Un trend costantemente a ribasso Siamo nel mezzo di una pandemia e di un’epidemia nazionale, che sta colpendo violentemente il territorio italiano e i suoi cittadini, conducendo il nostro sistema sanitario sull’orlo del collasso, in una situazione emergenziale che provoca continuo stress e che peggiora sempre più. Senza dubbio negli ultimi anni non ci siamo preparati ad uno stato di emergenza di questo tipo, mentre altri paesi sono stati colti più preparati. È il caso ad esempio della Corea del Sud, che ha infatti visto in pochissimo tempo ridursi il numero di nuovi contagi tra la sua popolazione. Considerando del resto i numerosi problemi che affliggono il nostro sistema sanitario nella gestione ordinaria, a prescindere dall’emergenza, tutto può risultare più chiaro. Qualsiasi libro di finanza pubblica sostiene che le spese pubbliche in campo sanitario generano, oltre a benefici per gli assistiti, anche benefici esterni: aumento della produttività del lavoro (e quindi crescita del reddito nazionale) nonché riduzione del rischio delle epidemie. Un dato d’altra parte è certo, in questi ultimi dieci anni, e quindi successivamente alla crisi del 2008, in cui c’è stata una riduzione parzialmente giustificata ai finanziamenti al sistema sanitario, non ci sono stati politici e amministratori che abbiano posto la sanità come fulcro dei loro programmi di governo. Le poche iniziative politiche di valorizzazione della sanità sono state prese soprattutto su base regionale, e quindi dai vari amministratori di regione, e non su base nazionale, prescindendo quindi da una visione omogenea e unitaria. A ciò vanno poi aggiunti altri fattori importanti quali le mutate condizioni cui le epidemie si diffondono, le varianti economiche e quelle sociali che contribuiscono a minare la sostenibilità di tutti i sistemi sanitari. 4
Si intende cioè l’invecchiamento della popolazione, il costo sempre crescente delle innovazioni tecnologiche mediche e farmaceutiche, l’aumento costante della domanda di servizi e prestazioni da parte dei cittadini.In questo contesto particolarmente critico risulta decisamente fuori luogo ogni richiamo alle classifiche e alle statistiche sulla qualità del servizio sanitario, alcune di queste desuete, come quella della Oms del 1997 che vede l’Italia al secondo posto come qualità del servizio sanitario nazionale, o quella Bloomberg che si basa su dei fattori che non possono essere considerati proporzionali ai livelli di finanziamento. L'Italia, in quest'ultima classifica , si colloca al quarto posto,ma la valutazione si basa sul rapporto tra tasso di mortalità e finanziamento, che secondo alcuni esperti, tra cui i relatori del rapporto Gimbe, dipende soltanto per il 10% dalla qualità del sistema sanitario. Essi sostengono infatti che “L’aspettativa di vita alla nascita dipende da fattori genetici, ambientali sociali e dagli stili di vita. Se Bloomberg correlasse il finanziamento con l’aspettativa di vita a 65 anni in condizioni di buona salute e in assenza di malattie, l’Italia precipiterebbe in fondo alla classifica”. Questi posizionamenti eccellenti rischiano dunque di celare, se non addirittura di giustificare, la tendenza al disinvestimento degli ultimi decenni, protratta da politici di qualsivoglia colore politico e appartenenza, che hanno gradualmente tolto valore al sistema sanitario pubblico, lasciando sempre più ampi margini al privato, rafforzando il secondo pilastro (quello delle convenzioni, che approfondiremo più avanti) e ledendo l’accessibilità dei cittadini al diritto alla salute. Nel 2018, la spesa pubblica per la sanità, in rapporto al Pil era del 6,6%, portando l’Italia ad essere fanalino di coda dei paesi dell’Europa occidentale, insieme alla Spagna e alla Grecia e avvicinandosi pericolosamente alla soglia minima indicata dall’Oms, consistente nella percentuale in rapporto al Pil del 6,5%. Scomodo
Marzo 2020