Sulle spalle dei Ciclopi_Incontri all'ombra dei fari

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SULLE SPALLE DEI CICLOPI

Incontri all’ombra dei fari

Candidato

Alberto Procaccini

Relatore

Prof. Francesco Collotti

Correlatori

Prof.ssa Eliana Martinelli

Prof.ssa Giada Cerri

Dott. Stefano Danese

Laurea Magistrale a ciclo unico in Architettura

anno accademico 2022-2023

SULLE SPALLE DEI CICLOPI

Incontri all’ombra dei fari

“....quando me ne andai mi sorpresi a parlargli. “Perché non ti accendi vecchio mio?”

Ma quello mi disse “Togliti dai piedi”.

E mi guardò storto, con la sua unica orbita vuota, come Polifemo.”

Paolo Rumiz, “Il Ciclope”

Faro di Capo San Vito (TA) Faro di San Cataldo (BA) Faro di Molfetta (BA)

Faro di Termoli (CB)

Faro di Punta Penna (CH)

Faro di Ortona (CH)

Faro di San Benedetto del Tronto (AP) Faro di

(FM)

Fari
Faro di Manfredonia
di Sant’Eufemia
di Barletta (BT)
(FG) Faro
(FG)
Pedaso
Faro di Senigallia (AN) Faro di Fano (PU) Premessa alla tesi Pensieri in calce Faro Monte San Bartolo (PU) Faro di Rimini (RI) Faro di Marina di Ravenna (RA) Faro di Goro (FE) Lanterna di Genova (GE) Faro di Portofino (GE) Vecchio Faro
Framura
Faro di San Venerio (SP) Faro di Marina di Carrara (MS) Vecchio Faro di Viareggio (LU) Fanale dei Pisani (LI) Faro di Civitavecchia (RM) Vecchio Faro di Fiumicino (RM) Faro di Anzio (RM) 4 12 18 24 32 40 50 60 64 74 80 86 94 102 1 206 108 116 124 130 140 146 150 154 162 168 176 182 190 196
Fari di Ancona (AN)
di
(SP)
APPENDICE TESI

PREMESSA ALLA TESI

In queste pagine si racconta di un viaggio compiuto lungo le coste d’Italia alla ricerca delle “case della luce”, come vengono romanticamente chiamate dagli anglofoni. Circa 2000 chilometri di coste esplorati per cercare di comprenderne l’essenza, ormai celata, al di sotto della patina che le ricopre.

Durante quelle settimane ho capito il motivo che mi ha portato alla scelta di questo tema di ricerca. Partito cercando la solitudine, inseguendola nelle sue fortezze, a sorpresa, ho scoperto che queste ne sono l’antitesi, inglobando in esse la vita che le circonda, erigendosi a sua difesa, ciclopici guardiani silenti.

Osservavo i limitati orizzonti della mia conoscenza, i monoliti brillavano di lampi improvvisi al di là dei confini, mi chiamavano. Battendo piedi e pneumatici sul duro asfalto, sull’arida roccia, su sabbiosi lidi, ho cercato e ascoltato questi monumenti: narrano la propria storia attraverso le parole e gli sguardi delle persone, talvolta tacciono e ignorano chi li osserva. Le genti di terra non li notano, trascurano il modo in cui le generazioni passate riponevano le speranze del ritorno di un marito, di un padre, di un figlio, di un amato all’interno di quel fuoco che ardeva per indicare la via di casa.

Oggi, la luce arde ancora, la vita che la alimentava sta svanendo, ne permane unicamente il vacuo involucro. COME

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COLMARLO?
PUGLIA 675 chilometri 6 fari
Capo san Vito Punta San Cataldo Molfetta Barletta
Manfredonia Vieste

40°24’42.34”N

17°12’12.59”E

FARO DI CAPO SAN VITO

San Vito, Taranto, TA

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Se un assolato giorno d’estate ti trovi all’ombra del faro di Capo San Vito, temi di varcare la soglia del cancello, lo sguardo severo di una sfinge nera osserva i tuoi movimenti. Consentitomi l’accesso, oltrepasso a occhi bassi il giudizio dell’immobile guardiano, ritrovandomi sotto la fresca protezione di mura più che centenarie, spesse un metro.

Alessandro Petti mi attende. Reggente, farista da 40 anni, occhio vispo e braccia robuste, mi stringe la mano e sento come una vita di fatica irrigidisca e ingrossi le dita, ma insegni anche la gentilezza del misurare la propria forza.

Mi fa accomodare nel suo ufficio e, senza bisogno che io ponga domande, comprende quel che voglio sapere prima ancora che io proferisca parola. Lo guardo fisso negli occhi, vedo quel che vede ascoltandolo, assorto nei ricordi, rivivendo quelle emozioni. Narra di un’infanzia vissuta tra un’isola e il tentativo di ritornare su di essa: passaggi di pescatori gentili, fughe a remi e manomissioni di telefoni a manovella pur di tornare in quel luogo e dal padre.

Il racconto prosegue con esplorazioni, gare di pesca, notti insonni in compagnia delle famiglie che

vi abitavano. Perfino le narrazioni dei periodi in cui il mare non permetteva il rifornimento sono piene di gioia: impastare il pane con la crusca delle galline diventava gioco grazie allo spirito delle madri e la raccolta del sale da cucina sugli scogli si tramutava in una sfida tra i bambini. Le sue parole descrivono come la vita sembri più leggera avendo meno a disposizione.

“Il tempo non scorre da quanto è bello”. Nell’udire queste parole comprendo come il suo ricordo sia indelebile, attraverso la memoria è in grado di trovarsi ancora su quell’isola, all’ombra di quel faro.

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41° 8’20.75”N

16°50’42.20”E

FARO DI SAN CATALDO

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Punta San Cataldo, Bari, BA
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Il lungomare di Bari è considerato tra i più lunghi d’Europa, percorrendolo emerge il faro di San Cataldo.

Erto e rigido si staglia nel cielo con i suoi 66 metri d’altezza; rispettato dai tristi volumi eretti con l’espansione urbana i quali, con reverenza, sostano a distanza evitando un confronto che li vedrebbe sconfitti.

Lo osservo, perlustro l’area per guardare la piramide ottagonale che lo compone. Essa è troncata da una lanterna raggiungibile posando i piedi su più di 370 gradini.

Prima dell’arrivo della corrente elettrica la luce era proiettata da fiamme alimentate ad acetilene e immagino che portare le bombole da settanta chili potesse far sentire i guardiani di questo luogo superbi penitenti sulla strada della redenzione; penso che, se non altro, raggiungere quella cima debba regalare una visione impagabile.

Cerco di comunicare con i giovani custodi, ma il taccuino alla mano e le domande, indotte dal fascino di questo ciclope, devono essere sospette a militari indisposti dalla mia curiosità che non viene soddisfatta, frenata da discorsi densi di irragionevole livore, percorsi dal timore di svelare segreti di rilevanza strategica.

Mi appunto:

“Approcciarsi privi di armi caricate ad inchiostro.”

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41°12’29.00”N

16°35’39.17”E

FARO DI MOLFETTA

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Molfetta, BA
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Sono le 12:45 circa quando termino la perlustrazione della banchina che ospita il guardiano della baia di Molfetta. Nella sua possenza esso riacquista la dignità di faro nonostante le dimensioni da fanale: non molto elevato, ma finemente decorato e ben piazzato sul suo podio alto quanto un piano.

Il sole brucia nei pressi del suo zenith, lungo i moli il calore diventa sempre più insopportabile. Decido di sostare per un pasto frugale avviandomi verso le strette vie che compongono la città storica, bianche e calcaree offrono refrigerio anche a un forestiero. Il percorso si svela piano piano, ogni scorcio narra una città che ricorda la Zaira di Calvino. La memoria è impressa in ogni roccia e in ciascun elemento che compone strutture raffazzonate per permettere agli edifici di appoggiarsi l’un l’atro. Appaiono come anziani che si sorreggono a vicenda per sostenere l’incessante scorrere del tempo e i suoi effetti.

Tutto ha un sapore antico, aspetto logoro ma non trasandato, composto e orgoglioso del suo passato che sembra non volersi staccare da quelle mura e da quei pavimenti. Perfino il forno non può avvalersi delle telecomunicazioni quando entro a causa di

problemi di linea. Un ragazzino entra e chiede venti panini per il parroco e gli altri giovani del seminario. La vita sembra essersi arrestata decenni fa in queste vie, troppo strette per rovinose automobili e ancora adatte a freschi piedi pronti a correre per portare il pranzo verso la mensa. Riavviandomi verso il mare, trovo signori lieti su panchine ombreggiate da palmette, pescatori che districano reti, chiacchiere e brusio di mare, infine, un gabbiano annuncia il mio commiato.

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41°19’49.70”N

16°17’26.66”E

FARI DI BARLETTA

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Barletta, BT
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Seguendo le indicazioni delle mappe digitali, mi ritrovo all’imbocco di un molo di cui non scorgo la conclusione, una torre si eleva in lontananza. Decido di sostare in un bar lì vicino: sedie in plastica rossa sbiadita, si intravede ancora il logo dell’azienda di gelati al centro, classico bar di mare aperto ormai da tempo. Entro e tutto continua a presentarsi secondo i canoni del luogo: gestione familiare, la madre gentile che serve il caffè, la figlia che appare e scompare dal bancone. Interrogo il padre sulla situazione dei fari lì vicino. Afferma che quello più piccolo, di epoca borbonica, sarà presto riattivato.

Non convinto della risposta, mi appresto a chiedere informazioni al guardiano del cantiere che, molto gentilmente, mi dice di non saperne molto ma che forse l’avrebbero rimosso, ma data la poca conoscenza dell’argomento mi dirotta alla capitaneria. Risalgo in macchina e mi dirigo verso le risposte. Il cartello sulla porta mi informa della chiusura pomeridiana del presidio.

Dalle carte scopro che il molo dirimpettaio a quello dei fari si estende per la stessa lunghezza. Il bellissimo castello della città mi scorta verso la mia destinazione, segnato da numerosissimi interventi si mostra orgoglioso della sua forma. Spingo i primi

passi lungo la banchina e volgo nuovamente lo sguardo alla fortezza, ormai distante. Ora che non occupa più la totalità della mia vista china la testa, abbassa lo sguardo, si nasconde dietro filari di alberi. Più imponenti, alte e meschine si ergono le industrie, troneggiano sulla città mostrando il loro dominio totale. Tutto sembra sparire sotto la loro mole che brilla di riflessi sui grossi tubi che le compongono.

Lasciandomi alle spalle questo scempio, risalgo verso il mare aperto. Bagnanti si godono la giornata limpida mentre continuo a camminare per un chilometro per porgere i miei ossequi al protettore di questo golfo. Carico come un mulo, oltre il peso di ciò che porto meco, sento qualcos’altro: realizzo di essere l’unica persona, in quel frangente, in tenuta urbana e con delle borse; questo viene notato dai bagnanti che, incuriositi dal mio atteggiamento, mi chiedono di scattare loro delle foto con la macchina. Decine di minuti in questa situazione, sotto il sole a picco, mi estraniano dalla realtà, finchè non giungo al cospetto del faro.

Il ritorno lo affronto a passo svelto, sguardi di estranei continuano a posarsi su di me e, raggiunta la terraferma, riparto come un alieno che abbandona un pianeta che non gli appartiene.

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41°37’43.21”N

15°55’23.77”E

FARO DI MANFREDONIA

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Manfredonia, FG
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Raggiungo Foggia, una delle città d’Italia più martoriate dalla meschinità umana: segnata prima dal potere distruttivo della guerra, poi dalla cupidigia di chi si è occupato di riempire le proprie tasche anziché ridare splendore alle proprie strade e alle proprie case; oggi nominata esclusivamente per gli effetti della criminalità organizzata. Comprendo a pieno i motivi del detto “fuggi da Foggia”. Mi accorgo di come la bellezza del luogo alberghi e riverberi ancora in chi si nasconde tra le mura domestiche e la esterni con la propria gentilezza e la voglia di sedersi a chiacchierare anche con un parente mai conosciuto prima.

La strada che collega il capoluogo alla città marittima è larga e percorsa da infiniti autoarticolati, così carichi di pomodori da farli straripare a ogni curva, ma l’aspetto più incredibile di questa faccenda rimane il ritrovarsi poi a dover acquistare unicamente pomodori di Sicilia: la globalizzazione ci pone di fronte continuamente controsensi che ci ostiniamo ad ignorare.

Il golfo sembra aver accolto serenamente il mio arrivo, questa volta non solo, ma accompagnato da mia cugina. Contatto la capitaneria di porto, mi concede il contatto dell’ultimo guardiano del faro di questo luogo. Sotto consiglio di chi mi scortava decido di chiamare subito e scettico eseguo la telefonata. Una voce calma come acqua di lago risponde e mi comunica di poterci incontrare ipso facto sotto la lanterna.

Ottavio Greco ci attendeva lieto sulla soglia d’ingresso al faro, sul gradino che ha visto il posarsi dei suoi piedi innumerevoli volte negli ultimi 17 anni. Occhi grandi e ingialliti, aver mirato per quattro decenni, giorno e notte, l’incresparsi delle onde ha conferito agli stessi il medesimo colore dei suoi baffi, segnati dal fumoso tabacco di numerosi e leali sigari.

Una volta accomodati, inizia il racconto del servizio in numerosi fari: San Venerio, Punta

Maestra, San Cataldo, San Vito, concludendo questo lungo pellegrinare all’ombra del prisma poligonale che assiste muto alla nostra conversazione. Ciò che ci racconta è l’esatta antitesi della vita a cui siamo abituati oggi. Il saper attendere quieti, la compagnia unica di un libro, l’assenza di questo continuo essere in contatto con tutti tranne che con se stessi. Sembra che l’insieme delle moderne ansie e preoccupazioni non abbia mai albergato nel suo cuore. Che non sia forse questa l’educazione impartita dai ciclopi?

Nel suo sguardo si legge la passione di una vita dedicata a questo mestiere, si riempie di umidi riflessi al ricordo dei giorni passati nelle torri di luce. Totalmente rapito dalle sue parole e da quello scrutarmi, non vedo più le sue pupille, ma solamente il mare che si specchia nei suoi occhi.

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41°53’21.11”N

16°11’3.45”E

FARO DI SANT’EUFEMIA

Isola di Sant’Eufemia, Vieste, FG

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Addentrandoci nel Gargano gli avvertimenti di mio padre e mia zia risuonano: “state attenti è una terra di briganti”. Preoccupati ci avventuriamo nell’intrico di strade che segna questo promontorio dirigendoci verso la baia di Pugnochiuso.

Ottavio Greco ci aveva indicato la via per raggiungere il faro che svetta su quel golfo: “Un tempo era necessario attraversare la hall di un albergo, dichiarate le vostre intenzioni, vi dovrebbero lasciar passare.”. Raggiunta la meta ci troviamo di fronte a una fortezza del turismo. Guardiole e strade sbarrate non ci permettono nemmeno di avvicinarci alla costa. La nostra indignazione porta con sé la riflessione sul senso della scelta della privatizzazione di porzioni così ampie di parchi naturali. Ci sarebbe piaciuto osservare da vicino il celeberrimo faro che ospitò la prima farista donna d’Italia, colei che non abbandonò la sua guardia nemmeno quando le fiamme dei roghi bussavano alla sua porta.

Proseguiamo verso est, ad ogni curva la mia compagna di viaggio chiede di fermarsi a godere della vista del capolavoro naturale che ci circonda. Ogni scorcio sembra dipinto: la macchia mediterranea, il mare azzurro, le bianche scogliere, così distanti, ma magnifiche al pari di quelle rappresentate da Friederich sulle coste del mar Baltico.

Raggiunta Vieste è ormai l’ora del pasto. Non un’anima in giro oltre a noi e un gruppo di turisti tedeschi, ancora così sensibili da fermarsi ad ammirare un fiore, oltre che i volumi del luogo.

L’isola di Sant’Eufemia sembra osservare la città, allargando le sue braccia quasi a difendere maternamente le acque placide della baia cittadina. Ospita gabbiani e un ragazzo che li sfida a gridare più sonoramente di lui: si sentono distintamente le voci dei partecipanti a questa gara anche da terraferma. Il faro li osserva e sorride sornione. Essi offrono l’unica sua compagnia ormai. Non è più rimasto nessuno a presidiare quel monolite, ma esso continua imperterrito a proteggere i naviganti di quei lidi senza rancore nei confronti di chi lo sta piano piano dimenticando. Sperone d’Italia, il Gargano viene considerato un’appendice del grande stivale, quasi fosse stato apposto in un secondo momento. Le fattezze di questa terra sono molto differenti da quelle limitrofe, un mondo a sé stante in cui sono state segregate genti diverse e, come sempre succede, la diversità spaventa, crea ombre enormi anche dietro a innocue foglie.

Attraversato il lago di Lesina e di Varano ci sembra di abbandonare la stessa bellezza che Cristalda fu costretta ad abbandonare quando, rapita dalle braccia di Pizzomunno, venne trascinata in mare.

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84 chilometri 1 faro
MOLISE

Termoli

FARO DI TERMOLI

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Termoli,
CB 42° 0’20.30”N 14°59’48.72”E
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Ore 11, cielo terso, mare calmo. Quasi come un’acropoli, la Termoli storica si impone sul paesaggio circostante. Un’enorme vite di ferro e pietra mi permette di accedere alla sommità del promontorio. Vengo accolto dallo strepitio di un piccolo cantiere. Non conosco la direzione da prendere, mi faccio guidare da fresche brezze che soffiano per stretti vicoli che vanno via via comprimendosi, generando scorci inaspettati e improvvisi.

Esplorando il dedalo, svolto attirato dal rumore del mare, mi trovo di fronte a una giovane torre di luce. L’aspetto di un traliccio confonde la sua natura con quella di una piccola cisterna. Mi avvicino incuriosito alla ricerca del guardiano. Non un’anima all’orizzonte. Una finestra si apre e un’anziana signora si sporge per stendere i panni notandomi. Leggo una curiosità spaesata incrociando il mio sguardo con il suo. “Buongiorno” le dico bonariamente. Mi sorride dolce.

La calma pervade l’aria, il mare e la pietra, tutto tace quasi immobile, oltre che nello spazio, nel tempo. Mi affaccio e perfino ciò che resta dei trabucchi e dei moli pare non voler superare l’attimo che precede la caduta dei propri legni.

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ABRUZZO 167 chilometri 2 fari
Ortona Punta Penna

42°10’24.36”N

14°42’53.47”

FARO DI PUNTA PENNA

Vasto, Chieti, CH

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I cartelli stradali indicano inequivocabilmente Punta Penna, si arriva dall’entroterra provenendo da Sud. Un bianco pennone emerge all’orizzonte prima del resto. Più mi avvicino più sembra alzarsi, quasi come se la forma, esasperatamente rastremata, fosse dovuta alla volontà della torre di toccare la volta celeste.

Non noto subito la grandezza di questa struttura alla base, grossi casermoni la accerchiano e la celano mantenendosi a distanza di sicurezza. Lo scempio perpetrato dall’architettura del cemento non ha davvero conosciuto limite, purtroppo nemmeno la voce di Pasolini sembra essere stata ascoltata in questo luogo.

É quasi ora di pranzo, ma visti i recenti insuccessi decido di tentare ugualmente un approccio. Uno dei faristi è all’interno dell’ampio giardino che circonda l’oggetto della mia curiosità, sta verniciando delle persiane, un grosso cane lo affianca. Noto una sua fugace occhiata al mio indirizzo affacciandomi al cancello, prendo coraggio e tento di attirare la sua attenzione. Odo soltanto la risacca del mare a ogni tentativo e comprendo di essere volutamente ignorato.

A fianco del candido complesso la mia attenzione viene rapita dal rosso dei mattoni, colori di casa per

me emiliano. La piccola Chiesa dedicata alla Vergine è rivolta al mare, eccezionalmente ben conservata, sosta come in attesa che qualcuno la noti. Oltre a me ci sono solo le macchine che sfilano lungo la via. Tento di accedere invano, il portone monumentale rimane serrato e, in combutta con le volte e gli archi del portico, mi spinge oltre, verso il litorale. Punta Penna, nonostante il suo porto, è ancora fortunatamente pervasa di prati e macchia mediterranea. Arrivo all’estremità dell’alta costa e, come è uso nelle escursioni di montagna, appoggio lo zaino, prelevo il pranzo al sacco e mangio in silenzio, in compagnia di ciò che mi circonda.

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FARO DI ORTONA Ortona, CH
42°21’32.76”N 14°24’31.03”E
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Cima di un crinale, poi giù verso il mare. Ortona, dalla falesia su cui sorge, mira vasti orizzonti marini. Il cielo è terso, non una nuvola alla vista, l’acqua e l’aria si fondono in lontananza. Scendo verso il lido in cerca del ciclope e, pensando di poterlo scorgere senza problemi, ipotizzo possa essere imposto al di sopra di qualche struttura balneare. Raggiunto il livello del mare, mi ritrovo disperso tra i capannoni del cantiere: mi circondano e mi confondono. Proseguo incerto fino ad una svolta. Eccolo lì. Netto nel cielo, il Ciclope mi osserva assopito nella luce che permea l’aria. Bianco e nero, fasce che per la prima volta nel mio viaggio scorgo. Parcheggio il mio mezzo di fronte a un bar chiamato “il Faro”, sicuramente avranno informazioni riguardanti l’oggetto della mia curiosità. Ordino un caffè, bevo seduto nella distesa assieme a due signore che parlano di politica con veemenza al limite dell’ira. Tento l’approccio chiedendo l’accendino, il più classico dei modi, mi rispondono molto cortesemente e sorridendomi, ma immediatamente riprendono il loro disquisire. Pagando, l’unica notizia che ricevo è che il faro non è più presidiato.

Mi incammino verso di esso: finestre aperte e porta spalancata. Il dubbio si insinua nella mia testa. Come sono distanti certe cose, così a portata di mano, dagli occhi di chi le osserva tutti i giorni. Appaiono come sempre sono state viste, non ci si pone più domande a riguardo. Esistono come sono sempre state, né più né meno. Il coraggio non mi assiste, non mi pare l’orario per disturbare chicchessia.

Perlustro l’area: una manciata di bagnanti, un edificio abbandonato le cui finestre incorniciano dettagli della torre di luce, la spiaggia di sassi, una fortezza che osserva, una bella pista ciclabile di recente fattura. Infine, su una fila di scogli, un giovane pescatore.

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MARCHE 184 chilometri 6 fari

Ancona

Pedaso

San Benedetto del Tronto

Senigallia Fano Monte San Bartolo

42°57’9.32”N

13°53’9.99”E

FARO DI SAN BENEDETTO DEL TRONTO

San Benedetto del Tronto, AP

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Aggirandomi per le vie che segnano prima Porto d’Ascoli, poi la vicina San Benedetto del Tronto, rimango confuso. Enormi hotel limitano la vista, la strada lungomare è curata, ma da essa non si vede il mare, nascosto da innumerevoli chalet. Come mai la bellezza del mare deve essere percepita solo da chi ha la facoltà di permettersi la stanza più alta?

Superato l’intrico di strade e stradine tutte parallele, raggiungo il luogo in cui il GPS mi ha condotto. Scendo dall’automobile, senza realizzare di essere già al cospetto di quel che andavo cercando. Al di sopra della mia testa è lì che mi osserva. Mi stupisco della sua lontananza dalla riva, probabilmente la sconsideratezza umana è riuscita perfino a spostare un luogo da sé stesso. Non più pronto a stagliarsi nel cielo, ora questo gigante si confonde alle spalle della foresta di pennoni delle innumerevoli navi presenti nel porto. Avviandomi verso il lido, mi rendo conto di quanto la città sia avanzata anche verso il mare: un lungo molo costellato di sculture e dipinti si spinge verso l’orizzonte.

Il sole iniza a tuffarsi nella pianura marina, e per la prima volta riesco a pernottare in una località che ospita una casa della luce. Mi porto ai suoi piedi

e vedo i fasci determinati dalla lanterna che ne definiscono la propria caratteristica. Dalla distanza si vedono unicamente lampi di luce, al cospetto di questi monoliti, contrariamente, si possono vedere le lame che sono spesso rappresentate nelle illustrazioni.

Mi spingo verso Grottammare su consiglio di chi questo luogo lo conosce bene. Il borgo, così curato e così autentico, mostra la sua storia su ogni angolo e su ogni pietra. Decido di mangiare qualcosa nella piccola piazza, i sapori di questo luogo saziano il mio stomaco e il mio spirito. Un portico al di sotto di insegne sistine è la scena di una battaglia tra innamorati deturpatori e indignati contemplatori. Un cartello recita:

“Siete pregati di non esternare la vostra coglionaggine spacciandola per amore deturpando ciò che ha resistito per secoli prima dell’arrivo di alcuni selvaggi”.

Scendendo verso valle, il lampo del faro, immerso nella città, si contende il paesaggio con un’enorme luna che posa il suo riflesso sul velo del mare.

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13°50’42.38”E

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FARO DI PEDASO Pedaso, FM
43° 5’28.12”N
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Caldo da schiantare, cielo segnato quasi da nessuna nube. L’assistente digitale mi consegna a una piccola strada che, inerpicandosi, abbandona la statale. Dead end penso. Scendo dal veicolo e il faro che andavo cercando si mostra tra le frasche a insolita bassezza. Mi dirigo verso di esso incuriosito.

Osservandolo a metà del suo fusto, capisco che pone le sue radici più in basso. La ricerca di un ingresso accessibile non porta ad alcun frutto.

Rammaricato, scorgo operai intenti ad effettuare interventi di manutenzione, medici curanti di un entità che non sembra nemmeno appartenere a questo luogo.

L’unica via per poterlo osservare sembra essere quella dalla sommità della collina che si pronuncia verso l’entroterra. Una scala pensata per giganti dà il via a un sentiero che si inoltra nella selva attraversando frutteti e orti. Proseguo lungo le recinzioni di un giardino, felice di avere finalmente l’obbligo di muovermi sulle mie gambe e non più sulle ruote. Girato l’angolo, numerosi latrati raggiungono il mio orecchio spaventandomi a morte. Quattro cani difendono, con la propria voce, un passaggio che pare essere pubblico. Spronato dallo spavento decido di proseguire.

Passo dopo passo, la natura muta: gli steli che si disponevano dignitosamente ai lati del sentiero, presi d’audacia, iniziano a lanciarsi varso le mie gambe. Abituato a camminare in montagna, non mi stupisco poichè risulta normale camminare accarezzati sugli stinchi dalla natura, talvolta. D’un tratto, ho l’impressione di percepire un respiro bestiale nel sottobosco. Mi volto, nessun movimento. Cercando di non spaventare chi mi accompagna evito di menzionare l’accaduto. Spingendo i piedi sempre più innanzi questi inziano a sparire: gli steli ormai ricoprono inesorabilmente tutto. Di nuovo mi sembra di udire un ansito tra le frasche. Ormai inquieto, decido che non è più il caso di proseguire oltre. Propongo di tornare verso il basso, confessando solo all’arrivo alla macchina della sensazione di una presenza osservante. Comprendo di non essere stato l’unico a udirla.

Raggiunta la riva, la torre di luce si mostra nella sua interezza, fiera e candida. Ripensando all’accaduto dell’ascesa, ho l’impressione che questo ciclope fosse complice di chi ci ha intimato di non proseguire oltre, la sua volontà era di mostrarsi unicamente dal suo lato migliore.

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43°37’22.16”N 13°30’56.71”E

FARI DI ANCONA

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Ancona, AN
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Per arrivare al Parco del Cardeto anconese è necessario attraversare la città. Passando per un’infinità di sensi e controsensi si evidenzia quanto poco sia sostenibile pensare di rimpire le città storiche di autoveicoli con questa sconsideratezza. L’aspetto pulito e curato dei suoi prospetti viene deturpato in maniera indistinta. Come sarebbe bello se, per anche solo un giorno, le macchine non potessero aggirarsi per le città. Che aspetto assumerebbero, allora, le costruzioni potendole vedere dai loro piedi ai loro colmi?

Ancona perde la sua immagine di grande città salendo i pendii di quella lingua di Conero che raggiunge la baia cittadina. Sembra di ritrovarsi in un borgo collinare: poche persone, case antiche, vegetazione e qualche animale che sifda gli ardenti terreni. Il parco ha il suo ingresso dal basso e la sommità va raggiunta tramite il più antico dei mezzi di locomozione: i piedi.

Aspettandomi di trovare l’apice della bellezza cittadina sul suo culmine, rimango sgomento. Il luogo, che permette di ammirare la maestosità della città di Ancona, si mostra affastellato di edifici fatiscenti e in preda all’abbandono. Luoghi che potrebbero rappresentare il massimo splendore

di questa città sono stati riconquistati dalla natura che impera su di essi come una guardiana che non transige sull’accesso di alcun essere libero di vagare.

Raggiunto l’altopiano, cartelli gialli, recanti scritte di divieto, impediscono l’ingresso alle poche strutture che ancora ricevono la cura della manutenzione.

Così, giovane e breve, si eleva il ciclope di questo luogo, quasi adolescente imberbe affiancato al padre segnato dalle rughe sul volto. Si confronta con il ricordo eretto della vecchia torre che ospitava la lanterna antica, più pronunciata verso il mare. Mi sento in un Grand Tour percorrendo luoghi dimenticati di una vetusta città, allo stesso modo di coloro che nell’800 potevano perlustrare Roma nella libera fruizione di spazi mutati dall’incuria e dell’appropriazione impropria dei monumenti imperiali.

Un sentimento di romantico sublime mi rapisce sentendo le grida dei bambini che giocano nell’abbraccio delle rovine. Infine, una seduta solitaria si volge verso il porto: sembra rammaricata di poter mirare il futuro con alle spalle il puro abbandono della memoria.

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43°43’11.75”N

13°13’15.04”E

FARO DI SENIGALLIA

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Senigallia, AN
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Superato il capoluogo regionale, procedo verso Senigallia, città di cui, nella fretta, non ho la possibilità di fare esperienza, dirigendomi speditamente al litorale. Una morbida sabbia accoglie il peso dei miei passi mentre, incredulo, mi dirigo verso un edificio che non ha l’aspetto di quel che cerco. D’un tratto eccolo lì, un riflesso rivela che la direzione che ho intrapreso è corretta. La forma squadrata cela la sua sommità, il più particolare dei fari che ho incontrato finora è sul mio cammino.

Duro, netto e striato, il segnalamento luminoso di questo luogo tiene testa alla vastità del mare. La peculiarità che più mi attira è il fatto che a fronteggiarsi con esso non siano tanto gli altri edifici, quanto più le sue porzioni che digradano verso il vicinato. Ospita uffici d’ogni genere legati alle associazioni che si occupano delle questioni di mare. Osservandolo dal canale, diventa un tutt’uno con l’acqua fluente che raggiunge la sua ambita destinazione.

Mi dirigo verso l’estremità del molo, osservo come le sue striature lo evidenzino rispetto agli imponenti edifici d’intorno. Essi ne diventano sudditi governati dalla lanterna, questa appare come una corona visibile solo

in lontananza. Quasi fosse un re vicino ai suoi vassalli, il ciclope, si mostra come uno degli elementi che li accompagna nella quotidianità sulla terra ferma, ma che, se osservato dalla distanza, emana una propria luce piena di grazia e il proprio potere regnante e salvifico.

L’aria sa di estate entrante e i bagnanti, che percorrono il bagnasciuga, hanno lo stesso aspetto di quelli che scorgevo da bambino frequentando i lidi romagnoli: sento che mi sto avvicinando a casa.

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PU 43°51’3.77”N 13° 0’55.46”E
FARO DI FANO Fano,
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L’obiettivo dei fari è quello di essere visti dal mare aperto tanto nelle oscure notti quanto nei luminosi giorni, di certo, però, non da terra. Il ciclope di Fano sembra aver compreso quest’aspetto del suo ruolo, concentrando i suoi sforzi unicamente sui fronti rivolti verso l’acqua.

Sul lato terrestre il faro si mostra come un normale edificio in mattoni faccia vista, quasi fosse una torre o un campanile privato della sua voce. Come il suo più prossimo parente si rivela un regolare poligono a base quadrata; gli alloggi reverenti dei faristi non lo sfidano, si prostrano ai suoi piedi. Oggi ospitano la guardia costiera della città: “un altro luogo in cui un ciclope è scampato al totale abbandono, per fortuna” - penso.

Mi sporgo all’ingresso. L’infilata di cancello e porta inquadra un piccolo oblò che proietta il monolite direttamente in mare; quasi stesse navigando, riacquisice il suo valore, nonostante le navi ancorate lo separino dallo sfiorare il velo d’acqua.

Aggirandomi per il porto percepisco come nessuno ormai più lo noti. I passanti lo evitano, non desta alcuna attenzione a chi sfila lungo i suoi fianchi. Vedo la sua orbita farsi docile mentre

le imbarcazioni lo lambiscono nel canale e, quasi fosse un antico inutile orpello, tutti lo ignorano. Differentemente da altri fari, vedo come questo stringa i denti per mantenere la sua funzione attiva, nonostante perfino il portastendardi sul suo ingresso ora non ospiti altro che il ricordo di un elemento un tempo essenziale.

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43°55’23.44”N

12°52’54.46”E

FARO DI MONTE SAN BARTOLO

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Pesaro, PU
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Verso l’ora del tramonto raggiungo Piombino. Uno dei monti di questa città pare ospiti un faro. Conoscendo l’andamento delle coste e dei monti di questa parte dell’Adriatico, reputo particolare affidare a un monte l’ospitare un segnalamento marittimo vista la sua distanza. Seguo il navigatore digitale attraverso la città e, d’improvviso, la abbandono ritrovandomi in un bosco su una piccola strada che dolcemente si inerpica lungo la salita. Tolto qualche placido passeggiatore, sembra che la mia unica compagnia possa essere fatta di elfi e folletti.

L’ora d’oro infonde al luogo un’aura magica e incantata. Rallento il veicolo per sentire il frinire delle cicale che suonano a concerto indisturbate. Lungo il percorso scorgo qualche antica villa derivata da fortificazioni ingentilite, fino a che la vegetazione si infittisce. Il sentimento di smarrimento viene sconfitto unicamente dalla bellezza dell’aria permeata di magia, e, quasi una fata mi stesse mostrando la via, proseguo.

Raggiunto finalmente il faro, lo ritrovo fortificato sopra terrazzamenti e recinzioni che nulla hanno a che vedere con la tranquillità di questo luogo ameno. Trovato uno spiazzo per lasciare

il veicolo al meritato riposo, mi incammino per valutare come io possa avvicinarmi di persona alla fonte della luce per poter porgere i miei ossequi.

Non un’anima alla vista, il ciclope pare ignorarmi. Cerco di scorgere qualcosa oltre le foglie: nulla. Mi rendo conto che per la prima volta dall’inizio del mio viaggio, mi ritrovo al cospetto di una casa di luce senza poter scorgere il mare in alcun modo. La situazione mi lascia sconcertato e pieno di interrogativi. Proseguo lungo la via per cercare l’azzurro increspato, ma trovo unicamente altri filari di vite.

Con il rammarico dentro di me mi allontano da questo luogo con la sensazione di non aver ancora pienamente compreso l’essenza e il senso di queste sacre torri che, ad ogni occasione, si mostrano in modo unico e differente da tutti i propri simili.

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EMILIA ROMAGNA

481 chilometri 3 fari
Rimini Marina di Ravenna Goro

44° 4’26.72”N

12°34’26.21”E

FARO DI RIMINI

Rimini, RI

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Darsena di Rimini, luogo in cui mare e terra riescono a unirsi dolcemente. C’è fervore nell’aria, diverse chiatte nel canale sono all’opera. Dai loro motori, pennacchi di nero fumo rovinano l’atmosfera e appestano l’aria; decido quindi di dirigermi più velocemente verso la mia meta.

Il ciclope riminese si presenta con una forma inaspettata: un volume a base quadrata con angoli tagliati, finemente decorato sulla sommità e posto su un alto podio balaustrato. Gli alloggi dei faristi si affiancano timidamente su un lato nascosti dai tigli di un piccolo giardino. Il complesso è isolato, incastrato tra il canale e la strada, è candido sopra a ogni edificio vicino. Mi allontano da esso e noto come questo candore sia la sua qualità più evidente, poichè la sua mole e la sua statura non possono nulla a confronto con i palazzi che lo circondano. Prepotentemente si ergono per concedere l’illusione del mare agli ospiti delle loro stanze, stipati come barattoli impilati, si riversano d’insieme su spiagge di cui non si può nemmeno scorgere la sabbia dalla moltitudine di piedi che la calpesta. Per mia fortuna, quel periodo è ancora lontano e oggi posso vedere numerosi anziani che pedalano sulle loro

biciclette per andare a stendersi sulle dure rocce dei moli più pronunciati verso il mare. Hanno tutti lo stesso aspetto spensierato: chi seduto, chi sdraiato, qualcuno che riposa, qualcuno che legge il giornale. Sotto lo sguardo di un’avanguardia del ciclope, si godono il riposo in quieta solitudine. Il rosso fanale osserva le loro rosse pelli, coperte, in parte, dai loro rossi costumi.

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44°29’31.14”N

12°17’2.87”E

FARO DI MARINA DI RAVENNA

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Marina di Ravenna, Ravenna, RA
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Lunghi campi e folte pinete mi accolgono a Marina di Ravenna. La città all’ora di pranzo si mostra deserta e, raggiunta la mia destinazione, trovo la torre di luce avvolta da impalcature e teli. Sono felice che venga fatta della manutenzione, ma allo stesso tempo rammaricato di trovare il ciclope assopito in una crisalide. I rossi alloggi alla base sbucano al di fuori dall’involucro, hanno l’aspetto curato e sono ingentiliti da decorazioni.

Girando attorno alla torre, mi porto verso il lato che fronteggia il mare e un azzurro avancorpo si pronuncia al di fuori dei volumi. L’accostamento di questi elementi risulta particolare. Percorro il molo e dalla distanza scorgo la lanterna, libera, per potere sfruttare il potere del ciclope, spunta come un grazioso copricapo. La banchina di cemento è lunga e ha un che di metafisico così deserta e regolare.

Cercando una piadineria, mi ritrovo verso la parte più interna della città. Siamo solo io, la gentile proprietaria e il figlio piccolo a casa da scuola. Crudo e squacquerone è la scelta migliore se non si è assaporato il gusto di questa pietanza per lungo tempo. Mi ritrovo lì solo, l’unica compagnia presente ai tavoli è quella dei passerotti a cui la signora getta

affettuosamente le briciole. Quasi avessi pranzato realmente con loro, terminato il mio pasto, mi alzo e riparto in automobile insieme al volo dei piccoli pennuti che si dirigono verso i loro nidi.

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44°47’28.31”N

12°23’47.05”E

FARO DI GORO

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Isola dell’Amore, Goro, FE
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La foce del Po porta con sé un intrico di canali che si ramificano come i capillari che si diramano dalla vena principale. Con essi, le strade si aprono a ventaglio cercando di assecondarli e, alle volte, attraversarli con improbabili ponti composti di barche in cemento in grado di gestire maree risalenti e piene del fiume. Fiumi d’inchiostro e pellicole intere sono state spese per descrivere l’essenza della vita che scorre lenta lungo queste rive; ha il sapore del passato ancora oggi attraversarle nella loro quiete.

Il piacere di scendere il fiume verso il mare in questo parco è così forte da farmi spegnere la musica, compagna di viaggio costante in questo lungo peregrinare. Il tutto è immobile, solo il vento conserva il diritto di spostare le spighe. Casolari in rovina costellano i chilometri che percorro senza scorgere anima viva. Questo luogo mi ricorda quante voci può avere il silenzio: il frinire degli insetti, il sentore dell’acqua che scorre placida e il battito delle ali di un airone.

Avanzando, un unico oggetto si staglia sul panorama verde: bianco e austero, ha l’aspetto del guardiano che è, con la sua fissitudine consapevole.

Il Ciclope di Goro vede il mare e percepisce ciò che si pone alle sue spalle. Il lato veneto del parco ospita il molo da cui una piccola imbarcazione preleva gli

avventori diretti all’isola. Qui incontro Erik Scabbia, gestore dell’attività del faro e di questa porzione di spiaggia. Parlata e fierezza di un bolognese emigrato in Romagna, estasiato del ritrovato contatto con il mare, ma fedele alle sue radici pedemontane. Mi racconta della vita sull’Isola dell’Amore: calma, andate e ritorni in barca, figli felici di tornare a casa da scuola sapendo la loro destinazione, spazio e vita calibrata dall’andamento del sole. Il governatore dell’isola afferma fieramente: “Se avessi voluto del casino sarei sceso più verso Rimini o Riccione. Io voglio svegliarmi la mattina e avere la libertà di farmi il bagno nudo.” La sua schiettezza mi rivela la bellezza di poter vivere in armonia con il luogo che ospita la vita. Anni di sforzi e sacrificio gli sono serviti per ottenere questo diritto.

Perchè però vivere in pace con la terra dovrebbe richiedere sforzo e non essere naturale?

Questa domanda accompagna il mio tragitto verso la pianura e verso casa.

Il monolite guardiano, spettatore della nostra conversazione, continua ad osservare le acque calme della riviera sempre pronto a segnalare la presenza della terraferma ai naviganti in cerca di conforto durante i loro lunghi viaggi.

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260 chilometri 4 fari
LIGURIA

Genova

Portofino

Framura

Isola del Tino

44°24’16.25”N

8°54’16.21”E

LANTERNA DI GENOVA

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Genova, GE
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Dopo settimane passate sulle coste dormo lontano dal mare. Mi sento inquieto percependo la distanza da esse mentre trascorro la notte nella mia pianura padana. Passata l’oscurità sui placidi campi, parto alla volta della Liguria per vedere uno dei più senili tra i ciclopi: la Lanterna di Genova.

L’autostrada che conduce alla città è segnata da strette curve e restringimenti, del tutto estranea a quelle che ho percorso finora, sa di sentiero di montagna nel suo scorrere tra le dure rocce liguri.

Il porto mi accoglie con un fetore asfissiante: mi chiedo come possano vivere i locali con questi miasmi che invadono i loro polmoni. Fumi e catrami densificano l’aria facendole perdere la nitidezza tipica delle località di mare. Avviandomi verso il monolite, lo vedo già dalla distanza grazie alla sua imponente mole.

Questa casa della luce si erge isolata nel folto di un grande cantiere navale, asserragliata nel tentativo di difendersi da nemici che l’hanno circondata. La piccola altura su cui si posa la protegge dall’invasione. Non riesco ad avvicinarmi; i giorni in cui è concesso onorare il maestro di luce sono condizionati dalle attività commerciali e navali: solo quando il fervore del loro

scontro tenta di interrompersi è possiblie addentrarsi sul campo di battaglia che invade questo lido.

Rammaricato di poter vedere questa lapidea torre solo attraverso lo zoom di una macchina fotografica, mi avvio per proseguire il mio viaggio. Cerco consolazione nel dolce sapore di ciò che mani sapienti hanno imparato a panificare lievemente: la focaccia, così piacevole e saporita. La morbidezza di questo alimento tipico pare contrapporsi al luogo comune che definisce le genti di questo luogo.

Un disegno appeso alla parete del bar raffigura il ciclope e recita parole di Petrarca:

“Genua. Vedrai una città regale, addossata ad una collina alpestre, superba per uomini e per mura, il cui solo aspetto la indica signora del mare”

Tutto ormai sembra unicamente rivolto alle increspature dell’acqua salmastra e decido di ripartire, con la sensazione di non essere stato notato né dalla terra né dagli spiriti che abitano questo luogo.

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44°17’55.19”N

9°13’6.58”E

FARO DI PORTOFINO

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Portofino, GE
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Risalendo la costa ligure da Rapallo ci si trova di fronte a uno dei più bei paesaggi che un luogo così erto possa offrire. Differentemente da altre coste di questa regione, l’attività edilizia qui pare essersi limitata ad abitare e non deturpare le ripide pareti che scendono fino a sfiorare l’acqua salmastra.

Ville maestose e in parte ascose abitano la roccia, arricchendo il verde di tenui gradazioni di colori caldi. Come vorrei abbandonare la macchina e poter percorre queste strade del litorale a passo d’uomo.

Paolo Rumiz ha ragione: i migliori mezzi di trasporto sono la bicicletta e i piedi, qui lo comprendo a pieno. Nulla garantisce la lentezza necessaria a percepire la bellezza dei dettagli come il procedere a quel ritmo.

Seguendo il flusso degli autoveicoli raggiungo

Santa Margherita, il tempo a disposizione non mi permette di avanzare oltre. La penisola che ospita il faro di Portofino si pronuncia a oltranza verso il mare e raggiungerla richiederebbe decine di minuti che non mi sono concessi in questo momento.

Grandi yatch sono ormeggiati nella baia e il benessere è percepibile concretamente in questo litorale. Non mi resta che guardare il ciclope dalla distanza e accontentarmi di questo.

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44°11’58.46”N

9°33’27.83”E

VECCHIO FARO DI FRAMURA

Framura, SP

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C’è chi afferma: “I fari sempre manterranno la loro funzione, non l’hanno mai persa e senz’altro non esisteranno mai fari dismessi”. Mi duole sincerarmi della falsità di queste affermazioni a Framura. Abbandonata l’autostrada, trovo particolare il dover discendere per raggiungere il paese arrivando dall’alto. La baia si mostra autentica e costellata da edifici di differente natura e tempo, quasi una dolce magia abbia permesso a strutture di diversa fattura di convivere con un paesaggio mozzafiato così a picco sul mare. Viene da domandarsi se non ci fosse un luogo meno impervio in cui insediarsi.

La città non offre uno, bensì due fari che furono. Essi riposano ora. La loro orbita, chiusa per sempre, è oggi riadattata a luoghi per vivere e godere della stessa vista che quella pupilla ha osservato per anni.

Il negare questo possibile destino dei fari è forse causato dalla paura che possano chiudersi per sempre tutti gli occhi del mare e dell’oceano?

Dopo aver visitato questo luogo, abbandono la convinzione che la salvezza del valore che i ciclopi conservano sarà salvata esclusivamente dal fanatismo che afferma unicamente il dogma della loro imperitura utilità.

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44° 1’35.53”N

9°50’58.54”E

FARO DI SAN VENERIO

Isola del Tino, Portovenere, SP

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La Spezia, ore 8.30, Comando Marifari. Un nutrito gruppo di persone attende il mezzo che li deve condurre all’inaccessibile baluardo. L’isola del Tino, proprietà dell’illustre corpo della Marina Militare, è un gioiello dei nostri mari: la potenza della terra, la bellezza della flora, la forza della fede, la paura del nemico, la gioia della luce.

Scolpita dalle trasformazioni geologiche, mostra i suoi calcari scistosi se osservata dal largo delle coste, scrutata dal golfo ascende lentamente come un bosco collinare. Questa attitudine ricorda le mura rinascimentali di Lucca e Ferrara. Esse si ergono dolcemente dall’interno dell’urbe accogliendo il verde per precipitare a picco sul loro orlo. Spalle forti pronte a difendere e schiene dolci su cui arrampicarsi.

Un piccolo battello militare, aroma al gasolio, ci scorta a destinazione. Il gruppo è composto da tecnici radio, membri della Sovrintendenza, storici, marinai e da noi giovani studenti. Approdati al molo veniamo accolti dai guardiani dell’isola, personale della marina con il compito di verficare che nessuno sconsiderato si addentri nel fitto del bosco locale o pensi di accendere fuochi su questo cumulo di potenziali torce.

Il comandante Cirami, oggi a capo della

spedizione, sorride come chi, gonfio d’orgoglio, parli delle qualità del proprio figlio. Egli ci guida sul principale sentiero descrivendoci gli edifici, la loro storia e il rapporto con il luogo. Scopriamo che oggi è regno di gabbiani, arcinemici dei marinai, diversi dei quali, portano i segni delle lotte con gli agguerriti pennuti. L’attenzione della guida si sofferma soprattutto su ciò che c’è di militare tra il costruito dell’isola. Tutto appare logoro e sfinito dalla negligenza di cui è vittima. Al termine della salita, il bosco si apre e lentamente iniziamo a scorgere il ciclope di San Venerio che, come un anziano saggio, si è appartato sul luogo più alto del suo eremo. Sorge su una torre di cui non si conosce il periodo di costruzione. Questo, aumentando il mistero, eleva il fascino del luogo. Risaliti lentamente fino ad arrivare alla lanterna, ci addentriamo nell’orbita del gigante fatta di caldo legno e vetri curvi; il sole splende e lo sguardo da quasi cento metri s.l.m. mira vasti orizzonti. Dalla Versilia alle Cinque Terre tutto appare nitido. Sull’isola che ha ospitato il patrono dei faristi, farista egli stesso, vedere ciò che il ciclope vede è una sensazione indescrivibile.

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282 chilometri 4 fari
TOSCANA
Marina di Carra Viareggio Livorno

44° 2’10.71”N

10° 2’12.83”E

FARO DI MARINA DI CARRARA

Marina di Carrara, Carrara, MS

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Quando si scende dalla Liguria alla Toscana si può godere della migliore vista delle Alpi Apuane. Giovani e fiere si ergono, sventrate e profanate dagli avidi scavi; mostrano il loro cuore aperto e pulsante: è così grande che lo si può sempre scorgere. Le vie dell’oro bianco che sgorga quasi liquido dalla sommità segnano inesorabilmente i loro fianchi. Gli scarti di questo scempio riempiono i corsi d’acqua che, ormai bianchi, raggiungono il mare carichi della polvere del marmo rubato dalla sua casa.

A Carrara raggiungo Andrea Polenta, amico, collega e pittore, mi accoglie e mi scorta in ogni luogo. Ho poche parole da spendere sul conto .del ciclope, basti pensare che chi abita in questa città sgrana gli occhi sentendosi dire che il proprio porto ospita una casa della luce. Increduli della scoperta, generalmente, passano in rassegna i propri ricordi in cerca di una flebile immagine per poi rendersi conto che un tempo ne erano consapevoli. Comprendo i motivi di questa perdita della memoria giungendo al porto. Esso ha divorato quasi per intero il faro. Arrivando da terra, non si scorge che la lanterna perdersi tra le strutture del cantiere navale. Dal mare è ben visibile, ma sommessamente cede il posto

alle Apuane che si stagliano sopra la sua testa. Temo che sia questo il rischio che oggi corrono tutti i ciclopi: prima ancora dell’abbandono, l’oblio.

Terminata la triste ricerca, il Polenta mi conduce a vedere i ruscelli bianchi carichi di marmettola, la stessa responsabile del candore delle acque. Questi luoghi vivono da secoli della pregiatezza della propria roccia; in maniera ormai sconsiderata, i cavatori si riempiono le tasche di questo valore. Consapevoli della bellezza che questa pietra può avere, ne hanno le case ricche e a causa della loro cupidigia si sono addentrati così tanto nelle montange da sfigurarle. Concentrati su questo mestiere hanno perso la volontà di rendere giustizia alla loro città e alla preziosa materia. Vengo accompangato al Duomo, costituito dalla preziosa roccia in maniera così assoluta da renderla insignificante. Un oculo sopra l’altare fa filtrare l’eterea consistenza del sole donandole presenza fisica. Resto ammaliato dalla scena. Abitutato a vedere il marmo tirato a lucido, solo qui comprendo la sua origine terrena: graffi e scalpelli l’hanno reso pietra da costruzione, riportato a materia del luogo. Luce e silenzio riprendono possesso della sacralità intangibile racchiusa da ciò che un tempo fu terra.

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43°51’28.68”N

10°14’14.35”E

VECCHIO FARO DI VIAREGGIO

Viareggio, LU

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Abbandonate le pendici delle Apuane, rotolo verso Sud alla volta di Viareggio. Il viale del celebre carnevale si interrompe bruscamente impattando sul canale. La città pare divisa in due mondi distinti. Il primo vede le persone camminare liete, sotto l’occhio vigile della torre dell’orologio. L’impressione è quella di una scenografica città da film western: rettilinea e dinamica sul corso principale, flebile e inconsistente dietro gli edifici che ci si affacciano. Si contrappone a questa prima realtà una seconda al di là del corso d’acqua: un’enorme rimessa di macchine e imbarcazioni, priva di vita.

Il Ciclope antico è al varco: guardiano del passaggio sembra aver perso l’interesse di portare avanti il suo ruolo. Oramai è distante dalla costa. Questa città, come tante altre in questi decenni, avanza sempre più verso il mare. Qui, il pronunciarsi sempre più verso l’acqua ha reso necessaria l’edificazione di un nuovo faro. Si erge in fondo a un molo, giovane alto e snello; ha preso il posto del suo maestro, dimenticandosene. Oggi dà foggia di sé come se fosse stato sempre lì, unico.

La più attempata casa della luce, ormai privata del suo occhio, mantiene ora un’orbita cava e vuota. Ospita, negli alloggi dei faristi, un club nautico

che pare inabitato. Il monolite cerca di curarsi per mantenere il suo aspetto giovanile come chi, ormai troppo anziano, cerca di celare la propria età mostrandosi, con abbondante trucco, nel fiore degli anni e ancora in carriera. Il tentativo di reagire alla sua pensione, mantenendosi in forma, nega il fatto che ormai è arrivato il tempo di rilassarsi e godersi il riposo abbandonando gli abiti da ufficio e le cravatte, riuscendo a trovare gioia in altri panni e in altre attività.

Forse il cielo plumbeo condiziona la mia impressione, ma mi allontano dal decano della luce con la malinconia di aver visto qualcosa che fu illustre e che, non riuscendo a cavalcare il tempo che galoppa inesorabile, è rimasto indietro senza essersene reso conto. “L’orgoglio di un passato di successo ha questo effetto tanto sulle persone quanto sugli edifici” - penso avviandomi verso l’autostrada.

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43°32’37.53”N 10°17’41.71”E

FANALE DEI PISANI

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Livorno, LI
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Livorno, città di porto, proiettata tutta verso il mare. Terrazza Mascagni ospita il momento del mio pranzo che passo in solitudine e senza maglia, baciato dal sole e accarezzato dalla brezza: l’incanto di un luogo pubblico libero, affacciato sulle rive, massima propaggine urbana. Giungo in questo luogo a seguito di vani tentativi di raggiungere il Fanale dei pisani: uno dei fari più antichi d’Italia. Fu ricostruito negli anni ‘50 dopo che i tedeschi lo fecero brillare durante il secondo conflitto mondiale. Intorno a questa vicenda, gravitano le storie che fanno comprendere che l’essere umano è perlopiù incline alla guerra solo finché non conosce il proprio nemico da vicino. Di fatto, il farista di questa casa della luce non rimase coinvolto nell’inaspettata esplosione a seguito dell’ordine, apparentemente privo di motivazione, dell’ufficale tedesco che gli impose di andare in licenza in un preciso giorno. La paura del diverso non ha più valore quando lo si conosce.

Il monolite è circondato dai cantieri navali, come a Genova. L’assurdità di queste scelte mi lascia attonito: questo guardiano guida i marinai da più di 700 anni, potrebbe essere ragione di vanto in tutto il Mediterraneo. L’unico ringraziamento che gli viene porto è quello di essere lasciato indisturbato. In cuor mio, non credo sia il suo volere: da sempre al servizio delle genti, negargli il contatto con esse sa più di condanna che di premio.

Ho appuntamento allo yacht club con uno dei più

illustri tra i faristi del Tirreno: Renzo Fiorenti, ultimo guardiano del faro di San Venerio. Mi accoglie con pacata gentilezza e, raccontatogli del mio viaggio e delle mie curiosità, mi scorta e introduce a ognuna delle persone che potrebbero dar risposta ai miei dubbi. Percepisco che chiunque lo veda ne sia lieto, disponibile ad aprire ogni porta chiusa. Terminate le visite, ci sediamo a un bar del porto. Noto come il mare segni duramente la pelle di chi vive al suo servizio. Probabilmente è il prezzo da pagare per ciò che può donare. I suoi grandi occhi chiari mi scrutano nel profondo senza giudizio, con comprensione.

Il racconto della vita su un’isola pressoché deserta quasi mi commuove: suona così antica e così pura, in aperta coesione con la natura. Forse che essa non vada domata, ma assecondata per viverci in armonia?

Delle quasi quattro ore passate con Fiorentini potrei scrivere per quattro giorni. Sfide contro il mare in burrasca, incontri con persone e con animali dell’isola, scoperte di reperti antichi, rapporti con i superiori della marina, salvataggi di naufraghi e molto altro ancora. Quello che più mi colpisce è però il rapporto così diretto con la natura.

Una frase mi segna nel profondo:

“Non hai orari, tutto scorre così piacevolmente che ti fermi a vedere sbocciare un fiore.”

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LAZIO 174 chilometri 3 fari
Civitavecchia
Anzio
Fiumicino

42° 5’54.28”N

11°48’59.73”E

FARO DI CIVITAVECCHIA

Civitavecchia, RM

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Un cielo plumbeo mi scorta fino alla successiva tappa parecchi chilometri a Sud. Fatta una piccola pausa a Castiglione, dopo aver goduto della bellezza di quei lidi ancora deserti e privi della vita che di lì a poche settimane li avrebbe travolti, abbandono la Toscana e raggiungo Civitavecchia.

La città pare deserta. Il curato lungomare si mostra ventoso, riluttante alla presenza dei viventi. Edifici di varia natura e tempo compongono il porto e il litorale. Mi paiono tristi e senza vitalità, ma permettono una vista al di là dell’umana frequentazione. È raro poter godere dell’architettura con il solo sottofondo della pioggia e della brezza.

Nonostante i miei passi sospinti per gran lunghezza, neanche l’ombra del ciclope che cerco.

Decido di avvalermi nuovamente degli strumenti digitali, gli stessi che in parte stanno togliendo vita ai monolitici guardiani della vita del mare. Comprendo di essere ancora ben distante dalla meta. Mi stupisco di come però non risulti visibile dalla costa.

La pioggia inizia a scendere copiosa. Le macchine, affastellate lungo la strada, mobili o parcheggiate lungo la via, rallentano il mio vagare. La distanza che intercorre

tra la battigia e il suolo su cui poggia il faro scuote i miei pensieri. Esso si trova in alto, sulle colline alle spalle della città. Erigendosi su un bugnato rustico dalle forme tondeggianti, riacquista la sua vitalità, orgoglioso della posizione sopraelevata. Pare ambire alla guida anche di chi si muove per terra, oltre che per mare. L’essere circondato da una corte di pini marittimi composti ed ordinati rimarca la sua simmetria quasi barocca. Tentando l’approccio, vengo respinto dall’indifferenza di chi svolge un compito prestigioso anche quando pare a riposo, quasi fosse il ministro di queste terre. Il campanello suona, nessuno risponde; per coloro che dedicano la veglia notturna al lavoro, il riposo risulta ancora più sacro.

Decido di tornare verso il mare, lasciarlo quieto sui monti da cui mira la vastità degli orizzonti marittimi e terrestri.

Comprendo, non trovando rivali alla sua altezza rotolando le gomme verso Sud, che il potere di questo gigante è tale da essere il padrone indiscusso delle terre fino almeno a Fiumicino.

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41°44’39.36”N

12°13’22.68”E

VECCHIO FARO DI FIUMICINO

Fiumicino, RM

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Partendo con calma da Roma, per evitare gli ingorghi mattutini, arriviamo a Fiumicino verso le 11. Le indicazioni segnano la direzione del vecchio faro e, seguendole, la strada diventa sempre più dissestata e gli edifici più fatiscenti. Arrivare al cospetto di quello che un tempo fu il guardiano di questo luogo significa seguire la desolazione crescente: spaccature, macerie e ruggine. Incredibilmente all’estremità del molo, protetta da alte banchine in cemento, troviamo vita: gente indaffarata su piccole imbarcazioni, qualche famiglia con il passeggino e gli avventori di un bar. Io e chi mi accompagna ci sentiamo un po’ osservati, forse il fatto di essere overdressed ci segnala in un luogo di lavoro incatramato.

Le mura che difendono la casa di luce privata della sua lanterna cascano ormai a pezzi, vien voglia di superarle con un balzo non fosse per i ferri arrugginiti che difendono il piazzale antistante. In lontananza vediamo una macchina della vigilanza aperta senza la sua guardia. Questo statico relitto viene ancora stranamente presidiato senza avere più un ruolo. Nel suo attuale stato sembra essersi assopito per sempre, voltando le spalle alla terra come se il suo ultimo battito di ciglia fosse stato fatto guardando, per un’ultima volta, il mare.

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41°26’45.03”N

12°37’18.38”E

FARO DI ANZIO

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Anzio, RM
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Ultimati 70 chilometri di costa tra le pinete, nella lentezza del traffico dell’ora di pranzo raggiungiamo Anzio. Il sole caldo sulle nostre teste non ci da tregua, per cui optiamo per pranzare. Su una piccola terrazza ci troviamo a pasteggiare al fianco di una nutrita schiera di veraci signore riunitesi per festeggiare un addio al nubilato. Prese da irrefrenabile euforia, trasformano la sala in un campo di battaglia: discutendo e urlando tra di loro con toni e gesti da fiera, decidono di muover guerra ai camerieri per la lunga attesa. Il personale stizzito le accontenta in ogni richiesta. Domata la fame, ampliano il loro dominio finendo perfino al tavolo con noi. I bambini, lasciati liberi, corrono in spiaggia fino al punto di essere ripresi dai gestori della stessa che, così facendo, si tirano addosso l’ira funesta delle signore. Come ci si poteva aspettare, dopo aver mosso la terza battaglia contro ignoti malcapitati, capiamo che sono arrivate alle mani. Il nostro pranzo, diventato un allenamento di pazienza, a questo punto si conclude.

La quiete che la spiaggia ci mostra penso risulti esaltata da questi episodi. La battigia piena di bagnanti stesi li vede armati di ombrelloni, ma la cosa più stupefacente è chi l’ombra la ottiene al di sotto di piccole

volte di epoca romana che affondano i loro sostegni nella sabbia. Muovendo lo sguardo ci accorgiamo di quanto siano estese, quasi fosse una scenografia: le pietre squadrate di queste antiche strutture sembrano giocare a rincorrersi con le falesie della stessa materia. Lo spettacolo incanta, il mare accompagna il vociare lieto di chi si gode questo momento.

Al di sopra di tutto ciò, eccolo spuntare: il faro. Ha l’aspetto di un maestro che osserva i propri allievi giocare in cortile. Pare sorridere. Una scala, purtroppo sbarrata, sale verso di lui attraversando una folta schiera di piante grasse. In questo luogo ameno, nessun rivale prova a ergersi più in alto, la reverenza di edifici e persone sembra palpabile di fronte a questo saggio.

Ripartiamo da questo luogo e, con la calma nel cuore, decido che il mio viaggio termina lì, ad Anzio, dove le schiume del mare lambiscono e inghiottono resti antichi sotto l’occhio vigile di quel bianco ciclope.

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PENSIERI IN CALCE

La bellezza di questo mondo costellato da innumerevoli realtà non credo possa essere descrivibile a pieno con le parole. Ciò che ho vissuto mi è apparso un po’ più chiaro a ogni resoconto raccontato. Il ricordo narrato mi ha regalato un passo in più, ogni volta, verso la comprensione di quello di cui ho fatto esperienza, non avendo mai avuto prima la possibilità di sostare a lungo in questi luoghi straordinari. Credo che ognuno di questi ciclopi mi abbia dato la possibilità di capire quanto l’architettura sia foriera tanto delle cose tangibili, quanto di quelle impalpabili. Osservare queste torri fa riflettere più sui rapporti che esse instaurano con le persone e la natura che le circonda, che sulle pietre che le sorreggono. Come può l’uomo essere in grado di realizzare qualcosa che raggiunge una comprensione perfino maggiore della propria? La chiave per salvare quest’essenza penso debba essere rendersi conto di questo valore. Purtroppo, sembra che in questo periodo storico il valore intangibile della materia non sia più contemplato a sufficienza e i risultati sono atroci.

La luce dei fari è ancora pronta a guidarci, anche in questo viaggio, dobbiamo solo riacquisire la percettività necessaria a scorgerla, non per mero conservatorismo dei monumenti, ma per riacquisire l’inderogabile sensibilità nel costruire luoghi e rapporti che ormai sembra perduta.

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FONTI ICONOGRAFICHE Nostalgia dell’infinito, Giorgio de Chirico, 1911 Chalk Cliffs at Ruegen, Caspar David Friedrich, 1825-26 Permaquid Lighthouse, Edward Hopper, 1929 Les Bagnantes, Pablo Picasso, 1926 Lighthouse hill, Edward Hopper, 1927 A View of the Harbour at Genoa, Claude Joseph Vernet, 1773 Highland Lighthouse, Edward Hopper, 1930 Tutte le fotografie sono state scattate da Alberto Procaccini. 17 47 85 101 113 145 189

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