Azione 11 del 13 marzo 2023

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edizione

MONDO MIGROS

Pagine 4 – 5

SOCIETÀ

Jacinda Ardern e il fenomeno delle donne che abbandonano posti di potere per dedicarsi ad altro

Pagina 3

pagina 2

Lo spazio notturno per i fotografi è un variegato mosaico di picchi di luce, zone in penombra e oscurità

TEMPO LIBERO Pagina 13

La partita Cina-USA ora si gioca soprattutto sul fronte commerciale, finanziario e tecnologico

ATTUALITÀ Pagina 29

Il futuro delle energie rinnovabili

Prima che se ne accorgano le zanzare

Quando ero piccolo e andavo in vacanza dai miei nonni materni, ricordo che il terreno attorno alla loro casa era disseminato di secchi e catini. Erano contadini e vivevano nel villaggio di Visciano, in una zona dello Stivale soggetta a furiose ondate di calore estivo e a sistematiche disfunzioni del servizio idrico. Ogni goccia raccolta dal cielo era una benedizione. Mi chiedo se oggi, in pieno preallarme siccità anche in Ticino, la strategia dei contenitori nel giardino o in terrazza sia proponibile o non vada a confliggere con le disposizioni «di guerra» contro la zanzara tigre, che ci impongono di far sparire qualsiasi recipiente a cielo aperto, per evitare il proliferare dell’inquietante insetto. Ma è solo un problema teorico; che vada a beneficio della terra o delle zanzare, l’acqua per ora resta su in cielo.

Il vero problema è che non viviamo nei deser-

ti subsahariani o in zone da geografia infernale dantesca, ma in Svizzera, uno dei Paesi più irrorati del mondo. E i nostri giardinetti sono giallo ocra, basta un fiammifero per far avvampare i boschi, la neve non s’è vista, negli orti non spunta nulla e i laghi sono sottolivello. Giove, dio pluvio – vedendo il modo in cui l’uomo bistratta se stesso e la natura – ha deciso di non darci più pioggia. Dobbiamo avere la dignità di non lamentarci a voce troppo alta perché milioni di persone nel Corno d’Africa rischiano una nuova carestia a causa di una siccità più grave di quella del 2011 che uccise oltre 260mila persone. Ma cerchiamo almeno di non fingere stupore. Di stagione in stagione, mentre l’allarme del surriscaldamento globale si ingigantisce e i rapporti degli esperti dipingono futuri sempre più apocalittici, i decisori globali si riuniscono serissimi e preoccupati per poi decidere, coster-

natissimi, di non decidere. Qualche mese fa alla COP27 di Sharm el Sheik, i leader mondiali hanno scaldato le rispettive poltrone discettando a lungo sulle soluzioni per combattere il riscaldamento climatico, ma senza trovare un accordo sulla riduzione delle emissioni o sulla graduale uscita dalle fonti fossili.

Così, in previsione di un’estate torrida (e, di controcanto, di un autunno a rischio alluvioni), invece di sperare in provvidenziali soluzioni dall’alto dobbiamo aggrapparci alle ricette faida-te dal basso. Ridevamo, mesi fa, quando la consigliera federale Sommaruga elargiva il provocante suggerimento di fare la doccia in due per ridurre i consumi energetici. Viva il risparmio e viva l’amore. Ma c’è poco da ridere. Secondo l’Ufficio federale per l’ambiente le voci di consumo idrico più importanti nelle economie domestiche sono, nell’ordine: lo scarico del WC

CULTURA Pagina 35

Il MigrosMuseum für Gegenwartskunst di Zurigo dedica una mostra al sodalizio amicale

Roberto Porta Pagina 23

(40 litri pro capite al giorno), il bagno e la doccia (35) e il rubinetto in cucina (22). Consumiamo 300 litri di acqua a testa, contando anche le quote dell’industria e dell’agricoltura. In un anno in Svizzera se ne va quasi la stessa quantità di acqua contenuta nel lago di Bienne. Visto che i potenti non ci mettono una pezza, proviamo a farlo noi (senza smettere di importunarli e ricordandoci delle loro scelte politiche alle urne). Vademecum per capitalizzare l’acqua ne sono stati redatti a bizzeffe. Mi limito a tre consigli banali ma non sempre innocui (soprattutto il secondo).

1. Non lasciamo continuamente aperto il rubinetto mentre laviamo i denti o facciamo la barba. 2. Non alziamoci come dei ladri alle tre di notte per innaffiare il prato, i fiori e/o l’orto di nascosto. 3. E se piove, perché no?, mettiamo fuori un secchio e portiamolo in casa prima che se ne accorgano le zanzare.

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 13 marzo 2023 Cooperativa Migros Ticino
G.A.A. 6592 San t’Antonino
11 ◆ ●
Carlo Silini Keystone

MONDO MIGROS

Nostrani, una risorsa per tutta la regione

Speciale 90esimo ◆ Compie 18 anni la linea di specialità che valorizza la filiera produttiva ticinese, una delle pietre miliari nell’attività della Cooperativa Migros

Ticino

L’attenzione di Migros Ticino per i produttori agricoli della nostra regione è, si può dire, connaturata con la sua esistenza. Scorrendo le pagine dei primissimi numeri del nostro settimanale, che è un archivio prezioso sulle iniziative aziendali, si può notare come l’impegno di sostenere la produzione dei pomodori ticinesi fosse uno degli indirizzi più chiari dell’attività dell’allora «Migros Società Cooperativa». Nel lontano 1938 tale impegno si concentrava anche sulla produzione della lana in Malcantone.

Nata nel 2005, la linea «Nostrani del Ticino» realizza 21 milioni di franchi a sostegno dell’economia locale

«Azione» del 7 ottobre 1938 riporta una statistica in cui si mostra che rispetto ai dati del 1937, la produzione di pomodori nel 1938 era passata da 378’000 kg a 436’000 kg, grazie all’acquisto effettuato da Migros. Il commento: «Nella cifra dei pomodori sono compresi ca. 140’000 kg di pomodori che la Migros Società Cooperativa ha comperato per la spedizione oltre Gottardo. Anche nella cifra delle patate sono compresi ca. 50’000 kg di patate primaticce fatte piantare su iniziativa della Migros e acquistate da quest’ultima». La situazione era stata ripresa anche in una vignetta in cui il simpatico Pedru, mascotte del giornale, mostrava la sua soddisfazione per l’opportunità avuta di vendere i suoi pomodori.

Con il passare degli anni, questo filo di collegamento tra realtà produttiva ticinese e Migros Ticino è andato sempre più rafforzandosi. Il compito della cooperativa è sempre stato quello di valorizzare la filiera «breve» e dare ai produttori locali la possibilità di trovare sul mercato uno smercio ai propri prodotti. In questo senso possiamo dire che Migros Ticino ha rivestito un ruolo che va al di là del semplice lavoro di dettagliante, ma si è resa promotrice e sostenitrice di una catena economica in grado di generare un indotto in tutto il territorio.

Questa vocazione ha trovato uno sbocco concreto nella creazione di un marchio specifico, quello dei prodotti etichettati come «Nostrani del Ticino». Il segno di riconoscimento era stato presentato nel 2005 (ce lo ricorda sempre il nostro settimanale) nel corso di una rassegna eno-gastronomica che si teneva a Mendrisio. La coccarda dei Nostrani, oggi ben nota ai consumatori, andava per la prima volta a segnalare alla clientela una categoria particolare di specialità. In questo modo ne sottolineava i caratteri di qualità e di provenienza, mostrando concretamente un impegno aziendale che col passare del tempo, in anni in cui

il concetto di «produzione a km zero» è diventato non più un semplice slogan, ma linea guida di una produzione alimentare sostenibile e di qualità.

Per capire meglio cosa sono i «Nostrani del Ticino» abbiamo parlato con Daniele Bassetti, Responsabile dipartimento Marketing e Sponsoring e membro della Direzione di Migros Ticino.

Daniele Bassetti, come «si diventa» un «nostrano del Ticino»?

Quello dei «Nostrani del Ticino» è un marchio commerciale indipendente e risponde a delle regole ben chiare che servono per orientare gli acquisti dei consumatori. Sul sito www.nostranidelticino.ch è indica-

to con esattezza il criterio che regola la categoria di prodotti. Si tratta di prodotti regionali autentici iscritti nel marchio nazionale «regio.garantie», che ne attesta la regionalità e la tracciabilità. Regio.garantie è un’associazione svizzera che stabilisce le regole a cui i prodotti devono attenersi per potersene fregiare. Il tutto è sottoposto alla vigilanza dell’istituto Alpinavera, che raggruppa prodotti provenienti da Ticino, Grigioni, Uri e Glarona.

Quali sono i rapporti tra Migros Ticino e i fornitori nell’ideazione delle varie specialità?

La cosa va in due direzioni: da un lato il fornitore stesso può proporre delle sue idee, in molti altri casi

Territorialità e tracciabilità garantite

Tutti i prodotti dei Nostrani del Ticino sono certificati con il marchio di qualità «regio.garantie», che ne attesta la territorialità e tracciabilità. Il marchio è stato lanciato dall’Associazione svizzera dei prodotti regionali, di cui è membro attivo anche l’organizzazione «alpinavera» che applica la garanzia di qualità «regio.garantie» ai prodotti agroalimentari di Ticino, Grigioni, Uri e Glarona. I prodotti certificati «Ticino regio.garantie» devono essere almeno all’80% a base di ingredienti regio -

nali (per quelli non composti al 100%) e la loro produzione deve generare almeno 2/3 del valore aggiunto nella regione di riferimento. Il rispetto delle direttive e il diritto di utilizzare il marchio sono garantiti da un organismo di certificazione esterno e indipendente. Preferire i prodotti a marchio «Ticino regio.garantie» significa non solo mangiare regionale e con gusto, ma anche garantire occupazione sul territorio, ridurre i trasporti e sostenere i produttori tradizionali e innovativi.

è Migros Ticino che, a seconda dei suoi criteri di assortimento, chiede ai produttori di produrre qualcosa di specifico, ad esempio un pane nostrano, con delle caratteristiche particolari. In generale si può dire che si tratti di uno scambio, sempre legato a settori in cui si individua un bisogno del consumatore.

Quanti sono, ad oggi, i «Nostrani del Ticino»?

Sono circa 550: appartengono un po’ a tutte le categorie di prodotti. Tenendo presente che le nostre macrocategorie, sono tre, «food» (che comprende ad esempio pasta, sughi, patatine, ecc. ), «fresco» (tutto quello che si trova nei frigo e ai banchi di vendita) e «near e non food», (tutto ciò che è di complemento agli alimentari), possiamo dire che la gran parte dei nostrani fa parte della categoria «food» e «freschi».

Come evolve negli anni la lista dei Nostrani? Si seguono particolari trend? Ci sono settori che vengono privilegiati?

Diciamo che l’evoluzione segue il normale ciclo di vita dei prodotti.

L’assortimento infatti non è mai statico, ogni prodotto ha una sua nascita, un suo sviluppo e un declino. Questi fattori vanno costantemente monitorati e rivisti. La nostra attenzione è puntata naturalmente sulle tipicità locali, che sono attese dai clienti: si tratta in particolar modo di

frutta, verdura, pasta, nell’ambito dei «freschi». Esistono comunque anche eccezioni dettate dalla domanda del mercato, come ad esempio il tofu ticinese. Altre proposte, come la farina bona, nascono dall’impegno di Migros Ticino di mostrare il suo radicamento nel territorio e di creare un indotto economico nel cantone. Spingendo i prodotti regionali si aiuta il tessuto economico ticinese nel suo insieme.

Avete un modo per misurare l’interesse del pubblico su questa categoria di prodotti?

Esistono vari indicatori: il primo tra tutti è naturalmente il volume di acquisti che passa dalle casse. Qui vediamo una costante crescita di interesse, che si è evidenziata in particolare durante la fase più critica del Covid. La clientela in quel periodo ha acquistato prodotti locali, più genuini, mostrando grande attenzione al tema della sostenibilità. Complessivamente possiamo dire che i Nostrani realizzano una cifra di affari di 21 milioni di franchi; in percentuale equivale al 7,1 del totale della cifra di affari di Migros Ticino.

Quali sono le evoluzioni per il futuro?

Ci sono varie idee su cui stiamo lavorando. Una è il restyling grafico, per rinfrescare il brand dei «Nostrani» con una linea molto più riconoscibile. Il brand rimarrà, ma abbiamo incaricato agenzie grafiche di rinnovare il logo e l’imballaggio dei prodotti. Vogliamo creare una sorta di fil rouge tra i prodotti, che ne renda più semplice la riconoscibilità. In un’altra direzione stiamo valutando come mettere a disposizione questi prodotti anche in altre parti della Svizzera, con l’uso dell’e-commerce. Inoltre vogliamo perfezionare un’offerta già attualmente molto apprezzata, quella che dà la possibilità di comporre un proprio cesto regalo di Nostrani online. È stata un’iniziativa di successo, attivata durante le festività ma che ora vorremmo offrire durante tutto l’anno. Tengo poi a sottolineare un aspetto che rende la linea dei nostrani significativa anche sul piano sociale: tre fondazioni che si occupano di reintegrazione nel mondo del lavoro producono per noi diversi articoli nostrani. Sono la Fondazione S. Gottardo, l’OTAF e La Fondazione la Fonte. Abbiamo poi avviato da tempo una collaborazione con la Fondazione Diamante per la composizione dei cestoni di Nostrani.

In conclusione, annunciamo ai nostri lettori che nel corso delle prossime settimane sono previste varie attività promozionali nelle filiali di Migros Ticino, con molte sorprese e vantaggi speciali. Un modo per dare un segnale concreto del radicamento sul territorio di questa linea di specialità ticinesi.

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 13 marzo 2023 azione – Cooperativa Migros Ticino MONDO MIGROS 2

L’intelligenza di ChatGpt Intervista a Marco Zaffalon, direttore scientifico dell’Istituto Dalle Molle

Trasfusioni programmate Adottare il PBM ottimizza la gestione della risorsa sangue e ne migliora gli esiti clinici

Alla ricerca della causa È insito nella natura umana vivere nel perenne bisogno di individuare le cause di un fenomeno

La voglia di volersi bene Lisa Viviani ci racconta a cuore aperto come ha affrontato e superato l’anoressia nervosa

Le donne e la libertà di dire «non ce la faccio più»

Il caffè delle mamme ◆ Le dimissioni di politiche di potere e l’abbandono del posto di lavoro da parte di lavoratrici che rischiano il burnout sollevano una volta di più la questione della parità di genere

«Mamma! Mamma!», chiama a ripetizione Neve, 3 anni, che vuole la buonanotte e insiste: «Perché ci metti tanto tempo?». È il 10 novembre 2021 e la madre, Jacinda Ardern, primo ministro della Nuova Zelanda, eletta il 19 ottobre 2017 a soli 37 anni e diventata mamma il 21 giugno 2018, è in diretta Facebook per spiegare le misure anti-Covid al Paese: «Sono desolata – dice –. Qualcun altro ha dei bambini che scappano dal letto due o tre volte prima di addormentarsi?». Seconda leader mondiale ad avere avuto un figlio mentre è in carica (prima di lei solo la pakistana Benazir Bhutto nel 1990), entrata nella storia nel settembre 2018 anche come la prima a portare un bambino all’Assemblea generale delle Nazioni Unite, il 19 gennaio 2023 Ardern annuncia le dimissioni: «So cosa richiede questo lavoro e so che non ho più abbastanza risorse per rendergli giustizia. Per me, è il momento. Non vedo l’ora di passare di nuovo del tempo con la mia famiglia. E così Neve, la mamma non vede l’ora di essere lì quando inizierai la scuola quest’anno. E Clarke, sposiamoci finalmente». Anche in Svizzera l’anno scorso avevamo assistito alle dimissioni di Simonetta Sommaruga dal Consiglio federale, nel suo caso era lo stato di salute del marito a motivare la difficile decisione. Nel novembre 2022 Sommaruga aveva dichiarato: «Non è più possibile ora fare quello che facevo prima».

Il giorno dopo le dimissioni della Ardern la giornalista e conduttrice tv Rai Mia Ceran, 36 anni, commenta nel suo podcast di successo The Essential: «La scelta di parlare con schiettezza di burnout, di voler preferire per un certo periodo un impegno privato a uno pubblico saranno forse l’eredità più grande che Ardern lascerà ai posteri, ma soprattutto a tutte quelle donne che sentono il dovere di essere perennemente performanti su tutti i fronti». Il 4 febbraio compie la medesima scelta la stessa Mia Ceran e la annuncia con un post su Instagram: «Un po’ ancora mi vergogno mentre lo scrivo: “Non ce la faccio”. Come suona male, nel 2023, che una donna lasci un lavoro, per giunta un lavoro da privilegiata come è quello della conduttrice televisiva, perché non riesce a star dietro ai figli, quelli a casa e quelli che verranno. Lavorerò solo fino al nono mese di gravidanza e non tornerò in fretta e furia in onda tutti i giorni dopo aver partorito come pensavo di fare, ma mi fermerò per qualche mese. Per la prima volta in molti anni di lavoro abbandono un progetto prima di averlo portato a compimento e riconosco il mio limite». Così questa volta a Il caffè delle mamme portiamo forse il più delicato

degli argomenti: «Le donne possono davvero avere tutto?».

La domanda provocatoria è presa dal titolo con cui la Bbc accompagna le dimissioni di Jacinta Ardern («Jacinda Ardern resigns: Can women really have it all?») e che l’emittente televisiva inglese ha dovuto cambiare dopo essere stata travolta dalle accuse di incredibile sessismo. Consapevoli che la questione è esplosiva, a Il caffè delle mamme decidiamo comunque di non sottrarci. Nessuno mai ci potrà dire quanto le richieste di attenzione della piccola Neve abbiano condizionato la scelta della mamma di dimettersi, né qual è il campanello che è suonato nella testa di Mia Ceran per spingerla ad ammettere che il carico si è fatto troppo pesante e a vincere il timore di deludere chi pensava che sarebbe riuscita a fare tutto, e anche con il sorriso. Ma una cosa è certa: finalmente è arrivato il momento per le donne di poter dire «Non ce la faccio più!».

I giornali sono pieni di storie di donne che decidono di lasciare il posto di lavoro dopo avere partorito, così come di statistiche che ci dicono come le donne siano più soggette a burnout rispetto agli uomini e a come il tetto di cristallo sia maledettamente

difficile da rompere. E, a tal proposito, ogni volta il dibattito si concentra giustamente sull’importanza di facilitare la conciliazione lavoro-famiglia con asili nido e incombenze domestiche e familiari equamente ripartite (quando in famiglia si è in due). Analogamente sul tetto di cristallo e sulla necessità di sfondarlo è stato scritto di tutto e di più. Tutto giusto. La convinzione de Il caffè delle mamme è, però, che la scelta di Jacinta Ardern, Simonetta Sommaruga, Mia Ceran e di tante altre donne come la manager Susan Wojcicki che ha da poco lasciato la guida di Youtube ci ponga davanti con forza a una questione ancora più complessa: la difficoltà a conciliare tutto per noi donne-madri-mogli anche in presenza di mille aiuti e del partner migliore del mondo. Lo spiega bene la conduttrice tv in un articolo a sua firma uscito su «La Stampa»: «Ci viene chiesto di essere la miglior lavoratrice possibile e insieme la più performante delle madri, ma ho raggiunto il limite, il primo passo per ripartire è riconoscerlo e non mentire a se stesse».

Fermiamoci un attimo a riflettere. Per anni noi donne abbiamo interpretato la parità come il fare tutto uguale

agli uomini a costo di massacrarci in un mondo in cui, per esempio, gli orari sono dettati per lo più dagli uomini. In alternativa abbiamo deciso di stare un passo indietro. Adesso, forse, è arrivato il momento di stare davvero al pari che, per Il caffè delle mamme, vuol dire avere parità di diritti nella diversità di ruoli che ognuna sente per sé e che non deve più essere mascherata, ma assunta come dato di fatto. La vera modernità, allora, come mostrano le dichiarazioni di Ardern, Sommaruga e Ceran pur nelle differenze di ruoli e di storie, è quella di rivendicare di avere un limite, qualunque esso sia (e diverso per ogni donna) senza temere che questo vanifichi lo sforzo intrapreso fino a quel punto o peggio ancora che ci faccia temere di non poter rientrare al lavoro un domani. Scrive Ceran: «Ho conosciuto donne che appartengono alla generazione che per prima ha conquistato il proprio posto nel mondo del lavoro, con la fatica di chi ha rotto il cosiddetto tetto di cristallo e che ha lottato per mantenere la posizione conquistata a volte anche sacrificando la famiglia. Alla nuova generazione di donne invece sembra che venga chiesto di essere la miglior lavoratrice possibile e al contempo la più

performante delle madri. Esiste un’iconografia per social fatta di video, foto, reel che mostra solo donne sorridenti con bambini cresciuti con attenzione e massima consapevolezza, dove ogni bisogno delle creature è soddisfatto “a richiesta”, tutto questo spesso mentre la madre risponde senza perdere un colpo sul lavoro e non mostra alcun cenno di fatica. Un po’ come i corpi irraggiungibili e i filtri ingannevoli, anche questo racconto andrebbe rivisto e macchiato di sincerità. Con le occhiaie ben coperte dal truccatore e i capelli in piega a mascherare i segni di notti insonni e di pranzi consumati in sei minuti davanti al computer, ho forse contribuito a diffondere un’immagine poco aderente alla realtà, ed è anche per questo che ho scelto di congedarmi per qualche tempo raccontando la mia esperienza».

Parità allora, forse, non deve più voler dire essere una super-woman Ma essere semplicemente noi stesse. Non possiamo fare tutto uguale agli uomini, perché non siamo uguali, soprattutto nella maternità. Che cosa ne pensano i Millennial Dads, ossia i nuovi papà? Lo sapremo, piccolo spoiler, nella prossima puntata de Il caffè delle mamme

● ◆ Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 13 marzo 2023 azione – Cooperativa Migros Ticino 3
SOCIETÀ
Pagina 7 Pagina 8 Pagina 9 Pagina 6 La premier neozelandese Jacinda Ardern abbraccia il suo compagno Clark Gayford dopo aver annunciato, con le lacrime agli occhi, le sue dimissioni in una conferenza stampa a Napier, Nuova Zelanda, lo scorso 19 gennaio. (Keystone) Simona Ravizza

Le delizie della tradizione

Attualità ◆ Ingredienti genuini e una paziente lavorazione sono alla base delle classiche colombe pasquali a firma Maina

La carica delle uova di Pasqua

Sotto una croccante glassa ottenuta a partire dalle migliori nocciole italiane secondo un’antica lavorazione artigianale, si nasconde un soffice impasto lievitato naturalmente per oltre due giorni con solo Lievito Madre, ricco di profumate scorze candite di arance italiane. La colomba classica, straordinariamente soffice, è unica e amata da tutti.

Colomba La Gran Nocciolata Maina 750 g Fr. 10.90

Una ricetta originale di successo che rispetta la classica qualità ma aggiunge un raffinato tocco esotico alla tradizione: impasto straordinariamente soffice grazie alla lenta lievitazione naturale per oltre due giorni con solo Lievito Madre, arricchito da tanti delicati pezzetti di frutta esotica non candita. Una vera delizia per festeggiare di gran gusto.

Colomba Tutti Frutti

Maina1 kg Fr. 13.50

Attualità ◆ Le delizie di cioccolato al latte Balocco faranno la felicità di grandi e piccini

Le uova di finissimo cioccolato al latte firmate Balocco sono un’autentica gioia non solo per i piccoli golosoni, ma saranno un regalo gradito anche per i tifosi di alcune tra le più popolari squadre di calcio italiane. Tanto più che tutte le varianti contengono un’accurata e ricca selezione di sorprese a tema tutte da collezionare. Dall’uovo dedicato al magico mondo dei Puffi alle uova ufficiali griffate con lo stemma della propria compagine del cuore, la Pasqua si trasforma in un momento speciale all’insegna del divertimento e del buongusto.

Uova JUVE, INTER o MILAN Balocco 240 g Fr. 10.30

Uova I PUFFI Balocco 150 g Fr. 7.20

In vendita nelle maggiori filiali Migros

Soffice colomba dedicata a tutte le persone latto-intolleranti, per non rinunciare al piacere della tradizione pasquale. Specialità lievitata naturalmente per oltre due giorni con solo lievito madre, ricca di profumati canditi e avvolta da una croccante glassa di nocciole lavorata artigianalmente e decorata con mandorle intere e granella di zucchero. Preparata con burro selezionato a basso contenuto di lattosio.

Colomba Senza Lattosio

Maina 750 g Fr. 9.90

Morbidissima pasta tipo pandoro, lievitata naturalmente per 48 ore a partire da pregiato Lievito Madre, senza canditi. Dorata e morbida, è avvolta da una croccante glassa lavorata artigianalmente a base di nocciole e sfiziose mandorle intere. Da spolverare con zucchero a velo per quel tocco finale inconfondibile e caratteristico.

Colomba La Gran Pandorella Maina 750 g Fr. 9.90

La torta pasquale

Con Migros la Pasqua è sempre dolce ed allettante. Il ricco assortimento di specialità annovera come consuetudine non solo i grandi classici quali coniglietti pasquali, ovetti, colombe e uova colorate, ma anche altri squisiti dolci che attirano l’attenzione sia per il loro aroma che per la graziosa forma. Uno di questi è la torta di Pasqua. Questo dolcetto a base di pasta frolla e ripieno di mandorle, riso e uva sultanina si caratterizza per il gusto delicato e la consistenza friabile. Una vera bontà che desterà l’entusiasmo di tutti i commensali. Vogliamo scommettere?

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 13 marzo 2023 azione – Cooperativa Migros Ticino MONDO MIGROS 4
Torta di Pasqua 475 g Fr. 7.20 Nelle maggiori filiali

Tutto per il tuo amico a quattro

zampe

Novità ◆ Nei Do it + Garden Migros di Losone e Taverne trovi ora un ampio assortimento di prodotti Meiko

Bicarbonato di sodio purissimo

Novità ◆ Il prodotto in polvere Crastan è indicato per tanti usi. Ora in vendita a Migros Ticino

Da oltre 50 anni Meiko è specializzata in cibo e accessori per animali da compagnia, in special modo cani e gatti. Questa azienda svizzera offre agli amici a quattro zampe articoli di elevata qualità attentamente selezionati e provenienti esclusivamente da produttori riconosciuti per la loro competenza nel settore dei prodotti per animali domestici. Massimo benessere e salute dell’animale sono da sempre al centro della filosofia aziendale. La pluriennale esperienza Meiko la puoi ora trovare anche nei negozi specializzati Do it + Garden Migros di Losone e Taverne, dove è stato introdotto un assortimento selezionato di prodotti del rinomato marchio. Dagli alimenti per cani alle lettiere per gatti, dalle ciotole ai guinzagli, passando per i giocattoli, i lettini, fino alle ceste e agli integratori alimentari… presso il Meiko Corner potrai trovare tutto quello che ti serve per far felice il tuo amico peloso.

Dalla cucina alla casa, fino all’igiene personale: il bicarbonato di sodio purissimo Crastan è un prodotto molto versatile che non può mancare in casa. Indicato per uso alimentare e per gli usi domestici più disparati, è un prodotto di alta qualità e risponde ai requisiti di purezza del food chemical codex. In cucina può essere utilizzato per il lavaggio della frutta e verdura (1 cucchiaio ogni litro d’acqua, lasciare agire 10 minuti e risciacquare), per cuocere verdure e legumi (toglie il sapore amaro e mantiene il colore), per i bolliti (rende la carne più tenera), per facilitare la lievitazione di dolci da forno oppure ancora per rendere la fon-

Bicarbonato Crastan 750 g Fr. 3.50 In vendita nelle maggiori filiali Migros

due al formaggio meglio digeribile. Nell’ambito della casa aiuta a ridurre la formazione di calcare e incrostazioni nella lavatrice, elimina i cattivi odori nel frigo, nella lavastoviglie, negli armadietti e scarpiere; toglie le incrostazioni dalle padelle o ancora igienizza lavandini, lavelli, docce e vasche da bagno. Infine, il bicarbonato è consigliato anche per l’igiene personale di tutta la famiglia: per il bagno rilassante di bambini ed adulti, per un pediluvio rilassante oppure per pulire pettini e spazzole. Oltre al bicarbonato, del marchio Crastan nei supermercati Migros è anche disponibile l’effervescente al limone dalle proprietà digestive.

Tutto per la vostra Pasqua!

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Quando il testo lo scrive ChatGpt

Nuove tecnologie ◆ Marco Zaffalon dell’Istituto Dalle Molle di studi sull’intelligenza artificiale ci parla del software di OpenAI

Premessa: se avrete la bontà di leggere questo articolo sappiate che non è stato generato da intelligenza artificiale. Parliamo in ogni caso di «lei» – anzi, di una sua sorprendente creatura: il software ChatGpt – affidandoci al sapere di uno scienziato in carne ed ossa, Marco Zaffalon, direttore scientifico dell’Istituto Dalle Molle di studi sull’intelligenza artificiale (IDSIA USI-SUPSI) e di Artificialy SA di Lugano.

Partiamo dagli albori: cos’è ChatGpt? Tecnicamente viene definito un modello di linguaggio. È un software creato nel 2022 da OpenAI (azienda statunitense di intelligenza artificiale sostenuta anche da Microsoft) che ha letto tutto quanto c’è in Internet e Wikipedia (tranne l’ultimo anno, non ne sa nulla pertanto della guerra in Ucraina) e ha capito come le parole stanno insieme. Come «giocare» con esse per creare frasi credibili.

Ma come funziona?

ChatGpt è basato su un algoritmo neurale di tipo deep, cioè che fa «apprendimento profondo». Nella pratica noi possiamo iniziare a digitare qualche parola, e ChatGpt semplicemente prevede la parola successiva più probabile, e poi la successiva, e così via. E in questo modo riesce a confezionare un testo, supportato anche da una memoria ampissima. È praticamente onnisciente perché ha letto tutto lo scibile disponibile su Internet. Ma molte volte sbaglia. Questo perché non è in grado di ragionare come noi, né tantomeno conosce il mondo come noi. Il suo mondo sono solo le parole.

Possiamo comunque parlare di una rivoluzione tecnologica?

No, perché il cambiamento è avvenuto gradualmente, in modo naturale. Prima di ChatGpt esisteva infatti Gpt3, dimostratosi già molto capace. Il passo avanti decisivo è stato quello

di fargli raggiungere una maggiore competenza conversazionale, anche grazie all’apporto di diverse correzioni umane che gli hanno consentito di produrre meno strafalcioni. Di certo siamo di fronte a una rivoluzione dal profilo dell’impatto che questo software sta avendo sulla società, dovuto a una sua ampia diffusione prodottasi attraverso il passaparola e la grande pubblicità creatasi attorno.

Esistono ancora margini di miglioramento?

Assolutamente sì. Gli errori rappresentano ancora una componente irrisolta. Questi sistemi sono paragonabili a quegli studenti che non hanno fatto i compiti a casa e che cercano comunque di raccontarti la lezione in maniera molto credibile, spesso azzeccandoci, e spesso no. ChatGpt è in grado di produrre sia testi attendibili sia notizie completamente false.

Prima della consegna di un testo generato da ChatGpt con l’intelligenza artificiale si rivela dunque indispensabile una revisione? Certamente. Tuttavia è vero che questo software toglie tanto lavoro per chi deve scrivere testi, nel senso che la «manovalanza» la esegue lui.

Se gli chiediamo di produrre 5000 parole su un argomento ci consegnerà una bella prosa. Possiamo pretendere persino un genere a nostro piacimento: drammatico, ironico, possiamo richiedergli di scrivere come Dante… Dopodiché all’interno possono esserci imprecisioni, o anche errori grossolani, che vanno puntualmente verificati.

ChatGpt soppianterà i mestieri legati alla comunicazione, alla scrittura? In altre parole, addio giornalisti, scrittori, storici…?

Io la vedrei in termini più positivi. È chiaro che ci saranno dei cambiamenti nel mondo del lavoro. Diciamo che chi opera nel campo del-

le lettere adesso può disporre di una «penna intelligente» che realizza la prima stesura di un testo. La restituzione di un tema complesso in termini semplici ma precisi, l’approfondimento, non sono certo il mestiere che sa compiere ChatGpt: lui è in grado di svolgere il lavoro di base, togliere la fatica. Pertanto il suo avvento a mio avviso non significa assolutamente la fine di professioni dell’area umanistica. Direi piuttosto che conoscerà benefici chi sceglierà di allearsi a questo software di intelligenza artificiale, anziché chi vi si porrà in contrasto. Si produrranno testi di qualità in tempi più brevi, a vantaggio dunque di una maggiore produttività.

Non si correrà il rischio di smarrire la paternità del testo, nell’impossibilità di risalire al suo autore?

A questa stregua anche il disegnatore che ricorre oggi al photoshop non firma la sua opera con il programma di grafica utilizzato, bensì col proprio nome. Noi siamo continuamente supportati da strumenti tecnologici. Pensiamo al chirurgo che in sala operatoria è sempre più assistito da robot. Nessuno più oggi opera a mani nude. Di fatto assistiamo incessantemente a una collaborazione fra noi esseri umani e la tecnologia.

La sua scoperta è paragonabile all’avvento di Internet?

Ricordo che i Pc sono arrivati negli anni Ottanta, che attorno al 1995 Internet è entrato nelle case di tutti, che l’era iPhone è iniziata nel 2007 e adesso, a mio avviso, è il turno dell’intelligenza artificiale. Abbiamo queste quattro rivoluzioni, scandite una dopo l’altra. In pochissimo tempo il nostro mondo è notevolmente cambiato. Ora è il momento dell’intelligenza artificiale, che promette innumerevoli sviluppi nei prossimi anni e continuerà a produrre nuovi frutti, come già ChatGpt ha dimostrato. Ricordiamo che anche Siri e

Alexa sono in grado di capire il nostro linguaggio, ma ChatGpt rappresenta una grande evoluzione in termini di interlocuzione e interazione. Credo che oltre a migliorarsi maggiormente, il passo successivo per ChatGpt sia in particolare quello di porsi al centro dei vari software o app che usiamo quotidianamente, in modo che divenga un’interfaccia funzionale a tutto tondo, non solo per la domotica, ma anche per le nostre varie attività professionali e non. Tutto questo richiederà tempo, difficile dire quanto, poniamo una decina di anni.

Dunque non ha ancora raggiunto l’intelligenza dell’uomo. Neanche per idea. Ma non si può neppure dire che ChatGpt non sia intelligente. Naturalmente c’è una differenza fondamentale tra noi e lui: lui conosce il linguaggio ma non conosce il mondo. Non sa cosa sia veramente un albero, eppure è in grado di parlarne diffusamente.

Oggi le università si stanno interrogando se concedere agli studenti l’utilizzo di ChatGpt. Qual è la sua opinione?

In questo momento l’USI non lo consente e la SUPSI ha istituito una

Il nucleo della Terra si sta fermando?

Commissione che si sta chinando sull’argomento riservandosi di decidere in merito. A titolo personale sono più propenso all’idea di una liberalizzazione, controllata naturalmente, tale per cui se uno studente con l’ausilio di ChatGpt dimostra di essere in grado di realizzare un lavoro molto più sofisticato rispetto al passato – ciò che oltretutto potrà concretizzarsi anche dopo gli studi, nel mondo del lavoro – allora il risultato rappresenta comunque un valore aggiunto per la società. L’importante a mio avviso è che insieme all’intelligenza artificiale venga prodotto un lavoro di vera e acclarata qualità. Nei fatti al momento esiste anche un serio problema di plagio in cui si rischia di incorrere usando ChatGpt per scrivere testi, in quanto molto di quello che produce rappresenta una rielaborazione, più o meno esplicita, di testi trovati su internet. Ricordo che al termine del mio dottorato sono stato tentato dallo scrivere, scherzosamente, in calce: «Questa tesi non sarebbe stata possibile senza la collaborazione di Internet». Ora, come allora, al di là del supporto tecnologico, l’importante è compiere un esame critico e affidabile delle fonti e dare loro il giusto credito.

Scienza ◆ Ha fatto scalpore un articolo pubblicato sul «Nature Geoscience» da due studiosi dell’Università di Pechino

Il nucleo della Terra si è fermato: lo dice un importante studio scientifico appena pubblicato. Oddio, moriremo tutti! Ma anche no. Anche no. Manteniamo la calma.

Una galassia a 100 milioni di anni-luce: capire com’è fatta, come si comporta, come cambia nel tempo sembra un’impresa difficilissima. In realtà è molto più semplice di quanto sia comprendere com’è fatto, come si comporta, come cambia nel tempo il nucleo della Terra. 100 milioni di anni-luce possono essere attraversati dalla radiazione elettromagnetica e raccolti dai nostri strumenti. I 6400 chilometri – dei quali solo 12 siamo riusciti a perforare fisicamente – che ci separano dal centro del nostro pianeta sono invece impenetrabili: da lì arrivano pochissime informazioni. Quelle pochissime sono indirette e per averle dobbiamo ringraziare i terremoti.

Ringraziare i terremoti? Detta così, a pochi giorni da un sisma che ha ucciso decine di migliaia di persone, sembra una bestemmia. Eppure per-

fino i sismi più devastanti hanno almeno una conseguenza positiva: consentono di capire la struttura interna della Terra.

L’interno del nostro pianeta può essere suddiviso in quattro parti: la crosta superficiale rocciosa fra 5 e 70 chilometri, il mantello di rocce magmatiche in gran parte solido fino a 3000 chilometri, il nucleo esterno di ferro fluido e altri metalli fra 3000 e 5000 chilometri, dove viene generato il campo magnetico terrestre, e infine il nucleo interno di ferro-nichel solido ad altissima pressione e temperatura fra 5000 chilometri e il centro. Grosso modo, sia chiaro: gli spessori e le distanze variano molto da regione a regione, specie fra il mantello e la crosta. Lo sappiamo perché le onde sismiche che attraversano i gusci si propagano a velocità differenti e, quando si scatena un terremoto, fin dall’inizio del XX secolo permettono ai geofisici di ricostruire la struttura globale sulla base delle rilevazioni strumentali raccolte in giro per il mondo. Non solo: consen-

tono anche di capire come la struttura cambia nel tempo, con opportuni modelli matematici. Scoprendo per esempio che la rotazione del nucleo interno oscilla e, nel cambiare verso, si ferma. In realtà non è semplice come certi media superficiali l’hanno raccontata per raccogliere clic. Per cominciare, così come una rondine non fa primavera, un articolo scientifico non fa una scoperta confermata. La scienza è un metodo per scoprire i fenomeni naturali e le leggi che li descrivono, ma è sempre molto cauta: ogni dato dev’essere verificato, ogni risultato confermato, ogni teoria sottoposta al vaglio spietato di una comunità di ricercatori nella quale domina il rigore. Tuttavia anche un articolo non va preso alla leggera, soprattutto se è firmato da due studiosi autorevoli dell’Università di Pechino e pubblicato da una rivista prestigiosa come «Nature Geoscience».

Xiaodong Song è un veterano della geofisica e fin dagli anni ’90, quando era alla Columbia University, aveva

ipotizzato che la rotazione del nucleo interno fosse scollegata da quella del mantello. L’idea venne discussa nella comunità e tuttora non è accettata all’unanimità. Nondimeno Xiaodong Song insiste e, nell’ultimo articolo che tanto scalpore ha suscitato, rincara la dose: il nucleo accelera, rallenta, ogni tanto si ferma rispetto al mantello. Per sostenerlo ha analizzato i dati raccolti a partire dagli anni ’90 e ha scoperto che la differenza nella rotazione si sarebbe

azzerata – traduzione: il nucleo non si è fermato, ma ha ruotato alla stessa velocità del mantello – negli anni ’70 e poi ancora intorno al 2009. Qualcuno se n’è accorto, qua in superficie?

Ovviamente no. Le nostre vite non sono state sconvolte. La Terra non ha cambiato orbita. Non è arrivata l’Apocalisse. Conclusione: se Xiaodong Song e il suo collega avessero ragione e il fenomeno fosse reale, se davvero la velocità di rotazione del nucleo interno variasse in modo ciclico e talvolta si arrestasse rispetto al mantello, allora si tratterebbe di uno dei tanti eventi naturali del pianeta, di certo sarebbe accaduto anche in passato e finora gli effetti non sarebbero stati distruttivi. Perché dunque dovrebbero esserlo intorno al 2045, quando – se gli studiosi cinesi avessero ragione – avverrà una nuova inversione del verso di rotazione?

Sicché no, non moriremo tutti. O meglio sì, moriremo tutti, ma almeno non per colpa del nucleo interno della Terra.

6 Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 13 marzo 2023 azione – Cooperativa Migros Ticino SOCIETÀ
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Unsplash –Rolf van Root Marco Cagnotti

Ci difendono dall’osteoporosi

Fitoterapia ◆ Ci permettono di prevenire o rallentare il progressivo indebolimento della struttura ossea: sono i fitoestrogeni

Meno trasfusioni, più sicurezza e più salute

Medicina ◆ Chiare linee guida dell’OMS per l’uso appropriato della «risorsa sangue»

A inizio anno, in Svizzera le riserve di sangue scarseggiavano, in particolare quelle del gruppo zero negativo (quello dei donatori universali). I media ticinesi ne hanno riportato l’appello, poi rassicurati da Mauro Borri, direttore operativo del Servizio Trasfusionale della Croce Rossa Svizzera, che ha affermato come nel nostro Cantone «non si tratta di una vera e propria emergenza, ma di una mancanza di questo gruppo a causa delle scarse riserve, per cui abbiamo chiesto ad alcuni donatori di sangue di venire a donare».

Questa volta il Ticino non ha vissuto una vera criticità, sebbene gli appelli alla donazione in certi periodi dell’anno indichino la sporadica mancanza di tali riserve. «Dobbiamo prendere atto che con l’incremento dell’età della popolazione si riduce il numero dei giovani possibili donatori di sangue, e aumentano i pazienti con comorbidità e maggiori necessità, pure trasfusionali. Se il trend della vera emergenza denunciato dall’OMS si confermasse, già nei prossimi anni non ci sarà più sufficiente sangue disponibile per soddisfare il fabbisogno. A fronte di ciò, sembra vi siano ancora grossi sprechi di prodotti emoderivati che vengono ancora somministrati con insufficiente valutazione di rischi e benefici».

Alla premessa del dottor Andrea Saporito, primario di anestesiologia all’Ospedale Regionale Bellinzona e Valli (ORBV), fa eco il nefrologo e Capo Area Medica EOC, professor Paolo Ferrari, che parla della trasfusione di sangue, analizzandone rischi e benefici sui quali oggi più che mai bisogna chinarsi, pure sulla base di evidenze scientifiche e delle chiare linee guida dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS): «L’uso della trasfusione di sangue deve essere ponderato e limitato, secondo le circostanze, non solo per la paventata scarsità di emoderivati, ma per i diversi effetti collaterali potenzialmente nocivi che una trasfusione può comportare. Non dimentichiamo che essa si rende necessaria per compensare un deficit di globuli rossi, ma è pur sempre un trapianto. Dunque, anche se pare naturale, bisogna considerare le eventuali relative reazioni avverse o gli effetti secondari. È necessario ponderare bene rischi e benefici, in relazione a nuovi parametri dei livelli di fascia di norma dell’emoglobina nella circolazione che può variare individualmente da paziente a paziente».

A questo proposito, con gli obiettivi di migliorare i risultati clinici, prevenire trasfusioni evitabili e ridurre i costi di gestione, l’OMS dal 2010 invita caldamente all’adozione di programmi di Patient Blood Management (PBM): una strategia multidisciplinare e multimodale che mette al centro la salute e la sicurezza del paziente, e migliora i risultati clinici basandosi sulla risorsa sangue dei pazienti stessi.

«Il concetto di PBM non è focalizzato su una specifica patologia, ma mira a gestire la risorsa di sangue del paziente che, quindi, insieme al suo medico di famiglia, acquista un ruolo centrale e prioritario», chiarisce Saporito sulla stessa linea esplicitata nella definizione di PBM secondo la Society for Advancement of Blood Management per la quale per PBM si intende «l’applicazione tempestiva di principi medici e chirurgici basati sull’evidenza, concepiti e progettati per il mantenimento della concentrazione di emoglobina, l’ottimizzazione dell’emostasi e la minimizzazione della perdita di sangue, tutto con lo scopo di migliorare gli esiti dei pazienti».

Da un lato l’applicazione del PBM nell’uso appropriato delle trasfusioni di sangue comporta la loro riduzione fino al 20%, unitamente al risparmio economico e, soprattutto, ai relativi benefici di cui il paziente può godere.

Lo dimostrano i dati pubblicati dalla rivista «Transfusion», risultati di un programma PBM completato in cinque anni in Australia, dove peraltro ha pure operato il professor Paolo Ferrari fino al 2018, quando è rientrato in Ticino dove ha portato queste esperienze, forte della sua rappresentanza per EOC nel gruppo di lavoro OMS per l’implementazione internazionale del PBM: «Nei pazienti aderenti al PBM, i risultati su 605’046 pazienti ricoverati nei maggiori ospedali per adulti dell’Australia occidentale mostrano una riduzione del 28% della mortalità ospedaliera, una riduzione del 15% della degenza media in ospedale, una diminuzione del 21% delle infezioni acquisite in ospedale (ndr : i pazienti trasfusi sono più soggetti alle infezioni), e una diminuzione del 31% di infarto o ictus. L’uso di prodotti del sangue è stato ridotto del 41%, raggiungendo significativi benefici per il paziente e un notevole risparmio sui costi sanitari». Coinvolgere i medici di famiglia e i professionisti della salu-

È nota con il nome di osteoporosi, ma è giustamente anche chiamata «malattia silente». Si tratta di un subdolo e progressivo indebolimento della struttura ossea del nostro corpo. Così come i farmaci classici possono fare molto per prevenire, controllare, curare l’osteoporosi, anche la fitoterapia può venirci in aiuto con le piante cosiddette fitoestrogeni, da usare consultando sempre il proprio medico, utili a regolare gli ormoni responsabili della decalcificazione ossea.

Sono piante altamente rimineralizzanti e ricche di flavonoidi, che sono dei composti con caratteristiche simili a quelle degli estrogeni e sono presenti in grande quantità nel mondo vegetale.

te in questo cambiamento di paradigma, è quanto l’EOC mette in atto da qualche anno, come ci spiega Saporito: «Al netto degli interventi in emergenza, un paziente su tre arriva anemico in sala operatoria quando deve affrontare gli interventi di chirurgia maggiore programmata (ad esempio: cardiochirurgia, protesi all’anca…)».

Adottare il Patient Blood Management ottimizza la gestione della risorsa sangue del paziente e migliora gli esiti clinici: «L’obiettivo primario è quello di informare correttamente professionisti e pazienti sui presupposti scientifici della trasfusione evitabile, ovvero: un’attenta valutazione multidisciplinare del singolo paziente, dei rischi e dei benefici connessi alla trasfusione, e delle strategie, farmacologiche e non, che possono essere impiegate in alternativa a esse».

In pratica, Ferrari ricorda l’importanza di promuovere una presa a carico standard ragionata, prima dell’intervento chirurgico: «Curare l’anemia pre-operatoria e stabilizzare il quadro clinico del paziente prima dell’intervento chirurgico garantisce un notevole vantaggio per la sua salute, riduce la necessità di una terapia trasfusionale evitabile, minimizza i rischi (infezione, reazioni avverse) e riduce i tempi di degenza».

La standardizzazione di questo programma PBM è un fiore all’occhiello di EOC e della sanità ticinese, con benefici per i pazienti e risultati che parlano da sé, concludono gli specialisti: «Lo screening mirato sull’emoglobina di pazienti prima di un intervento chirurgico elettivo, in collaborazione coi medici del territorio, un programma standardizzato di controllo dei parametri, l’individualizzazione della soglia sotto la quale il paziente necessita di una trasfusione, la definizione di appropriatezza trasfusionale, la cartella informatizzata che riporta dati di alert : dal 2020 a oggi, questo programma ha visto una diminuzione del 13,2% delle trasfusioni inappropriate».

Ricordiamo che evitare o ridurre le trasfusioni inappropriate significa: «Tempi di degenza post-operatoria più brevi, minore incidenza di infezioni, ripresa più rapida del paziente e risparmio di risorse economiche». Tutto nell’ottica di una strategia (PBM), raccomandata dall’OMS, che mette al centro salute e sicurezza del paziente, migliorandone i risultati clinici e chirurgici.

chissimo di minerali, come del resto lo sono tutte le piante di cui ci stiamo occupando. Contiene una quantità significativa di isoflavoni, che sono sostanze antiossidanti di origine vegetale simili agli estrogeni. Ha qualità nutritive straordinarie, è fonte di calcio, cromo, magnesio, silicio, fosforo, potassio e vitamine importanti per le ossa. In combinazione con la Cimicifuga e la soia è usato per osteoporosi e sintomi della menopausa.

Come è risaputo, una singola pianta tuttavia non cura mai un disturbo solo: nel suo fitocomplesso vi è la potenzialità di agire su disturbi ben diversi fra loro, vale a dire che molte differenziate indicazioni sono quasi sempre racchiuse e prescrivibili in una pianta sola. Lo aveva ben compreso il geniale medico, alchimista e astrologo svizzero Paracelso che nel lontano 1500 sentenziava: «…nel mondo c’è un ordine naturale di farmacie, tutti

Ha effetti analoghi Il Cardo mariano (Silybum marianum), chiamato anche Cardo della Madonna: è un’erbacea che cresce nel bacino del Mediterraneo in terreni incolti e aridi; è disintossicante, ha un effetto protettivo contro molte tossine, e incrementa la produzione del latte materno anche nelle mucche. Foglie, gambi e radici sono ottimi in cucina, crudi o bolliti. I ricercatori non sono ancora sicuri che il Cardo mariano possa veramente rallentare o impedire la progressione dell’osteoporosi, ma finora le ricerche sono positive e alcuni studi in vitro e sugli animali indicano che può effettivamente ridurre la perdita ossea e aumentare il calcio e il fosforo.

Anche la soia, il cui nome scientifico è Glycine max, contiene isoflavoni e minerali come calcio, fosforo e potassio. Combinata con Trifolium e Cimicifuga agisce contro osteoporosi e sintomi della menopausa. Un trattamento a base di isoflavoni ha effetti benefici sulla densità ossea dopo 6-12 mesi. Gli studi in questo campo sono molto promettenti, ma necessitano ulteriori ricerche per capire se questi risultati positivi comportino anche un minor rischio di fratture. I fagioli di soia possono essere gustati così come sono oppure trasformati in prodotti come tofu, tempeh, latte, salsa e olio di soia.

i prati e pascoli, tutte le montagne e colline sono farmacie».

Contro l’osteoporosi, va anzitutto citata la Cimicifuga racemosa, una pianta dalla radice scura che cresce spontanea nelle zone umide del continente nordamericano. Era usata dai nativi da tempi immemorabili sia contro reumatismi, sia contro bronchiti, disturbi nervosi, infiammazioni della gola, scabbia e morsi di serpenti velenosi (per questo era chiamata anche «radice di serpente»). Molti di questi utilizzi sono stati confermati da studi clinici moderni, e oggi, in Occidente, è fra le piante più efficaci per intervenire su osteoporosi e disturbi della menopausa, come vampate, sudorazioni, insonnia. Ricerche preliminari di laboratorio indicano, infatti, che può prevenire la perdita di densità del tessuto osseo e preservarne la resistenza. Anche studi fatti su animali hanno dimostrato che gli estratti di Cimicifuga rallentano e inibiscono lo sviluppo dell’osteoporosi.

Un’altra pianta efficace a questi fini è il Trifoglio dei prati (Trifolium pratense); rosso e bianco, è coltivato in parecchie aree del mondo come foraggio per il bestiame, perché ric-

Altra pianta fortemente mineralizzante e quindi indicata anche per curare l’osteoporosi è la straordinaria ortica (Urtica dioica): usata per tanti disturbi, contiene molte vitamine, la C, la B e la K, sali di potassio, magnesio e altri composti, promuove l’attività diuretica e favorisce l’eliminazione delle scorie; ottimi risultati sono stati ottenuti trattando con l’ortica reumatismi e calcoli delle vie urinarie.

Pure rimineralizzante per il tessuto osseo e per tutto l’organismo, indicatissimo per osteoporosi e dolori articolari e molto diuretico è il famoso Equiseto dei campi, Equisetum arvense L., chiamato anche «coda cavallina». Cresce spontaneo in campi e boschi, sulla riva di fiumi e laghi, ai margini delle strade. È una pianta di enorme interesse, usata nella medicina popolare da secoli, contiene flavonoidi e vitamine, ed è un concentrato di sali minerali, in particolare ha un alto contenuto di silice e calcio: incrementa la crescita di unghie e capelli, protegge e rinforza le nostre ossa indebolite. È la pianta più antica della terra: era presente nell’era paleozoica.

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 13 marzo 2023 azione – Cooperativa Migros Ticino 7 SOCIETÀ
Il dottor Andrea Saporito, primario di anestesiologia ORBV EOC (a sin.) e il professor Paolo Ferrari, nefrologo e Capo Area Medica EOC. (Vincenzo Cammarata)
Bibliografia Cindy Gilbert, Roberta Maresci, traduzione Daniela Di Lisio, Il grande libro delle erbe medicinali per le donne. La guida più completa al benessere femminile, Sonda, 2019. Trifolium pratense. (Ivar Leidus)

Il bisogno di scoprire le cause

Natura

Nel dramma Sei personaggi in cerca di autore Luigi Pirandello fa dire ad uno dei personaggi «Frasi! frasi! Come se non fosse il conforto di tutti, davanti ad un fatto che non si spiega, davanti a un male che ci consuma, trovare una parola che non dice nulla, e in cui ci si acquieta» cogliendo, con questo, un bisogno fondamentale della natura umana, quello di capire e spiegare ciò che accade dentro o fuori di noi. Come è noto, Aristotele sosteneva che scire est scire per causas: la vera conoscenza consiste nell’essere in grado di individuare le cause degli accadimenti. Sta di fatto che noi ci riteniamo soddisfatti quando possiamo rispondere persuasivamente alla domanda «perché?». Il ruolo della «causa» di un fenomeno è dunque centrale nella nostra esistenza e non a caso esso, in forme diverse, è al centro della stessa scienza.

Il ruolo della causa è principalmente la produzione di un effetto, ma in quale senso? La realtà, fisica e umana, è costituita da fatti e non da cause. A ben vedere, quando attribuiamo ad un certo fatto, chiamiamolo A, la capacità di causare B, noi isoliamo questi eventi dall’infinita e intricata matassa dei fatti ponendoli in una relazione speciale e per così dire esclusiva. La stessa «spiegazione» di qualcosa avviene di norma rinviando alla etimologia del termine, per la quale explicare si-

gnifica aprire il plico, ossia rivelare il contenuto che sta sotto le pieghe della realtà ed esso consiste appunto nelle cause di ciò che avviene. Va ora osservato, però, che l’estrema complessità di ciò che chiamiamo realtà non si concede facilmente al nostro bisogno di spiegarla. Anche sul piano scientifico, il cimitero delle ipotesi che nel tempo si sono dimostrate inattendibili è sicuramente molto più vasto del paniere di conoscenze acquisite stabilmente. Va aggiunto che alcuni criteri, apparentemente persuasivi ma sostanzialmente fallaci, non aiutano molto e, al più, si rivelano congetture che, talvolta, danno una mano solo a costruire ipotesi. Uno di questi si trova nell’espressione latina post hoc ergo propter hoc per la quale, se B avviene dopo A allora A è la causa di B. Anche qui, come si può facilmente intuire, avviene l’ingannevole sradicamento di A e B dall’illimitato alfabeto dei fatti, assegnando arbitrariamente alla sola variabile temporale la forza persuasiva di cui si era alla ricerca. Si tratta di un criterio che, fra l’altro, è stato ampiamente adottato nel recente dibattito circa i possibili effetti collaterali dei vaccini contro la Covid-19. Da più parti si indicavano effetti avversi sulla sola base del fatto che, essi, si erano manifestati dopo l’assunzione del vaccino. Un’altra forma di fallacia dipende poi dall’u-

so logicamente ambiguo del termine «causa», come quando la attribuiamo impropriamente a un contesto e non a un fatto specifico capace di produrre un effetto. Un filosofo della scienza proponeva anni fa un esempio tipico. Supponiamo che, essendo venuto a mancare il chiodo che lo sosteneva, un quadro sia caduto sul pavimento. Sarebbe corretto affermare che il quadro è caduto a causa dell’assenza del chiodo? Evidentemente no, dato che a produrre l’effetto non può essere qualcosa che non c’è, mentre era sicuramente in azione la forza di gravità. Un caso speciale è poi quello delle spiegazioni «teleologiche», ossia spiegazioni che indicano il fine al quale tende un fenomeno. Poniamo che un bambino chieda al padre perché gli orsi polari hanno il pelo bianco. Il padre avrà due possibilità: descrivere, se lo conosce, il processo biologico che produce il pelo bianco oppure osservare che, col pelo bianco, gli orsi polari perseguono il fine di mimetizzarsi fra i ghiacci. Il fine, dunque, porrebbe la causa dopo l’effetto, mettendo in luce la natura instabile del concetto in questione. Insomma, tenendo ferma la definizione del concetto di causa come qualcosa che, rigorosamente, produce un effetto si incorre spesso in circostanze poco convincenti o fuorvianti. Perciò, sul piano scientifico, si prefe-

risce sempre più adottare il termine «condizioni», in particolare quando ci si riferisce a fenomeni, come quelli economici o sociali ma anche biologici e fisici, che si legano l’uno all’altro in base a probabilità e non attraverso la diretta produzione materiale. Altrettanto, guadagna terreno l’impiego del termine «policausalità» per intendere che, un certo effetto, si realizza solo se intervengono più cause, trasformando la causa in una più o meno complessa rete di interazioni. Così, sostenere che una certa decisione politica ha generato un innalzamento dell’inflazione significa affermare che, a seguito di un esame complesso – ma mai completo – delle variabili in gioco, si è riscontrata una certa correlazione probabilistica fra i due eventi e non che il primo ha causato il secondo. In fondo ci capiamo comunque, ma la differenza fra una spiegazione causale e una probabilistica rimane importante anche perché la prima, indicando un fenomeno, magari sociale, come «causa» di

qualche evento negativo può portare ad assumere atteggiamenti di dura ma, magari, immotivata ostilità. In definitiva, indicare con certezza la causa di un evento è piuttosto arduo e siamo in grado di farlo solo in situazioni nelle quali il fenomeno è sufficientemente isolato per conto suo oppure quando lo isoliamo noi stessi in laboratorio. Inoltre il fenomeno dovrebbe sempre essere riconducibile a forme di causalità immediata riconosciuta universalmente, come, per portare solo pochi esempi, la gravità, le leggi termodinamiche di base, il magnetismo. In tutti gli altri casi dovremmo limitare la nostra irresistibile inclinazione a credere in una realtà fatta di cause ineluttabili. Altro è, naturalmente, ciò che si può pensare in termini metafisici per mezzo dei quali possiamo persino arrivare a porre Dio, con Aristotele e Tommaso, come «causa prima» o alla volontà degli Dei come causa dei fenomeni naturali. Ma questa è un’altra storia, sebbene manifesti la stessa e perenne attitudine umana.

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refrattaria
umana ◆ Ci riteniamo soddisfatti quando possiamo rispondere alla domanda «perché?». Ma indicare con certezza la causa di un evento è arduo
Unspalsh –Bradyn Trollip

La bellezza, a volte, può bloccarti la vita

Incontri (9) ◆ Ultima di tre figlie, Lisa Viviani è la «principessa» di casa. Finito l’apprendistato si ritrova però senza un lavoro. Iniziano le paure, le domande. Poi arrivano l’anoressia nervosa, i ricoveri, le cure e, alla fine, la

La vedi e non ti sfugge che lei, Lisa Viviani, bella lo è per davvero. Adesso lo sa anche lei e lo accetta, ma nella sua vita c’è stato un periodo in cui proprio questa sua bellezza l’ha frenata, disorientata e quasi uccisa. Ci ha impiegato tre anni per uscire da una crisi che l’ha portata a confrontarsi con quello che, per le giovani generazioni, si sta rivelando il male del secolo: il disturbo alimentare.

Lisa, a 18 anni, comincia a mangiare poco, poi sempre meno, fino a non mangiare più. La diagnosi: anoressia nervosa. Adesso che di anni ne ha 30 è titolare di un salone di parrucchiera unisex: piccolo, ma frequentatissimo. Lisa, infatti, dall’anoressia è uscita e, quando sorride, ti permette di credere che sì, ce la si può fare.

A che prezzo?

Non saprei dire a che prezzo. Posso dire che è stata dura anche perché, quando ti ci ritrovi dentro, non hai proprio più voglia di fare niente. Le forze si riducono al lumicino e anche la capacità di estraniarsi dai propri problemi per affrontare ragionamenti più generali svanisce. Sei lì che stai male e basta. Sola coi tuoi pensieri che non osi nemmeno esternare perché ti sentiresti rispondere quello che non vuoi più sentirti dire: «Non lasciarti andare. Reagisci. Mangia. Sei una bella ragazza. Non rovinarti. Hai la vita davanti a te». Già, hai la vita davanti ed è proprio quella cosa lì che a me faceva una paura tremenda. Una vita da disoccupata. Una vita da bella ragazza senza lavoro.

Lisa, riesci a raccontare, almeno per sommi capi, la storia di quegli anni?

Ci provo. Non è proprio una passeggiata, ma… proviamoci. Direi di partire dalla mia famiglia che mi è sempre stata vicina, che mi ha sempre amata e coccolata, che mi ha sempre lasciata libera di scegliere quello che reputavo meglio per me. È così che, dopo le medie, ho potuto seguire l’apprendistato di parrucchiera. Tre anni dove ho imparato un mestiere che mi piaceva perché aveva, come obiettivo ultimo, il benessere degli altri. Finito l’apprendistato conseguo il diploma, ma il mio datore di lavoro non può permettersi di assumermi a contratto e così… resto senza lavoro. Lui è dispiaciuto, ma è sicuro che non avrò difficoltà a trovare un posto: «Sei una bella ragazza». Io sono molto meno sicura di lui: sia sul fronte delle difficoltà, sia su quello della bellezza. Di una cosa sono sicura: non voglio stare a casa a pesare sulle spalle della mia famiglia. Voglio mettere a frutto quello che ho imparato, ma… tutte le porte sono chiuse. Vado alla ricerca di un impiego, per la disoccupazione devo consegnare tot firme, entro in un bar mi presento e subito senza nemmeno leggere che di formazione sono parrucchiera ma (grazie alla bella presenza) mi viene chiesto di mettermi dietro al bancone. Sono una parrucchiera, ho studiato per questo non per la bella presenza, quindi rifiuto, non me la sentivo. E comincio ad andare in avvitamento. Perché tutti si fermano solo al mio aspetto esteriore? Perché nessuno mi chiede di dimostrare cosa so fare e cosa ho imparato? L’appetito passa, le domande si moltiplicano, le forze si affievoliscono e comincio a dormire fino a tardi la mattina. Poi

a dormire tutto il giorno. Poi a non alzarmi più dal letto. Poi ad essere imboccata a letto da mia madre. Poi a mangiare e vomitare. Poi a non più voler mangiare per non vomitare. Insomma… sempre peggio.

Non ti è mai venuto in mente di rivolgerti a un medico? Di parlare con qualcuno di quello che ti tormentava?

Forse mi è anche venuto in mente, ma non volevo dire ad altri quello che stavo vivendo io. Erano affari miei ed ero convinta che solo tenendomi dentro tutto avrei potuto uscirne. Così si è andati di male in peggio. A 19 anni pesavo 36 chili e non stavo più in piedi. Una mattina – che ricordo solo in modo sfuocato – mia madre ha chiamato il medico di famiglia. Non riuscendo a farmi uscire dal letto la dottoressa è venuta a casa.

Diagnosi: situazione compromessa al punto che il rischio di un collasso è imminente. Caricata in ambulanza

vengo trasferita d’urgenza al Centro per i disturbi alimentari dell’OBV di Mendrisio. Lì riescono a riequilibrarmi, ma io – che sono già maggiorenne – dopo poco più di un mese di ricovero, dico che non voglio restare ricoverata. Che voglio tornare a casa mia. Che adesso sono in grado di farcela. E vengo dimessa.

È stata la giusta decisione?

No. Lo era, per me, in quel momento, ma… No. Non ce l’ho fatta. Nonostante il mio compagno – Hugo – si fosse trasferito a casa dei miei genitori per starmi vicino e darmi coraggio e morale. Nonostante tutti si facessero in quattro per me. Tutte le loro attenzioni diventavano, per me, un «peso pesante» da sopportare. Continuavo a percepirmi come un fardello sulle spalle degli altri. Hugo mi incitava ad uscire. Mi accompagnava in giro, ma io ero tornata ad aver paura di sentirmi male, di vomitare intanto che ero fuori ca-

Tre momenti chiave di una vita

Lisa, ha a disposizione 666 battute per illustrare tre momenti topici della sua vita:

1. Quando mi persi in me stessa e mi ammalai di anoressia. Ero giovane avevo 18 anni. Avevo tanti sogni, ma mi sembrava che tutto e tutti fossero contro di me. Non uscivo più di casa. Sulle spalle una delusione amorosa e la disoccupazione. Mi ero persa. Ci sono voluti anni. Il percorso su me stessa è stato lungo. La pazienza di chi mi era

sa e così… Ecco che torno a chiudermi in casa e in me stessa. In poco meno di un anno la storia ricomincia daccapo: medici, psicologi e cure che comprendono un nuovo ricovero, per tre mesi, in un’altra struttura ospedaliera.

Tre mesi e poi?

Poi inizio a lavorare sulle cose che mi danno gioia: animali, natura, sport e pittura. Comincio a rifarmi una vita. Ricomincio a spedire curricula. Riesco ad accettare la «bella presenza». Comincio a credere in me stessa nonostante sia in disoccupazione. Poi, una mattina, ecco che anche a me capita il colpo di «fattore C». Mancano poche settimane a Natale. Squilla il telefono. È Daniele del Salone Coiffure di Montagnola. Un suo collaboratore si è rotto la spalla e ha urgente bisogno di qualcuno che lo aiuti. Salgo subito, la mattina, per il colloquio.

Il pomeriggio sono già al lavoro nel salone. Lui, Daniele, però si accor-

ge che non sono proprio al cento per cento. Mi chiama e va dritto al punto: «Senti, io ti ho guardato lavorare e sei brava, ma vedo anche che hai avuto – o hai ancora – problemi di salute. Io non posso farmi carico di nuovi problemi. Se resti devi farlo al cento per cento». Accetto la sfida e lavorerò con Daniele per cinque anni. Lavoro con lui fino al 2017 quando il proprietario dell’edificio che ospita anche il salone sente Daniele e gli comunica la vendita dello stabile. Daniele opta per il prepensionamento.

E tu? Resti senza lavoro?

Ebbene sì. Lavoro con Daniele per gli ultimi cinque mesi (quelli che precedono la chiusura per sfratto), ma in quei cinque mesi devo decidere cosa fare. Sia Daniele, sia Hugo, sia i miei genitori mi dicono di buttarmi, di aprire un mio salone. Il punto di svolta profonda, per me, lo costituiscono loro che questa volta mi invitano a farlo dicendomi: «Sei brava! Prova!». Capito? Sono brava. Non sono più solo bella! E allora mi faccio coraggio. Vado dalla signora che gestisce il salone in paese chiedendole se potrebbe entrare nei suoi piani una co-gestione o una cessione. Passa qualche tempo e… nell’ottobre del 2018 apro il mio salone. I clienti che avevo a Montagnola mi raggiungono a Gentilino dove se ne aggiungono altri. Certo, arriva il Covid che, anche per me è stato un periodo duro, ma i giorni dell’anoressia, glielo assicuro, sono stati molto peggio. Forse anche per questo sono riuscita ad aiutare chi, in quei mesi di clausura, ha rischiato di perdersi.

Una Lisa soddisfatta… … una Lisa che continua a lavorare su se stessa e che non si perde di vista. Senza contare che adesso so guardare un obiettivo fotografico e anche uno specchio. Quando mi vedo sorrido e mi dico: brava Lisa, ce l’hai fatta a venirne fuori! E poi sì, sei ancora abbastanza bella, ma… sei molto, molto più brava!

Scheda

Nata a: Sorengo.

Età: 30.

Abito a: Gentilino.

Lavoro: in proprio come parrucchiera.

Hobby: Animali, natura, sport.

Rimpianto: Non essere andata all’estero a studiare una lingua straniera. Sogno nel cassetto: Ne ho svariati: aprire un rifugio per animali maltrattati; comprare una valle e costruirci un bel rustico con annesso rifugio dove magari appunto ospitare tutte le creature bisognose. Cercare comunque di fare del bene.

vicino tanta, ma alla fine ci sono riuscita e ringrazio me stessa per essermi data un’altra possibilità in un mondo che ora vedo più colorato e non così grigio.

2. Quando con Hugo, il mio compagno, nel 2013 abbiamo adottato da un rifugio Argo il nostro cane, che mi ha dato una botta di vita. È stato proprio Argo che mi ha costretta e aiutata a uscire di nuovo di casa e a relazionarmi con il resto del mondo.

3. L’apertura della mia attività in-

dipendente come parrucchiera dopo anni che mio papà, fin dalla fine del tirocinio, mi diceva: «Dai Lisa, apri!». Ma io non me la sentivo, non ero sicura di me, credevo, di non aver abbastanza esperienza. Poi arrivò il giorno in cui ho dovuto decidere: ricominciare per qualcun altro (se mai avessi trovato un posto) o provare a lanciarmi e mettere su qualcosa per conto mio? Alla fine mi sono buttata e ho aperto. Era il 2018.

Amo: L’onestà, la natura, gli animali. Ho una passione per i cani fin da bambina.

Non sopporto: L’ipocrisia, le bugie, la crudeltà in ogni sua forma e sotto ogni aspetto.

La mia foto preferita: Una foto scattata anni fa con Argo uno dei miei cani, all’epoca c’era solo lui. Eravamo al Sasso delle Parole. Una bella passeggiata insieme a Hugo, il mio compagno (fu lui a scattare la foto). C’era un’atmosfera di pace quel pomeriggio ed è stato bellissimo.

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Il Vittoriale degli Italiani

Si trova sulle rive del Garda e fu l’ultima dimora dell’amato poeta Gabriele D’Annunzio

Monte Generoso

Un rinnovato Buffet Bellavista e numerose iniziative culturali per la nuova stagione

Pagina 17

Viticoltura sudafricana

Tra conquistatori e governatori, si sviluppò la produzione di vino nella terra di Capo di Buona Speranza

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Cercando la luce nella notte

Fotografia ◆ Dopo il crepuscolo nascono dalle luci artificiali luoghi «altri» e ottimi banchi di prova

Col calare del sole, i nostri spazi di vita quotidiana subiscono una radicale trasfigurazione. La luce naturale, che tutto esternamente illumina, va a scemare e a poco a poco il paesaggio in cui ci troviamo immersi –di per sé immutato – ci appare sotto altre forme, plasmato dalle luci con le quali fendiamo l’oscurità della notte. La loro relativa potenza spesso non va oltre alla capacità d’illuminare specifici oggetti o porzioni di spazio, e solo assommandosi – quando è il caso, come avviene ad esempio in luoghi più o meno densamente abitati – creano un apparente effetto d’illuminazione diffusa.

Ma se osservato con attenzione, lo spazio notturno si propone piuttosto come un variegato mosaico d’intensità luminose diverse, picchi di luce alternati a zone in penombra o di totale oscurità. Noi, e i nostri occhi, a questo panorama siamo talmente avvezzi da non farci più caso. Come se nulla fosse, durante il passaggio da giorno a notte scivoliamo in atmosfere del tutto artificiali. Che, da un punto di vista anche fotografico, presentano molte e interessanti piste d’esplorazione.

Particolari anche banali, o semplicemente indistinti di giorno, possono stagliarsi con forza inaspettata, rivelandoci una differente loro natura

Armiamoci dunque di macchina fotografica e con spirito aperto inoltriamoci nelle ore notturne alla scoperta delle innumerevoli suggestioni che ci offrono. A ben guardare, lo spazio che si crea dopo il crepuscolo è come un immenso studio fotografico in cui le luci, per noi già disposte, ci daranno modo di realizzare scatti dei più vari, secondo le individuali inclinazioni.

L’illuminazione notturna – rispetto a quella di giorno – opera una forte alterazione delle gerarchie visive, determinata dalle molteplici angolazioni e dall’alternata forza delle luci in campo. Luci morbide, avvolgenti, oppure contrastate, spesso di vario colore, avranno la capacità di prestare a ciò che sta nello spazio visivo una parvenza diversa e ben distinta da quella che presenta nella luce diurna. Particolari altrimenti banali o semplicemente indistinti di giorno, possono allora stagliarsi con forza inaspettata, rivelandoci – chissà – un’altra loro natura. Quasi che alla notte appartenesse la facoltà di mostrarci ciò che di giorno si cela.

L’invito mio solito è quello di uscire in esplorazione pronti, sì, allo stupore, ma pure provvisti in giusta misura di un progetto, anche solo abbozzato, da utilizzare come filo con-

duttore con cui orientare lo sguardo, specialmente prevedendo la costruzione di un’eventuale serie. Nulla ci impedisce poi il divagare.

Da una prospettiva prettamente estetica e immediata, le luci della notte danno luogo ad atmosfere surreali, romantiche, cariche di drammaticità e mistero. Vanno a formare suggestive composizioni astratte. Ma se vogliamo adottare uno sguardo più analitico, ci possono ad esempio suggerire – attraverso la loro disposizione, potenza e varietà – la strutturazione socio-economica dello spazio abitato: nell’oscurità, la luce è potere.

Anche la vita che si svolge di notte può essere particolarmente interessante da fotografare, che sia legata al lavoro o alla ricerca del piacere e del divertimento. Zone deserte, zone di transito, zone affollate. In bianco e nero o a colori. Isolando dettagli o componendo affreschi delle situazioni incontrate. Fermando il movimento o lasciandolo liberamente fluire nell’immagine. Tra le mille possibilità, a voi la scelta più felice.

Dal punto di vista tecnico, la fotografia notturna implica l’adozione di strumenti e accorgimenti appropriati. Avremo a che fare con situazioni

Le poesie nascoste

Cerchiando le parole sulle pagine di un vecchio libro nascono bei quadretti e taccuini

Pagina 20

che sovente presenteranno latitudini di luci che nessuna pellicola o sensore riuscirà a registrare fedelmente nella loro estensione. Dunque, vi suggerisco innanzitutto di mettere da parte, con vostra buona pace, l’ideale dell’esposizione perfetta. Ci troveremo spesso a dover scegliere tra l’avere nell’immagine delle luci sovraesposte oppure zone in ombra senza dettaglio, chiuse, del tutto nere. Poco male, a mio avviso l’«imperfezione» tecnica non fa per forza scadere qualitativamente un’immagine – come non è neppur vero il suo esatto contrario. Anzi, a volte il perfezionismo

tecnico diventa un feticcio che, per finire, ostacola la spinta creativa, limita il sorprendente spazio dell’imprevisto. E non dimentichiamo che con il lavoro di postproduzione potremo arginare, almeno parzialmente, alcuni di questi inconvenienti.

Indispensabile l’utilizzo di ottiche con grandi aperture per scattare, quando il caso lo richieda, con tempi sufficientemente brevi al fine di congelare, ad esempio, una scena di strada a mano libera. Più l’ottica è lunga e maggiore dovrebbe essere la velocità di scatto per evitare il mosso. Per cui, se sono le scene di strada che v’interessa fotografare, vi consiglio di adottare di notte degli obiettivi corti, tendendo ai grandangolari.

Con un po’ di esercizio mirato alla stabilità della macchina, vedrete che riuscirete a fotografare a mano libera anche con tempi considerati lunghi (sotto al cinquantesimo di secondo, come ipotetica soglia per avere una foto non mossa?). Il mosso potrebbe poi però risultare dal movimento dei soggetti all’interno della scena fotografata… Per conto mio, comunque, anche questo del mosso tante volte rientra nella sfera dei falsi problemi.

Naturalmente, sarà pure inevitabile lavorare con sensibilità elevate. La qualità tecnica del risultato dipenderà dalle caratteristiche del vostro sensore, oggi comunque sempre più atti a spingersi verso alte sensibilità con una produzione limitata di rumore. E, di nuovo, un buon editor in postproduzione vi aiuterà a contenere anche questo disturbo.

L’adozione di un solido cavalletto e, perché no, di un telecomando può essere utile per questo tipo di fotografia. Vi permetterà di scattare lunghe esposizioni, con la scelta di diaframmi più chiusi e di basse sensibilità. Magari effettuando pure un cosiddetto bracketing – ossia, più esposizioni per la medesima inquadratura: un’esposizione media, e le restanti realizzate per compensare le alte luci e le ombre – da utilizzare in post per comporre l’immagine finale con luci più o meno equilibrate. Si capisce però d’intuito come la ripresa col cavalletto incontri i suoi limiti in base alle situazioni o al tipo di fotografia che vogliamo scattare.

Bene, quanto fin qua detto vi basti per cominciare. Troppe sono le problematiche in cui incapperete fotografando di notte (tecniche ma anche etiche, o logistiche, oppure legate, mai sia, all’integrità vostra e delle vostre apparecchiature…), per poterle riassumere in un solo articolo. Man mano che le affronterete, troverete, ne son certo, le soluzioni più consone. La notte, sotto tanti punti di vista, è una grande e mirabile palestra. Posso solo dirvi: approfittatene.

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Un’eccentrica dimora che non si dimentica

Itinerari d’arte ◆ Oggi museo, il Vittoriale degli Italiani fu la residenza sulle rive del Garda di Gabriele D’Annunzio che considerava questo luogo il suo ultimo capolavoro

Luigi Baldelli, testo e foto

Dimora maestosa a Gardone Riviera, il Vittoriale degli Italiani, circondato da un grande parco con vista spettacolare sul Lago di Garda, è un museo unico nel suo genere. Qui visse l’ultima parte della sua vita, dal 1921 al 1938, il poeta Gabriele D’Annunzio che, dopo le imprese di Fiume e un breve soggiorno a Venezia, andò in cerca di un luogo tranquillo perché era «avido di silenzio dopo tanto rumore, e di pace dopo tanta guerra».

In questo luogo, straordinario e particolare, oggi si alternano monumenti e architettura dell’epoca a opere d’arte e sculture moderne.

Arredi sfarzosi, citazioni di Dante scritte sui soffitti, splendidi arredi di Murano, calchi delle opere di Michelangelo e tanto altro

La casa e tutte le opere che saranno realizzate nei suoi dintorni, appassioneranno sin da subito D’annunzio che, affiancato dall’architetto Gian Carlo Maroni, dedicherà gli ultimi anni della vita a realizzare quello che lui considerava il suo ultimo capolavoro: un luogo di memorie e richiami storici, un impronta indelebile dove l’arte e l’architettura si mescolano ai simboli, alla sua visione della vita, della storia e della cultura, un museo che lascerà in dono agli italiani nel 1930.

Nel viale d’ingresso si è subito accolti dal busto in bronzo del poeta, opera dello scultore Gabriele Vicari, mentre più avanti si staglia maestoso sopra il teatro all’aperto il grande Cavallo Blu di Mimmo Paladino. Teatro che ospita spettacoli tutte le estati e guarda diritto in faccia il lago di Garda con la sua rocca di Manerba, il promontorio di Sirmione e il monte Baldo. Il Vate, così era soprannominato D’Annunzio, chiese espressamente che si richiamasse al teatro Grande di Pompei. La struttura fu completata nel 1958, molti anni dopo la morte del poeta. Negli anni, D’Annunzio acquista i vari terreni e case intorno alla residenza che diventa un cantiere continuo, dove i lavori non si fermano mai.

Tutti i grandi e famosi artisti e personaggi dell’epoca andarono a fare visita al Vate anche per ammirare questo luogo, da Toscanini a Ugo Ojetti, da Tazio Nuvolari a Italo Balbo, da Mondadori a Guglielmo Marconi. E tutti vennero accolti dal motto dannunziano: «Io ho quello che ho donato», scritto sul muro esterno della casa, oggi museo. Un percorso che permette anche a noi di viaggiare e capire la visione della vita del Vate – che amava chiamare la sua dimora La Priora, perché il Comandante si definiva il Priore – in un susseguirsi di stanze ricche di arredamenti, libri, tappeti, opere d’arte e cimeli. Ricordi della vita avventurosa mischiati ad arredi sfarzosi, citazioni della Divina Commedia (di cui D’Annunzio era un estimatore) scritte sui soffitti alternate a splendidi vetri di Murano e calchi delle opere di Michelangelo, che il Poeta considerava suo parente per intelligenza e genialità.

Lo studio, chiamato l’Officina e dove per entrare bisogna abbassare la testa in segno di rispetto, con i tanti libri è il luogo elitario dove si dedicava

alla scrittura, alla lettura e alla ricerca, mentre la stanza dove viveva le sue passioni amorose non lascia spazio alla fantasia per i tanti cuscini e tappeti. D’Annunzio fu un grande amante, gli piaceva essere circondato di belle donne e non si faceva problemi a far vivere sotto lo stesso tetto la sua compagna, la pianista Luisa Bàccara insieme all’amante, la governate Aélis Mazoyer, oltre alle tante donne che gli facevano visita.

Singolare la stanza del Monco, così chiamata per sottolineare la sua

impossibilità a rispondere alle tante lettere che riceveva, o la Stanza del Lebbroso – forse il luogo più intimo dove si ritirava in meditazione – arredata con un letto a forma di bara. Non mancano certo nelle varie stanze i richiami alla musica o alle religioni, che in questa dimora si mischiano tra di loro, dal buddismo al cristianesimo alle religioni tradizionali africane. Tutti i nomi delle stanze, che all’apparenza sembrano fantasiosi, avevano in verità un forte significato per il Vate, e ognuna di esse ha una sua ca-

ratteristica, un’importa unica data dai colori dell’arredo o dalle statue, dagli oggetti che ricordano imprese o amici, dalle scritte o dai busti così come dall’uso delle stesse stanze da parte del poeta.

Ma il viaggio nel tempo all’interno di vita, opere e avventure del poeta non si limita solo agli ambienti della Priora. Camminare nei vialetti del grande parco che circonda la villa è un piacevole alternarsi di ricordi dell’epoca a opere d’arte moderne. Di questo parco il Principe di Montenevoso, titolo che gli venne conferito nel 1924 dopo l’impresa di Fiume, si occupò personalmente.

E anche qui troviamo spazi, come l’Arengo, dedicati alle commemorazioni delle sue imprese di guerra seguiti da frutteti o giardini, come la Limonaia, dove si erge l’obelisco ad opera di Arnaldo Pomodoro. Tra opere d’arte moderna di Bombardieri o Benaglia fa mostra di sé la Regia Nave Puglia, un vascello incastonato nel parco, dono dell’ammiraglio Paolo Thaon di Revel, con la sua prua in direzione del Garda e dell’Adriatico, dove si può ammirare la scultura in bronzo della Nike (Vittoria) di Renato Brozzi. Ai bordi dei viali la vegetazione

è rigogliosa e la passeggiata è spesso accompagnata dal rumore dell’acqua dei piccoli ruscelli voluti dallo stesso D’Annunzio, che scendono verso il Laghetto delle Danze a forma di violino e dove d’estate il Principe organizzava concerti per i suoi ospiti. Dall’altro lato del Parco del Vittoriale colpisce invece la dimora del MAS 96, il motoscafo sommergibile utilizzato da D’Annunzio durante l’impresa di Buccari nel 1918. Motoscafo che lo stesso Vate utilizzava per intrattenere i suoi ospiti o per navigare sul lago di Garda.

E sopra, nella collina più alta del Parco, si erge il Mausoleo, il luogo dove è sepolto D’annunzio insieme ai suoi amici più fedeli, dedicato alle Vittorie degli Umili, degli Artieri e degli Eroi, circondati dalle sculture dei cani in ferro e cemento dell’artista Velasco Vitali. Da quassù, guardando per intero il Vittoriale, ci si rende conto che visitarlo ci porta nella vita di un’artista inimitabile e anticonformista, in un luogo che potrà piacere oppure no, ma che sicuramente non si dimentica.

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Quattro inverni per un nuovo Generoso

Ristrutturazioni ◆ Per la riapertura dell’amata meta naturalistica, un rinnovato Buffet Bellavista e vari appuntamenti culturali

Quattro anni, anzi, quattro inverni.

È questo il tempo trascorso dall’inizio dei lavori di ristrutturazione dei binari della cremagliera che – da 133 anni – dalla stazione di Capolago-Riva San Vitale porta in vetta al Monte Generoso (lo ricordiamo, è l ’unica cremagliera su territorio ticinese), e più precisamente al Fiore di pietra, situato a un’altitudine di 1704 metri. Una ristrutturazione nata sulla scia del desiderio della Monte Generoso di diventare una destinazione green, abbinata alla consapevolezza dell’importanza storico-culturale della linea ferroviaria che a partire dal 1890 ha iniziato a portare i villeggianti al Grand Hotel Bellavista – fino a quel momento raggiungibile unicamente a dorso di mulo o trasportati su una portantina. Gottlieb Duttweiler, fondatore di Migros, in un momento in cui l’attrazione turistica sembrava superata, anche a causa dei nefasti avvenimenti bellici, nel 1941 aveva acquistato la ferrovia, fermamente intenzionato a darle continuità («come rinunciare a una terrazza panoramica tanto spettacolare?», avrebbe detto), e oggi la Ferrovia Monte Generoso appartiene al Percento culturale Migros, che dal 1957 sostiene iniziative culturali e sociali.

La recente operazione di ristrutturazione dei binari è costata 22 milioni di franchi e ha coinvolto ben 150 operai e cinque aziende ticinesi, grazie alla cui dedizione sarà possibile, a partire da quest’anno, salire in vetta anche nei mesi invernali. E il 25 e il 26 marzo sarà un’occasione imperdibile per dare il benvenuto alla nuova stagione con una visita al Buffet Bellavista o al Fiore di pietra in vetta (per informazioni vedi box).

La nuova stagione di quella che per antonomasia è la «montagna dei momò», fra le numerose novità in cartellone, può infatti fieramente

vantare anche la ristrutturazione del Buffet Bellavista (nella foto). Con i suoi 40 posti all’interno e i grandi tavoli con panche all’esterno, quello che da sempre è storicamente un punto di ristoro per escursionisti o semplici amanti della natura (e della frescura, che caratteristicamente contraddistingue questo luogo), come spiega Monica Besomi, Head of Marketing & Communication e Vice-Director della Ferrovia Monte Generoso (FMG), offre da subito anche nuove opportunità aggregati-

Le sostenibilità di Giacomo Braglia

Il Monte Generoso, oltre a offrire opportunità di svago, bellezza naturalistica e punti di ristoro, in linea con la filosofia Migros, propone anche quest’anno una mostra d’arte. Protagonista di Conversations with Sustainability, che aprirà al pubblico il 26 marzo, sarà il giovane artista scultore e fotografo Giacomo Braglia. Denotando una sensibilità sottile e consapevole per le crisi della nostra epoca, Braglia si occupa nei suoi lavori di natura e del nostro rapporto con essa, obbligandoci, seppur con gentilezza, a intraprendere un percorso di riflessione che tocca anche il nostro vivere quotidiano. Lo abbiamo incontrato per farci raccontare la mostra.

Come dobbiamo immaginarci queste «Conversazioni con la sostenibilità»?

Ogni mia opera non è mai fine a sé stessa, ma è concepita come uno strumento per comunicare. Dialogare, stimolare, accendere una discussione offrendo nuovi spunti di riflessione.

Lo spirito delle mie Conversations, il titolo che amo dare alle mostre, è proprio quello di sottolineare la necessità di aprire un dialogo con il fruitore su temi di straordinaria attualità come il rapporto uomo-natura, l’inquinamento e la sostenibilità

ambientale. In questi anni, ho fatto conversazioni con terre lontane come l’Etiopia (Conversation with Ethiopia, 2017), con la natura ma anche con la tecnologia, come nel progetto Tablet: Tune Off & Converse (2017), un invito a spegnere i nostri dispositivi elettronici per conversare con le persone senza media tecnologici.

Crede che in questo momento sia particolarmente importante l’aspetto politico dell’arte?

L’arte è sempre il riflesso della società che la produce. Oggi il tema dell’inquinamento ambientale è al centro del dibattito artistico-cultu-

ve: «La riapertura del buffet restituisce ai momò e ai ticinesi uno scrigno colmo di storia, ricordi ed emozioni, e tutti avranno la possibilità di prenotarlo per feste serali private con amici e famigliari».

I lavori di restauro, affidati a un team composto dall’ingegner Luigi Brenni e dagli architetti Michela Pagani dello Studio Gaffurini Pagani Tresoldi di Balerna e Desirée Rusconi di Mendrisio, sono stati realizzati in modo da non essere riconoscibili esternamente, rispettando il fascino

rale, così come il concetto di sostenibilità. In questo senso, l’arte può diventare un potente mezzo di comunicazione per parlare di temi importanti, spesso non trattate adeguatamente dai media, che invece richiedono una risposta urgente come la migrazione dei popoli, l’uso consapevole della tecnologia e la salvaguardia del nostro pianeta. Sculture e dipinti possono essere il veicolo di messaggi importanti! La bellezza dell’arte è proprio questa… l’arte lascia agli artisti la libertà di raccontare il loro punto di vista sul mondo.

Dove si trovano le sue fonti di ispirazione?

I miei modelli artistici sono Steve McCurry e Sebastião Salgado per la fotografia, Igor Mitoraj e Pablo Atchugarry per la scultura. Ma la mia fonte di ispirazione è la realtà che ci circonda. Mi occupo da sempre di temi di attualità di matrice ambientale e sociale. I miei progetti fotografici nascono così, dal mio interesse per un tema o una problematica specifica alla quale mi avvicino con la fotografia, il mio occhio per filtrare il mondo, per poi trasformare gli scatti fotografici in sculture e installazioni complesse che abbracciano e incorporano l’immagine.

originale e un po’ vintage dell’edificio risalente alla fine del 1800. È invece nuovo l’impianto di fitodepurazione per il trattamento delle acque reflue affidato al biologo e ingegnere ambientale Giuliano Greco della Oikos Swiss di Bellinzona. Attraverso il nuovo impianto si è ora in grado di trattare e smaltire i reflui fognari in loco e in modo biologico. Nel corso dei prossimi mesi la FMG, che gestisce anche il Camping del Monte Generoso di Melano (la cui riapertura è prevista sem-

pre il 25 marzo), ha in serbo una serie di appuntamenti che spazieranno dal cinema – grazie alla preziosa collaborazione con il Locarno Film Festival – alla musica (si va dalla country ai dj set), senza dimenticare gli aspetti sociali, con appuntamenti per le famiglie e per i disabili. Inaugurerà la stagione l’artista Giacomo «Jack» Braglia. (v. articolo sotto) Su «Azione» troverete tutte le informazioni riguardanti le attività della Ferrovia Monte Generoso e i concorsi con i biglietti per parteciparvi.

Concorso

Cosa si auspica provi il lettore davanti alle sue opere?

L’arte è libertà. Il fruitore è libero. Tuttavia lo scopo più alto dell’arte è la riconquista della sua funzione sociale: la capacità di porre interrogativi sul mondo, scuotere le coscienze fino a indurre l’uomo ad agire sul mondo, guidandone il cambiamento.

Al Fiore di pietra espongo un ciclo di opere presentate nel 2021 a Parma, in occasione di Parma Capitale Italiana della Cultura 2020+21, che riflettono sulle problematiche legate allo smaltimento dei rifiuti e al riciclo dei materiali. Una questione urgente che rappresenta una sfida importante per il futuro del nostro pianeta. Vorrei che le mie opere non fossero fruite passivamente: mi piacerebbe aprire un dialogo con chi osserva, stimolare il suo interesse nell’approfondire certe tematiche. Essere da stimolo al cambiamento.

Dove e quando Giacomo Braglia, Conversations with Sustainability, Monte Generoso, Fiore di pietra; orari: vedi box, orari Fiore di pietra. Fino al 29 ottobre 2023. Apertura: da domenica 26 marzo 2023; ingresso gratuito; giacomobraglia.com

«Azione» mette in palio 5x2 biglietti andata e ritorno Capolago-Monte Generoso Vetta a bordo dell’unica cremagliera del Canton Ticino. Per partecipare al concorso inviare una mail a giochi@azione.ch (oggetto: «Monte Generoso») entro domenica 19 marzo 2023, ore 24.00.

Informazioni

Le informazioni in merito alle attività e agli eventi previsti sul Monte Generoso si trovano sul sito internet www.montegeneroso.ch o scrivendo all’indirizzo mail info@ montegeneroso.ch

25 e 26 marzo: sconto 50% sui ticket per tutte le tratte e menù della tradizione ticinese al Buffet Bellavista a prezzo speciale. Al Fiore di pietra esibizione dei Corni dal Generus e del Circo del Mago Tonino.

Orari Buffet Bellavista

10.00-16.30 (25.3-26.5)

10.00-17.30 (27.5-29.10)

Tel. +41 (0)91 6493333

Orari Fiore di pietra

10.00-16.30 (25.3-26.5)

10.00-17:30 (27.5-29.10

Tel. +41 (0)91 64 977 22

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 13 marzo 2023 azione – Cooperativa Migros Ticino TEMPO LIBERO 17
Il rinnovato Buffet Bellavista (© Ferrovia Monte Generoso by Alice Giambonini), in basso Giacomo «Jack» Braglia, #Ms.Wired – 2021, 1/3, Technic: Photographic Print on Aluminum. (Giacomo Braglia)
L’aperitivo italiano Lo sfizioso spuntino dalle mille variazioni Gran Pavesi Sfoglie Gran Pavesi Sfoglie Classiche, 180 g, Gran Pavesi Sfoglie Olive, 150 g 2.25 invece di 2.75 conf. da 2 -.50 di riduzione Da tutte le offerte sono esclusi gli articoli già ridotti. Offerte valide solo dal 14.3 al 20.3.2023, fino a esaurimento dello stock. It’s Tuca Time! Ancora più buona www.tuca-drink.ch Tuca
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Nasce il brandy, dalla dolcezza delle uve del Capo

Vino nella storia ◆ La viticoltura in Sudafrica comincia con l’occupazione della Compagnia Olandese delle Indie Orientali

L’introduzione della viticoltura nel sud dell’Africa avvenne per motivi economici durante l’occupazione olandese; a differenza, ad esempio, di quanto accadde in Centroamerica e in Sudamerica: qui, gli spagnoli portarono la coltivazione della vite soprattutto per una tradizione culturale, ideologica e religiosa.

Già nel 1487, il navigatore portoghese Bartolomeo Diaz, durante uno dei suoi viaggi alla ricerca di una via orientale per le Indie, finì sulla punta estrema dell’Africa, che poi battezzò: «Capo di Buona Speranza». Luogo che rimase per oltre un secolo sotto il controllo del Portogallo.

Nel XVI secolo ebbe inizio la colonizzazione vera e propria della zona con l’occupazione del «Capo» da parte della Compagnia Olandese delle Indie Orientali (Oost Indische Compagnie). Fu definita come «primo successo spettacolare delle grandi compagnie». Tra il 1640 e il 1650 gli olandesi cercano di installare una stazione di vettovagliamento allo scopo di creare un luogo ove i vascelli diretti a oriente potessero sostare e rifornirsi.

Fu così che un gruppo di coloni al comando di Jan van Riebeeck venne inviato con l’incarico di creare uno scalo per le navi in rotta verso le Indie. Arrivati alla Baia della Tavola (1652) quegli uomini costruirono dapprima un forte, poi delle case e delle fattorie, in modo da supplire alle

loro necessità e a quelle delle navi che facevano scalo nel viaggio verso est.

Anche se pare che gli Heeren Zeventien, a capo della Compagnia Olandese delle Indie Orientali, non incoraggiassero l’intenzione di impiantare dei vigneti da parte di van Riebeeck, egli insistette affinché gli portassero delle barbatelle dall’Europa. La forte insistenza e la chiara determinazione sembra fossero alimentate da due fattori: anzitutto l’alto costo che i coloni olandesi dovevano pagare per importare il vino in Sudafrica, ma ancor di più – da medico –perché si era reso conto dell’importanza della bevanda sacra a Bacco nel proteggere i marinai dallo scorbuto.

Nel mese di luglio del 1655 una nave scaricò delle barbatelle: non è chiara la loro provenienza, ma due tipologie hanno fatto la storia della viticoltura sudafricana; erano il Moscato di Alessandria (chiamato in loco Hanepoot) e lo Chenin Blanc (Steen) entrambe provenienti dalla Francia sud-occidentale. Queste prime barbatelle vennero messe a dimora vicino al forte, ma con l’arrivo di nuovi carichi dall’Europa van Riebeeck creò un vigneto nei pressi della odierna Wynberg; a tal proposito, resta famosa la frase che van Riebeeck scrisse sul proprio diario: «Oggi, lodiamo Dio, il vino è stato fatto per la prima volta con le uve del Capo», era il 2 febbraio 1659. I primi vini prodotti erano dolci

e di alta gradazione alcolica, il clima e il genere di vitigno non ancora ben acclimatato davano un vino di scarsa qualità. Per ovviare a tutto ciò (così racconta la storia), sembra che un cuoco di una nave ancorata in porto, ebbe l’idea di distillare il vino prodotto delle uve del Capo, creando così i primi «brandy» prodotti in zona. Un nuovo impulso alla produzione di vino nel Capo fu data da Simon van der Stel nel 1679. Il nuovo Governatore fece mettere a dimora un nuovo vigneto a Groot Costantia, con vitigni di provenienza francese e qualche cultivar tedesca, creando a poche miglia da Cape Town sulle pendici orientali

della Table Mountain, la più rinomata Casa vinicola della storia del Paese. Contrariato dalla forte acidità che davano i vini locali, incominciò a produrre, acquisendo grande fama, vini dolci da dessert dai vitigni Muscat Rouge e Muscat de Frontignan, la cui fama arrivò addirittura per più di un secolo a primeggiare con il celebre Tokay. La storia ci racconta che nell’esilio di Sant’Elena, Napoleone beveva solo questi vini provenienti dal Capo.

Una grossa spinta e un forte stimolo alla promozione della viticoltura nel Paese fu comunque lo sbarco di migliaia di Ugonotti tra il 1685 e il 1690, in seguito alla revoca dell’e-

ditto di Nantes voluto da Luigi XIV. Più di mezzo milione di Ugonotti fuggirono dalla Francia e molti di essi dapprima si stabilirono in Olanda, anche perché incoraggiati dagli Heeren Zeventien che avevano compreso la potenzialità di molti di essi, abili conoscitori dell’arte della viticoltura; tanti di loro emigrarono invece nella nuova colonia del Capo nel 1688. I nuovi arrivati si stabilirono dove oggi ci sono le più prestigiose zone viticole, ovvero Paarl, Franschhoek e Stellenbosch (nome dato in onore di van der Stel).

Tra le famiglie ugonotte che raggiunsero il nuovo continente, ci piace ricordare i Pontac, famiglia originaria del bordolese che portò il vitigno Pontac ; oggi viene allevato per ragioni sanitarie su pochi ettari, ma in passato ebbe un ruolo importante nella produzione dei vini rossi (dà vini molto colorati e tannici).

Nel corso della prima metà del XVIII secolo la produzione vinicola, sfruttando il lavoro degli schiavi, aumentò in modo considerevole appoggiandosi anche su una legge che indicava la viticoltura come attività non soggetta al pagamento delle decime.

La fortuna degli olandesi cominciò a calare verso la fine dello stesso secolo, quando gli inglesi tra il 1795 e il 1803 in seguito alle guerre napoleoniche occuparono a più riprese il Sudafrica.

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 13 marzo 2023 azione – Cooperativa Migros Ticino TEMPO LIBERO 19 *incl. abbigliamento da fitness e da yoga, Kids escl. Offerta valida dal 14.3 al 27.3.2023, fino a esaurimento dello stock. 20 % su scarpe e abbigliamento da corsa* PREPARATI PER IL TUO RUNNER ’S HIGH Annuncio pubblicitario
Vigneti nella regione vinicola sudafricana di Stellenbosc. (Deon Maritz)

Taccuini poetici per chi ama la carta

Crea con noi ◆ Un’idea per riciclare vecchie pagine di libri, agende e cartoncini trasformandoli in piccoli e personalissimi quaderni

Pagine di un vecchio libro, in cui cercare parole da mettere in fila come fossero poesia, si trasformano in copertine di piccoli taccuini d’ispirazione romantica per le vostre annotazioni.

Ideali da tenere in borsa per annotare frasi da ricordare, ma anche da regalare come pensiero alle persone a voi care.

Un’idea perfetta per le/gli amanti della carta che potranno riciclare pagine inutilizzate di vecchie agende, resti di cartoncino e fogli di quaderni ormai in disuso in questa attività molto creativa.

Procedimento

Scegliete alcune pagine di un vecchio libro e andando a leggere, evidenziate con la matita alcune parole che possano ispirarvi. Una volta individuate le parole chiave cercate nel testo gli elementi di collegamento per costruire una frase. Evidenziate tutti gli elementi con un pennarello nero.

Se le parole che compongono la vostra frase non sono nell’ordine di apparizione giusta non preoccupatevi, semplicemente con un pennarello unitele tramite una linea o delle frecce che indichino il senso di lettura.

Giochi e passatempi

Cruciverba

In Europa centrale sui letti di alcuni fiumi sono stati depositati dei sassi, come si chiamano?

E se affiorano indicano il pericolo di cosa?

Troverai le risposte alle domande leggendo, a soluzione ultimata, le lettere evidenziate.

ORIZZONTALI

1. Benevolo, caritatevole

7. Una consonante

8. Stanno in coda

9. Le iniziali della Bonino

10. Pronome personale

12. Finisce... al fresco

14. Sono sempre in mezzo al fumo

16. Luoghi dove si trebbia

18. Domus dell’antica Roma

21. Pistola a ripetizione

23. Comandante arabo

24. Alta aspirazione

26. Uno strato del nucleo terrestre

Andate ora a colorare queste parole utilizzando nei toni che preferite e a velare con l’acquarello nero tutte le altre in modo che la vostra frase poetica emerga in maniera ancora più evidente.

Lasciate asciugare, quindi ritagliate dalla pagina del libro la copertina del vostro taccuino tenendo la frase centrata.

Nel frattempo dalle carte selezionate tagliate le pagine che andranno a

comporre il vostro taccuino. Abbiate cura di mischiare carte di diverso tipo, bianche, a righe, a quadretti, pagine di libro, vecchi schedari. Non preoccupatevi nemmeno se le misure non sono troppo precise. L’unica cosa veramente importante è che scegliate la misura del vostro taccuino in base alla dimensione della copertina. Selezionate quindi un mazzetto di pagine, almeno una decina di fogli, e teneteli fermi sui due lati con delle mollette di legno. Come prime pagine, quelle che fungeranno da copertina e sovra copertina utilizzate un cartoncino dai colori tenui e un foglio di carta velina su cui posizionerete il vostro ritaglio decorato. Con un ago praticate sulla linea centrale dei fori equidistanti tra loro, quindi con il filo da cucito partendo dalla parte interna cucite il vostro taccuino. Completate posizionando il vostro ritaglio utilizzando il bastoncino di colla o il nastro adesivo trasparente e rifinite a piacere con washi tape, timbri o altri elementi decorativi.

Idea in più Invece che ritagliare una «porzione» di pagina per creare la copertina di un taccuino potete semplicemente posizionarla su di un cartoncino e un foglio di velina oppure incorniciarla.

Materiale

• Pagine di un vecchio libro

• Carta e cartoncino anche di vecchi taccuini/agende

• Taglierino e righello

• Blocco di carta velina A5 sui toni del rosa

• Acquarelli e pennello

• Pennarello nero

• Washi tape in tinta

• Bastoncino di colla o biadesivo trasparente

• Ago e filo da ricamo

• Timbri (facoltativo)

(I materiali li potete trovare presso la vostra filiale Migros con reparto Bricolage o Migros do-it)

Nota: per la copertina dei taccuini mi sono liberamente ispirata al metodo Caviardage® di Tina Festa Tutorial completo azione.ch/tempo-libero/passatempi

Vinci una delle 2 carte regalo da 50 franchi con il cruciverba e una carta regalo da 50 franchi con il sudoku

Sudoku

i 3 numeri corretti da inserire nelle caselle colorate.

28. Antico prefisso nobiliare

29. Noie, stanchezze

31. Raganelle arboree

32. Proibire, vietare

33. Un anno a Parigi

VERTICALI

1. Paesini senza asini

2. Desinenza verbale

3. Un punto nel ricamo

4. Ha un proprio servizio

5. Moneta del Perù

6. Non si deve nutrire...

10. Un anagramma di già

11. Brillanti

13. Dotate di poteri magici

15. Permette di collegarsi

a internet con cavi telefonici

17. Succedono per legge

18. Quanto

19.

20.

22.

25.

27.

30.

1 2 3 4 56 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30 31 32 33 ai167664421117_11_Cruciverba.pdf 1 17.02.2023 15:30:11 G IACC A PU P O E N E A PI A R L S A R NIL RII S EROS LIEV I C O NE M ILZA DAMA S S ENO FT UC NOIR LAMEN T I ai167664421115_10_Soluzione.pdf 1 17.02.2023 15:30:11 96 43 2 78 4 6 2 7 8 3 2 6 8 1 5 4 5 2 7 1 1268 597 43 7394 218 65 4586 372 19 5 9 3 2 8 4 1 7 6 2173 965 84 6847 159 32 9 4 5 1 6 8 3 2 7 3619 724 58 8725 436 91

Regolamento per i concorsi a premi pubblicati su «Azione» e sul sito web www.azione.ch I premi, tre carte regalo Migros del valore di 50 franchi, saranno sorteggiati tra i partecipanti che avranno fatto pervenire la soluzione corretta entro il venerdì seguente la pubblicazione del gioco. Partecipazione online: inserire la soluzione del cruciverba o del sudoku nell’apposito formulario pubblicato sulla pagina del sito. Partecipazione postale: la lettera o la cartolina postale che riporti la soluzione, corredata da nome, cognome, indirizzo del partecipante deve essere spedita a «Redazione Azione, Concorsi, C.P. 1055, 6901 Lugano». Non si intratterrà corrispondenza sui concorsi. Le vie legali sono escluse. Non è possibile un pagamento in contanti dei premi. I vincitori saranno avvertiti per iscritto. Partecipazione riservata esclusivamente a lettori che risiedono in Svizzera.

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 13 marzo 2023 azione – Cooperativa Migros Ticino TEMPO LIBERO 20
detto Veri fuoriclasse Un noto Woody Articolo Diodo a emissione luminosa La fanno i tifosi Le iniziali dell’attrice Rossellini
(Frase: 6, 5, 4 – 8) Scoprite
Soluzione della settimana precedente
Il telefono del vento è una sorta di monumento si trova in… Resto della frase: …GIAPPONE Simbolicamente serve… Resto della frase: …A PARLARE CON I DEFUNTI.

Viaggiatori d’Occidente

La lezione del mondo sta nelle diversità

«C’è tutto un mondo intorno» cantavano i Matia Bazar alla fine degli anni Settanta; a volte però ce ne dimentichiamo. Forse l’ibridazione tra reale e digitale ha irrimediabilmente trasformato la nostra percezione dello spazio. Conosciamo i monumenti più famosi sotto forma di icone, quasi senza legami con il loro contesto. Di tanti luoghi assai noti ignoriamo quel che resta fuori dalla cornice: la luce nelle diverse ore del giorno, le vie intorno, la distanza dal mare o da un fiume. Abbiamo davanti agli occhi Broadway, la strada simbolo di Manhattan, con le luci e i teatri, ma quanti conoscono la sua lunghezza, dove inizia, dove finisce, quali quartieri attraversa?

«Trovare il proprio posto nel mondo» è un’immagine spesso utilizzata per restituire la fatica quotidiana di dare un senso alle nostre vite, ma forse dovremmo prenderla più alla lettera.

Conoscere con esattezza la propria posizione nei secoli passati fu quasi un’ossessione, per ragioni molto concrete. Un esempio? Nella prima sera del 22 ottobre 1707 la grande nave da guerra della marina britannica Association si schiantò sugli scogli delle Western Rocks, a sud ovest della Gran Bretagna, lasciando nelle acque gelide dell’Atlantico duemila morti. Il Longitude Act del 1714 offrì un premio di ventimila sterline (equivalenti a un milione e mezzo di euro odierni) a chiunque fosse riuscito a calcolare con esattezza la posizione di una nave in mare aperto. Poiché il sestante già allora consentiva di calcolare la latitudine, ci si concentrò sulla longitudine. Alla fine la spuntò un orologiaio dilettante dello Yorkshire, tale John Harrison, imbarcando sulle navi un orologio che conservasse con esattezza l’ora del luogo di partenza e permettesse dunque un confron-

Passeggiate svizzere

Il tea-room Weber di Arosa

Ancora, continua, finché dura l’inverno, il richiamo dei tea-room. Anche grazie a un libro saltato fuori nelle mie ultime ricerche su questo tema: Die schönsten Tea Rooms der Schweiz (2004). A cura di Fabienne Eggelhöfer, storica dell’arte e capo curatrice del Zentrum Paul Klee di Berna e Monica Lutz, ex libraia ora assistente psicosociale, con le belle foto di Rolf Siegenthaler, mi ha fatto sentire meno solo nei miei studi ossessivi su questi posti atemporali. Consapevoli, le autrici, di «una testardaggine fuori dal mondo nel frequentare questo tipo di locali». Ma il loro è al contempo un appello a dirigere lo sguardo verso «l’estetica dei tea-room», dentro i suoi «meravigliosi interni senza tempo». Tra i ventisette tea-room repertoriati, otto li ho ritratti nei miei mini reportage, diversi sono estinti, alcuni snaturati, altri invece sono sopravvissuti immacolati come il tea-room Weber

(1774 m) di Arosa dove entro ora. Un primo pomeriggio all’inizio di marzo, come quasi una salvezza da Arosa: rinomata località climatica in perfetta posizione walser, vale a dire su in cima in fondo alla valle tra neve e conifere, deturpata diventando stazione sciistica. E così, dopo aver percorso buona parte della Poststrasse – tra tristi sporthotel e pizza-kebab, sapendo che su quella stessa strada sono svaniti due tea-room storici dove in uno (Old India) ci andava Thomas Mann e la moglie e nell’altro (Simmen) Sophia Loren con il marito – sprofondo nella poltrona di stoffa a righe color tortora chiaro, vinaccia, verde tundra. E guardando meglio, a cadenza molto più rara e bordato di azzurrino slavato, anche un verde muschio. Curvata tipo autodromo, come certi angoli da night-club anni Settanta-Ottanta, la poltrona continua per tutta la stanza, unendo sette

Sport in Azione

Chi non salta è un…

…un contadino? …un bianconero?

Se anche fosse, non ci sarebbe nulla di cui vergognarsi. Anzi, sarebbe un vanto. Senza il settore primario, mangeremmo solo cibi sintetici e la nostra salute pagherebbe dazio. Quanto al bianconero, è da sempre sinonimo di eleganza grintosa. Negli anni Sessanta, ad esempio, lo stilista francese André Courrèges ne fece il suo segno distintivo.

Chi non ha mai messo piede in uno stadio di hockey su ghiaccio, probabilmente farà fatica a capire il senso di questo incipit. Spieghiamo. Le due squadre ticinesi, che frequentano da decenni il massimo campionato nazionale di hockey su ghiaccio, sono sostenute da numerose rispettabilissime persone che siedono sulle tribune, acquistano tessere o biglietti d’accesso dal costo piuttosto elevato. Prediligono lo champagne delle Vip Lounge alla birra delle buvette.

to con l’ora locale; perché a dispetto del Tempo Coordinato Universale (UTC), ogni luogo vive in un’ora diversa e il meridiano fondamentale (o meridiano zero), quello che passa per Greenwich, in fondo è solo un riferimento convenzionale…

Sono pensieri sorti in margine alla lettura di La Terra è rotonda , ultima uscita nella collana Cose spiegate bene de «Il Post» (Iperborea editore). Un libro antidoto contro la pigrizia intellettuale: ci ricorda quanto la geografia dovrebbe contare nel mondo globale, prima di tutto nella scuola naturalmente, dove invece è spesso lasciata al margine.

Sono pensieri familiari a ogni viaggiatore. Nonostante le dimensioni strabordanti dell’immaginario turistico, ogni volta che si giunge da qualche parte per la prima volta si ha una sensazione di novità, di presenza, di verità.

A Sarajevo, sul ciglio d’una strada, nel luogo esatto dove il 28 giugno 1914 il giovane Gavrilo Princip sparò all’erede del trono d’Austria-Ungheria Francesco Ferdinando, ho rivissuto tutta la tragica concatenazione di eventi che portò alla Prima guerra mondiale. Lo spazio ridotto – pochi metri – dove divampò quella scintilla sembrava sottolineare per contrasto la vastità dell’incendio.

E se nelle discussioni in rete prevale l’ideologia, il pregiudizio, e ognuno alla fine resta sempre della sua opinione, la lezione del mondo sottolinea invece la diversità delle situazioni, la specificità di ogni storia, il peso del contesto. Lontano dai nostri rassicuranti riferimenti, il particolare si impone regolarmente sull’universale. Come ha scritto il ginevrino Nicolas Bouvier, forse il nostro viaggiatore migliore, stra-

da facendo si impara «ad aprire gli occhi, a drizzare le orecchie, ad arricciare il naso come un coniglio, a prendere sempre la via più breve, a non perdere mai di vista le curve delle donne, il profumo del caprifoglio, l’aroma di un cosciotto arrosto o il canto di un rigogolo».

Il viaggiatore osserva attentamente senza giudicare perché sa che non dispone mai di tutte le informazioni necessarie; sa che molto gli è nascosto, anche quando molto gli è svelato.

La recente pandemia ha drasticamente ridotto i nostri spazi, spesso limitandoli a una stanza soltanto, dalla quale è stato possibile fuggire solo con l’immaginazione. Ora che siamo tornati a viaggiare, è benvenuta questa lezione su quanto il mondo sia grande, sconosciuto, appassionante; soprattutto sempre diverso dai nostri pensieri e desideri.

tavolini. In un’angolo, sulla superficie di legno che struttura lo spazio, ben illuminato dall’abat-jour con base dorata luccicante che potrebbe trovarsi in un soggiorno di due pensionati appassionati di soap-opera, un grosso quarzo rosa. In tinta con il quarzo rosa, motivo per la scelta del tavolino e che incomincia a tranquillizzarmi molto, sono le tovaglie rosa pallido e soprattutto i centrotavola quadrati di stoffa tipica, rosa minerale, posati a rombo.

La moquette verde marcio per terra è il tocco superdemodé, quasi troppo per me. Herbert, il cameriere che sembra uscito da un film di Fassbinder, è in sintonia pure lui con l’atmosfera ultraretrò: porta un tupè, rossiccio, atroce. Di poche parole, non conosce la provenienza dei minerali rosa sparsi qua e là, accanto ai tavolini – uno enorme lo avvisto ora vicino alle vetrine, accanto alle orchi-

dee – in compenso mi porta presto un ottimo espresso doppio e dei deliziosi florentiner. Questi biscotti sottili con fondo di cioccolato, croccante di mandorle, miele, frutti canditi, sono un po’ la specialità del posto, fondato nel 1922 dalla coppia Wilhelm e Genoveva Weber, originari del Baden-Württemberg. Il tea-room, vuoto, dove divoro gli ultimi due (uno con cioccolato al latte e uno fondente) florentiner – che traggono il nome e forma dai fiorini d’oro coniati per la prima volta nel 1252 a Firenze ma nascono nel sud della Germania o in Austria o sull’isola di Grenada – risale al 1942. Era il luogo dove lavorava un orologiaio. Divorare florentiner ad Arosa non può diventare l’unica attività odierna, vado dunque a cercare i quarzi rosa, quattro in tutto, posizionati nei punti focali. «Brasile» mi dice la signora Trudi Weber, moglie cordiale ma non troppo, di Markus

Weber – terza generazione – in azione adesso nel piccolo locale confiserie-bäckerei adiacente, a proposito del paese di origine dei quarzi rosa: forse la vera attrazione. Oltre ai semmeli, le michette croccantissime che vanno a ruba. O gli scoiattoli di cioccolato con ripieno di gianduia che non resisto a provare. Rappresentato nella postura per sgranocchiare una nocciolina, lo scoiattolino di cioccolato, proprio come Bambi divenuto sinonimo di capriolo per via di un libro per bambini, qui lo chiamano Hansi. Herbert porta due torte di carote e una tartelletta al limone al tavolino di uno strano trio con binocoli seri al collo. Mentre i monumentali quarzi rosa brasiliani emanano i benefici della cristalloterapia, stimolando, così sembra, «amore, compassione, gentilezza», trovo la fonte d’ispirazione del parrucchino dell’Herbert: la coda di uno scoiattolo.

Affittano posti-auto privilegiati vicini alle entrate. Tutto ciò in aggiunta, magari, ad altri importi che devolvono alla causa dell’Hockey Club Lugano o dell’Hockey Club Ambrì Piotta. Anche lo sport, in quanto spaccato della società, può vantare il suo ceto medio. Lui pure comodamente seduto in tribuna, ma senza i privilegi e le coccole della precedente categoria. Da ultimo, ma non certo per importanza, ci sono le curve, il pueblo. La Nord a Lugano. La Sud ad Ambrì, anche se il trasloco nel nuovo impianto griffato Mario Botta ha dirottato il tifo più ruspante, quello della GBB, sul versante settentrionale della pista. Lo slogan riassunto nel titolo è quanto di più poetico le due curve abbiano espresso in decenni di vibranti duelli a suon di sfottò e controsfottò. Al pari di quest’altro: «Il Ticino è biancoblù» che fa da contraltare a

«Il Ticino è bianconero». Sono slanci che escludono. Vogliono ribadire: «L’hockey siamo noi, toglietevi di mezzo». Quante volte ho sentito dire dai tifosi che il loro godimento più sublime sarebbe vedere la squadra rivale scivolare in serie B o, se preferite, in Swiss League. Alcuni sostengono che il Lugano senza l’Ambrì non sarebbe il Lugano, e viceversa. Può darsi. Ma sono convinto che sotto sotto sarebbero più che felici di togliersi dai piedi i cugini rivali. In questa tribolata stagione, l’ipotesi retrocessione (che in altre circostanze ha fatto sudare freddo i leventinesi) è stata scongiurata, per entrambe le ticinesi, a due partite dalla fine. Il Lugano, Club sulla carta con credenziali da play off, è stato a lungo sotto la linea dei pre play off. Uscire di scena al termine della Regular Season, o addirittura affrontare lo spareggio salvezza contro l’Ajoie dell’ex guer-

riero Julien Vauclair, avrebbe costituito un rischio enorme. L’Ambrì è abituato a correre scalzo nella savana, tra animali feroci, acque limacciose, serpenti velenosi, quindi nel momento del bisogno, si sa adattare all’ambiente e ne sa uscire indenne. Il Lugano invece, tradizionalmente, viaggia su strade, sì trafficate, ma molto meno insidiose. Quindi, per evitare il peggio, i bianconeri hanno pigiato sull’acceleratore per poter continuare a giocarsi una fetta di gloria. L’Ambrì, per contro, è già in ferie. Con somma delusione e tristezza di tutti: dirigenza, staff, giocatori e sostenitori.

Le curve, ne sono convinto, sono benzina super. Ovviamente non hanno prodotto solo poesia. Canti, slogan e striscioni non nascono sempre in punta di penna. Ma è giusto sottolineare che la loro creatività è frutto della fede e dell’amore incondizio-

nato nei confronti dei colori e della maglia. Le curve sono onnipresenti. Anche quando le cose non girano per il verso giusto. E se, come è capitato qualche settimana fa a Lugano, per una sera, gli ultrà disertano gli spalti, lo fanno a fin di bene. Per manifestare il loro disappunto e la loro delusione. Non potremo mai affermare con certezza se questi metodi aiutino a reagire. Il Lugano, sia pure non in modo fragoroso, lo ha fatto. L’Ambrì, dal canto suo, quest’anno non è mai stato messo in discussione dalla tifoseria organizzata. Il trionfo alla Spengler ha messo le ali agli ottimisti e ha tarpato quelle dei pessimisti. Quando, dopo una serie di otto sconfitte consecutive, osservo e ascolto la Sud che canta «siamo sempre con voi, non vi lasceremo mai», comprendo il senso della parola «fede» molto più profondamente di quando, da ragazzino, frequentavo il catechismo.

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 13 marzo 2023 azione – Cooperativa Migros Ticino 21 TEMPO LIBERO / RUBRICHE ◆ ●
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ATTUALITÀ

Tasse: come risparmiare Cosa considerare quando si possiede un immobile e si compila la dichiarazione d’imposta?

Pagina 26

Cosa succede in Nigeria

Le elezioni, la capacità dei giovani di incidere sulla politica e la «bomba» demografica africana

Pagina 27

Stati Uniti e Cina a confronto

La partita fra Cina e USA si gioca soprattutto sul fronte commerciale, finanziario e tecnologico

Pagina 29

Quella necessità di energia pulita

Dieci anni di Papa Francesco

Un bilancio del pontificato di Bergoglio, tra poderosi slanci e diverse sconfitte

Pagina 31

Prospettive ◆ Dopo le «offensive urgenti» – riguardanti il solare e l’eolico – a Berna tiene banco la discussione sulle rinnovabili

A ben guardare il nostro Paese ha già vissuto qualcosa di simile, quando si vide confrontato con il cosiddetto «Piano Wahlen». Erano gli anni Quaranta del secolo scorso e c’era da fare i conti con il rischio del piatto vuoto, in quei tempi segnati dalla Seconda guerra mondiale. Ideato da Friedrich Wahlen, agronomo e alto funzionario della Confederazione, il piano mirava a estendere il più possibile le superfici coltivabili per permettere ai nostri nonni di avere cibo a sufficienza, con cui perlomeno sfamarsi. Oggi in pericolo non c’è più l’approvvigionamento alimentare ma quello energetico e il nostro Paese è alla ricerca di qualcosa che assomigli a un nuovo «Piano Wahlen». Se allora si piantarono patate persino nelle aiuole dei giardini pubblici, oggi si tratta di dare una scossa, è il caso di dirlo, a tutte le fonti di energia verde: acqua, vento e sole per citare solo quelle principali. Senza dimenticare un fattore che viene spesso sottovalutato: il risparmio energetico, visto che oggi ben il 30% dell’elettricità prodotta nel nostro Paese viene sperperata. Insomma, c’è bisogno di rilanciare un settore e, diciamolo pure, di recuperare il tempo perso in questi ultimi anni.

Oggi il 30% dell’elettricità prodotta nel nostro Paese viene sperperata, è necessario puntare anche al risparmio energetico

Il tema è vasto e complesso, a livello legislativo si basa su un mosaico di norme, alcune già varate, altre ancora da definire. Mercoledì scorso il Consiglio nazionale ha approvato quella che viene chiamata «l’offensiva dell’eolico», per sfruttare meglio le potenzialità del vento. E per farlo si è pensato di snellire temporaneamente le procedure amministrative necessarie per poter iniziare a costruire un impianto eolico, visto che oggi nel nostro Paese ci vogliono fino a vent’anni prima di poter vedere un «mulino a vento» in azione. Al tempo stesso sono state anche in parte limitate le possibilità di ricorrere contro queste realizzazioni. Tocca ora al Consiglio degli Stati occuparsi di questa offensiva, che fa il paio con quella solare, varata dal Parlamento lo scorso autunno. L’obiettivo è sostanzialmente lo stesso: aumentare la presenza del fotovoltaico nel nostro Paese, considerata la fonte con il maggiore potenziale di sviluppo. Alcuni progetti sono già attivi o in fase di concretizzazione, in particolare in Vallese e nei Grigioni, con impianti situati o previsti soprattutto in montagna. Il Ticino su questo punto deve colma-

re un ritardo importante. Anche per il sole il Parlamento ha voluto velocizzare le procedure e permettere la realizzazione di questi impianti pure in zone paesaggisticamente sensibili. Un’impostazione criticata dalle organizzazioni ambientaliste. Per Pro Natura, ad esempio, con queste offensive si è preso il pretesto del rischio di una penuria energetica per «indebolire la protezione della natura e del paesaggio».

In ogni caso alle due offensive urgenti – eolica e solare – si affianca ora anche la legge mantello sulle rinnovabili, che viene discussa dal Consiglio nazionale proprio questa settimana. Un dibattito-fiume che terrà occupati i deputati per ben una quindicina di ore. In ambito energetico si tratta del cantiere normativo più importante degli ultimi anni. Con, ai cancelletti di partenza, tre fronti e anche tre visioni politiche diverse. Il primo fronte si rifà alla Strategia energetica 2050, che prevede l’uscita a termine dal nucleare e il passaggio ad un uso più intenso delle fonti rinnovabili. Senza dimenticare che anche i cittadini dovranno riuscire a ridurre i propri consumi del 53% entro il 2050. E non è poco. Questi obiettivi si intrecciano con la strategia climatica del Consiglio federale, che mira ad azzerare le emissioni nette di anidride carbonica, sempre entro il 2050. In quest’ottica il futuro appartiene all’energia pulita, è una priorità, e pertanto si possono ammettere anche delle concessioni in ambito di protezione dell’ambiente.

Il secondo fronte è su posizioni simili al primo, ma considera perlomeno imprudente mettere a rischio il paesaggio e la natura per aumentare la produzione di energia elettrica. Ci vuole maggiore equilibrio. In questa ottica l’offensiva solare, ad esempio, va realizzata soprattutto nelle aree urbane, lì vanno installati gli impianti fotovoltaici di cui abbiamo bisogno. Meno in montagna o nelle regioni periferiche. Il terzo schieramento vuole invece continuare a giocare anche la carta del nucleare, in particolare quello di nuova generazione. Seppur deciso dal popolo, l’abbandono del nucleare andrebbe dunque rivisto e corretto perché le rinnovabili da sole non ce la possono fare, in un contesto energetico difficile e ulteriormente fragilizzato dall’invasione russa dell’Ucraina. Uno dei portabandiera di questa visione era fino a poco tempo fa Albert Rösti, oggi consigliere federale dell’UDC e ministro responsabile di questo dossier. Nella sua nuova veste toccherà anche a lui trovare i giusti compromessi tra questi tre fronti che si sfideranno anche nel dibattito fiume attorno alla legge mantello sulle rinnovabili, in aula questa settimana a Berna.

Nel settembre scorso era toccato al Consiglio degli Stati occuparsi di questa normativa. Alla Camera dei Cantoni aveva prevalso chi mira ad aumentare in modo significativo l’apporto energetico delle fonti rinnovabili, con delle decisioni a geometria variabile in materia di protezione dell’ambiente e del paesaggio. Oggi come allora tra i temi da discutere c’è anche quello dell’acqua. Un elemento fondamentale, visto che questa fonte genera su per giù il 60% dell’energia elettrica prodotta nel nostro Paese. E anche qui il dilemma è sostanzialmente lo stesso, tra produzione di energia e salvaguardia del territorio. Nel concreto si dovrà stabilire

fino a dove alzare i muri delle dighe e dove immaginare di realizzare nuovi impianti idroelettrici. In questo senso nell’autunno scorso la tavola rotonda per l’idroelettrico, voluta dal Consiglio federale, ha individuato 15 progetti su cui puntare a livello nazionale, uno solo di questi è in Ticino con il previsto innalzamento della diga del Sambuco, in Vallemaggia. Senza dimenticare però il fattore meteo. La prolungata siccità di questi ultimi 1012 mesi ci fa capire come la «batteria d’Europa», come veniva chiamata la Svizzera per l’apporto delle sue dighe, rischia di scaricarsi e di crearci seri grattacapi. Infine occorre tener conto anche

del trasporto dell’energia elettrica. Il previsto aumento del numero di impianti avrà per forza di cose bisogno di un’ampia estensione della rete di distribuzione, per poter trasportare la corrente elettrica prodotta. In definitiva, come dice del resto anche il Consiglio federale, è necessario «un forte e tempestivo potenziamento» dell’intero settore, con le energie rinnovabili al centro di questo nuovo «Piano Wahlen». E con un insegnamento che ci arriva dalla storia. Quel piano non riuscì a raggiungere tutti i suoi obiettivi ma fu in grado di compattare il Paese. Oggi la sfida energetica richiede in fondo la stessa capacità di saper unire le forze.

● ◆ Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 13 marzo 2023 azione – Cooperativa Migros Ticino 23
Diga di Moiry, in Vallese. L’acqua genera il 60 per cento circa dell’energia elettrica prodotta nel nostro Paese. (Keystone)

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Perché l’energia costa di più?

Svizzera ◆ Il rincaro si spiega solo in parte con la guerra in Ucraina. Il mercato libero si presta anche a movimenti speculativi e può riservare sgradevoli sorprese soprattutto agli attori più piccoli, come possono essere le aziende ticinesi

Con il nuovo anno i consumatori svizzeri stanno sperimentando aumenti di prezzi che, in parecchi casi, toccano vertici inaspettati. Un’attesa carica di preoccupazione e di ansia è quella delle tariffe per l’energia, in particolare per l’energia elettrica. Si sa che i prezzi al consumatore finale variano molto a seconda dell’azienda distributrice a cui si fa riferimento. Quasi sempre ci si trova però di fronte a rincari a cui, da tempo, non eravamo abituati.

Nel 2023 il rincaro medio delle bollette dell’elettricità sarà del 27 per cento, dice la Commissione federale dell’energia

A fine agosto dello scorso anno la Commissione federale dell’energia ha raccolto e pubblicato le tariffe che le varie aziende distributrici intendono praticare nel 2023. Si è così saputo che, in base alle tariffe di tutte le 630 aziende, il rincaro medio delle bollette dell’elettricità sarà del 27 per cento. Il calcolo si basa sul consumo annuo di una famiglia di quattro persone, pari a circa 4500 chilowattora (kWh). Per questa economia domestica media l’aumento del pezzo della corrente elettrica sarà di 261 franchi, passerà cioè dai 954 ai 1215 franchi per tutto l’anno.

A che cosa dobbiamo questo aumento, che per talune famiglie è anche più elevato e per altre minore?

Precisiamo prima di tutto che il prezzo dell’energia elettrica è dovuto ad alcuni fattori importanti, oltre a quello della sola corrente. Intanto il costo della rete per il trasporto, che per la famiglia tipo aumenta del 7% e passa da 9,9 a 10,5 centesimi per kWh; quello per le tariffe energetiche che aumenta da 7,9 a 13,1 centesimi, cioè di ben il 64%. I tributi agli enti pubblici che aumentano da 0,9 a 1 centesimi, mentre rimane invariato a 2,3 centesimi il supplemento di rete.

Un altro aspetto importante di cui bisogna tener conto è l’enorme diversità di prezzi fra un distributore e l’altro. Questi divari si vedono per esempio nel prezzo più basso applicato dal comune di Zwischbergen in Vallese (8,49 centesimi per kWh) a quello del comune di Gaiserwald, nel Canton San Gallo, (58,76 centesimi). Un altro aspetto importante è l’enorme diversità di ampiezza tra le aziende distributrici, che vanno dalla piccola azienda comunale al grande ente di distribuzione regionale.

Le differenze di prezzo, e anche quelle fra gli aumenti applicati per il 2023, non sono però determinanti per la fissazione dei prezzi. In Ticino, per esempio, gli aumenti minori sono quelli applicati da piccole e piccolissime aziende che, in genere, dispongono di una buona produzione propria di energia di tipo idroelettrico. Ad esempio l’azienda di Airolo, che produce in proprio il 40% del fabbisogno e acquista il resto dall’Azienda elettrica ticinese (AET), applica una tariffa di 8,22 centesimi il kWh. Non è il caso invece per le due maggiori aziende di distribuzione del Ticino. Le AIL di Lugano annunciano, infatti, un aumento del 32,16% e la SES di Locarno del 18,28%. Fanno eccezione le aziende di Bellinzona (+6,88%) e quella di Chiasso (+3,84%).

Quindi non sempre la componente principale del prezzo dell’elettricità al consumatore è data dal prezzo dell’acquisto sul mercato all’ingrosso. La situazione è radicalmente cambiata quando si è proceduto a una liberalizzazione del mercato a partire dal 2009. Da questo momento è stato possibile rifornirsi nel mercato libero o, se si vuole, alla Borsa dell’elettricità. Ma il sistema di distribuzione in Svizzera, regolamentato fin nei minimi dettagli dal «modello di mercato per l’energia elettrica», non permette a tutti questa operazione. In pratica la libertà di scelta è data solo alle grandi aziende (con acquisto sopra i 100 megawattora). Per il consumatore finale tipico non è cambiato nulla, se non i prezzi.

Il consumatore finale non può scegliere alternative e non può nemmeno ridurre sensibilmente i consumi a breve scadenza

In questo mercato, che è sostanzialmente rimasto un monopolio (o meglio un oligopolio) dei distributori, la caratteristica è quella di una domanda al consumo non elastica, a fronte di un’offerta variabile. La domanda è rigida poiché il consumatore finale non può scegliere alternative e non può nemmeno ridurre sensibilmente i consumi a breve scadenza. Lo si è visto con il panico suscitato dai timori di penuria di energia corsi la scorsa estate. Tutto dipende dalle possibilità di rifornimento a monte e quindi dai prezzi che qui si ottengono.

Significativa in proposito la tabella pubblicata dalla Elcom (vedi sopra), che mette a confronto gli aumenti dei prezzi sul mercato libero tra il 2009 e il 2023 pagati dalle aziende distributrici con quelli delle tariffe finali per quest’anno. Per le aziende citate sopra si vede che le AIL di Lugano hanno sopportato un aumento del 48,16%, la SES di Locarno un aumento del 32,73%, le aziende di Bellinzona solo del 13,71%, ma quella di Chiasso del 33,35%. Come già accennato, il prezzo

al consumatore finale è soggetto a molte variabili. In ogni caso è molto importante la produzione propria che di regola costa molto meno. Per

Airolo l’aumento 2009-2023 è stato molto forte, ma l’aumento 20222023 è contenuto nell’8,22%. Tuttavia l’aumento del 2023 dipende

molto anche da quali aumenti sono stati applicati in precedenza e in quale misura possono essere ribaltati sulle tariffe finali.

Uno sguardo rapido al mercato ci permette comunque di costatare che gli aumenti sul mercato libero erano iniziati prima dello scoppio della guerra in Ucraina. In pratica la tendenza era visibile già dall’inizio del 2021. Ha avuto una prima impennata verso la fine dell’anno e una seconda nel marzo del 2022, per poi partire nettamente al rialzo dal giugno del 2022, anche a seguito della guerra in Ucraina e delle difficoltà create dalla Russia, nonché da un eccezionale periodo di siccità e temperature elevate.

Senza dilungarsi sulle varie cause di questi aumenti dei prezzi all’ingrosso (complici anche i prezzi di gas e petrolio) potremmo concludere che il mercato libero si presta anche a movimenti speculativi e può riservare sgradevoli sorprese soprattutto agli attori più piccoli, come possono essere le aziende ticinesi. Con una domanda rigida e costantemente in aumento è evidente che i prezzi finali trovino un incentivo a crescere. Le soluzioni a questo problema sono di tipo politico e anche economico, non solo a livello regionale ma anche nazionale e internazionale.

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Risparmiare sulle imposte con l’immobile di proprietà

La consulenza della Banca Migros ◆ Possedete un appartamento o una casa? Ecco a cosa prestare attenzione quando compilate la dichiarazione d’imposta

Dedurre gli interessi passivi

Il prestito per l’appartamento o la casa è gravato da interessi che potete detrarre dal reddito imponibile. Ad esempio, se nel primo anno pagate 2000 franchi di interessi, a fronte di un’aliquota fiscale marginale del 20% potete risparmiare 400 franchi. Gli interessi passivi superiori a 50’000 franchi non sono deducibili, ma raramente i privati raggiungono tali importi.

Procedura – Nel modulo «Elenco dei debiti» della dichiarazione d’imposta è presente la voce «Debiti privati». Lì vanno inseriti i dati relativi agli interessi passivi deducibili e al debito residuo. Se i prestiti sono più di uno, vanno riportati singolarmente.

Eccezione – Nella Confederazione e nella maggior parte dei cantoni gli interessi sui crediti di costruzione e il canone del diritto di superficie non sono deducibili.

Consiglio – Dal punto di vista fiscale non conviene ammortizzare l’ipoteca. Deducendo gli interessi passivi è possibile neutralizzare, in parte, l’imposizione del valore locativo.

Verificare il valore locativo

Chi risiede nell’immobile di proprietà è tenuto a pagare un’imposta sul cosiddetto «valore locativo», il reddito virtuale derivante dalla locazione dell’immobile in questione. A seconda del cantone, il valore locativo è di circa il 20-40% inferiore rispetto alla locazione di un immobile equivalente. Nella dichiarazione d’imposta il valore locativo viene aggiunto al reddito imponibile. Ciò significa che quanto più alto è il valore locativo, tanto maggiore sarà l’onere fiscale.

Procedura – Fate verificare da un esperto fiscale il valore locativo stabilito d’ufficio, perché in alcuni casi può essere troppo alto. Verificate anche se il vostro cantone di residenza prevede una regola di rigore: nel Canton Zurigo, ad esempio, il valore locativo non può superare un terzo del reddito.

Indicare i locali non utilizzati

Quando i figli vanno a vivere da soli, dopo il decesso del partner o in caso di divorzio, capita spesso che uno o più locali di casa rimangano improvvisamente inutilizzati. A livello di Confederazione e in dodici cantoni (ZH, UR, SZ, OW, NW, GL, BL, SH, ZG, SG, GR e FR) questa situazione dà diritto a un valore locativo inferiore (previa deduzione per sottoutilizzazione). In molti casi le condizioni applicate in materia sono tuttavia rigorose. Il locale non più utilizzato,

per esempio, deve essere completamente vuoto o comunque non arredato. Sui ripostigli non vengono concesse deduzioni.

Procedura – Allegate alla dichiarazione d’imposta una richiesta di deduzione per sottoutilizzazione, fornendo le debite giustificazioni e indicando un valore locativo adeguatamente inferiore. La deduzione per sottoutilizzazione si applica solo al periodo d’imposta in corso. A ogni dichiarazione d’imposta è quindi necessario presentare una nuova domanda.

Eccezione – La deduzione per sottoutilizzazione non è prevista per le abitazioni secondarie.

Dedurre i costi di manutenzione e ristrutturazione

Avete sostituito l’impianto di riscaldamento o rinnovato la doccia? Questi costi di manutenzione possono essere dedotti dal reddito imponibile. I costi di manutenzione comprendono i lavori di tinteggiatura, le riparazioni e gli interventi idraulici, nonché le misure ecologiche e di risparmio energetico. In alternativa è possibile dedurre un importo forfettario.

Procedura – Nel caso dell’importo forfettario i costi effettivi di manutenzione devono rimanere al di sotto dell’importo forfettario stesso, altrimenti si va incontro a un eccessivo onere fiscale. Le deduzioni forfettarie sono solitamente comprese tra il 10 e

il 20% del valore locativo o del reddito da locazione (se si affitta un immobile di proprietà). In molti casi, tuttavia, i costi di manutenzione sono notevolmente più elevati soprattutto per gli immobili più vecchi, che richiedono spesso ampi interventi di ristrutturazione. In questo caso è consigliabile riportare i costi effettivi.

Eccezione – La conversione del sottotetto in appartamento, per esempio, figura come investimento volto a incrementare il valore dell’immobile e, come tale, non può essere dedotto dal reddito imponibile – a differenza degli investimenti di manutenzione, mirati a conservare il valore esistente. Le spese sostenute a fini di risparmio energetico, ad esempio per l’acquisto di una

pompa di calore o di pannelli solari, sono tuttavia deducibili. Consiglio – Scaglionare i lavori di ristrutturazione nell’arco di più anni. Soprattutto per i progetti di più ampia portata può essere utile distribuire i lavori di ristrutturazione su due o più anni solari.

Deduzioni per la casa vacanze

Per la casa di villeggiatura valgono le stesse regole applicate all’abitazione di proprietà: si deve pagare l’imposta sul valore locativo come reddito. Allo stesso tempo è possibile dedurre dal reddito le spese di manutenzione. Analogamente deducibili sono, nel caso di proprietà per piani, anche le spese per l’amministrazione da parte di terzi e i contributi al fondo cassa condominiale. Qualora la casa vacanza venga data in locazione, il reddito locativo viene tassato come reddito imponibile. Ciò riduce il valore locativo.

Risparmiare su un immobile locato

In qualità di locatori potete dedurre dal reddito imponibile anche gli interessi passivi e le spese di manutenzione per l’immobile dato in locazione. La differenza tra reddito da locazione, da un lato, e interessi passivi e costi di manutenzione, dall’altro, viene tassata come reddito. In compenso non siete

soggetti a imposta sul valore locativo perché non occupate personalmente l’immobile di proprietà.

Eccezione – Se affittate la casa o l’appartamento a tasso agevolato a un figlio, è possibile che dobbiate comunque pagare le imposte sulla differenza tra l’affitto e il valore locativo. In alcuni cantoni il valore locativo è soggetto a imposta in ogni caso.

Estinguere l’ipoteca tramite il terzo pilastro

Anche sul rimborso dell’ipoteca si può risparmiare. Importante: non rimborsare l’ipoteca a rate e direttamente bensì puntare, per quanto possibile, sull’ammortamento indiretto compensando l’ipoteca, al termine della sua durata, con il capitale versato nel pilastro 3a (previdenza individuale vincolata). In questo modo si ottengono due vantaggi fiscali: in primo luogo, il versamento nel pilastro 3a riduce il reddito imponibile. In secondo luogo, è possibile dedurre interamente gli interessi passivi per l’intero periodo. L’estinzione di un’ipoteca tramite i fondi del pilastro 3a è consentita ogni cinque anni.

Informazioni

I consigli qui forniti non esauriscono le opportunità disponibili. Per un’attenta pianificazione e una consulenza su misura, rivolgetevi a un esperto fiscale o alla vostra banca di fiducia.

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Jeannette Schaller è responsabile Pianificazione finanziaria della Banca Migros.

Nella capitale mondiale della gioventù

L’analisi ◆ Le elezioni nigeriane, la capacità dei giovani di incidere sull’evoluzione politica e la «bomba» demografica africana

Oltre 93 milioni di nigeriani si sono iscritti ai registri elettorali per scegliere il loro presidente il 25 febbraio scorso. Di questi, 87 milioni si sono dati la pena di andare a prendere il certificato elettorale necessario per partecipare al voto. Ma dopo tanta fatica, alla fine solo 25 milioni hanno messo una scheda nell’urna. È possibile parlare di un’improvvisa apatia e indifferenza, proprio sul filo del traguardo? Oppure le condizioni in cui è avvenuta l’elezione hanno dissuaso e allontanato molti che desideravano partecipare? La questione è importante. Un africano su cinque è un cittadino della Nigeria. Con 225 milioni di abitanti è la più popolosa Nazione del Continente e la sesta nel mondo.

Per PIL – dopo una revisione statistica nel decennio scorso – ha superato il Sudafrica rubandogli il primato continentale; anche se il Sudafrica è rimasto per ora l’unico membro africano del G20. Da 25 anni la Nigeria ha smesso di essere una dittatura militare ed è diventata una democrazia.

Ma se cresce la disaffezione per la democrazia è un segnale preoccupante per tutta l’Africa.

Da 25 anni la Nigeria ha smesso di essere una dittatura militare ed è diventata una democrazia, o forse non ancora?

«Immaginate di stare pazientemente in fila, nell’attesa di votare, e all’improvviso arrivano uomini in moto, armati, che cominciano a sparare.

Immaginate bande che fanno irruzione nel vostro seggio elettorale, sequestrano le urne con la violenza e le portano via. Immaginate altre urne piene di schede che vengono distrutte. Immaginate di essere picchiati per impedirvi di votare per un certo candidato, mentre la polizia non fa nulla per proteggervi. Tutto questo è accaduto durante l’elezione presidenziale in Nigeria». Chi scrive è una grande romanziera nigeriana i cui libri hanno avuto successo nel mondo intero: Chimamanda Ngozi Adichie. La 45enne Adichie si divide tra il suo Paese natale e gli Stati Uniti dove ha ambientato il romanzo autobiografico Americanah, una satira pungente che rivela tra l’altro il razzismo dei Black locali contro gli immigrati dall’Africa. La romanziera è un’esponente di punta di una nuova élite «afropolitana», a suo agio nel mondo intero.

Uno studioso dell’Africa contemporanea come Ebenezer Obadare –anche lui nigeriano trapiantato negli Stati Uniti – è meno radicale di Adichie nel liquidare il voto del 2023. Riconosce che le operazioni elettorali «non hanno passato il test della purezza», però considera irresponsabili gli appelli ad annullare il risultato. Obadare ha coniato per descrivere il proprio Paese un’immagine forte: cleptocrazia competitiva. I leader devono competere tra loro per conquistarsi il

consenso popolare e in questo c’è una caratteristica della democrazia; anche se poi una volta eletti praticano la corruzione su una scala massiccia (ivi compresa l’elargizione di risorse alle proprie constituency etniche, tribali, religiose, che in una certa misura condividono i benefici della cleptocrazia).

Lo studioso Ebenezer Obadare ha coniato un’immagine forte per descrivere la Nigeria: cleptocrazia competitiva

Il voto del 2023 era stato preceduto da attese esagerate, legate all’ascesa di un outsider della politica, Peter Obi, candidato di una formazione minore (partito laburista), con un forte seguito tra i giovani che costituiscono la maggioranza della popolazione. Al-

Redazione Carlo Silini (redattore responsabile)

cuni sondaggi davano Obi vincitore; però avvenivano tramite smartphone e come tali sopravvalutavano la rappresentanza giovanile, l’entusiasmo dei «nativi digitali» per il candidato laburista. Le élite «afropolitane» hanno gonfiato il fenomeno Obi e si sono autosuggestionate al punto da dare per certa la sua vittoria. L’adozione di nuove tecnologie per lo spoglio delle schede sembrava offrire garanzie maggiori che nel passato. Alla fine la partecipazione è stata bassa: su una popolazione totale di 220 milioni, e su 87 milioni di iscritti ai registri elettorali, i partecipanti sono stati solo 25 milioni. L’affluenza al voto quindi è stata inferiore a un terzo dell’elettorato potenziale. Ha vinto il candidato dell’establishment, Bola Tinubu, che aveva l’appoggio del presidente uscente Muhammadu Buhari (un ex dittatore militare). Ultrasettantenne af-

flitto da una salute precaria, Tinubu è un magnate edile multimilionario il cui slogan elettorale più famoso era «adesso tocca a me», un’allusione al fatto di essere stato per molto tempo nell’anticamera del potere, come uno dei sostenitori più influenti del presidente uscente. Alla fine la sua vittoria – di stretta misura – ha rispettato le logiche tradizionali del voto etnico-religioso; ai primi due posti si sono piazzati candidati musulmani. Obi, cristiano, è arrivato terzo. Quest’ultimo però è riuscito a vincere a Lagos, la città più grande, che avrebbe dovuto essere un feudo elettorale per Tinubu (ex governatore di quella metropoli). La sorpresa Obi c’è stata, però è stata molto inferiore alle aspettative alimentate dalla sua popolarità sui social media o presso le élite «afropolitane».

Questo solleva un interrogativo sulla capacità dei giovani di incidere in modo decisivo sull’evoluzione politica dell’Africa: un problema che in fondo accomuna il Continente nero alle democrazie occidentali, dove spesso all’esuberanza giovanile sui social non corrisponde altrettanta partecipazione politica. I più pessimisti inseriscono questo problema in uno scenario catastrofico sui flussi migratori del futuro: un’Africa con troppi giovani, e dove le nuove generazioni non hanno abbastanza opportunità e non padroneggiano il proprio destino, inevitabilmente esporterà questa popolazione giovanile in Europa. Secondo le proiezioni ONU, da qui al 2050 la Nigeria e altre 27 Nazioni sub-sahariane vedranno la loro popolazione raddoppiare. Nel corso di questo secolo sul pianeta tre neonati

Sostenitori del vincitore delle elezioni presidenziali nigeriane Bola Tinubu (sullo striscione a sinistra) e, in basso, le baraccopoli di Lagos. (Keystone)

su quattro vedranno la luce nell’Africa subsahariana. Natalità e urbanizzazione hanno il loro epicentro più rappresentativo a Lagos, la più grande metropoli della Nigeria e dell’intero Continente. Nell’anno dell’indipendenza nazionale, il 1960, Lagos aveva 350mila abitanti cioè l’equivalente di Firenze oggi. A metà degli anni Ottanta superava i cinque milioni. Nel 2012 sorpassava il Cairo come principale città africana e raggiungeva quota 21 milioni, quanto Pechino. Nel 2050 le proiezioni gliene assegnano il doppio. A questa dinamica già eccezionale (non per l’Africa ma per quelle parti del mondo dove avanza la decrescita demografica) la composizione per fasce di età è l’altro aspetto dirompente.

La percentuale degli abitanti di Lagos sotto i 15 anni era il 25% nel 1930, era cresciuta al 40% nell’anno dell’indipendenza, oggi supera il 60%. Un esperto di Africa come Stephen Smith definisce Lagos «la capitale mondiale della gioventù», e ci ricorda che a Londra e Parigi gli abitanti sotto i 15 anni sono appena il 18% e il 15%.

La concentrazione giovanile è ancora più accentuata nei quartieri poveri della città, le shanty town o baraccopoli dove il 95% degli abitanti ha meno di trent’anni. «I giovani vivono in mezzo ad altri giovani – osserva Stephen Smith che ha abitato a lungo a Lagos – reinventando norme e valori su misura. Non è necessariamente Il signore delle mosche (romanzo centrato sulla ferocia dei ragazzi abbandonati su un’isola deserta, ndr.), però non è la regola ideale per educare allo spirito civico».

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Uno scontro tra due colossi

L’analisi

La partita Cina-USA si gioca non solo sul terreno militare ma anche sul fronte commerciale, finanziario e tecnologico

Il presidente cinese Xi Jinping ha pronunciato il 6 marzo a Pechino, davanti a un gruppo di esponenti dell’imprenditoria privata, un discorso che ha tutto l’aspetto di una dottrina. Una «chiamata alle armi» ai compatrioti per fronteggiare uniti la minaccia americana. Xi non usava attaccare direttamente in pubblico il «numero uno». Stavolta ha cambiato registro: «Negli ultimi cinque anni Paesi occidentali guidati dagli Stati Uniti ci hanno contenuto e aggredito con un approccio totale, che ha portato gravi sfide al nostro sviluppo. (…) Nel futuro prossimo i rischi e le sfide da fronteggiare non potranno che crescere e diventare più gravi. Solo se tutti penseremo e lavoreremo insieme potremo continuare a vincere altre battaglie». Due gli aspetti fondamentali.

Primo, l’accusa agli americani di attaccare il benessere e la sicurezza di tutti i cinesi. Non quindi un attacco al regime, al Partito comunista, ma alla Nazione tutta. Poiché il benessere della popolazione, assicurato dalla crescita economica, è alla base del consenso dei cinesi per il regime attuale, l’appello di Xi suona chiaro: non ce l’hanno solo con me e con i comunisti, ce l’hanno con tutti noi cinesi. Secondo, l’invito agli imprenditori a schierarsi insieme agli altri in appoggio del regime: «Il settore privato è nel lungo periodo una forza importante perché il nostro partito

possa governare. (…) Noi consideriamo sempre le imprese private e gli imprenditori privati come gente che sta dalla nostra parte».

Il discorso di Xi va letto sullo sfondo dei modesti risultati raggiunti dall’economia cinese lo scorso anno: appena il 3% di crescita. Un passo falso dovuto anche se non soprattutto alla politica «zero Covid», infatti abbandonata con un colpo di scena clamoroso. Inoltre, il settore privato è un pilastro dell’economia cinese, visto che vale i quattro quinti degli impieghi e i due terzi del prodotto interno lordo. Se i capitalisti non fossero patriottici, nel senso di sostenitori del regime, l’economia ne soffrirebbe e con essa il primato del Partito comunista. L’obiettivo di crescita del PIL per quest’anno si colloca «intorno al 5%», ma potrebbe alzarsi visto il colpo di reni del PIL cinese subito visibile dopo la fine del «zero Covid».

La partita fra Cina e Stati Uniti si svolge infatti non solo sul terreno militare, intorno al controllo degli Stretti dell’Indo-Pacifico e in particolare dello Stretto di Taiwan, ma anche sul fronte commerciale, finanziario e tecnologico. Il tono delle rispettive economie ha inevitabilmente riflessi sulle opinioni pubbliche interne. Soprattutto su quella cinese, che partendo da un benessere enormemente inferiore si è abituata, negli ultimi decenni, a una crescita verticale e conti-

nua. Quasi il capitalismo cinese fosse immune dai cicli che ogni economia analoga storicamente attraversa.

Lo scontro fra i due colossi si sta surriscaldando, anche per effetto della guerra in Ucraina. Con il suo «piano di pace», Pechino ha messo i puntini sulla i della sua geopolitica. Ha evidenziato di non voler abbandonare la Russia al suo destino, senza per questo schiacciarsi su Mosca. Pechino e Mosca si presentano oggi sulla scena mondiale come la coppia dell’«anti-Occidente». Portavoce del cosiddetto «Sud globale» – categoria di fatto inesistente che vorrebbe raccogliere in unanime famiglia tutti coloro che occidentali non sono, a cominciare da altri asiatici, africani e latinoamericani – in lotta contro il neocolonialismo a stelle e strisce, sostenuto dalle sue appendici europee e asiatiche. Affresco propagandistico, dunque irrealistico, ma con una certa presa anche al di là della Cina.

Allo stesso tempo, Xi mette l’accento sull’economia perché non vuole militarizzare il confronto con gli Stati Uniti. Il rischio di perdere la guerra, o di uscirne comunque ridimensionati, è troppo forte. Di qui anche un certo grado di ammorbidimento della linea ufficiale su Taiwan. Negli ultimi anni i «lupi guerrieri» della diplomazia sinica avevano spaventato il mondo – e ridotto il soft power cinese, di per sé non formidabile – con afferma-

zioni arroganti e molto militanti. Ora l’accento cade sull’aspetto positivo.

Nelle parole del nuovo ministro degli Esteri, Qin Gang, Taiwan è parte della famiglia cinese continentale.

La riunificazione va perciò sviluppata

«in modo pacifico», almeno in prima battuta. L’avvicinarsi delle elezioni taiwanesi, dove la linea para-indipendentista oggi dominante potrebbe essere smentita dal ritorno al potere del Kuomintang, contribuisce ad addolcire i toni di Pechino.

Molto dipenderà dall’atteggiamen-

to americano. Malgrado la crescita in volume del commercio sino-americano, il clima è sempre negativo con tendenza al peggio. La componente neoconservatrice della amministrazione Biden, di cui il ministro degli Esteri Antony Blinken è acuto esponente, non intende certo abbassare la guardia. La contrapposizione retorica può scivolare da un momento all’altro verso lo scontro militare. In genere le guerre non obbediscono a un cronogramma preconfezionato. Semplicemente, accadono.

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Il discorso di Xi Jinping al gruppo di esponenti dell’imprenditoria privata, il 6 marzo. (Keystone)
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Tra slanci e sconfitte

Vaticano ◆ Dieci anni fa iniziava l’avventura di Francesco, il «Papa venuto dalla fine del mondo». Gli aspetti dirompenti del suo pontificato ma non solo

Ha appena fissato un nuovo viaggio in Ungheria per aprile. Poi verranno Lisbona, Marsiglia e forse addirittura la Mongolia tra l’estate e il mese di settembre. Nonostante gli 86 anni compiuti e la fatica nel camminare, resta fitta l’agenda di Papa Francesco (nella foto). Nulla fa pensare a un epilogo vicino per il suo pontificato. Ma la ricorrenza dei dieci anni dalla sua elezione – che cade oggi – rende lo stesso un esercizio naturale tracciare un bilancio della stagione aperta nella Chiesa cattolica dal conclave che il 13 marzo 2013 lo scelse come successore di Pietro.

Della misericordia

Bergoglio ha fatto il proprio manifesto: «Chi sono io per giudicare?» è una delle sue frasi che hanno fatto epoca

Si è utilizzato molto il termine «rivoluzione» per descrivere l’impatto sul volto paludato del cattolicesimo del «Papa venuto dalla fine del mondo» (come fu lui stesso a descriversi nel primo discorso dalla loggia di San Pietro). Ma, dieci anni dopo, che cosa Francesco ha cambiato davvero intorno a lui? Specialmente nei primi anni, il pontificato di Bergoglio è stato un’esperienza dirompente principalmente su un aspetto: l’umanizzazione della figura del Papa. Francesco ha riavvicinato il suo ministero alla gente, con una predilezione particolare per i poveri e per le periferie. Pur non essendo riuscito ad abolirli del tutto, ha mostrato con chiarezza la sua allergia per tutti i meccanismi che fanno tuttora del Vaticano una corte regale. Ha moltiplicato le interviste, le prefazioni ai libri, i videomessaggi a incontri di ogni tipo. Le sue conferenze stampa sull’aereo di ritorno dai viaggi sono diventate quasi un genere a sé, con un pontefice che non misura le parole (salvo poi qualche volta doversi poi correggere). Francesco è un Papa a ruota libera, difficilmente incasellabile. Per la sua grande popolarità ciascuno cerca di rilanciarne il volto più congeniale. Ma proprio questo lo rende particolarmente inviso a quella parte del mondo cattolico che vorreb-

Meloni in India: un successo

Diplomazia ◆ Resoconto di un viaggio che ha consolidato i rapporti tra Roma e Delhi

Giorgia Meloni ce l’ha fatta. La presidente del Consiglio italiano, in India come ospite d’onore alla conferenza internazionale Raisina Dialogue, ha letto il suo discorso (in inglese, lingua che non parla, con un accento più che discreto) in modo dignitoso e sobrio, facendo un successo del suo primo incontro bilaterale in Asia. Il discorso in realtà è stato abbastanza noioso, niente a che vedere con la vivace politica italiana che conosciamo, tranne che per due momenti: quando, con il ministro degli esteri russo Sergej Lavrov seduto di fronte a lei, ha dichiarato che «Mosca ha invaso l’Ucraina in violazione di tutte le leggi internazionali» e ha ricevuto il plauso da almeno metà sala. E quando parlava di identità e cultura guardando dritto il premier Narendra Modi, con un mezzo sorriso, a cui aveva prima detto: «Spero di raggiungere, durante il mio mandato, le vette di gradimento del primo ministro indiano che è noto per essere il leader più amato al mondo».

be una Chiesa rassicurante e granitica nelle proprie certezze.

«Meglio una Chiesa incidentata che malata», era stata una delle sue prime frasi programmatiche: su questa strada in questi dieci anni Francesco si è mosso costantemente. Il vertice lo ha raggiunto probabilmente nel Giubileo della misericordia, da lui voluto e celebrato tra il 2015 e il 2016, partendo proprio da Bangui, la capitale della Repubblica Centrafricana, Paese teatro di una delle guerre più dimenticate al mondo. Della misericordia Bergoglio ha fatto il suo manifesto: «Chi sono io per giudicare?» è un’altra sua frase che ha fatto epoca, pronunciata in risposta a una domanda sul tema dell’omosessualità. Ma la misericordia espone – appunto – agli incidenti. Soprattutto se si ha davanti la sfida di governare una realtà complessa e attraversata da crisi e tensioni com’è la Chiesa cattolica del XXI secolo. Così nel bilancio di questi dieci anni di papa Francesco vanno annoverate anche alcune sconfitte.

La prima – la più dura da digerire –è quella sugli scandali legati agli abusi sessuali. Francesco ha indubbiamente contribuito a fare emergere la verità su tante situazioni. Ha incontrato le vittime mostrando sincera partecipazione al loro dramma. Ma non è andato oltre. E la sensazione nei fedeli davanti a questi scandali è quella di ritrovarsi continuamente al punto di partenza. Tanto più che, negli ultimi mesi, a venir travolto è stata persino una figura vicinissima al pontefice come il gesuita sloveno Marko Ivan Rupnik. Un’altra sconfitta riguarda le strutture di governo della Chiesa: «sinodalità» è un’altra parola chiave del pontificato di Francesco. Il pontefice l’ha voluta al centro di un percorso che sta coinvolgendo le diocesi di tutto il mondo con il mandato esplicito di ascoltare il più possibile anche quelli che si sono allontanati dal mondo delle parrocchie. Il risultato sarà una grande assemblea conclusiva a Roma che si terrà in due sessioni, una a ottobre 2023 e l’altra l’anno successivo. Ma su come tradurre davvero questo metodo in uno stile di governo della Chiesa, le fatiche restano evidenti. Negli ultimi mesi, in partico-

lare, di fronte a tante resistenze negli ambienti curiali il papa è intervenuto spesso d’autorità, in prima persona. Ma anche di fronte alle richieste di «riforme», come l’abolizione del celibato dei sacerdoti o l’ordinazione delle donne, avanzate dal Sinodo convocato dalla Chiesa tedesca, Francesco ha frenato, denunciando il pericolo di una «parlamentarizzazione» delle dinamiche ecclesiali. Tutto questo, anziché unire come sognava Francesco, sta aumentando le polarizzazioni all’interno del mondo cattolico.

C’è poi la sconfitta espressa dalle lacrime del dicembre scorso in piazza di Spagna per la guerra in Ucraina: gli appelli del pontefice per fermarla non hanno prodotto alcun risultato. Le stesse speranze suscitate qualche anno fa dallo storico incontro a Cuba con il patriarca di Mosca Kirill si sono rivelate infondate. Nel momento della verità il leader della Chiesa ortodossa russa si è rivelato il «chierichetto di Putin» (come ha detto proprio Francesco in un’altra intervista poco diplomatica). Più in generale: il ritorno della guerra e delle contrapposizioni mette in crisi tutto l’approccio geopolitico di Francesco. Il Papa più tiepido con Washington, arrivato persino a far firmare al Vaticano un accordo sulla nomina dei vescovi col governo di Xi Jinping, vede il mondo andare in una direzione opposta. Fatica a prendere posizione su crisi come la repressione delle libertà a Hong Kong o a Teheran. Si trova a fare i conti con la persecuzione aperta della Chiesa cattolica persino in un Paese come il Nicaragua.

Non è un bilancio da «vincente» quello dei dieci anni di pontificato di papa Francesco. Non ha muri fatti cadere nel suo curriculum. Ma certamente non erano nemmeno nel suo programma la sera del 13 marzo 2013. Bergoglio ha riportato la profezia ai vertici della Chiesa cattolica, con la sua forza ma anche le sue debolezze.

Oggi è un anziano leader che sempre più spesso ripete ciò che ha già ripetuto tante volte, vedendo che il suo gregge fatica a seguirlo. Questo fanno i profeti. E, di solito, la loro eredità si riesce a misurare davvero solo quando non ci sono più.

la cooperazione nel campo della Difesa tra i due Paesi attraverso colloqui regolari tra i vari comandi; inoltre da tempo lavorano fianco a fianco su questioni come il terrorismo e il separatismo. Sono finiti i giorni in cui le relazioni tra i due Paesi sono precipitate per l’arresto di due marines italiani a causa dell’uccisione di due pescatori del Kerala al largo delle coste indiane (2012). La questione è stata risolta da tempo e altri «elefanti» nella stanza delle relazioni reciproche tra India e Italia sembrano essere scomparsi per sempre.

Arrivata a Delhi con la figlia Ginevra di sei anni, Meloni torna a casa con un busto di Gandhi ricevuto in dono al memoriale di Rajghat e la certezza di aver consolidato, e di molto, i rapporti tra Italia e India. «Quest’anno l’India e l’Italia celebrano il 75° anniversario… delle relazioni. In questa occasione, abbiamo deciso di elevare la partnership India-Italia allo status di partnership strategica», hanno affermato i due leader durante una conferenza stampa congiunta, parlando una in italiano e l’altro in hindi, ma capendosi a quanto pare perfettamente. Hanno annunciato anche la creazione di uno «Start-up Bridge» tra Italia e India con «particolare enfasi sull’aumento della cooperazione in settori come le energie rinnovabili, l’idrogeno verde, l’IT, i semiconduttori, le telecomunicazioni e lo spazio». D’altra parte, ha ricordato Meloni, il commercio tra Italia e India è più che raddoppiato negli ultimi due anni, raggiungendo la cifra record di 15 miliardi di euro nel 2022. Oltre 600 aziende italiane sono presenti in India e l’Italia ha già indicato l’India tra i suoi cinque Paesi prioritari per gli affari. La cooperazione militare e gli accordi commerciali sono stati rilanciati, soprattutto dopo che l’italiana Leonardo è stata «scongelata» dal blocco delle importazioni per lo scandalo Westland-Agusta.

Modi e Meloni hanno anche annunciato l’istituzione di esercitazioni e corsi di addestramento congiunti su base regolare tra le rispettive Forze armate. L’India e l’Italia hanno anche un Gruppo di Cooperazione Militare, un forum istituito per incoraggiare

Meloni non ha nemmeno pronunciato per sbaglio, al contrario di quanto tutti si aspettavano, la parola Cina. Così come non è mai stato menzionato, almeno in pubblico, lo sfortunato accordo sulla partecipazione dell’Italia alla Belt and Road Initiative firmato dal Governo Conte. E però Meloni ha messo sul piatto qualcosa di più pesante, che riguarda ovviamente molto da vicino anche la Cina. «È motivo di grande piacere che l’Italia abbia deciso di aderire all’Indo-Pacific Oceans Initiative (IPOI). Questo ci permetterà di identificare temi concreti per rafforzare la nostra cooperazione nell’Indo-Pacifico», ha detto Modi. Aderendo all’IPOI, l’Italia assumerà, insieme a Singapore, la guida del pilastro della cooperazione scientifica, tecnologica e accademica. L’IPOI è un’iniziativa sponsorizzata da Nuova Delhi per rafforzare la cooperazione in materia di trasporto marittimo e connettività commerciale, sicurezza marittima, ecologia e risorse marine, riduzione e gestione del rischio di disastri, scienza e tecnologia e collaborazione accademica. L’annuncio era atteso da tempo, dato che una «partnership trilaterale» tra India, Giappone e Italia era stata annunciata nel 2021 ma, dopo essere stata formalmente lanciata, non era stata resa operativa. Poi, nel 2023, l’Italia aveva elevato le relazioni con il Giappone allo status di «partenariato strategico», simile a quello inaugurato ora con l’India, facilitando così un maggiore coinvolgimento italiano nelle dinamiche e ciò ha portato alle dichiarazioni recenti, anticipate dalle voci dell’invio del pattugliatore italiano Morosini nell’Indo-Pacifico.

Anche se a tratti sembrava un po’ disorientata, Meloni ha concluso la sua visita con un innegabile successo diplomatico: le uniche critiche ricevute, in India, hanno riguardato essenzialmente le sue scelte sartoriali e l’enfasi, giudicata da molti inappropriata, posta sulle radici giudaico-cristiane dell’Europa. Meloni sarà di nuovo a Delhi a settembre per la riunione dei capi di Stato del G20.

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 13 marzo 2023 azione – Cooperativa Migros Ticino ATTUALITÀ 31
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Il Mercato e la Piazza

Se in Ticino mancano i lavoratori

I lettori più attenti ai risvolti economici della nostra attualità si ricorderanno forse che nella scorsa primavera una coppia di ricercatori della SUPSI aveva sorpreso la nostra opinione pubblica affermando che, ancora prima della fine di questo decennio, all’economia del nostro Cantone potrebbero mancare 33mila unità lavorative. Questo significherebbe, per chi scrive, se non si introducono misure correttive, che a quella data o il contingente di frontalieri supererà le 100mila unità (e per consentirgli di arrivare in tempo sul posto di lavoro occorrerà generalizzare la possibilità del lavoro notturno), oppure un 10% circa delle aziende dovrebbe cercare di ricollocarsi fuori Cantone (preferibilmente nelle province italiane a ridosso della frontiera). Se prendiamo per buone queste previsioni – e fin qui non avevamo ragioni per pensare il contrario – questo scenario dovrebbe

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realizzarsi nel medio termine, entro 5 anni. Ciò significa che i consiglieri di Stato eletti il prossimo aprile potrebbero essere chiamati a confrontarsi da subito con questa sfida.

Ora questa previsione è fondata sull’evoluzione dell’offerta di lavoro (precisiamo che l’offerta di lavoro è il fabbisogno di lavoratori delle aziende attive nel Cantone) degli ultimi anni, vale a dire del periodo della libera circolazione della manodopera. È tuttavia difficile credere che l’evoluzione dell’offerta di lavoro dei prossimi anni proietterà nel futuro le tendenze di aumento del prossimo passato nella misura anticipata dai ricercatori della SUPSI. Come commentatori della nostra economia siamo comunque riconoscenti a chi si azzarda a formulare previsioni e questo perché ogni previsione ha una probabilità di realizzarsi e dà quindi, a chi deve intervenire, come a chi deve commen-

La vera novità di Elly Schlein

Una svizzera è diventata la leader della sinistra italiana, e già questa è una notizia. In realtà Elly Schlein è anche italiana, figlia di una madre senese e di un padre americano di origine ebraica; ma è nata e cresciuta in Ticino, abbandonato solo a 19 anni per fare l’università a Bologna. Mi ha raccontato che nella sua classe alle scuole elementari c’erano molti ragazzi figli di famiglie fuggite dalle guerre balcaniche, e che questo le ha insegnato i valori della società multietnica e dell’integrazione. L’ho intervistata per il «Corriere della Sera» e ne ho tratto un’impressione diversa da quella che mi ero fatto leggendo articoli su di lei. Pensavo che fosse una figura interessante dietro la quale però si era nascosta la solita nomenklatura del Partito Democratico, per continuare a controllare il PD, cambiando tutto per non cambiare nulla. E in effetti Schlein è stata sostenuta da vecchi «marpioni» come Dario Franceschi-

ni, Goffredo Bettini, Andrea Orlando, Nicola Zingaretti. Eppure c’è qualcosa di più. E non soltanto perché lei è in gamba, sa parlare in pubblico, ha cultura e velocità mentale. Elly Schlein è un’avvocata. Ha una formazione americana: ha partecipato da volontaria a entrambe le campagne elettorali di Barack Obama (2008 e 2012). Rappresenta una novità. E non solo perché è la prima donna a conquistare la leadership della sinistra italiana. Il nostro è il tempo della rivolta contro l’establishment, le élites, il sistema. A sinistra come a destra. Sono frutti di questa tendenza anche la vittoria della Brexit al referendum del 2016 e l’elezione di Donald Trump nel novembre dello stesso anno; financo papa Francesco, con la sua critica alla Curia e alla Chiesa tradizionale, partecipa a questo fenomeno. Come si poteva pensare che il PD facesse eccezione? Stefano Bonaccini era un ottimo candidato. Governato-

Il presente come storia

L’e-voto salverà la democrazia?

Situazione alla vigilia del voto del 2 aprile per il rinnovo dell’Esecutivo e del Legislativo: stabilità complessiva, con qualche spostamento di seggi in Gran Consiglio. Variazioni minime, dicono i sondaggi, ma sufficienti per moltiplicare le forze rappresentate (effetto frammentazione). Nella disfida per il Consiglio di Stato, l’unica incognita che si era affacciata riguardava il tentativo di detronizzare il leghista Claudio Zali per opera del democentrista Piero Marchesi. Un duello condotto tutto sull’ala destra dello schieramento politico, con due «fratelli-coltelli» nelle vesti di spadaccini. Ma non pare che l’assalto andrà a buon fine. Per il resto, bonaccia con lievi increspature. A sinistra le schermaglie congressuali non hanno indebolito la candidatura di Marina Carobbio. Centristi (ex PPD) e Liberali hanno accantonato i fieri propo-

tare l’evoluzione in corso, indicazioni preziose su quanto potrebbe succedere. Crediamo poi che ogni nuova previsione possa aggiungere qualcosa di più giudizioso allo scenario del futuro anche rispetto all’evoluzione dell’offerta di lavoro.

Lo provano, per esempio, previsioni (effettuate più di recente) sulla consistenza del futuro eccesso di offerta di posti di lavoro. Per esempio quella sul futuro del fabbisogno di lavoratori in Svizzera, presentata qualche settimana fa, dai ricercatori dell’UBS. Stando agli stessi, nel 2030 mancheranno in Svizzera 270mila lavoratori. Ora tenendo conto che la percentuale attuale del Ticino nel totale dell’occupazione nazionale è pari al 4,5%, possiamo stimare che, sempre nel 2030, in Ticino potrebbero mancare circa 12’150 lavoratori. Per arrivare ai 33mila della previsione dei ricercatori della SUPSI bisognerebbe che la quo-

ta del Ticino nel fabbisogno futuro di manodopera dell’economia nazionale si triplicasse. Possiamo però rifare la stima appoggiandoci questa volta su un’altra previsione della futura carenza di lavoratori in Svizzera: quella di Avenir Suisse. Questo gruppo di ricercatori, vicino al padronato, ha stimato recentemente che nel 2050 all’economia svizzera mancheranno 1,3 milioni di lavoratori.

Possiamo, da questa previsione, dedurre che, tra cinque anni, all’economia ticinese potrebbero mancare circa 9mila lavoratori. Siccome il fabbisogno di nuove leve per il mercato del lavoro ticinese da anni viene assicurato soprattutto dall’aumento del contingente di lavoratori frontalieri possiamo concludere, rifacendoci alle tre previsioni citate, che il contingente di frontalieri potrebbe crescere in una misura che potrebbe variare tra le 9mila e le 30mila unità.

I lettori di «Azione» che vivranno ancora nel 2027 potranno sincerarsi di quanto fondate siano queste previsioni. Ma dovranno anche sopportare, se nel frattempo non intervengono nuove misure di controllo del loro flusso, l’aumento dei costi sociali determinati dal crescere del numero dei frontalieri. Quali potrebbero essere queste misure? Dapprima si potrebbe cercare di aumentare il tasso di attività della popolazione residente, in particolare della componente femminile della stessa.

Il ventaglio delle misure che possono aiutare a conseguire questo obiettivo è molto largo. Si potrebbe poi anche tentare di introdurre misure che attraggano giovani famiglie da fuori Cantone (se lo si propone a una regione sviluppata come Basilea perché non si dovrebbe poterlo fare in Ticino?). L’imperativo è però uno solo: non perdiamo più tempo!

re di una delle Regioni più ricche e meglio amministrate d’Italia, l’Emilia-Romagna, appariva senz’altro un avversario più solido per Giorgia Meloni rispetto alla giovane Schlein. Eppure Bonaccini è stato percepito come un esponente della vecchia guardia, di una storia ormai finita. Ed è prevalsa l’idea di contrapporre alla prima donna presidente del Consiglio, Meloni, espressione della destra, un’altra donna, altrettanto radicale sul versante opposto e ancora più giovane. Gli esperti di politica hanno sentenziato che la vittoria di Schlein potrebbe essere una grande opportunità per Matteo Renzi e Carlo Calenda, i capi del partito liberaldemocratico che nascerà dalla fusione tra Italia Viva e Azione. E in effetti il PD si sposterà a sinistra e aprirà senz’altro uno spazio al centro. Però Schlein è attrezzata per mobilitare i neolaureati, i milioni di italiani che disertano le urne. Non a caso l’ex presidente del Consiglio

Giuseppe Conte, leader dei Cinque Stelle, è apparso preoccupato dall’irrompere sulla scena di una donna che potrebbe sottrargli consensi, compresi quelli populisti e antisistema. La svolta alle primarie del PD è venuta dalle città e rispecchia il cambiamento sociale della sinistra italiana. Il PD non è più il partito delle cooperative e degli artigiani rossi. È un partito di borghesia intellettuale, attento ai diritti civili, forte soprattutto nelle grandi città. Molte delle cose che Schlein sostiene, a cominciare dall’urgenza di lottare contro il cambiamento climatico, porre un freno alla crescita delle disuguaglianze, far pagare le tasse alle multinazionali e ai padroni della Rete, sono giuste. Ma Schlein porta con sé anche una carica ideologica, fatta di politicamente corretto, di cultura della cancellazione del passato, di linguaggio perbenista, che non convince l’italiano medio. Anche per questo la nuova segretaria

sembra sì adatta a rianimare il PD, a riportare alle urne i delusi della sinistra, insomma a costruire una buona affermazione del PD alle Europee del prossimo anno, quando si voterà con il proporzionale puro e conterà molto il voto d’opinione, ma sembra meno adatta a costruire una coalizione in grado di battere il Centrodestra alle prossime elezioni politiche. Molto dipenderà dalla reazione di Meloni. Che sembra disposta ad accettare il confronto, convinta che al dunque l’orientamento moderato, se non conservatore, degli italiani la premierà. Il battesimo del fuoco di Schlein è stata la manifestazione di sabato 4 marzo a Firenze contro il ritorno del fascismo. Ma la maggioranza degli italiani appare più preoccupata dalle violenze degli anarchici, che nello stesso giorno hanno causato disordini a Torino in nome del loro leader Alfredo Cospito, detenuto in carcere nelle stesse dure condizioni riservate ai mafiosi.

siti di riconquistare i seggi perduti: i primi nel lontano 1995, i secondi nel 2011. Nessuna rivincita dunque, va bene così, accontentiamoci, sarà per un’altra volta. Allora la domanda è: se tutti i sondaggisti ci dicono che tutto o quasi sarà come prima, perché dovremmo assumerci l’incomodo di compilare una scheda? Posta la questione in questi termini, si potrebbe già decretare la morte della democrazia: una sorta di diserzione collettiva dal consorzio politico per mancanza assoluta di interesse e di fiducia. Per fortuna non tutto è prevedibile, il fattore sorpresa ancora esiste nonostante metodi d’indagine sempre più raffinati e precisi. Dunque l’appello a votare va ribadito con forza se vogliamo mantenere vivo e operativo il nostro ordinamento repubblicano.

Il crescente astensionismo però preoc-

cupa, e non solo nel nostro piccolo Ticino. Durante le recenti Amministrative italiane in Lombardia e Lazio si è ingrossato fino a diventare valanga. Solo una minoranza si è recata alle urne. Il Ticino finora, alle politiche, ha sempre registrato una discreta partecipazione, superiore alla metà dell’elettorato. Tuttavia con oscillazioni che bisognerà tenere sotto stretta osservazione. Nel 2003 i refrattari al voto erano il 40,6%, nel 2015 erano calati al 37,8 per effetto dell’introduzione del voto per corrispondenza; ma nel 2019 sono nuovamente risaliti al 40,7. Nel corso degli anni sono stati numerosi i provvedimenti per iniettare «sangue fresco» nel corpo elettorale e agevolare l’espressione del voto, prima abbassando l’età a diciott’anni (1991) e poi generalizzando il voto per corrispondenza. Ora si vorrebbe compiere un passo ulteriore, ossia concedere questo dirit-

to ai sedicenni. Misura utile, antidoto efficace al disinteresse? Le indagini fin qui condotte non lasciano intravedere scenari ottimistici. L’entusiasmo per l’attività politica nei cittadini giovanissimi non è uniforme e in ogni caso si spegne quasi subito nell’impatto con le istituzioni e i partiti con le loro gerarchie. Anche con i diciottenni, è dimostrato, la disaffezione prevale dopo una breve euforia. Dunque siamo in presenza di palliativi, che poco incidono sulle dinamiche del voto, le cui redini rimangono tuttora saldamente nelle mani delle fasce di età avanzate.

Ci sono alternative per ri-tonificare lo spirito civico? Da tempo la riflessione ruota intorno al voto elettronico, per ora sperimentato solo in laboratorio (ma in Estonia è già effettivo dal 2007). Dopo tutto, affermano i fautori, è questione di un attimo passare dal voto per corrispondenza al voto

online: basta disporre di un computer in Rete e di una tessera che permetta di certificare l’identità del votante. D’altronde, si aggiunge, già oggi rispondiamo a sondaggi di tutti i tipi attraverso un semplice clic: per quale ragione la politica dovrebbe rappresentare un’eccezione?

L’approdo al porto digitale prima o poi avverrà. Ma non nascondiamoci le insidie. Una di queste è data dalla crescente banalizzazione dell’atto civico, che diverrebbe meccanico e istintivo, come di fronte alla scelta di un detersivo. La fase della documentazione e del confronto dialettico con le ragioni dell’altro cederebbe inevitabilmente il posto agli umori del momento, veloci e irriflessi. Non illudiamoci che la democrazia istantanea dell’avvenire sarà migliore di quella lenta e macchinosa che abbiamo conosciuto finora.

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 13 marzo 2023 azione – Cooperativa Migros Ticino 33 ATTUALITÀ / RUBRICHE ◆ ●
di Aldo Cazzullo
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di Orazio Martinetti
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COME UNA LATTINA DI RED BULL METTE SEMPRE LE AAALI.

Grazie al lancio perfetto, il tasso di raccolta di lattine in alluminio in Svizzera è del 90%.

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Andy Warhol a Milano

Non convince la mostra in corso alla Fabbrica del Vapore dedicata al grande artista americano

Ode alla nostalgia Nel suo saggio Lucrezia Ercoli riflette sul sentimento oggi più affascinante e ambivalente

La forza delle galline Attraverso le vicende di un pollaio Jackie Polzin ci racconta la storia di un matrimonio e di un lutto

La visione di André Grétry Suo il merito di aver pensato una nuova relazione tra la musica e le istituzioni in nome della collettività

In nome di quale amicizia?

Mostre ◆ Nel MigrosMuseum für Gegenwartskunst di Zurigo si respira un’aria di complicità e prevale la commozione

«Acts of Friendship», Atti di amicizia, ma un’amicizia da non intendersi solamente come affetto caro verso chi ci circonda, quanto più come una sorta di processo comprendente scale di valori, e che quindi può dare vita a complicità, alleanze e solidarietà. E proprio al sodalizio amicale il MigrosMuseum für Gegenwartskunst di Zurigo, situato nei suggestivi spazi dell’ex birrificio Löwenbräu, ha deciso di dedicare un intero progetto espositivo, suddiviso in tre puntate (o episodi), che nella sua totalità si estenderà dal 28 gennaio fino al 17 settembre. E, come si dichiara negli intenti espositivi, sempre in nome dell’amicizia, per il pubblico la mostra sarà del tutto gratuita.

«Ma le amicizie sono anche strutture complesse e contraddittorie, che possono essere sovversive nelle loro caratteristiche. Perciò le amicizie non sono solo in grado di sostenerci come individui nelle modalità con cui ci comportiamo verso il mondo che ci circonda; possono anche rappresentare la strada per farci sentire come collettivo e ribellarci alle strutture sociali (di potere)», recita il programma. Così, Acts of Friendship I atto, visitabile fino al 2 aprile, risucchia la visitatrice e il visitatore in una sorta di disadorno e lunatico luna park,

invitandolo a una riflessione sul senso di convivialità e aggregazione. E dalla roulotte trasudante kitsch di Esther Eppstein, message salon Wohnwagen (1998-2000, nella foto), con tanto di nanetto e Bambi da giardino, arredata in modo quasi stucchevole (una sottile presa in giro della borghesia? un’allusione all’essere bünzli?) e piena di VHS, CD e LP d’antan, all’angolo psichedelico Beautiful Corner di L/B (Lang/Baumann, 1999), perfetto omaggio ad Arancia meccanica, il passo è breve. In altre stanze, pouf sovrastati da cuffie stereo invitano all’indugio, cioè all’ascolto e alla visione ad esempio di The New Love Songs di Annika Ström (1999), mentre alle pareti, in un confronto in cui è difficile stabilire un vincitore, i curiosi e affascinanti ritratti a biro di gente comune inserita in un moderno Tour de Suisse realizzati da Claudia & Julia Müller (Choucroute au curry par hasard, 2000) si specchiano nella parete rivestita di una miscellanea di fotografie, diverse per obiettivo, dimensioni e soggetti, apparentemente senza ordine e senza un vero fil rouge, di Ruth Erdt (The Gang, 1984-2000).

È stato il team del museo diretto dal 2001 da Heike Munder a scegliere, tra quelle della ricca collezione, le opere da esporre in questo progetto

tripartito. Un lavoro nato, si auspica, in amicizia e per celebrare certamente l’amicizia stessa, ma ancor più, l’incredibile lavoro dell’islandese Ragnar Kjartansson, The Visitors, realizzato appositamente per l’istituzione zurighese nel 2012 e ospitato finalmente di nuovo al primo piano del museo dopo dieci anni di assenza.

A questo punto però per onestà lo dobbiamo dire: siamo in odore di spoiler alert, e a chi avesse l’intenzione ferma di non perdersi la struggente opera del visionario scandinavo, consigliamo di interrompere la lettura dell’articolo, e semmai ritornarci una volta vista il lavoro di Kjartansson. The Visitors infatti, con i suoi nove schermi giganti disposti lungo le pareti di una sala buia, racconta per 64 minuti un climax musicale e umano destinato a conficcarsi negli occhi e nella testa di chi lo incontra. Se il titolo dell’installazione è un dichiarato omaggio a un album degli ABBA, il refrain, che quasi si fa cacofonia, dall’artista è stato definito, non senza una certa asciutta ironia nordica, una «feminine nihilistic gospel song », ossia una canzone gospel femminile nichilista.

Il video spalmato sui nove maxi schermi è stato girato nell’iconica villa d’epoca di Upstate New York Rokeby Mansion, chiamata anche La

Bergerie, costruita all’inizio dell’800 lungo il fiume Hudson. Ognuno dei nove schermi ritrae una stanza, tanta opulenza vintage e pareti sbreccate, e in essa un/a musicista. La violoncellista a piedi nudi si alterna al pianista, mentre al chitarrista nudo in vasca da bagno si affianca il batterista in corridoio. Sotto il portico al piano terra, un gruppo di coristi. La musica, intanto, rimbalza di stanza-schermo in stanza-schermo, acquisendo vigore e intensità minuto dopo minuto: le note languide e il testo di The Visitors sono nati dal collage realizzato da Kjartansson stesso e da Davíð Þór Jónsson, partendo da frammenti dell’artista Ásdís Sif Gunnarsdóttir, e rimandano con la mente a certe innocenti e ipnotiche melodie un po’ sussurrate e un po’ gridate di un duo come quello delle CocoRosie o alla densità di Nick Cave o Tom Waits. Crescendo, la musica si fa più complessa e inevitabilmente struggente, permettendo a ogni artista, da ogni stanza, di affermarsi anche come solista, spingendolo poi comunque, alla fine, a cercare la vicinanza del prossimo, in un abbraccio corale e commovente che si riverbera fin nel giardino della villa, e i cui sviluppi lo spettatore segue sugli schermi come in un cinema moltiplicato, gli sguardi e il cuore

incollati alle immagini ammalianti. Come rivelano i numerosi commenti sul web di chi ha visto The Visitors in occasione della sua tournée che ha toccato molti angoli del mondo, leitmotiv globale, nonché conseguenza piuttosto inevitabile davanti a questa installazione, è la commozione. Lacrime per una storia di musica, amicizia e bellezza, che ci viene raccontata su nove schermi, ma che, incredibilmente, potrebbe, e addirittura sembra essere anche la storia di ognuno di noi, quella che non ti aspetti al museo, ma che qualcuno ha raccontato a tua insaputa.

Dove e quando Acts of Friendship, 1st Act; fino al 2 aprile 2023 ( Atto due: 5 aprile-28 maggio; Atto 3: 10 giugno-17 settembre 2023).

Ragnar Kjartansson, The Visitors; fino al 28 maggio 2023. MigrosMuseum für Gegenwartskunst, Zurigo, Limmatstrasse 270 (tram no. 4, 13, 17). Orari: ma, me, ve, sa, do 11.00-6.00; gio 11.00-8.00. Ingresso libero.

CULTURA ● ◆ Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 13 marzo 2023 azione – Cooperativa Migros Ticino 35
Pagina 39 Pagina 41 Pagina 42 Pagina 37 Stefan Altenburger Simona Sala
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A Milano l’arte di Andy Warhol non risplende

Mostra ◆ Alla Fabbrica del Vapore una mostra omaggia il re della Pop Art senza convincere

Pur essendo durata molto di più dei famosi 15 minuti che lui stesso aveva preconizzato sarebbero toccati in sorte ad ognuno, anche la celebrità di Andy Warhol sembra oggi essersi un po’ appannata. O, almeno, questa è l’impressione che si ricava percorrendo le sale non particolarmente affollate della mostra a lui dedicata in corso alla Fabbrica del Vapore a Milano, mentre sempre nello stesso complesso, a pochi metri di distanza, i visitatori si accalcano per ammirare le tavole del fumettista romano Zerocalcare che la serie Strappare lungo i bordi trasmessa da Netflix nel 2021 ha contribuito a rendere popolarissimo, e non solo tra i giovani e i giovanissimi.

Va però detto, a onore del vero, che la scelta della sede espositiva, non propriamente la «Scala» dell’arte milanese, ma uno spazio polifunzionale dedicato alla cultura e al mondo giovanile che il Comune di Milano da una decina d’anni cerca continuamente di rilanciare senza mai riuscirci veramente, non sembra la più adeguata per quella che rimane una delle più importanti e influenti, oltre che quotate, figure artistiche del Novecento. A titolo di confronto, ricordiamo che nel 2004 l’ultima grande retrospettiva meneghina dedicata a Warhol era stata ospitata negli spazi ben più prestigiosi della Triennale, mentre nel 2013 la collezione di opere dell’artista di proprietà di Peter Brant era stata presentata a Palazzo Reale. Non si può nemmeno tacere il fatto che negli ultimi anni la Fabbrica del Vapore invece di distinguersi per la qualità, la novità e la coerenza delle proposte, ha finito per assomigliare sempre più a quegli sgangherati carrozzoni circensi d’antan che venivano annunciati dalla cantilena melliflua del «venghino, siori, venghino». Dalle opere di Leonardo da Vinci in 3D, alla realtà immersiva ispirata ai quadri di Magritte, dal finto Esercito di terracotta agli immancabili dinosauri ricostruiti a grandezza naturale, la storia espositiva recente della Fabbrica del Vapore appare improntata a quell’atmo-

sfera del «vorrei ma non posso» tipica delle cittadine di provincia più che di una città che, a giusto titolo, è sempre stata considerata la capitale culturale oltre che economica d’Italia. E la mostra Andy Warhol, La pubblicità della forma non sembra deviare molto da questa linea.

Sarà forse anche per questo che sui manifesti gli organizzatori hanno pensato bene di affiancare al nome dell’artista quello di Achille Bonito Oliva, vecchia gloria della critica d’arte italiana che della mostra risulta però essere in effetti solo un co-curatore. Evidentemente, affacciandosi sul palcoscenico milanese, era importante cercare di dare qualche quarto di nobiltà curatoriale e un pedigree intellettuale un po’ più sostanzioso a un’operazione che da questo punto di vista appare piuttosto debole. Quelle proposte nella mostra sono infatti opere che provengono in gran parte da un’unica collezione privata italiana i cui titolari, detto per inciso, sono anche i promotori e i curatori del progetto. Oltretutto questa raccolta, seppure con qualche variazione e integrazione di opere provenienti da altre collezioni private, sta peregrinando da una parte all’altra dell’Italia ormai da diversi anni, avendo fatto tappa a Sarzana, Genova, Pontedera, Napoli, Roma e ora appunto Milano.

Certo, non si può non riconoscere che si tratti di una collezione ampia e che in essa siano presenti quasi tutti i soggetti che hanno reso celebre il principale esponente della Pop Art americana: dalle zuppe Campbell ai ritratti di Marylin, dai fiori agli incidenti automobilistici, dalle sedie elettriche all’Ultima cena di Leonardo. Tuttavia, a parte alcune eccezioni, si tratta sostanzialmente di un Warhol «minore». Quelle esposte sono infatti in gran parte opere su carta a cui si aggiungono numerose Polaroid e fotografie in bianco e nero oltre ad alcune curiosità e memorabilia, come la BMW M1 dipinta a mano dallo stesso Warhol nel 1975 proveniente dal BMW Museum di Mo-

Le nuove povertà

naco (unico prestito museale in mostra!). I dipinti, invece, sono poco più di una decina e quasi tutti di piccolo o medio formato. A questo si aggiunge una generale trasandatezza dell’allestimento – dall’accrochage approssimativo e caotico, alla qualità delle cornici e dell’infografica – ulteriore dimostrazione, se mai ce ne fosse bisogno, di un progetto espositivo che oltre a non aggiungere nulla alla conoscenza dell’opera di Warhol si limita a sfruttarne il grande valore iconico per attrarre visitatori. Per commentare tutta l’operazione verrebbe allora voglia di lasciare la parola allo stesso Bonito Oliva, riprendendo un passaggio della recensione della mostra alla Triennale da lui scritta nel 2004 per «Repubblica». Un frammento di testo che, ovviamente, non è stato ripreso nel patchwork di scritti dello stesso Bonito Oliva, copiati, mischiati e incollati fra di loro per comporre il saggio in catalogo, in cui, tra l’altro, intere frasi compaiono più volte in punti diversi del testo (svista madornale dell’autore e editing distratto o raffinato omaggio alla ri-

petizione warholiana?). Le riflessioni di Bonito Oliva nel 2004 in ogni caso erano queste: «Il gran magazzino espositivo segnala l’iperconsumo di Warhol come icona, fino alla presentazione feticistica del suo scalpo (una delle parrucche). Questo ci consente un lamento, parafrasando Goya: il sonno della ragione genera mostre!»

Che dire? Aggirandoci nelle sale della Fabbrica del Vapore ci viene da pensare che nel frattempo si deve essere appisolato anche Bonito Oliva. A meno che questa mostra e quelle che l’hanno preceduta non si collochino all’interno di un raffinato gioco fondato sulla ripetizione, meccanismo visivo e principio ontologico con il quale Warhol ha rivoluzionato la nozione stessa di arte secondo il filosofo americano Arthur C. Danto. Lo stesso Warhol, a proposito della sua prassi artistica, ha affermato: «Tutti si rassomigliano e agiscono allo stesso modo, ogni giorno che passa di più. Penso che tutti dovrebbero essere macchine. Penso che tutti dovrebbero amarsi. La Pop Art è amare le cose. Io dipingo in questo modo

perché voglio essere una macchina». Ma se Warhol voleva improntare la sua prassi artistica e la sua vita alla ripetitività delle macchine, la realtà del nostro tempo ci confronta con un fenomeno diametralmente opposto. Sono infatti le macchine, attraverso il costante sviluppo dei sistemi di intelligenza artificiale, ad assumere e replicare comportamenti, riflessioni e atteggiamenti umani. Speriamo allora che in futuro non ci toccherà vedere alla Fabbrica del Vapore una mostra di opere ispirate a Warhol realizzate da un sistema d’intelligenza artificiale come Dall-e o Midjourney. Se non altro in quel caso gli organizzatori non avrebbero più la necessità di dover arruolare un critico affermato per giustificare l’operazione, gli basterebbe affidare la stesura del saggio in catalogo a ChatGPT.

Dove e quando Andy Warhol. La pubblicità della forma, Fabbrica del Vapore, Milano. Fino al 10 aprile. Lu-ve 9.30-19.30; sa-do 9.30-20.30. www.fabbricadelvapore.org

Feuilleton ◆ Il romanzo a puntate di Lidia Ravera per «Azione». Sul nostro sito www.azione.ch sono disponibili quelle precedenti

A Betta era sempre sembrato un indirizzo sinistro, nel cuore antico della città, in un quartiere diventato «caratteristico» sul sangue versato.

Ci voleva la pelle di pachiderma dei suoi suoceri, per godersi un attico con terrazza, vista sinagoga.

Ma naturalmente lei non poteva avanzare la minima critica alla famiglia Sandrucci.

Soltanto lui, il figlio adorato, poteva sputare sul presepe.

Tutte le volte che arrivavano fino alla soglia del palazzetto Tom la fermava e le rifilava un paio di istruzioni.

Quello che poteva e non poteva dire.

Per non ferire, per non urtare, per non farsi giudicare sciocca, considerato che «sciocche» secondo Candido e Esther, erano tutte le persone che non «pensavano prima di parlare».

O pensavano banale.

Betta era abituata a quella nervosa introduzione alle serate dai suoceri.

«Sara avrà sicuramente detto ai

nonni dei soldi, di te e lei al ristorante eccetera eccetera», disse Tom, «Quindi inventati un lavoro per cui sei stata pagata. Se non approfondiscono limitati a ratificare».

Betta annuì.

«Quali altre palle devo ratificare».

«Niente palle. Ho detto che non stai bene. È la verità»

«Neppure tu stai bene»

Tom la guardò, in silenzio, con intenzione.

I capelli sciolti, la bocca carnosa, le sopracciglia spesse sopra quegli occhi grandi che cambiavano colore con la luce e sempre sembravano specchiare un bosco, nelle varie ore del giorno, gialli, verdi, grigi come le foglie degli ulivi, castani come la terra. Neri di notte.

«Sanno anche questo. Hai fame?»

«No».

«Cerca di mangiare lo stesso, Esther si offende se non mangi».

L’appartamento dei genitori di Tom era surriscaldato e allegro, di

una eleganza ostinatamente giovanile: niente era pesante o troppo ornato, quadri di valore (Mafai, Capogrossi, Raphael) occupavano i pochi spazi lasciati scoperti dalle librerie, poltrone di pelle fronteggiavano divani coperti di raso scolorito e segnato dalle unghie dell’ultimo gatto di casa, morto da poco.

Il saxofono di John Coltrane costituiva l’inevitabile sottofondo sonoro.

Erano una famiglia che amava la musica, e ci tenevano a ricordarlo a tutti gli ospiti.

Coltrane doveva comunicare la generosa accettazione di un eventuale disordine emotivo. In una serata normale avrebbero scelto qualcosa di Bach.

Betta si lasciò abbracciare prima da Esther, con una stretta significativa e poi da Candido, che stava già parlando.

Sara arrivò per ultima e scrutò i suoi genitori con manifesta curiosità. Come sempre quando le due gene-

razioni si fronteggiavano sul territorio dei più anziani, tutti si impegnarono in una finzione di felicità più o meno convincente.

Era come se dovessero fare punto ciascuno per la propria squadra.

Tom baciò più volte Betta sui capelli. Betta intavolò con sua figlia brevi conversazioni in codice da cui doveva risultare evidente l’estrema confidenza che le legava, a dispetto dei clichés sull’età ingrata. La confidenza di una adolescente è come il sorriso della neonata: ti assolve da ogni sospetto di adulta disattenzione. Esther seguiva con benevolenza l’esibizione dei figli. Con questa parola li accomunava tutti: i figli. Tutti quegli esseri umani non ancora portati a termine a cui la legava un affetto invidioso.

Lei, lei Esther, non si faceva certo incantare dall’allegria irresponsabile che la generazione dopo la sua ostentava.

Non le sembrava, non le era mai

sembrato davvero felice, Tom. Quanto alla bella Betta, il suo profilo perfetto pareva cesellato dall’inquietudine. Non il tipo di sentimento che ti abilita ad una maternità placida e soddisfatta.

Del resto: non era stato così anche per lei? Era rimasta incinta per sbaglio e aveva deciso di tenersi il bambino per curiosità.

Betta l’aveva voluta, Sara?

Nessuno aveva osato chiederlo.

Certo lei, lei Esther, non aveva considerato la nascita di Sara, la sua prima e probabilmente ultima nipotina, un miracolo davanti a cui inginocchiarsi. Si trattava soltanto del migliore fra gli effetti collaterali di quella che le era sempre sembrata una vera e propria disgrazia: l’uscita di Tom dall’infanzia e poi dall’adolescenza verso un territorio difficile da controllare, l’età adulta.

I figli nascono crescono e, a loro volta, figliano. (33 – Continua)

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 13 marzo 2023 azione – Cooperativa Migros Ticino CULTURA 37
Dettaglio di una sala della mostra con i ritratti di Marylin. (© Giovanni Daniotti)

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La nostalgia è un balsamo e un veleno

Pubblicazione ◆ Il saggio di Lucrezia Ercoli riflette su un sentimento universale e ambivalente

Yesterday. Filosofia della nostalgia (il più recente saggio di Lucrezia Ercoli, docente di Storia dello spettacolo all’Accademia di Belle Arti di Bologna, ideatrice e direttrice artistica del festival di filosofia del contemporaneo «Popsophia») si apre con alcuni enunciati fortemente assertivi: «Il passato non è mai stato così presente […] La nostalgia ha infettato tutto: dal remake cinematografico al techetechetè televisivo, dal vintage modaiolo al design retrò […] Non c’è nuova produzione culturale che non sia un reboot, non c’è nuovo fenomeno che non sia una citazione del già detto o un omaggio al già visto». Facendo proprio il titolo di una famosa canzone di Paul McCartney, il saggio di Lucrezia Ercoli vuole «ricostruire l’anamnesi di un’antica malattia che è tornata a paralizzare l’Occidente. Un viaggio nella filosofia della nostalgia, il sentimento contemporaneo più affascinante e più pericoloso».

Chi ha medicalizzato per primo tale sentimento è lo stesso che ne ha coniato il nome: lo studente svizzero Johannes Hofer, che nella sua tesi di laurea in medicina, pubblicata nel 1688 e intitolata Dissertatio medica de nostalgia, lo definisce «una tristezza ingenerata dall’ardente brama di ritornare in patria»: una tristezza che può avere un esito mortale. Tra le opere letterarie che hanno dato più intensamente voce «al mal du pays», Ercoli privilegia il racconto omerico del nostos di Odisseo e i Tristia di Ovidio, esiliato da Roma nella lontana e inospitale Tomi. Che il sentimento nostalgico sia una «malattia antica», lo comprovano le innumerevoli declina-

zioni del mito dell’età dell’oro, che in Occidente viene descritta per la prima volta nel poema Le opere e i giorni, composto tra il VII e VI secolo a.C. da Esiodo.

Nel secolo scorso, in America, sono sembrati un’età dell’oro gli anni a cavallo tra il Cinquanta e il Sessanta – «i meravigliosi anni mai esistiti» – rievocati da Happy Days, una sitcom di straordinario successo, andata in onda dal 1974 al 1984, che raccontava i «giorni felici» della famiglia Cunningham. Secondo Lucrezia Ercoli, è nel campo della serialità televisiva che l’immaginario nostalgico si esprime più distesamente e puntualmente, perché «solo le serie tv hanno la possibilità di creare mondi abitabi-

li dallo spettatore per un tempo indefinito, universi dove sostare a lungo alla ricerca dei dettagli nostalgici che ci fanno sentire a casa». Oltre ad alcune serie televisive, Ercoli analizza alcuni film appartenenti a quello che si potrebbe chiamare «genere nostalgico»: American Graffiti, di George Lucas (un «archetipo» girato nel ’73 e ambientato nell’estate del ’62); Pleasantville, di Gary Ross; The Truman Show, di Peter Weir; Chiamami col tuo nome, di Luca Guadagnino, in cui «la città di Crema, dove è girato il film, non esiste. Così come non esiste l’Italia dove la storia è ambientata»: Guadagnino dipinge «un Eden metafisico» e «non racconta un’estate degli anni ’80», gli anni della sua gio-

Il ritorno di Park Chan-wook

Cinema ◆ In questi giorni è arrivato nelle sale ticinesi Decision to Leave, il film del regista coreano, vincitore lo scorso anno al Festival di Cannes

Decision to Leave è una duplice conferma. Da un lato vede la consacrazione di un regista (Park Chan-wook) (Mr. Vendetta, Old Boy e Lady Vendetta); d’altro lato è la riprova che il cinema coreano è tra i migliori al mondo in questo preciso periodo storico; vuoi per eleganza stilistica vuoi per efficacia e originalità delle sceneggiature. Infatti, dopo Parasite di Bong Joon-ho, che aveva fatto incetta di Palme e Oscar, la nuova opera di Park Chan-wook ha vinto meritatamente, al Festival di Cannes dello scorso anno, il premio per la miglior regia.

Il film è anche la dimostrazione che l’autore sa maneggiare con maestria diversi generi cinematografici. Se i suoi precedenti lavori erano estremi con una dose importante di violenza, quest’opera è tutt’altro. Si allontana dalle provocazioni per privilegiare la dimensione drammatica della storia, in cui a delicati turbamenti sentimentali si associano profonde vibrazioni interiori. L’eleganza del racconto e la dimensione simbolica sono tratti fondamentali di un film che chiede allo spettatore una piccola dose di attenzione (comunque agevolata dal regista che lo accompagna con mano sicura nei meandri della storia) per non perdere per strada dettagli importanti alla comprensione.

Decision to Leave è un poliziesco e

allo stesso tempo una storia d’amore impossibile. Hae-joon, il protagonista, è un bravo detective, con una vita privata che tuttavia non lo soddisfa e quando si trova alle prese con un presunto caso di suicidio, sospetta che si tratti in realtà di omicidio e inizia a indagare sull’affascinante moglie cinese della vittima, Seo-rae: donna per la quale perde completamente la testa.

La pellicola basa buona parte del suo fascino sulla seduzione. Se è evidente e diegetica quella tra il poliziotto e la sospettata, è altrettanto intrigante, ma più sottile e sottotraccia anche quella del regista con lo spet-

tatore. Dove i continui rimandi interni sono disseminati come indizi per la risoluzione del caso. L’insistenza sulle mani (i graffi sulla pelle, il segno della fede, la crema che il poliziotto mette sulle mani della sospettata, il guanto di metallo, le manette) e sugli occhi (i cadaveri che li hanno aperti, l’uso del cannocchiale per spiare la sospettata, le gocce che regolarmente il detective si mette) non sono casuali e sono il simbolo di un forte legame basato sul tatto e la vista tra i due.

E che dire della comunicazione? Altro aspetto fondamentale del film. Anzitutto è evidente nella relazione tra i due: lei è cinese mentre lui è coreano; due mondi diversi che si incontrano, si attraggono e cercano di capirsi. Lo fanno in diversi modi (per esempio attraverso la cucina e la musica), ma soprattutto usando il traduttore sul telefonino: oggetto, quest’ultimo, anche decisivo nella risoluzione del caso.

Insomma, tutto ha un significato, ha un senso nel film. Ogni elemento trova – come in un puzzle – il suo posto. Ma aver trovato il proprio posto non significa necessariamente comprendere. Ed è infatti quest’ultimo aspetto la chiave per entrare e poi uscire da una pellicola che ti resterà comunque sulla pelle e negli occhi anche dopo diversi mesi.

Un’immagine vintage

espressioni coniate dalla studiosa russa Svetlana Boym: «nostalgia restauratrice» (che è «una fissazione regressiva sui miti fondativi, […] la nostalgia dei revival reazionari») e «nostalgia riflessiva» (che «riconoscendo l’irrevocabilità del passato […] ci consente di guardare oltre»). L’ambivalenza e la duplicità del sentimento nostalgico (che costituiscono, come dice Ercoli, «il basso continuo» del suo saggio) hanno attualissima evidenza nelle pagine dedicate alla «moda mainstream del vintage» e al «nuovo spazio della nostalgia»: lo spazio digitale.

vinezza, «ma mette in scena l’Estate per antonomasia». La preferenza della saggista è per il felliniano Amarcord, in cui la Rimini degli anni ’30 (ricostruita a Cinecittà) e gli anni dell’adolescente Titta (un parziale autoritratto) sono rivisitati in modo onirico, ironico e frammentario, senza cedere a «quell’impulso pericoloso che chiede il ritorno, che chiede al passato di ritornare insieme alla giovinezza perduta».

Impossibile esemplificare adeguatamente il discorso sviluppato nelle tre sezioni del ben articolato saggio di Lucrezia Ercoli. La quale cita con vivo apprezzamento (in quanto «restituiscono perfettamente la complessità» del sentimento nostalgico) due

L’oggetto vintage è «la trasfigurazione del sentimento nostalgico in kitsch», ma è anche «una forma di resistenza, una piega che causa lievi deviazioni alla routine della riproducibilità». Quanto allo spazio digitale, basta considerare Youtube, smisurato archivio in cui possiamo trovare, «senza gerarchie e senza interpretazioni, un insieme immenso di ricordi personali e generazionali che innesca un desiderio compulsivo e sempre più asfissiante. Il catalogo sterminato di cose morte che, quando non ci deprimono, si limitano a intrattenerci». Occorre dunque riconoscere l’esistenza di due nostalgie e saperne equilibrare la commistione: «Una nostalgia che ci fa ritrovare la nostra identità e una nostalgia che ci fa perdere il contatto con la realtà, una nostalgia che ci proietta nel futuro e una nostalgia che ci chiude nel rimpianto».

Bibliografia

Lucrezia Ercoli, Yesterday. Filosofia della nostalgia, Ponte alle Grazie, Firenze, 2022.

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Nel pollaio succedono miracoli

Pubblicazione ◆ L’ultimo romanzo di Jackie Polzin tradotto in italiano ci racconta di gravidanze e di lutti in modo originale

Fra gli animali domestici di certo le galline non sono le più attraenti: non esistono storie di galline che abbiano salvato qualcuno o di una gallina protagonista di un intero romanzo o serie televisiva, come accade ai cani. Le galline non sono famose per la loro bellezza o eleganza come i gatti e non si distinguono per la loro tenerezza, come gli agnellini per esempio. Eppure le galline sono state di recente protagoniste di due romanzi lodevoli: Capannone n.8 di Deb Olin Unferth, edito da Sur nel 2021 (di cui abbiamo parlato su «Azione» in un articolo dal titolo Un romanzo animalista) e il romanzo di Jackie Polzin, per Einaudi, intitolato Quattro galline, con la traduzione di Letizia Sacchini.

Attraverso le vicende delle quattro galline di cui è proprietaria la voce narrante e protagonista del romanzo, Polzin ci racconta la storia ordinaria di una coppia, di un matrimonio solido che resiste all’insensatezza dell’istituzione stessa: «Mettere la propria firma in calce a un sentimento volatile nella speranza che duri tutta la vita è in contrasto con qualsiasi esperienza del reale». Il romanzo racconta di un lutto, quello di un feto morto al quarto mese di gravidanza e a colpire chi legge è il fatto che in tutto il testo non si ritrovino parole di dolore o di lamento, solo la narrazione del trascorrere del tempo e dell’ineluttabilità della morte, attraverso il racconto

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delle vicende del pollaio. Ovviamente la cura che la protagonista dedica alle sue quattro galline, la sua ossessione di nutrirle nel modo più giusto ed equilibrato possibile, il fatto che al minimo rumore notturno sia in grado di scattare e di correre nel pollaio con la rapidità e l’efficienza di una ninja, dicono del desiderio di cura che la donna ha maturato nel corso della sua gravidanza interrotta e che non ha potuto riversare sulla neonata che avrebbe dovuto nascere.

Sono numerosi i romanzi che raccontano di maternità, soprattutto del rapporto tra madre e figlia. Di solito si tratta di storie molto difficili che danno conto della relazione tra due donne, che a volte si complica parecchio quando a unirle è il legame di sangue, il primo in assoluto. È raro, invece, trovare una storia sull’impossibilità di essere madre, in cui questo dolore viene nominato solo una volta e in modo del tutto sghembo, laterale: «Oggi non m’importa più così tanto di ciò che gli altri pensano di me, del mio aspetto o del mio potenziale di seduzione, che ovviamente sono tutte facce della stessa medaglia. Ma per qualche ragione mi fa male essere considerata una che non ha voluto figli». Ciò che addolora la protagonista del romanzo di Polzin è l’idea che gli altri possano credere che lei abbia scelto di non essere madre e aggiunge: «Non giudico quelli che non deside-

rano figli […] Magari sarei stata una madre terribile. Non ne ho la certezza né l’esperienza, e tantomeno un inderogabile voto di fiducia da parte di chicchessia. Ho solo l’idea che sarei stata brava, un’idea persistente». La letteratura porta con sé un grande, incomparabile dono, quello di non indicare la retta via, di non dover mai essere politicamente corretta. Si sa quanto sia importante, infatti, dal punto di vista sociale, combatte-

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re contro lo stereotipo per il quale le donne che non hanno figli sono incomplete. E in questo preciso momento storico tale battaglia è ancora più importante, visti gli attentati sempre più gravi che vengono portati al diritto all’aborto, dall’Italia agli Stati Uniti, e le recenti invocazioni alla natalità, che paiono riportare indietro l’orologio di cent’anni. Le storie, però, non devono fare politica e possono raccogliere ed esprimere anche

il dolore di chi, come la protagonista del romanzo, non ha nessuna posizione antiabortista o nazionalista, ma solo il sacrosanto desiderio di avere una bambina e l’inconsolabile dolore di non avercela fatta.

Quattro galline racconta del tentativo di elaborare questo lutto, o meglio, di come sia possibile farlo occupandosi della vita nelle sue forme meno emozionanti: delle pulizie, di monitorare la malattia di un albero, di allevare degli esseri del tutto indifferenti e incapaci di empatia, come le galline. Animali che hanno le ali ma non sanno volare, con un tratto preistorico e anaffettivo che le contraddistingue. Però fanno l’uovo: un oggetto compiuto, la cui forma viene associata all’idea stessa di perfezione e il cui contenuto nutritivo è incomparabilmente bilanciato.

La vita è misteriosa, si sa, regolata da leggi scientifiche e allo stesso tempo imprevedibile e Polzin sembra dirci che quando il disaccordo tra ciò che vorremmo e ciò che ci è dato raggiunge le sue massime vette, non resta altro che occuparsi di chi è completamente inerme eppure capace di miracoli, come le galline, perché «lì nel pollaio in un giorno qualunque era impossibile avere paura».

Bibliografia

Jackie Polzin, Quattro galline Einaudi, Torino, 2022.

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Il rapporto storico tra la musica e le istituzioni

Musica ◆ Il rinnovamento di André Grétry

Da sempre la musica è legata alle istituzioni, ma non da sempre i musicisti si interrogano sulle istituzioni. Ciò avviene solo da quando si è cominciato a vedere nell’apparato istituzionale non più l’emblema di un potere dato al dì là della volontà dei governanti e dei governati, bensì lo strumento di una progettualità basata sul consenso manifestato nella collettività. È dunque nella Rivoluzione francese che va individuato il nucleo di una presa di coscienza in grado di cogliere la dipendenza dell’espressione artistica dal suo ruolo nella società e dalle condizioni d’impiego e di diffusione postele dalle istituzioni. È nella Rivoluzione francese, nel relativismo di una situazione aperta alle prospettive di costruzione dell’utopia, che si apre uno spazio di confronto tra la condizione effettuale dell’arte e la sua possibile funzione alternativa all’ordine dato. La musica, nella sua necessità di dipendere da apparati produttivi, risentì immediatamente dell’effetto di mutate condizioni e, attraverso le applicazioni di Gossec, Catel, Méhul, Cherubini e altri, trovò modo di formulare progetti compositivi di nuovo conio (innodia rivoluzionaria, musiche cerimoniali, ecc.) che, per quanto legati a una stagione ben delimitata (dall’89 all’esecuzione di Robespierre), misero a fuoco atteggiamenti e stilemi che giustamente consideriamo come il marchio accompagnante l’afflato democratico che spira su molta musica dell’Ottocento (da Beethoven a Berlioz, da Verdi a Mahler, ecc.). La traccia di tale situazione si lascia cogliere anche in un nuovo modo da parte dei teorici di considerare la musica; ed è allora tanto più significativo il fatto che, ad aprire la via a nuovi criteri di giudizio, non sia stato un puro uomo di dottrina bensì un musicista che mise la sua arte al pari delle personalità già citate al servizio delle nuove esigenze rivoluzionarie. Si tratta di André Grétry (1741-1813), autore dei Mémoires ou Essais sur la musique (Parigi 1789, prima edizione; Parigi 1797, edizione ampliata), dove la trattazione degli aspetti estetici, culturali, storici, concernenti l’arte dei suoni si intreccia strettamente con la sostanza autobiografica di un discorso condotto in prima persona, che, anche nel momento di più convinta professione di fede, si lascia riportare all’esperienza del vissuto personale, relativizzato al valore dell’esperienza individuale, non più dell’assoluto bensì del possibile. Lo si evince soprattutto dal Livre quatrième del terzo tomo che tratta esplicitamente Des institutions politiques, considérées dans leurs rapports avec l’Art musical, forse la prima testimonianza nella storia moderna di riflessione organica sul rapporto tra musica e politica, tra musica e apparati di produzione. Vi domina innanzitutto l’idea illuministica dell’arte come strumento di ammaestramento, dell’arte morale della nuova epoca contrapposta all’arte che si alimentava nel lusso delle corti, ostaggio delle pigre abitudini aristocratiche. La condizione di libertà è appunto il principio ritenuto essenziale alla possibilità dell’arte di esprimere i valori morali, affermato al punto da prefigurare il discorso adorniano sull’autenticità nella visione di un’arte costretta dal dispotismo a ripiegare su se stessa, a trovare uno spazio privato, «reservato» di libertà.

Il primo livello di moralità dell’arte si manifesta attraverso la sua funzione didattica e quindi nella sua possibile applicazione scolastica: il canto come mezzo d’istruzione del futuro cittadino e di propaganda delle nuove idee. Morale diventa la stessa condizione dell’artista, il cui riconoscimento non potrà più dipendere dagli intrighi ma potrà essere concesso solo su verifica dell’opinione pubblica e della capacità di questa di responsabilizzare in tal compito l’autorità delegata. E quindi normale che, al di là della concezione ancora settecentesca assegnante alla musica strumentale un ruolo subordinato in quanto ritenuta vuota e inespressiva, sia il teatro a essere indicato come luogo deputato all’affermazione di un’esemplarità di comportamento rivolta all’intera collettività.

Il teatro vi è d’altra parte organicamente inteso nella sua ramificazione funzionale nell’organizzazione sociale, considerato nei benefici procurati in quanto fattore economico di attivazione di professioni specifiche: riunione delle arti non solo come simbolico confluire di risorse provenienti da discipline artistiche diverse, ma anche come occasione di impiego aperto sui vari fronti delle specializzazioni, particolarmente apprezzato per il ruolo assegnato alle donne altrimenti esposte ad occupazioni degradanti.

In tale visione integrata di estetica e di economia, con l’appello al governo a farsi carico delle arti e delle scienze in quanto attività non lucrative è prefigurato il ruolo «culturale» dello stato moderno. Meno esattamente prefigurante è il suo progetto di «nouveau théâtre» retto da un direttorio composto di tre poeti e tre musicisti assegnati stabilmente a questo compito e chiamati a vivere in comunità nel teatro stesso, mobilitato in permanenza e perciò più simile a un comitato di salute pubblica che a una moderna commissione artistica. In tale prospettiva utopica sta il limite di una visione integralistica e deterministica che accomuna le riflessioni di Grétry al radicalismo delle ipotesi formulate sul piano politico dai protagonisti delle più calde vicende rivoluzionarie. D’altra parte, nell’esitazione con cui il compositore prospetta grandi sale per un pubblico di massa e soprattutto nell’«élan terrible» riscontrato nella musica francese della nuova era, non è difficile cogliere la nostalgia per un ideale artistico più raffinato, per un retaggio non del tutto rimosso dell’ancien régime che a Grétry, autore del Guillaume Tell (1791) e de La rosière républicaine (1794), aveva pur sempre riservato la consacrazione.

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Romeo e Giulietta sugli alberi

Teatro ◆ A Milano il Piccolo omaggia il capolavoro Shakespeariano con la regia di Mario Martone

Incredibile ma vero: in 75 anni di vita il Piccolo Teatro di Milano non ha mai prodotto un suo allestimento dell’opera più popolare di Shakespeare, quel Romeo e Giulietta che, magari col titolo rovesciato in Giulietta e Romeo, tutti conoscono anche senza averlo letto o visto in scena. Né Strehler né Ronconi se ne sono interessati, e anche Visconti a suo tempo lo snobbò. Era dunque ora di rendergli omaggio, e ci ha pensato il pluripremiato Mario Martone, attivo in ambito cinematografico e operistico, al suo primo, atteso allestimento per il Piccolo di Milano.

Come in altri suoi spettacoli, il dialogo con la contemporaneità è fondamentale e il regista individua nella violenza verbale e fisica uno dei tratti distintivi della vicenda, accompagnata dall’assenza di figure in grado di garantire il rispetto di leggi ormai sbiadite nel tempo, leggi che quasi non esistono più. Ecco perché Martone abolisce il personaggio del Principe in grado di comminare pene severe ma non ingiuste e di temperare gli animi dei facinorosi. Di conseguenza, le decisioni importanti (o tali apparentemente) vengono prese dai due capifamiglia Capuleti e Montecchi, delineati da Martone secondo Shakespeare, ovvero in modo da apparire l’uno ambizioso, arrogante, ciarliero e kitsch, l’altro più sobrio ed essenziale, meno voglioso di apparire, ma ugualmente uomo di potere e di lama facile. C’è poi in relazione ai personaggi un’altra novità, ed è il fatto che la balia

– figura priva di senso nella contemporaneità – è qui sostituita dalla zia di Giulietta, Angelica, sorella di Donna Capuleti e anche lei a suo tempo madre di Susanna, morta precocemente (il dato è già in Shakespeare), ragion per cui Giulietta neonata si è bevuta il latte destinato all’altra, diventando in qualche modo la figlia di due madri. Ma la cosa più straordinaria dello spettacolo è il fatto che quella che fino ad oggi abbiamo visto rappresentata come vicenda d’amore urbana, si realizza nella visione del regista in quanto storia che ha come cornice una natura vinta e invincibile che contende il campo alla città. Ed è qui che si manifesta il genio scenografico di Margherita Palli – vera trionfatrice della serata – autrice della splendida scena unica, due tronchi d’albero rigogliosi e frondosi che occupano il palcoscenico, dividendolo in due: lo spazio urbano è sotto, quello della natura sopra. I cieli si colorano delle tinte del crepuscolo, della notte e dell’alba, con un’enorme luna ad accarezzare gli amanti e i loro sospiri. E lo spazio della natura è in primis lo spazio dell’incontro amoroso fra i due giovani, ma anche quello della festa, del ritrovo mondano in casa Capuleti, mentre la città desolata accoglie principalmente risse, violenza e morte, tra le quali cerca di sopravvivere un Frate Lorenzo attivo e automunito.

Altro elemento presente nell’opera è la peste, che qui è definita, con evidente riferimento all’attualità, il contagio. Sebbene in molte versioni

questo aspetto venga ignorato o sottovalutato, si tratta di elemento non secondario, che provocherà il dissolversi del progetto del frate per far fuggire insieme i due innamorati e sposi, dopo aver «salvato» Giulietta dal secondo matrimonio con Paride, e li condurrà alla fine tragica che conosciamo. È anche il momento in cui la scena imponente e alberata della Palli si apre a un bellissimo squarcio cittadino, un po’ alla West Side Story, con la strada invasa dai corpi degli appestati, un muro, un poster che mostra una ragazza con mascherina sul vol-

to. Martone ha anche voluto una traduzione nuova che rendesse giustizia all’aggancio con l’attualità del testo, e l’ha commissionata a Chiara Lagani. Nessuno stravolgimento, Shakespeare rimane Shakespeare nelle parole di ogni singolo personaggio. Tuttavia si è voluto distinguere il linguaggio degli adulti – più prosaico, violento, sboccato – da quello dei due ragazzi, decisamente lirico e appassionato. E non vorrei neppure dimenticare l’intenso, inaspettato finale con la pioggia battente, scrosciante, sempre più forte, a coprire le parole degli uomini.

Una lezione dolceamara sull'invecchiare

Opera ◆ Al Luzerner Theater fino al 10 aprile va in scena Il Cavaliere della Rosa di Richard Strauss

Marinella Polli

Scrive Hugo von Hofmannsthal il 12 gennaio 1911: «La Sua musica mi procura immensa gioia. È come una ghirlanda, tutta di graziosi fiori e così miracolosamente coerente nelle connessioni».

Una partitura celebre anche per i valzer che –non ancora di moda nel periodo in cui si svolge l’azione – rimangono tra i motivi più orecchiabili

Nel solido rapporto fra il sommo poeta austriaco e Richard Strauss – di cui testimoniano le opere create in collaborazione, ma anche un carteggio che non ha pari nella storia della musica –, il vertice della perfezione si tocca proprio con Der Rosenkavalier, una commedia per musica in tre atti che mantiene una salda posizione anche nel repertorio internazionale di oggi. Il librettista si ispira a Molière, Beaumarchais e a Mozart, ma i suoi personaggi rappresentano piuttosto dei tipi come nella Commedia dell’Arte, che non veri e propri caratteri. Il libretto è divertente e vaporoso, ma pur sempre ricco di quelle ripercussioni filosofiche e psicologiche tipiche dell’arte di Hofmannsthal. Peraltro all’unisono con la variegata partitura straussiana in bilico fra passato e futuro: sonorità Fin de Siècle, ma anche wagneriane, la pongono in una dimensione fuori dal tempo. Una partitura tra l’altro celebre anche per

i valzer che, se nel periodo in cui si svolge l’azione non erano ancora di moda, rimangono fra i motivi più orecchiabili del Der Rosenkavalier

Per la nuova produzione, nella versione per orchestra di media dimensione di Eberhard Kloke, il Luzerner Theater affida la direzione musicale a Robert Houssart, la regia a Lydia Steier (co-regia di Matthias Piro), le scene a Blake Palmer e i costumi a Alfred Mayerhofer. Sotto la bacchetta del maestro Houssart, la Luzerner Sinfonieorchester mette agevolmente a fuoco questa straordinaria ricchezza. Ottimo anche il Chor des Luzerner Theaters preparato da Mark Daver, ma sul versante vocale brillano soprattutto Eyrùn Unnarsdòttir nel ruolo della Marescialla, e Solenn Lavanant Linke in quello di Octavian. Il soprano islandese interpreta con sensibilità e grande capacità di differenziazione sul piano vocale e scenico quello che è uno dei grandi personaggi del teatro lirico. È affascinante e sensuale durante la notte con Octavian, da lei chiamato Quinquin e suo giovane amante (oggi si direbbe Toyboy), ritorna ragazzina nella scena della piscina (o fontana dell’eterna giovinezza?), per poi abbandonarsi alla malinconia, nella consapevolezza che la giovinezza è ormai finita, durante il cerimoniale mattutino del ’lever’, con i servi che la vestono, il parrucchiere, il tenore italiano che le canta il buon giorno e, soprattutto, di fronte al volgare cugino barone. Le è pari vocalmente il mezzo-

soprano Solenn Lavanant Linke nella parte en travesti di Octavian, il Cavaliere della Rosa, ovvero colui che consegnerà la rosa dell’anziano barone a Sophie, innamorandosi poi di lei; fra un Hugh Grant giovane e il commissario Manara, scenicamente insuperabile. Senza una nota fuori posto anche Tania Lorenzo Castro, come combattiva Sophie in short e anfibi. E bravi anche Jason Cox nel ruolo del Signore di Faninal, il nuovo ricco padre di Sophie, nonché Valérie Junker, fumatrice silenziosa, ma onnipresente. Ottimo Christian Tschelebiew nei panni del ridicolo predatore Barone Ochs di Lerchenau, nobile squattrinato che pensa di sposare la non nobile, ma ricca Sophie, pur essendo già sposato, e che del movimento MeToo

Non capita tutti giorni di vedere trenta attori in scena in una produzione italiana. Questi sono di varia provenienza, formazione, esperienza. Tra i giovani, Tebaldo (Leonardo Castellani), Mercuzio (Alessandro Bay Rossi) e Benvolio (Edoardo Sabato) appaiono i più convincenti. Da quando, nei primi anni Sessanta, Zeffirelli rivoluzionò la scena e il set con interpreti molto giovani in teatro (però Judy Dench aveva 26 anni, non 16) e giovanissimi al cinema (ma il cinema è altra cosa e, lì sì, avevano 15 e 17 anni), a nessuno o quasi è passato più in mente di proporre interpreti che non fossero adolescenti o comunque giovanissimi. Il valore aggiunto in tal caso si chiama freschezza, irruenza, istinto. Ciò che invece viene meno è la base di una formazione completa ed esperita con accenti, concenti e sfumature varie. Così i due ragazzi Anita Serafini (Giulietta) e un emozionato Francesco Gheghi (Romeo). Licia Lanera è una convicente zia, mentre Michele Di Mauro (Capuleti) è tra gli adulti il più in evidenza, il più concreto e vistoso, anche il più divertente quando occorre esserlo.

Romeo e Giulietta di Martone è in scena fino al 6 aprile al Piccolo Teatro Strehler di Milano. Da vedere.

Dove e quando Piccolo Teatro Strehler, Romeo e Giulietta, regia di Mario Martone, in scena a Milano fino al 6 aprile. www.piccoloteatro.org

Incanti teatrali

In Scena ◆ Al LAC e al San Materno con «Azione»

Due appuntamenti imperdibili con il teatro: al LAC di Lugano l’atteso ritorno di Slava’s Snowshow, con la sua inconfondibile poetica fatta di neve e di magia.

Al Teatro San Materno di Ascona, andrà in scena Bellezza-Dolore-Gioia, la nuova ricerca-studio della coreografa Tiziana Arnaboldi, questa volta su tre modelli di bellezza femminile d’arte: quella botticelliana, quella düreriana e quella dei preraffaelliti.

non ha ancora sentito parlare. L’allestimento è moderno e un po’ trasgressivo, come ci si poteva aspettare dalla regista Lydia Steier, tuttavia coerente e, a parere del pubblico premieristico, spassoso, quasi troppo. Una messinscena che non punta su un unico periodo, bensì su interdipedenza e contrasto fra le diverse epoche, evidenziando elementi del rococò, dell’aristocrazia viennese ai tempi di Maria Teresa, dell’anno della composizione e di oggi. In occasione della prima, ovazioni all’indirizzo di tutti. Repliche fino al 10 aprile.

Dove e quando Luzerner Theater, Der Rosenkavalier, Lucerna. Fino al 10 aprile. www.luzernertheater.ch

Concorso

«Azione» mette in palio 10x2 biglietti per Slava’s Snowshow (do 26 marzo, ore 16.00, LAC Lugano). Per partecipare inviare una mail a giochi@azione.ch (oggetto: «Slava») entro domenica 19 marzo ore 24.00. «Azione» mette in palio 5x2 biglietti per Bellezza-Dolore-Gioia (do 19 marzo, ore 17.00, San Materno Ascona). Per partecipare inviare una mail a giochi@azione.ch (oggetto: «San Materno») entro mercoledì 15 marzo ore 24.00.

Settimanale di informazione e cultura Anno LXXXVI 13 marzo 2023 azione – Cooperativa Migros Ticino CULTURA 43
La scena alberata con Romeo e Giulietta a cura della scenografa svizzera Margherita Palli. (© Masia Pasquali) © Ingo Hoehn
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Pezzi misti a prezzi mai visti

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pages 62-63

Per una cura a 360 gradi

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page 59

Dal dolce al salato, tutto per la dispensa

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pages 56-57

Incanti teatrali

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pages 43-45

Una lezione dolceamara sull'invecchiare

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Romeo e Giulietta sugli alberi

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Il rapporto storico tra la musica e le istituzioni

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Offerte

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Nel pollaio succedono miracoli

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Il ritorno di Park Chan-wook

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La nostalgia è un balsamo e un veleno

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Le nuove povertà

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A Milano l’arte di Andy Warhol non risplende

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In nome di quale amicizia?

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COME UNA LATTINA DI RED BULL METTE SEMPRE LE AAALI.

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Il presente come storia

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In&Outlet

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Il Mercato e la Piazza Se in Ticino mancano i lavoratori

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Meloni in India: un successo

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Uno scontro tra due colossi

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Nella capitale mondiale della gioventù

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Risparmiare sulle imposte con l’immobile di proprietà

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Perché l’energia costa di più?

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Quella necessità di energia pulita

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Viaggiatori d’Occidente La lezione del mondo sta nelle diversità

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Taccuini poetici per chi ama la carta

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Nasce il brandy, dalla dolcezza delle uve del Capo

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Quattro inverni per un nuovo Generoso

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Un’eccentrica dimora che non si dimentica

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TEMPO LIBERO

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l’ideale.

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La bellezza, a volte, può bloccarti la vita

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Il bisogno di scoprire le cause

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Ci difendono dall’osteoporosi

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Quando il testo lo scrive ChatGpt

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Bicarbonato di sodio purissimo

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Le delizie della tradizione

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Le donne e la libertà di dire «non ce la faccio più»

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MONDO MIGROS

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Prima che se ne accorgano le zanzare

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