Numero 37 del 11 febbraio 2021
Transamericana
Sommario l’Editoriale del Direttore/Un caldissimo gennaio - pag. 3 di Aldo AVALLONE La vittoria di una democrazia trattenuta - pag. 7 di Rosanna Marina RUSSO E crisi fu - pag. 12 di Antonella GOLINELLI L’elezione presidenziale USA più contrastata e contestata di sempre - pag. 17 di Giovan Giuseppe MENNELLA What else?- pag. 24 di Antonella BUCCINI C’era una volta un filo rosso - pag. 26 di Raffaele FLAMINIO Una fondazione non ci salvera! - pag. 34 di Giovanni AIELLO Contro la cultura dell’odio, l’impeccabilità pag. 41 di Chiara TORTORELLI Martin Luther King, il profeta disarmato - pag. 45 di Giovan Giuseppe MENNELLA Staycation a due stelle Michelin - pag. 51 di Veronica D’ANGELO Angelo e Francesco, i due pescatori - pag. 55 di Rosanna Marina RUSSO Dear June - pag. 58 di Lucia COLARIETI 2
l’Editoriale del Direttore
Un caldissimo gennaio Aldo AVALLONE
Una serie di eventi, susseguitisi a ritmo frenetico, ha reso l’inizio di questo 2021 davvero caldissimo. Dall’assalto a Capitol Hill, luogo simbolo della democrazia americana, all’insediamento di Joe Biden, avvenuto, per fortuna in maniera pacifica, in un’atmosfera assolutamente particolare: una Washington semideserta e blindata da migliaia di uomini della sicurezza dove le misure anti covid hanno imposto il distanziamento ai pochi e scelti partecipanti. L’immagine del buon vecchio Bernie Sanders, seduto su una sedia pieghevole che si riparava dal freddo con la sua giacca a vento e con i guanti in lana riciclata sulle scale del Campidoglio, resterà negli occhi e nel cuore dei democratici americani per sempre. Come quella del giuramento di Kamala Harris, primo vicepresidente donna di origini indo caraibiche. Appena dopo l’insediamento, Biden ha voluto rimarcare fortemente il cambio di rotta della nuova Amministrazione abolendo alcune delle misure più estreme volute dal suo successore, bloccando immediatamente il finanziamento per la costru3
zione del muro tra Stati Uniti e Messico e dando nuovo slancio alla lotta al coronavirus che sta ancora mietendo una moltitudine di vittime in quella parte del mondo. Naturalmente ce ne occuperemo in questo numero della testata in cui potrete conoscere anche qual è stata l’elezione presidenziale USA più contrastata di sempre. E non è quest’ultima. Ancora negli Stati Uniti, nell’appena trascorso gennaio, si è celebrata il Martin Luther King’s Day, la festività nazionale in onore del pastore protestante paladino dei diritti civili, premio Nobel per la Pace, che si celebra il terzo lunedì di gennaio, un giorno idealmente vicino alla sua data di nascita, il 15 gennaio 1929. L’anno appena trascorso è stato uno dei più funesti per la comunità afroamericana. L’uccisione di George Floyd da parte della polizia di Minneapolis è stato solo uno dei tanti omicidi razziali di cui si sono macchiati alcuni dei “rappresentanti della legge” nei diversi Stati americani. Eppure, nell’America di Trump e dei suprematisti bianchi, le immagini di quel povero ragazzo tenuto per venticinque minuti sotto il ginocchio del suo assassino mentre supplicava di lasciarlo respirare, hanno avuto una forza tale da generare una reazione forte e condivisa. Sono scesi in campo personalità della politica, della cultura, dello spettacolo, dello sport. Lebron James, il campione dei Los Angeles Lakers, il più forte giocatore di basket oggi al mondo, è andato in televisione ad annunciare il blocco del campionato professionistico americano, la National Basket Association. Il ricchissimo mondo della NBA, che giocava la sua fase finale nella bolla di Orlando, ha voluto far sentire forte la sua voce per dare ancora maggior rilievo a una protesta che ha coinvolto un numero rilevante di cittadini e che, credo, abbia contribuito non poco alla vittoria di Biden. Ma torniamo da questa parte dell’oceano per augurare a tutti noi: “Buon centenario, compagni!”. Da quel 21 gennaio di cento anni fa a Livorno, quando uomini coraggiosi decisero di rompere gli indugi per proseguire in autonomia rispetto al partito socialista la loro marcia per la costruzione di un mondo migliore, ne è passata di storia. Questo lungo secolo lo raccontiamo in un pezzo di Raffale Flaminio che, puntualmente, ripercorre i tanti passaggi politici e le scelte, a volte tardive e anche dolorose, che hanno contrassegnato la storia del partito comunista italiano e del nostro Paese, mantenendo ferma la barra del timone sulla rotta del progresso, della difesa dei diritti dei lavoratori e della democrazia. Non dobbiamo avere paura a ri4
cordare le bandiere rosse, il canto dell’Internazionale, le storie dei partigiani comunisti caduti per la nostra libertà odierna. Tanti, troppi esperti in falsi storici hanno fatto di tutto per farci perdere la memoria, stanno facendo di tutto per far passare una revisione storica in cui tutto il passato diventi un melmoso stagno di indifferenza. E invece no! Nonostante tutto noi saremo sempre pronti a commemorare i nostri morti, i fratelli Cervi, i braccianti di Avola e Battipaglia, Guido Rossa, barbaramente assassinato dalle BR, che di rosso avevano solamente il nome ma erano segnate dal nero del fascismo e dai legami con i servizi segreti di mezzo mondo. Ricorderemo per sempre piazza San Giovanni e tutti noi, con il pugno levato al cielo, per salutare per l’ultima volta il compagno Enrico. Festeggeremo sempre e con orgoglio i nostri 25 aprile, perché larga parte di quella liberazione dalla dittatura mussoliniana l’Italia la deve ai comunisti. Anche se il glorioso partito comunista italiano non esiste più. Resta un ultimo, ma solo per ragioni temporali, tema bollente su questa pagina di calendario del caldissimo gennaio 2021. La crisi di governo. Era attesa, annunciata, poi rimandata. Infine, giunta. Il sicario vivaista ha portato a termine il suo compito di affossare, ma solo per il momento, l’esperienza governativa di una coalizione PD, M5S, LEU. Un’esperienza con luci ed ombre, naturalmente, ma l’unica possibile per provare ad arrestare le destre alle prossime elezioni e, soprattutto, provare a diventare un’alleanza strategica in un rinnovato percorso riformatore e progressista. I mandanti? Facili da individuare: tutti i poteri economici – finanziari cui non andava proprio giù che a gestire i 209 miliardi del recovery fund fosse un governo poco sensibile ai loro interessi. Arriverà Draghi, l’espressione delle banche e della finanza internazionale, con il chiaro mandato di indirizzare la spesa delle risorse europee nella “giusta direzione”. Da viale dell’Astronomia già si levano alte voci di pressanti richieste da parte dei nostri industriali. Richieste, e che dubbio c’era, che parlano di nuova libertà di licenziamento da parte delle imprese e ulteriori riduzioni dei diritti dei lavoratori. Ancora non sappiamo con quale maggioranza parlamentare nascerà e navigherà la barca Draghi. Probabilmente, in un modo o nell’altro, tutti saliranno a bordo ma ciò di cui siamo sicuri e che la navigazione non sarà scevra da tempeste. Troppe richieste dovranno essere accontentate. Oggi è certamente prematuro esprimere giudizi ragionevoli su un governo che non è ancora nato. Dovremo conoscerne la squadra, il programma, gli obiettivi concreti 5
sui quali si concentrerà la sua azione nei primi cento giorni. Dicono che sarà un governo di competenti, ma competenti di che? Ricorda molto il governo dei tecnici, sì proprio quelli di Monti e della sua macelleria sociale. Auguriamoci che sia soltanto un passaggio temporaneo perché il primato della politica è sempre il valore più alto in democrazia. Naturalmente ne riparleremo.
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USA
La vittoria di una democrazia trattenuta Rosanna Marina RUSSO
Non basta dire: siamo in democrazia per esserci. Non è la democrazia una incubatrice che ci accoglie e ci protegge affinché noi tutti si diventi forti, né si tratta di una entità astratta che vive nonostante noi. L’America, che molte volte abbiamo preso ad esempio per la sua forza democratica, ci ha dimostrato che gli smottamenti ci possono essere, che la guardia deve essere sempre alta, che gli uomini posseggono le idee e non il contrario. Due date: 6 gennaio 2021 e 21 gennaio 2021. Come dire La fossa delle Marianne e 7
L’Everest. 21 gennaio. Il passaggio della limousine di Joe Biden e della sua famiglia, in una Washington irreale chiusa da filo spinato e sbarramenti, tra circa 27.000 soldati e migliaia di bandierine scosse da un vento compassionevole, è silenzioso come silenziosa è stata l’uscita finale di scena di Trump che si è praticamente smaterializzato, scomparso nel suo Buen retiro in Florida, a West Palm Beach, dopo avere per settimane tambureggiato, chiamando a raccolta i suoi più sfrenati e violenti supporter, col piglio e la postura di chi un tempo, ahinoi, ha gridato”Italiani!” da un balcone romano, con un impeachment sulle spalle e l’accusa di aver istigato i fatti di Capitol Hill ed essere, quindi, colpevole di quelle morti. Trump è andato via senza presenziare all’insediamento del suo successore, senza aver scritto la rituale lettera di consigli che attesta il passaggio del testimone da un presidente all’altro. Ma il “suo” posto non è più suo. Le telecamere inquadrano lo stesso colonnato, gli stessi corridoi di qualche settimana fa, quando un gruppo di trumpisti ha stuprato il Congresso. Il contenitore è lo stesso, eppure, cambiando il contenuto, tutto è diverso. Un insediamento simbolicamente antitetico. Biden, infatti, sceglie la ritualità rassicurante per opporsi alla irritualità di Trump, si avvale della “buona retorica” per ripristinare quella fiducia che sembra compromessa tra il presidente e il suo popolo. E così l’America volta pagina, anzi ritorna lì dove il discorso si era interrotto. E i passi e i momenti significativi della cerimonia spiegano più delle parole. Gli USA sono questi, sembra dichiarare il colore viola del vestito di Kamala Harris che fonde il rosso dei conservatori con il blu dei democratici, a indicare la riconciliazione, il dialogo tra le diverse anime di una nazione variegata e complessa e che, tuttavia, è forte proprio grazie alla sua complessità. Kamala Harris, 49° vicepresidente, racchiude in sé “moltitudini”, come cantava Walt Whitman: donna, di colore, di madre indo-americana immigrata da Chennai e di padre giamaicano. Ma non è l’unica donna che rappresenta l’Idea che ha il nuovo presidente della società americana. Durante questo inusuale, ma sostanziale Inauguration day sono protagoniste donne vincenti, speciali, ricche di talento a mostrare che vanno abbandonati tutti gli archetipi femminili che brillano di luce rifles8
sa. Donne che rompono il silenzio inaspettato e impensabile con voci potenti, con ritmi incalzanti, con parole decise. Tra le altre Lady Gaga e il suo inno da brividi, Jennifer Lopez e il medley tra la canzone di protesta “This is your land” e il tradizionale “America the beautiful” e Amanda Gorman col suo canto poetico sincopato che lei accompagna col gesto come in una danza. Ed è Amanda con la sua poesia civile, come è nella tradizione anglosassone, che a un certo punto dice: “…Ma anche se la democrazia/può essere periodicamente trattenuta,/non potrà mai essere permanentemente sconfitta…” Perché il punto è questo, il nervo scoperto è questo: la democrazia, ferita da una massa aggressiva e inferocita, indica che può essere violata, ricorda che non è qualcosa di scontato e che è estremamente fragile. Chi avrebbe potuto immaginare l’assalto al Congresso degli Stati Uniti d’America, chi avrebbe potuto solo pensare che un Presidente americano, per quanto anomalo e sopra le righe, avesse potuto istigare alla lotta fratricida, alla guerra civile, all’attacco al tempio della democrazia. Quel 6 gennaio. I segnali di una involuzione in Trump c’erano, ovviamente, ma forse non era stato soppesato fino in fondo il valore di quei gesti, di quelle parole e non era stato compreso appieno il senso delle sue scelte e di quanto potessero incidere su quella parte di popolazione bianca, razzista e conservatrice. Biden giura, dunque, di garantire le libertà di tutti e il rispetto per tutti e parla sorprendentemente di amore. Promette di discernere tra il bene e il male e ricorda le parole di Papa Francesco sulla possibilità di partire dai sogni. E così evoca l’immutata narrazione americana. Il 46° presidente volta pagina e cerca di ricucire gli strappi tra la gente e le istituzioni, tra lo Stato e il mondo. E da subito prova ad essere convincente con gesti significativi. Firma, a poche ore dal giuramento, alcuni provvedimenti immediati, tesi ad affrontare in maniera decisa l’emergenza causata dal coronavirus e a cancellare determinazioni oggettivamente scellerate e politicamente isolazioniste e inizia a smantellare le decisioni prese dall’amministrazione Trump. Sono 17 ordini esecutivi con i quali crea un Coordinatore per l’organizzazione e la distribuzione dei vaccini e indica il dottor Fauci come capo della delegazione nazionale, ritira l’uscita dall’OMS, reintegra gli Stati Uniti negli accordi sul clima di Parigi, ferma la co9
struzione del muro con il Messico, rafforza il programma a favore degli immigrati, revoca l’ordine di limitazione dei corsi miranti alla inclusione delle diversità, rafforza una legge del 1964 contro la discriminazione sulla base dell’orientamento sessuale e dell’identità di genere, estende la sospensione degli sfratti, sospende il pagamento del debito universitario fino al prossimo settembre e stabilisce delle vere e proprie regole etiche riguardanti il suo staff per “riguadagnare e conservare la fiducia nel governo”. In definitiva mostra la sua visione, perché talvolta c’è chi ha una visione, sull’ambiente, sull’economia, sulle politiche sociali e sanitarie. Per questo detta le linee guida all’interno delle quali la sua amministrazione dovrà e potrà muoversi e attorno alle quali gli Stati Uniti continueranno a nutrire i valori fondanti la società americana: inclusione, libertà individuali, giustizia giusta, rispetto della persona. Ma ciò che Biden ha cominciato a fare immediatamente con quel passaggio, con quel giuramento, con quel discorso è un’azione pedagogica per rieducare gli americani ad una democrazia non illimitata o debordante verso quella anomalia che fa leva sull’insicurezza degli individui. Una degenerazione che trascina verso forme diverse di rappresentanza e di mobilitazione e verso un decisionismo popolare espresso anche con la forza e che se si fonde con il sovranismo, riesce a spingere gli individui alla comunanza irrazionale del branco. È delicata la democrazia, accetta gli urti che riconosce, contro cui è preparata a lottare e, a volte, non si accorge che la faglia si sta allargando, che le scosse possono far crollare anche gli edifici più solidi e che la malattia può essere prodotta dalle sue cellule impazzite. Biden ha iniziato a estirpare le erbacce dal campo, le idee fasulle, le convinzioni abominevoli ammantate di buonsenso, ricoperte come confetti avvelenati; sta cancellando il populismo come stile politico e affrancando le esigenze e le richieste del popolo. È Biden, quindi, colui che curerà tutte le ferite inferte da Trump? Parrebbe di sì, ma anche lui deve essere guardingo se vuole davvero che il 21 gennaio sia ricordato, come lui stesso ha detto, “il giorno della democrazia”, perché è difficilissimo, soprattutto in questo momento di crisi sanitaria mondiale, non cedere alla tentazione di difendere solo “i propri” e quindi alzare il ponte levatoio e riempire il fossa10
to . Qui si parrà la sua nobilitade, qui si capirà se le sue azioni non camminano sul viottolo della legittimità, ma corrono scevre da egoismi nazionalistici e se la democrazia americana è finalmente convalescente. Amanda Gorman percuote l’aria e le coscienze e rammenta a tutti che” …norme e nozioni di cosa è giusto non sono sempre giustizia”.
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Politica
E crisi fu Antonella GOLINELLI
Dopo una quarantina di giorni di tira e molla, minacce e ricatti, insulti e richieste, alla fine la Befana ci ha portato la crisi. Ora, io capisco che siamo stati cattivi, disubbidienti, discoli e birichini ma bastava il carbone signora Befana! La crisi di governo mi pare un eccesso. Da qualunque parti la si guardi. Tramite conferenza stampa, in ritardo ovviamente poiché il signore in questione mai una volta in vita sua ha iniziato in orario, ha ritirato le ministre (come fossero pacchi postali) e un sottosegretario. Così, a freddo, senza nemmeno un convenevole. Tutta una tirata di rivendicazioni e tutta una tirata di elogio alle sue ministre che sono il non plus ultra delle possibilità femminili in ruolo di governo, dice lui, anche se non hanno diritto di parola. Nemmeno il sottosegretario se è per questo, ma lui non è donna, anche se in turno di discorso in Senato lo ha conteggiato come tale. Va tu a capire. Senza diritto di parola dicevo. Lui le ha messe, lui le ha tolte. E zitte. Nei giorni 12
successivi abbiamo avuto l'onore di sentire la loro voce e leggere le loro dichiarazioni. Ovviamente a sostegno della scelta del capo. Che io mi chiedo: come fanno a prestarsi a questo gioco? Se posso capire la Beautynews che è un politico eletto capisco meno la Bonetti. Lei un lavoro di suo ce l'ha, non ha bisogno di prestarsi per sopravvivere. Voglio dire, campa uguale. Non sto a ricordare l'indignazione generale. Ce la ricordiamo tutti. Però è indicativo di come sventolando la bandiera del 50 e 50 per il genere alla fine della fiera risulti essere un 50 con meno valore. C'è il capo e il capo decide per tutti. Poco importa il ruolo, per niente importa ciò che si sta facendo, l'importante è che quando si ordina si sbattano i tacchi e si obbedisca. Decenni di lotta delle donne di sinistra e non solo gettate.... al vento in un solo momento. Del resto, cosa vuoi dire? Ci si sono messe loro in quelle condizioni di sudditanza. Crisi che pareva risolvibile in poco, un cambio di Presidente del Consiglio e si sarebbe ripartiti più belli che prima. E invece... è andato tutto per traverso, pare. Un po' alla volta sono apparse piccole crepe nel muro compatto dei sostenitori della crisi, quei sostenitori di stampo industriale e cultural-politico-giornalistico che hanno annusato l'aria, naso al vento, capendo che stava diventando rischioso. La rivolta della gente è stata palese, tanto forte da, evidentemente, preoccupare. La politica ai tempi del social è fatta di disintermediazione, di contatto diretto col soggetto, ma non sempre è un contatto positivo o che volge al positivo sostenendo l'attuato. Eh no! A volte capita il contrario. Capita di ritrovarsi migliaia di commenti di insulti. Che non indica un bel trend. Significa semplicemente che la gente è stufa di te e delle tue strombazzate azioni. Guarda un po'. Se non hai sostegno non servi, anzi potresti essere persino pericoloso per i tuoi, diciamo così, mandatari. E cominciano le crepe nell'intonaco della facciata. A complemento di tutto uno sbriciolarsi dei consensi arriva a sorpresa il fatto che il senatore della repubblica tutt'ora in carica risulta essere un lobbista al soldo di una potenza straniera, credo uno stato canaglia, tra l'altro, e che bel bello nel frattempo se n'era andato a tenere una conferenza in loco e tornando a precipizio. Senza una quarantena che sia una. Né all'andata né al ritorno. Tanto non siamo mica in piena pandemia con un 500 morti al giorno. Tanto non siamo immersi fino al collo nei problemi con le case farmaceutiche che non consegnano i vaccini, ancora non si è capito perché. Nooo, qui va tutto ben madama la marchesa. Tutto perfetto, tutto 13
impeccabile, nessun problema. Non fosse per il fatto che l'Europa ci ha mandato a dire: state ben attenti con le voltate che potremmo revocarvi tutti i soldi. Al che pure i destinatari finali di tali somme un momento di riflessione se lo devono essere preso. Magari, si saranno detti, è meglio poco che niente. Detto a modo mio: piotost che gnint l'è mej un tost. (potrei tradurlo ma si perderebbe la rima). Si avviano consultazioni e lui, sempre lui, il senatore semplice, si esibisce in un comizio di 27 minuti e sblisga. Da segretario le sue relazioni introduttive duravano meno. Cincischia sui banchi a rotelle (deve essere una mania dei mattei), giochicchia con le parole, prova a declinare le sue responsabilità. La stampa ci prova, con una serie di ipotesi di fantapolitica meravigliosa, ma non riesce. Anyway, si dà l'incarico di esploratore al Presidente della Camera (Forza Italia lo aveva chiesto per la Alberti Casellati (Serbelloni Mazzanti Viendalmare), ma Fico ha più esperienza, l'ha già fatto. Seconda consultazione limitata ai partiti sostenitori del Conte bis e secondo comizietto. Che qui diventa un vizio però! Più breve ma più intenso devo ammettere. Allora, questo signore quando si deve parlare di programmi vuol parlare di nomi, quando si deve parlare di nomi vuol parlare di programmi e di contratti. Un uomo fuori luogo e fuori tempo. Unico fra tutti i convocati per l'esplorazione non appoggia Conte. Il suo 2%, supposto perché reale non è, pretende di inficiare e dettare legge. Tutti devono sottostare ai suoi desiderata. Sarà così, ma francamente non credo. La faccenda ridicola è che accusa i costruttori di essere dei venduti o qualcosa di simile. Si accusano questi paragonandoli a responsabili del passato, alcuni dei quali in galera proprio per aver preso denaro per cambiare bandiera, cercando di sminuire il lavoro fatto per la costruzione di un polo, un polino in realtà, che possa mettere in sicurezza un governo dai capricci del bimbo cresciutello. Su questo torno dopo. Ora vorrei spendere due parole sulla Bonino che indica una donna a capo del governo. Così. Senza alcuna proposta. Basta che sia donna. Ora, questa cosa detta da me potrebbe anche far ridere, ma io mi chiedo: cosa sta dicendo esattamente la Bonino? Messa così fa solo male al genere. Che valore ha una richiesta del genere? Sapete che c'è? Che tante di noi sono stanche di queste protofemministe, metafemministe, nonsocosafemministe. Non hanno portato nulla, non hanno cambiato una virgola in 50 anni di carriera. Tant'è vero che non è nemmeno in grado di raccogliere le firme per presentarsi alle elezioni, deve andare a prestito e ha 14
meno voti che firme. Ma potremo continuare così? Tornando al capriccioso di mezz'età, egli dichiara ai giornali in prima istanza “non è il momento di parlare dell'Arabia”, poi siccome non abbiamo mollato la presa “parliamo pure dell'Arabia ma che non sia divisivo”. Ehi... mi pare una pretesa un po' assurda, considerato che il senatore in questione fa parte di una qualche commissione che ha a che fare con argomenti sensibili. Facciamo così: parliamone e basta. Oh basta. #adesso voglio esercitarmi un po' con la fantapolitica. C'è chi gioca al fantacalcio, potrò giocare alla fantapolitica? Dunque, il compagno Tabacci eletto in parlamento col suo simbolo Centro Democratico, ha accolto l'invito del Presidente della Repubblica di cercare di creare un gruppo di costruttori tale da consentire l'avvio di un governo (possibilmente il Conte ter) per l'esercizio dello svolgimento delle necessità, per incardinare il recovery, l'elezione del nuovo PdR e giungere a conclusione di questa sconclusionata legislatura. Con un esercizio di fantasia degno dei migliori narratori, mi è venuto in mente che il tentativo di ricostruire un partito di centro di stampo piuttosto convenzionale è stato fatto più di una volta dal '94. E’ sempre andato piuttosto fallito il tentativo di ricostruire la DC (uso questo termine per comodità, chiamatelo come preferite). Credo principalmente per il problema di avere troppi galletti sparsi un po' ovunque dopo la diaspora. Se guardate a nomi e facce li vedete bene sparsi un po' dappertutto a seconda delle inclinazioni. E' pur vero che molta parte dell'elettorato si è identificata coi partiti in corso. Vogliamo citare Forza Italia? Se guardiamo ai voti, o meglio alla distribuzione territoriale dei voti, delle politiche ultime notiamo che i voti M5S sono geograficamente sovrapponibili ai voti DC di un tempo. Se consideriamo l'evanescenza del voto grillino capite bene che la tentazione è forte. Non dimentichiamo che il compagno Tabacci (scusate, tranquilli è solo una citazione dei meme dell'epoca) ha, durante il suo intervento, offerto il simbolo sotto cui correre alle prossime politiche a Conte. Che non è un dettaglio da poco. Non accade come con Monti cui crearono un partito per concorrere convinti avesse fatto un buon lavoro. S'erano scordati o ignoravano le lacrime e il sangue che scorsero per il paese. Stavolta il possibile candidato ha capitalizzato parecchio, ha distribuito a piene mani (causa necessità, ma questo è) e piace molto. E' poco rumoroso, poco invadente e, checché ne dica il senatore semplice, appare serio e competente. Non 15
ha niente del cialtrone da Papeete né della spiritosaggine toscana. Si vota nel 2023, oramai è sicuro anche se a oggi 31 gennaio non so come andrà a finire la vicenda, quindi da capitalizzare c'è ancora molto. Pensate solo a mettere in moto i cantieri, la transizione ecologica, un po' di ingressi in aziende manifatturiere, la digitalizzazione del paese. Avete una pallida idea di quanto lavoro buono si può creare e distribuire? Quanta gente potrà dire grazie? Quindi, in conclusione, perché farsi sfuggire l'occasione di ricreare un mondo che in tanti rimpiangono? Dipende solo se i galletti ci stanno. Secondo me sì. Alcuni sono proprio alla canna del gas.
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USA
L’elezione presidenziale USA più contrastata e contestata di sempre Giovan Giuseppe MENNELLA
Martedì 7 novembre 1876 si svolse la 23esima elezione quadriennale per la nomina del Presidente degli Stati Uniti. Si sarebbe rivelata la più contrastata di sempre, fonte di contenziosi civili e politici come mai prima e dopo, e uno degli snodi più importanti della storia dell’ancora giovane nazione nordamericana. Molto più contestata dell’ultima del 2020 tra Biden e Trump e di quella del 2000 tra Bush junior e Al Gore. Sarebbe passata alla storia come l’evento decisivo che pose fine alla cosiddetta Era della Ricostruzione, cioè al lungo dopoguerra della Guerra Civile, iniziato nel 1865, che aveva visto l’occupazione militare degli sconfitti Stati sudisti e il tentativo del Partito Repubblicano, abolizionista della schiavitù, di assicurare agli ex schiavi afroamericani liberati un’effettiva parità di diritti civili e politici con i bianchi del Sud. Durante gli anni della Ricostruzione il Partito Repubblicano, nettamente prevalente nel Nord ma minoritario nel Sud tradizionalmente democratico, utilizzò la presen17
za delle truppe di occupazione per promuovere a candidati nelle Assemblee legislative degli Stati sudisti gli esponenti repubblicani venuti dal Nord e gli ex schiavi, liberati dal XIII emendamento della Costituzione. A questi ultimi andava assicurato l’effettivo esercizio dei diritti civili e politico-elettorali assicurati dal XIV e XV emendamento. L’obiettivo era quello di promuovere un autentico e repentino cambiamento della struttura sociale, politica ed economica del vecchio Sud, fino ad allora ancorato alla tradizionale egemonia politico-economica della classe dominante bianca, fedele al Partito Democratico. L’elezione presidenziale del novembre 1876 si svolse durante un periodo di crisi sia economica che politica, causata dagli scandali finanziari e dalla recessione economica, prodottisi in seguito alla fallimentare esperienza dei due mandati consecutivi, dal 1868 al 1876, del Presidente repubblicano Ulysses S. Grant, il generale unionista vincitore della Guerra Civile. Il Partito Repubblicano aveva chiesto a Grant di ripresentarsi per un terzo mandato, ma il Congresso espresse a netta maggioranza l’auspicio che non venisse infranta la prassi materiale, ancorché non costituzionalizzata, che un Presidente non potesse svolgere tre mandati consecutivi, in accordo alla condotta tenuta dal Padre della Patria, George Washington, che si era rifiutato di concorrere a un terzo mandato per evitare nel presente e nel futuro ogni tentazione dittatoriale. La Convention del Partito Repubblicano non espresse un candidato maggioritario e la nomination fu effettuata in seguito a un compromesso politico che designò il Governatore dell’Ohio Rutherford B. Hayes. La Convention del Partito Democratico nominò a grande maggioranza il Governatore dello Stato di New York Samuel Tilden. Nelle elezioni del 7 novembre 1876 Tilden superò quasi certamente Hayes nel numero dei voti popolari, ma ciò non fu sufficiente per essere eletto, in quanto, come è noto, l’elezione presidenziale americana è indiretta, cioè avviene per Stati, essendo lo Stato americano uno Stato federale. Il candidato che ha la maggioranza del voto popolare in uno Stato, anche per un solo voto, si assicura la totalità dei Rappresentanti di quello Stato, detti anche Grandi Elettori, che dovranno comporre il Collegio elettorale. Sarà quest’ultimo che dovrà procedere, in modo indiretto, all’elezione formale del Presidente. Questo meccanismo, se ha assicurato la tutela della natura federale della compagine statale statunitense, non sempre ha consentito al candidato che avesse ottenuto più voti popolari di essere eletto Presidente. Vi18
ceversa, ha dato adito alcune volte a contestazioni sulla validità del risultato negli Stati dove il margine tra i candidati fosse strettissimo e per pochissimi voti un candidato si assicurava la totalità dei Rappresentanti, alias Grandi Elettori, di quello Stato nel Collegio elettorale del Presidente Questo fu il caso dell’elezione del 1876. I Rappresentanti degli Stati in cui non ci furono contestazioni sul voto popolare ammontarono a 184 per Tilden e 165 per Hayes. La maggioranza richiesta dei rappresentanti nel Collegio elettorale era però di 185. La ragione per cui nessuno dei candidati raggiunse subito la maggioranza di 185 Grandi Elettori fu che il Partito Democratico contestò l’assegnazione a Hayes dei rimanenti 20 voti elettorali, provenienti da 3 Stati, Florida, Lousiana e Carolina del Nord, in cui il margine tra i due candidati era strettissimo ed erano anche gli ultimi del Sud in cui vigeva l’occupazione militare delle truppe federali unioniste, nonché da un quarto Stato, l’Oregon, in cui era stato sostituito un Grande Elettore, rivelatosi illegale. In caso di assegnazione a Hayes dei Grandi Elettori dei 4 Stati in contestazione, il risultato sarebbe stato di 185 per Hayes e 184 per Tilden e quindi sarebbe stato eletto Presidente il repubblicano Hayes, con il margine di voti elettorali più stretto di sempre. Tra contestazioni reciproche e ricorsi del Partito Democratico sull’assegnazione dei Grandi Elettori nei 4 Stati in bilico, si giunse all’anno 1877. Solo allora, dopo mesi dalla tornata elettorale, i due Partiti decisero di giungere a un compromesso politico, per evitare che, alla scadenza del mandato di Grant, il Paese si ritrovasse senza un Presidente eletto. Il Compromesso del 1877, un accordo politico informale, stabilì l’assegnazione a Hayes di tutti i 20 voti elettorali contestati, sancendone l’elezione a Presidente. In cambio, fu accolto l’invito del Partito Democratico, più radicato nel Sud, a ritirare definitivamente dagli Stati meridionali le truppe federali di occupazione. I Democratici del Sud ottennero il risultato di porre fine all’Era della Ricostruzione, nella quale i Repubblicani radicali e abolizionisti avevano effettuato nel Sud il più serio tentativo di conferire effettività all’esercizio dei diritti costituzionali degli ex schiavi afroamericani liberati dal XIII emendamento. I Repubblicani radicali identificavano nei Democratici il nerbo delle forze che avevano portato alla Secessione. Infatti, secondo loro, non tutti i Democratici erano ribelli, ma tutti i ribelli erano De19
mocratici Il Compromesso successivo allo stallo delle elezioni del 1876 si rivelò uno snodo decisivo della storia degli Stati Uniti per un lungo periodo a venire. I bianchi del Sud già negli anni dell’occupazione militare erano ricorsi a ogni forma di intimidazione, anche violenta, per impedire ai neri e ai repubblicani giunti dal Nord di avere posizioni di governo e di potere. Non solo la possibilità di votare e di essere eletti nelle assemblee politiche locali, ma anche la semplice fruizione dei diritti più elementari assicurati dal XIV e XV emendamento della Costituzione, come acquistare e detenere beni e svolgere mestieri e professioni in concorrenza con i bianchi. Dopo il compromesso del 1877 e il ritiro delle truppe federali e dei rappresentanti politici del Partito Repubblicano non ci fu più nel Sud alcuna autorità politicomilitare che impedisse ai bianchi revanscisti di perpetuare il dominio de facto, anche se non più di diritto, sugli ex schiavi. Il problema puramente razziale non era la principale causa della violenza e delle vessazioni, ne costituiva piuttosto il principale pretesto, falsamente basato sulle antiche e onorevoli tradizioni di quella società. Ovviamente, i bianchi, sia le classi elevate che il popolo minuto del Sud, mal tolleravano di spartire ricchezze, professioni, proprietà, potere e prestigio con masse di afroamericani che fino a pochi anni prima erano stati i loro schiavi, né tolleravano che fossero eletti a loro rappresentanti politici nelle assemblee legislative i repubblicani calati dal Nord, che definivano spregiativamente “Carpetbaggers”, da una borsa da viaggio di tela con disegni variopinti che si portavano dietro. I Carpetbaggers erano accomunati nel disprezzo dei sudisti ai Freedmen, gli schiavi liberati, e agli Scalawags, i bianchi del Sud che appoggiavano il Partito Repubblicano e la Ricostruzione. Fu diffusa ad arte nel popolo dei bianchi la convinzione che in casa loro erano i neri a cancellare i loro diritti, a umiliare le loro vite, a violentare le loro donne, che erano i Carpetbaggers a occupare con l’inganno e la forza i più importanti incarichi politici e a usurpare le più lucrose attività e proprietà dei bianchi autoctoni. Il principale braccio armato dei bianchi del Sud per ottenere questa sorta di vendetta contro i cattivi nordisti vincitori della guerra e gli ex schiavi ignoranti e violenti, fu il Ku Klux Klan, un’organizzazione segreta, formata per lo più da reduci confederati, piena di riti misteriosi, di componenti che giravano incappucciati per terrorizzare i negri superstiziosi in modo da farli fuggire dal paese o linciarli se non 20
sgombravano spontaneamente. Capo del Ku Klux Klan fu nominato Nathan Bedford Forrest, uno tra i più leggendari generali della Confederazione, ex mercante di schiavi, temutissimo dagli Unionisti per le sue velocissime e micidiali incursioni di cavalleria dietro le linee nemiche. Forrest non era propriamente un sanguinario, ma, orgoglioso come tutti i meridionali, credette anche lui nella necessità di tenere al loro posto, cioè nella povertà e nella marginalità, gli ex schiavi, se necessario anche con i linciaggi. Il fatto è che le violenze contro gli afroamericani erano iniziate quasi subito dopo la fine della guerra, e le stesse truppe di occupazione duravano sempre fatica a contenerle. Figurarsi quale divenne nel Sud il quadro della situazione dopo il Compromesso del 1877, la concessione della Presidenza a Rutherford Hayes, il ritiro delle ultime truppe federali e la rinuncia definitiva del Nord a modificare la struttura sociale ed economica del vecchio Sud. Dal 1877 in poi, come indiretta conseguenza anche del compromesso sulla contrastata elezione di Rutherford, la situazione nel Sud degli afroamericani fu destinata a rimanere invariata, anzi a peggiorare, con l’impossibilità di esercitare i più elementari diritti, con il rischio di essere linciati per un nonnulla, tenuti con la forza e l’intimidazione nella povertà e nella marginalità. Questo stato di cose si sarebbe protratto per quasi un secolo, almeno fino alle lotte per l’emancipazione degli anni ’50 e 60 del ‘900 e alla legge federale sui diritti civili del 1964 che dichiarò illegali su tutto il territorio nazionale le disparità di registrazione nelle elezioni e la segregazione razziale nelle scuole, nonché nei concorsi per scuole, alloggi e assunzioni. Per lunghi decenni il voto dei neri nel Sud è stato impedito con i più strani pretesti; infatti per poter votare dovevano superare esami di ammissione davanti alle autorità bianche della Contea, nei quali le domande erano le più pretestuose, come indovinare quanti granelli di sabbia fossero contenuti in un barattolo o quante penne avesse una gallina. Anche oggi non è che le condizioni del popolo afroamericano siano splendide, soprattutto al tempo del revival dei bianchi suprematisti che vorrebbero riappropriarsi dell’America di una volta, cioè quella che reprimeva e talvolta sterminava le minoranze e i gruppi che non si adeguavano ai metodi e allo stile di vita delle classi dominanti Tutto il periodo storico successivo a quella elezione del 1876 e al compromesso del 1877 vide un rafforzamento del mito del vecchio e cavalleresco Sud, dei suoi gen21
tiluomini, della vita illuminata e splendida che vi si conduceva al tempo della schiavitù. Mito appunto, cioè una non verità che si può creare ad arte quando una compagine sociale e politica non esiste più e quindi non può essere più giudicata per atti e comportamenti concreti adottati qui ed ora, ma solo per quello che aveva prodotto nel passato, che non esisteva più e poteva essere abbellito a piacimento. Perché, se la Storia la fanno i vincitori, è invece molto probabile che la letteratura, e nel XX secolo anche il cinema, sono più appannaggio degli sconfitti e dei nostalgici. Infatti, è stato osservato che, nel periodo che va dallo scorcio del XIX Secolo a quasi tutta la prima metà del XX, negli USA su 100 romanzi di carattere storicosociale, più di 80 fossero scritti da autori di tradizione sudista bianca. Tra molti altri, Thomas Nelson Page, appartenente a una famiglia di piantatori della Virginia, ambasciatore degli USA in Italia durante la Grande Guerra, amico personale di Nitti, con il suo romanzo Red Rock del 1898 ambientato proprio nell’Era della Ricostruzione. Tra molti altri scrissero testi in questo senso Wodroow Wilson futuro Presidente e Margaret Mitchell, con il suo Via col vento, famosissimo anche per la versione cinematografica. I numerosi scrittori e romanzieri accreditarono la visione di un Sud da leggenda, mai esistito nella realtà, in cui gli schiavi vivevano benissimo e amavano i loro padroni, fiorivano le arti e le belle lettere, le donne erano tutte belle e romantiche, gli uomini tutti gentiluomini e cavalieri antichi. La bella favola doveva continuare anche nel XX secolo nel Cinema. Il grande regista David Wark Griffith nel suo Nascita di una Nazione, una pietra miliare della settima arte, considerò, in buona fede, positivo e inevitabile il ruolo del Ku Klux Klan, salvo poi ricredersi in anni successivi. Anche in moltissimi western, su tutti quelli di John Ford, i protagonisti più eroici, coraggiosi e romantici erano i reduci confederati. E si continuò anche con l’erezione, negli anni tra la fine dell’800 e l’inizio del ‘900, di moltissime statue dedicate ai generali eroi della Confederazione. Le stesse statue che oggi i dimostranti progressisti hanno preso l’abitudine di tentare di distruggere. Non a caso, anche le statue, come la letteratura e il cinema, furono prodotte non subito dopo la fine della Guerra, ma decenni dopo, con il preciso scopo di accreditare il mito della superiorità e dell’eroismo del Sud. In periodi di rivendicazioni sociali, circondare le classi dominanti di un’aura di positività, di splendore, di amore di pa22
tria può essere utile per tenere sotto il tallone di ferro i gruppi che non si rassegnano alla marginalità, soprattutto gli afroamericani che, per ovvie ragioni storiche, risiedono in maggioranza nel Sud. Ma anche tutti i poveri, i migranti, gli esclusi dal benessere e dal sogno americano di tutte le tendenze ed estrazioni, schiacciati dalla ruota di una società molto ingiusta, come aveva capito Martin Luther King negli ultimi anni della sua vita, nei quali stava spostando la lotta dai diritti civili degli afroamericani ai diritti sociali ed economici di tutte le categorie di diseredati e di poveri, del Sud come del Nord: aveva compreso che la Guerra del Vietnam e gli interessi dell’apparato militare-industriale stavano per aggravare ulteriormente le disuguaglianze insite nella società statunitense. Questa onda lunga della storia, che doveva durare quasi 100 anni, e non è ancora esaurita, ebbe inizio in parte dalla contestata elezione presidenziale del 1876 e dal conseguente compromesso del 1877.
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USA
What else? Antonella BUCCINI
E alla fine un gran sospiro di sollievo. Biden ha giurato. Un po' “arrivano i nostri” e un po' “Soldato blu”. Abbiamo perdonato tutto, anche la consueta retorica, sta24
volta contenuta, di una cerimonia necessariamente sobria e ce la siamo goduta. Il viola delle signore, le mascherine doverosamente indossate da tutti, la gioiosa falcata di Michelle, l’inno di Lady Gaga, “this land is your land” cantata da Jennifer Lopez, con qualche omissione, le solite, proprio quei versi di denuncia del grande Woody Guthrie su quella terra che proprio di tutti non è mai stata. Ma poi quando sferra a sorpresa “libertad y justicia para todos” Jennifer non le manda a dire e noi abbiamo ripreso fiato. La giovane poetessa nera ci ha conquistato, però quando ha giurato lei, Kamala, non abbiamo più retto. Un accenno di commozione clandestina ci ha agguantato. Kamala Harris, proprio lei, “la prima” come ci ripetono i media da diverse settimane. La prima donna, di origini indo caraibiche, vice presidente degli USA. Magari la prossima presidente. La carriera di Kamala non rappresenta certo il riscatto di una condizione ai margini. La sua provenienza è altoborghese. Figlia di una dottoressa indiana e di un economista giamaicano, laureata con il massimo dei voti alla Howard University, procuratrice generale della California fino al 2016, è la prima senatrice di origini indo caraibiche nella storia degli Stati Uniti. Se da un lato la Harris sostiene l’assistenza sanitaria per tutti e l’aumento del salario minimo, ha introdotto l’utilizzo delle telecamere per gli agenti per prevenirne gli abusi o, ancora, è sensibile alle questioni ambientali, dall’altro è accusata di non aver contrastato la pena di morte e di non aver fatto abbastanza per combattere la brutalità della polizia. Kamala non è dunque una “comunista” ma è certamente determinata e pragmatica. Tuttavia, a pensarci, una sorta di amarezza ci guasta la festa: nel 2021 dobbiamo ancora considerare il traguardo di Kamala un passo avanti, una straordinaria conquista. Ci tira su il morale l’infaticabile Bennie Sanders, seduto, infreddolito, vestito come a una bevuta con gli amici, con i guanti di lana colorata fatti a mano. What else? 25
Politica
C’era una volta un filo rosso Raffaele FLAMINIO
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Comunque la si pensi la nascita del Partito Comunista Italiano ha inciso profondamente nella vita del nostro Paese, dando voce alle speranze e forse alle illusioni di chi non aveva rappresentanza e chi, invece, terrorizzato da ciò, ha combattuto strenuamente per abortire l’idea di eguaglianza e dignità di donne e uomini che affermavano la loro esistenza attraverso un’idea di collettiva rappresentanza di un interesse legittimo universale. Un pro domo di globalizzazione dei diritti dei più deboli che finalmente agisce in nome e per conto suo attraverso la rappresentanza. Come al solito la storia fa il suo corso, essa non dà giudizi, si limita a raccontare ciò che è stato partendo da una realtà oggettiva. Gli uomini, poi, per vizi o per virtù si dividono sui giudizi ma, la storia racconta e comunque, per sua natura, lascia tracce indelebili nelle menti e nei cuori di chi la grande avventura l’ha vissuta, condivisa e sentita indipendentemente da quale parte abbia deciso di stare. Una cosa si può affermare con verità storica: la passione con cui la vicenda storica del PCI si è svolta, consumata ed estinta ci lascia in eredità un’idea che trova fondamenta ancora nel mondo attuale; capace, nonostante l’età, di contestualizzare e analizzare la realtà e l’attualità. Quante e quali metamorfosi il PCI ha compiuto nel corso della sua vita, osservando e studiando i fenomeni sociali, economici e politici che via, via, si presentavano nella realtà domestica e internazionale a partire dalla piccola fazione scissionista del 1921 al XVII congresso del Partito Socialista Italiano voluta da Amedeo Bordiga, affinata dalla lucida mente di Antonio Gramsci, al tormento di Palmiro Togliatti, alla difficile tenuta del partito con la segreteria di Luigi Longo per arrivare a Enrico Berlinguer nel 1972 che con la sua costanza e unitarietà guida il PCI nella convinta e condivisa scelta atlantista proiettata alla costruzione di un partito di governo capace di esprimere una visione e dettare i passaggi per il rinnovamento della società italiana insieme ad Aldo Moro; fino al 12 27
novembre 1989, con la caduta del muro di Berlino, Achille Occhetto ultimo segretario del PCI annuncia, alla Bolognina, la volontà di cambiare nome al Partito Comunista Italiano avviando la tormentata e sofferta transizione in Partito Democratico della Sinistra (PDS) nel congresso di Rimini del 1991. Ecco: questa è la storia di una Identità. L’identità di un’organizzazione che prima di essere politica, rivendica e identifica nelle masse sottosviluppate e sfruttate la dimensione umana miserrima degli individui, delle persone, che vivono senza rappresentanza, senza voce, senza dignità collettiva come bovini inviati al macello. Un macello che si era manifestato e perpetuato nella parte finale del diciannovesimo secolo con conflitti armati devastanti il cui apice giunge con lo scoppio del primo conflitto mondiale nel 1914 che l’Italia affronterà a mani nude a partire dall’inverno 1915. La conduzione sconsiderata della guerra che con sè porta alla decimazione sistemica di una generazione di giovani contadini e nuovi operai, tuttavia inglobava una speranza di migliorare le condizioni di vita per la maggioranza, delusa e mortificata sin dalla firma dell’armistizio con l’Austria – Ungheria. Dopo la Grande guerra i vecchi equilibri sociali erano saltati, inoltre il fascismo metteva a disposizione degli industriali e dei latifondisti la sua vera faccia. La rivoluzione bolscevica dava fiato e speranza “a tutti i proletari del mondo di unirsi per conquistare il sole dell’avvenire”. Questo certifica l’atto di nascita del Partito Comunista d’Italia avvenuto il 15 gennaio 1921 a Livorno, in occasione della celebrazione del XVII congresso del Partito Socialista Italiano, il quale gruppo dirigente aderì ma, mai convintamente al così detto biennio rosso 1919-1920. La scissione organizzata dal napoletano Amedeo Bordiga fu numericamente un fallimento dei 172.000 votanti su 213.000 iscritti solo un terzo 59.000) aderirono al nuovo partito. L’idea di Bordiga era quella di un par28
tito settario, disciplinatissimo e militarizzato, che risultava incapace di far politica e leggere gli avvenimenti italiani, tant’è che la scissione “alla Livornese” negli ambienti dell’Internazionale era sinonimo di disastro, come anche Antonio Gramsci definì, al suo ritorno da Livorno rivolgendosi a Camilla Ravera “Livorno che disastro”. Il partito che Gramsci aveva in testa, si fondava sui consigli di fabbrica e sulla rappresentanza attiva degli operai, dove le decisioni e l’agire politico si concretizzavano nel confronto tra i lavoratori e le realtà che vivevano, i consigli di fabbrica e le commissioni interne attraverso la Confederazione Generale del Lavoro, la futura CGIL, rappresentavano la cinghia di collegamento tra il mondo del lavoro e l’attività parlamentare per dare peso alle rivendicazioni operaie. Le camere del Lavoro territoriali dovevano essere la voce dei braccianti agricoli che invocavano e pretendevano una equa e redistributiva riforma agraria. La lotta interna si protrasse fino al 1926, quando a Lione (Francia) ci fu un congresso fondativo del nuovo partito comunista che recuperava le intelligenze a la nuova visione espressa negli estensori del giornale l’Ordine Nuovo, fondato e diretto dallo stesso Antonio Gramsci che ora era anche designato a segretario del rifondato Partito Comunista d’Italia, al suo fianco anche Palmiro Togliatti. Nel 1926 Gramsci fu arrestato dai fascisti e il piccolo partito comunista entrò in clandestinità. La repressione fascista fece il suo corso, le libertà democratiche e parlamentari furono soppresse. Nel 1944 con il ritorno di Togliatti in Italia, il partito di Gramsci diventa Partito Comunista Italiano. Il cambio del nome non è un dettaglio, è invece un marchio di fabbrica che sintetizza la nuova missione di un partito che cresce culturalmente e politicamente attento come sempre alle vicende interne e estere. Un partito che muove i primi passi verso l’indipendenza dall’Urss, non un partito satellite ma, un soggetto politico autonomo e radicato nella realtà italiana e Europea occidentale, 29
non più votato alla dittatura del proletariato ma, convintamente democratico attento ai diritti civili e Costituzionali. La svolta di Salerno voluta da Togliatti rappresenta l’idea di un “partito nuovo” votato alla “Democrazia progressiva” che sancisce un compromesso con la colpevole monarchia Sabauda ai fini di un governo unitario per combattere il nazifascismo. L’adesione al Partito Comunista Italiano non sta nell’ideologia ma nella condivisione di un programma. Il PCI contribuisce alla costruzione della Costituzione democratica che contiene il principio di eguaglianza sostanziale, il primato dell’interesse pubblico sul privato, sottoponendo la proprietà privata a vincoli sociali, il diritto di voto universale. Il PCI giurerà e difenderà la Costituzione nata sulle macerie dei totalitarismi. Palmiro Togliatti non ha nessun cedimento, neanche dopo l’attentato di cui è vittima, sull’ascesa al potere per strada della Democrazia. Egli, anzi, ha la capacità, in frangenti così drammatici, di tenere unite le due anime del partito, quelle riformiste e rivoluzionarie. E’ capace di prendere le distanze dai fatti d’Ungheria, con un frasario ben comprensibile e diretto alla nomenclatura del PCUS ed intellegibile anche alle forze politiche italiane e ai partiti comunisti europei. Nelle sue memorie, stilate in occasione della conferenza di Yalta, denuncia la mancanza di democrazia che affligge il sistema sovietico. Togliatti non voleva che ciò fosse reso pubblico, la sua idea era di scaricare sulla classe dirigente del partito le tensioni che lo attraversavano senza che la base dei militanti si dividesse, una protezione che fu battezzata “centralismo democratico”. Luigi Longo, successore di Palmiro Togliatti alla segreteria del partito, deciderà di rendere pubbliche quelle memorie a beneficio di tutto il partito rafforzando la via intrapresa da Togliatti di una operazione di trasformazione sociale che non si discostava dalle socialdemocrazie europee. Pietro Longo avrà l’immane compito di gestire la battaglia congressuale che si apre 30
nel 1965 anno di celebrazione dell’XI congresso del PCI. Si contrastano fieramente le tesi di Pietro Igrao espressione della minoranza e quelle di Giorgio Amendola espressione della maggioranza e dell’ala migliorista del partito. Ingrao entrò in aperto contrasto con la segreteria e la direzione del partito, criticando e non votando il documento preparato ed approvato nelle commissioni precongressuali, in aperto contrasto con i criteri non scritti del “centralismo democratico” un fatto nuovo e derimente per il partito. Ingrao sosteneva che la stagione dei governi di centro sinistra stava finendo e l’esigenza di un ricompattamento delle sinistre fosse necessario per intercettare le istanze che nel Paese andavano formando, il fermento degli studenti, la questione salariale e i diritti dei lavoratori andavano indirizzati e colti. Queste tesi nei mesi precedenti avevano caratterizzato il dibattito sulla rivista Rinascita ipotizzando un partito unico della sinistra. Non era ammissibile che nel PCI ci fosse un’aspirazione correntizia, fu deciso che piuttosto che discutere sulle tesi di Ingrao si trattasse invece di una grave insubordinazione alla disciplina. In effetti Giorgio Amendola sosteneva che la realtà italiana non consentiva la costituzione di un unico partito della sinistra ma che via, via ci fosse un allineamento e una condivisione degli obiettivi da raggiungere con il concorso di tutti coloro che fossero interessati, inoltre il PCI aveva assunto un tale grado di consenso e di dimensione elettorale che presto gli avrebbe consentito di arrivare al Governo del Paese in una coalizione di sinistre. Insomma a posteriori possiamo affermare che quel dibattito interno ha peccato di una sincera analisi evolutiva che il capitalismo stava intraprendendo ora che la spinta della ricostruzione post bellica si spegneva. Luigi Longo ha avuto il merito di perseguire tenacemente l’eredità Togliattiana della via democratica e italiana al socialismo, ciò costituisce una novità ecceziona31
le per i tempi in cui la guerra fredda tra i blocchi era più tesa e incessante. Le competenze economiche maturate dal nucleo dirigente, erano post belliche e le nuove istanze proposte dalla collettività richiedevano nuovi studi e osservazioni di più precise nell’interpretazione dei fatti contemporanei. L’ Iri, di memoria fascista e l’art. 41 della Costituzione repubblicana, davano nuova linfa ai ragionamenti economici che il PCI si trovava ad affrontare. Il capitalismo di stato poteva e doveva essere la soluzione. L’istanza di smantellare l’Iri ed epurarla, non passò. L’intervento pubblico e le partecipazioni statali costituivano la soluzione bilanciata e coerente con la Costituzione ed il nuovo corso che il partito avrebbe intrapreso. La segreteria di Enrico Berlinguer sarà improntata su queste nuove considerazioni emerse nei lunghi e travagliati dibattiti in seno alla segreteria e al comitato centrale. Berlinguer conclude l’opera di Longo, che nel corso dell’invasione del Patto di Varsavia della Cecoslovacchia, insieme a tutto il partito, appoggia e condivide Dubcek. Enrico sottrae il PCI all’influenza Sovietica, rifiutando l’aiuto finanziario del PCUS. In politica la forma è sostanza. E’ meglio lottare per il socialismo in occidente piuttosto “ che come vogliono loro” confermando che “la democrazia è un valore universale” dichiarando infine “ la fine della spinta propulsiva della rivoluzione di Ottobre”. Il PCI targato Berlinguer, pur tra tante difficoltà, non si dissolverà. Egli toglierà in Parlamento la “ l’astensione costruttiva” varata dopo l’assassinio di 32
Aldo Moro suo alleato nell’idea del Compromesso Storico. L’ennesimo governo Andreotti si spingeva sempre più a destra. Recupera il rapporto con la base del partito, degli elettori, dei lavoratori scossi dagli anni di partecipazione alla maggioranza che sosteneva il monocolore DC. Il PCI, il suo PCI, tratta di ecologismo, sostiene le lotte del neo femminismo, irrompe nel dibattito politico italiano il pacifismo, spiega quali sono i doveri dell’Europa nei confronti del terzo mondo, individua nel progresso tecnologico la chiave del rinnovamento per la pubblica amministrazione e per l’istruzione. La questione morale diventa il cardine per la rinascita del Paese scosso da anni di terrorismo e di corruzione dilagante. Berlinguer vede chiaramente alla fine degli anni ‘70’ ciò che il mondo sarebbe divenuto nei giorni nostri e come il Covid ci sta svelando ancora una volta. Un profluvio di merci in un Mondo sfinito e aggredito. La sua solitudine nell’affrontare con tenacia la “Questione Morale” solo e, a volte, avvilito da detrattori, avversari e nemici veri, esterni e, soprattutto interni fino alla sua morte l’11 giugno 1984 a Padova mentre pronunciava l’ultimo discorso, il suo PCI alle elezione Europee dello stesso anno compie il sorpasso ai danni della DC. Poi solo declino, scoppia Mani Pulite, Enrico Berlinguer l’aveva detto. Estinta la razza dei comunisti italiani del dopoguerra, i nati post 68 guidati da Giorgio Napolitano dichiarano di non essere stati mai comunisti. Le nuove tesi sfaldano la sinistra italiana e il Partito Comunista Italiano, debellano un’idea per il nulla.
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Politica
Una fondazione non ci salverà! (come comitati e think tank sono ormai diventati i veri laboratori politici al posto dei partiti) Giovanni AIELLO
Nell’ottimo film del regista Andrea Molaioli “Il gioiellino”, che ricalca le vicende del crac Parmalat avvenuto nel 2003, c’è un momento in cui un senatore (interpretato dall’attore Renato Carpentieri), rivolgendosi al capitano d’industria 34
che si trova in perenne crisi di liquidità (Remo Girone), spiega che “per stare nella serie A del capitalismo bisogna giocare a tre punte: un giornale, una squadra di calcio e una banca". Ma qQQQQuesta citazione, che sembra appartenere ad una lontana era Berlusconiana, si rivela invece d’attualità non appena sostituiamo un elemento di quel tridente, ovvero la “squadra di calcio”, e ne inseriamo uno nuovo, “la fondazione”, così ritrovandoci catapultati d’un tratto nella politica di oggi. La legge “spazzacorrotti” Abbiamo dunque il trio formato da giornale, fondazione e banca. Anche i partiti infatti, proprio come le grandi imprese, hanno normalmente un editore e un istituto di credito cui fare riferimento (ricordiamo tutti ad esempio la gaffe storica di Piero Fassino ‘abbiamo una banca’ a proposito del piano Unipol-Bnl, mentre è di questi giorni l’intreccio riguardo la possibile fusione fra Unicredit e Monte dei Paschi). Ma non basta. E visto che la proprietà delle squadre di calcio è oramai cosa da lasciare ai capitali stranieri o ai nuovi furbetti del pallone (quanto ci mancano i “Gaucci” di una volta), ecco spiegata l’esigenza di una terza struttura di appoggio, la fondazione appunto, che travestita normalmente (ed opportunamente) da ente culturale, permetta agli “influencer” della politica di presenziare sempre e comunque agli appuntamenti che contano, scovare giovani rampolli di adeguato pedigree, allargare lo spettro delle nuove relazioni e, principalmente, raccogliere le numerose donazioni che arrivano dagli operatori del territorio. Ma per impedire che le fondazioni, sempre più numerose, si trasformassero in breve tempo nello strumento ideale per fiancheggiare e soprattutto per finanziare illecitamente i partiti politici, è arrivata la legge anticorruzione del 9 gennaio 2019, la cosiddetta “spazzacorrotti”, promossa dal grillino Bonafede in qualità di ministro di Grazia e Giustizia. Questa legge, che ha toccato tanti temi (e che in alcuni suoi 35
profili è stata poi ritenuta incostituzionale) è comunque nata con l’obiettivo di prevenire i reati contro la pubblica amministrazione e mantiene ovviamente ampi spazi di efficacia. Riguardo fondazioni, associazioni e comitati, la legge dice infatti che se nei loro organi di direzione e gestione è presente almeno 1/3 dei soggetti che contemporaneamente riveste incarichi politici, scatta l’obbligo di pubblicare sia il rendiconto che la lista dei donatori, di fatto equiparando la disciplina di queste realtà a quella prevista per i partiti. Le fondazioni in Italia Il livello di trasparenza raggiunto in concreto è però estremamente variabile. Le fondazioni e le associazioni infatti, anche quando dovrebbero, non sempre pubblicano sui loro siti le informazioni richieste, e non mancano le scappatoie per via di alcune lacune del testo normativo. Emblematico in questo senso è il caso dell’associazione Rousseau (la terza più ricca in Italia), che, nel rendere noti importi e donatori, omette poi di indicare qualsiasi dettaglio sulle modalità di impiego dei fondi raccolti, tanto che gli stessi militanti non ne conoscono la destinazione. La legge in realtà non richiede queste specificazioni, anche se nel caso dei grillini i soldi non vengono solo da privati, ma in buona parte anche dalle casse dello stato, attraverso l’autotassazione degli stipendi pubblici di parlamentari e consiglieri regionali del Movimento 5 stelle, che “da contratto” non possono sottrarsi a meno di essere espulsi. Parlando invece di numeri, e rifacendosi a quanto emerso dal report 2020 “Cogito ergo sum” pubblicato da Openpolis, la galassia composta da think tank, fondazioni e associazioni politiche, è davvero frastagliata e difficile da inquadrare in modo coerente. Emergono però alcune tendenze inequivocabili. Prima di tutto, fra le circa 150 organizzazioni analizzate, quasi la metà di queste si è costituita negli ultimi 36
dieci anni, a riprova di quanto sia forte la transizione degli interessi dai luoghi tradizionali del potere verso queste nuove formazioni (per dare un’idea, prima degli anni 80 se ne erano costituite soltanto otto). In secondo luogo, risulta chiaro che, a dispetto del numero di associazioni, anche oggi non elevato in assoluto, la loro influenza è estremamente diffusa e pervasiva. È evidente infatti il legame con la politica (sono un centinaio i parlamentari che hanno incarichi in queste organizzazioni), ma anche la trasversalità di questo “universo fondazioni” italiano, che dialoga costantemente con gli altri settori strategici, come le grandi realtà dell’impresa e dell’amministrazione, e naturalmente con gli altri network europei ed internazionali, coinvolgendo nelle sue attività complessivamente più di 3mila persone. Infine, colpisce l’ampia differenziazione, visto che oltre alle tante associazioni politiche espressioni di ciascuna area, non mancano quelle che si occupano di formazione e ricerca (come ad esempio Gimbe o la stessa Openpolis), o anche di policy making, ossia di supporto e di pressione riguardo temi specifici non riconducibili necessariamente a posizioni ideologicamente consolidate. Le aree Circa il 30% di queste realtà sono riconducibili al centrosinistra, un 20% al centrodestra e una fetta più o meno equivalente può considerarsi bipartsan. Rimangono poi le altre aree di riferimento con percentuali minori, e naturalmente il Movimento 5 stelle, che come abbiamo visto fa affidamento su una struttura completamente diversa, basata su una sua piattaforma e sulle associazioni affiliate, e che lo pone sostanzialmente al di fuori dello spettro tradizionale. Giusto per fari dei nomi, tra i think tank più noti nell’area di centrosinistra c’è sicuramente Italianieuropei di Massimo D’Alema, del quale fanno parte, ad esempio, Zingaretti e il ministro della 37
salute Speranza, al quale si aggiunge una realtà per certi versi emergente come Merita Meridione - Italia, fondata dall’economista e ministro nel governo Gentiloni, Claudio De Vincenti. Senza dimenticare Fondazione Gramsci e Nuova Economia e nuova società di Bersani e Visco. Nel centrodestra tra le realtà attualmente più ramificate ci sono ad esempio Magna Carta di Quagliariello e Iustus di Tremonti, mentre uno dei nomi più presenti in questo network in crescita è quello di Giovanni Tria, ex ministro dell’economia nel primo governo Conte. E ciò soltanto per dare un’idea di quanto possano essere fitte, inattese ed importanti le interrelazioni di cui stiamo parlando. Prova ulteriore ne siano le associazioni cosiddette panpartisan, come l’Aspen Institute (uno degli istituti dal bilancio più alto in Italia, circa sei milioni, secondo solo a quello della Fondazione Mattei), la Fondazione Italia-Usa o la Fondazione Eni, che sono complessivamente le più ricche e soprattutto quelle nelle quali il centro di interesse si sposta dalla politica verso le università, le grandi imprese pubbliche e l’economia. Molti naturalmente anche qui i nomi più conosciuti, come quello di Gianni Letta, o di Luigi Abete, che non a caso sono anche tra i personaggi più ricorrenti nelle varie associazioni, insieme ad esempio a Giovanni Maria Flick e allo stesso Tremonti. Da Matteo a Mario E arriviamo così alla strettissima attualità. In pochi giorni, mentre eravamo nel pieno di un già complicato Conte II, siamo stati dirottati da quello che Nicola Fratoianni, segretario di Sinistra Italiana, ha definito efficacemente come il “teppismo politico” di Renzi, ritrovandoci all’interno di uno strano impasse che in molti si ostinano a chiamare crisi. Anche Matteo, peraltro, non è privo di problemi, legati proprio alla sua fondazione Open, al centro oramai da tempo di un’inchiesta molto 38
delicata in cui l’ex primo ministro è indagato per finanziamento illecito continuato, insieme ai membri del consiglio direttivo Maria Elena Boschi, Alberto Bianchi, Marco Carrai e Luca Lotti. Circostanza questa che probabilmente ha pesato non poco nei recenti ricatti strategici di Italia Viva. E che dire infine di Mario Draghi. Parlare di fondazioni, di comitati e consigli direttivi di provincia, potrebbe risultare quasi offensivo per un profilo di cui si pesa il tonnellaggio su tutte le piazze del mondo, sommando anche solo l’importanza dei due principali incarichi ricevuti in carriera, in qualità di Governatore della Banca d’Italia e di Presidente della Banca Centrale Europea. Una personalità così nota ed accreditata da costituire una sorta di fondazione vivente a sé, in stretto collegamento, com’è inevitabile, anche con tutti i più influenti gruppi di pressione internazionale, dei quali infatti è componente di prestigio, come la Commissione Trilaterale, il già citato Aspen Institute, il gruppo Bilderberg e soprattutto il G30 (Gruppo dei Trenta), costituito alla fine degli anni settanta su iniziativa di un’altra fondazione, in questo caso la Rockefeller, per riunire i più noti finanzieri ed economisti. Ma lasciando da parte le note di sarcasmo, prendiamo invece a prestito le parole dello stesso Draghi, attraverso il recente rapporto pubblicato non a caso dal Gruppo dei Trenta, attualmente diretto proprio dal probabile premier italiano. In questo documento, infatti, analizzato da tutti i giornali del mondo, Draghi rilancia la teoria della cosiddetta “burrasca” di Schumpeter (importante economista del secolo scorso), parla di “distruzione creatrice” e teorizza la sacrificabilità di tutte le “aziende zombie” (come lui le definisce) destinate ad estinguersi (presumibilmente insieme ai loro lavoratori). Basa inoltre il suo ragionamento su un’idea di crescita che fagocita tutto ciò che è ritenuto vecchio (distruzione) per fare spazio inevitabilmente al nuovo (creazione), e ritiene che i governi dovrebbero soltanto limitarsi ad interve39
nire assecondando la naturale tendenza selettiva dei mercati. Questo insomma è il vero volto della “salvezzaâ€? promessa dalle tecno-fondazioni internazionali. Un volto che appare tanto brutto da farci rimpiangere all’improvviso la vecchia e collusa partitocrazia di casa nostra.
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Filosofia
Contro la cultura l’impeccabilità Chiara TORTORELLI
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dell’odio,
Viviamo un’epoca particolare, un’epoca di transizione che sta cambiando il nostro approccio all’esistenza, le nostre abitudini, sospesi da quasi un anno in una realtà emergenziale pandemica che coinvolge come mai prima d’ora ogni stato e ogni nazione su questo pianeta, attraversiamo la difficoltà di ridisegnarci nella sfera intima, nella sfera sociale, nella sfera lavorativa, ma soprattutto nella nostra dimensione esistenziale. Viviamo a contatto con un perenne stato di precarietà e incertezza, ciascuno nel proprio quotidiano si confronta con qualcosa che nella società dei consumi, quale era stata la nostra fino a qualche mese fa, non era previsto, cioè la realtà della vita e della morte. Il mistero proprio dell’esistenza fa di nuovo capolino nel nostro mondo spogliato da tempo di valori elementari, e in qualche modo impreparato ad affrontare l’ignoto. Inoltre, lo spostamento dal reale al virtuale che sta caratterizzando la nostra vita da un anno circa e che già da prima coinvolgeva i ragazzi ci sta deprivando della realtà corporea, e tutto questo spesso si traduce in un’attitudine radicata alla polemica più che al dialogo, all’aggressività gratuita e non al confronto, alla cultura dell’odio e non allo sviluppo della comprensione e dello spirito di condivisione. Pasolini, intellettuale libero e senza schemi, in una delle sue poesie più significative “Preghiera su commissione” evocava il senso del sacro, si rivolgeva alla figura di Dio, come deus ex machina dei nostri tempi e pregava “Caro Dio liberaci dal pensiero del domani…L’idea del potere non ci sarebbe se non ci fosse l’idea del domani; non solo, ma senza il domani, la coscienza non avrebbe giustificazioni. Caro Dio, facci vivere come gli uccelli del cielo e i gigli dei campi”. Parto da qui per una riflessione. Cosa possiamo fare oggi per recuperare la sacralità dell’esistenza? Quel tipo di approccio non fideistico ma consapevole del senso profondo dell’umana dimensione? Prendo spunto da alcuni Insegnamenti radicati in alcune culture sciamaniche per recuperare quella che a mio avviso può essere una chiave di lettura e soprattutto un vademecum per liberarci dell’idea del potere e affrontare i nuovi tempi senza smarrire il senso del rapporto con l’Alterità e il rispetto dell’Altro che sembra essersi 42
smarrito nel rapporto liquido dei social. Castaneda in molti dei suoi libri ci ha raccontato la sua esperienza con gli stregoni toltechi, con uno in particolare, Don Juan, che gli trasmise alcuni degli insegnamenti segreti che possono aiutare nel percorso alla consapevolezza e nella dimensione evolutiva individuale e quindi collettiva. Mi soffermo su alcuni. Don Juan invitava Castaneda a “Fermare il mondo”. Cosa significa? Quando siamo preda all’aggressività, alla polemica, alla lite da web intessuta sull’ “io ho ragione, tu no” scaviamo solitudini, malesseri e alimentiamo odi… è allora, proprio allora che possiamo fare qualcosa di particolare, provare a fare il vuoto nel nostro sentire e percepire. Si tratta di una sorta di stop interiore. Quando la polemica impazza, le parole si susseguono e non c’è più spazio per il confronto…. Stop! Fermiamo il tempo. Fermiamo la parola, fermiamo la polemica, fermiamo il pensiero che costruisce mondi. Fermiamoci. Impariamo la pausa, il momento di silenzio quello che i nostri nonni richiamavano quando ci dicevano “prima di rispondere conta fino a dieci…” Proviamo a fermare il nostro mondo interiore, diamoci altro spazio in un altro tempo e vediamo cosa accade. Può succedere ad esempio che dal vuoto si ricrei un nuovo modo di esserci nella relazione, meno competitivo, un nuovo scambio, può capitare di fare più spazio all’altro, provando a disegnare nuove coordinate. Don Juan inoltre invitava a guardarsi dall’importanza personale. Per gli sciamani il mondo è una questione energetica, quindi ognuno di noi per stare bene, vivere in cooperazione e sviluppare consapevolezza dovrebbe imparare a non disperdere energie in cose inutili e dannose. Uno dei grandi ostacoli all’evoluzione umana è l’ego, questa strana abitudine non solo a pensarci separati ma a coltivare attraverso una specie di gioco al massacro l’importanza personale. Coltiviamo idola, cioè nutriamo il nostro ego che è illusorio, costruiamo castelli di ragioni e torti, e quindi soffriamo di lesa maestà se veniamo contraddetti, cerchia43
mo di pareggiare il conto se veniamo feriti, insomma edifichiamo monumenti di infelicità. Pensate invece quale società potremmo costruire se non dessimo tanto spazio all’importanza personale ma ci rapportassimo agli altri con “impeccabilità”, un altro dei termini che lo stregone tolteco Don Juan trasmise a Castaneda. Cosa vuol dire essere impeccabili? Essere autentici, avere sempre presente il peso delle proprie parole ed esserne responsabili. Mi prendo la responsabilità di ciò che dico e sono presente alle conseguenze delle mie parole… È qualcosa che riguarda l’Esserci, essere completamente in ciò che si fa. Pensate come sarebbe diverso il confronto sui social o la stesura di un articolo di giornale se ciascuno avesse presente il peso delle proprie parole e se ne prendesse responsabilità totale. Significa decido chi sono, chi voglio essere, cosa dire e cosa non dire, so che ogni parola avrà un peso, genererà una reazione, creerà un certo tipo di relazione… quindi sono impeccabile, perché sono presente al tavolo delle decisioni. La vita non decide per me. Sono io che scelgo con consapevolezza cosa fare della mia vita, della mia energia, delle mie emozioni, dei miei rapporti. Sono presente, quindi Impeccabile.
“L'impeccabilità, come ti ho detto tante e tante volte, non è la moralità, disse don Juan. Le assomiglia soltanto. L'impeccabilità è semplicemente il miglior uso del nostro livello di energia…. Esige frugalità, sollecitudine, semplicità, innocenza, e, soprattutto, esige mancanza del riflesso di sé..” (Carlos Castaneda, Il Potere del Silenzio). 44
USA
Martin Luther King, il profeta disarmato Giovan Giuseppe MENNELLA
Nell’anno appena trascorso, il 2020, è sorto un movimento di protesta per difendere i diritti della minoranza afroamericana negli USA messi in pericolo dall’ondata di revanscismo bianco susseguito all’inaspettato trionfo elettorale di Donald Trump nel 2016. Questo movimento ha assunto caratteristiche di reazione alle violenze della Polizia e degli estremisti bianchi contro gli afroamericani. Si è connotato in varie incarnazioni, nello sport, nello spettacolo, nella società civile in generale. Il movimento Black Lives Matter ha fatto notizia nelle cronache di quasi tutto il mondo per la partecipazione alle proteste di personaggi di grande notorietà, soprattutto gente dello spettacolo e atleti, della National Basketball Association, del calcio professionistico, dell’automobilismo dove si è distinto il Campione del Mondo Lewis Hamilton. 45
Il Movimento per la difesa dei diritti degli afroamericani di oggi si connette idealmente al Movimento di protesta per la difesa dei diritti civili degli anni ’50 e ’60 del secolo scorso, che ebbe come personaggio più popolare e significativo il reverendo Martin Luther King Jr. Martin Luther King Jr era nato nel 1929 ad Atlanta, in Georgia, una città del Sud degli Stati Uniti nella quale a quell’epoca i cinema, i parchi pubblici e molti altri luoghi di interesse collettivo erano vietati agli afroamericani. Già il padre rivestiva il ruolo di pastore protestante, il reverendo della Union Baptist Church Martin Luther King Sr. Si trasferì al Nord, al Crazer Theological Seminary in Pennsylvania, dove ebbe modo di partecipare a dibattiti pubblici e si laureò nel 1951. Poi si perfezionò in Filosofia all’Università di Boston, dove nel 1955 acquisì il Dottorato e durante alcuni dibattiti e conferenze, si appassionò al pensiero non-violento del Mahatma Gandhi. Sia Gandhi che, prima, Tolstoi e poi King e Mandela si sono ispirati agli scritti di Henry David Thoreau, romanziere e filosofo statunitense della prima metà del XIX secolo, che aveva teorizzato il diritto e anzi il dovere della disubbidienza civile dei cittadini contro le norme ingiuste dello Stato. L’azione che dovevano mettere in campo King e il Movimento per i Diritti Civili non fu tanto quella della resistenza passiva, quanto quella della non violenza. La prima consiste nel restare passivi prima e anche dopo le manifestazioni, la seconda si caratterizza nel dimostrarsi fermi e determinati a sostenere i propri principi a qualunque costo, anche con azioni positive che possano comportare qualunque danno a se stessi. La strategia della non violenza doveva essere applicata nei contesti più diversi, dai discorsi, alle marce, ai sit in, alle occupazioni di locali e uffici pubblici, collocando il credo non violento nelle contraddizioni della società statunitense, divisa tra il massimo di democrazia politica e il minimo di diritti per i poveri. Alla fine del 1955 fu nominato Pastore della chiesa protestante di Montgomery, Alabama. La chiesa era una di quelle Black Churches del Sud che costituivano luoghi comunitari di eccezionale importanza per la comunità nera, che ne assicuravano la coscienza e la coesione e ne rafforzavano il peso nella società. Secondo lo studioso nero W.E.B. Du Bois “la chiesa nera è stata l’unica istituzione sociale tra i neri che era iniziata nella foresta africana ed era sopravvissuta alla schiavitù”. Proprio a Montgomery avvenne un episodio determinante nella lotta per i diritti civili degli afroamericani. Nel dicembre 1955 Rosa Parks, una signora di colore, 46
stanca dopo una giornata di lavoro, si sedette nella zona di un bus riservata ai passeggeri bianchi e rifiutò di cedere il posto a un bianco. L’azione non fu casuale, come sembrava, ma fu lungamente preparata e meditata, con il contributo dello stesso King, soprattutto nella scelta di una irreprensibile e pacifica signora di età matura, per niente assimilabile alla tipologia di giovane arrabbiato e ribelle che avrebbe potuto alienare le simpatie dei moderati. I diritti degli afroamericani ex schiavi erano stati formalmente assicurati dal XIV Emendamento della Costituzione, votato dal Congresso nel 1865, nel quadro delle norme cosiddette della Ricostruzione del Sud dopo la fine della Guerra Civile. Tuttavia, le leggi di esecuzione dell’Emendamento erano state lasciate ai singoli Stati federali. Quelli del Sud ne avevano approfittato, dopo la fine dell’Era della Ricostruzione nel 1877, per far passare le cosiddette leggi Jim Crow, dal soprannome buffonesco con cui erano appellati gli ex schiavi neri. Queste leggi, con pretesti vari, imposero agli afroamericani la segregazione rispetto ai bianchi. La stessa Corte Suprema, con una importante sentenza del 1896, la giustificò, adottando il principio ambiguo della “uguaglianza nella separazione”. Il simbolico gesto di Rosa Parks non era stato improvvisato e la stessa protagonista era un’attivista molto ben preparata. Dopo l’arresto di Rosa Parks fu varato il boicottaggio degli autobus cittadini che durò 381 giorni e portò l’azienda vicina al fallimento. Alla fine, la Corte Suprema, con la sentenza del 6 novembre 1956, dichiarò illegale la segregazione razziale sui mezzi di trasporto. Nel 1963 King guidò sit-in, boicottaggi e proteste anche a Birminghan, sempre in Alabama, definita la Johannesburg del Sud. Nonostante l’azione non violenta, fu arrestato insieme ai compagni di lotta. Dovette intervenire il Presidente Kennedy per farlo rilasciare. Traendo linfa dalla lotta di Birmingham, il 28 agosto del 1963 fu intrapresa la marcia su Washington contro la povertà e l’emarginazione. Il raduno vide migliaia di partecipanti, tutti uniti, neri, bianchi, donne, uomini, ad ascoltare King pronunciare il discorso che doveva diventare famoso per l’incipit “I have a dream”. Tre mesi dopo fu assassinato il Presidente Kennedy che, pur tra molte esitazioni e incertezze, aveva costituito un baluardo di garanzia e di protezione per la lotta di King e del Movimento. A quel punto, tutte le conquiste ottenute sembrarono lontanissime e fragili. 47
Anche se King e il Movimento per i Diritti Civili avevano ottenuto risultati significativi, molti gli rimproverarono la lentezza e l’eccessiva gradualità delle conquiste. In effetti, il Movimento non violento era solo una parte della galassia dei movimenti contro l’ingiustizia di fondo della società statunitense. Tra questi molti, come Malcom X e le Black Panthers, intrapresero forme di lotta meno pacifiche e gradualiste. Ma fu King che ebbe un maggiore seguito delle masse e fu proprio la sua popolarità a spiegare l’acerrimo accanimento del capo dell’F.B.I. Edgar J. Hoover contro di lui e contro il Movimento. Non si contarono le azioni ostili e di spietato controllo che subì. Fu spiato, minacciato, le prove delle sue relazioni extraconiugali fatte conoscere alla moglie Coretta, secondo lo stile, in voga anche oggi, della character assassination. Hoover arrivò al punto da far ascoltare in diretta alla moglie gli effetti sonori dei rapporti extraconiugali di King. All’inizio del 1964 cominciarono le mobilitazioni decisive di protesta per ottenere l’effettivo esercizio del diritto di voto degli afroamericani nel Sud In quello stesso 1964 Johnson presentò al Congresso il Civil Rights Act con lo scopo di dichiarare definitivamente illegale la segregazione razziale nel Sud, nell’ambito del suo più vasto progetto di una società più giusta, la Great Society. Gli Stati del Sud furono costretti a iniziare la registrazione dei neri nelle liste elettorali, ma il Ku Klux Klan, la Polizia degli Stati, gli Sceriffi intrapresero una campagna di violenza e di intimidazione per svuotare il progetto. Così a Selma iniziò una lotta decisiva per la registrazione dei neri nelle liste elettorali. Il 7 marzo 1964 King fu ancora in prima fila nella marcia per entrare in città, insieme ad altri esponenti della società civile, neri e bianchi, e a religiosi di tutte le confessioni, ebrei, ortodossi, musulmani, cristiani. La violenza della Polizia e degli estremisti di destra bianchi si scatenò, nel cosiddetto Bloody Sunday, contro i partecipanti. King decise di non oltrepassare il ponte Edmund Pettus. Ma il 23 marzo la marcia riprese con successo e il 6 agosto il Congresso formalizzò in legge il Civil Rights Act. Gli avvenimenti incalzarono. Il 10 dicembre 1964 fu assegnato a un King ormai conosciuto in tutto il Mondo il Nobel per la Pace. Il 21 febbraio 1965 fu assassinato Malcolm X, probabilmente dalla setta di Musulmani neri fondamentalisti da cui si voleva staccare. Iniziò così la fase in cui divamparono gli atti di lotta e contestazione violenta della parte più radicale del Movi48
mento afroamericano. Nell’agosto del 1965 scoppiò a Los Angeles una rivolta dei ghetti neri che si protrasse per giorni. E qui si verificò la definitiva divaricazione tra i moderati, come King, che per ottenere l’uguaglianza credevano nelle istituzioni e nelle leggi, a partire dalla Costituzione, e i radicali, come le Black Panthers, che confidavano in azioni più decise. Non a caso, King era un borghese che pensò sempre che il razzismo fosse un difetto e un’eccezione che si poteva modificare, mentre Malcolm X e le Black Panthers provenivano dalle masse povere e ritenevano che il razzismo fosse del tutto connaturato e consono a una società americana profondamente ingiusta e criticarono sempre il gradualismo del Movimento non violento. Una parte non piccola del Movimento, dopo il 1965, passò alla violenza, perché, appunto, nonostante gli accordi e le leggi, il popolo di colore era ancora e sempre vessato ed emarginato. Qui si situò quel cambiamento di rotta di King nei suoi ultimi tre anni, dal 1965 alla morte nel 1968, causata sia da una autonoma presa di coscienza che il problema non era solo quello dei diritti costituzionali formali e non solo nel Sud, ma anche quello della mancanza di lavori decenti, di alloggi salubri, di vera e propria povertà, anche nei ghetti neri del Nord. Molto di questa nuova impostazione di King fu dovuta evidentemente alla spinta vigorosa verso i temi sociali delle frange più radicali, come se non intendesse farsi scavalcare a sinistra. Una virata non lontana da un programma più decisamente socialista. Così nel 1966 si spostò in alcuni grandi centri urbani del Centro-Nord, dove per le crisi economiche erano ormai immigrati dal Sud milioni e milioni di neri. In quei grandi agglomerati di popolazione King si impegnò contro la povertà e l’emarginazione dei lavoratori neri, organizzando proteste, marce, sit in per il risanamento dei quartieri poveri degradati, per ottenere condizioni di lavoro più dignitose, contro l’iniqua distribuzione della ricchezza. Ben presto, a partire dal primo risalente al 4 aprile 1967, pronunciò discorsi pubblici contro la guerra in Vietnam che aveva ormai identificato come la vera causa del protrarsi negli USA dell’ingiustizia sociale dell’ineguaglianza. La guerra sottraeva ormai enormi risorse economiche ai programmi sociali e rinfocolava le posizioni nazionaliste e razziste della destra e delle classi dominanti. 49
Dal marzo del 1968 intensificò l’attività di propaganda, girando in città importanti come Detroit, Chicago, Los Angeles, finché arrivò a Menphis per appoggiare lo sciopero dei lavoratori della nettezza urbana. E qui sarà il capolinea della sua missione e della sua vita, dove sarebbe stato ucciso con un colpo di fucile il 4 aprile 1968. Gli ultimi tre anni di lotta di King, svolti più nel Nord e più per la difesa di diritti sociali ed economici, sono stati poco raccontati e studiati. Come se si sia voluto fare di King più un eroe americano del tutto positivo e vittorioso, pacificato con il suo Paese, che non un nero che si era battuto per i suoi confratelli emarginati, in contrasto e in opposizione con la corrente principale della Storia degli Stati Uniti. E così, oggi le lotte degli afroamericani e dei progressisti contro il nazionalismo razzista della destra, incoraggiato dalla dissennata Presidenza Trump, stanno trovando un ideale precedente e un’ispirazione nell’azione di impostazione più socialista di quell’ultimo periodo, così troppo poco raccontato, del profeta disarmato che è stato Martin Luther King.
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Società
Staycation a due stelle Michelin Veronica D’ANGELO
È indubbio che in questo periodo di crisi economica l’attività di ristorazione sia tra quelle più colpite. Ma probabilmente è anche quella che ha reagito con più creatività. Sin da marzo scorso molti ristoranti, anche stellati, si sono convertiti all’asporto e al delivery. Alcuni hanno avviato collaborazioni con strutture ricettive per organizzare pranzi o cene in camera, unendo competenze, forze ed energie. Altri ristoranti, collocati negli alberghi, hanno elaborato una formula interessante, in un momento in cui la presenza di turisti è scarsa e la voglia di cenare fuori decisamente alta: offrire gratuitamente il pernottamento a coloro che prenotano la cena, sfruttando la tendenza, consolidata durante la pandemia, di fare vacanze nella propria città, detta staycation. Da stay (restare a casa) e vacation (vacanza). In questo caso, infatti, la ristorazione è consentita senza limitazioni poiché riservata ai clienti dell’albergo. 51
Ma a Napoli è successo di più. Nel periodo natalizio, infatti, un notissimo albergo a 5 stelle lusso, il Parker’s del Corso Vittorio Emanuele – che vanta un ristorante stellato al suo interno, il George, e una vista mozzafiato sul golfo – ha offerto al vicino Veritas, ristorante a una stella Michelin, la possibilità di sfruttare la sua stessa formula di cena e pernottamento, mettendo a disposizione gratuitamente i locali e le stanze dell’albergo e permettendogli così di continuare l’attività di ristorazione che altrimenti sarebbe stata chiusa. Due ristoranti stellati insieme. Incuriosita dall’esperimento e dal gesto di solidarietà, ho avuto modo di parlarne con Stefano Giancotti, patron del ristorante Veritas, per un primo bilancio. Stefano ha un’antica passione per la cucina e l’alta ristorazione, un lato umano fuori dal comune e una vivace tempra imprenditoriale. Mi racconta di un anno di difficoltà e di tanta caparbietà. Con il lockdown di marzo scorso anche il suo ristorante ha cominciato con l’asporto, elaborando un menù più semplice e alla portata di un pubblico più ampio. Ma è stata la seconda chiusura, quella di ottobre, che è risultata ben più complicata della prima. I dipendenti avevano ricevuto con notevole ritardo la prima cassa integrazione ed erano preoccupati per il futuro. Stefano quindi, con una sala già dimezzata per rispettare le prescrizioni anti-contagio, decide di utilizzare solo parzialmente la cassa integrazione effettuando una turnazione del personale e anticipando gli stipendi ai dipendenti. “Il personale aveva bisogno di essere rassicurato”, mi confessa. “Il rischio era la chiusura del Veritas e la perdita della brigata”. Quando etica e spirito imprenditoriale coincidono. Chapeau. A quel punto arriva l’offerta dell’albergo stellato. La possibilità di utilizzare una delle due sale con cucina e il pernottamento gratuito anche per i clienti del Veritas. “La generosità dei proprietari del Parker’s, è stata sorprendente ed emozionante”, racconta Stefano Giancotti. “La proposta, totalmente gratuita, di utilizzare la seconda cucina e la sala, normalmente adibita ad eventi, per aiutare il Veritas in un momento di difficoltà ha dimostrato la loro lungimiranza imprenditoriale, oltre al loro senso di altruismo e di cooperazione”. 52
Il Veritas è un fine dining di cucina napoletana moderna, che deve il suo successo al sodalizio ormai decennale tra Giancotti e lo chef irpino Gianluca D’Agostino. Secondo la Guida Michelin, la sua cucina è un’esplosione di sapori della tradizione. Il George, invece, ha inaugurato solo nel 2018 e in meno di un anno ha conquistato la stella per la sua cucina creativa ed elegante, che fonde sapori ed esperienze mediterranee. Insomma, due stili diversi, stesso livello di qualità e professionalità. Nessuna concorrenza, quindi, nessun timore di competizione tra i ristoranti. L’occasione è stata perfetta, invece, per sviluppare un progetto di co-marketing, aggregando due realtà similari e moltiplicando l’effetto comunicativo e promozionale. La notizia, infatti, si diffonde in fretta, piovono articoli e prenotazioni. E il successo arriva: in 16 giorni di apertura a dicembre presso l’albergo panoramico, il Veritas è quasi sempre pieno. L’operazione non manca di qualche elemento di complessità, naturalmente, dovuta al fatto che la brigata del Veritas deve spostarsi ogni giorno in un’altra cucina, ma questo offre anche spunti di miglioramento. Vengono elaborati due diversi menù degustazione, uno classico, con i piatti più rappresentativi del percorso dello chef, e uno più “innovativo”, oltre a una carta dei vini giornaliera. Inoltre, i clienti vengono contattati il giorno prima per accontentare eventuali richieste di vino particolari. Un’attenzione che agevola notevolmente il servizio in sala e fa sentire coccolato il cliente. Il bilancio di questa collaborazione con il Parker’s, quindi, è più che positivo, secondo Giancotti, soddisfatto anche per l’ampliamento della clientela. Se in passato i clienti del suo ristorante erano in prevalenza turisti, questa iniziativa è riuscita a richiamare un pubblico napoletano e più giovanile, attratto dalla location e dal panorama. E chi non si farebbe affascinare dalla possibilità di godere di un’esperienza stellata a tutto tondo, rilassarsi in un ambiente lussuoso, gustare una cena gourmet e fare colazione l’indomani guardando il mare? E che lusso potere scegliere tra ben due ristoranti stellati nello stesso albergo! Insomma, in questo progetto c’è inventiva, dedizione al lavoro, spirito imprenditoriale, umanità. Credo che il suo successo sia tutto qui, nella voglia di non arrendersi alle difficoltà e nella consapevolezza che la collaborazione, la condivisione di 53
conoscenze e risorse, permette di conseguire risultati maggiori di quelli raggiungibili singolarmente. Questa storia mi fa ricordare un vecchio proverbio africano: “Se vuoi andare veloce, vai da solo. Se vuoi andare lontano, corri insieme”. E chissà se questo esempio di cooperazione basato sulla solidarietà, insieme alla evidenza dei benefici generali che se ne ricavano, non diventi un modello da appli-
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Politica
Angelo e Francesco, i due pescatori Rosanna Marina RUSSO
Sembrava una fiaba. Un pescatore, Angelo Vassallo, che viveva a Pollica nel salernitano, divenne sindaco e lo rimase per 15 anni, dal 1995 al 2010. Ma all’inizio del suo quarto mandato, rieletto il 30 marzo col 100% dei voti, la realtà tinse di rosso 55
la fiaba, la insozzò col sangue del primo cittadino che venne ucciso, la sera del 5 settembre 2010, mentre rincasava alla guida della sua auto. Un omicidio ancora avviluppato nel più assoluto mistero. C’è un collegamento, talvolta, tra una persona e un’altra, tra una vita e un’altra, non ben visibile, perché nascosto da quella famosa siepe, ma che può, improvvisamente e per una contingenza qualsiasi, apparire evidente. In questo caso il motivo del disvelamento è un libro, scritto da Dario Vassallo, fratello di Angelo, e Vincenzo Iurillo “La verità negata – Chi ha ucciso Angelo Vassallo il sindaco pescatore”, e donato a Papa Francesco. Bergoglio legge il testo e scrive a Dario una lettera, ringraziandolo per la pervicace ricerca della verità su quell’assassinio, ricerca che è testimonianza di un profondo senso di giustizia. E così facendo da una parte afferma, come altre volte ha fatto, l’importanza della giustizia “terrena” e dall’altra attesta una comunanza tra la sua idea di politica e la vita da sindaco di Angelo. Chi ha letto l’Enciclica Fratelli tutti sa che Francesco indica con precisione le caratteristiche della “buona politica”, quella che si preoccupa del bene della collettività ed è scevra dal perseguire gli interessi personali. Il sindaco pescatore, così era chiamato, ha amministrato il suo territorio pensando soltanto al bene degli altri e non al proprio e ha tutelato, preservato e valorizzato l’ambiente. Perciò ha realizzato una visione, che per papa Francesco è necessaria in una politica attenta e lungimirante, e non ha di certo vagheggiato un miraggio impalpabile ed effimero. La vita di Angelo ha gridato al mondo che una realtà diversa è possibile e che basta rincorrere con determinazione il sogno e afferrarlo agendo con concretezza. Nell’Enciclica il papa scrive: “Abbiamo bisogno di una politica che pensi con una visione ampia” e ancora: “Penso a una sana politica, capace di riformare le istituzioni, coordinarle e dotarle di buone pratiche, che permettano di superare pressioni e inerzie viziose …La grandezza politica si mostra quando, in momenti difficili, si opera sulla base di grandi principi pensando al bene comune e a lungo termine”. “Carità politica” la chiama Francesco e questo pensiero si sposa con la vita di Angelo che fu guidato nei suoi mandati amministrativi dall’amore per il mare e la terra, tanto che portò le acque di Pollica ad essere le più premiate negli anni con le 5 vele della Bandiera Blu di Legambiente, tanto che fece della sua terra la regina d’Italia e senza mai cedere a “pressioni” e agendo lontanissimo da “inerzie viziose”. 56
Ma il legame che apparenta queste due vite è intriso anche di un particolare simbolismo. Ogni papa, salendo al soglio pontificio, indossa l’anello piscatorio all’anulare della mano destra che reca l’immagine di san Pietro mentre getta le reti dalla sua barca. Perché Pietro, il primo papa, era un pescatore e fu chiamato ad essere altro. Ed ecco che il legame diventa legatura.
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Racconti
Dear June Lucia COLARIETI
June aprÏ il foglio che aveva ricevuto. Le lettere nere spiccavano ferendo lo sguardo, le riusciva difficile comprenderne il significato, si susseguivano in un ordine che poteva anche non avere un senso, invece per la maggior parte delle persone lo aveva. Come i fatti accaduti nella sua vita, si erano susseguiti e lei li aveva vissuti senza capirli, adesso qualcuno pensava di aver dato una ragione a tutto. Era stata una bambina irrequieta, seconda di quattro figli, cresciuta al pari di una pianta di gramigna che viene su da sola, senza troppo impegno. L’adolescenza aveva accresciuto la sua inquietudine, un’energia esplosiva le spingeva gambe e brac58
cia, parti sconosciute del suo corpo si facevano improvvisamente grandi e ingombranti, non sapeva mai bene dove stare. Lì nel quartiere della gente di colore venivano gli assistenti sociali e le dicevano che avrebbe dovuto stare seduta in un banco di scuola, ma era tanto difficile. A casa, nelle due stanze che occupava insieme ai genitori, i due fratellini più piccoli, la nonna e la sorella grande, non c’era mai silenzio. L’unico spazio dove scaricare l’elettricità che sentiva nelle vene era il grande caseggiato popolare, con i suoi lunghi corridoi e gli atri e i cortili. Quei pavimenti lerci e umidi rappresentavano per lei la possibilità di non sentirsi costretta. Lì, tra quelle mura senza intonaco, aveva stretto la sua amicizia con Daisy, era più grande e non le chiedeva mai di stare ferma. Quando andavano a scuola la proteggeva dai commenti stupidi dei ragazzi e dagli sguardi disturbati dei bianchi del quartiere elegante. June non sapeva perché dovesse evitare di raccontare a casa degli amici che frequentavano, non sapeva perchè fosse meglio stare alla larga dalla polizia, non sapeva perché dovesse far finta di non vedere gli scambi furtivi con alcuni personaggi che di tanto i tanto si prsentavano. Non riusciva a soffermarsi troppo sulle ragioni o i motivi delle cose, le bastava stare con Daisy, sentirsi protetta e riuscire a stare allegra e libera. Era importante riuscire a zittire la voce di sua madre che l’accusava di essere inutile, scappare dalle urla del padre che diceva che non c’erano mai abbastanza soldi, dalle lagne dei fratellini che non erano mai contenti. Con Daisy andavano in giro sempre insieme, June si divertiva a ballare e scherzare e non le importava se ogni tanto le chiedevano di stare zitta e non raccontare ciò che aveva visto. Le facevano dei bellissimi regali. Erano diventate signorine e maggiorenni, quella sera Daisy le aveva detto: «Stasera è speciale». 59
June, come sempre, non ricostruiva bene la sequenza di ciò che avevano fatto. Ricordava invece benissimo l’abito scintillante di paillettes che l’amica le aveva regalato, insieme ad un fantastico paio di scarpe dal plateau altissimo rosse luccicanti. Anche Daisy era splendida nel vestitino argentato che faceva risplendere la sua pelle scura. Marc, il nuovo fidanzato di Daisy era bianco, un’esperienza esotica e trasgressiva per le ragazze del loro quartiere. Erano entrambe eccitate al pensiero della festa e si erano preparate con ogni cura per fare colpo. Lui le aspettava a bordo della sua auto nuova nella strada grande del quartiere, la musica che rimbombava dagli altoparlanti dello stereo. Quando le due ragazze si avvicinarono una scia di fischi di ammirazione si alzò dal gruppetto di uomini che stava accanto a lui, poi ognuno salì sulla propria auto e la flotta di bolidi neri e rombanti si avviò sulle colline. La villa si trovava lassù, nel quartiere dei bianchi. Lasciarono l’auto nel giardino, dalle porte della casa proveniva il frastuono della festa, tantissime persone si divertivano. June si sentiva su di giri, perse di vista l’amica ma non era un problema, il vassoio pieno di bicchieri colmi le passava accanto spesso e lei prendeva ciò che capitava. La musica rimbalzava nel cervello e faceva piazza pulita dei brutti pensieri, il ritmo ossessivo catturava l’energia che era sempre costretta a controllare e la emanava nella stanza intorno fondendola con quella degli altri ragazzi che come lei oscillavano in cerca di un paradiso. Girando lo guardo si accorse che Daisy stava cercando di attirare la sua attenzione. Lasciò il gruppo e si avvicinò, lo sguardo dell’amica era cupo, il rimmel le colava dall’occhio sinistro, la spallina del vestito era strappata. «Cosa succede?» le chiese preoccupata, non l’aveva mai vista in quello stato. 60
«Niente, stai tranquilla, dobbiamo andare via» Daisy si guardava intorno. «Guarda c’è Marc lo chiamo» disse mentre lui si avvicinava. «June, andiamo via è meglio lasciarlo perdere, lui e i suoi amici». «Ma perché? Ti ha fatto lui male?» Le lacrime luccicavano sugli occhi dell’amica e questo lei proprio non lo poteva sopportare. «Cosa le hai fatto» urlò in faccia al giovane che la guardava impettito e beffardo «Levati di torno, negra cretina». La spinse e si avviò verso la scalinata che dava al piano di sopra. June prese l’amica per un braccio, «Andiamocene Daisy, mi gira la testa, quello è uno stronzo, lasciamolo qui». Ma l’altra era come assente, senza energia la osservava distante e si avviò anche lei lungo la scalinata. «Andiamo di sopra». June si guardò intorno in cerca di aiuto, tutti ondeggiavano al ritmo incalzante della musica, bevevano o si strofinavano tra di loro, nessuno le stava guardando, non poteva fare altro che seguirla. Una lunga moquette morbida color champagne copriva il corridoio, le ragazze camminavano mano nella mano affondando piano le zeppe delle loro scarpe, c’era silenzio al piano di sopra. Il tonfo fece rimbombare la parete, la porta di una stanza si spalancò e un corpo precipitò ai loro piedi. La giacca verde di Marc era imbrattata, dal collo sgorgava un fiotto rosso scuro, gli occhi erano fissi in una espressione di terrore. Immediata61
mente dopo un altro giovane si avventò dall’interno della stanza sul corpo steso a terra. Daisy urlò il nome del suo ragazzo, si girò giusto in tempo per vedere l’altro che con il coltello in mano la stava raggiungendo. Davanti agli occhi di June le immagini si confusero, riusciva a distinguere solo il brillio del vestito della sua amica. Inseguendo il luccichio dell’amicizia, senza controllare i suoi gesti afferrò il coltello dalla mano dell’aggressore, l’intervento di sorpresa lo aveva destabilizzato e lei lo spinse a terra, vedeva il corpo di Daisy steso, il vestito era strappato e uno squarcio nella schiena sprofondava fino al cuore. La voltò facendola rotolare su sé stessa, mentre si chinava per guardarla da vicino si sentì sollevare, vide il suo stesso braccio affondare nel fianco del ragazzo e tutto si fece scuro davanti ai suoi occhi. Spesso June, negli anni successivi, aveva cercato di ricostruire cosa fosse accaduto, uomini e donne in divisa le avevano ripetuto sempre le stesse domande e lei non poteva dire altro: la sua amica era in pericolo e lei l’aveva aiutata, purtroppo era stato inutile. Perché eravate andate a quella festa? Perché aveva il coltello in mano? Perché il coltello era uguale a quelli di casa sua? Era invidiosa della sua amica? Come mai aveva urlato contro il ragazzo? Quanto aveva bevuto? Conosceva i traffici illeciti di quel giro? Da quella sera nei suoi giorni si erano aggiunte facce di gente che la guardava sdegnata oppure pietosa, aule di tribunale, uffici legali, scartoffie da firmare o da leggere. Persone con gli striscioni che portavano il suo nome, giornalisti che la intervistavano, la giustizia, la vita dei neri, i testimoni, una girandola di immagini e di suoni e nulla che corrispondesse a ciò che lei sapeva: non avrebbe mai fatto del 62
male a Daisy. Anzi non aveva fatto del male a Daisy. Ma tutto continuava a susseguirsi senza senso, una sola cosa emergeva nitida e dolorosa: la sua amica non c’era più, era morta. Aveva provato a spiegare che per lei era un dolore senza fine, che non sapeva niente di tutta quella storia, che aveva solo cercato di proteggerla, ma i discorsi vuoti di quei signori in giacca e cravatta dall’altro lato del tavolo la costringevano a rimanere in quella cella. Non c’era più Daisy a difenderla. Qualcuno pensava che così come era venuta su, così si poteva estirparla, come una pianta di gramigna, se è erba cattiva si strappa. June aprì il foglio bianco che aveva ricevuto. Le lettere nere spiccavano ferendo lo sguardo, le riusciva difficile comprenderne il significato, si susseguivano in un ordine che poteva anche non avere un senso, invece per la maggior parte delle persone lo aveva. “Cara June con la presente la informiamo che è stata decisa la data per l’esecuzione della sua sentenza di morte per ordine emesso dal giudice federale in data odierna. La presente vale come notifica ai sensi del titolo 28 del Codice Federale. Il Direttore dell’ufficio Federale ha stabilito la data per l’iniezione letale il 10 ottobre 2020. Cordialmente Signor Watson, Carcere Federale Terre Haute Indiana U.S.A.” (Gramigna: Phytolacca Americana. La gramigna è una pianta europea, in America è diffusa la fitolacca: per un lettore italiano potrebbe non essere immediatamente comprensibile il riferimento) 63
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