Rivista Savej n°10

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Diario di guerra

1944-1945: pagine di memorie ritrovate

29 marzo ‘44

Nuova incursione su Torino. Un’ora in rifugio. La Fiat è in fiamme.

25 dicembre ‘44

Quinto Natale di guerra! Freddo, neve, soli in casa. Non uno spalatore in tutta Torino.

Torino, 1944. Cesare Furbatto, agente immobiliare padre di tre figli, inizia ad annotare su una piccola agenda ciò che accade in questi ultimi terribili mesi di guerra. Con uno stile incisivo e sintetico focalizza le costanti del conflitto in atto: violenza, terrore, morte, fame e freddo, mancanza di ciò che è essenziale e, nonostante tutto, volontà di resistere e sopravvivere.

Dedica questo diario alla figlia più piccola, che avrebbe voluto chiamare “Sfollatina” proprio perché, come gran parte dei torinesi terrorizzati dai continui bombardamenti, la famiglia si spostava tra la città e la provincia. Ne deriva un racconto unico e oggettivo che ci induce a riflettere sugli orrori e le drammatiche conseguenze di tutte le guerre.

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Sommario

3 Editoriale

4 In ricordo di Bruno Villata

Appassionato linguista che visse in Canada e amò il Piemonte // Sergio Gilardino

10 La millenaria Abbazia di Staffarda

Tra arte e monachesimo in uno dei più antichi monumenti medievali in Italia // Luigi Cabutto

18 L'amore e Cesare Pavese

Punti di vista femminili sul grande scrittore piemontese // Andrea Raimondi

24 A pranzo dai Conti Santa Rosa

Gli antenati dei piatti della nostra tradizione in un antico ricettario // Lidia Brero Eandi

28 Tutti pazzi per la Bagna cauda

Dal mare alla montagna tra acciugai e “fujot” // Massimo Bonato

34 Il Piemonte del gusto

Viaggio nell’enogastronomia della regione in compagnia di Luca Iaccarino // Paolo Patrito

38 Se otto ore vi sembran poche

Lotte, scioperi e conquiste delle mondine nelle risaie piemontesi // Cristina Ricci

44 La vite e il salice, una storia di legami

Tra gli antichi e i recenti paesaggi della viticoltura contadina // Bianca Seardo

50 Alba e i suoi caffè

I frizzanti anni Cinquanta e Sessanta dal bancone di un bar // Gianmarco Gastone

56 Giambattista Bodoni: il tipografo dei re

Era saluzzese il creatore del carattere usato in tutto il mondo // Simone Gregorio

62 Da Novara al mondo

I reportages fotografici di Alessandro Faraggiana tra Suk e Samoiedi // Silvana Bartoli

70 Il revival della musica occitana

Danze e suoni della tradizione rivivono nelle valli cuneesi // Daniela Bernagozzi

78 Davide Calandra: uno scultore, una gipsoteca

Alla continua ricerca di espressività e armonia // Rosalba Belmondo

84 Calce, vino e cemento

La storia dei “gavadur” di Ozzano Monferrato // Martino Pinna

90 Per tutto l'oro del Piemonte

A caccia di pepite con i cercatori d'oro di ieri e di oggi // Davide Mana

98 Le attività dell'uomo nei nomi di luogo

Cave, vigne e mulini nella toponomastica piemontese // Alberto Ghia

104 Dissiunari

Origine e storia delle parole piemontesi // Massimo Bonato

108 Un giro in libreria // Roberto Coaloa

110 Le nostre firme e gli illustratori di questo numero

112 Fondazione Enrico Eandi

DIRETTORE RESPONSABILE

Lidia Brero Eandi

REDAZIONE E COORDINAMENTO EDITORIALE

Linda Ferrando

PROGETTO GRAFICO

Irene Bottino

ILLUSTRAZIONI

Giuseppe Conti

Alessandra Parigi

STAMPA

L’Artistica Savigliano s.r.l. Savigliano (CN)

EDITORE

Fondazione Enrico Eandi

Via G. B. Bricherasio 8, 10128 – Torino info@fondazioneenricoeandi.it www.fondazioneenricoeandi.it

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ISSN 2611-8335

Registrazione del Tribunale di Torino n. 55 del 13-07-2018.

© 2023 Fondazione Enrico Eandi

Tutti i diritti riservati.

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IN RICORDO DI BRUNO VILLATA

Appassionato linguista che visse in Canada e amò il Piemonte

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Illustrazione di Giuseppe Conti. di Sergio Gilardino

Passione piemontese

Gianni e io eravamo nati in cascine, in mezzo alle risaie. Bruno era cittadino, ma negli anni della guerra era sfollato nelle Langhe, diventando anch’egli, di fatto, un “campagnin” di quell’affatato mondo di masche e di vini squisiti. Amava la terra d’adozione con passione, anche se conservava l’accento raffinato, sempre più raro, della capitale. Era buon narratore; Gianni e io l’ascoltavamo come da piccini stavamo a sentire le fàule nelle stalle durante le vijà invernali.

Bruno era nato alla metà degli anni Trenta. Io e Gianni alla metà dei Quaranta. Ma la differenza di età non si notava affatto: come energie, allegria e voglia di scherzare Bruno aveva molti anni meno di noi. Aveva il gigèt (brio, argento vivo) nel sangue. La comune lingua ci legò di stretta amicizia.

Si parlava del Piemonte, delle vecchie tradizioni di città e di campagna, delle feste di quartiere e di paese, della storia garibaldina. Ci infervoravamo, ci appassionavamo della nostra terra, della nostra “patria pcita” molto più di quanto avremmo mai fatto se fossimo rimasti in Italia.

Ci incontravamo almeno due volte a settimana, o nel mio appartamento sulla via Drummond, proprio a fianco del Consolato Italiano e dell’Istituto Italiano di Cultura, o a casa di Gianni, in uno spaziosissimo appartamento, con i balconi sul grande parco La Fontaine.

Mercoledì, 17 agosto 2022, è mancato Bruno Villata. È deceduto per le conseguenze del Coronavirus. Ultimamente Bruno e Sylvana, la moglie, vivevano un po’ in disparte. Anche amici molto prossimi, come il bravissimo lessicografo Giacomo Giamello, erano senza sue notizie già da un paio d’anni. Nonostante gli screzi intervenuti per via di differenza di vedute sulla grafia del piemontese, Bruno è stato per me un caro, indimenticabile amico per molti anni.

Insegnava linguistica alla Concordia University, a meno di mezzo chilometro dalla McGill University, l’università dove io insegnavo letteratura comparata.

Ci siamo conosciuti alla fine degli anni Settanta grazie al comune amico Gianni Corgnati, di Bianzè, allora dirigente dell’ICE (Istituto Italiano per il Commercio con l’Estero) e appassionato lui pure di piemontese. Bruno allora non era ancora docente, ma vice-direttore dell’Istituto Italiano di Cultura.

Ci cucinavamo risotti, rolà e altri piatti piemontesi. All’occasione ordinavamo specialità da un ristoratore chiamato “Le piémontais”. Gianni forniva i vini più pregiati delle Langhe e del Roero. Io, che avevo buona voce e strimpellavo, provvedevo alle canzoni del repertorio di Gipo e di quello popolare. Eravamo tutti e tre scapoli, ma non portavamo mai ragazze ai nostri incontri: italiane o straniere, non avrebbero mai capito il nostro mondo. E non era solo una questione di lingue.

Bruno non cantava, ma si commuoveva. Gianni era stonato e non voleva mai smettere. Spesso i vicini si lamentavano. Gianni li rabboniva con grosse scatole di gianduiotti e di Rocher: per quella sera almeno il concerto poteva continuare.

Tre piemontesi a Montréal

Bruno parlava perfettamente il rumeno (aveva studiato filologia romanza a Bucarest, dove aveva soggiornato per quattro anni) e svariate altre lingue. Io insegnavo letteratura italiana e comparata e per dovere d’ufficio me la cavavo con le principali lingue letterarie. A Montréal, la città poliglotta, finii per imparare anche quelle minori, che ancora non sapevo. Gianni stentava a mettere insieme due parole di francese. Quando lo fermavano per eccesso di velocità (guidava una Bertone color giallo limone) lui, per l’eccitazione, parlava piemontese con le finali francesi. A cavarlo d’impiccio c’era il suo passaporto diplomatico. Anche Bruno ce l’aveva, ma non ebbe mai bisogno di esibirlo.

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"La lingua piemontese" di Bruno Villata edita da Edizioni Savej, 2009. Veduta dell’Abbazia di Staffarda dal cortile centrale (© Valentina Strocco).

LA MILLENARIA ABBAZIA DI STAFFARDA

Tra arte e monachesimo in uno dei più antichi monumenti medievali in Italia

di Luigi Cabutto

Se è vero che esistono i “luoghi del cuore” — ebbene — nella pianura Saluzzese, alle pendici dal profilo inconfondibile del Monviso, il complesso architettonico di Staffarda ci avvolge di suggestioni. Nella solitaria Abbazia fondata dai Cistercensi il tempo pare essersi fermato. Nella sua solitudine passano ombre di monaci che sulle orme di San Bernardo seppero e vollero unire il lavoro alla preghiera elevando la loro vita all’essenzialità del più intimo colloquio tra l’uomo e Dio.

Una semplicità riflessa nelle loro chiese nude e severe, senza dorature e senza sfarzi, dominate solo da ruvide croci di legno. Quando, nel secolo XII, si inizia la costruzione dell’Abbazia, il Medioevo è in pieno sviluppo e, in Italia come in Europa, l’uomo affronta e cerca soluzioni al problema dello scopo della vita. In mezzo a cambiamenti territoriali e politici, guerre e migrazioni, le ansie di rinnovamento sociale e spirituale continuano a materializzarsi in monasteri, nel silenzio e nella pace dei chiostri. Abbazia vuol dire Comunità: rimane, in campo religioso, l’equivalente delle Corporazioni, mentre sulla scena politica tramontano feudalesimo e cavalleria per il sorgere prepotente dei Comuni. La sua fondazione è dettata dall’intimo desiderio di superare il mondo nell’intento di migliorarlo. Nasce dunque dall’insoddisfazione, molla del progresso, ravvisabile in tutte le epoche storiche, presente in larga misura nel Medioevo, specie a livello religioso, per l’evidente situazione di crisi.

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Il complesso di Staffarda visto dall'alto. In una zona di forti trasformazioni, mantiene la sua unicità nell’impianto medievale religioso e agricolo, dove l’attività dell’allevamento eredita la tradizione delle grange cistercensi. Illustrazione di Giuseppe Conti

L'AMORE E CESARE PAVESE

Punti di vista femminili sul grande scrittore piemontese

Furono gli amori infelici di Pavese, primo fra tutti quello per Tina Pizzardo, a condurlo al suicidio? Questo contributo cercherà di suggerire una risposta al delicato quesito partendo da un punto di vista esclusivamente femminile, una prospettiva spesso trascurata dalla bibliografia precedente. Fu per prima proprio Battistina “Tina” Pizzardo, con l’autobiografia pubblicata postuma (Senza pensarci due volte), a rifiutare l’immagine stereotipata della donna-carnefice costruita da Pavese nel suo diario e ripresa da Davide Lajolo nella biografia dedicata allo scrittore.

La donna dalla voce rauca

Nata a Torino nel 1903, Tina perde, giovanissima, la madre. Dal 1911 è in collegio e, grazie alla predisposizione per la matematica, nel 1920 può iscriversi alla Facoltà di Matematica. Gli anni universitari sono importanti per la sua formazione politica. Ribelle d’indole e antifascista per istinto, aderisce al Partito Comunista. Nel 1926, mentre è a Roma per partecipare ad alcuni concorsi scolastici, conosce Altiero Spinelli. Con Spinelli intreccia un’intensa relazione — perlopiù epistolare vista la lunga carcerazione del futuro leader federalista.

Nell’autunno 1926 ottiene la cattedra di matematica a Grosseto, dove è anche segretaria della locale federazione comunista. Nel 1927 subisce un primo fermo; rilasciata, torna a Torino e viene arrestata: la condanna è un anno di reclusione e tre di vigilanza. Dal 1928 vive di lavori precari e, per il suo atteggiamento indipendente e spregiudicato, si allontana dal Partito Comunista per avvicinarsi al nucleo di intellettuali che si raccoglie intorno all’Einaudi. Tra questi, Leone Ginzburg. È proprio Leone a parlarle di un amico che passa le giornate al caffè a scrivere poesie, fumare la pipa, tormentandosi il ciuffo: peccato che sia un gran dispregiatore di donne.

Un unico grande amore

Il primo incontro con Pavese avviene il 31 luglio 1933 sul Po. Tina chiede di provare a manovrare il barcone sul quale si trova Cesare: sepTina

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Pizzardo

A PRANZO DAI CONTI SANTA ROSA

Un antico ricettario del sette-ottocento in cui ritroviamo gli antenati dei piatti della nostra tradizione

Lo sappiamo: il cibo è uno degli elementi che meglio caratterizzano l’identità di un luogo e di chi lo abita. “Come si mangia, cosa si mangia?” chiediamo di un posto che non conosciamo. Se ci dicono “bene” ci sentiamo rassicurati, se “male” cambiamo direzione. In Piemonte ad esempio, mantenendo il consueto riserbo subalpino che non ama i superlativi, possiamo dire che si mangia piuttosto bene. E questo lo dobbiamo sia alle nostre eccellenze locali sia alla fortuna di discendere da nonni, bisnonni e ascendenti vari su per l’albero genealogico che sapevano cucinare bene. Anche con poco, anche in tempi di magra.

La villa settecentesca, che fu proprietà e residenza estiva dei Santarosa, è situata a pochi km da Savigliano in Regione Palazzo (© L'Artistica Editrice).

La tradizione culinaria nei “quaderni di casa”

La cucina è un'arte fatta oltre che di esperienza, di intuizione e capacità creativa, di cura e rispetto per il cibo, ingredienti che non si trovano nemmeno nelle più dettagliate ricette su Internet. Forse è tra le righe dei piccoli “quaderni di casa”, scritti a mano e gelosamente custoditi, che si percepisce l'amore per quest'arte, l'orgoglio di ciò che si prepara con le proprie mani e la consapevolezza di aver ereditato un sapere antico che si vuol tramandare.

I “quaderni di casa” una volta erano abbastanza diffusi nelle famiglie più agiate e qualcuno è stato anche pubblicato. È così che riusciamo a far visita alle case del passato fin nelle cucine dove alle rastrelliere brillano in bell’ordine le padelle di rame mentre si alzano volute di fumo dalle pentole che borbottano sopra le stufe e le donne di casa chiacchierano tra l’acciottolio delle stoviglie. È questa l'immagine che Carlo Petrini evoca nell'introduzione di un bel libro: La cucina piemontese del Settecento (forse ora introvabile) di Luigi Botta, che ha raccolto e pubblicato l'antico ricettario dei Conti Santa Rosa. L'originale del manoscritto ora si trova appunto nell'“Archivio Santa Rosa” presso il Museo Civico di Savigliano. I Conti abitavano in una frazione vicino a Savigliano chiamata abitualmente “Il Palazzo” dove si trova infatti il loro palazzo di famiglia.

Il ricettario dei Santa Rosa

L'esponente più famoso della dinastia è l'eroe risorgimentale Santorre Derossi di Santa Rosa che, come ci ricordano i libri di storia, guidò l'organizzazione del moto costituzionale del 1820—21 con l'appoggio del principe Carlo Alberto. Dopo la durissima repressione, Santorre se ne andò esule e ramingo per l'Europa sino a morire a Sfacteria nel 1825 combattendo per la libertà della Grecia.

È presumibile che la famiglia abbia lasciato il palazzo di campagna dopo il 1821, anno dell’esilio di Santorre, trasferendosi nella propria casa di Torino. E quindi queste ricette manoscritte sono anche state piatti di Santorre ragazzo e poi di Santorre adulto, divenuto nel frattempo sindaco – “Maire” – di Savigliano e patriota rivoluzionario coerente sino alla morte con i suoi ideali di libertà.

Il nostro ricettario è stato scritto con ogni evidenza per anni successivi dal primo Settecento – insolito primato culinario subalpino! – sino ai primi dell'Ottocento. Nella stesura si susseguono infatti mani diverse

in tempi diversi e non ci preoccupano i vari errori di ortografia, grammatica e forma perché nulla tolgono al valore delle ricette. Piuttosto ci lasciano perplessi certi termini antichi caduti in disuso. Qui però ci viene in aiuto il glossario curato da Luigi Botta per rendere più agevole la lettura.

Né diete né penitenze

È un sollievo dello spirito sfogliare queste pagine: nessuna paura del colesterolo, niente diete che riducono all'anoressia, niente mortificazioni da Quaresima. È tutto un trionfo di burro, panna, lardo, uova, zucchero, carne – parecchia carne di ogni tipo – e poi salsicce, salami, prosciutti… E se “troppo intorno alle vezzose membra l’adipe cresce”, come dice Parini al Giovin Signore, ancor meglio! Sono tempi in cui essere floridi e formosi è un privilegio e avere un po’ di pinguedine evidenzia subito una buona condizione sociale. I nobili e i ricchi borghesi hanno infatti autorevoli pance ben arcuate mentre le signore, per avere il vitino di vespa, si strizzano dentro rigidi corsetti a stecche di balena, veri strumenti di tortura. E ogni tanto svengono perché non riescono a respirare. Invece non importa che il giro fianchi sia piuttosto abbondante perché le gonne arricciate come tende nascondono anche eventuali cuscinetti di lardo.

Ma col nostro ricettario siamo in campagna e la vita qui è meno formale e sicuramente più tranquilla. Certo ci sono gli inviti e quindi accanto a ricette abbastanza semplici e quotidiane ne troviamo altre in cui un cuoco veramente deve dar prova di abilità.

Il periodo di Santorre dista alcuni decenni da quello del Giovin Signore di Parini, ma con gli anni l'esecuzione delle ricette non cambia di molto, il procedimento è sempre il medesimo anche se può mutare qualche ingrediente o sistema di cottura. Un esempio, Il non plus ultra:

Preparata una fesa di Vitello dal peso di una libra circa e ben battuta perche Riescha frolla Si metta in cazeruola un bichiere d'aceto ma che non sia troppo forte quatro o cinque garofani, altretanti ginepri, e grani di pepe, poco Timo e Magiorana, Rosmarino una foglia dall’oro, poco scorza di limone, una cipoletta, e porro, presemolo, Zelero, carotta e poco sale tutto questo si faccia Bolire per qualche poco e ciò fatto si versi sul Vitello e si lascia così in infusione Ben chiuso Fino al dì suseguente, allora dato di mano ad altra cazeruola e fatto di dileguare un pezzo di butirro vi si unischa i citati ingredienti levati dall’infusione col vitello facendolo quocere come un arrosto, cotto così, prendasi

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Stampi per formaggi (disegni tratti dall'Encyclopédie di Diderot e D'Alambert, 1767). Lastre metalliche piane di una tenaglia usata per cuocere l'ostia (disegni tratti dall'Encyclopédie di Diderot e D'Alambert, 1767).

TUTTI PAZZI PER LA BAGNA CAUDA

Dal mare alla montagna tra acciugai e fujot

di Massimo Bonato

Nessun piatto rappresenta il Piemonte quanto la Bagna cauda. Salsa (bagna) a base di aglio acciughe e olio, variamente preparato a seconda delle zone, la Bagna cauda è un piatto tipicamente invernale, un rito, un modo di stare insieme e di accomunare gli spiriti che si rallegrano del buon vino.

Consumata come una volta in piedi, attorno al fornello o al potagé (la stufa cucina), o più comunemente a tavola oggi, radunati intorno a un unico capiente fujot, il caratteristico tegame in terracotta in cui intingere la verdura di stagione.

Illustrazione di Alessandra Parigi.

A ognuno il suo sciunfet

Quando finalmente i reali reputarono che il loro alito poteva guastarsi per qualche giorno, pur di assaporare l’ormai secolare e diffusa pietanza, presero a gustarla singolarmente in scaldini di terracotta, gli sciunfet, riccamente decorati in argento alla corte di Vittorio Emanuele I. Inaugurarono così la consuetudine, oggi diffusa, di non consumare la Bagna tutti insieme in un unico fujot, come una volta, ma ciascuno nel proprio sciunfet, notoriamente dotato di vano in cui deporre una candela accesa perché la bagna si conservi calda.

Benché la si reputi un piatto invernale, si direbbe che il periodo tipico per portarla in tavola vada dal 1° gennaio al 31 dicembre, poiché non vi è consenso sul momento più opportuno per iniziare a consumarla. Qualcuno la preparava per celebrare la curma, o ij dì dla curma, al termine cioè della trebbiatura, quando le fasi del raccolto potevano dirsi concluse. Altri credono che sin dal Medioevo il momento più opportuno debba coincidere con il travaso dei vini, occasione per onorare le fatiche del lavoro, confrontare i prodotti della vendemmia e riaffermare il buon vicinato. Per altri ancora, a partire dal giorno dei Santi ogni motivo è buono per riscaldare l’inverno.

Le origini della Bagna cauda restano piuttosto avvolte nel mistero, con ipotesi articolate su di un piano di verosimiglianza, che va dalla meno alla più credibile delle congetture, dalla più fantasiosa alla più probabile, tutte congegnate attorno alla presenza e alla diffusione dei suoi ingredienti: l’aglio, le acciughe e l’olio di oliva.

C’è chi crede che anticamente sigillasse il sodalizio tra mercanti celti e liguri, propizio per stringere accordi e concludere affari, vedendo nell’aglio e nelle acciughe i prodotti poveri della montagna e del mare con cui preparare una salsa, in cui le verdure di stagione potevano felicemente concludere il loro ciclo vitale.

Come per le casate regnanti i poeti han sempre cercato un lignaggio nobile e glorioso, così vi è stato chi ha visto nelle acciughe il possibile connubio con la salsa di cui il buongustaio Fundanio declama le delizie a Orazio (Satire, VIII) nel lontano mondo imperiale romano, sostenendo di aver mangiato un sughetto fatto con olio di Venafro, polpa di pesci spagnoli, aceto e vino caldo: nulla di più improbabile si trattasse della Bagna cauda però.

Lungo la “Via del Sale”

La storia della Bagna cauda, qualsiasi sia la più verosimile, interseca comunque sempre quella della Via del Sale, e quella degli anciuvé, gli acciugai, i venditori di acciughe che la percorrevano e che l’avrebbero percorsa per secoli.

Vie del Sale ve n’erano nell’antichità moltissime lungo la penisola, poiché per le aree distanti dal mare il sale era prezioso: per la conservazione degli alimenti nel lungo periodo, per la produzione di formaggio e di insaccati, la conservazione della carne, del pesce, delle olive, ma anche per attività artigianali come la concia e la tintura delle pelli. Così, sin da epoche remote, dall’Emilia alla Lombardia, dal Friuli agli Appennini sino alla Sila si dispiegava un ordito di sentieri e strade,

una rete di comunicazioni che collegava le montagne e l’entroterra al mare, dove erano possibili fruttuosi scambi commerciali per vendere enormi quantità di sale ovunque ve ne fosse bisogno.

Una delle Vie del Sale, Strata salis, che conduceva dal Piemonte al mare, collegava Limone Piemonte, nelle valli cuneesi, con Ventimiglia, snodandosi all’interno delle Alpi liguri; l'odierna Alta Via dei Monti Liguri che si è trasformata nel tempo in strada militare sullo spartiacque alpino tra Francia e Piemonte, per approdare a noi più pacificamente come percorso turistico votato al trekking o a tour in mountain bike. Le Vie del Sale, corridoi commerciali di primaria importanza per l’entroterra italiano ma anche per la Svizzera, la Francia, la Germania, garantivano da sempre anche un lucroso gettito fiscale, attorno al cui interesse, a partire da Carlo Magno e dalla costituzione del Sacro Romano Impero, si costituirono feudi imperiali volti a controllare valichi e vallate fino al mare assicurando la sicurezza di mercanti e carovanieri e la riscossione delle tasse.

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Un acciugaio e il suo carretto (© l'Anciué — www.invalmaira.it).

IL PIEMONTE DEL GUSTO

Viaggio nell’enogastronomia della regione in compagnia di Luca Iaccarino

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di Paolo Patrito Luca Iaccarino

Non è stato semplice intercettare Luca Iaccarino, critico gastronomico ligur-piemontese saldamente radicato sotto la Mole ma spesso in viaggio, tra una degustazione di acciughe del Cantabrico nei Paesi Baschi e l’intervista con qualche chef stellato lungo la Penisola. E quale momento si addice di più a incontrare un gourmet come Iaccarino se non quello che si può ricavare in pausa pranzo, di fronte a una pietanza preparata con cura? Così, qualche mese fa è nato il nostro incontro. La location l’ha scelta lui, ovviamente: il giardino nient’affatto segreto di Petronilla, ristorante torinese nel quartiere Regio Parco, peraltro incluso tra le migliori “piole” della città nella guida I Cento, bibbia laica della gastronomia torinese compilata da Luca Iaccarino insieme ai fidati Stefano Cavallito e Alessandro Lamacchia.

Tra Piemonte e Liguria

Luca è appena tornato da un viaggio in famiglia, in Belgio, e l’esperienza gastronomica non è stata delle più memorabili, così il pensiero corre a un ricordo simile che riemerge dal passato.

Sono passati quasi vent’anni ma ricordo bene la prima vacanza che feci con Lisa, la donna che sarebbe poi diventata mia moglie. Andammo in Croazia. Non apprezzai molto la cucina locale e per due settimane mangiai solo totani e patate fritte. Me la cavai, ma tornai a casa con sei chili in più.

Non è un caso che il primo cibo nominato in questa conversazione sia un piatto di pesce. Fatto che potrebbe incuriosire, a latitudini sabaude, se non fosse che Iaccarino è mezzo ligure e questo suo essere vissuto a cavallo delle Alpi Marittime non può che essere il punto di partenza per capire la sua personalità e, soprattutto, il suo approccio al cibo. Una storia che parte dal 1972, quando Luca Iaccarino nasce a Torino:

È per merito di mia nonna se sono nato a Torino – ricorda. I miei vivevano stabilmente a Pegli, in Liguria, ma avevano anche casa a Torino e mia nonna, che era di Ciriè, ci teneva che nascessi qui, per una questione di orgoglio sabaudo. Così accadde, ma dopo pochi giorni siamo tornati a Pegli, dove ho trascorso tutta la mia infanzia.

Iaccarino cresce in una famiglia “normale”: il padre lavora all’Italsider e la mamma è insegnante. Di sicuro non una famiglia dove il cibo fosse il primo dei pensieri, tutt’altro.

A casa mia si mangiava piuttosto male, per la verità. Non avevamo una tradizione gastronomica, forse perché la priorità è sempre stata il lavoro. L’anomalia ero io, che con l’adolescenza ho scoperto un mio lato gaudente, legato non tanto, non solo al cibo in sé, quanto al piacere di stare a tavola, di fare festa insieme agli amici.

Adolescenza trascorsa a Torino, dove il giovane Luca si stabilisce a metà anni Ottanta, complice la crisi della siderurgia che costringe papà Iaccarino a trovare un nuovo lavoro all’Aeritalia. La città che accoglie

la famiglia trasferitasi dalla Liguria è ancora quella operosa ma un po’ grigia della monocultura industriale: le Olimpiadi e i grandi eventi sono di là da venire, i distretti che oggi pullulano di locali, come il Quadrilatero Romano e San Salvario, quartieri degradati in cerca di un futuro.

Per me, abituato alla vista del mare, quella città sembrava sconosciuta, livida, perennemente avvolta da una nebbia che allora era molto più frequente di adesso. Prima del trasferimento (tra il 1984 e il 1985) ci venivo per andare dal dentista: l’unico ricordo che ho di quei primi anni era il grande neon “Martini” all’uscita della stazione di Porta Nuova, che a me pareva una promessa di modernità.

Dalla cucina popolare ai grandi ristoranti

A poco a poco, però, la città inizia a mutare e il suo cambiamento accompagna la crescita di quel ragazzino importato dalla Liguria. Con esso, nasce la passione per la scrittura, qualche anno più tardi applicata al cibo.

Ho iniziato a scrivere attorno ai diciotto anni, poi, qualche anno dopo, ho pensato che avrei potuto scrivere di cibo. Così nel 1993 ha preso il via la mia prima rubrica su Repubblica. Ho iniziato coi kebab poi, per tantissimi anni, mi sono occupato solo di cucina popolare: pizzerie, trattorie, ho fatto la gavetta come i cuochi che iniziano dalla cucina del ristorante sotto casa. Poi, circa quindici anni fa, ho capito che non avrei potuto comprendere appieno la cucina popolare senza conoscere i grandi ristoranti, e viceversa. Come accade anche per la moda, alto e basso in cucina sono interdipendenti. Basti pensare al Tortino cuore caldo di cioccolato: oggi lo puoi trovare in qualunque pizzeria, ma è stato inventato da un cuoco a 3 stelle, lo chef francese Michel Bras.

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SE OTTO ORE VI SEMBRAN POCHE

Lotte, scioperi e conquiste delle mondine nelle risaie piemontesi

Alle ore 17 due mondine si affacciano da una finestra del palazzo municipale e danno l’annunzio che gli agricoltori hanno concesso le otto ore di lavoro e la mercede di 25 centesimi l’ora. La novella è accolta da vivi applausi (Giuseppe Bevione — La Stampa, 2 giugno 1906).

Si sente spesso parlare della riduzione dell’orario di lavoro. Secondo Eurostat, la direzione generale che raccoglie e pubblica i dati dei paesi membri dell’UE, in Europa si lavora mediamente 38 ore settimanali, poco più di 7 ore e 30 minuti al giorno ma ci sono stati, come i Paesi Bassi e la Danimarca, che ne lavorano molto meno, rispettivamente 30,6 e 33,6. Alcuni paesi, come Islanda, Giappone, Spagna e Nuova Zelanda stanno sperimentando progetti per la riduzione della settimana lavorativa a quattro giorni ma pochi sanno che in Italia le prime rivendicazioni per la riduzione dell’orario di lavoro a otto ore giornaliere furono portate avanti dalle lavoratrici delle risaie.

Angelo Morbelli (Alessandria 1853 — Milano 1919), "Per ottanta centesimi!", 1895, olio su tela, firmato e datato, Vercelli, Museo Francesco Borgogna (foto T. Radelet, Torino, Museo Francesco Borgogna, Vercelli).

Con le gambe a mollo e la malaria nel sangue

L’economia piemontese del neonato Regno d’Italia era prevalentemente agricola e le donne avevano un ruolo attivo in ogni tipo di lavorazione. Il giornale vercellese La Sesia riporta frequentemente notizie di agitazioni e di scioperi sin dai primi anni dell’Unità d’Italia, periodo in cui la risicoltura era fonte di grandi profitti economici ma all’epoca mancava una salda organizzazione sindacale che unisse le lavoratrici.

La richiesta più frequente, oltre all’aumento delle retribuzioni, era l’abolizione del sistema di caporalato e la regolamentazione delle assunzioni che avrebbe garantito a ognuna l’occupazione. Il primo sciopero documentato si tenne a Vettignè presso il comune di Santhià, nel giugno del 1885; ci vollero diciannove arresti per “sedare il tumulto”.

Le misere condizioni di lavoro e di vita si possono dedurre dallo studio del Senatore Stefano Jacini La proprietà fondiaria e le popolazioni agricole in Lombardia che prende in considerazione un arco temporale che va dal 1877 al 1884 e, benché lo studio non riguardi il Piemonte, le condizioni non differivano sostanzialmente da quelle descritte.

L’economista nella sua inchiesta rende nota la condizione dei circa 80.000 addetti, tra donne e fanciulli, che costituivano ancora la maggioranza della manodopera nelle risaie. Nessuna norma regolava il lavoro, né difendeva la salute e la vecchiaia di queste lavoratrici. Non era previsto un monte ore massimo né limiti di età per l’assunzione, nessuna visita sanitaria né aiuto in caso di necessità. Scrive:

Povero è il vitto, la carne è riservata alle grandi occasioni, la base del sostentamento è un pane di farina di granoturco mista

a quella di segale e di miglio... i companatici sono alcuni latticini, le sardelle e le uova.

Anselmo Marabini in Prime lotte socialiste racconta la vita penosa e disumana [delle risaiole], con gambe nude immerse sino alla coscia nell’acqua putrida, emanante miasmi puzzolenti, non protette dalle morsicature delle sanguisughe che infestano quelle acque, col solo ristoro di un po’ d’acqua viscida corretta con qualche goccia di aceto. Per vitto un tozzo di pane nero e poco riso, per riposo un po’ di strame sotto una capanna di giunchi appositamente costruita ai margini dell’aia.

Il deputato socialista Nino Mazzoni agli inizi del 1900, le descrive in questo modo:

Le risaiole arrivavano a stormi, pigiate nelle anguste carrozze ferroviarie di quei tempi, stanche, disfatte, e venivano accolte in promiscuità disgustosa in fienili aperti, sulla paglia, senza una difesa notturna contro i nugoli di zanzare. L’orario era lungo e pesante: lavoravano curve sotto il riverbero atroce del sole, insidiate dalle malattie, dalle punture degli insetti, dalla lacerazione delle erbe, dal miasma delle erbe tarchiate. Nutrizione scarsa, pessima, fatta dei peggior riso e di fagioli frequentemente avariati. Le enterocoliti e il tracoma dominavano sovrani. Dopo 40 giorni di monda quel povero branco umano tornava a casa colle gambe piegate e spesso con la malaria nel sangue.

Proprio questa malattia infettiva classificava la risaia come luogo insalubre pertanto la sua ubicazione doveva essere al di fuori dal centro abitato.

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Mondine al lavoro, s.d.

LA VITE E IL SALICE, UNA STORIA DI LEGAMI

Tra gli antichi e i recenti paesaggi della viticoltura contadina

di Bianca Seardo

Tralicci di vite con legature di rami di salice (© Cantina dei produttori Nebbiolo di Carema, foto di Rossano Morello).

I paesaggi della viticoltura contadina oggi sono sparsi, frammentati, confusi nelle maglie dell’urbanizzazione, a volte invisibili solo perché non riusciamo più a distinguerne i segni. Sono un patrimonio vivente perché non rappresentano solo un pezzo della nostra storia, ma anche un serbatoio di tecniche e conoscenze per un futuro concretamente più resiliente e sostenibile.

Sono paesaggi che attraversiamo tutti i giorni o quasi, di cui forse non ci domandiamo neppure l’origine. Alberi isolati nelle campagne che non sembrano avere un perché, versanti montani coperti da una fitta trama di pergolati pensili, pesche succulente che hanno perduto il proprio nome, palizzate di legni tesi verso il cielo a cui si sostengono possenti tronchi di vite: sono indizi che vanno ricuciti in una narrazione spesso interrotta.

Le forme del paesaggio vanno interrogate: scopriremmo persone, gesti, racconti, motivi, valori. Viaggeremo per il Piemonte, ma spesso partiremo dal Canavese: dove scrivo, coltivo e cammino fra antiche vigne.

Paesaggi a due velocità: le Langhe e...

I paesaggi piemontesi del vino oggi sono lo specchio di storie che intraprendono un viaggio a due velocità differenti a partire da metà Ottocento. Nel 1850 la nomina di Camillo Benso a Ministro dell’Agricoltura del Regno di Sardegna, con Carlo Alberto, agevola la strada alle pulsioni progressiste accese nella regione. In campo vitivinicolo, il vigneto piemontese va incontro a un epocale rinnovamento: nelle campagne i contratti mezzadrili lasciano il posto all’affittanza imprenditrice, primo segno di un’agricoltura capitalistica. La riforma generale delle tariffe doganali del commercio con l’estero sottrae il Piemonte a una economia principalmente volta all’autoconsumo, proiettandolo all’esportazione: si passa da 7.900 bottiglie esportate negli anni Quaranta a 200.000 nel 1860 (Bolloli, 2004).

Ma c’è di più. Sotto Camillo si afferma l’enologia moderna: in vigna si sperimentano nuove modalità di conduzione e propagazione delle viti, analisi chimiche dei terreni e studio delle concimazioni sono all’ordine del giorno, si introducono nuovi vitigni; in cantina la rivoluzione passa, fra le altre cose, dalla pulizia delle botti, alla pratica dei travasi, all’introduzione della bottiglia (la prima annata imbottigliata nella tenuta di Grinzane del Conte Cavour è del 1843). Il vino acquista qualità, può essere degustato anche dopo anni e commercializzato quindi su lunghe distanze.

Il cuore territoriale del rinnovamento sono Langhe, Roero e Monferrato che da quel momento si ritagliano una posizione dominante nel settore fino a diventare l’attuale motore dell’economia viticola piemontese e fulcro mondiale del turismo del vino, ruolo sancito dall’ascrizione alla Lista mondiale del Patrimonio dell’Umanità nel 2014. Dall’Ottocento a oggi, insieme alle modalità produttive, anche il paesaggio viticolo si trasforma all’insegna della specializzazione colturale: la viticoltura contadina diviene impresa, il vigneto si meccanizza e surclassa le altre colture, prende forma quel paesaggio “di colline ricoperte di vigneti a perdita d’occhio” conosciuto in tutto il mondo (UNESCO WHL, 2014).

Non si deve pensare tuttavia a un cambiamento repentino, bensì a un processo non lineare con resistenze e arresti, anche dovuti alla diffusione delle devastanti fitopatie (oidio, peronospora, fillossera)

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Una delle fasi della vendemmia a Carema (© Cantina dei produttori Nebbiolo di Carema, foto di David Mannarino).

ALBA E I SUOI CAFFÈ

I frizzanti anni Cinquanta e Sessanta dal bancone di un bar di Gianmarco Gastone

Piazza del Duomo ad Alba, ieri e oggi.

Guardò ancora le colline: ci erano voluti i tedeschi per farle apprezzare ai langaroli. Gli inglesi nel Chianti e i tedeschi nelle Langhe, con il loro “marco forte” a comprare le case che quelli del posto lasciavano cadere in rovina, quelle sui bricchi, sulle vette modeste ma inaccessibili di quelle ondulazioni che, in certi angoli, si davano arie da montagne. C’erano voluti gli stranieri per renderli orgogliosi dei loro vini, per convincerli a farli meglio, ad affinarli, ad amarli. Suo padre non si era mai convinto e aveva continuato a fare una barbera da quattro soldi, aspra, di quelle che i torinesi, negli anni ’70, compravano a damigiane ripetendo come un mantra “è vino del contadino, mica fatto con le polverine” e, felici, si intossicavano di aceto. Oggi Barolo e il barolo erano conosciuti in tutto il mondo e sui bricchi i turisti arrivavano col pullman per assistere allo spettacolo del tramonto, ma lui, con la terra di suo padre, non si era ancora riconciliato.

Sono queste le parole con cui Alessandro Perissinotto, nel suo romanzo Il silenzio della collina, dipinge le Langhe attuali. Nelle piazze centrali di quella che per molti è la loro capitale, Alba, per anni sono sorti due caffè voluti da uomini che contribuirono in modo decisivo a diffondere nel mondo il vino e il tartufo di queste colline. I loro nomi erano Luigi Calissano e Giacomo Morra e i caffè si chiamavano Caffè Calissano e Hotel Savona. In quest’ultimo locale, dove sorgeva un caffè aperto a tutti, come anche al Circolo sociale, amavano ritrovarsi non solo i professionisti e i piccoli imprenditori del tempo, ma anche quei personaggi che segnarono una stagione culturale particolarmente felice per l’Alba degli anni Cinquanta e Sessanta.

Chi era Luigi Calissano?

Oltre a essere stato un importante esponente locale del partito liberale, tanto da essere eletto in Consiglio Comunale per ben sette volte, Calissano fu il fondatore di quella che, fino al 1929, fu la più grande azienda vinicola albese. Nata ufficialmente nel 1891, la ditta Luigi Calissano e figli contava già, oltre allo stabile albese, tre filiali a Torino, Milano e Genova e, da lì a poco, gli albesi si sarebbero abituati ai carichi di vini che, progressivamente, avrebbero lasciato le loro dolci colline per raggiungere Buenos Aires, Montevideo e New York. Qui, poco tempo dopo, sarebbe stato anche aperto un impianto di imbottigliamento per il mercato americano. Purtroppo, il proibizionismo americano e la Grande Crisi del 1929 ebbero effetti nefasti sull’azienda che, nei decenni successivi, sarebbe andata incontro a gravi difficoltà.

Probabilmente, però, quando Luigi Calissano nel 1883 acquistava 2.600 metri quadri di terra appena fuori da Alba, dove dal 1885 sarebbe entrato in funzione il suo stabilimento, non poteva certo immaginare che il più signorile dei caffè di Alba avrebbe portato il suo nome in quel secolo, il Novecento, di cui lui, mancato nel 1913, non vide le peggiori brutture.

Il Calissano, caffè dei signori di Alba

Fondato a metà Ottocento in un palazzo quattrocentesco nel cuore pulsante di Alba, il Caffè Calissano è stato un autentico luogo di ritrovo per industriali, uomini e donne di cultura, di politica e di sport albesi nel corso del Novecento. Esso sorgeva in quella piazza che oggi è stata ribattezzata Risorgimento, ma che gli albesi chiamano Piazza del Duomo e in cui, oltre al bel palazzo comunale e all’imponente massa neogotica della facciata della cattedrale di San Lorenzo, spiccano su uno dei due lati lunghi alcuni portici che ospitano esercizi commerciali al loro riparo. Sotto di essi, appena prima del duomo, sorgeva il Caffè Calissano ed erano questi i luoghi a cui si riferiva Beppe Fenoglio nel suo racconto La licenza

— Sì, — disse Boeri, — ma adesso dove mi stai portando? — […] — Ti porto nel più bel caffè di Alba, — rispose il Fenoglio, — nel caffè dei signori di Alba, talmente dei signori che la gente non osa passare nemmeno sotto i portici, nemmeno d’inverno, quando non c’è dehors. A Boeri cominciò a battere il cuore per l’apprensione, pensava che se il Fenoglio avesse cominciato a provocare nel caffè dei signori come aveva fatto nel bar della stazione, al

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Cartolina storica della città di Alba.

Giambattista Bodoni

Il tipografo dei re

Era saluzzese il creatore del carattere usato in tutto il mondo

Torino è una città ricca di perle misconosciute, angoli pittoreschi e affascinanti che attendono di essere trovati a pochi passi dalle affollate arterie dello shopping e dalle piazze gremite, e per farlo basta cambiare strada, svoltare a destra o a sinistra rispetto al solito percorso, perdersi volontariamente spinti dal pungolo interiore della curiosità. È capitato anche a chi scrive di trovarsi molte volte, magari all’ora di pranzo, quando la città tutta pare trattenere il suo respiro talmente è vuota, di trovarsi appunto a vagare senza meta per Torino. Tra i luoghi che si possono così scoprire vi è piazza Bodoni, posta a poca distanza da via Lagrange, una sorta di piazza San Carlo in miniatura, con tanto di statua equestre, più sobria, quasi nascosta verrebbe da dire, ma non per questo meno bella.

L’uomo che dà il nome alla piazza potrebbe risultare altrettanto sconosciuto come molti altri nomi che distinguono vie, piazze, corsi e viali, e di cui tuttavia non sappiamo nulla. Eppure non è così, perché Bodoni è anche il nome di una serie di caratteri che anche il meno smaliziato utilizzatore di Microsoft Word conosce. E Bodoni era il nome di un celebratissimo creatore di caratteri, di cui Alfieri nella sua Vita dice: “Ma certo in nessuna più angusta officina io potei mai capitare per la prima volta, né mai ritrovare un più benigno, più esperto e più ingegnoso espositore di quell’arte meravigliosa che il Bodoni, da cui tanto lustro e accrescimento ha ricevuto e riceve”, parole a cui si potrebbero aggiungere quelle di Foscolo, che in una lettera indirizzata a Bodoni scrisse: “Se il mio nome morrà con me, que’ pochi versi vivranno almeno per l’immortalità del vostro.”

Pagina tratta dal "Manuale tipografico" di Giambattista Bodoni del 1788. Nonostante il titolo, “Manuale”, si tratta in realtà di un campionario di caratteri diviso in due parti: la prima reca 100 caratteri latini tondi e 50 corsivi, la seconda presenta 28 caratteri greci minuscoli. I caratteri non sono presentati con la tradizionale serie alfabetica ma tramite testi che descrivono varie città italiane (© Complesso Monumentale della Pilotta).

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Questa pagina è scritta in Bodoni!

DA NOVARA AL MONDO

I reportages fotografici di Alessandro Faraggiana tra Suk e Samoiedi

di Silvana Bartoli

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Fotografie di Alessandro Faraggiana del suo viaggio in Egitto effettuato nel 1902 (Foto © Mario Balossini).

Quando gli europei avranno portato a termine le loro conquiste, quando avranno creato i tribunali e le tasse, quando infine un popolo di gente bella, fiera, libera e coraggiosa, domata dalle leggi e dalla fame, dovrà abbandonare la lancia ereditata dai suoi padri per la zappa, strumento dei servi della gleba, e il suo paese, perduto l’aspetto selvaggio ma pittoresco, sarà coperto dalla monotona vernice che la civiltà stende sulle regioni occupate, quei popoli vivranno più felici? Oppure la civiltà europea servirà solo a procurare aurei profitti alla razza che l’ha elaborata e imposta?

Così Alessandro Faraggiana chiude la relazione sul viaggio tra i Suk e i Turkana. L’ha scritta per la Società Geografica Italiana, della quale faceva parte e che era particolarmente interessata ai suoi percorsi, soprattutto a quelli in Centro-Africa o nelle Regioni Polari.

Siamo nel primo decennio del Novecento. Alessandro, che ha frequentato l’Accademia militare di Torino, è ufficiale di artiglieria e ha già compiuto altri viaggi: Tunisia, Egitto, Eritrea, India, per citarne alcuni. Nel 1906 pensa all’Africa Orientale, poi nel 1909 si orienterà verso la Nuova Zemlja, sempre in cerca di popolazioni “primitive” e luoghi poco noti. Sono appunto questi i viaggi apprezzati e incoraggiati dalla Società Geografica che non manca di sottolineare il “notevole contributo di conoscenze” che verrà dalle relazioni pubblicate sul Bollettino o dalle conferenze con proiezioni nell’Aula Magna del Collegio Romano.

Alla scoperta dei Grandi Laghi africani

Alessandro intende, a scopo di studio e di caccia, come sempre a sue spese, dirigersi verso il British East Protectorate — noto anche come Africa orientale britannica, un'area nella zona dei Grandi Laghi africani che occupava all'incirca lo stesso terreno dell'attuale Kenya: dall'Oceano Indiano nell'entroterra fino al confine con l'Uganda a ovest. Prima ancora che arrivi il permesso del Ministero della guerra dal quale dipende, la Società Geografica Italiana gli scrive indicandogli esattamente l’itinerario da seguire: da Mombasa in treno fino a Nakuro, poi con una carovana arriverà al lago Rodolfo e infine al lago Stefania.

Se per Alessandro era un viaggio d’istruzione e sport, la Società Geografica Italiana si riprometteva di trarne informazioni: su territori quasi del tutto sconosciuti e soprattutto sui cambiamenti prodotti presso la popolazione indigena a seguito della costruzione della ferrovia che da Mombasa arrivava al lago Vittoria. Interessavano poi le quote di livello dei laghi Rodolfo e Stefania, essendovi discrepanze tra i dati forni-

ti dagli esploratori. Ma Faraggiana doveva anche osservare le tribù che avrebbe incontrato: la loro organizzazione sociale, gli aspetti morali e materiali del vivere. Per questo la Società Geografica Italiana invitava a fare largo uso della fotografia come mezzo di documentazione antropologico.

Nessun’altra richiesta poteva essere più gradita a chi, nel parco della propria villa di Meina, aveva visto costruire un laboratorio fotografico col quale i genitori, Caterina e Raffaello Faraggiana, esprimevano la passione per la nuova arte. Una passione che coinvolse gradualmente tutta la famiglia, a giudicare dal numero di album rimasti e dalle attrezzature conservate nel laboratorio.

La famiglia Faraggiana, tra nobiltà e filantropia

Arrivati a Novara nel 1821, nobili di Sarzana e già ricchi imprenditori liguri, i Faraggiana avevano ricevuto un’eredità strabiliante dallo zio, Giovan Maria De Albertis, con la quale avevano acquistato la villa Du-

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Alessandro Faraggiana nel suo primo viaggio in Africa centro-orientale, 1907 (© Fondazione Faraggiana).

IL REVIVAL DELLA MUSICA OCCITANA

Danze e suoni della tradizione rivivono nelle valli cuneesi

di Daniela Bernagozzi

Fisarmonica cromatica a bottoni e clarinetto: il connubio protagonista delle feste in Val Vermenagna (© Museo della fisarmonica di Robilante).

Il centro innova, la madrepatria innova, cambia, inventa. Ma le periferie invece conservano: le periferie, gli esuli, le comunità, più distaccate e più lontane dalla loro origine, conservano usi e costumi, idee e tecniche, conservano per nostalgia dei padri, per fedeltà ai padri, e per l’orgoglioso bisogno di affermare la propria identità di fronte alle comunità estranee e più potenti dalle quali si trovano circondate e a volte oppresse.

Così un racconto di Mario Soldati del 1979, dal titolo Estate gelati nicotina, pubblicato poi in volume nel 1982 nella raccolta La Casa del perché. La storia prende lo spunto dalla ricerca da parte di Soldati, ormai vecchio, di un tipo particolare di gelato “il pezzoduro” che mangiava a Torino all’inizio del secolo e dal fatto che sia passato di moda in modo irreversibile. Ebbene, dopo molte ricerche, il “pezzoduro” verrà ritrovato proprio a Torino, da un gelataio di origine siciliana che conserva le vecchie tradizioni, mentre sarebbe impossibile trovarlo in Sicilia, o in altre città più tipiche nell’innovazione dell’arte gelataia.

Un simile senso di vertigine per l’affiorare di un passato remoto si può provare scorrendo i nomi delle danze occitane più tradizionali e ancora oggi ballate nelle feste tipiche di molte valli montane della provincia di Cuneo: Contraddanza (che è probabilmente una deformazione di Countrydance), Rigoudin, Giga, Courenta (o Correnta in italiano) ecc. Sono forme che già nel nome parlano di tradizioni antiche: la periferia conserva, appunto, come dice Soldati. Le valli piemontesi occidentali, quelle che chiamiamo “occitane”, da sempre più in contatto con la Provenza e il Delfinato che con la tradizione della pianura padana, le hanno ereditate. Passaggi di eserciti, emigrazioni, contatti secolari: chi balla queste danze dai nomi antichi nelle feste popolari estive della Val Varaita non ne è sempre consapevole, ma lo sono stati tutti coloro (e sono tanti ormai) che dagli anni Settanta si sono impegnati per il recupero della musica tradizionale delle valli piemontesi e che è di fatto oggi spesso un tuffo nel passato con uno sguardo al futuro. Cominciamo da loro: i raccoglitori.

I pazienti raccoglitori: Andè a spas

Nelle valli cuneesi (o nelle prime valli torinesi come la Val Germanasca o Chisone) dagli anni Settanta partì un movimento che puntò al recupero della musica tradizionale con i suoi strumenti: da quelli più antichi e medievali come ghironda e cornamusa, fino ai più moderni suonati magari con tecniche popolari come il violino, l’organetto diatonico o semidiatonico (il semitoun), la fisarmonica, il clarinetto. I primi “raccoglitori” cercarono innanzitutto di salvare una tradizione che in gran parte era orale, e che si stava spegnendo con la morte dei suonatori tradizionali. Complice di questa decisione è stato il fatto che negli anni Settanta lo spopolamento della montagna si stava compiendo ma sia il gruppo Comboscuro delle origini, sia libri di linguisti come Corrado Grassi, il cui Correnti e contrasti di lingua e cultura nelle valli Cisalpine di parlata provenzale e franco-piemontese è del 1958, mossero molti alla riscoperta di quelli che allora venivano chiamati “i provenzali d’Italia” e ci si cominciò a interessare alla cultura e alla lingua peculiari delle valli montane.

Di questo momento abbiamo parlato con Gianpiero Boschero (Jan Peire de Bousquìer), avvocato di Saluzzo ormai in pensione, che nella sua casa di Borgata Grande di Frassino conserva i risultati di questo straordinaria stagione di raccolta e di queste autoproduzioni: vinili, musicassette, riviste, o addirittura dispense per spiegare le tecniche

delle danze. Il pathos di conservare lo accompagna da tutta la vita. È in gran parte grazie a lui se queste melodie sono ancora note. Lo abbiamo incontrato dopo la grande fatica di partecipare e contribuire alla Baìo, la grande festa della Val Varaita che nel 2023 si è ripresa dopo 6 anni, e gli abbiamo chiesto un bilancio del suo lavoro:

Ho respirato il profumo delle radici e so che i miei avi discendono da queste borgate di Frassino almeno dal 1500. Già a 17 anni, mentre studiavo a Saluzzo, ho cominciato a trascorrere lunghi periodi estivi nella baita di un mio zio a Carlevari, sopra la frazione di S. Maurizio (nel comune di Frassino ndr.) e lì a conoscere qualche suonatore. Ce n’era uno che suonava l’armonica, Bartolomeo Civalleri, e si provava a ballare con qualche amico. Ma io non conoscevo le danze e mia mamma, che pure le conosceva subito non me le insegnò. Le vidi anche a qualche festa estiva nei paesi, a Elva, a Vinadio, e ne fui affascinato. Piano piano cominciammo a fare dei gruppi misti di villeggianti e turisti e a chiedere ai vecchi delle frazioni di insegnarcele. Imparammo e facemmo rivivere danze difficili che grazie a noi sono sopravvissute e che ora tutti ballano.

Abbiamo poi cominciato negli anni ‘70 ad andare con il registratore a cassette in giro a farci eseguire danze e melodie. Qui a

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DAVIDE CALANDRA UNO SCULTORE, UNA GIPSOTECA

Alla continua ricerca di espressività e armonia  di Rosalba Belmondo

Interni della gipsoteca Davide Calandra di Savigliano dove il candore dei gessi è combinato ai vivaci colori degli affreschi sei-settecenteschi del complesso conventuale dei Frati Minori Osservanti.

Mi si chiede dalla redazione della Rivista Savej di parlare dello scultore torinese Davide Calandra e della istituzione museale permanente che meglio e più compiutamente ne illustra il percorso artistico, ossia la gipsoteca a lui dedicata nella città di Savigliano. Essa, aperta al pubblico cinquant’anni fa nel 1973, riallestita e rivisitabile dal 2002, mi ha vista pienamente partecipe degli eventi e delle scelte in qualità di direttore responsabile dal 1988 al 2018. Scriverne non è un compito facile, perché nei confronti del pubblico di lettori più informati si rischia di ripetere ragionamenti e informazioni già acquisiti, e per tanti altri — magari loro malgrado neofiti dell'argomento — di prescindere da premesse fondamentali.

La riscoperta “calandriana”

La fortuna critica di Davide Calandra, se rappresentata graficamente, rivelerebbe un marcato andamento a onda, dove il massimo dei consensi si registra negli ultimi anni della carriera dell'artista, il punto più basso coincide con i decenni a cavallo della Seconda guerra mondiale, per poi rialzarsi a inizio anni Settanta; e ciò per effetto delle donazioni di gessi, crete, terrecotte (bozzetti, modelli preparatori, calchi) che la figlia Elena Calandra Cravero destinò a più riprese alla città di Savigliano, cui conseguì l’apertura della gipsoteca e la pubblicazione, nel 1975, del volume La gipsoteca Davide Calandra, curato da Aldo Alessandro Mola.

Ma l'interesse sull'artista e sulla sede espositiva di quelle sculture e modellati preparatori era destinato a non durare, complice anche la condizione di degrado cui andarono incontro nei decenni successivi gli spazi della gipsoteca, ossia la seicentesca ex chiesa di san Francesco, parte

del complesso conventuale dei Frati Minori Osservanti, il cui cenobio dal 1970 ospita il Museo Civico. Dopo il lungo e complicato percorso di risanamenti, restauri e riallestimento totale, nel 2002 l'ex chiesa è stata riaperta al pubblico, ospite d'onore Vittorio Sgarbi allora Sottosegretario al Ministero dei Beni Culturali. Il convegno inaugurale dal titolo Davide Calandra. Lo scultore, la gipsoteca vide la partecipazione di importanti studiosi italiani di arte, di docenti universitari e funzionari delle Soprintendenze; l'attenzione rivolta all'artista in tale occasione e ancor più gli studi condotti per il fondamentale catalogo Davide Calandra. L'opera, la Gipsoteca, edito nel 2004, a cura di M. Mimita Lamberti e della sottoscritta, con le ovvie conseguenti ripercussioni mediatiche, hanno riportato l'attenzione degli storici dell'arte sulla personalità dello scultore, il milieu familiare e l'ambiente culturale che egli frequentò.

La varietà di approcci e l'autorevolezza degli studiosi coinvolti nella riscoperta “calandriana” hanno permesso di smuovere definitivamente la semplicistica etichetta di “monumentalismo” cui era sta-

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Gesso del Fregio per l’Aula del Parlamento Italiano presente alla Gipsoteca di Savigliano (foto Stefano Negro).

CALCE, VINO E CEMENTO

La storia dei gavadur di Ozzano Monferrato

Circa venti milioni di anni fa, a causa dei movimenti dell'Appennino che andava formandosi, il Monferrato Casalese emerse e divenne un'isola circondata dal mare. Il clima era caldo, i paesaggi erano simili a quelli delle aree subtropicali, acque cristalline, alghe rosse, diverse specie di pesci, compresi squali, e molti ricci di mare. Uno in particolare, appartenente a una specie mai trovata altrove, venne scoperto nella campagna di Ozzano (Ausan, in dialetto), un piccolo borgo di 1.400 abitanti a pochi minuti da Casale. Questo raro invertebrato marino venne chiamato Schizaster ozzanensis.

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Illustrazione di Lorenzo Dotti.

Quando a Ozzano c'erano gli squali

A guardare oggi queste verdi colline, la brina sui filari delle vigne, la chiesa con il suo campanile e il venditore di caldarroste parcheggiato lungo la via principale del borgo, lo scenario tropicale del Cambriano è davvero difficile da immaginare. In milioni di anni vari mutamenti geologici hanno plasmato il territorio. Le colline, caratteristiche del paesaggio di questa zona, sono una evidente eredità di quei movimenti, certo; eppure ci siamo così abituati che è difficile immaginare degli squali tra queste vie. E questo è il sopra; se poi pensiamo al sotto, cioè a quello che abbiamo sotto i nostri piedi, il discorso si complica ancora. Tra le rocce di Ozzano, ad esempio potremmo trovare dei denti di squalo, una delle merci di scambio più ambite tra i minatori: chi ne trovava una poteva barattarla con un pacchetto di sigarette o una bottiglia di birra. Questi depositi, che del tutto casualmente finirono sotto i piedi dei futuri ozzanesi, hanno determinato la storia di questo territorio. Una storia impossibile da non notare osservando il paesaggio dall'alto, dalle colline di fronte, da dove è possibile ammirare le strutture imponenti e le ciminiere altissime. Se invece si percorre la strada con la macchina, di sfuggita, attraversando la statale, è possibile non accorgersi di nulla. È necessario dunque cambiare prospettiva.

I contadini-cavatori

Oggi tra la collina di Ozzano e il fiume Po c'è quella che qualcuno ha definito la “valle dei templi”. Monumenti di archeologia industriale, imponenti e abbandonati, spesso ricoperti dalla vegetazione, immersi nella campagna. Nello sfondo, il castello e l'immancabile campanile che caratterizza ogni collina del Monferrato.

Sotto i nostri piedi c'è un intero mondo sotterraneo fatto di depositi di arenaria calcarea e di quella che viene chiamata “pietra da cantoni”, a lungo usata nell'edilizia. Così avvenne che, là dove nuotavano gli squali e proliferavano i ricci, milioni d'anni dopo, i contadini scoprirono la “marna”. E così per un bel po', tra un filare e l'altro, ai margini dell'orto che garantiva giusto la sussistenza, i contadini iniziarono a estrarre questo materiale. Già nel XIX secolo uomini e donne si trasformarono in contadini-cavatori. Qua, dalle parti di Ozzano, non si dirà mai minatori, ma sempre “gavadur”. Ci sono testimonianze precedenti di interesse verso la “pietra da calcina”, ma è da questo secolo in poi che si inizia a fare sul serio. Chi si ritrovava della pietra da cavare nel proprio orto, la tirava fuori, senza mai mollare però il lavoro della campagna che garantiva una magra sussistenza. Un'economia famigliare, per arrotondare le esigue entrate.

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Ex Cementificio Milanese e Azzi a Ozzano Monferrato (© Associazione OperO, foto di Lorenzo Sassone).

PER TUTTO L'ORO DEL PIEMONTE

A caccia di pepite con i cercatori d'oro di ieri e di oggi

Secondo Samuel Johnson, i complimenti sinceri sono, come l’oro e i diamanti, preziosi per la loro scarsità.

E la scarsità è certamente uno dei motivi per cui l’oro — l’elemento 79 della Tabella Periodica — è considerato un metallo prezioso da oltre seimila anni: un pendente di oro a 24 carati, ritrovato a Varna, in Bulgaria, nel 2015, e risalente al 4.300 a.C., è il più antico esempio di uso di questo metallo in gioielleria. Si calcola che se tutto l’oro del mondo venisse fuso in un unico lingotto, questo sarebbe un cubo da 20 metri di lato.

La scarsità dell’oro fa anche sì che esso sia infinitamente riutilizzabile — gli oggetti d’oro si fondono e si trasformano, ed è probabile che l’anello o il bracciale che oggi indossiamo contenga oro che nei secoli passati è stato un diverso gioiello, o una moneta, forse nello scrigno di un pirata o nel corredo funebre di un faraone.

Fotografia, donata al Museo dell’oro di Cascina Merlanetta da Pietro Bastianino, che ritrae Filippo, fratello di suo nonno, esperto cercatore d’oro di Casal Cermelli, tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento (© Cascina Merlanetta).

Il metallo più amato

Ma la scarsità da sola non basta: il platino è più raro dell’oro, ma meno popolare. Come l’oro, il platino non è soggetto a corrosione, ma a differenza dell’oro, che fonde a poco più di 1000°C, il platino è più difficile da estrarre, è più difficile da lavorare e fonde a 1768°C. L’oro è un ottimo conduttore elettrico e un eccellente riflettore di radiazioni infrarosse, caratteristiche che ne fanno un importante materiale per le moderne tecnologie (dalla circuitistica elettronica alla creazione di telescopi astronomici). Ed è estremamente duttile e malleabile: trenta grammi d’oro possono essere martellati fino a farne un foglio di cinque metri di lato. L’oro è anche di un bel colore giallo-dorato, a differenza di ogni altro metallo nella tavola periodica con la sola eccezione del rame. Nel suo stato naturale, l’oro non si trova puro, ma è associato all’argento e la percentuale di argento nella lega incide sull’intensità del colore del minerale. Per uso industriale e in gioielleria, l’oro viene invece addizionato con argento, rame, platino o palladio, a seconda degli usi.

Raro, facile da estrarre e da lavorare, bello a vedersi, l’oro è stato per millenni la valuta ideale, il bene rifugio, il materiale col quale creare artefatti meravigliosi. E non solo. L’oro è anche un autentico oggetto del desiderio, capace di scatenare l’avidità e la follia nelle persone più apparentemente equilibrate. Hernan Cortes, l’uomo che conquistò il Messico e contribuì a rifornire le casse della corona spagnola con i

tesori dell’impero Azteco, sosteneva che l’oro fosse l’unica cura per una malattia dell’anima che affliggeva gli spagnoli. Una malattia che condusse molti contemporanei di Cortes a sacrificare la propria vita – e prima ancora, forse, la propria sanità mentale – per la ricerca del mitico El Dorado: una intera città fatta d’oro. Una ricerca, quella dell’El Dorado, cara ai narratori di storie d’avventura (ricordiamo qui solo Aguirre, Furore di Dio di Werner Herzog, del 1972) e che avrebbe continuato a mietere vittime nei secoli successivi, fino alla metà del XX secolo.

Dove si trova l'oro?

Se depredare antiche civiltà e saccheggiare i tesori altrui è una pratica consolidata da parte di molti di coloro che sono stati colti da quella “malattia dell’anima” descritta da Cortes, è tuttavia innegabile che il modo più semplice e meno rischioso per accumulare oro resta quello di trovare e sfruttare un giacimento naturale.

Esistono in natura due tipi principali di giacimenti auriferi: le vene (lodes, in inglese) e i giacimenti sedimentari (placer). Le vene aurifere si formano a partire dalla circolazione di fluidi idrotermali all’interno delle rocce. L’acqua super-riscaldata si insinua in fratture delle rocce e, raffreddandosi, deposita i minerali che a temperature maggiori erano disciolti in essa. Le acque super-riscaldate possono avere diverse origini, legate all’attività tettonica della crosta terrestre:

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Il frutto di anni di ricerca e raccolta di pagliuzze d’oro nel Biellese (© Associazione cercatori d’oro biellesi).

LE ATTIVITÀ DELL'UOMO NEI NOMI DI LUOGO

Cave, vigne e mulini nella toponomastica piemontese

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L’occhio con cui l’uomo ha guardato l’ambiente e l’ha nominato non è tanto un occhio “estetico”, che mira a cogliere aspetti più o meno belli del “paesaggio” (le virgolette sono d’obbligo, considerando che è una idea molto moderna), quanto piuttosto un occhio “economico”. Il toponimo, oltre a classificare lo spazio e al di là di alcune tautologie (un rilievo è un picco, un bricco, un trucco o una cima; un corso d’acqua è un fiume, un ruscello o un rio a seconda della sua portata; una casa è una casa e così via), si rifà a un elemento caratterizzante lo spazio nominato e con grande frequenza questo elemento suggerisce il modo in cui l’uomo può trarre vantaggio da esso, indicando la presenza di risorse o indicando il loro sfruttamento.

Nomi di luogo e attività dell'uomo

Alcune delle categorie che abbiamo già osservato nei precedenti numeri di Rivista Savej possono essere lette in questo modo. Si pensi ai fitotoponimi (nomi di luogo da nomi di piante): prevalgono le essenze che avevano un qualche tipo di sfruttamento; per quanto riguarda gli zootoponimi, essi potevano segnalare la destinazione d’uso di uno spazio, se il nome derivava da un animale domestico, oppure avvertivano della pericolosità del luogo (toponimi derivati dai nomi degli animali carnivori, come il lupo e l’orso); gli antropotoponimi, infine, svolgevano un ruolo di “catasto orale”, nominando i proprietari dei luoghi e quindi indicando chi godeva i diritti di sfruttamento (e lo stesso vale per i territori che rimandano ai concetti di comunia e donia di età medievale).

In questo episodio ci concentreremo su nomi di luogo che evocano attività dell’uomo. In primo luogo osserveremo alcuni nomi collegati alle attività estrattive (metalli e pietre), poi proseguiremo considerando come l’agricoltura ha modificato il paesaggio, soffermandoci anche su alcune coltivazioni fortemente commerciali. In seguito, analizzeremo alcuni toponimi derivati da attività legati alla trasformazione delle materie prime: fucine, magli e altre ancora. Considereremo inoltre una categoria di allevamenti che non avevamo ancora considerato, per passare poi ad alcuni nomi che evocano il commercio e la circolazione delle merci sul territorio.

I nomi di luogo di cui tratteremo assieme sono stati presi dalle carte ufficiali della regione (carta tecnica regionale e carta dell’Istituto Geografico Militare), oltre che da google maps; ricordo che i soli dati moderni possono essere validi indizi per supporre il significato dei toponimi, tuttavia per essere più sicuri di una ricostruzione etimologica e motivazionale sarebbe necessario un confronto con le corrispettive denominazioni dialettali, nonché con le attestazioni più antiche a nostra disposizione.

Tesori dal sottosuolo

Il sottosuolo piemontese è ricco di materie prime e queste risorse sono state ampiamente sfruttate nel corso della storia; non è raro quindi imbattersi in toponimi che evocano questo tipo di attività.

Per quanto riguarda l’estrazione mineraria ricordiamo a mo’ d’esempio Borgata Mina a Valdilana (BI), Cava Roccone a Monastero di Vasco (CN) e Rocca Pertusà (cioè bucata) a Usseaux (TO), probabili indizi della presenza di una cava. Ma che cosa si estraeva? La toponimia cristallizza la presenza di diversi metalli, a cominciare dall’oro: dal ventre delle nostre montagne le acque portavano a valle pagliuzze e pepite,

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