vita. «Non riuscivo più a tenere in mano una palla ovale, o ad avvicinarmi a una tv accesa dove trasmettevano un match di rugby, faceva troppo male». Poi, d’un tratto, l’incontro con l’arte lo ha tirato fuori dall’abisso in cui stava precipitando di nuovo.

Con amarezza sorride mentre si guarda indietro. «Ho passato tutta la mia vita in squadra, circondato dai compagni e dal loro affetto. Nel periodo subito dopo il 13 novembre, invece, ero molto solo. In quel momento la rete di sicurezza sono stati i miei amici, la mia famiglia, che mi hanno convinto a dare una nuova possibilità alla vita. Grazie a loro ho superato il lutto e il vuoto lasciato dallo sport».

Per questo oggi Aristide va nelle scuole e ha persino scritto un libro «Non mi interessa ripercorrere quei giorni, ma far capire alle nuove generazioni cos’è che mi ha portato ad andare avanti. Ciascuno di noi è l’artefice del proprio destino, potrebbe sembrare un concetto banale, ma in realtà non lo è. È importante superare la tendenza del mondo moderno che ci porta a lamentarci sempre, ad atteggiarci come delle vittime. Ho guardato il disastro in faccia, non sono scappato, ma poi sono andato avanti. Ciò non significa schivare il dolore, ma costruire dopo il male. È importante dirlo ai giovani, che vivono in un mondo sempre più complesso. Bisogna ricordarsi che c’è sempre un modo di trasformare».

L’arte, con il collettivo dell’artista JR, lo ha salvato. «A un certo punto ho iniziato a sentire il bisogno di scrivere tutto quello che sentivo, anche sui muri. Ho iniziato a riempire di scritte i tetti, le fotografie e i collage che facevo. Questo lavoro, iniziato dopo la scrittura del mio libro, è stato notato da JR, che mi ha accolto nel suo team, per me è stato un onore enorme».

«L’arte è una valvola di sfogo, quasi come lo era il rugby un tempo. Le due attività hanno qualcosa in comune, anche se rimangono due mondi molto diversi. Ci sono aspetti simili come il fatto che bisogna lavorare tantissimo, oppure la necessità di saper comunicare col gruppo. Con l’energia, la disciplina e la capacità di lavorare sotto pressione che avevo sviluppato durante la mia carriera di agonista sono riuscito a creare cose bellissime». Aristide è rimasto a vivere in Italia, a Venezia, anche se non

vede quasi più i suoi vecchi compagni di squadra. «Non è stata una decisione unilaterale, non volevo tagliare i ponti dal nulla. Semplicemente è successo, ci siamo allontanati. Oggi la mia rete si è trasformata e frequento persone molto diverse dai miei vecchi colleghi. In 8 anni il mio mondo e la mia vita sono totalmente cambiati, ma mi piacciono molto». A giugno inaugurerà la sua prima grande installazione, nella piazza davanti al Centre Georges Pompidou a Parigi. «Sarà un grande murales, un’installazione dove chiunque potrà entrare, passeggiare, scrivere e partecipare con il proprio corpo. Oggi la mia ricerca si concentra soprattutto sul potere trasformativo dell’arte. Per trasformazione faccio riferimento alla capacità di saper cambiare il mondo che ci circonda, ma anche noi stessi».

Sua sorella Alice continua a fare la trapezista. Mentre prima «faceva sognare la gente con le sue braccia», oggi ha dovuto reinventare il suo modo di esibirsi e ora i suoi ricevitori la recuperano tenendola per i piedi, dopo che si è lanciata nel vuoto. Entrambi hanno partecipato al processo per gli attentati, che si è svolto a Parigi e si è concluso solo la scorsa estate. «Per me era importante andare al

processo e portare la mia testimonianza, perchè credo nella giustizia e nella capacità della mia nazione di reagire davanti all’orrore. Ma non voglio leggere nulla di più dentro la mia partecipazione. Sono andato, ho raccontato la mia storia e sono uscito. Non ho più nessun contatto con gli altri sopravvissuti, anche se ne ho incontrato qualcuno. La vita è troppo grande, troppo bella, per sprecare anche solo uno dei 365 giorni che ci sono in un anno per pensare a un fatto terribile che ha certamente unito tutte le nostre esistenze, cambiandole per sempre, ma che non ha più nulla da insegnarci. Ora tutto è nelle nostre mani, nella nostra capacità di reagire». Nel libro in cui lo scrittore francese Emmanuel Carrère racconta il processo del 13 novembre, «V13», Aristide e sua sorella sono i protagonisti di un capitolo dedicato alle testimonianze delle parti civili. L’autore scrive di aver pensato «che Aristide e Alice ci parlino è già giustizia». Nella coscienza di Aristide giustizia è già stata fatta, lo sguardo e la fronte sono sereni, rilassati. «Quello che sto vivendo è molto più bello e appagante di ogni sogno che avevo, più bello di un mondiale o di un’olimpiade, perché ho saputo trasformare, ricostruire da zero». Che Aristide riesca a dire questo è già giustizia. ■

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L’accordo che scongiura un processo storico

La causa di diffamazione a carico della rete americana Fox News si è conclusa il 18 aprile, quando le due parti hanno deciso per il patteggiamento

I 787,5 milioni di dollari che Fox News pagherà a Dominion Voting System, una società privata che produce apparecchiature per il voto, non ricuciranno la ferita nel cuore democratico degli Sati Uniti.

Nel marzo 2021 Dominion ha intentato una causa di diffamazione da 1,6 miliardi di dollari contro Fox News, sostenendo che la rete, i suoi conduttori e gli ospiti abbiano consapevolmente diffuso informazioni false sull'integrità delle macchine per il voto di Dominion e sul suo ruolo nelle elezioni attraverso la trasmissione di affermazioni infondate di frode elettorale.

Più di un anno dopo, martedì 18 aprile, il processo viene interrotto da un

accordo dell’ultimo minuto con cui Dominion Voting System ha ottenuto una compensazione per i danni alla sua reputazione, pari nemmeno a un terzo di quanto aveva richiesto inizialmente. Da parte sua, la rete conservatrice non ha apertamente ripudiato le false affermazioni secondo cui le tecnologie Dominion sarebbero state utilizzate per capovolgere i totali dei voti dall’ex presidente Donald Trump a Joe Biden, limitandosi ad una dichiarazione: "Riconosciamo le sentenze della Corte che ritengono false alcune affermazioni su Dominion. Speriamo che la nostra decisione di risolvere amichevolmente questa controversia con Dominion, invece dell'acrimonia di un processo divisivo, consenta al Paese di superare questi problemi".

Esteri
20 — Zeta
di
USA

"Questa è davvero la prima volta che qualcuno ha pagato un prezzo per aver detto bugie sulle elezioni del 2020 e ne siamo molto orgogliosi", ha detto l'avvocato capo di Dominion, Justin Nelson, alla CNN, sottolineando quanto una visione condivisa dei fatti nazionali sia vitale per la sopravvivenza della democrazia.

Secondo i termini dell’accordo però non sembra sia stato richiesto ai conduttori di prima serata di scusarsi in onda. Al contrario, la causa ha avuto un’enorme risonanza mediatica in tutto il paese – e nel mondo - tranne che su Fox News. Secondo una stima del New York Times il principale canale conservatore americano vicino al GOP ha coperto solo tre volte il raggiungimento dell’accordo tra le parti nelle quattro ore dopo che il patteggiamento è diventato pubblico, per un totale di circa 6 minuti di copertura. I temi di maggiore rilevanza rimanevano quelli tipici: l’immigrazione clandestina e le possibili origini del Covid-19. Già la sera di martedì, l’unico articolo di Fox News sul caso Dominion era sceso in fondo alla home page.

Le conseguenze sono state repentine. “Il principale anchorman di Fox News ha lasciato la rete. I motivi non sono chiari ma sembra evidente che l'estremista di destra Tucker Carlson fosse stanco di seguire alcuni rituali, il che non vuol dire che non abbia partecipato alla deriva mediatica del canale conservatore. Di conseguenza si sono dimezzati gli ascolti e le inserzioni pubblicitarie nella sua fascia oraria” ha detto Lorenzo Castellani, professore di Storia delle Istituzioni Politiche presso la Luiss. Nonostante un’evidente ammissione di colpa e il notevole accordo finanziario, è difficile prevedere un'increspatura nella bolla dei media conservatori e tra i milioni di elettori di Trump che hanno abbracciato le sue bugie sulle elezioni del 2020. “Per capire l’impatto del caso Dominion sull’elettorato conservatore americano si dovranno attendere le primarie, quando il senso di caos politico e culturale potrebbe avere l’effetto di incentivare l’astensionismo tra i repubblicani”.

Con il patteggiamento, Fox ha evitato il proseguimento del processo e dunque né il presidente della rete Rupert Murdoch né le star televisivive come Sean Hannity e Tucker Carlson sono stati chiamati a testimoniare sotto giuramento, evitando anche di svelare ulteriore materiale. "Ma anche senza un patteggiamento è difficile in questo contesto politicoraggiungere un accordo sulla verità".■

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1. Tucker Carlson, ex conduttore Fox News

Il muro della vergogna che divide Messico e Stati Uniti

STORIE

Già nelle poche ore dopo l’abolizione del Titolo 42 sono state compiute azioni che hanno offerto una cupa previsione dei giorni a venire

Una rete, alta due metri e ricoperta dal filo spinato in alto. Questa è la prima immagine degli Stati Uniti che appare davanti agli occhi dei migranti che stanno cercando di iniziare una nuova vita. Giorni passati nel deserto, pensando che non sarebbero riusciti a sopravvivere, un viaggio in cui hanno affidato le loro vite nelle mani degli smugglers, i trafficanti di uomini.

americani, il presidente americano ha sostituito il provvedimento con una nuova serie di politiche di applicazione delle norme di frontiera che avrebbero avuto più o meno lo stesso effetto.

Il 12 maggio è stato abolito il Titolo 42, la legge straordinaria inserita dal governo Trump durante la pandemia di Covid 19. La norma, appellandosi a ragioni sanitarie, permetteva il respingimento in massa dei migranti che volevano entrare in Usa dal confine messicano. Il Presidente Joe Biden ha deciso di revocare questo ordine di sanità pubblica, che aveva bloccato l'accesso al confine per più di tre anni. Mentre si raccontava che il confine era ormai aperto e che Biden voleva che i migranti diventassero

Ora la situazione sta solo che peggiorando. «Con l’eliminazione del Titolo 42, è stata inserita una legge ancora più punitiva verso i migranti: ora abbiamo il Titolo 8. Con questa nuova norma le persone vengono direttamente punite se attraversano i confini», ha raccontato Dora Rodriguez, una migrante salvadoregna che da anni vive a Tucson, Arizona, lavorando come assistente sociale e prestando soccorso ai migranti che cercano di attraversare il confine. Dora è arrivata negli Stati Uniti a 19 anni, nel 1980. È una dei 13 salvadoregni sopravvissuti quando altre 13 persone del gruppo morirono dopo essere state abbandonate dalla loro guida e lasciate a vagare vicino all'Organ Pipe Cactus National

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Esteri

Monument in Arizona. «L’approccio generale dell’amministrazione Biden è quello di creare percorsi legali per l'ingresso negli Stati Uniti e di imporre conseguenze più severe per chi cercherà di attraversare il confine illegalmente», ha dichiarato il segretario del Dipartimento di Sicurezza Nazionale, Alejandro Mayorkas. Presentarsi semplicemente alle porte della nazione non è più sufficiente: i richiedenti asilo possono scaricare un'app e iscriversi a una fila elettronica. Coloro che non avranno prima chiesto asilo in un altro Paese non potranno entrare. Si delinea così un’accelerazione delle deportazioni e una modifica dei colloqui di asilo per renderli più difficili da superare».

Mentre i giornali americani pubblicavano notizie di una ritrovata calma oltre il confine, già dopo poche ore dall’abolizione del Titolo 42, le conseguenze delle nuove misure si potevano vedere chiaramente e hanno offerto una cupa suggestione dei giorni a venire.

Seguendo l'appello dei leader politici di destra dello Stato, vigilanti armati hanno perseguitato e molestato i fornitori di aiuti umanitari durante il giorno e al calar della notte hanno rastrellato i bambini migranti nel buio. Gli eventi hanno fatto seguito a settimane di crescenti tensioni, tra cui l'arresto di un vo -

lontario degli aiuti di lunga data da parte delle autorità federali. Nel mezzo, come sempre, c'erano famiglie disperate che affrontavano un deserto mortale.

Dora Rodriguez stava guidando il camion di volontari dei Samaritani di Tucson e Green Valley-Sahuarita lungo il muro di confine per identificare i richiedenti asilo che avevano bisogno di aiuto.

Un pick-up bianco con a bordo circa quattro vigilantes ha infine affrontato i volontari, accusandoli di lavorare per i cartelli e di essere trafficanti. I vigilantes hanno iniziato a pedinare i volontari e li hanno seguiti per circa 10 miglia lungo la strada sterrata che corre parallela al muro di 30 metri, ha detto Rodriguez. Rodriguez ha detto di essersi «spaventata molto» quando ha capito cosa stesse succedendo.

«È sempre la stessa storia in ogni elezione: vengono fatte molte promesse di cambiare e risolvere il problema dei migranti. Ma il fatto è che la migrazione non è un problema, gli Stati Uniti si fondano sugli immigrati, ma i politici usano questo tema per ottenere consensi politici. Ogni presidente fa promesse che non mantiene, durante la presidenza di Obama ci sono state tantissime deportazioni, e separazioni di migliaia famiglie e anche Joe Biden si sta dimostrando

uguale ai suoi predecessori». «Attraversare il confine è diventato sempre più pericoloso», continua Dora. «Nel 2020 le persone che migravano venivano etichettate come “terroristi” e il muro che da anni avevano iniziato a costruire è stato anche militarizzato. Hanno installato telecamere di sorveglianza, torri di controllo».

«Questo rafforzamento delle frontiere ha ucciso un sacco di persone che cercavano di attraversare, è come un genocidio, vista la quantità di persone che è morta. Dal 2000 ad oggi ci sono più di 4000 persone che ancora non sono state trovate, ma ci sono anche tantissime persone scomparse che nessuno cerca. È veramente crudele quello che succede qui e nessuno lavora per trovare una soluzione».

Si pensava che l’abolizione del Titolo 42, una legge che Rodriguez definisce «un crimine contro l’umanità», avrebbe riportato a una maggiore equità di trattamento dei migranti, invece già dalle prime ore dalla sua abolizione sembra che la situazione possa solo che peggiorare. ■

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Blockchain Week 2023

Il

centro di Roma verso il digitale

Esperti e curiosi del web3 si sono riuniti al Teatro Sistina per discutere le novità su Intelligenza Artificiale, cripto e nft con ospiti internazionali fra summit e corsi di formazione

METAVERSO

24— Zeta
di Yamila Ammirata e Elena La Stella
Tecnologia

Il Teatro Sistina apre le sue porte a metaverso, nft, arte e moda. Sono questi i temi principali che sono stati affrontati durante la Blockchain Week di Roma, che si è svolta dall’otto all’undici maggio 2023. «Da quattro anni questa settimana è il punto di riferimento italiano per tutti coloro che cercano di addentrarsi in questo mondo, sia professionisti del settore web3 e cripto che i più curiosi che provengono da una realtà più tradizionale», racconta Gian Luca Comandini, imprenditore, esperto di blockchain e parte del team di organizzatori dell’evento.

I partecipanti, tra chi ha seguito la diretta in streaming e chi si è ritrovato fisicamente, sono stati circa 1.500 persone nell’arco di quattro giorni. I primi due giorni sono stati di formazione, mentre negli ultimi due si è svolto il Summit, con numerosi ospiti internazionali, come il co-fondatore e COO di Sandbox Sebastien Borget. Aziende importanti sono venute a Roma per ascoltare le novità. «Quest’anno è innegabile che il trend dell’Intelligenza Artificiale sia uno dei cavalli di battaglia di tante aziende che prima facevano fatica a cavalcare il mondo blockchain. Spesso l’AI viene sfruttata per marketing per far parlare di sé», spiega Comandini.

L’imprenditore, in un discorso rivolto al pubblico del Summit, ha analizzato un cambiamento che sta avvenendo da ormai più di 30 anni. «Nel 1990 c’è stato l’avvento del web, il cosiddetto web1, che sarebbe la prima fase. Prima di quel momento il mondo era 100% fisico ed è poi divenuto 75% fisico e 25% digitale. Dopo 15 anni, nel 2005, arrivano i social network e il mondo diventa 50% fisico e 50% digitale. Questo significa che quasi la metà di noi ha trovato lavoro grazie a LinkedIn, la fidanzata grazie a Facebook, vecchi amici grazie a Instagram e così via. Dal 2020, con l’avvento del web3, della blockchain e del metaverso, si stima che il mondo stia diventando 25% fisico e che le nostre azioni siano nel 75% dei casi digitali. Ormai un qualsiasi locale nel 70-80% dei casi riceve pagamenti digitali piuttosto che in contanti. Se arriveremo mai a un 80-90% di dimensioni vissute digitalmente sarà perché l’avremo scelto come mercato di riferimento. Non significa che avremo sostituito la vita fisica ma che potremo fare nel minor tempo possibile cose online e quindi avremo il tempo fisico da dedicare a cose che ci siamo dimenticati di fare in quanto esseri umani».

Si crede che il metaverso diventerà sempre più diffuso nei prossimi 15 anni,

sulla base della durata delle fasi precedenti. Per questo motivo molte aziende stanno riversando miliardi di capitali in questo settore nonostante siano pochi gli utenti attivi.

Tra i tanti progetti spicca quello di The Nemesis, nato nel 2015 come concept e divenuto poi nel 2018 una società svizzera che opera dal Paese in Italia, Albania e altri dipartimenti in Europa. L’ambizione è quella di voler creare l’interazione esperienziale all’interno del metaverso. Le esperienze, che avverranno tramite avatar virtuali collegati all’Intelligenza Artificiale, offriranno la possibilità di interagire con gli oggetti del mondo reale. Il Ceo e founder di The Nemesis, Alessandro De Grandi, ha raccontato a Zeta che il metaverso ha bisogno di tempo, «perché siamo in una fase, mi piace definire, come con Internet nel 1990. Stiamo costruendo questo tipo di nuove interazioni e ci vorrà uno sviluppo tecnologico importante».

Il metaverso sembra essere il prossimo step del digitale che porterà a una rivoluzione delle abitudini e dei costumi dei cittadini, ma ancora è ancora difficile prevedere quanto tempo sarà necessario perché diventi uno strumento comune per la maggior parte della popolazione. «Sicuramente i giovani delle nuove generazioni non vogliono essere solo spettatori, ma vogliono creare contenuti. Il metaverso può crescere con i contenuti solo se ci sono i Creator».

La caratteristica di The Nemesis è che può fornire un vero e proprio assistente virtuale, che potrà essere utilizzato nella quotidianità: nei negozi e negli uffici. «Entro in un negozio, trovo un bot e un QR Code, lo inquadro con l'applicazio -

ne di The Nemesis e compare un avatar intelligente. Questo avatar, su cui è stato effettuato un training, mi potrà aiutare su quelli che sono i servizi e i prodotti del brand e dello store. Ma cosa succede se l'utente gli fa una domanda che non era prevista? Ecco che si collega a ChatGPT e quindi ha all'assistenza di un'Intelligenza Artificiale generalista che ha accesso a internet». ■

Zeta — 25

Algoritmi contro i pregiudizi

chiedere a GPT-3, versione precedente di ChatGPT, di analizzare le parole usate nel coprire il fatto di cronaca, dimostrando «come un modello linguistico ideato per generare testi può essere usato anche come strumento di ricerca per analizzarli». Un approccio innovativo e interdisciplinare che l’ha portata a essere premiata tra gli studenti più promettenti di tutti gli Stati Uniti.

Quando alla premiazione ha sentito il suo nome chiamato sul palco non poteva crederci. «Ero scioccata, come mai in vita mia», dice Emily, «oltre che del riconoscimento, sono onorata di aver mostrato che la ricerca sulle scienze sociali è ricerca a tutti gli effetti».

Emily amministra un’organizzazione no-profit, la Girls Computing League, che contribuisce a fornire un'istruzione di alta qualità nelle discipline tecnico scientifiche a persone di ogni estrazione sociale. Crede nella giustizia sociale e negli sforzi per rendere il mondo un posto più equo, ma la sua passione nel voler contribuire era soffocata dal fatto che «i gruppi di ricerca in economia, scienze sociali e sociologia in genere non accettano studenti delle scuole superiori», continua la studentessa. «Dovevo essere in grado di contribuire con un'abilità o un'idea nuova, non avevo un dottorato o esperienze di ricerca».

Non solo creazione di contenuti, le AI generative offrono diverse opportunità di sperimentazione

INNOVAZIONE

Gli algoritmi di intelligenza artificiale replicano i pregiudizi degli umani e spesso li amplificano. La ricerca lo ha rilevato da tempo: le macchine sono costruite per emulare il comportamento delle persone e, nel farlo, imitano anche gli atteggiamenti discriminatori che emergono dai dati usati per addestrarle. C’è chi ha dimostrato, però, che è possibile usare l’AI anche come strumento per riconoscere le discriminazioni.

«Io volevo capire come i media parlano delle minoranze, usando l’intelligenza artificiale in un modo nuovo», dice Emily Ocasio, 18 anni, studentessa alla New School del Northern Virginia (ma già ammessa alla Stanford University).

Emily ha provato che algoritmi e reti neurali possono essere validi alleati per riconoscere i pregiudizi delle nostre società. Le sue intuizioni le sono valse il se-

condo posto al Regeneron Science Talent Search, il più antico e prestigioso riconoscimento per studenti di matematica e scienze negli Stati Uniti, che prevede un premio da 175.000 dollari.

Il suo progetto ha provato che i minorenni vittime di omicidio ricevevano un trattamento diverso dai giornali a seconda del colore della pelle: i ragazzi bianchi erano più «umanizzati» nel racconto dei giornali rispetto ai ragazzi neri, trattati invece in maniera impersonale. Emily ha analizzato, con l’aiuto delle macchine, oltre un milione di articoli di giornale, tutti quelli pubblicati dal Boston Globe, il quotidiano di Boston, tra il 1976 e il 1984.

Dopo una prima selezione, ha confrontato quelli utili alla sua ricerca con i corrispondenti report dell’FBI, nei quali venivano riportati i dati anagrafici delle vittime. Poi ha studiato dei comandi per

Il suo successo è dovuto all’approccio interdisciplinare, al fatto che sia riuscita a bilanciare l’aspetto informatico-statistico a quello sociologico. Emily ne è consapevole. «L’utilizzo di GPT-3 è stato fondamentale, ma lo è stato altrettanto l’approccio intersezionale e il modo sfumato di esplorare l'"umanizzazione" al di là del linguaggio razzista e dispregiativo». D’altronde lei ha detto alla macchina come effettuare le comparazioni, sfruttando la sua potenza statistica.

Ora spera di continuare la sua ricerca su dati più recenti e in autunno inizierà a frequentare l’università, «felice di essere in grado di coprire quasi tutte le tasse universitarie con i soldi del premio!».

Anche per questo dice di sentirsi fortunata, ma soprattutto perché ha avuto l’opportunità di coltivare «due passioni completamente diverse mentre era ancora al liceo, per poi essere in grado di unirle. Temo che la maggior parte dei liceali americani non abbia accesso a un'istruzione di alta qualità, figuriamoci in più campi». ■

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1. Emily Ocasio (la prima da sinistra) premiata al Regeneron Science Talent Search

La scuola ai tempi dell’AI

La sempre maggiore diffusioni di strumenti di Intelligenza Artificiale impone di ripensare i metodi di lavoro in classe

Il moderno sapiente non è quello che ha tutte le conoscenze, ma quello che sa dove andarle a cercare. Un detto entrato in crisi il 30 novembre 2022, il giorno in cui OpenAI ha rilasciato al pubblico ChatGPT. Con l’intelligenza artificiale abbiamo a disposizione strumenti che non ci mettono più soltanto le informazioni a disposizione, ma le ricercano e le organizzano su nostra richiesta. La novità ha generato panico diffuso nel comparto scuola, che già immagina un futuro immediato in cui i ragazzi fanno fare i compiti all’Intelligenza Artificiale senza imparare più niente.

Insegnanti di tutto il mondo si sono divisi tra chi ha chiesto misure drastiche per impedire agli studenti l’accesso a questi strumenti e chi, partendo dall’assunto che fuggire dal progresso non ha mai prodotto buoni risultati, ha invece individuato la necessità di abituare alunni e professori a lavorare con l’AI.

«Ciò che affascina è la possibilità di operare a diversi livelli, dal brainstorming alla sistemazione editoriale», spiega Sergio di Sano, docente di Psicologia dell’Educazione all’Università Gabriele D’Annunzio di Chieti.

Come per tutti gli altri strumenti la differenza la fa il modo di usarlo: «La chat può aiutare a pensare, ma la parte originale ce la mette l’utente. L’uso “stupido” è farle una domanda e accettare acriticamente la risposta, più efficace può essere farle dare tre risposte a uno stesso quesito e poi usarle per fare una sintesi o scoprire nuovi spunti».

Dal punto di visita dello studente, la chiave è quindi l’uso critico dello strumento, tenendo presente che «la scuola non è un posto dove si va per imbrogliare, ma per ottenere nuove conoscenze».

Compito del docente è quello di sviluppare una cultura che dia meno importanza al voto e di più alla capacità di ragionamento. Inutile dunque contrastare strumenti che a breve entreranno in classe di forza.

«Quello che cerco di insegnare ai miei ragazzi è che la chat non è la Bibbia e prima di utilizzarla va addestrata con fonti certe, come il libro di testo», racconta Alessandro Cerritelli, professore di musica di una scuola media, spiegando che gli alunni devono imparare a riconoscere limiti ed errori della chat e a quel punto possono usarla per compiti di sistemazione grafica o editoriale.

L’altro aspetto in cui l’AI può aiutare i docenti è l’integrazione: «La chat risulta molto utile per gli alunni NAI (Nuovi arrivati in Italia) perché li aiuta a superare le difficoltà dovute alla scarsa conoscenza della lingua, come mi è successo con una piccola rifugiata ucraina».

«L’AI permette anche di sviluppare metodi didattici interattivi che stimolano l’interesse dei ragazzi con disabilità cognitive, oltre ad offrire strumenti di assistenza vocale», aggiunge Alessandro Cerritelli. «La cosa fondamentale è che questi strumenti contribuiscano a superare le disparità e non rischino invece di aumentare il divario tra chi ha maggiori disponibilità di strumenti informatici a casa e chi ne è sprovvisto».

Anche per questo all’interno del PNRR sono stati stanziati oltre 1,7 miliardi per le Next Generation Classrooms, una missione che mira a sviluppare 100.000 classi interattive e fornire ai ragazzi gli strumenti per apprendere le nuove professioni digitali.

Magari il sapiente del futuro (o del presente?) sarà quello capace di dare i giusti prompt alla macchina. ■

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ISTRUZIONE
1. Immagine generata con l’Intelligenza Artificiale 1

Roma al centro del tennis

Tornano in scena dal 2 al 21 maggio al Foro Italico gli Internazionali BNL. Il principale torneo italiano è giunto alla sua 80esima edizione

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a cura di Antonio Cefalù
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Un litro al prezzo di due

Quasi il 50 per cento di perdite lungo le tubature della rete idrica italiana. Dal PNRR 8 miliardi ma i lavori sono in ritardo. A mancare è la prevenzione

ACQUA

A Vicalvi, in provincia di Frosinone, l’estate non scompare mai. O, per lo meno, i suoi effetti. Raccolti lungo i tornanti che portano al punto più alto della città, negli anni i suoi cittadini si sono adattati. Le docce si sono accorciate, dalle fontanelle in strada il getto d’acqua si è col tempo calmato. È però sotto i loro piedi lungo le tubature chilometriche che collegano la centrale idrica ai rubinetti di casa che, goccia dopo goccia, l’acqua scompare.

Un primato ineguagliato quello di Vicalvi. Infatti la cittadina si classifica in prima posizione per inefficienza della propria rete idrica. Con una media nazionale che si aggira attorno al 40 per cento di dispersione di acqua, il comune in provincia di Frosinone raggiunge addirittura il 95 per cento. Un costo aumentato, non per gli abitanti ma per il gestore del servizio, in questo caso Acea Spa, che per ogni litro fornito deve estrarne il doppio.

Dalla Ciociaria il problema si estende a tutta Italia. La vecchiaia degli impianti

ne è una delle cause. Dopo anni di mancati finanziamenti, il 60 per cento degli acquedotti ha raggiunto i 30 anni d’età, superato da un 25 per cento che taglia il traguardo dei 50 anni di anzianità. Dalla centrale, l’acqua viene poi immessa nelle tubature. Alcune ancora in cemento e risalenti agli anni Cinquanta. Secondo l’Istat, al ritmo attuale dei lavori, per sostituire l’intera rete idrica italiana saranno necessari almeno 250 anni.

Durante il governo Draghi, il PNRR offre l’occasione per nuovi finanziamenti e un totale di 8 miliardi vengono destinati alla rete idrica, 900 milioni per la sola prevenzione delle perdite. Lavori necessari, secondo l’allora ministro delle Infrastrutture Enrico Giovannini e ribadito dal suo successore Matteo Salvini, nominato anche commissario per la siccità.

A smorzare l’entusiasmo per i lavori interviene però la Corte dei Conti. Il 17 aprile invia infatti un documento al capo della Lega e ai suoi uffici. Dalle sue analisi risulta che solo 33 dei 124 interventi programmati

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di Lorenzo Sangermano
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verrà realizzato senza ritardi e senza costi aggiuntivi. Ne è un esempio la diga di Rosamarina in Sicilia che, dagli iniziali 8 milioni di budget, ha raggiunto gli attuali 26 milioni. Un aumento dovuto al cambio dei costi delle materie prime e dell’energia secondo i costruttori. I giudici segnalano «gravi problemi nella programmazione e nella pianificazione», concedendo 30 giorni di tempo al ministero per giustificare la situazione.

Ad aggravare la condizione della rete idrica secondo gli esperti è anche la mancanza di prevenzione. Infatti le perdite si compongono in gran parte di eventi eclatanti, come tubi che si perforano e allagano strade o si infiltrano in edifici. Ben visibili quindi ai cittadini e ai gestori, che però necessitano di diverso tempo prima di riportare la situazione alla normalità.

Una delle possibili soluzioni sembra essere l’Intelligenza Artificiale. Questo è quello che pensa il team di Sensoworks, una giovane start-up che si occupa del monitoraggio di infrastrutture civili. «Il machinelearning permette di spingersi oltre. Se prima controllavamo che le condotte non avessero perdite in corso, questo non è più sufficiente. Ora è possibile predirle», dice Niccolò De Carlo, CEO e co-founder.

Nata nel 2020, grazie ai fondi del PNRR stanziati per il settore, ha stretto una collaborazione con un gestore della rete idrica campana. «L’AI ci consente di capire quando e dove un tratto di condotta potrà subire un danno e di quale entità». Il vantaggio dal campo delle perdite sfora anche in quello economico. Infatti, come scrive la stessa Corte dei Conti, è difficile pianificare e fi-

nanziare i lavori se non si conosce dove è necessario intervenire. «Il sistema segnala al gestore i futuri danni strutturali, il luogo e la data in cui si verificheranno. A quel punto si ha in mano uno strumento davvero efficace per saper prendere decisioni riguardo dove investire i propri soldi».

Algoritmi e codici possono non infondere una fiducia immediata. «Non c’è stata molta resistenza perché sono stati i risultati a convincere. Già molti gestori si

stanno rivolgendo a realtà e start-up innovative, anche grazie ai fondi per l’innovazione del PNRR». Software, strumenti di cloud e di predizione del futuro che non possono però ancora contare sul sostegno dei finanziamenti. Infatti, aperti nel marzo del 2022 e pubblicati i risultati agli inizi del 2023, a bloccare i bandi per l’inizio dei lavori è un ricorso al Tar. Al centro della contesa, le aziende pubbliche di Lazio, Marche ed Emilia-Romagna.

Il loro ritardo viaggia parallelo con la peggiore stagione di siccità che il Nord Italia abbia mai affrontato. Non mancano gli avvenimenti atmosferici improvvisi, come il caso dell’alluvione a Ravenna e Bologna, che toccano un nuovo record già a metà del 2023. Completa la situazione l’annuncio di un’estate con temperature sempre più alte e il ritorno del ciclone El Niño. Tutto questo però in perfetto orario. ■

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«Non c’è stata molta resistenza perché sono stati i risultati a convincere»
1. Valvola d'acqua per il controllo della pressione della rete idrica, Pontinia, Reuters 2. Perdite d'acqua in Italia per distribuzione provinciale, Fonte: Istat
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3. Turisti bevono acqua da una fontana di Roma, Reuters 3

Una nuova «civiltà dell’orto» sulle colline laziali

Riserva Aurea è una rete aperta, in cui si condividono spazi, saperi e cibo in nome di un diverso modo di vivere in società

SOSTENIBILITÀ

di Federica De Lillis

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La rivoluzione di Shanti Di Lieto Uchiyama è iniziata nel 2017 a Nespolo, un comune di 192 abitanti in provincia di Rieti, nel Lazio. «I miei figli sono andati via, io e mio marito abbiamo pensato di condividere la nostra casa con altre persone, ispirati da tanti anni di condivisione degli orti».

Riprendere il contatto con la natura, rispettarne i ritmi, condividere con altri una precisa visione del mondo che si distacca dalla vita della metropoli sono le motivazioni principali che hanno spinto Shanti a fondare la Riserva Aurea. Si tratta di un ecovillaggio, un luogo dove sperimentare uno stile di vita comunitario: diverse persone vivono a contatto condividendo un’abitazione oppure entrando in una rete di territori con lo scopo di coltivare, in modo autonomo, i prodotti agricoli e, in alcuni casi, produrre anche l’energia necessaria al fabbisogno del gruppo.

«Abbiamo creato una rete che andava dalle Marche passando per i [monti] Sibillini, per Amatrice, fino alla zona di Zagarolo e altre aree del Lazio. Quando c’è stato il terremoto di Amatrice, mi trovavo lì e ho passato l’inverno a fare volontariato per questa rete, che prima si occupava di condivisione di antichi saperi e di orti, e poi è diventata di supporto alle zone terremotate».

In breve tempo, si è consolidata una comunità di persone che si sono trasferite nella casa di Shanti o hanno preso in affitto abitazioni nel piccolo comune di Nespolo; mentre altri si recavano nell’ecovillaggio per brevi periodi, per sfuggire alle pressioni di Roma, distante 40 minuti. «C’è stato un ricambio continuo di persone perché quelli che erano venuti ad abitare all’inizio poi sono andati via e ne sono venuti altri».

Non c’è mai stato un numero preciso di persone che aderivano al progetto, Shanti parla di una «rete aperta e fluida, chi vuole può unirsi quando vuole».

Progetti come quello della Rete Aurea, benché non siano previsti finanziamenti da parte degli enti locali, si traducono spesso in una riqualificazione di territori prima abbandonati o quasi del tutto disabitati.

«Tante persone lì intorno ci hanno affidato i loro terreni in comodato d’uso: invece di pagare un canone di affitto dividevamo con loro i prodotti del terreno. Le comunità che vengono in questa zona appenninica vanno a ripopolare le aree meno abitate e hanno un grande futuro a differenza delle realtà cittadine».

Sebbene l’aspirazione degli ecovillaggi sia quella di una totale autosufficienza dal punto di vista energetico e agricolo, «attualmente non succede perché la gente è costretta, per motivi lavorativi o famigliari, a fare altro e quindi non c’è ancora, anche negli altri ecovillaggi che ho conosciuto, la sicurezza di poterti autoprodurre tutto. Quando abbiamo avuto molte persone che lavoravano potevamo arrivare anche a più della metà dell’autoproduzione degli ortaggi. Avevamo anche in programma di installare pannelli solari ma quando finalmente è stato possibile non potevamo sostenere i costi», racconta la fondatrice.

Nella Riserva Aurea si praticano tecniche di coltivazioni che aspirano a essere più sostenibili grazie a un minore impiego di acqua e grande attenzione è posta sui consumi energetici responsabili e sull’evitare gli sprechi perché «a breve non sarà più sostenibile avere milioni di persone

nelle città, tutte quante che consumano tanta energia e cibo: non ci saranno le risorse energetiche e forse neanche quelle alimentari. Dobbiamo cominciare a ripensare alla visione globale di quello che è il nostro futuro e dei nostri figli».

Per questo Shanti è convinta che un giorno si assisterà a un progressivo spostamento fuori dalle grandi città, che diventano sempre più costose, frenetiche e inquinate, per abbracciare dimensioni comunitarie più piccole e attente ai legami con gli altri e col territorio.

«La città del futuro per me è quella che alla base ha l’integrazione tra la comunità, la città e l’ecovillaggio. In quei territori in cui ora ci sono soprattutto seconde case, si possono creare comunità e la comunità diventa anche comune, portando a usufruire di una serie di vantaggi. Penso che questo fenomeno si verificherà perché i sistemi urbani sono sempre più fragili». ■

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Combattere la povertà è un gioco di squadra

La rete tra l’AS Roma e le Acli di Roma per aiutare chi è in difficoltà e combattere gli sprechi di cibo

SOLIDARIETÀ

«Recuperare il cibo in eccedenza dell’area Hospitality dello Stadio Olimpico quando gioca l’AS Roma è per noi un fiore all'occhiello perché si tratta di cibo buonissimo e di qualità. È veramente una festa per le persone che lo ricevono. Lo aspettano con gioia». Per Lidia Borzì, presidente delle Acli (Associazioni cristiane lavoratori italiani) di Roma e provincia, la rete che unisce l’associazione di promozione sociale al club di Serie A è un potente antidoto all’indifferenza, alle disuguaglianze e alla povertà. Un compagno di squadra speciale l’AS Roma con cui le Acli di Roma collaborano dal 2021 in occasione di tutte le partite casalinghe. Oltre 2000 i chilogrammi di generi alimentari in eccedenza già recuperati e distribuiti durante la stagione 2022-2023 in corso. Circa 1200 le persone raggiunte. Ben 2.226 chilogrammi invece la quantità di cibo salvato dallo spreco e donato a chi ne aveva più bisogno nel corso della precedente stagione, quella 2021-2022.

L’iniziativa avviata con le Acli di Roma e denominata Offside Food Waste rientra nell’ambito del più ampio progetto, Il cibo che serve, promosso dall’associazione, un punto di riferimento importante per la città di Roma e uno strumento fondamentale per contrastare la povertà mediante il recupero e la redistribuzione del pane, della frutta e di altri alimenti freschi in eccedenza o prossimi alla scadenza.

«Il cibo che serve si colloca in un modello di azione sociale delle Acli di Roma che pone al centro la persona e che mira a dare risposte mettendo in rete tutte le nostre risorse interne con istituzioni, imprese, enti solidali, scuole e Chiesa. L’obiettivo è quello di costruire una rete attorno alla persona e alle sue fragilità» spiega Lidia Borzì. Un circolo virtuoso e un modello di sussidiarietà circolare che, alla distribuzione degli alimenti e alla lotta agli sprechi, unisce anche interventi di esigibilità dei diritti, percorsi di inserimento al la-

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di Maria Teresa Lacroce

voro e di tutela dei lavoratori, e attività di supporto psicologico e contrasto alla solitudine. Inoltre, è un’iniziativa che guarda con attenzione all’ambiente riducendo gli sprechi di cibo.

«Il progetto ha una sua peculiarità storica bellissima che ha al centro il pane, questo cibo preziosissimo, da condividere» racconta Lidia Borzì. L’iniziativa deriva da Il pane a chi serve, il progetto grazie al quale le Acli di Roma recuperano da un gran numero di panifici il pane e altri prodotti da forno in eccedenza, per poi consegnarli alle mense o alle associazioni che sostengono le famiglie povere. Con il tempo il progetto si è ampliato includendo anche il recupero della frutta, della verdura e degli alimenti cotti ma anche dei salumi e del pesce diventando Il cibo che serve.

«Questo progetto è un costruttore di reti ma anche di relazioni», aggiunge la presidente delle Acli di Roma e provincia. In occasione della decima Giornata nazionale di prevenzione dello spreco alimentare, Acli e AS Roma hanno organizzato insieme una cena sociale in cui il cibo in eccedenza recuperato nell’area Hospitality dell’Olimpico per la partita in casa con l’Empoli è stato messo a disposizione delle famiglie in difficoltà riunite presso la parrocchia di S. Stanislao, nel quartiere

Don Bosco. «Ci siamo sentiti tutti parte di una grande famiglia» ricorda Lidia Borzì.

Il recupero del cibo allo Stadio Olimpico avviene poco dopo il fischio iniziale: in breve tempo, gli alimenti vengono collocati in appositi contenitori e trasportati verso il luogo a cui sono destinati. Bellissimo il rapporto che si è creato tra i volontari delle Acli di Roma e lo staff di cucina dell’area Hospitality dello Stadio Olimpico. «Quando arriviamo noi sono tutti contenti e anche emozionati perché vedono che il loro lavoro non viene sprecato. Ci sono pietanze molto ricercate, anche dal punto di vista estetico come le quiche o i bignè alla crema di pecorino e la mini sacher. L’AS Roma ha sempre anche una grande attenzione verso la squadra avversaria: ad esempio quando ha giocato con il Lecce c’erano i pasticciotti, un alimento che generalmente non si trova nelle mense. La frutta c’è, il dolce spesso no» spiega Giulia Di Gregorio, responsabile Sviluppo associativo, Welfare e Servizio Civile delle Acli di Roma e volontaria dal 2003. Si occupa del recupero degli alimenti in eccedenza ma anche degli aiuti durante l’emergenza freddo.

Nel corso della fase più acuta della pandemia ha scelto di non rimanere a casa ma di stare sul campo per prestare

soccorso e dare sollievo a chi ne aveva più bisogno. Al momento della destinazione degli alimenti recuperati c’è anche un’attenzione particolare verso le intolleranze e le allergie alimentari, a partire dalla celiachia, ma anche verso le diverse esigenze e necessità. «Noi ci poniamo sempre in un ascolto attento. L’aiuto che forniamo è un contributo, un alleggerimento della fatica della vita in quel momento. È possibile che la persona aiutata abbia trenta euro per fare la spesa ma magari quei soldi sono necessari per comprare delle medicine», spiega Giulia Di Gregorio. Una «sartorialità» della risposta, aggiunge Lidia Borzì, con al centro la parola «cura»: prendersi cura della persona e delle relazioni. «Io e Giulia abbiamo nel cuore la storia di una coppia: lei lavorava a progetto nelle scuole mentre il marito gestiva un piccolo negozio. Con la pandemia sono stati costretti a chiudere e si sono ritrovati senza lavoro e con un bambino piccolo da mantenere. Ci hanno chiesto aiuto per il piccolo, per avere gli omogeneizzati e noi gli abbiamo detto che potevamo fargli avere anche pasta e altri alimenti. Ci hanno risposto che per loro potevano farcela ma avevano bisogno di aiuto per il bambino. Il giorno più bello è stato quello in cui ci hanno detto che erano usciti dall’emergenza, chiedendoci di destinare gli alimenti a chi ne avesse più bisogno» conclude Lidia Borzì. ■

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Spotify non è contro l’intelligenza artificiale

La nuova sfida delle piattaforme di streaming è nella differenziazione della qualità della musica offerta, non nella lotta all’intelligenza artificiale

È giusto che una canzone composta con l’Intelligenza Artificiale valga quanto un brano scritto da Ed Sheeran? Se parliamo dal punto di vista dell’innovazione, possiamo ancora stare tranquilli. «Nella composizione di un brano, l’artista continuerà ad avere un ruolo fondamentale. L’intelligenza artificiale pesca ed elabora da un database di musica già esistente: in questo senso, guarda al passato». Paolo Canto è A&R, Label Manager e Artist Manager per OSA Lab. Nel suo lavoro, l’Intelligenza Artificiale sta diventando un tema sempre più presente: nelle ultime ore ha fatto notizia la rimozione – in termine tecnico take

down – dal catalogo di Spotify di decine di migliaia di canzoni create con l’Intelligenza Artificiale, a causa di ascolti “gonfiati” dai bot. In particolare, sotto la lente di varie etichette (come la Universal Music Group, la prima a denunciare gli ascolti irregolari) e della piattaforma di streaming è finita Boomy, un’applicazione che permette di compore brani attraverso l’uso di AI.

La decisione di Spotify sul caso delle canzoni prodotte con Boomy, però, non è legata tanto al fatto che si trattasse di brani prodotti tramite software di Intelligenza Artificiale, quanto alle pratiche

Cultura
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SENTIMENTO

di boost illegittime attuate dai soggetti che avevano caricato quei brani, e rispetto a cui Spotify ha rilevato un abnormal streaming con conseguente intervento per far rispettare le proprie linee guida», spiega Teodoro Gargiulo, avvocato esperto di diritti in ambito di musica ed entertainment.

«Oggi la questione che si pone l’industria musicale – ma non solo – è inquadrare il problema dell’Intelligenza Artificiale come tecnologia che permette di realizzare facilmente brani musicali. Questo comporta un sovraccarico di opere che, se poi aiutate da pratiche fraudolente come l’abnormal streaming, rischiano di cannibalizzare il valore economico di ciascun ascolto».

Oltre ai problemi legali, alle possibili manipolazioni del sistema (e quindi le tecnologie di riproduzione o ascolto illegale), l'AI comporta un accrescimento di quello che tra gli addetti viene chiamato poor content, ovvero un contenuto di bassa qualità. «Il problema che oggi ha Spotify è inverso e proporzionale a quando è apparso sul mercato: se prima cer-

cava di aumentare il più possibile la sua offerta, oggi di offerta ne ha troppa». Solo su questa piattaforma, ad esempio, ogni giorno vengono aggiunti 100mila nuovi brani. «In questa ondata di contenuti, parafrasando ciò che qualche tempo fa ha detto l’amministratore delegato di Warner Music Group, Robert Kyncl, non è giusto che il rumore della pioggia valga allo stesso modo di un brano di Ed Sheeran».

Le piattaforme di streaming, perciò, si stanno scontrando con la difficoltà di differenziare i prodotti per qualità, e la facilità con cui l’Intelligenza Artificiale permette di creare canzoni non aiuta: solo per Boomy si parla di più di 14 milioni di download, una fetta importante della musica registrata al mondo.

«Il mio sentore è che la scelta di Spotify rappresenti un primo passo per evitare il caricamento sulle piattaforme di poor content, che si configura potenzialmente sia come registrazione di musica di bassa qualità generata dall'Intelligenza Artificiale sia di tutto quello che musica non è».

Perché oltre al problema della produzione di massa, a livello attuale manca una legislazione che definisca quali sono esattamente i titolari degli aventi diritto dei file digitali.

«Perciò, in un’ottica di differenziazione della musica sulla piattaforma, Spotify usa le armi che ha: se io oggi ho una policy che mi dice che uno streaming fuori controllo è causa di take down, utilizzerò questo strumento per eliminare questi contenuti».

Secondo gli esperti, però, l’industria musicale si sta muovendo con decisione. «A differenza di ciò che è accaduto con Napster, quando non si fu in grado di intercettare la novità del momento, oggi l’industria musicale ha cambiato approccio, sembra essere più recettiva. Il mondo della produzione musicale è anzi tra i più attenti all’innovazione tecnologica: abbiamo capito che la guerra è chi controlla la tecnologia, non impedire che questa avanzi». ■

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1. Interfaccia dell’app Spotify
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2. Cartellone pubblicitario di Spotify di fronte alla borsa di New York, Reuters

«Netflix, abbiamo un problema»

La piattaforma perde un milione di abbonati e deve aprirsi alla pubblicità. Troppa offerta, poche visualizzazioni, pochi profitti

«Houston, abbiamo un problema» è quello che probabilmente stanno pensando i dirigenti delle grandi piattaforme streaming.

È il 1997 e Reed Hastings, un ingegnere informatico laureato a Standford, è costretto a pagare 40 dollari di penale per aver restituito in ritardo il dvd di Apollo 13 a Blockbuster. Gli viene un’idea. Creare un sito in cui si possano prenotare dvd tramite un abbonamento mensile. Quel sito, che si chiama Netflix, nel 2007 arriva a spedire un miliardo di dvd. Hastings

decide di aprire una piattaforma streaming e ottiene una cosa che tutte le emittenti via cavo del mondo avevano sempre sognato: i dati sugli spettatori. Non generici, ma specifici. Quanti episodi in media guarda un utente, quali sono gli attori preferiti e a che minuto si interrompe la visualizzazione.

Con questi dati, chiunque è in grado di decodificare gli spettacoli di successo. Netflix inizia a produrre contenuti originali: Orange is the New Black, Stranger Things e House of Cards di David Fincher.

Cultura
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di Niccolò Ferrero
STREAMING

Attrae grandi autori con una premessa: conceder loro libertà creativa che nessun’altra rete avrebbe consentito.

L’immediatezza dell’accesso a centinaia di contenuti crea nuove abitudini. Netflix non si preoccupa delle valutazioni, ma solo della crescita degli abbonati e più aumentano più c’è bisogno di stagioni complete, tante e subito. Il risultato è una grande quantità a cui corrisponde spesso una scarsa qualità per mancanza di tempo. Le serie originali vengono cancellate dopo l’uscita. È l’analisi costi-benefici che lo suggerisce.

Nel 2020, complici anche le restrizioni dovute al lockdown in molti Paesi, Netflix raggiunge i 221 milioni di utenti iscritti. Pochi mesi dopo però perde più di un milione di abbonati e il dato è in continua crescita. Secondo i dirigenti dell’azienda i fattori principali sono la decisione di estromettere dal mercato la Russia, la Cina e la Corea del Nord e la concorrenza delle nuove piattaforme streaming. «Disney+ si inserisce qua», spiega Emiliana De Blasio, esperta di Cultural Studies e Teorie dell’Audence. «Ha creato un portfolio per tutta la famiglia grazie a serie iconiche come Marvel e Star Wars.»

C’è maggiore concorrenza e la strategia di creare tanti contenuti abbassando

la qualità nel lungo periodo corrisponde a un inevitabile calo degli abbonati. Le esclusive sono deboli, bisogna pagare per vedere molti contenuti, bisogna attendere il giorno prefissato per guardare la nuova puntata e gli utenti si iscrivono a una piattaforma in base alla serie del momento. Per finirla e poi disdire. Questo non aiuta il business.

Un altro problema iniziano a essere i dati. Quello che era un punto di forza dell’azienda. Se i dati sono specifici non esiste una terza parte che li certifica. Ogni piattaforma li raccoglie e li rende pubblici a proprio piacimento. Non esistono metriche affidabili, terze e accessibili che supportino le eventuali scelte di business pubblicitario.

A questo si aggiungono due concorrenti accolte con scetticismo. Rai e Mediaset cercano di copiare il modello dei grandi streamer, ma integrandolo con un servizio che pochi broadcaster hanno: la diretta. In maniera molto diversa: «Mediaset mi sembra ferma. Fino a dieci anni fa attraverso Medusa produceva tantissimo. Oggi la produzione autonoma di Mediaset è molto specifica e riguarda sopratutto reality e contenitori», spiega De Blasio che continua: «probabilmente pensano che il loro posizionamento sia legato a fasce d’età adulte e quindi hanno investito poco. Ma sono i giovani che con-

ducono il mercato. Quello che è dedicato ai giovani può espandersi alle altre fasce d’età, non viceversa. Una volta Italia Uno era tutta dedicata ai giovani, adesso non è più così.»

Tutt’altro discorso per Raiplay, che nel settembre del 2016 sembrava essere nata solo per rivedere i contenuti, mentre oggi si è evoluta e dalla visione è passata alla creazione. «La Rai ha investito tanto denaro e tempo sulla piattaforma che per la prima volta si rivolge a tutte le fasce d’età anche a quelle più giovani», spiega De Blasio. All’interno di questo scenario ci sono le sale cinematografiche. Le piattaforme cercano di ostacolare l’uscita in sala, perché non hanno nessun interesse nel fatto che gli spettatori vedano prima il film al cinema. Allo stesso tempo una produzione non può accedere ai contributi statali se non proietta il film nelle sale. Questo grazie a una legge che cerca di tutelare il cinema, come luogo fisico. La conseguenza è che le produzioni proiettano i film in poche sale di provincia, senza alcuna promozione, in modo da poter usufruire dei contributi statali senza togliere gli spettatori alle piattaforme. È ovvio che è un cortocircuito.

Secondo la professoressa De Blasio, «il cinema ha senso se rimane un evento. Come ad esempio Avatar o gli Avengers. Il problema però è che nelle cinematografie nazionali non ci sono eventi. Allo stesso tempo non si possono abbandonare i contributi statali perché la cinematografia nazionale di qualità sarebbe morta», continua De Blasio. «È anche normale che tutte le produzioni cerchino le uscite nelle piattaforme per avere un ritorno economico, se il ritorno non può essere più in termini di biglietti venduti». Urge una soluzione, ma intanto il mercato è a un punto di svolta.

L’abbonamento non basta più e allora le piattaforme si aprono alla pubblicità, che le aveva sempre distinte dalle tv via cavo. Cinque milioni di utenti hanno già provato il piano base di Netflix che prevede la pubblicità all’interno dei suoi programmi. In un momento in cui l’offerta supera la domanda la visualizzazione sarà più costosa per gli utenti e molte serie saranno proposte con un costo aggiuntivo. Questo sta già succedendo. È una svolta, ancora una volta, che risolve il problema nel breve periodo, ma non sappiamo per quanto potrebbe durare prima di cambiare ancora strategia. E chissà se le piattaforme streaming, per come le conosciamo oggi, tra qualche anno saranno definite come l’Apollo 13: «un fallimento di grande successo». ■

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Tauromachia: un’eredità culturale da preservare

Era marzo del 2014 quando Paolo Mosole, grande appassionato di corride, divenne il presidente del Club taurino italiano «L’obbiettivo era quello di dedicarsi alla diffusione, allo studio e alla condivisione della tauromachia in Italia», racconta Paolo da piazza Vittorio Veneto a Torino

Da allora i soci sono diventati cento e «un terzo degli iscritti ha meno di trenta cinque anni». Mosole gioisce, sa bene che la presenza di ragazzi e ragazze nel mondo della tauromachia è fondamentale perché, solo attraverso di essi, la cultura non verrà persa. «Credo che i giovani

entrino a contatto con il club grazie al sito web in costante aggiornamento, al blog in italiano e agli eventi organizzati dal CTI», spiega il presidente.

I club taurini sono associazioni o organizzazioni dedicate alla promozione e alla difesa della tauromachia, l’arte e lo spettacolo delle corride. Si trovano in tutti i paesi del mondo, anche in quelli dove la cultura spagnola di tori e matador non è praticata e non ha una rilevanza culturale significativa come in Giappone o in Nord America. Essere presidente di un club taurino non è semplice. Bisogna organizzare eventi, dibattiti, conferenze,

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La vasta rete di appassionati del combattimento uomo-toro nel mondo CORRIDA 1
di Caterina Di Terlizzi

far realizzare e consegnare premi e poi i viaggi… molti viaggi. «I nostri soci vengono da tutte le regioni d’Italia. Da Venezia a Palermo, da Roma a Milano, da Torino a Bologna», racconta Paolo dietro alla montatura degli occhiali.

Successivamente, il presidente elenca alcune iniziative del club: «Silvano Porcinai non solo è un nostro socio fiorentino, ma è colui che crea le opere taurine di bronzo da consegnare ai nostri premiati». Ebbene sì, ogni anno il club taurino italiano conferisce ‘il premio alla carriera e personalità’ a una grande figura del mondo del toro. Dai matador di toros: Juan Josè Padilla, El Viti e Ruiz Miguel, fino agli allevatori, in gergo ‘ganaderos’ importanti come Victorino Martin.

Una o due volte all’anno, vengono poi invitati in Italia impresari di grandi arene, matador, banderilleri, allevatori e giornalisti taruini, in grado di aumentare l’aficion, ovvero la passione degli iscritti. Infine, non possono mancare i viaggi che Paolo Mosole organizza in Spagna, Francia e Portogallo per partecipare alle corride, visitare le ganaderie di tori e imparare i primi rudimenti della tecnica del toreo. L’ultimo è stato a Siviglia.

Tra i soci del club taurino in Germania, c’è Orlando Soccavo, compositore che, ispirato dalla tauromachia decise di

scrivere un paso doble per il CTI. Il paso doble si usa per accompagnare l’entrata delle quadrille nella plaza de toros all’inizio della corrida. L’aficion di Orlando ebbe iniziò nel 1985, durante un viaggio con i genitori nella Catalogna francese a Collioure, quando aveva sedici anni. Vide una novillada (corrida di tori più piccoli con uomini più giovani non ancora matador ufficiali), ma «se non fu eccezionale il combattimento, fui però immediatamente entusiasmato. Sentì tutto il potenziale di quel rituale autentico e dall’estetica unica», racconta Orlando, ricordandosi di quel colpo di fulmine taurino che lo ha poi condotto a scriverne musica.

«Dopo essere diventato socio, parlavamo sulla chat del club del pasodoble ‘suspiros de Espana’ di Alvarez Alonso. Si dice che fu composto in meno di un’ora, in un caffè… era nel 1902. Bene, mi prese un po’ più di tempo, un paio di giorni. C’era il lockdown e decisamente il tempo non mancava».

Convivialità ed estrema competenza unita ad una grande benevolenza e apertura di spirito. Sono questi gli ingredienti segreti del Club taurino italiano che si impegna a far appassionare sempre di più i suoi soci, ma anche chi si approccia alla tauromachia per la prima volta. Orlando Soccavo dice che «ogni corrida che si vede è come un primo appuntamento, bi-

sogna cercare di avere rispetto, eleganza e apertura di spirito». Così, grazie alla curiosità che pulsa nei cuori dei soci, la rete taurina si espande fino ad arrivare alle sorelle Giulia e Silvia Bertotti, le più giovani del club, socie da quando avevano sei e nove anni, agli appassionatissimi Remo e sua moglie Liliana di Alba e ad Alberto e Chiara di Roma che aspettano la loro prima figlia, l’hanno già portata ad ascoltare i suoni della Plaza de la Real Maestranza di Siviglia. ■

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1. Matador de toros Andres Roca Rey 2. Matador de toros Juan Joseè Padilla
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3. Matador de toros Josè Maria Manzanares

Se Pinocchio fosse reale verrebbe subito scoperto

Da Mark Frank a Joe Navarro. Alcuni degli esperti mondiali di body language si confrontano su come possiamo interpretare il linguaggio del corpo

PSICOLOGIA

«L’essere umano inganna, ma non dà segnali come Pinocchio». Mark Frank – psicosociologo e direttore del Communication Science Center dell’università di Buffalo, a New York, esperto a livello internazionale di scienze del comportamento, sulla menzogna e l’inganno, facente parte dell’unità comportamentale dell’FBI – mette in chiaro che, se nella fiaba il «naso» del personaggio si allunga e l’inganno si rende evidente, nella realtà, interpretando il linguaggio del corpo, «non possiamo distinguere la verità dalla bugia, con una precisione del cento percento».

Ce lo dice anche Joe Navarro, esperto mondiale di body language, di

comunicazione non verbale, ex agente e supervisore dell’FBI. «Non è semplice individuare una bugia, perché l’essere umano è bravo a mentire. Una delle storie più interessanti è quella che ha riguardato Roderick James Ramsay, una spia condannata nel 1992 per essere stata coinvolta in un giro di spionaggio che vendeva segreti sulle difese europee. È una delle più grandi indagini nella storia dell’FBI. Non sapevamo che fosse una spia, ma quando sono andato a parlare con lui – specifica Navarro –ogni volta che menzionavo un uomo che è stato arrestato in Germania, la sigaretta tremava nelle sue mani e non c’era ragione per lui di essere nervoso. Il ripetersi di questo tremore, ogni volta che parlavo di quella persona, mi ha portato

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di Silvia Morrone

a pensare che ci fosse una connessione fra di loro e questo mi ha spinto ad investigare».

Quando una persona ci parla, ascoltiamo le parole, cerchiamo una conferma di quello che dice nel volto, negli sguardi o nei gesti che possono comunicarci «segnali di angoscia, ansia, nervosismo e preoccupazione, ma non di inganno», perchè «non c’è una via certa per riconoscere la bugia attraverso la comunicazione non verbale. È la scienza che ci dice che noi non siamo molto bravi a identificare l’inganno. Sono gli studi di Paul Ekman».

L’esperto ricomincia dallo psicologo statunitense, pioniere nel riconoscere le emozioni, che ha sviluppato nel 1978, insieme all’omologo Wallace V. Friesen, il FACS, Facial Action Coding System, il sistema di codifica delle espressioni facciali che analizza ogni micro-espressione del viso umano. È il potere di carpire le emozioni, cogliendo le espressioni facciali. Con l’esame dei movimenti muscolari del volto, la persona può esplorare la condizione emotiva di chi osserva.

«Una donna, durante un interrogatorio, era molto nervosa e, invece di calmarsi, si agitava sempre di più, si mordicchiava le labbra, si toccava il collo e si sfregava la fronte. Io le ho detto: ‘Sembri molto nervosa’, e poi le ho chiesto: ‘C’è qualcosa che ti dà fastidio?’. Ho pensato che volesse confessare qualcosa, ma lei mi ha risposto: ‘Quando ho parcheggiato, il tempo per la sosta era limitato. I minuti stanno passando, non voglio prendere una multa’. Avevamo letto i giusti segnali ma la causa non era perché lei fosse colpevole, ma solo perché non voleva essere sanzionata per avere parcheggiato illegalmente».

Quando c’è una continuità tra le parole dell’interlocutore e i segnali che il suo corpo invia, possiamo comprendere l’altro. Frank prosegue, delucidando che «alcuni metodi di lettura possono individuare un inganno con una stima dell’ottantacinque percento. I bugiardi sono meno disponibili, tendono a riferire dettagli meno rilevanti sul crimine e ad avere comportamenti incoerenti con le loro parole. I truffatori sono i più bravi in questo perché forniscono un’apparenza, una gentilezza che induce a fidarsi di loro. Con Inside the mind of a Con Artist, il documentario che abbiamo realizzato, lo abbiamo constatato. Sapevamo che si trattava di truffatori, ma se non lo avessimo saputo, molti di questi individui

ci avrebbero ingannato. In un caso, una donna viene interrogata da un’agente di polizia e racconta di essere perseguitata da qualcuno che ha vandalizzato la sua casa. Il suo comportamento sembrava onesto, sincero, ma aveva reazioni gravi, insolite alle domande scettiche e ciò suggeriva che potesse avere una sorta di disturbo dissociativo. Si scoprì che ce l’aveva».

La persona si dissocia, si scollega dal Sé, dalla sua personalità, si scosta dall’identità, dai pensieri, dalle emozioni e dai ricordi. Per queste ragioni, «era stata in cura da uno psichiatra. Quindi la donna stava fingendo di subire stalking e aveva vandalizzato la sua stessa casa».

«Poichè attraverso il dubbio siamo portati all’indagine, e attraverso l’indagine arriviamo alla verità»

L’interpretazione di un gesto non diventa una prova automatica di colpevolezza o di innocenza, come nella serie televisiva Lie to me, in cui il protagonista, uno psicologo, esperto della comunicazione non verbale, riesce sempre a capire quando una persona non dice la verità.

Questo è quello che traspare nel commento conclusivo di Navarro, quando afferma che «non è come nei film, perché dobbiamo dimostrare qualunque cosa se sia vera o no. Se qualcuno ci dice che domenica è stato al museo, alla mostra del David di Michelangelo, dobbiamo provarlo e non possiamo farlo cercando l’inganno». Frank continua

nella disamina, soffermandosi su un episodio che non l’ha coinvolto, ma la cui dinamica dei fatti l’ha molto stupito. È il caso di «Aldrich Ames che lavorava per la CIA». È l’uomo, ex appartenente all’agenzia di spionaggio, in cui svolgeva ruoli di controspionaggio e di analista, che venne incriminato nel 1994 per spionaggio a favore dell’Unione Sovietica e della Russia.

«Ames superò l’esame del poligrafo, ma si scoprirono altre informazioni che suggerivano che qualcosa non andava, anche se il test con la macchina della verità era apparso veritiero».

«L’inganno come ci insegnano anche i filosofi», finisce Frank, «è qualsiasi cosa che ci trae in errore che può essere deliberato o meno, diversamente dalla menzogna, dal bugiardo che inganna deliberatamente, senza preavviso. Una tigre che inganna la preda, confondendosi con l’ambiente, non ha scelto la sua pelliccia per confondersi, ma l’ha scelta l’evoluzione. Quindi è un inganno, ma non è una scelta consapevole della tigre. Anche gli scienziati che studiano il comportamento animale si rendono conto di non poter stabilire con certezza se un babbuino o uno scimpanzè mentono deliberatamente, ma certamente possono ingannare i loro simili».

Nel caso dell’animale, anche in quello dell’uomo, l’incerto può diventare certo, per merito dell’investigazione. «Poiché», come scrive il filosofo Pierre Abélard, «attraverso il dubbio siamo portati all’indagine, e attraverso l’indagine arriviamo alla verità». ■

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1. I Gesti, Gestures, Bruno Munari, Vitra-Weil am Rhein-Germany-August 5 2011 2. Pinocchio, Walt Disney Productions

Un SalTo nel BookTok

Il Salone

Internazionale del Libro di Torino finisce nella rete dei tiktoker che consigliano i romanzi

C’è la ring light, c’è la ruota da girare per avere suggerimenti su che cosa fare nel video e ci sono i booktoker allo stand nel padiglione Oval di TikTok, official entertainment partner del Salone del Libro 2023, che si è tenuto dal 18 al 22 maggio. «Il Salone accompagna gli editori, i lettori e tutti i protagonisti del mondo del libro alla scoperta di nuovi linguaggi», dice Silvio Viale, presidente dell’associazione Torino Città del Libro. «In quest’ottica abbiamo voluto costruire la collaborazione con TikTok: per guidare la comunità dei nostri lettori verso nuovi scenari».

I numeri dimostrano il successo della collaborazione. #SalTo23 conquista circa 50 milioni visualizzazioni, con una crescita del 159% rispetto all’apertura

del Salone, e il profilo TikTok di Salone del Libro (@salonelibro) supera i 17.000 follower, una crescita del 23% rispetto al giorno prima dell’inizio dell’edizione 2023, con oltre 214mila like per tutti i video condivisi sul profilo (+19% rispetto al 17 maggio). I video condivisi dal profilo TikTok del Salone del Libro (@salonelibro) durante i giorni della manifestazione hanno ottenuto 1.7 milioni di visualizzazioni e in meno di una settimana circa 800 video sono stati pubblicati dal Salone del Libro (utilizzando la funzione Posti di TikTok). #BookTokItalia raggiunge 2.2 miliardi di visualizzazioni, #BookTok supera 140.4 miliardi di visualizzazioni e #BookClub tocca quota 14 miliardi visualizzazioni, confermando il successo globale della lettura collettiva. Una lettura gruppo si

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EVENTI
di Ludovica Esposito

è tenuta su TikTok ispirata dal Salone: domenica 23 aprile, Giornata mondiale del libro e del diritto d’autore, è iniziato il primo BookClub italiano sul libro protagonista della XXXV edizione dell’evento: Attraverso lo specchio e quel che Alice vi trovò di Lewis Carroll. «Far parte del primo bookclub italiano di TikTok al SalTo23 per me è un onore, riporta “nella realtà” tutto quello che ho costruito in questi ultimi anni», ha commentato la booktoker Martina Levato, nota sull’app come @levv97 con un seguito di 356.7mila utenti. «La possibilità di comunicare con i ragazzi e spingerli a dare una possibilità alla lettura è una soddisfazione indescrivibile, che non avrei mai pensato possibile».

Il BookTok non si trova solo allo stand di TikTok, ma permea l’intero Salone, tra eventi, come quello di giovedì Dai contenuti in app alle classifiche, così il fenomeno BookTok rivoluziona la lettura e quello di sabato Il Romance su TikTok, come la community di BookTok si approccia ai diversi generi letterari, e pubblicazioni. L’editore indipendente Always Publishing ha distribuito in anteprima il libro Tutta colpa dell’estate di Tessa Bailey, presentandolo come «la serie fenomeno di TikTok finalmente in libreria». Sperling & Kupfer si definisce «la casa editrice del BookTok», ha organizzato gli scaffali con una scenografia che ricordasse il suo profilo social e sul muro campeggia la scritta «I più amati del #booktok», circondata da # con i titoli dei libri pubblicati dall’editore più famosi su TikTok, come It ends with us di Colleen Hoover, definita «la regina del BookTok».

«Siete i lettori giusti nel posto giusto. Benvenute e benvenuti nel Booktok Rizzoli», è scritto sul tappeto all’ingresso

dello stand dell’editore. Sul muro ci sono dei consigli per i lettori: a ogni trope famoso è associato un libro, celebre per quello sul BookTok, pubblicato da loro. Per #darkacademia, una delle ambientazioni più apprezzate con 3 miliardi di visualizzazioni, consigliano Dio di illusioni di Donna Tartt, che ha avuto 5 milioni di visualizzazioni, e lo definiscono «un aesthetic così iconico da renderlo capostipite del dark academia e nuovo fenomeno dopo 30 anni», ricordando che è stato pubblicato nel 1992. Per #historicalromance, con 70 milioni di visualizzazioni, c’è Il cavaliere d’inverno di Paullina Simons, un libro pubblicato nel 2003 con 13 milioni di visualizzazioni che «dopo 20 anni torna tra i bestseller e nel 2023 esce il prequel ancora inedito».

I titoli sono tanti e vari, molti riportati in auge dai video su TikTok. I bookinfluencer sulle piattaforme social ci sono sempre stati, come i bookblogger, i booktuber e i bookstagrammer, ma, al momento, l’impatto maggiore sulle vendite di libri e le letture, riconosciuto anche da questa edizione del Salone Internazionale del Libro di Torino, sembra attribuibile alla rete dei booktoker. ■

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Gli sceneggiatori in sciopero non fanno più paura alla TV

Sospese fino a data da destinarsi le attività degli autori appartenenti alla Writers Guild of America per il mancato accordo con le produzioni

È impossibile non aver guardato o non aver ascoltato il resoconto dettagliato di almeno un episodio di Grey’s Anatomy se si è stati adolescenti negli anni Duemila. Grandi serie tv statunitensi, tra cui anche Lost, per tutto il decennio sono state l’appuntamento settimanale fisso di migliaia di ragazzi e ragazze che ancora oggi non dimenticano i cento giorni più spiazzanti della storia della TV contemporanea: lo sciopero degli sceneggiatori durato dal 5 novembre 2007 al 12 febbraio 2008.

Nel sistema televisivo di quindici anni fa, quando le serie TV iniziavano a ottobre e terminavano a ridosso dell’estate ma venivano scritte e filmate settimana dopo settimana – coprendo un arco di circa nove mesi di lavoro – cento giorni di sciopero significarono soprattutto un drastico taglio del numero di episodi per stagione. Chi quell’anno iniziò Breaking Bad o chi ancora guardava Desperate Housewives dovette accontentarsi di un arco narrativo incompleto e mutilato (di solito da 24 a 13 o 17 episodi).

Lo sciopero in quell’occasione fece pressione sui mancati investimenti pubblicitari e si risolse a favore degli sceneggiatori.

Dalla mezzanotte dello scorso martedì 2 maggio la Writers Guild of America – l’associazione di autori televisivi e cinematografici – ha sospeso ogni attività dopo le trattative, non andate a buon fine, con i rappresentati delle produzioni Amazon, Netflix, Apple, Disney, Sony, Paramount, Warner, CBS, NBC e Discovery, unite dalla sigla AMPTP.

Rispetto a quindici anni fa cambiano le premesse e cambiano le conseguenze. Il mondo della televisione e del cinema si è trasformato a tal punto da non poter prevedere la conclusione della protesta. Tre sono i motivi principali della mobilitazione che ha bloccato la produzione televisiva.

In seguito alla pandemia, ma soprattutto in seguito ai nuovi formati televisivi

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Valeria Verbaro
di
CINEMA

dettati dalle piattaforme streaming, le serie TV nascono già brevi, pensate su otto o massimo dieci episodi. È il nuovo standard, imposto dalle abitudini di visione su Netflix, per esempio.

Una durata minore impone un minor impiego di risorse e quindi anche un minor numero di sceneggiatori assunti su base fissa dalle produzioni. Non esistono più le grandi produzioni da 34 settimane o più, che richiedevano una writers’ room ampia e fissa per l’intera stagione televisiva. Ciò che gli autori e le autrici contestano alle case di produzione è quindi l’aver reso il lavoro di sceneggiatura una professione freelance, nonostante sia da sempre la struttura più salda e la parte essenziale della serialità televisiva americana.

Nel flusso dello streaming, inoltre, non sono disponibili di dati e le percentuali di visione del pubblico, per cui non è possibile garantire agli autori i diritti commerciali su ogni replica di un determinato episodio, fattore che incrementa il malcontento della Writers Guild.

Infine, la preoccupazione maggiore dei professionisti della sceneggiatura è l’assenza di tutele legali o, in genere, di una normativa che regolamenti l’uso dell’Intelligenza Artificiale nella scrittura televisiva. Non è questione di equilibrio con la tecnologia, la Writers Guild chiede la totale garanzia «che ogni autore accreditato sia un essere umano e che anche qualsiasi altro materiale al di là delle sceneggiature e dei soggetti non sia specificamente scritto da ChatGpt o simili».

Non è ancora, tuttavia, il momento di allarmarsi per le nuove puntate delle grandi serie. Le produzioni streaming, a differenza della tv tradizionale, concludono la fase di scrittura e riprese molto prima della diffusione sulla piattaforma, garantendo in anticipo mesi di copertura con nuovi contenuti.

Non influenzando i guadagni pubblicitari però, questo sciopero potrebbe durare ben oltre cento giorni, senza una vera leva su cui fare pressione. Gli effetti immediati in Italia non si vedranno, perché saranno soltanto gli show serali a risentire dell’assenza degli sceneggiatori. Tutti i cosiddetti Late Night che coprono la fascia

della nostra prima serata ma che vanno in onda solo negli Stati Uniti. Se dovesse diventare uno sciopero a oltranza le prime conseguenze si vedranno nei contenuti originali delle piattaforme, film e serie tv ancora in pre-produzione che potrebbero ritardare l’uscita di diverse settimane, come è già stato annunciato per la terza stagione di Abbott Elementary, serie rivelazione degli ultimi anni, e soprattutto per la quinta stagione di Stranger Things, le cui riprese sono state interrotte in solidarietà con lo sciopero. Nell’attesa, rimangono infiniti cataloghi da esplorare, ma il futuro della professione di sceneggiatore, almeno negli Stati Uniti, sembra più incerto che mai. ■

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Abbott Elementary, ABC/Gilles Mingasson

«Si gonfia la rete»

Napoli è campione d’Italia

Il racconto della festa scudetto in città e allo stadio Maradona

«Anni ad ascoltare storie del 1987 e 1990. Oggi la viviamo»: così recita uno striscione appeso a piazza Nazionale. Il Napoli ha vinto lo scudetto. Per alcuni tifosi l’ha vinto a gennaio. Per la matematica l’ha vinto alle 22:03 di giovedì 4 maggio, con un gol di Victor Osimhen. Il Napoli, la squadra, ha vinto lo scudetto e Napoli, la città, ha ripreso a respirare.

Il capoluogo campano era con il fiato sospeso da domenica 30 aprile, da quel pareggio con la Salernitana: mancava un punto vinto sul campo o era necessario che la Lazio perdesse per diventare Campione d’Italia per la terza volta. La squadra di Sarri non è stata sconfitta dal Sassuolo il 3 maggio, quindi, il Napoli doveva almeno pareggiare con l’Udinese se non voleva rimandare i festeggiamenti ancora una volta, a domenica 7 maggio contro la Fiorentina.

La partita inizia alle 20:45. Prima, in città c’è un’atmosfera da vigilia di Natale, con tifosi che comprano bandiere e magliette dell’ultimo secondo. Durante, si sente qualche trombetta e qualche scoppio. Poi, l’Udinese segna e cala un silenzio tombale. Le strade sono deserte, le persone sono raccolte intorno a centri scommesse o bar che espongono un televisore, più è grande lo schermo, più è folto il gruppo che guarda.

L’atmosfera al Maradona

I giocatori sono ad Udine, ma la festa è al Maradona. L’atmosfera fuori dallo stadio è elettrizzante. Fuorigrotta respira al lento movimento ondulatorio delle bandiere azzurre che si stagliano su un cielo giallo che volge al tramonto. Scende la notte su Napoli, ma non sul Napoli che è pronto ad entrare in campo per portare a casa il terzo scudetto. Fumogeni

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CALCIO
Sport
di Ludovica Esposito e Giorgia Verna

tingono in cielo nuvole azzurre, rendendo l’aria meno respirabile, ma anche chi si copre il volto per non sentire i fumi non smette di sorridere, emozionato come un bambino prima di aprire i regali di Natale. Sono dieci gli schermi messi a disposizione al Maradona per seguire gli azzurri. Lo stadio è sold out e ci sono proprio tutti. Gli abbonati, quelli di sempre, si incontrano sorridendo, come in una normale domenica, sorseggiando Borghetti e salutandosi al grido di «Forza Napoli», «Sempre!».

«Sarò con te e tu non devi mollare, abbiamo un sogno nel cuore, Napoli torna campione!», questo è l’urlo del Maradona che si ferma solo a quell’1 a 0 di Sandi Lovric. In un secondo ogni tifoso napoletano rivive non solo quella domenica del 30 aprile contro la Salernitana, ma anche tutte quelle volte in cui il Napoli non ce l’ha fatta. Perché, si sa, il tifoso napoletano vive ogni partita aspettandosi il peggio. Non è scaramanzia, non è superstizione: è la consapevolezza che per ottenere le cose a Napoli bisogna faticare più degli altri per farcela.

Ci pensa lui, il supereroe mascherato, a firmare il pareggio e a far entrare Napoli nell’Olimpo dei campioni: calcio d’angolo raccolto dalla testa di Olivera, Anguissa mette giù e serve un assist perfetto per il georgiano. Mentre Kvaratskhelia tira, tutti si sollevano dai seggiolini azzurri. Gli occhi sgranati, la bocca semi aperta. Tutto nella fisicità del tifoso napoletano medio è immobile. Le mani soltanto si sollevano al viso quando Marco Silvestri respinge il colpo, ma non è finita. Le mani non ricadono lungo il corpo, ma salgono su, al cielo, quando a raccogliere la respinta del portiere è l’interno di Osimhen. Lacrime, tante, tantissime. È l’incontro di tre generazioni. C’è chi torna a sognare ricordando i primi due scudetti

con il D10S, chi invece può finalmente gioire dopo tutti i racconti che sono stati tramandati di padre in figlio. Ogni giovane ragazzo che esce dallo stadio piange, grida, salta, urla commosso e dice: «Quanto ti ho aspettato».

La festa in strada

Quando l’arbitro fischia la fine, esplode la gioia, così come esplodono i petardi. Sembra un secondo Capodanno, che potrebbe durare per le cinque giornate di campionato rimanenti. «Domenica prossima è un’altra festa», esclama un tifoso in piazza. Il Castel dell’Ovo si illumina d’azzurro e viene proiettata la scritta «Ricomincio da tre. Grazie ragazzi!». Un messaggio di auguri e ringraziamento appare anche sulle fermate elettroniche dei pullman: «Campioni di Italia. Grazie Napoli». Il giorno dopo non si parlerà d’altro e i giornali, non solo sportivi, andranno esauriti.

I tifosi festeggiano e chi ha seguito la partita in casa scende per unirsi a chi è già in strada. Anziani, adulti, bambini, uomini e donne si raccolgono nelle piazze di Napoli. In tutte risuonano assordanti

trombette e cori come «la capolista se ne va». Piazza Plebiscito diventa rossa per i fumogeni. Le bandiere sventolano, le più diffuse sono quelle a scacchi bianchi e azzurri, quella con il ciuccio napoletano, l’asino azzurro simbolo della squadra, e quella verde, bianca e rossa con il numero tre. Compare anche qualche bandiera con la croce sudista. Le strade vengono percorse da moto e auto, dai cui finestrini spuntano bandiere, e da persone, vestite di azzurro, che cercano di raggiungere la piazza più prossima per festeggiare in compagnia. Non ci sono lunghi cortei da una piazza all’altra, forse dipende dall’ora tarda, ma i tifosi sono felici di scattarsi foto e celebrare.

A piazza Carlo III, i napoletani sono saliti sulla scalinata del Real Albergo dei Poveri e sventolano da lì le bandiere. Gli altri tifosi strombazzano nella piazza di fronte, sparano i fuochi d’artificio e accendono fumogeni azzurri e rossi. I carabinieri sono collocati agli angoli transennati della piazza e controllano lo svolgersi delle celebrazioni. È difficile respirare o sentire bene, ma questo non scoraggia i tifosi, per ogni gruppetto che se ne va, ce n’è un altro che arriva, e la festa continua nella notte primaverile. ■

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Il Napoli in rete

Lo scudetto è virale anche sui social: sono milioni i video e le foto della festa

di Giorgia Verna

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Sport MEDIA

Il Napoli è virale anche sui social. Sono milioni i post, le foto e i video dedicati alla festa scudetto. Già prima del 4 maggio, però, Napoli era un fenomeno virale e in particolare è la canzone Malatìa ad essere scelta come colonna sonora del terzo scudetto. Il brano di Ciccio Merolla e Amandha Fox è da mesi nella classifica top 10 Spotify Italia e sono 305 mila i video legati alla canzone su TikTok.

Tra i post più condivisi e amati su Twitter ci sono quelli dei giocatori vecchi e nuovi del Napoli tra cui el pocho Lavezzi che ha dedicato alla squadra e Napoli una lunga lettera: «Mi sento in dovere di ringraziare la gente che ha fatto di un sogno una realtà, che rende il popolo napoletano orgoglioso e felice». Spicca anche la foto il campione georgiano Khvicha Kvaratskhelia, che con gli occhi chiusi, in un sospiro di sollievo, scrive: «Se puoi sognarlo, puoi farlo. Un sogno divenuto realtà. Forza Napoli sempre».

«Napoli sopra tutti.

Napoli soprattutto»

L’eroe mascherato Victot Osimhen, invece, posta «Cari Napoletani, lo scudetto è stato consegnato. Ora si fa festa», e che festa. I giocatori hanno condiviso le foto della celebrazione negli spogliatoi con spumanti, balli e linguacce in camera.

Anche il paleontologo e divulgatore scientifico Alberto Angela omaggia Napoli in un post con tanto di foto davanti al murale di Maradona: «La storia di Napoli è un tessuto prezioso al cui trama è composta da diversi fili: passione, difficoltà e Gioia infinita… sono valori veri che ti fanno amare la vita. Complimenti per uno scudetto che questa meravigliosa città merita».

Si unisce alla festa anche Roberto Saviano, che imbraccia la sciarpa della squadra son un enorme sorriso: «Napoli sopra tutti. Napoli soprattutto».

Persino le insegne segnaletiche sulle autostrade e sulle vie extraurbane cambiano faccia e su sfondo nero a scritta gialla campeggia: «4 maggio 2023. Napoli Campione. Grazie Azzurri». Le informazioni sulla viabilità che contano, commentano alcuni.

Tra le foto con più like e condivisioni ci sono anche alcuni tra i più bei striscioni dedicati al Napoli. In particolare i social hanno eletto il loro preferito: «È passat ‘a nuttata». ■

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La Guida di Zeta

La capitale italiana del Veg

I migliori ristoranti vegetariani e vegani di Roma

Negli ultimi anni Roma si è affermata come la capitale vegan-friendly d’Italia. Secondo recenti statistiche, nella Città Eterna si contano oltre 147 ristoranti vegani o vegetariani e 46 negozi di alimenti biologici. Questo successo riflette la crescita esponenziale del numero di persone che scelgono diete cruelty-free ed eco-sostenibili. La dieta vegana ha registrato un aumento di popolarità a livello mondiale, con 80 milioni di persone che la seguono attualmente. In Italia, il numero dei vegani rappresenta il 2,2% della popolazione totale, con una crescita significativa negli ultimi anni. In questa guida, esploreremo i principali ristoranti veg e vegetariani della Capitale.

Roma è una città che nel corso degli anni ha saputo accogliere e soddisfare le richieste di numerosi stili alimentari. Oggi la Capitale brilla anche per le sue diverse opzioni vegetariane e vegane, in grado di accontentare ogni tipo di palato. Grazie alla creatività dei suoi cuochi e alla ricchezza della tradizione culinaria locale, Roma è oggi una delle capitali mondiali dell'alimentazione etica e sostenibile. Visitandone i ristoranti vegetariani e vegani, chiunque potrà scoprire quanto la cucina romana sia variegata, accogliente e adatta a ogni regime alimentare.

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Ma va'?: Locale semplice e vegano con ingredienti perlopiù biologici. Offre squisite tempure, scaloppine di lenticchie e burger vegetali di patate e carote. Organizza anche eventi e laboratori dedicati all'alimentazione vegetale.

Vitaminas 24: Un locale accogliente con tavolini in legno e uno stile minimal ed essenziale. Offre wrap, piadine, panini, veg burger e vellutate, ideali per un pranzo veloce.

Flower Burger: Catena di fast food di qualità che offre burger vegetali colorati e succulenti, abbinati a pani colorati naturalmente e salse fatte in casa.

Gustoso e veloce

Vegusta vegan street food: Street food vegano di qualità, con wrap, panini, hamburger e ramen. Non perdere il tiramisù cremoso ed equilibrato.

Rifugio Romano: Un ristorante che coniuga la dieta vegan con quella onnivora, offrendo una proposta su misura per tutti i clienti. Spazio a polpette di legumi al sugo, omelette di ceci, tagliata di seitan e molto altro.

Menzioni d'onore

La Sciuscella Taverna Vegetariana: Offre principalmente piatti vegetariani, ma dà spazio anche ai clienti vegani, con qualche proposta pensata appositamente per loro. Meritano un assaggio i primi piatti e i dessert, anche in versione vegana.

Zenzero Biorestaurant: A Ostia Lido, questo ristorante offre piatti vegetariani ben fatti e delicati, e pane e focaccine della casa degne di nota. Presente anche un menu di pesce per gli onnivori.

Le Bistrot: Un punto di riferimento a Garbatella per chi non mangia carne. Gusta risotti di qualità, scaloppine di seitan e strudel di mele in un'atmosfera rilassata e romantica.

Margutta Vegetarian food&art: Famoso per i brunch della domenica, Margutta offre piatti ricercati e di stagione in uno spazio polifunzionale.

Creativo e informale
Zeta — 53
Gourmet e romantico
Immagini generate da DALL E

Parole e immagini

«More is different», sosteneva in un articolo del 1972 il Nobel per la fisica Philip Warren Anderson. Tre parole che racchiudono un concetto ben più ampio e tentano di spiegare che cos’è la complessità. «Ci troviamo di fronte a un sistema complesso, quando ci sono tanti elementi che interagiscono tra di loro», spiega Guido Caldarelli, professore di Fisica teorica alla Ca’ Foscari di Venezia e autore del libro “Senza uguali. Comprendere con le reti un mondo che non ha precedenti”. All’aumentare delle componenti («more»), il sistema non solo cresce, ma diventa anche qualcosa di diverso («different»), grazie alle diverse interazioni che si creano.

«Da poche settimane, al mondo ci sono 8 miliardi di persone – continua il professore –, mai come ora è importante studiare la complessità, perché prima non eravamo così tanti e non eravamo così connessi.

Questo libro rappresenta il mio piccolo contributo alla causa». Un testo che si rivolge a tutti, persone con un percorso di studi umanistico o scientifico, ma anche solo curiosi che vogliono capire meglio la realtà in cui viviamo. La teoria delle reti è il mezzo che può aiutarci, con una rappresentazione grafica e concettuale delle interazioni che rendono complesso il mondo.

Piove sul bagnato

«Se rappresentiamo matematicamente la società con uno schema, vediamo che questo schema ha la forma di una rete, in cui le parti che la compongono sono i pallini e le linee che li collegano le connessioni tra loro. La struttura che si forma è altamente disomogenea», spiega il professor Caldarelli.

C’è chi, come la famiglia dei Medici nella Firenze rinascimentale o l’ultra miliardario di oggi, ha più connessioni e possibilità e

chi, invece, ha pochissimi legami con gli altri nodi del sistema. «Questa struttura ha un’ulteriore proprietà. Nel tempo tende ad evolversi in modo tale che chi è già molto centrale diventi ancora più centrale. Ci sono fenomeni di amplificazione e un processo di crescita moltiplicativo, che ha come effetto quello che noi intendiamo quando diciamo: “piove sul bagnato”. Chi ha più contatti adesso, è probabile che nel futuro ne abbia ancora di più di chi oggi ne ha pochi».

Capire cosa accade nel nostro tempo

Per la maggior parte di noi, la matematica e la fisica sono materie lontane,

legate a un ricordo – spesso neanche troppo felice –che ci riporta indietro nel tempo, alle scuole superiori. Dei modelli matematici, come quello delle reti, bisognerebbe però avere meno paura, perché ci raccontano quella che è la forma e la sostanza del nostro tempo. «Le reti», sostiene Caldarelli «sono anche un modello dell’ordine e del disordine che dobbiamo aspettarci dalla società. Possono descriverci quello che succede oggi e rappresentare la tendenza del domani. Sono utili per filtrare i dati e visualizzare le comunità, ossia le informazioni che riguardano le persone che hanno qualcosa in comune».

54 — Zeta
Senza uguali. Comprendere con le reti un mondo che non ha precedenti
Egea 2022 di Guido Caldarelli di Silvia Stellacci

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Data Lab Zeta — 55

*immagini generate con Intelligenza Artificiale

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