P OST P L ASM I C
Dipartimento di Progettazione Arti Applicate Scuola di Progettazione Artistica per l’Impresa Corso di Diploma Accademico di I Livello - Grafica Editoriale
POST PLASMIC STUDENTESSA Silvia Pesci - Matricola 15157 RELATRICE Prof.ssa Tiziana Maria Contino A.A. 2020/2021
INDEX CAP ITOLO I - ARTE CONTEMPORANEA Postumanesimo 9 Transumanesimo 12 Bioetica e Postumano 13 Post Human Exhibition 16 Matthew Barney 19 Studio Azzurro 22 Andreas Gursky 23 Cindy Sherman 26 Felix Gonzalez Torres 27 Damien Hirst 30 Mike Kelley 31 Haim Stein bach 34 Sylvie Fleury 35 Jeff Koons 38 Kiki Smith 39 George Lap pas 42 Barbara Kruger 43 Jenny Holzer 46 Janine Antoni 47 Marina Abramovic 50
CAP ITOLO 2 - PRODUZIONE ARTISTICA 54 Post Plasmic 67 Oil Creek 70 Visual Cortex Pentagram 71 Aquarium 74 Weapons of Mass Restruction 75 Palus Lotorum
INTRODUZIONE Il concetto di identità umana è stato oggetto di trasformazioni profonde, in sintonia con i cambiamenti fisici e culturali che hanno segnato il cammino dell’umanità. Gli ultimi decenni, distinti da un’accelerazione repentina delle ricerche tecno-scientifiche, ci hanno consegnato un’immagine dell’uomo rivoluzionata: genetica, cibernetica, chirurgia plastica manipolano il corpo e ne mettono in discussione perfino i tradizionali principi biologici, modificandone la percezione comune. La fine del XX secolo è quindi segnata dall’archetipo di uomo-ibrido, sviluppatosi nel Terzo Millennio sotto forma di gusto diffuso del postorganico, a livello internazionale. La seguente tesi indaga, attraverso opere di produzione artistica personale, laddove e in quale modo l’ingenua aspettativa post-umana sia stata in grado di dominare le sorti del tempo. Nel paragrafo seguono i concetti base senza cui non sarebbe possibile procedere con questa analisi, focalizzata sui movimenti — prettamente artistici — noti come postumanesimo e transumanesimo. L’analisi segue con il tentativo di individuare tutto ciò che negli anni più recenti ha contribuito ad un’involuzione umana, responsabile dello smarrimento del senso della vita. Obiettivo unico di questa tesi è creare una connessione tra tutti i prodotti editoriali presentati, una rete di concetti apparentemente sconnessi ma illuminati all’unisono.
7
POST-UMANESIMO Post-human è un neologismo legato a una corrente diramatasi nel pensiero filosofico, informatico e biotecnologico. Il testo programmatico del movimento, The PostHuman Manifesto, è tratto dal volume The Posthuman Condition: Consciousness Beyond the Brain, entrambi di Robert Pepperell. Il concetto di postumano riguarda la manipolazione diretta dell’uomo come oggetto, per mezzo dell’innesto di elementi inorganici che lo rendono ibrido, umano e non umano, con nuovi attributi e capacità. Ciò porta ad una rivalutazione del concetto di uomo, ponendo questioni umanistiche, filosofiche, biologiche, etiche e di natura umana. LA PROSPETTIVA POSTUMANISTA - La visione postumanista prevede una rivisitazione degli schemi interpretativi di stampo umanistico nel momento in cui i progressi dell’informatica e delle biotecnologie sono in grado di cambiare la natura umana. Il progresso scientifico si propone di raggiungere nuove dimensioni oltre i confini naturali dell’uomo, di modificare lo sviluppo dell’umanità futura. Ciò significa che i naturali tratti umani si integrano con quelli non umani giungendo alla creazione d’individui ibridi con nuove capacità fisiche e cognitive. L’uomo trarrà vantaggio da questa trasformazione assumendo nuove peculiarità e capacità, come sconfiggere l’invecchiamento e migliorare le proprie condizioni di salute se compromesse. Questo radicale cambiamento insito nelle potenzialità tecnologiche frutto dell’uomo impatta sulle precdenti tradizioni umanistiche: per la prima volta la specie umana evolverebbe in una specie trasformata dalla tecnologia e quindi vista da buona parte della comunità con diffidenza e timore. L’uomo si congiungerà con la tecnologia a livello biologico, perderà la propria unicità in virtù di una pluralità che si afferma nei due sensi: - riconoscimento di uno statuto assegnato alla diversità, che non è considerata una devianza o un rumore ma il principio stesso dell’essere; - ammissione di un policentrismo ontologico dove qualunque tentativo di assegnare un centro gravitazionale e una misura di approssimazione viene a decadere. L’ammissione di uno statuto alla diversità cambia il modo di leggere sia l’identità che l’alterità, dando luogo a quell’immagine pluriversale che sta alla base del postumanesimo. L’umanità entra in contatto con una tecnologia capace di adattarsi al corpo dell’uomo. Essa oggi non rappresenta più solo uno strumento esterno di miglioramento delle condizioni di vita e del benessere generale, ma diventa parte stessa dell’uomo. L’identità dell’uomo si appresta a mutare, a cambiare, a divergere dai tratti essenziali e unici che finora l’avevano caratterizzata. I cambiamenti generati da questa trasformazione metterebbero in discussione il comportamento dell’uomo, creando un dibattito etico fra chi sostiene che sia giusto un cambiamento di tale portata, e che possa aiutare l’uomo a progredire nella civiltà e chi invece lo interpreta come sbagliato, dannoso, insano. INTERFACCE IBRIDE: SUPERSENSI E SISTEMI CYBORG - La tecnologia che entra a fare parte del corpo umano cambia il modo di rapportarsi tra l’uomo e l’esterno. L’attività sensoriale è affiancata dalla mediazione della tecnologia, che costituisce una nuova interfaccia sul mondo. L’introduzione di nanotecnologie e informatica ibrida nell’organismo cambia la normale percezione e cognizione delle cose e del mondo. L’unione del corpo umano con la tecnologia realizzata all’interno dell’organismo pone le basi per la nascita d’individui, dotati di nuovi attributi e capacità. L’uomo e la modificazione delle sue caratteristiche psico-fisiche diventano oggetto di manipolazione diretta e rendono necessaria una rivalutazione del concetto di uomo, sotto diversi profili, umanistici, filosofici e biologici. La capacità dell’uomo di innestare in sé stesso elementi inorganici di natura tecnologica ne può cambiare radicalmente l’aspetto interiore ed esteriore, trasformandolo in un cyborg. Questa nuova forma ibrida sostituisce la visione umanista dell’uomo e apre una serie di nuove questioni filosofiche concernenti l’etica e la natura umana. [1]
8
9
10
TRANSUMANESIMO In seguito al postumanesimo si sviluppa il transumanesimo, movimento culturale e intellettuale che vede in una nuova condizione umana la salvezza dell’intera specie. Esso aspira a rivoluzionare la condizione umana, scorgendo nella scienza e nella tecnica gli strumenti attraverso i quali l’uomo possa evolvere consapevolmente e controllare così il proprio destino. L’ideologia transumanista, con un carattere prevalentemente laico, sostiene che non esistano forze sovrannaturali che guidino l’umanità. Si cerca di promuovere l’applicazione della scienza e delle tecnologie per migliorare le condizioni di vita degli uomini. I sostenitori del transumanesimo vogliono condurre l’uomo a diventare un nuovo essere divergente dal modello darwiniano. Non si tratta di raggiungere un ulteriore stadio evolutivo, ma di liberarsi dai tratti naturali della specie umana che hanno accompagnato l’uomo per tutto il corso della sua evoluzione. Al di là di una somiglianza superficiale tra postumanesimo e transumanesimo, diversi studiosi, sia postumanisti sia transumanisti, hanno evidenziato i profili di radicale incompatibilità tra i due concetti.[2] PRINCIPI TRANSUMANISTI - Il transumanesimo prevede dei solidi principi articolati in questa lista: “1. L’umanità sarà profondamente trasformata dalla scienza e dalla tecnologia del futuro. Prevediamo la possibilità di ampliare il potenziale umano tramite il superamento dell’invecchiamento, delle limitazioni cognitive, della sofferenza involontaria e della nostra prigionia sul pianeta Terra. 2. Crediamo che il potenziale dell’umanità sia ancora in gran parte irrealizzato. Esistono possibili scenari che conducono a condizioni meravigliose, ed estremamente utili, di miglioramento umano. 3. Siamo consapevoli di come l’umanità si trovi ad affrontare gravi rischi, in particolare derivanti dal cattivo uso delle nuove tecnologie. Esistono scenari realistici che conducono alla perdita di gran parte, se non della totalità, di ciò che consideriamo prezioso. Alcuni di questi scenari sono drastici, altri più sfuggenti. Nonostante ogni progresso implichi cambiamento, non ogni cambiamento implica progresso. 4. Sforzi di ricerca sistematici vanno indirizzati alla comprensione di tali prospettive. È necessario valutare con attenzione il modo migliore per ridurre i rischi e al contempo accelerare le applicazioni benefiche. Sono altresì necessari luoghi di incontro dove poter discutere in modo costruttivo su ciò che dovrebbe essere fatto, nonché un ordine sociale in cui decisioni responsabili possano essere implementate. 5. La riduzione dei rischi esistenziali, lo sviluppo dei mezzi per la preservazione della vita e della salute, l’alleviamento delle sofferenze gravi, e il miglioramento della lungimiranza e della saggezza umana dovrebbero essere perseguiti come priorità urgenti, e generosamente finanziati. 6. La formulazione delle politiche dovrebbe essere guidata da una visione morale responsabile e inclusiva, prendendo sul serio sia opportunità che rischi, rispettando l’autonomia e i diritti individuali, mostrando solidarietà e preoccupazione per gli interessi e la dignità di tutte le persone nel mondo. Dobbiamo anche considerare le nostre responsabilità morali nei confronti delle generazioni future. 7. Sosteniamo il benessere di tutti gli esseri senzienti, compresi gli esseri umani, gli animali non umani, e qualunque altra futura mente artificiale, forme di vita modificate, o altre intelligenze a cui il progresso tecnologico e scientifico possa dar luogo. 8. Siamo favorevoli che agli individui venga riconosciuta un’ampia libertà di scelta su come condurre le proprie vite. Ciò include l’uso di tecniche che possano essere sviluppate per aiutare la memoria, la concentrazione, l’energia mentale; terapie di estensione della vita; tecnologie di scelta riproduttiva; procedure crioniche; e molte altre possibili modificazioni umane e tecnologie di miglioramento.” Scritti nel 1998 da: Doug Baily, Anders Sandberg, Gustavo Alves, Max More, Holger Wagner, Natasha Vita-More, Eugene Leitl, Bernie Staring, David Pearce, Bill Fantegrossi, den Otter, Ralf Fletcher, Kathryn Aegis, Tom Morrow, Alexander Chislenko, Lee Daniel Crocker, Darren Reynolds, Keith Elis, Thom Quinn, Mikhail Sverdlov, Arjen Kamphuis, Shane Spaulding, e Nick Bostrom. [3]
11
BIOETICA E POSTUMANO Una delle questioni più urgenti e fondamentali nel dibattito bioetico contemporaneo è la questione antropologica. Si parla dell’essere umano, questo essere fantastico e misterioso, in grado di realizzare con la sua creatività e intelligenza inventiva, cose meravigliose e sorprendenti che rendono la vita più bella, confortevole e piacevole da vivere, offrendo anche alcuni soluzioni alle tensioni e alle sofferenze del passato. Allo stesso tempo, si parla anche dell’essere umano capace di progettare e realizzare le situazioni più tristi e degradanti: alimenta guerre, distrugge opere di cultura, avvelena l’ambiente, compromettendo il futuro della vita stessa sul pianeta. Di fronte a questo paradosso, che ci inquieta profondamente, sorge la necessità di cambiare la visione dell’essere umano. Dobbiamo salvare la sapienza per percorrere il sentiero della rettitudine, della realizzazione umana, ed infine, della felicità. Da qui l’importanza di focalizzare in modo rigoroso qual è la visione o il concetto attuale di essere umano, messo in atto quando ci troviamo di fronte alle numerose possibilità tecniche ed interventi scientifici che possono mutare profondamente l’identità dell’essere umano. In questo senso, constatiamo, dopo quasi mezzo secolo dalla nascita della bioetica – con riferimento alla data del 1970 ed alle intuizioni di Van Rensselaer Potter (Madison, WI) e di Andrew Hellegers (Georgetown University, Washington) – che la questione antropologica non è stata ancora affrontata come dovrebbe. Questo è uno dei concetti fondamentali da cui deriva ogni riflessione sul concetto stesso di dignità umana. Poco più di un decennio fa, Ruth Macklin, una bioeticista americana, ha letteralmente affermato, in un editoriale sul British Medical Journal, che il concetto di dignità umana era inutile (Macklin, 2003), e che era stato strumentalizzato politicamente, ed oggi serve tanto a coloro che sono stati a favore quanto a coloro che sono contro determinate questioni di carattere bioetico. Questo ha provocato una impressionante reazione internazionale da parte dei bioeticisti e una marea di pubblicazioni e relazioni dei comitati nazionali di bioetica, in particolare negli Stati Uniti, per cercare di salvare l’importanza di questo concetto. Così, il concetto di dignità umana è entrato nella discussione bioetica, essendo considerato, da un punto di vista antropologico, come il fondamento da cui si parte per discutere e riflettere sui principi e/o sui temi di bioetica. Il movimento transumanista ha obbligato i pensatori, i filosofi e i bioeticisti a confrontarsi con la questione antropologica, ma dalla prospettiva retrostante. Ci troviamo di fronte alla possibilità di cambiamenti radicali nella natura dell’uomo, fino a poco tempo fa, assolutamente inimmaginabili. Questo scenario provoca ansie e perplessità, ma anche, nel suo itinerario, speranze di salvezza dell’umano rispetto alle minacce di distruzione (guerre, armi chimiche e biologiche). Emerge quindi la necessità imperativa di sviluppare mezzi per individuare ed eliminare i pericoli di autoannientamento dell’umanità e di accoglienza e promozione di nuove possibilità di creazione di un nuovo umanesimo. Il bisogno di etica conseguente alla percezione della problematicità del tempo presente si esprime di frequente nella richiesta di nuovi codici morali in grado di orientare l’agire. La bioetica nasce a partire dal 1970 e diviene una sorta di “grammatica” dei rapporti con il vivente. Il confronto con le sfide attuali derivanti dall’intreccio tra nanotecnologie, neuroscienze, bio-informatica e robotica, nonché dalle prospettive del potenziamento umano che possono svilupparsi da tale convergenza tecnologica, implicano un cambiamento di direzione nella storia della bioetica. Qui di seguito è riportata l’intervista con il professore Luca Marini, vice presidente del Comitato Nazionale per la Bioetica (CNB), titolare della Cattedra Jean Monnet “ad personam” di Biodiritto della Commissione europea e presidente del Centro di studi biogiuridici “ECSEL”:
1212
«Il termine “post-umano” indica una condizione o una prospettiva che mette in discussione il concetto di umano per l’assenza di linee di confine nette tra esseri umani e macchine, o più in generale, tra meccanismo cibernetico ed organismo biologico. Ciò comporta una ridefinizione del concetto di umano?» «Credo sia giunto il momento di cominciare ad interrogarci sul significato di espressioni quali normalità e terapia: l’uso degli occhiali da vista è “potenziamento umano” o no?» «Cosa si intende per “biologia sintetica”?» «La possibilità di ricombinare componenti biomolecolari in modo da produrre nuovi circuiti genetici e biochimici, per rimodellare forme di vita esistenti o crearne di nuove. Alcune applicazioni possono essere offerte dalla produzione di strumenti biologici per la rigenerazione cellulare, dalla fabbricazione di nuovi materiali e combustibili, dallo sviluppo di circuiti bio-elettronici su nano-scala, dal controllo di membrane cellulari e biosensori artificiali.» «A che punto è la riflessione bioetica in Italia?» «È in grado di guardare oltre i temi di inizio e fine vita, a cui alcuni vorrebbero ridurre il dibattito bioetico nel nostro Paese.» «Attualmente si può parlare di una svolta nella storia della bioetica e del sorgere di una “Etica del nuovo”?» «Se ne può parlare, precisando che si tratta di una espressione coniata dal Centro di studi biogiuridici “ECSEL” per indicare le iniziative scientifiche multidisciplinari con cui, da tempo, sollecitiamo la riflessione bioetica e biogiuridica su temi che sono, all’estero, al centro del dibattito bioetico.» Nell’intento di estendere gli orizzonti della riflessione bioetica ai temi emergenti si è svolto il convegno “La biologia sintetica. Dal corpo bionico al post-umano, passando per la bioeconomia” (2010), organizzato dal Centro “ECSEL”. Al termine del convegno i relatori hanno redatto un appello indirizzandolo ai Ministri della Salute, dell’Istruzione, Università e Ricerca e dell’Ambiente, nonché al Comitato Nazionale per la Bioetica. Nel documento i relatori rilevano che le applicazioni della biologia sintetica e delle nuove tecnologie, possono sollevare preoccupazioni di ordine bioetico, soprattutto sotto il profilo della sicurezza sanitaria ed ambientale, nei confronti delle quali va ribadito il primato dei diritti fondamentali dell’uomo rispetto agli interessi della scienza e della società, conformemente alle indicazioni che emergono anche dai principali strumenti giuridici internazionali ed europei. Si chiede dunque l’adozione di appropriate procedure di valutazione del rischio nella prospettiva dello sviluppo di farmaci, vaccini e presìdi clinico-terapeutici, nonché della diffusione nell’ambiente di organismi prodotti o modificati mediante la biologia sintetica. Inoltre, secondo i relatori, il quadro normativo della biologia sintetica andrebbe integrato mediante norme ad hoc in materia di etichettatura (dei prodotti derivati dalla biologia sintetica, quali prodotti od ingredienti alimentari, mangimi, cosmetici e materiale tessile) e la revisione della disciplina del brevetto biotecnologico, per assicurare che i vantaggi derivanti dalle applicazioni della biologia sintetica e la loro diffusione vadano anche a beneficio delle popolazioni dei Paesi che sono fonte primaria di diversità genetica. I relatori hanno chiesto anche il supporto del Comitato Nazionale per la Bioetica per favorire l’adozione di un codice di condotta per la ricerca scientifica. Infine, tenendo conto che codici e regolamenti non sono sufficienti, da soli, alla costruzione di un nuovo ordine di civiltà, si sollecita da più parti lo sviluppo di un dibattito pubblico trasparente e multiculturale sui cambiamenti che la biologia sintetica potrebbe indurre nel modo di concepire la vita. [4]
13
14
POSTHUMAn 1992 I primi anni ’90 si aprono con un predominio internazionale degli Stati Uniti, che avevano acquisito negli anni un carattere cosmopolita: l’arte contemporanea USA appare come “arte del mondo”. New York, luogo più rappresentativo degli States, diventa negli anni ’90 una vera e propria “vetrina internazionale”. La mostra Post-Human, itinerante in diversi paesi europei ma di matrice statunitense, parla della nuova realtà americana con artisti soprattutto statunitensi di nascita o di adozione. L’esibizione è stata concepita nel 1992 da Jeffrey Deitch, all’epoca uno dei più rappresentativi esponenti del pensiero post-moderno americano, esperto in economia, propenso e favorevole al neo-liberismo economico, brillante personalità che gli valse la possibilità di diventare curatore del MOCA di Los Angeles. La poetica della mostra era quella di individuare nel post modernismo la fonte di una nuova filosofia di arte e di vita. Secondo Deitch, essa offriva la possibilità di coniare una nuova etica di comportamento (post-umana), libera di reinventare il proprio io, sia manipolando il proprio corpo che la propria identità, dichiarandosi padroni assoluti del proprio tempo, al di là delle proprie radici familiari, sociali, etniche e culturali. WSotto questa veste, il postmodernismo ha annunciato un uomo nuovo, metropolitano, senza radici. Unadelle icone che appaiono sul catalogo è Michael Jackson, che sfidando le leggi della propria natura, attraverso la chirurgia plastica riuscì addirittura a cambiare il colore della propria pelle. In arte questo si traduceva in una “nuova figurazione” che riconosceva un’eredità e un riferimento nelle neo avanguardie. Col senno di poi, l’uomo descritto in quel contesto corrispose ad una ristretta realtà cosmopolita, un’elite economica planetaria. Uno spaccato ristretto e amalgamato su uno status privilegiato, con scarse radici culturali, che condivideva una filosofia di vita interplanetaria. Tutto ciò rispecchiava la realtà: era il frutto del neoliberismo e dei liberi scambi internazionali. Con il tempo si erano formati diversi circuiti chiusi: quello della moda, quello della politica, quello dell’arte e così via. L’arte in particolare si impone come circuito a sé stante, esclusivamente dedicato all’arte contemporanea, in grado di produrre e paradossalmente consumarne i prodotti. Il tema della corporeità e l’ideale del corpo così come viene rielaborato dalle strategie comunicative sono i nodi centrali di questa mostra che raccoglie artisti internazionali appartenenti alle tendenze più significative degli anni Novanta. I mass media ci restituiscono una rappresentazione idealizzata della realtà, elaborando stili di vita che si impongono come modelli individuali assoluti. La costante ricerca della perfezione del corpo e il miglioramento della tecnologia applicata all’ambito chirurgico, portano a una ricerca spasmodica di sistemi per combattere l’avanzare del tempo e per rincorrere i modelli imposti dai media. Manipolazioni genetiche, interventi chirurgici per il miglioramento del proprio corpo, terapie anti-invecchiamento sono ormai pratica generalizzata. Gli artisti presenti in questa occasione pongono in questione proprio l’eccessiva attenzione per la realtà virtuale imposta dai media, attraverso opere che svelano tutte le nevrosi della società contemporanea. Alcune sono dichiaratamente provocatorie, come le sculture antropomorfe, a volte comico-grottesche che caratterizzano i lavori di Kiki Smith, Pia Stadtbäumer, Paul McCarthy, Robert Gober o le opere a esplicito riferimento pornografico di Felix Gonzalez-Torres, Ashley Bickerton, Charles Ray e Jeff Koons. In altri lavori centrale è l’indagine sui modi in cui viene codificata dai media l’immagine femminile, come nelle fotografie di Cindy Sherman o nelle opere di Janine Antoni che evidenzia le nevrosi legate al cibo, attraverso i suoi cubi di lardo o di cioccolato, o come ancora nelle installazioni di Sylvie Fleury, composte da serie di scarpe di moda o da sacchetti Chanel, che pongono in discussione il sistema mercificato dei beni mobili di lusso. Anche nei ritratti di Thomas Ruff basati sull’indebolimento dei tratti distintivi del personaggio o nelle fotografie dei consigli di amministrazione di grandi gruppi aziendali scattate da Clegg & Guttmann, quello che risulta evidente è come il potere, la massificazione, i continui dettami della moda imposti dai media minino l’equilibrio psicofisico dell’individuo e di conseguenza l’intera società. [5]
15
16
Nelle pagine seguenti un breve excursus in merito ad alcuni degli artisti che hanno preso parte all’esibizione, e altri che non ne hanno avuto l’occasione ma hanno trattato a proprio modo tematiche vicine a quella del post-umanesimo. La breve digressione in merito a queste personalità può avvicinare il lettore a diversi punti di vista e fargli aprire un occhio su diversi approcci alla società tecnologica nella quale siamo completamente immersi al giorno d’oggi, considerando un evento che ha lasciato il segno nella storia dell’arte americana, il cui eco ha in seguito raggiunto il globo intero.
17
MATTHEW BARNEY Nell’età delle Neo-avanguardie la realtà sembrava ancora un’utopia possibile, una meta raggiungibile per tutti. L’uomo sognava di poter conseguire ideali democratici come realtà inconfutabile, che esprimeva bene quella dignità di tutti, per appartenenza all’intero pianeta. L’arte del periodo delle Neoavanguardie è stata soffocata dal cambiamento improvviso del contesto reale, dalla distopia: la perdita degli obiettivi che riqualificavano la vita umana, di libertà ed equità. L’uomo perpetuerà comunque nel raggiungimento di questo sogno negli anni successivi, e in quest’era di mezzo definita postmoderna, si assiste alla nascita di vari artisti idolatrati della Vetrina Nazionale che si impone come Sistema dell’Arte, sostituendosi al contesto reale e condannando gli ideali democratici delle Neo-avanguardie come utopie irrealizzabili. Matthew Barney è tra questi artisti. Umile ragazzo di provincia, dell’Idaho, attraversa la sua adolescenza impegnandosi per arrivare a New York ed entrare quasi subito nell’acropolis della città, ammaliando la sua mentore e successivamente mecenate, la gallerista Barbara Gladstone, che finanzierà il suo ciclo The Cremaster, una serie di cinque film (1994-2002). Il linguaggio surreale, tratto per lo più da una cultura popolare fantasy, si incentra su sculture che riprendono delle forme ancestrali, riprese per assurdo dalla realtà quotidiana ed evocano luoghi pubblicitari: qualsiasi forma, anche quella commerciale, ha una relazione inconscia con un archetipo universale e ancestrale. CREMASTER 1 - Il primo film è girato nello stadio della città di Boise nell’Idaho, città d’infanzia dell’artista. Il film è amplificato da una ricca scenografia, composta da un corpo di ballo che ricorda i musical di Hollywood. CREMASTER 2 - Il secondo è ricco di paesaggi americani, un potpourri di icone della cultura popolare americana: cow boys a cavallo su una chiatta di ghiaccio che galleggia sul mare, o su un lago al tramonto. Il ghiaccio è l’elemento protagonista. CREMASTER 3 - Nel terzo compaiono le Giant’s Causeway, imponenti scogliere di basalto irlandesi, che sorgono direttamente dall’oceano svettando nel cielo con colonne geometriche a forma di pentagono regolare. Il film ha anche numerose riprese subacquee. Tramite simboli massonici, senza consequenzialità di trama, l’artista introduce il museo Guggheneim, animato con personaggi fantasy, totalmente frutto del proprio immaginario, mescolandoli con altri brutalmente reali, collocati ognuno in un diverso piano del museo. CREMASTER 4 - Il quarto film è girato nell’isola di Man in Florida, con due sidecar realizzati con i colori del logo Good Year, che percorrono in velocità tutta l’isola. CREMASTER 5 - Infine, il quinto ha come protagonista Ursula Andress, vestita come una regina futuristica di guerre stellari. Insieme all’autore, che compare in quasi tutti i film, la regina governa la pellicola con la sua maestosità. Le scene sono principalmente girate nelle terme Gellert di Budapest. Il ciclo offre il senso del viaggio della vita, facendo un ampio affresco dei lacerti di culture anglosassoni e mitteleuropee, un’interpretazione di come oggi è la realtà statunitense. Dove spezzoni di culture diverse sopravvivono come icone, galleggiando in una superficie comune, per poi ibridarsi senza nessuna reale necessità, per pura casualità e in questo caso per affinità estetica. [6]
18
19
20
STUDIO AZZURRO Gli artisti europei che negli anni ‘90 hanno lavorato con il video sono un ampio numero, talmente ampio che occorrerebbe un testo completamente dedicato al video o meglio al medialismo. La maggior parte di questi artisti non si riconosce nella definizione “video”, vista la ricchezza dei mezzi e dei linguaggi che ogni artista mediale ormai usa, la definizione “video” risulta ormai ristretta e inadeguata. Senz’altro si può accennare però a un gruppo italiano particolarmente interessante, anche se non ha avuto molto riscontro all’estero, si tratta di Studio Azzurro. Il gruppo ha origini negli anni ‘80 a Milano, nascendo da quelle esperienze cresciute intorno a Videobase. Studio Azzurro raccoglie diverse individualità: il fotografo Fabio Cirifino, il grafico Leonardo Sangiorgi, programmatore e fotografo Stefano Roveda e il mediale e scenografo Paolo Rosa. Lo sconfinamento continuo è la regola-non regola del gruppo, che ha lavorato in vari settori, a partire dallo spettacolo, il teatro, il cinema, l’arte, con particolari video-installazioni. Nei primi anni l’obbiettivo era rendere autonoma l’immagine dal vincolo della scatola video, far agire l’immagine direttamente nell’ambiente. Con il tempo e una strumentazione più sofisticata, l’obbiettivo viene completamente raggiunto e annessa la caratteristica dell’interattività con lo spettatore. Come nelle video-ambientazioni Tavoli del 1995, dove lo spettatore era chiamato a toccare il tavolo sul quale era proiettata un’immagine, che opportunamente “toccata” cambiava in un’altra e un’altra ancora, producendo una narrazione di sole immagini. E ancora Il giardino delle anime del 1997 dove lo spettatore cammina realmente e fisicamente su un pavimento che appare come una superficie di acqua elettronica. E secondo lo scadenzare dei suoi passi emergono delle figure che lo inglobano in una narrazione, la quale accade e si svolge grazie alla sua attiva presenza. L’interattività è un chiaro rimando alle poetiche degli anni ‘60-‘70 e non fa che confermare la stretta relazione del gruppo con il suo passato e con la sua origine negli ambienti politicizzati milanesi. Anche nelle prime videoinstallazioni, ancora non “tecnologicamente interattive”, è viva la capacità di meravigliare e di coinvolgere lo spettatore nel suo stupore. Come nell’opera Il nuotatore del 1984, presentata al palazzo Fortuny a Venezia, l’installazione (sincronizzata con 24 monitor e 13 programmi video) è stata realizzata con 12 videocamere poste sul bordo di una piscina a pelo d’acqua. Mostra un nuotatore che, con gesti ripetuti e affaticati, “attraversa” i singoli televisori accostati. Negli anni ‘90 si ritorna in maniera preponderante allo sconfinamento dei linguaggi degli anni ‘60-‘70. Non solo, ma i primi anni del terzo millennio e tuttora, non fanno che confermare e consolidare questa tendenza. Che cosa manca quindi per recuperare il coinvolgimento di quel ventennio così caldo? In che modo l’attuale arte si presenta differentemente dal passato? La differenza sta nel contesto dove ormai l’opera si mostra allo spettatore. Ovvero mentre negli anni ‘60-‘70 l’arte scendeva dal suo piedistallo per andare incontro al mondo, dilagando negli spazi aperti, nei capannoni industriali, o nelle strade e nelle piazze, come negli Stati Uniti e in Europa; ora si vuole costringere lo spettatore a ritornare nel museo per dialogare con un’opera che a questo punto è comunque lontana dalla sua esperienza. Il museo e la galleria sono luoghi già avulsi di per sé dal contesto reale e dal mondo stesso. Non ci si rende conto che sia la galleria, che il museo portano con sé i segni del proprio tempo, che è rimasto quello enciclopedico e illuminista del 1700-1800, il periodo storico che li ha forgiati. E che di certo questo dato è preponderante, tanto che il Sistema dell’arte, relegato in questi contesti obsoleti, non può che essere avulso dal contesto reale, e dunque non può che divenire autoreferenziale, e per questo completamente distaccato dalla sua realtà contemporanea. Per cui l’arte del terzo millennio sta parlando in un linguaggio contemporaneo, ma dentro in un contesto di due o tre secoli fa. È un vero e proprio paradosso. [6]
21
ANDREAS GURSKY Le opere che invece ancora funzionano con questo tipo di circuito museale (e sono comunque molte), sono quelle che non dimenticano di avere a che fare con un tipo di circuito completamente distaccato dal contesto reale. Inoltre esse rammentano che lo spettatore, se si parla in un linguaggio contemporaneo, ha comunque necessità di confrontarsi con la propria esperienza, e di recuperare la propria “realtà” e il proprio ambiente. A questo proposito è necessario citare l’artista tedesco Andreas Gursky, che ha fatto della fotografia di grande formato un sapiente mezzo di riporto della realtà per trasformarlo esteticamente in forma, in opera astratta. Andreas Gursky nasce in Germania, a Lipsia, figlio di un fotografo commerciale. Studia all’Università delle Arti Folkwang, università a indirizzo artistico nella vicina Essen, dove ha come professore il fotografo Otto Steinert. Tra il 1981 e il 1987 all’accademia di belle arti di Düsseldorf (Kunstakademie Düsseldorf), Gursky riceve una forte influenza dai suoi professori Hilla e Bernd Becher, un team fotografico che si contraddistinse per il loro spassionato catalogare di macchinari industriali e architettura, tipicamente in bianco e nero. Gursky mostra un simile approccio metodico con le sue fotografie in grande scala. Altri autori che lo hanno influenzato sono probabilmente il fotografo di panorami inglese John Davies e l’americano Joel Sternfeld. I primi successi tuttavia sono incentrati su panorami e luoghi di relax e hanno dimensioni medio-piccole, non oltre i 50x60 cm. Solo attorno ai 25 anni Gursky si dedica al grande formato e si converte alla fotografia a colori, spesso molto vivaci e vari, immortalando soggetti di grandi dimensioni come edifici, luoghi ordinatamente affollati come gli scaffali dei supermercati, affollate sale di contrattazione finanziaria, concerti etc. L’artista usa sapientemente l’astrattezza delle stanze dei musei, anzi questa caratteristica non fa che rafforzare la qualità e la forza delle sue opere, che giocano magistralmente tra la forza dell’immagine reale e l’astrazione della forma rafforzata dalla decontestualizzazione, grazie al contesto artistico in cui vengono esposte. Il trucco usato è spesso il raddoppiamento dell’immagine, che trasforma l’aggancio al contesto reale convertendolo immediatamente in una forma astratta. Oppure l’artista adotta un altro espediente, elimina i bordi ad esempio di un’immagine lasciandola incompleta, coerente con la realtà a cui rimanda, ma a questo punto irreale perché priva di limiti contestualizzanti. In sostanza quando le cose sono palesi e vi è una giusta consapevolezza di tutte le componenti in gioco, la qualità esiste e anche il coinvolgimento dello spettatore, finanche in un museo o in una galleria. La consapevolezza dei diversi fattori aiuterebbe sicuramente a eliminare quella diaspora tra pubblico e arte contemporanea che nel corso dell’ultimo trentennio si è diffusa e aggravata. Ricordando soprattutto che l’arte contemporanea ha portato e imposto un ridimensionamento dei valori, così come affermava Maurizio Calvesi nel 1963. Assunto magistrale che non è stato tuttavia accolto dal Sistema dell’Arte e dal circuito museale, che continua infatti a porre l’arte su un piedistallo dal quale l’arte stessa è discesa da tempo. Insieme a Axel Hütte, Jörg Sasse, Thomas Struth, Candida Höfer e Thomas Ruff fa parte della Becher-Schüler. Nel 2011 la sua opera Rhein II viene battuta all’asta da Christie’s per la somma record di 4.338.500 dollari. Lunga tre metri e mezzo, è una veduta del Reno scattata nel 1999. Tale primato era già stato suo precedentemente nel 2007 allorché fu venduta all’asta la sua opera 99 Cent II Diptychon da Sotheby ad un prezzo di 3.346.456 dollari. [6]
22
23
24
CINDY SHERMAN «Quando andavo a scuola cominciava a disgustarmi la considerazione religiosa e sacrale dell’arte, e volevo fare qualcosa … che chiunque per strada potesse apprezzare… Ecco perché volevo imitare qualcosa di appartenente alla cultura, e nel contempo prendermi gioco di quella stessa cultura. Quando non ero al lavoro ero così ossessionata dal cambiare la mia identità che lo facevo anche senza predisporre prima la macchina fotografica, e anche se non c’era nessuno a guardarmi, per andare in giro». Cindy Sherman è una fotografa e regista americana nata nel 1954 e considerata come una delle protagostiste dell’arte contemporanea. Nel corso della sua carriera, l’artista ha svolto delle ricerche sulla costruzione dell’identità veicolata da diversi media: film, televisione, riviste, internet, ma anche dall’arte. L’opera della Sherman affronta le problematiche della rappresentazione delle donne, soggetto svilupato da numerose artiste americane femministe come Adrian Piper o Hannah Wilke. Per piu di 30 anni Cindy Sherman ha interpretato diversi ruoli, entrando nei panni di personaggi che erano allo stesso tempo divertenti, scioccanti, commoventi e sgradevoli, utilizzando il suo arsenale di parruche, costumi, trucchi, protesi e attrezzi scenici. Fin bambina l’artista aveva una passione per i travestimenti, in particolare amava mascheransi da donna anziana. Le sue opere sono spesso lasciate senza titolo, scelta dovuta al rifiuto dell’artista di impostare un linguaggio descrittivo alle sue imagini, lasciando lo spettatore libero di immaginare una storia e un possibile titolo. All’età di 10 anni, come molti bambini della sua età, Cindy Sherman comminciò a mettere insieme un album fotografico dove, al di sotto di ogni imagine, scriveva più volte la frase: “sono io”. Questo aneddoto sembra strano se pensiamo che le opere più note di Cindy sono delle messe in scena in cui la fotografa rifiuta di svelare questo “io” identificandosi con diversi ruoli che annullano propria identità definita. Nell’opera Untitled A-E (1975) la Sherman, trasformata dal trucco e dai costumi, incarna diversi personaggi tra cui una ragazzina e un clown. La figura del clown, che ritroviamo spesso nelle sue opere, è associata all’infanzia e al divertimento, ma anche alla regressione e la mostruosità. Un lavoro che prende spunto della tradizione dell’autoritratto e diventa gioco sulle identità. Nel 1977, al suo arrivo a New York, l’artista mette insieme 70 negativi in bianco e nero. L’opera si intitola Untitled Film Stills e rappresenta un’imitazione delle fotografie scattate negli studi cinematigrafici hollywoodiani degli anni ’50. Con History Portraits/Old Masters (1988-1990) Cindy Sherman si fa fotografare al centro di un quadro incarnando i modelli imaginari della storia della pittura figurativa, immersa in un modo completamente artificiale e caricaturale. Definitivamente convertitasi al digitale, con il suo più recente lavoro sul “ritratto ufficiale” (del 2009), Cindy Sherman torna a parlare di stereotipi femminili e a impersonarli, volgendo la sua attenzione a quelle attempate signore dell’alta società, sprezzanti e sicure dei loro privilegi come della mascherata pacchiana dei loro abiti e del loro maquillage, nelle quali – a sua detta – si rispecchia per età, ma fortunatamente non riesce a riconoscersi. [7]
25
FELIX GONZALEZ TORRES Felix Gonzalez-Torres, nato a Porto Rico, si trasferisce poi a New York, dove ha un buon successo come artista minimalista. Le tematiche da lui affrontate sono nuove, scandalose ancora per gli anni ’90 della puritana e borghese America, come l’omosessualità, l’AIDS e la solitudine degli emarginati. Nuovo è anche il suo modo di comunicare queste tematiche, perché usa un linguaggio semplice ma decisamente coraggioso in quanto mette in mostra i suoi reali sentimenti e le sue vicende autobiografiche, soffermandosi sull’amore e il dolore. Proprio per questa sua capacità di trasferire nelle sue opere solo ed esclusivamente se stesso, si distingue dagli altri colleghi minimalisti: non vi è più distacco tra pubblico e privato. Per poter affrontare la sua sofferenza, per poter raccontare al mondo il suo amore utilizza oggetti e immagini comuni, quali carta, caramelle, fili di lampadine, a testimonianza che se qualcuno ha davvero qualcosa da raccontare, poche cose servono per esprimerlo. E così, nelle gallerie, iniziano a comparire fogli stampati o caramelle ammassate all’angolo di un muro e il pubblico è chiamato ad interagire con l’opera potendo toccare gli oggetti e addirittura portarli via. Ecco che l’arte si fa vita! Si consuma l’arte come si consuma la vita, che, fragile, tende inevitabilmente alla fine. Per Felix la sua unica e profonda fonte di ispirazione è il compagno Ross morto di AIDS nel 1991 in un’epoca in cui parlare di questa malattia era un vero e proprio tabù. Le caramelle ammassate sul muro di Untitled (Portrait of Ross in L.A.) non vengono messe a caso da Felix: il peso totale è lo stesso del suo compagno al momento della morte (80kg) e l’azione di raccogliere le caramelle per mangiarle è la raffigurazione del deperimento subito dal corpo del suo amatissimo compagno durante la malattia. Questo è il vero e proprio coinvolgimento emozionale tra la vita privata ed i sentimenti più profondi di Torres con il pubblico. Le opere di Felix sono espressione di assenza e vuoto provocati dall’amore ma anche di speranza e desiderio di continuità della vita. Questa assenza che lui avverte, dopo la morte del compagno, e la solitudine che ne deriva, non sono date dal numero uno, ossia dal ritrovarsi solo, ma dalla mancanza del numero due. Questo profondo concetto di assenza lo ritroviamo in due opere specifiche di Torres: Untitled (perfect lovers), 1991 – due orologi sincronizzati perfettamente e fermi nell’attimo dell’addio, del distacco terreno, dell’inizio della solitudine come assenza dell’altro e Untitled, un manifesto che ritrae l’immagine di un letto bianco, sfatto, il letto reale di Felix e Ross, ma vuoto sul quale sono però visibili le tracce dei corpi delle due persone che vi hanno dormito. Per rendere quest’opera, oggi diremmo virale, Felix affitta ben ventiquattro cartelloni pubblicitari in tutta New York, esponendo la sua intimità alla città. Tutto ciò che lui realizza mette a nudo la totale e ineluttabile caducità umana; anche la serie di fili di lampadine bianche a basso voltaggio hanno lo stesso destino della vita umana: sono destinate a consumarsi, senza che nessuno possa prevedere quando. Le lampadine acquisiscono così un carattere transitorio, in quanto strumento fragile e temporaneo, ma solo nella loro materialità, come nell’amore: perdiamo materialmente qualcuno ma i momenti felici trascorsi con quella persona e il loro ricordo rimangono intatti e diventano appigli saldi cui aggrapparsi per non cadere nel baratro. «L’amore ti dà una ragione di vita, ma è anche un motivo di panico, si ha sempre paura di perdere quell’amore.». [8]
26
27
28
DAMIEN HIRST “Art’s about life and it can’t really about anything else…there isn’t anything else”. L’artista è evidentemente figlio delle Neo-avanguardie, in effetti tutta la sua formazione è negli anni ‘70 e anni ‘80, a cavallo tra Neo-avanguardie e Post-modernismo. Ha una formazione canonica: si laurea in arte a Londra nei tempi giusti e subito dopo, senza perdere tempo inizia la sua rapida ascesa. Nel 1988 fonda con ad altri giovani artisti il gruppo YBAs, di cui lui sarà in qualche modo il leader, riuscendo ad attirare l’interesse del collezionista e pubblicitario Charles Saatchi, che li sostenne come loro mecenate e in particolare continuò a sostenere l’opera di Damien Hirst. Il gruppo, già allora teorizzò “shock tactics”, letteralmente tattica d’assalto, che puntava a scioccare lo spettatore, utilizzando immagini sconvolgenti. Come l’opera più nota di Damien Hirst, The Physical Impossibility of Death in the Mind of Someone Living. Uno squalo tigre di oltre quattro metri, disposto in una teca e sospeso nella formaldeide, con la bocca aperta; in modo tale che lo spettatore, raggiungendo il lato dove è visibile la bocca spalancata dello squalo, possa avere la sensazione di trovarsi di fronte a un essere ancora potenzialmente vivo e pericoloso. L’opera ha fatto talmente scalpore da diventare un’icona-simbolo nell’arte degli anni ‘90. Essa in realtà rappresenta la concretizzazione di un’idea: è il mero frutto di qualche telefonata e ciò che era necessario per comprare lo squalo da un pescatore australiano di pescecani. In sostanza gli YBAs dimostrano di aver compreso la poetica del “sistema dell’arte”, ovvero che qualsiasi cosa poteva diventare arte a patto che il “sistema” fosse consenziente ad accoglierla, e infatti ne mettono in scena l’attualizzazione, concretizzando le opere che corrispondevano ai requisiti di questa nuova ideologia. Le Neo-avanguardie degli anni ‘60-‘70 puntavano a far coincidere l’arte con la vita, un progetto politico, utopico, ma che sosteneva la vita e il suo significato, identificandolo nel concetto di valore umano. Si potrebbe dire che essa sia un connubio tra l’arte degli anni ‘70 e il postmodernismo cinico degli anni ‘80; e il risultato di questa annessione è un sistema di merci artistiche che si richiama al ready made di Duchamp, nella lettura però di Andy Warhol. Con la differenza che quest’ultimo del cinismo che riscontrava nel reale non ne ha fatto una ideologia, ma semmai una implicita denuncia, anche se ambiguamente ne ha usufruito. Damien Hirst è un abile venditore, utilizza queste opere, in genere le sue installazioni, in qualche modo “invendibili” per creare una sorta di vetrina, e una sua scioccante cifra stilistica nell’immaginario dello spettatore, per poter vendere opere più piccole e più abbordabili. Ad esempio la serie Entomology Paintings, o Butterfly Colour Paintings, quadri astratti realizzati con delle farfalle vere, che sono però riconoscibili come suoi. Hirst ha realizzato anche uno shop on line dov’è reperibile ogni tipo di merchandise. Egli ha predisposto un ufficio, Science, per curare tutti i suoi interessi. In sostanza ha messo a frutto pienamente l’ideologia del Sistema dell’arte, facendo incassi e mercato. Non tutto è trasformabile in merce, ma questo fa parte del sistema stesso, perché ciò che non è vendibile garantisce però la vendita dei suoi derivati. L’artista lo dimostra arrivando a concepire un’opera la cui realizzazione sarà sempre più costosa del suo mero valore artistico: For the Love of God. Grazie a quest’opera esemplare, probabilmente un’altra icona del tempo, il critico Rudi Fuchs afferma che Damien Hirst sia riuscito a sconfiggere la decadenza della morte, consegnando a questo teschio umano (vero) la sua luce risplendente in eterno, attraverso i centinaia di diamanti incastonati sulla lamina di platino che lo ricopre, finanche all’interno delle cavità orbitali. Un’opera che forse, così come dice il critico, recupera quell’eroismo insito nell’essere umano anche il più umile, che sta proprio nella capacità di sapere e alla fine dovere affrontare la morte. [6]
29
MIKE KELLEY Mike Kelley nasce nel Wayne, Michigan, da una famiglia cattolica di estrazione operaia. Si laurea all’University of Michigan, ad Ann Harbor e nel 1973 Kelly e i suoi compagni di studi fondano la band rumorista “Destroy All Monsters”. Le loro esibizioni consistono in esperimenti di dissonanza, fondendo loop di nastri preregistrati, distorsione e parti improvvisate. Nessuno di loro è davvero in grado di suonare uno strumento, ma nonostante ciò producono musica con qualsiasi mezzo possa emettere un suono. Le loro canzoni passano da una orchestra ipnotica alla freeform jazz con effetti fantascientifici. Nel 1978, consegue un master in belle arti alla CalArts. Il suo pensiero si esprime attraverso performance, videoregistrazioni, disegni, installazioni, sculture e saggi che hanno come temi centrali l’arte concettuale, il femminismo, la sessualità, la rock music, il formalismo e la politica. Durante i suoi studi, Mike Kelley inizia a lavorare ad alcuni progetti, esplorando opere a sfondo poetico. Negli anni Ottanta diventa famoso soprattutto per l’utilizzo di nuovi materiali dal facile reperimento, quali bambole di stoffa o pezza e coperte all’uncinetto. A questo periodo appartengono opere come Plato’s Cave, Rothko’s Chapel, Lincoln’s Profile, che ingloba anche la band Sonic Youth, in cui storie, personaggi e miti dialogano all’interno di un environment sonoro, e l’opera More Love Hours Than Can Ever Be Repaid and The Wages of Sin, un assemblaggio di bambole di pezza, peluche e coperte recuperati da negozi dell’usato, ricreando una scena infantile ricca di pathos. Gli animali di pezza vengono usati dall’artista come elementi di critica alla società dei consumi e all’arte minimalista, in questo caso, per esempio l’orsacchiotto consumato è rappresentazione del negativo, materiale e morale, degli oggetti di consumo proposti negli stessi anni nelle opere di Jeff Koons o di Haim Steinbach. Pay for your pleasure è un lungo corridoio rivestito su entrambi i lati da una serie di ritratti di uomini illustri, con le rispettive citazioni sul rapporto tra arte e crimine. Il corridoio termina con un quadro di John Wayne Gacy, un uomo d’affari di Chicago condannato per aver abusato e ucciso circa 30 ragazzi, dove si raffigura nelle vesti di un giullare. In questo momento concentra il suo lavoro sulla memoria personale e sul potere delle istituzioni esplicati in Educational Complex (1995), un plastico in scala che riproduce gli edifici scolastici in cui egli stesso si forma, inserendo anche le parti che non riusciva a ricordare. Con quest’opera vuole sollevare il tema degli abusi perpetuati sui minori dalle istituzioni educative e il problema della sindrome della memoria repressa, come lui stesso afferma “l’idea comune che certi eventi traumatici sono stati repressi e solo rimossi dopo attraverso la terapia”. Educational Complex è il punto di partenza per gran parte dei lavori successivi dove continuano a intrecciarsi le riflessioni pseudo-autobiografiche e la critica sociale su temi come l’adolescenza e i suoi riti di passaggio, la formazione artistica e la ricerca dell’identità. Nel Novembre del 2005, Mike Kelley mette in scena Day is Done nella Gagosian Gallery mostrando installazioni multimediali, oggetti di arredamento in movimento, come poltrone rotanti o simili, e filmati di partite sportive, di produzioni teatrali e di cerimonie ispirati agli album fotografici scolastici, ”una sorta di studio antropologico della cultura folk americana”. L’ultimo importante progetto dell’artista è Mobile Homestead, un’opera site-specific completata nel 2010 e realizzata in collaborazione con l’organizzazione londinese Artangel e il MOCAD (Museum of Contemporary Art Detroit). L’opera consiste nella riproduzione della casa dove Mike Kelley aveva trascorso l’infanzia. In generale al centro della sua opera c’è l’analisi della memoria collettiva e individuale esplorate con molteplicità di temi: dalla satira dell’arte alla cultura popolare, dai miti della società americana ai suoi aspetti folkloristici e vernacolari, dalla musica ai linguaggi del cinema e della televisione. L’arte di Kelley nasce da un percorso di decostruzione e di analisi antropologica del presente e si ricompone in molteplici forme espressive. [9]
30
31
32
HAIM STEINBACH Il concettualismo neo-geo o neo-geometrico è un movimento artistico che utilizza l’astrazione geometrica e critica l’industrialismo e il consumismo della società moderna. Fra gli artisti del neo-minimalismo si contano Ashley Bickerton, Peter Halley, Lorenzo Belenguer, Jeff Koons, Meyer Vaisman, David Burdeny, Haim Steinbach, Peter Schuyff, Marjan Eggermont, Philip Taaffe, Paul Kuhn, Eve Leader, DoDoU, Christopher Willard e Tim Zuck. All’apice dell’apprezzamento e della riscoperta del primitivismo, dei valori iconici e coloristici istintivi, il Neo-geo generò un’ordinata distribuzione di oggetti quotidiani (aspirapolveri ad esempio per Jeff Koons), all’interno di gelide teche di vetro. Oppure quadri geometrici con strutture geometriche ossessivamente ripetute, attraverso stesure meccaniche di colori acrilici e industriali, come nei quadri di Peter Halley. La ripetizione del modello, secondo la teoria del simulacro del filosofo Baudrillard, garantiva il successo della comunicazione, e generava consenso. Gli artisti Neo-geo applicarono la teoria, del resto già comprovata, alla loro arte e il successo fu raggiunto. Diversi altri artisti in quegli stessi anni applicarono la poetica dei Neo-geo, ad esempio Haim Steinbach, artista nato in Israele e formatosi nella vivace cultura underground dell’East Village; la sua prima personale fu organizzata infatti dalla galleria Fashion Moda nel Bronx. Come gli artisti del Neo-geo, Steinbach cavalcò l’onda della coesione sociale e relazionale della New York degli anni ‘80, ma per offrire una lettura ancora più spietata della realtà che si presentava. Dalla realtà quotidiana l’oggetto di analisi e di investigazione dell’artista, come in Jeff Koons, si spostava sull’arte stessa, individuando nella ripetizione dell’immagine banale, di memoria pop, la chiave di accesso al piacere estetico. Già nella filosofia classica, come ricorda Mario Perniola nel suo saggio sull’artista statunitense, la ripetizione è cosa intrinseca dell’arte stessa, ne svela il suo meccanismo come affermava Platone. Ma Platone intendeva la ripetizione di una forma divina. Da Aristotele in poi la bellezza è sinonimo di una copia, ma il suo modello ideale doveva essere un’inconfutabile verità oggettiva. In Kant la verità diventa il bene assoluto, Perniola fa intravedere che nel contemporaneo nessuna verità o bene assoluto può essere individuabile se non nel puro visibile, ovvero l’oggetto kitsch. Il quale non cela nulla, non inganna, al punto da poter diventare credibile come un oggetto rituale. Un oggetto quindi comunque capace di catalizzare il desiderio e di recuperare l’atteggiamento rituale, che sottendeva ed evidentemente sottende al desiderio stesso. Lo studioso ricorda che l’atteggiamento rituale nel contemporaneo diventa una coazione a ripetere, un atteggiamento compulsivo il cui unico fine apparente è il piacere e, secondo lo studioso, al contempo è il rimandare al piacere stesso. Ma analizzare nel dettaglio questo atteggiamento risulta ormai pressoché impossibile, poiché la comprensione del cambiamento dell’immaginario collettivo è diventato inafferrabile, per le sue dimensioni ecumeniche, e comunque tutto ciò non potrebbe riguardare altro che l’emisfero occidentale (quest’ultima è una mia osservazione). Ma ciò che rimane inalterato, sempre parlando di un’estetica occidentale, probabilmente era ed è la necessità di una fondazione mitologica, che rappresenti la verità aristotelica a cui rinviare la ripetizione. Ovvero la veritas dell’attuale coazione a ripetere, che giustifichi in qualche modo l’esigenza compulsiva della ripetizione ab infinitum dell’immagine. Steinbach non fa che mostrare su delle scaffalature minimali degli oggetti astratti che, come le scaffalature suddette, hanno una consistenza reale. I suoi oggetti kitsch, i suoi peluche sono un “angolo della casa” assolutamente credibile, e quindi indiscutibilmente vero in qualche angolo del mondo e forse per questa ragione anche bello. [6]
33
SYLVIE FLEURY Sylvie Fleury, nata a Ginevra, è un’artista svizzera il cui lavoro descrive oggetti con attaccamenti sentimentali ed estetici nella cultura del consumatore, così come il paradigma della nuova era. Nello specifico, gran parte del suo lavoro affronta le questioni del consumo di genere e le relazioni feticistiche con gli oggetti di consumo. I critici hanno etichettato il suo lavoro “post-appropriazionista”, e i suoi libri L’arte della sopravvivenza, La prima astronave su Venere e altri veicoli, e Parkett numero 58 (con Jason Rhoades e James Rosenquist), sono stati presentati a livello internazionale. Nel 2015 ha vinto il Prix de la Société des arts di Ginevra. Fleury crea oggetti seducenti e installazioni multimediali che, sebbene possano essere scambiate per approvazione, presentano un sottile commento sulla superficialità della società dei consumi e dei suoi valori. I lavori di Fleury incrociano elementi della pop art e dell’arte concettuale, per cui l’arte concettuale e piu determinante; più precisamente, come l’idea che Marcel Duchamp ha stabilito con i suoi ready-made e l’idea di ossessione di Andy Warhol per lo shopping. Fleury attinge da abbigliamento di lusso, corse di Formula 1, arte contemporanea, copertine di riviste e oggetti di design. La frase “Sì a tutti” è un tema ricorrente in gran parte degli oggetti di Fleury (compresi cesti di rifiuti placcati in oro e segni impreziositi da cristalli Swarovski), prendendo in prestito il comando profano per il computer per criticare il desiderio sempre più incontrollabile dei consumatori prima del collasso economico globale del 2007. Un oggetto del mondo dei prodotti che viene trasferito in un museo, ed è solo e soltanto attraverso questo cambiamento di posizione che l’oggetto si trasforma in arte. In realtà al contrario dell’inventore, dell’arte concettuale, Sylvie Fleury cambia il suo articolo di consumo selezionato. Lo riempie d’oro, di sfarzo, lo gonfia in uno strato mostruoso o invece lo ironizza nel suo contesto attraverso il suo modo di mettere in scena i suoi prodotti, presentando per esempio un carrello della spesa rivestito completamente d’oro, o un pneumatico per auto presentato su di un piedistallo luccicante. Per molti anni Sylvie Fleury, che nel 1993 ha già esposto alla 45 Biennale di Venezia, è stata regolarmente rappresentata in gallerie e case espositive internazionali. Le sue installazioni pongono domande sull’autocoscienza culturale della società occidentale: come il nostro consumo influenza la nostra identità, come fa il mondo dei prodotti a risvegliare il nostro desiderio e come controlla la nostra immaginazione di bellezza e attrattiva. [10]
34
35
36
JEFF KOONS Jeff Koons è una delle icone più rappresentative degli anni ’90. In un primo momento si occuperà di borsa a Wall Street, dedicandosi all’arte solo in seguito. Un’indecisione tra diverse vie che riguarderà molti artisti della sua generazione, preoccupati soprattutto di trovare un inserimento sociale, per scoprirlo in seguito realizzabile anche attraverso l’arte. La lettura che l’artista fa della società e del tempo in cui vive è una lettura molto cinica, ma strettamente aderente alla realtà: proprio per questo ne diventa una delle icone più rappresentative. Le sue opere incarnano bene gli ideali, i sogni dell’immaginario collettivo del proprio tempo. Essi sono dei semplici oggetti più che delle opere strutturate esteticamente, che possiedono una superficie che si esige sia realizzata perfettamente. Anche se nella sostanza gli oggetti prescelti che diventano delle sculture a tutti gli effetti, sono in fondo inconsistenti, anticaglia kitsch, ninnoli, strumenti del quotidiano, palloncini, giocattoli, degli oggetti quotidiani privi di qualsiasi concettualismo come gli elettrodomestici. In questo modo si rende uno dei migliori interpreti degli anni ‘90 e migliore erede della poetica pop di Andy Warhol, un continuatore della cinica osservazione della Pop art sul consumismo e sul tipo di società che l’ideale dei consumi avrebbe comportato. E nelle opere di Jeff Koons l’estetica diventa la superficie levigata, il colore trasparente e metallizzato con il quale i suoi giocattoli a misure ambientali vengono decorati; conta più la vernice, il packaging anziché la sostanza. Specchio della sfera sociale, dove ormai la comunicazione appiattita scivolava su banalità e messaggi elementari e superficiali. L’immagine era diventata la forma più veloce ed efficace di comunicazione, ma un tipo di immagine superficiale e riflettente più che significante. Jeff Koons passerà, nel corso della sua ricerca, dalle sculture di formato ridotto a quelle ambientali e alle litografie e stampe con molta spregiudicatezza, e a dei quadri che simulano le stampe. Ha realizzato fusioni in bronzo di oggetti insignificanti come salvagenti, palloni per il calcio o il basket. O ancora rendendo opera, sempre tra stampe e sculture levigate, il suo matrimonio con la pornodiva Ilona Staler, producendo un ciclo di opere, Made in Heaven, dal 1989 al 1992, data in cui finirà il loro matrimonio. Opere che sancirono definitivamente la fama dell’artista presentandolo alla Biennale di Venezia, con una sorta di performance-scultura in legno policromato, che lo riprendeva nell’atto di possedere la sua futura moglie. In questo ciclo l’artista scoprirà che più il materiale usato era frigido come il vetro, ad esempio, più le immagini potevano scendere persino nella degradazione del porno, fino a trovare una sorta di equilibrio. Tutto ciò rappresentava la formula creativa ed estetica realmente “scoperta” dall’artista. Un processo operativo che presto lo porterà a raffinare il materiale delle sue sculture, utilizzando l’acciaio cromato con il rivestimento di colore trasparente. Una raffinatezza che lo condurrà a rivisitare anche il suo ciclo di gonfiabili, con una serie di grandi sculture che simulano i palloncini modellati, tipici delle feste dei bambini, con cinque versioni di colori diversi dal titolo tautologico di Balloon Dog. Precedentemente l’artista aveva anche realizzato una grande scultura ambientale completamente diversa dalle sue serie artificiali, un cagnolino alto come un palazzo, con un sistema di irrigazione interna che alimentava diverse vasche dove crescevano dei fiori veri, quasi un’opera di “arte e natura”. L’opera è stata realizzata in Germania e replicata in diversi musei del mondo, ed è un’opera permanente al museo di Bilbao in Spagna e alla Brant Foundation nel Connecticut. Koons è stato capace di cogliere nell’arte la forza di superamento, inarrestabile, e in grado di sublimare ogni forma degradata e superficiale che sia. Al punto che la sua arte si è sposata perfettamente con una macchina di risonanza magnetica nell’ospedale pediatrico Advocate Hope Children’s nel 2010, trasformandola da un oggetto pauroso qual’era, a un giocattolo vitale e rassicurante. [6]
37
KIKI SMITH Io credo nell’arte come una nostra possibilità di auto-rappresentarsi, di rappresentare le nostre esperienze umane. A volte creo immagini dure, ma per me sono tentativi di sopravvivenza. Kiki Smith è un’artista americana di origine tedesca, protagonista di più di 150 mostre monografiche nel mondo e occupa un posto di spicco nel panorama dell’arte contemporanea. Figlia d’arte del noto artista minimalista Tony Smith e dell’attrice e cantante d’opera americana Jane Smith, Kiki nasce a Norimberga nel 1954 e si stabilisce a New York nel 1976. Alla fine degli anni ’70 l’artista partecipa attivamente all’esperienza COLAB (Collaborative Project Inc.), collettivo di artisti che si occupano di problematiche sociali e che operano al di fuori del sistema tradizionale delle gallerie. Nel 1980 COLAB allestisce la famosa retrospettiva Times Square Show dove Kiki Smith partecipa insieme ad altri importanti artisti, come Jean-Michel Basquiat e Keith Haring, esponendo il suo primo lavoro sul corpo che diverrà la sua cifra stilistica. Dopo aver esposto in collettive ai margini del tradizionale circuito galleristico, dal 1985 arrivano i primi riconoscimenti ufficiali e Kiki Smith inisia a partecipare a diverse Biennali (Biennale Whitney 1991, 1993, 2002; Biennale di Firenze 1996, 1997, 1998; Biennale di Venezia 1993, 1999, 2005, 2009). Negli anni in cui dilaga tra gli artisti la sperimentazione dei nuovi media, Kiki Smith preferisce l’utilizzo delle tecniche tradizionali usando spesso superfici povere come la carta (alla stregua dell’artista Marlene Dumas) ed è per questo motivo che alla fine degli anni ’80 viene inserita nell’ondata neo-espressionista europea insieme agli artisti Julian Schnabel e David Salle. Mediante diversi materiali dal vetro al bronzo, dalla porcellana alla ceramica, dal latex alla cera d’api, dal gesso alla carta, Kiki Smith produce sculture e disegni che raccontano tematiche quotidiane come l’identità, gli stereotipi sessuali, il rapporto tra il corpo e il mondo e tra l’uomo e la natura, abbracciando in pieno gli ideali femministi e accostandosi quindi all’impegno sociale di altre artiste degli anni ’80 e ’90. Il suo è un lavoro stratificato di significati, metafore, paradossi. Il fulcro centrale della sua poetica è la rappresentazione del corpo, in particolare quello femminile, la sua deperibilità e vulnerabilità, la sua fragilità ma anche la sua forza in contrapposizione alla visione maschilista che lo vede come mero oggetto erotico. I corpi di Kiki Smith sono spesso lacerati, smembrati, in una visione che affonda le proprie radici sia nella scienza immaginaria ottocentesca, che nelle storie dei martiri, e che acquista una connotazione prettamente personale grazie all’esperienza del corso di pronto soccorso da lei frequentato nel 1985, dove studia direttamente il corpo in stretta relazione con la malattia e il trauma. Tra i suoi lavori più importanti e provocatori sull’identità e sugli stereotipi sessuali risulta Mother and child, una donna e un ragazzo in atteggiamenti esplicitamente sessuali, colti dallo spettatore completamente assorti nella loro intimità privata. Altro tema affrontato da Smith in tempi più recenti è quello del rapporto tra l’uomo e la natura, tra il corpo il mondo. A volte le opere dell’artista americana sono ispirate al mito, alla favola (Cappuccetto Rosso), alla letteratura (Alice nel paese delle meraviglie), sempre nello sforzo di reinterpretarne il significato in chiave attuale. Opera emblematica della forza intrinseca della donna è rappresentata per l’appunto da Rapture, dove Kiki rappresenta una figura femminile completamente nuda che ha combattuto il suo aggressore, un lupo, ed emerge da esso con un andamento fiero lasciando l’animale agonizzante a terra. Le favole sono un luogo privilegiato di elaborazione primaria di strutture dell’inconscio; l’artista le scompone in un montaggio alternato di frame che ne evidenzia il sostrato angosciante, sottraendo lo schema narrativo del “e vissero tutti felici e contenti”. Al giorno d’oggi è tra gli artisti più quotati al mondo. [11]
38
39
40
GEORGE LAPPAS Da greco della diaspora, George Lappas fa un uso intensivo della geografia e della cartografia nel suo lavoro, in cui i paesaggi si trasformano in una mappa del mondo. La sua vita è stata segnata dai suoi innumerevoli viaggi, a partire dalla sua città natale, Il Cairo, in Egitto nel 1950. In Grecia completa gli studi secondari ad Atene. Studia poi psicologia clinica al Reed College di Portland, dedicandosi alla ricerca e partecipando a programmi psichiatrici presso cliniche a Salem, Oregon, così come a San Francisco e San Diego, California. Nel 1974 si reca in India con una borsa di studio della Watson Foundation per documentare la scultura e l’architettura indiane. Visita l’Afghanistan e la Persia. Nel 1975 studia all’Architectural Association School of Architecture di Londra e prosegue con un seminario in Italia. Studia poi alle Belle Arti di Atene con Yannis Pappas e Giorgos Nikolaidis, diplomandosi con lode. Nel 1984 ottiene una borsa di studio statale francese per l’École nationale supérieure des Beaux-Arts di Parigi, dove studia scultura. Nel 1991, una borsa di studio della Fondazione Cartier lo porta a Jouy-en-Josas. Tra il 1987 e il 2016 insegna come professore di scultura alla Scuola di Belle Arti di Atene, introducendo un metodo completamente nuovo e innovativo per la formazione di giovani artisti. Nel frattempo continua a viaggiare in Canada, Cina, Giappone, Russia, USA, Brasile, Corea e in tutta Europa, non rinunciando a questa insaziabile curiosità che lo porta alla propria utopia. George Lappas è rappresentato esclusivamente da CITRONNE Gallery. La mostra personale postuma di George Lappas presenta trentaquattro opere, sculture, studi e disegni che coprono il periodo 1978-2015. Queste opere costituiscono un’unità che si concentra innanzitutto sulla figura umana, il tema principale della sua creazione nel suo insieme. L’unità è scomposta o addirittura elaborata da elementi apparentemente esogeni, che segnalano però una peculiarità funzionale dell’artista: il punto di partenza e l’idiosincrasia di George Lappas sono quelli di un viaggiatore, di un viaggiatore. La sua traiettoria non ha confini, geografici, culturali o nazionali; in modo simile le sue creazioni artistiche risultanti trascendono la realtà sensoriale. Il segno distintivo di questa ricerca ai confini del mondo conosciuto o immaginabile è l’emblematico “zaino con le orecchie”, accessorio indispensabile che permette al viaggiatore di udire il più piccolo suono dell’universo umano. Figure grandi e piccole di bronzo, alluminio, tessuto, plastica, luci al neon, compongono il mondo scultoreo di George Lappas. Sono incorniciati dallo spazio espositivo, che fa parte di una tradizionale casa locale. Lì “l’artista con i suoi pensieri” dialoga con sciamani, funamboli, giocolieri, maghi, divinità. Queste figure sono “in movimento” o ferme ai margini della realtà, ignare delle leggi della fisica e dell’equilibrio. Il corpo naturale è abolito; pensiero, memoria e narrazione lavorano secondo una logica interna, senza conseguenze percepibili. I materiali inaspettati creano un senso di paradosso, di perturbante, richiamando connessioni oniriche inconsce, associazioni indecifrabili. Il dialogo tra il Solone egiziano che si rilassa sulle rive del Nilo e le figure dei suoi compagni di viaggio è imprevedibile per lo spettatore, e si basa su rimandi tematici che risalgono ai molteplici punti di partenza riconoscibili dell’artista. Oriente e Occidente operano artisticamente con tratti distinti, pur in una composizione archetipica originale. Le sculture ricordano l’Egitto ei geroglifici, l’India ei templi del Brahman; fanno emergere il paradossale e accennano alla magia – indizi forse di nostalgia per il passato “metafisico” all’opera nei paesi dell’Est. L’Occidente, al contrario, impone una tirannia razionalista che provoca all’artista il “dolore dello spazio”. L’unico antidoto a questo è l’opera d’arte, l’unico modo per colmare le antitesi, per appropriarsi di ciò che non è familiare, cioè per portare a compimento il “mondo straniero”. Non solo gli sciamani e i prestigiatori, i funamboli e gli acrobati, ma anche gli uomini con una gamba sola e i giardinieri pensili raccontano attraverso la performance il desiderio perpetuo dell’uomo di superare ogni volta le sue frontiere, sia del mondo fisico che lo circonda sia dell’intelligenza finita e conoscenza. Sotto lo stesso atteggiamento trascendentale un sedile o una stella possono stare in equilibrio sulla testa di una figura, estendendo i confini e la resilienza del corpo e reinterpretando liberamente la simbiosi visibile dell’essere umano e dell’oggetto. [12] [13]
41
BARBARA KRUGER Barbara Kruger è nata nel 1945 a Newark, nel New Jersey. Kruger ha frequentato brevemente la Syracuse University, poi la Parsons School of Design di New York City, dove ha studiato con gli artisti e fotografi Marvin Israel e Diane Arbus. Kruger ha lavorato nella progettazione grafica per Condé Nast Publications presso la rivista Mademoiselle ed è stato promosso a capo designer entro un anno, all’età di ventidue anni. Kruger ha descritto il suo tempo nella progettazione grafica come “la più grande influenza sul mio lavoro ... [è diventato], con alcune modifiche, il mio” lavoro “come artista”. All’inizio degli anni ‘70, Kruger iniziò a mostrare opere d’arte nelle gallerie di New York. All’epoca si occupava principalmente di tessitura e pittura. Tuttavia, sentiva che le sue opere d’arte mancavano di significato e nel 1976 smise completamente di creare arte per un anno. Ha preso una serie di incarichi di insegnamento, tra cui presso l’Università della California, Berkeley. Quando ha ricominciato a fare arte nel 1977, si era allontanata dal suo stile precedente verso collage di foto e testi. Nel 1979, Kruger ha sviluppato il suo stile distintivo utilizzando immagini in bianco e nero su larga scala sovrapposte a testo. Ha riproposto le immagini trovate, giustapponendole a brevi frasi concise stampate con caratteri Futura Bold o Helvetica Extra Bold in barre di testo nere, bianche o rosse. Oltre a creare testi e opere fotografiche, Kruger ha prodotto opere video e audio, critiche scritte, lezioni tenute, mostre curate, prodotti progettati, come magliette e tazze, e sviluppato progetti pubblici, come cartelloni pubblicitari, involucri di autobus e interventi architettonici. [14] Kruger si rivolge ai media e alla politica nella loro lingua madre: sensazionale, autorevole e diretto. I pronomi personali come “tu” e “io” sono i punti cardine della pratica di Kruger, portando lo spettatore in ogni pezzo. “L’indirizzo diretto ha guidato il mio lavoro fin dall’inizio”, ha detto Kruger. “Mi piace perché taglia il grasso.” Il lavoro di Kruger ci spinge a interrogare le nostre posizioni; nelle parole dell’artista, “mettere in discussione e cambiare i sistemi che ci contengono”. Esige che consideriamo come le nostre identità si formano all’interno della cultura, attraverso la rappresentazione nel linguaggio e nell’immagine. [15] Presentate come se fossero seducenti manifesti con irresistibili slogan pubblicitari, le sue opere rivelano un’aspra critica a vari aspetti della società contemporanea. I suoi bersagli sono il maschilismo, il consumismo, le dinamiche di auto-rappresentazione e le costrizioni comportamentali imposte dalla morale comune. Barbara Kruger si segnala tra quelle artiste la cui ricerca è tesa in particolar modo al sovvertimento delle convenzioni contemporanee che vedono la donna come vittima del potere maschile. Per lei, l’arte è un campo di battaglia ideologica che serve a dare voce a chi è stato messo a tacere dalla società. Kruger ha creato una serie di installazioni pubbliche, che sono apparse in musei, edifici comunali, stazioni ferroviarie e parchi, nonché su autobus e cartelloni pubblicitari. I progetti site specific dell’artista includono installazioni per il Public Art Fund, New York (1989, 1991, 1997 e 2000); Whitney Museum of American Art, New York (1990 e 2010); Il Museo d’Arte della Contea di Los Angeles (2008); Galleria d’arte dell’Ontario, Toronto (2010); Museo Hirshhorn e giardino di sculture, Washington, DC (2012); Museo del martello, Los Angeles (2014); Galleria d’arte di Vancouver (2016); Metro Bellas Artes, Città del Messico (2016); e The Museum of Contemporary Art, Los Angeles (2018), tra gli altri. Nel 2005, Kruger è stata insignita del Leone d’oro alla carriera alla Biennale di Venezia, dove è stata anche incaricata di progettare la facciata del Padiglione nazionale italiano. Nel 2019, l’artista ha ricevuto il premio Kaiserring (o “Emperor’s Ring”) dalla città di Goslar, in Germania.[16]
42
43
44
JENNY HOLZER Jenny Holzer è un’artista neo-concettuale statunitense. I punti chiave dei suoi lavori sono la distribuzione di parole ed idee in spazi pubblici. Holzer appartiene alla branca femminista della generazione degli artisti che emersero nel 1980; tra le sue contemporanee ricordiamo Barbara Kruger, Cindy Sherman, Sarah Charlesworth, e Louise Lawler. Jenny Holzer studia presso la Ohio University di Athens e la Rhode Island School of Design di Providence. Nel 1977 si trasferisce a New York dove vive attualmente. Qui frequenta il programma di Indipendent Studies al Whitney Museum of American Art e intraprende la sua ricerca incentrata sul linguaggio. Proprio dal 1977 crea i suoi primi lavori basati sulla scrittura, dando vita alla serie Truism (“verità ovvie”), parole su carta da diffondere per la città. I truismi sono affermazioni brevi e incisive che l’artista costruisce partendo da modi di dire popolari sui quali lavora sopra, parafrasandone il linguaggio e dando vita a frasi che colpiscono il senso comune, il pensiero dominante e qualunque tipo di pregiudizio. All’apparenza sembrano frasi riprese dalla strada, ascoltate in metropolitana o riprese dagli slogan televisivi. Affermazioni brevi e ipnotiche (lunghe una riga), ogni truismo evidenzia delle voci narranti diverse, come diversa è spesso la loro rappresentazione e i loro mezzi di comunicazione, sempre di massa. Hanno in sé la retorica dell’impulso comunicativo tipico del manifesto e la razionalità denotativa di una semplice didascalia. Così lo spettatore è inconsapevolmente trascinato in un vortice di circolarità di messaggi e di ipertesto urbano che si sedimentano progressivamente nel loro apparato cognitivo e nel loro immaginario, cambiandone la visione. Due anni dopo, nel 1979, si associa al gruppo di artisti Colab (tra cui Basquiat), con i quali condivide la preferenza per i luoghi urbani e metropolitani come diffusione capillare della propria opera, di contro alle strutture d’arte tradizionali sentite ormai inadeguate (gallerie, musei, riviste specializzate). Durante tutta la sua carriera ha esposto in musei come il Solomon R. Guggenheim di New York, i cui truism ripercorrevano tutta la spirale interna dell’edificio (1989), il Centre Pompidou di Parigi (1996), il Museum of Modern Art (1997), il Whitney Museum of American Art di New York (1999), l’Oslo Museum of Contemporary Art (2000), e la Neue Nationalgalerie di Berlino (2001). Nel 1990, rappresenta il Padiglione Americano alla 44 esima Biennale di Venezia, vincendo il Leone d’Oro con Venice installation, truismi scolpiti su lapidi. Nel 2004, invece, Holzer riceve in patria il Public Art Network Award. Nel 2010 Jenny Holzer sbarca in Asia dove presenta su LED i suoi slogan politici “PROTECT ME FROM WHAT I WANT” nella galleria Pearl Lam di Hong Kong. La sua poetica è basata sul principio di arte pubblica ed è portatrice di messaggi diffusi al di fuori degli spazi e dei canali tradizionali. Messaggi autoritari che vanno da frasi laconiche disposte in ordine alfabetico a quelle sempre più complesse e intimistiche, dichiarazioni, cliché, stampati su volantini distribuiti per strada e su poster in bianco e nero affissi abusivamente per le strade di Soho, su T-shirt, cappellini, confezioni di profilattici, su tabelloni segnapunti, scontrini, su lapidi, alluminio, placchette di bronzo, o realizzate su pannelli pubblicitari e su monumentali insegne elettroniche al LED (negli anni ‘80) il cui medium secondo le stesse parole dell’artista“ha improvvisamente cambiato l’enfasi delle mie opere. Era come avere la voce dell’autorità che diceva qualcosa di diverso da quello che direbbe normalmente”. Le tematiche sono costantemente quelle di guerra, politica, violenza e morte. Al pari delle artiste Barbara Kruger e Cindy Sherman, Jenny Holzer apre la strada al confronto e al dialogo, da lì in poi mai terminato, tra l’arte e l’immaginario mediale. [17]
45
JANINE ANTONI Mi interessa molto la ripetizione, la disciplina e ciò che mi accade psicologicamente quando metto il mio corpo in quel punto estremo. Janine Antoni (Freeport, Bahamas, 19 gen. 1964) è un artista contemporanea delle Bahamas formatasi negli USA, che crea in performance art, scultura e fotografia. Vive e lavora a New York. Janine Antoni è laureata presso il Sarah Lawrence College, ed alla Rhode Island School of Design con un MFA nel 1989. Era una 1998 MacArthur Fellow e un 2011 Guggenheim Fellow. Lei lavora anche come mentore alla Columbia University School of the Arts. È sposata col compagno e alunno del RISD Paul Ramirez Jonas e risiede a New York City. [18] Le opere di Antoni si concentrano principalmente su processi e le transizioni tra la realizzazione e il prodotto finito. Spesso lei usa il suo corpo, come un ente o prestando particolare attenzione alle parti del corpo come strumenti, utilizzando la sua bocca, i capelli, le ciglia, e, attraverso la scansione tecnologica, il cervello, per svolgere le attività quotidiane e per creare le sue opere d’arte. Antoni ha citato Louise Bourgeois come una forte influenza artistica, riferendosi a Bourgeois come la sua “madre artistica”. Le sue opere più note risalgono agli anni Novanta del XX secolo in cui ha realizzato una serie di studi sull’identità di genere, sulla percezione culturale della fisicità, la bellezza e la sessualità femminili usando il proprio corpo come parte costitutiva della performance. Tra le sue opere principali di questi anni: Gnaw (1992, Saatchi gallery, Londra), focalizzata sulle ‘malattie sociali’ della bulimia e dell’anoressia, in cui la Antoni ha cesellato con i suoi stessi denti due cubi di 270 kg, uno di cioccolato e l’altro di lardo, ricavandone poi cuori di cioccolato e rossetti per labbra; Loving care (1993, Anthony d’Offay gallery, Londra) in cui ha usato, inginocchiata a terra, i capelli per dipingere la galleria, con un rovesciamento dello stereotipo femminile della cura e della pulizia; Slumber (1994, Kunsthaus, Zurigo) in cui, dormendo all’interno del museo, ha registrato la propria attività cerebrale in fase REM (Rapid eye movement) per tessere poi una ‘coperta dei sogni’ che riproducesse il tracciato encefalografico. Tra le opere più recenti, il video Touch (2002) e la performance unica To draw a line (2003, Luhring Augustine, New York), esperimenti funambolici e metafore sull’equilibrio, alcuni lavori sulla maternità (per es. il lavoro fotografico One another, 2008, e l’istallazione Inhabit, 2009), e ancora l’istallazione Tear (2008). La Antoni ha avuto grandi mostre del suo lavoro al Whitney Museum of American Art di New York; al Solomon R. Guggenheim Museum di New York; al S.I.T.E. di Santa Fe; e all’Irish Museum of Modern Art di Dublino. Destinataria di numerosi premi prestigiosi, tra cui un John D. e Catherine T. MacArthur Fellowship nel 1998 e la Fondazione Premio Larry Aldrich nel 1999. Fare performance non era qualcosa che intendessi fare. Stavo facendo un lavoro che riguardava il processo, il significato del fare, cercando di avere un rapporto di amore-odio con l’oggetto. Mi sento sempre più al sicuro se riesco a riportare lo spettatore alla sua realizzazione. Cerco di farlo in molti modi diversi, per residuo, per contatto, con questi processi che sono fondamentali per tutte le nostre vite... a cui le persone potrebbero relazionarsi in termini di processi, attività quotidiane - fare il bagno, mangiare etc. [19]
46
47
48
MARINA ABRAMOVIC La vita di Marina Abramović è iniziata a Belgrado, sua città di origine, ma si snoda anche tra altre due città cardine: Amsterdam prima, New York poi. Nata in una famiglia benestante, i suoi genitori erano entrambi partigiani durante la Seconda Guerra Mondiale. Per questo i primi anni da bambina li trascorse con la nonna materna e fu influenzata in modo profondo dalla sua fede ortodossa. Nonostante un’educazione molto rigida, fin da bambina è stata incentivata a sviluppare un legame con l’arte. Appassionata di disegno e pittura, ha studiato all’Accademia di Belle Arti di Belgrado e le sue opere sono diventate sempre più astratte. Il suo percorso di formazione è continuato poi a Zagabria dove ha iniziato a servirsi del corpo come strumento artistico, dedicandosi sia al suono sia all’arte performativa. Il primo momento di svolta della sua carriera è arrivato nel 1973 durante il duplice incontro con Joseph Beuys, prima ad Edimburgo e poi al Centro culturale studentesco di Belgrado. Gli happening di Beuys sono stati per lei una fonte di ispirazione straordinaria che le hanno permesso di capire con estrema lucidità e consapevolezza quale fosse la sua strada: la performance. Qualche anno dopo Marina vive un altro evento che ha cambiato per sempre la sua vita: ad Amsterdam, durante un incontro internazionale di artisti performativi, conosce l’artista tedesco Ulay. L’anno successivo l’artista decide di abbandonare il marito, Belgrado e la rigidità a cui è sempre stata sottoposta per vivere con Ulay ad Amsterdam. Ed è così che è nata una relazione e soprattutto un sodalizio artistico che è durato per tantissimi anni. Insieme hanno realizzato la serie Relation Works e hanno ideato il manifesto Art Vital, che definisce la direzione della loro pratica artistica. Dopo alcuni anni, trasferiti in Australia, presso la tribù Pintupi nel Gran Deserto Victoria, da cui è scaturita la performance Nightsea Crossing. Il loro sodalizio artistico prosegue negli anni, fino al 1988, quando si conclude con la camminata lungo la Grande Muraglia cinese per l’opera The Lovers. Questa performance ha concluso la loro relazione e la collaborazione artistica, che è durata oltre dieci anni. Negli anni successivi Marina ha viaggiato tantissimo, da Parigi al Brasile, realizzando performance, laboratori e mostre ed è New York la città in cui ha raggiunto la consacrazione definitiva e che ha scelto per fondare la sua casa e il suo punto di incontro per artisti performativi di tutto il mondo. Dopo un’infanzia dall’educazione molto rigida e un matrimonio probabilmente poco voluto, l’incontro nel 1976 di Marina con il performer tedesco Ulay è stato esplosivo. I due, nati nello stesso giorno, il 30 novembre, hanno stretto subito un connubio artistico e sentimentale che è stato totalizzante. Lui, ex ingegnere, non ha mai seguito studi accademici, ma gli veniva riconosciuto uno straordinario senso estetico e un talento per la fotografia. Insieme hanno realizzato la performance Imponderabilia, presso la Galleria Comunale di Arte Moderna di Bologna, in cui, completamente nudi, si sono posizionati l’uno di fronte all’altra all’ingresso di un passaggio molto stretto attraverso cui gli spettatori dovevano passare se volevano visitare il museo. Questa performance, assolutamente unica e senza precedenti, è stata interrotta dopo alcune ore dalle forze dell’ordine, perché considerata scandalosa. Un altro capolavoro è stato Rest Energy nel 1980: Marina mentre reggeva un grosso arco e Ulay ne tendeva la corda. Come lei stessa ha raccontato, l’obiettivo era rappresentare l’estrema fiducia che riponiamo negli altri. Entrambi infatti si trovavano in uno stato di tensione costante, con il rischio tangibile che, se Ulay avesse mollato la sua presa, avrebbe potuto trafiggere Marina. Come ti abbiamo anticipato, anche l’addio tra i due artisti è stato a tutti gli effetti un’opera d’arte, forse una di quelle più conosciute. In The Lovers, nel 1988, i due artisti si recarono agli estremi opposti della Muraglia Cinese, Ulay dal deserto dei Goby e Marina dal Mar Giallo. Dopo una camminata di circa 2500 chilometri, si incontrarono finalmente a metà strada e si dissero addio per sempre. [20]
49
La performance art, di cui Marina Abramović è un punto di riferimento, è nata ad inizi Novecento, da artisti come pittori, attori e poeti che si esibivano apertamente davanti ad un pubblico. Con il trascorrere degli anni prima John Cage poi Allan Kaprow hanno unito più linguaggi espressivi per creare qualcosa di unico e nuovo. Sono stati gli anni Settanta quelli che hanno permesso di raggiungere il definitivo riconoscimento della performance all’interno della storia dell’arte ed è proprio in quegli anni che in Europa si sono formati due tra i più importanti performer del ventesimo secolo: Marina Abramović e Ulay. Tra le performance più celebri di Marina spiccano, oltre a quelle già citate: - Relation in time, performance realizzata a Bologna, presentava i due artisti influenzati dalle pratiche di meditazione asiatiche. Marina e Ulay sedevano dandosi le spalle, con i capelli intrecciati saldamente tra di loro per sedici ore; - Balkan Baroque, presentata alla Biennale di Venezia, in cui l’artista era seduta in una cantina piena di ossa bovine insanguinate. Marina le ha pulite costantemente per giorni, sia dal sangue che dai vermi, cantando litanie e lamenti. Quest’opera aveva un messaggio chiaro; era un riferimento agli orrori perpetuati nella guerra dei Balcani che si stava svolgendo e venne premiata con il Leone D’Oro; - Rythm 0, una delle performance cardine di Marina Abramović, avvenuta a Napoli. Marina era in piedi al centro di una stanza dove erano presenti molti oggetti, come coltelli, corde e piume, e rimase immobile per sei ore, esattamente come un oggetto. Le persone avrebbero potuto fare di lei quello che desideravano, esattamente come lei fosse un altro degli oggetti presenti nella stanza. Dopo le prime due ore, alcuni spettatori iniziarono ad accanirsi su di lei, mentre altri intervennero per proteggerla: la performance era riuscita, mostrando il peggio ed anche il meglio delle persone. - GrandMother Of Performance sarà la sua ultima performance. Perché? L’artista ha infatti pensato a quest’opera che avverrà solo il giorno del suo funerale. Quel giorno ci saranno tre bare e ciascuna sarà mandata in una delle tre città che hanno segnato la sua vita, quindi Belgrado, Amsterdam, New York. Solo una conterrà il corpo dell’artista, ma nessuno potrà saperlo. [20]
50
51
52
produzione artistica Segue nel paragrafo corrente una serie di prodotti e installazioni in risposta all’ingenua aspettativa postumana, creati dalla mano di un artigiano del Terzo Millennio che ha visto con i suoi occhi e sentito nell’aria l’onda di influenza del postorganico in quell’oggi che può essere considerato una delle tappe conseguite dai propositi transumanisti. Ciascuna opera sarà accompagnata da un’analisi dettagliata ed esaustiva che si interfaccia con le tematiche e i contenuti trattati da artisti e movimenti citati nel paragrafo precedente. POST PLASMIC è il titolo della serie. Il termine “plasmic”, si riferisce a tutto ciò che concerne in primo luogo il plasma (dal lat. plasma -ătis, gr. plásma -atos ‘cosa formata, plasma’ •1865.) Il titolo vuole far riflettere sui molteplici significati del concetto di “plasma”: 1. Il costituente liquido del sangue, in cui è presente nella percentuale del 55% della massa totale: è una soluzione acquosa, di colore giallo e di carattere colloidale, contenente proteine, glicidi, lipidi, sali, che differisce dal siero per il contenuto di fibrinogeno; si usa spesso nelle trasfusioni invece del sangue intero. 2. In fisica, gas fortemente ionizzato, nel quale la maggior parte degli atomi o delle molecole è decomposta in ioni carichi positivamente e elettroni carichi negativamente; tale condizione si realizza quando il gas raggiunge temperature elevatissime (come all’interno delle stelle), oppure per effetto di scariche elettriche di grande intensità (come nelle lampade ad arco o al neon). 3. Fisica del plasma, la parte della fisica che studia le proprietà e il comportamento dinamico del plasma, in particolare in relazione ai processi di fusione nucleare. 4. Schermo al plasma, monitor al plasma, costituito da due pannelli di vetro tra i quali è racchiusa una rete di cellette corrispondenti ai singoli pixel che compongono l’immagine, all’interno delle quali è contenuta una particolare miscela di gas che, al passaggio di corrente elettrica, si ionizza illuminando opportunamente i fosfori dello schermo; per la possibilità di essere prodotti in grandi dimensioni mantenendo un ingombro limitato tali schermi trovano largo impiego nella fabbricazione di televisori. Il progetto inizia con un flusso di coscienza origine del progetto stesso, da interpretare come pensiero di un umano che nel periodo storico odierno si interroga quotidianamente su questa società, ormai globale, nell’intento di scardinare i meccanismi tossici al fine di trasmettere messaggi di speranza all’umanità intera proponendo stimoli visivi per la mente collettiva. La serie POST PLASMIC si divide in: 1. UBI EST ANIMUS NOSTER (OIL CREEK) - video installazione 2. VISUAL CORTEX PENTAGRAM - fotolibro 3. AQUARIUM - installazione 4. WEAPONS OF MASS RESTRUCTION - leporello grafico 5. PALUS LOTORUM - cortometraggio condiviso
53
CONSIDERING EVERYTHING YOU READ TILL NOW...
EVERY NUMBER CONTAINS ZERO
0 X 1 = 0 0 X 1000000 = 0
HERE IT FOLLOWS A HUMAN STREAM OF CONSCIOUSNESS...
0 X 1 = 0 0 X 1000000 = 0
everything was such dynamic matter its constant entropy forced us to make it logic to survive billion trillion animal species coll aborating for thei r own sustenance
greed - a fluid geometric plane traps immoderately voracious insects
try to bla me your brain while your brain is blaming you tell me if it does make sense in any way
dream revelations i cannot but feel on my skin even though it’ i s all inside me
freedo m lays where neuronal impulses flow freely
kids playinh with broken pieces like it is stitches or decoupage representing feelings compensating each other a neglected mind is more dangerous than any kind of drugs but global government does not seem to care all these kids not knowing what love is drive em to love not to material drive em to kindness not to rage take off to forgiveness...
my language has no langua ge it is only made of dust vapor and rays
danger ! be aware your face fits yo ur own sta ndards lil kids be aware of your dreams be aware they be true
ubi est animus noster
time human has is not running anywher e time is here and walks beside human time is all human has time is the chance human has to share love it is human duty it is human life purpose to surf it human is responsible for every ac tion human should learn how to spend time to evolve not to destroy human should carry love inst ead of hatred on their shoulders and when human cannot because human is tired just connect if human cannot just connect just connect just connect
UBI EST ANIMUS NOSTER (OIL CREEK) Lungo Oil Creek, appena a sud di Titusville, negli Stati Uniti, il colonnello Edwin Drake trovò il petrolio ad una profondità di 69,5 ft nell’agosto 1859. “Hanno trovato il petrolio!” - quest’affermazione ha cambiato per sempre il mondo, e segna la nascita dell’industria petrolifera modiale. La scoperta di Drake ha spinto migliaia di persone a riversarsi nella valle in cerca di oro liquido. Boomtown sorsero all’istante mentre le torri di trivellazione sostituivano gli alberi e la valle si riempiva di gente. “Le città del boom nascono dal tocco della bacchetta di un mago, vengono spazzate via dal fuoco o scompaiono solo per riapparire miglia prima della loro ultima posizione”. Olio e fango si mescolarono presto in tutta la valle. Le strade erano impraticabili. Quando J.H.A. Bone scese dal treno al Petroleum Center e scrisse: “... tira su le gambe quando scompaiono alla vista, ricordando che se scendi abbastanza in profondità, potresti trovare petrolio”. Altri hanno scritto: “Il torrente era coperto di olio, l’aria era piena di olio ... potevamo vedere, sentire, annusare, nient’altro che olio”. “Il fango ha diviso la nostra attenzione con l’olio, carri, uomini e animali sono stati immersi nel fango”. Le colline boscose di Oil Creek Gorge sembrano quasi come prima del boom. Nel parco sono ancora attivi alcuni pozzi, che estraggono dalla terra gli ultimi frammenti di petrolio e gas naturale che la natura ha depositato milioni di anni fa. “La corsa al petrolio ha cambiato il ritmo del mondo e ha ingrassato le ruote dell’era delle macchine. Ha illuminato il futuro, alimentato guerre, accelerato la pace e continua a fluire forte”. [21] WHERE IS THE WORLD GOING ? - DOVE STA ANDANDO IL MONDO? In riferimento al momento storico appena citato, la video installazione Oil Creek - Where Is The World Going? è un carosello che alterna immagini della la figura umana, intrisa metaforicamente di petrolio, a immagini della natura pura, ancor prima che Edwin Drake portasse alla luce l’olio nero. Unico scopo è quello di far riflettere lo spettatore sulla direzione che sta prendendo il mondo dal momento in cui il numero di autovettore è aumentato esponenzialmente negli ultimi decenni, per citare solo uno dei pochi ambiti relativi all’utilizzo del petrolio.
66
67
68
VISUAL CORTEX PENTAGRAM L’immagine a sinistra raffigura il percorso neurale dall’occhio al cervello, che si conclude nella corteccia visiva. Il sistema visivo umano è in grado di rilevare e discriminare tra un assortimento incredibilmente vario di stimoli che possono essere cromatici o acromatici, in movimento o meno, motivi geometrici o non, bidimensionali o tridimensionali. Sorprendentemente, il prodotto finale neurale degli stimoli visivi che impattano sulla retina è, in un certo senso, sempre lo stesso. Dopo le complessità della fototrasduzione, le interazioni laterali fornite dalle cellule orizzontali e amacrine e l’integrazione dei segnali da parte dei dendriti delle cellule gangliari, solo il flusso in costante cambiamento di potenziali d’azione che si propaga lungo gli assoni delle cellule gangliari è rimasto per informare la nostra percezione visiva. [22] Questi segnali apparentemente identici devono in qualche modo essere elaborati nella subcorteccia e nella corteccia per creare l’intera gamma di percezioni visive che sperimentiamo. Il modo in cui ciò sia ottenuto è un enigma che attualmente occupa la vita professionale di migliaia di ricercatori e il quadro di base di una soluzione ha iniziato a svilupparsi solo negli ultimi decenni. La corteccia visiva del cervello è l’area della corteccia cerebrale che elabora le informazioni visive. Si trova nel lobo occipitale. L’input sensoriale proveniente dagli occhi viaggia attraverso il nucleo genicolato laterale nel talamo e quindi raggiunge la corteccia visiva. L’area della corteccia visiva che riceve l’input sensoriale dal nucleo genicolato laterale è la corteccia visiva primaria, nota anche come area visiva 1 (V1), area 17 di Brodmann o corteccia striata. Le aree extrastriate sono costituite dalle aree visive 2, 3, 4 e 5 (note anche come V2, V3, V4 e V5, o area di Brodmann 18 e tutta l’area di Brodmann 19). Entrambi gli emisferi del cervello includono una corteccia visiva; la corteccia visiva nell’emisfero sinistro riceve segnali dal campo visivo destro e la corteccia visiva nell’emisfero destro riceve segnali dal campo visivo sinistro. [23] Essenzialmente la corteccia visiva sintetizza gli impulsi visivi trasportati dai neuroni. È l’area del cervello che ci fa associare tutti i dettagli che riguardano l’informazione visiva, tra cui anche ciò che per noi stessi rappresenta l’immagine che stiamo guardando. Motivo per il quale VISUAL CORTEX PENTAGRAM, è un fotolibro che, come note su un pentagramma, stimola la mente dello spettatore attraverso codici visivi e simboli propri della cultura globale in una chiave estetica appagante e rilassante.
69
AQUARIUM La fisica quantistica studia la sfera ultra piccola della realtà fisica. L’elettrone o il protone ad esempio, possono manifestarsi come una particella o come un’onda, questa è una caratteristica di tutte le particelle subatomiche; le più piccole unità identificabili di materia-energia (hanno entrambe le caratteristiche) sono dette quanti. Nel 1935 il dottor David Bohm espose il suo lavoro sui plasmi (gas contenenti alte densità di elettroni e ioni positivi). Nel 1952 suppose l’esistenza di un livello subquantistico: “Il potenziale quantistico, come la gravità, pervade tutto lo spazio ed è ugualmente potente ovunque, per cui un effetto non è la risultante di una o molte cause, ma infinite cause. Nessuna relazione tra causa-effetto è mai separata dall’universo nel suo insieme”. Per la scienza classica lo stato di un sistema nel suo insieme è la risultante della somma delle sue parti. Invece, per la fisica quantistica: “Il comportamento delle parti è organizzato dall’insieme, le particelle subquantistiche non sono cose indipendenti, ma parti di un insieme indivisibile”. A livello subatomico si parla di “non località”. Bohm fa un esempio: “Immaginate un pesce in un acquario, non avete mai visto pesci o acquari, ma guardate attraverso due telecamere, una è posta nella parte anteriore dell’acquario e una è posta lateralmente. Sui monitor vi appaiono come due entità separate, si vedono anche le relazioni tra queste due entità, quando una si volta, l’altra compie un movimento diverso ma corrispondente, sembra che comunichino simultaneamente tra loro. A un livello più profondo della realtà, i pesci non sono due, ma uno solo, è lo stesso. E ciò che accade coi due fotoni emessi quando il positrone si disintegra.” Inoltre, non c’è ordine o disordine, ma esistono livelli diversi di ordine. Quando si mette una goccia di inchiostro in un barattolo pieno di glicerina, all’interno del quale si fa ruotare un cilindro, la goccia si disperde e sparisce. Quando il cilindro viene fatto ruotare in direzione opposta la goccia si ricompone. Questo è un esempio del modo in cui l’ordine può essere manifesto (esplicito), o nascosto (implicito). Qui ci viene suggerita la limitatezza dei sensi che possono cogliere solo il manifesto, esiste invece un altro ordine, nascosto eppure reale. [24] La fisica quantistica sembra generare risposte a domande poste da secoli e millenni a livello universale, o quantomeno un nuovo modo di guardare la realtà che non si fa guardare. L’installazione AQUARIUM è un omaggio a questa teoria, e ai quanti in generale che, concepiti da nemmeno un secolo, si stanno rivelando unione tra scienza e spiritualità. L’installazione porta l’esempio dell’Acquario di Bohm in un contesto museale, nel tentativo di avvicinare lo spettatore artistico al mondo della - ormai così si può dire - “non-fisica”.
70
71
72
WEAPONS OF... RESTRUCTION La locuzione “arma di distruzione di massa” (in inglese Weapon of Mass Destruction) viene usata per descrivere un’arma capace di uccidere indiscriminatamente una grande quantità di esseri viventi. Questa definizione comprende diversi tipi di armi, tra cui armi nucleari, armi biologiche, armi chimiche e armi radiologiche. [25] La piccola guida-pittogramma WEAPONS OF MASS RESTRUCTION, il cui titolo gioca sulla parola “restruction” (“ristrutturazione”) proprio per sottolineare quanto poco basti a stravolgere il concetto, è una guida che descrive armi capaci di far tornare in vita un umano, utile da consultare nei momenti in cui l’individualismo e la corsa all’icona della società odierna ci allontanano gli uni dagli altri, facendoci perdere la connessione con il tutto.
73
PALUS LOTORUM PALUS LOTORUM tradotto dal latino sta per “La Palude dei loti”. I principali significati del loto derivano dal Buddismo, una delle religioni asiatiche più diffuse, che lo considera simbolo dell’illuminazione e della rigenerazione spirituale. Sempre secondo la tradizione asiatica, esprime anche significato di crescita spirituale, resurrezione, consapevolezza della propria natura e della propria forza e capacità di non farsi contaminare dalle sporcizie di questo mondo. Proprio la purezza e la capacità di mantenersi intatti dalla corruzione e dal peccato rappresentano meglio le sue specifiche caratteristiche vegetali. Il loto, infatti, vive nelle zone stagnanti, con le radici ben salde ed ancorate alla paludi. Eppure, nonostante questo, riesce a mantenersi pulito, facendo sbocciare fiori dalla bellezza inenarrabile, e con petali che tendono a mantenersi puliti perché idrofobi, cioè capaci di respingere le particelle esterne trattenendo molecole di acqua. La veloce crescita dello stelo del loto, che emerge improvvisamente dallo stagno, rappresenta il dono dell’elevazione spirituale e della capacità di saper affrontare, con coraggio e coscienza, le difficoltà terrene rappresentante dal fango dove la pianta vive. La particolare caratteristica dei petali del loto, che si chiudono la sera per riaprirsi la mattina, rappresenta la forza vitale. In un periodo storico come la primavera degli Anni Venti del Terzo Millennio, sembra sempre più facile lasciarsi inghiottire dalle sabbie mobili. Ma la Palude dei Loti è un posto sicuro. Il bagliore soffuso del Mondo Collettivo dell’Onirico svela, tramite il processo di catarsi giornaliera di un fior di Loto, che non siamo altro che Loti, noi stessi. Il progetto nasce dalla necessità di manifestare un bagliore di luce in mezzo alla coltre della quarantena per il SARS-CoV-2, tramite creatività condivisa e voglia di lanciare un messaggio di speranza e solidarietà. Il lavoro parla per metafore, analogie e allegorie. I partecipanti al progetto, sono stati contattati in primo luogo mediante Instagram. Essi sono stati in seguito invitati ad inviare per mail un videoclip ed un pensiero inerente alla seguente traccia: 1. Pensa al ricordo più bello che hai, e che saresti in grado di raccontare in 10/15 secondi. Scrivi un messaggio, di lunghezza a piacere, in cui tenti di descrivere la scena e le sensazioni che hai provato in questo ricordo. Tenta di farlo in maniera oggettiva, parlando del luogo, della compagnia, dei suoni, etc. Tutto quello che vuoi. Anche domande che ti sei fatto/a, conclusioni a cui sei arrivato/a. 2. Riusciresti in due frasi a riassumere il motivo per cui hai scelto questo ricordo? Se sì, inviale in un messaggio separato dal precedente. Il tutto è poi risultato in un carosello di emozioni e sensazioni positive, che si può sintetizzare nello slogan finale del corto: “WATCH THIS VIDEO WHENEVER YOU’RE YEARNING FOR JOY!” Il video è presente su YouTube al seguente link: https://youtu.be/fjZSS04Uw-s
74
75
bibliografiA.SITOGRAF IA [1] Roberto Marchesini, Il Tramonto dell’uomo: la prospettiva post-umanista, Bari, edizioni Dedalo. [2] Roberto Marchesini, Post-human, Torino, Bollati Boringhieri, 2002. [4] https://www.camilliani.org/wp-content/uploads/2018/10/Bioetica-umanesimo-e-post-umanesimo-nel-XXI-secolo.pdf [5] Eugenio Viola, Post Human: esperienze e questioni di critica d’arte. [6] Dispense del corso di Storia dell’Arte Contemporanea, docente Ada Lombardi, Accademia di Belle Arti di Roma A.A. 2017/2018 [7] Crimp, The Photographic Activity Of Postmodernism. [8] Robert Storr, Félix González-Torres: Etre un Espion, in ArtPress, gennaio 1995 [9] Stefano Chiodi, Mike Kelley: l’arte della disobbedienza, su Doppiozero, 6 febbraio 2012. [10] Eric Troncy, Sylvie Fleury, Réunion des musées nationaux, 2001. [11] Berland, Rosa JH. “Kiki Smith: A Gathering, 1980-2005.” C Magazine: International Contemporary Art, 2007. [12] Konstantin Alexiou: Lappas, Giorgos (George; Georgios). In: Allgemeines Künstlerlexikon. Die Bildenden Künstler aller Zeiten und Völker (AKL). Band 83, de Gruyter, Berlin 2014 [18] Janine Antoni: Jinkner-Lloyd, Amy (1996). Chewing the Fat with Janine Antoni. Art Papers [3] transumanisti.it [13] https://felioscollection.gr/en/artists/lappas-giorgos/ [14] https://www.davidzwirner.com/artists/barbara-kruger/biography [15] https://www.thebroad.org/art/barbara-kruger [16] https://www.palazzograssi.it/it/artisti/barbara-kruger/ [17] https://iperarte.net/ledonnedellarte/jenny-holzer/ [19] https://artslife.com/history/2015/09/antoni-janine-1964-2/ [20] https://www.travelonart.com/arte-contemporanea/marina-abramovic-biografia-performance-famose/ [21] https://www.dcnr.pa.gov/StateParks/FindAPark/OilCreekStatePark/Pages/History. aspx [22] http://www.lifesci.sussex.ac.uk/home/George_Mather/Linked%20Pages/Physiol/Cortex.html [23] https://web.archive.org/web/20041229070957/http://webvision.med.utah.edu/VisualCortex.html [24] http://www.isideacademy.it/modello-olografico-e-fisica-quantistica-relazioni-possibili/ [25] https://www.britannica.com/technology/weapon-of-mass-destruction Testo nel retro della copertina © Marina Abramovič - An Artist’s Life Manifesto. Tutti i diritti sono riservati.
AN ARTIST SHOULD NOT LIE TO HIMSELF OR OTHERS AN ARTIST SHOULD NOT MAKE HIMSELF INTO AN IDOL AN ARTIST SHOULD D EVELOP AN EROTIC POINT OF VIEW ON THE WORLD AN ARTIST SHOULD SUFFER SUFFERING BRINGS TRANSFORMATION AN ARTIST SHOULD NOT BE D EPRESSED D EPRESSION IS A DISEASE AND SHOULD BE CURED SUICID E IS A CRIME AGAINST LIFE AN ARTIST SHOULD NOT COMMIT SUICID E THE D EEPER THEY LOOK INSID E THEMSELVES THE MORE UNIVERSAL THEY BECOME THE ARTIST IS UNIVERSE THE ARTIST SHOULD GIVE AND RECEIVE AT THE SAME TIME TRANSPARENCY MEANS RECEPTIVE TRANSPARENCY MEANS TO GIVE TRANSPARENCY MEANS TO RECEIVE SYMBOLS ARE AN ARTIST’S LANGUAGE SOMETIMES IT IS DIFFICULT TO FIND THE KEY AN ARTIST HAS TO UND ERSTAND SILENCE AN ARTIST HAS TO CREATE A SPACE FOR SILENCE TO ENTER HIS WORK SILENCE IS LIKE AN ISLAND IN THE MID D LE OF A TURBULENT OCEAN AN ARTIST MUST MAKE TIME FOR THE LONG PERIODS OF SOLITUD E SHOULD STAY FOR LONG PERIODS AT WATERFALL EX P LODING VOLCANOES AT THE FAST RUNNING RIVERS AT THE HORIZON LOOKING AT THE STARS IN THE NIGHT SKY BUD DHIST MONKS ADVISE IT IS BEST TO HAVE NINE POSSESSIONS IN THEIR LIFE: 1 ROBE FOR THE SUMMER 1 ROBE FOR THE WINTER 1 PAIR OF SHOES 1 BEGGING BOWL FOR FOOD 1 MOSQUITO NET 1 UMBRELLA 1 MAT TO SLEEP ON 1 PAIR OF GLASSES (I F NEED ED) 1 PRAYER BOOK AN ARTIST SHOULD HAVE MORE AND MORE OF LESS AND LESS AN ARTIST SHOULD HAVE FRIENDS THAT LIFT THEIR SP IRITS AN ARTIST HAS TO LEARN TO FORGIVE AN ARTIST SHOULD DIE CONSCIOUSLY WITHOUT FEAR THE FUNERAL IS THE ARTIST’S LAST ART P IECE BEFORE LEAVING