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Ipergigante dei Voina e la responsabilità di essere indipendenti Musica
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Indipendente è un aggettivo che riesce a mostrare orizzonti tanto ampi quanto più fa avvertire il peso della sua responsabilità, perché l’indipendenza ha un prezzo, spesso molto alto sotto vari punti di vista e non tutti vogliono pagarlo o sono disposti a farlo. Occupiamoci ora dell’abbreviazione di indipendente: Indie. Quest’ultima espressione è diventata main stream e d’utilizzo comune alla stessa velocità con cui si è affermato il tipo di musica a cui questo termine di origine inglese è associato, portandosi con se, allo stesso tempo, un’infinità di contraddizioni e permettendo la sua associazione, ahimè, all’etichetta pop: quanto più di lontano dall’indie dovrebbe esserci. Fino a un decennio fa non avremmo mai pensato - e probabilmente nemmeno auspicato - di vedere gli Zen Circus, Lo Stato Sociale e altri su un palco nazional popolare come quello di Sanremo, mentre oggi ritroviamo questo genere, o ciò che si spaccia per esso, in bando al televoto e alle major discografiche. Noi, però, pensiamo che nonostante tutto si possa respirare un aria musicale differente, una musica indipendente diversa che sappia parlare di disillusione e fallimento generazionale oltre che del sole di riccione. Da Lanciano infatti arriva, Ipergigante, ultima produzione del 2020 per la band abruzzese Voina, con la quale il gruppo è riuscito a riempire di senso l’utilizzo dell’elettronica mescolandola in maniera non banale con altre sonorità tipiche di altri generi. In brani come Mercurio cromo emerge in maniera preponderante l’allontanamento dalle loro radici sonore del post hardcore ri-
dimensionate a qualche ritornello distorto e a riff minimali per lasciare spazio a una maggiore sperimentazione di sonorità che spaziano da basi ritmiche che ricordano la trap a un cantato che in Shinigami si avvicina al rap lasciando intatto il loro sound indentitario. Se quindi da un lato emerge la volontà di seguire un percorso musicale diverso da quello che ha caratterizzato l’indie originale derivante dal punk che faceva rima con underground, da un altro rimane orgogliosamente marcata l’anima post punk, di cui è emblematica la voglia di gridare e vomitare fuori, non più come bisognerebbe “fottere il sistema prima che ci fotta” - tipico del punk -, ma di come “siamo stati fottuti” e continuiamo a vivere questo fallimento generazionale quotidianamente a livello esistenziale. La rabbia diventa autodistruzione, come anche l’amore che viene messo a parole; parole per nulla romantiche, sporche, intime, che riescono a mettere a nudo la brutale semplicità che chiunque, appartenente alla nostra generazione, ha molto probabilmente vissuto almeno una volta nella propria vita. Ci ritroviamo così davanti a un indie familiare, ma che suona diverso, perché arriva come un pugno nello stomaco e non come un testo sconnesso, dalla composizione discutibile e musicalmente banale. Ci viene sbattuto in faccia il nostro ritratto di tutti i giorni: una generazione in saldo, universitari e studenti fuori sede; un esercito cognitivo in cerca di auto valorizzazione per essere il più appetibile possibilie a chi, speriamo un giorno, ci comprerà.
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