America Latina
Raffaele Crocco
Un continente che cresce con la Cina e Bolivar Bisogna ammettere che un piccolo brivido è corso lungo la schiena. La notizia del tentato golpe in Ecuador, il 30 settembre del 2010, ha portato per qualche ora indietro orologi e calendari, facendoci ripiombare negli anni in cui la democrazia era un frutto proibito a Sud del Texas. Qualche ora, tutto è durato solo qualche ora. Il Presidente dell’Ecuador, Rafael Correa, ha respinto il tentativo di colpo di mano messo in piedi da parte dell’opposizione e dalla Polizia. L’esercito è rimasto fedele al Capo dello Stato, così come il Parlamento e tutto è rientrato. Segno che il cammino del Sud America, dopo i lunghi decenni delle dittature, è tracciato ed è chiaro, condiviso, forte. Il laboratorio Latino Americano funziona, magari con qualche contraddizione, con passaggi più o meno a vuoto, ma va avanti. In Brasile le elezioni del post Lula hanno dimostrato che la semina c’è stata ed è stata positiva, che il Brasile può e vuole essere democratico, tentando di mettere fine alla miseria senza impaurire imprenditori e conservatori. Argentina e Cile stanno uscendo
dalle rispettive crisi economiche e in Venezuela l’inarrestabile Chavez ha subito il primo ridimensionamento elettorale, cosa probabilmente utile alla democrazia del Paese. Le novità vere, però, nel 2010 sono arrivate dal “cambiamento internazionale” del continente, che ha deciso di non essere più il “giardino di casa” degli Stati Uniti. Colombia a parte - unico Paese rimasto legato agli Usa - il Sud America si è affrancato e il fenomeno pare irreversibile. I segnali sono precisi. Proviamo a leggerli. Partiamo da un numero: 400. Tanti sono gli accordi commerciali sottoscritti da Paesi del Sud America con la Cina negli ultimi tempi. Un numero altissimo, che da un lato porta a rapporti privilegiati fra i due mondi, dall’altro rappresenta una vera e propria sfida lanciata da Pechino a Washington, che sull’area vorrebbe mantenere il controllo. La Cina cresce in modo vertiginoso, ha bisogno di risorse e ha fame, perché un miliardo e duecentomilioni di bocche affamate sono difficili da accontentare. Il Sud America ha prodotti agricoli e petrolio, minerali, tutte cose che servono. Così, ora, il 3.8% di tutte le importazioni cinesi provengono proprio dal Sud America, con il picco del 13.1% delle importazioni di materie prime. Brasile, Messico, Cile, Argentina e Venezuela sono i principali partner commerciali della Cina, che è al terzo posto tra i clienti mondiali del Brasile e al quarto tra quelli dell’Argentina. L’economia, quindi, spinge il cambiamento, porta allo spostamento dell’asse nei rapporti internazionali. Sul piano della politica, invece, sono Venezuela, Bolivia ed Ecuador a tracciare la rotta, cioè i tre Paesi che più di altri si riconoscono nel progetto Bolivariano di un Sud America unito. Tutti naturalmente giocano la carta del controllo delle risorse, che sono tante, soprattutto se si parla di petrolio. Chavez, dal Venezuela, dice chiaramente di voler ridistribuire i proventi della vendita del petrolio. Il suo Paese è il più grande produttore del Sud America, con 87miliardi di barili l’anno dei 117miliardi prodotti dall’intero continente. I soldi che vengo dai pozzi, dice, non devono andare nelle tasche dei petrolieri nord americani, ma devono sollevare dalla miseria i venezuelani. La contraddizione di tutto questo è nel fatto che il petrolio venezuelano finisce ancora negli Stati Uniti, che sono il miglior cliente del Paese. Lui tira diritto e spaventa Washington. La sua idea - datata 2006 - di farsi pagare il petrolio in Euro e non più in dollari ha creato il panico negli Usa, dato che il cambio fra la moneta statunitense e quella europea è del tutto sfavorevole alla prima.