Rassegna Stampa Dolomiti UNESCO | Luglio 2021

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Zardi ama servirsi di un esempio al di fuori del suo campo di studi. «È come quando viaggiamo in auto a un velocità molto elevata. Se tutto fila liscio, non c'è nessun problema. Ma se capita una collisione è chiaro che l'esito e i conseguenti danni sono molto più pesanti. Sappiamo che se per qualsiasi motivo il traffico veicolare deve rallentare, la frequenza di incidenti con grossi danni diminuisce alquanto».Idem accade con il cambiamento climatico in atto. «Se c'è più energia in atmosfera, aumenta il potenziale di impatti significativi».Il cambiamento climatico, oltre agli eventi estremi di cui sopra, ha poi altri risvolti negativi, per esempio sui ghiacciai. «Fino a pochi decenni fa erano una garanzia per il futuro, costituivano una riserva di lungo termine. In certi anni crescevano, in altri diminuivano, ma in media mantenevano una massa significativa».Da alcuni decenni, però, si registra una continua inesorabile diminuzione. L'acqua stivata sotto forma solida nei ghiacciai costituiva una riserva idrica utile per l'ambiente naturale, l'agricoltura, l'idroelettrico. Ora invece tirano decisamente brutte arie.Come in agricoltura. Apparentemente l'innalzamento delle temperature medie permette di coltivare a quote più elevate o di coltivare da noi specie - per esempio di vite - un tempo destinate a quote più basse. «Apparentemente - ad esempio per la viticoltura - è un vantaggio, non immune però da rischi. Le coltivazioni infatti devono fare i conti non solo con le temperature medie, ma anche con quelle estreme, minime e massime. Posso coltivare in un posto in quota una palma, per qualche anno può andarmi bene, può svilupparsi, specie se si susseguono inverni non troppo rigidi. Però basta che una sola volta arrivi una gelata, fatto alle nostre latitudini niente affatto improbabile, che la palma si secca e muore. Le temperature medie più elevate non sono sufficienti, contano anche le minime e le massime. In una sola notte può andare tutto perduto».E invece, sul clima, ormai è tutto perduto? «Se vogliamo contenere entro un grado e mezzo le temperature medie rispetto alle condizioni preindustriali, a livello globale dovremmo raggiungere un bilancio con zero emissioni nette di CO2 nel range tra il 2040 e il 2055». A livello internazionale al riguardo sono stati elaborati dei grafici eloquenti. «Azzerando le emissioni nette si stabilizzano le concentrazioni, che poi pian piano cominciano a diminuire. Il sistema tende ad assimilare CO2 grazie alle piante e agli oceani».Ma se non ci si riuscisse, cosa accadrebbe? «Facciamo fatica a dire cosa accadrà in futuro. Si tratta di territori inesplorati. Non si sono mai investigati simili fenomeni di innalzamento medio delle temperature in tempi così brevi. È un capitolo inedito nella storia della Terra».Le soluzioni per uscirne? «Riduzione delle emissioni di CO2, facendo largo impiego di energie rinnovabili. Nella nostra regione si sfrutta l'idroelettrico? Forse si potrebbe incentivare ancora di più. E poi siamo in un contesto alpino sì, ma con molte giornate soleggiate. Si dovrebbe potenziare il ricorso all'energia solare, banalmente anche solo sulle coperture degli edifici. E poi c'è tutto il capitolo mobilità: affidarsi ai motori elettrici, compresi i sistemi di trasporto pubblico. E non dovremmo più utilizzare combustibili fossili, né in inverno per riscaldare né, tanto meno, in estate per raffrescare».

EDITORIALI Corriere della Sera | 28 Luglio 2021 p. 25 Il bollino Unesco da solo non basta di Gian Antonio Stella «Prima classe, il passeggero è un miliardario forestiero: / “Italia bella, io comperare; quanti dollari costare?” / Ma il ferroviere, pronto e cortese: “noi non vendiamo il nostro Paese”» Una certa esultanza sviluppista per il recentissimo ritorno dell’Italia in cima alla classifica dei Paesi con più siti Unesco («Il marchio Unesco vale un tesoro», «Unesco, un marchio da 100 milioni», hanno titolato dei giornali veneti) fa tornare in mente la deliziosa filastrocca di Gianni Rodari che spiegava come l’orgoglio, giustissimo, per il nostro Paese e il nostro patrimonio vada protetto non solo dai Vandali denunciati da Antonio Cederna ma anche dai rischi di una vanità sveltamente «monetizzata». Dario Franceschini sottolinea che «con Padova Urbs Picta e Montecatini tra le Grandi città termali d’Europa diventano 57 i siti italiani iscritti nella lista del Patrimonio Mondiale dell’umanità», il che fa del nostro Paese (con altri 14 «patrimoni immateriali», dai pupi siciliani all’arte dei muri a secco) il primo al mondo davanti alla Cina. Bene. Ma è bene anche stare alla larga dalle sparate d’un tempo, tra cui quella di Super Silvio: «L’Italia è il Paese che ha regalato al mondo il 50% del patrimonio tutelato dall’Unesco». Boom! Resta sotto sotto, però, la vecchia tentazione di rivendicare solo i primati (sia chiaro: evviva!) senza la piena consapevolezza di doverne portare la responsabilità. Esempio: «il turismo a Padova può aumentare di un altro 20%»? Purché sia chiaro che, a dispetto degli strilli sul «diritto» di «tutti» (tutti?) di ammucchiarsi a Venezia, San Gimignano o Pompei, la stupenda e delicata Cappella degli Scrovegni dovrà continuare ad accogliere, pena la rovina, non più di dieci persone alla volta e per soli dieci minuti. Fine. E purché sia chiaro che il «bollino» Unesco non basta a cambiare le sorti di un tesoro culturale. Lo dimostra ad esempio (per citarne uno) Villa Adriana a Tivoli: ebbe l’agognato marchio nel 1999. Eppure oggi ha meno visitatori di vent’anni fa, e va già meglio dopo aver subito cali vistosi. Colpa


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